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Imperial panegyric from Diocletian to Honorius, ed. by Adrastos Omissi and Alan J. Ross, Liverpool, University Press 2020, pp. XI+296. L’uscita di questa raccolta di saggi, che costituisce lo sviluppo di un seminario tenuto nel 2016 a Dublino all’interno della nona Celtic Conference in Classics, è un’ulteriore importante manifestazione dell’attenzione che gli studiosi della tarda antichità stanno dedicando, soprattutto negli ultimi decenni, alla panegiristica tardo antica, superando il giudizio etico negativo che fin dalla antichità ha sempre accompagnato il genere, al quale veniva rimproverata una rappresentazione cortigiana ed almeno parzialmente falsificata della figura imperiale celebrata e delle sue azioni. E’ difficile tuttavia pensare che gli oratori ed il loro pubblico non fossero consapevoli dei vincoli che non solo le regole del genere, ma il rapporto stesso con l’imperatore e il suo entourage imponevano all’esposizione. Agostino nelle Confessiones esprime con lucidità questa situazione: lodando l’imperatore il vescovo di Ippona è consapevole di mentire in molta parte ma anche di ricevere il favore di un pubblico consapevole di questa menzogna. Tuttavia, pur entro questi limiti, il panegirico costituisce una forma di comunicazione tra diversi segmenti di popolazione ed il sovrano, che si svolge, secondo la felice formula di Guy Sabbah, in forma ascendente e discendente, dall’imperatore ai sudditi e viceversa, e la ricerca attualmente, anche nei saggi di questa raccolta, è impegnata ad individuare le modalità e le forme di questa comunicazione. Vari convegni in tempi recenti hanno dato spazio a relazioni sui panegirici, all’interno di lavori sulla retorica e sulla letteratura tardo antica in genere, sulla monarchia e sulla rappresentazione della figura imperiale. Sono stati pubblicati nel 2011 gli atti di un convegno specificamente dedicato al panegirico di Plinio (Pliny's praise: the « Panegyricus » in the Roman world) e nello stesso anno sono stati pubblicati gli atti di un convegno tenutosi a Cividale l’anno precedente in generale sulla letteratura encomiastica (Dicere laudes »: elogio, comunicazione, creazione del consenso). Una particolare relazione con la nostra raccolta hanno gli atti di un convegno tenutosi nel 2015 e pubblicati nel 2018 sulla rappresentazione della figura imperiale nella tarda antichità (Imagining Emperors in the Later Roman Empire) anche perché gli editori di quegli atti (D. P.W. Burgersdijk e A.J. Ross) hanno scritto saggi per la nostra raccolta, anzi Ross ne è anche uno degli editori). Il volume che stiamo recensendo costituisce dunque la prima raccolta di saggi dedicati esplicitamente ai panegirici tardo antichi. L’arco cronologico prescelto è il IV secolo, prolungato fino al regno di Onorio, fino al 423, anche se del maggiore autore di panegirici dell’epoca, Claudio Claudiano si presta una esplicita attenzione solo alla Laus Serenae. Pur entro questi limiti tuttavia, l’ambito preso in considerazione è molto ricco di opere e di problematiche: sono attestati ben 22 autori di 62 panegirici, e inevitabilmente molti spazi restano scoperti, e il collegamento e l’articolazione stessa dei contributi, come appare nell’indice, non è sempre chiara e pertinente. Gli autori dei saggi sono specialisti dell’argomento di valore riconosciuto, spesso autore in tempi recenti di opere importanti su questa tematica, a cui si aggiungono, com’è opportuno, giovani ricercatori ai quali viene offerta la possibilità di inserirsi in un contesto stimolante. La raccolta è introdotta dalla presentazione da parte dei due editori, a cui segue la documentata sintesi di Laurent Pernot sulla storia del termine greco πανηγυρικός e del suo calco latino panegyricus (What is a ‘panegyric’?). Il significato del termine di encomio del sovrano o di un personaggio ragguardevole, che viene correntemente usato dalla storiografia contemporanea, è quasi assente nei testi encomiastici greci della tarda antichità, mentre è frequente a partire dal primo impero, nei testi encomiastici latini. Sul piano generale ci sono a tratti sviluppi illuminanti. Vorrei citare qui anzitutto il lavoro di Alan Ross sul pubblico dei panegirici (The audience in imperial panegyric) che mette a confronto la descrizione nell’Autobiografia di Libanio della recitazione di panegirici (tra i quali soprattutto il suo) e delle reazioni del pubblico in occasione della celebrazione del consolato di Giuliano il 1 Gennaio 363 e l’evocazione del pubblico nel testo dell’orazione effettivamente tenuta dal retore antiocheno in quell’occasione, mettendone finemente in rilievo le differenze dal momento che il pubblico richiamato nell’orazione non è quello osservato dell’Autobiografia ma è una persona costruita con artificio retorico. Se ne ricava che, al momento della recitazione dell’encomio, come avveniva in generale nelle declamazioni delle scuole di retorica, si stabilivano interazioni tra l’oratore ed il pubblico, compreso l’imperatore, anche se nel caso di Giuliano è noto come l’imperatore non riuscisse, ed anzi esplicitamente rinunciasse a tenere sotto controllo le sue emozioni. Meno convincente appare in alcuni punti la ricerca di elementi neoplatonici nei panegirici tetrarchici e costantiniani (Neoplatonic philosophy in tetrarchic and Costantinian panegyric), che in qualche caso (vedi, per esempio, sacratissimus imperator o divina mens) appare forzata, data la lunga tradizione che queste espressioni hanno nella letteratura latina. La definizione della divinità nei panegirici latini è evidentemente genericamente monoteistica (non è una novità), in cui quindi non sono facilmente distinguibili influenze filosofiche specifiche, stoiche o neoplatoniche. Un altro saggio da cui emergono indicazioni interessanti sul piano generale è quello di Karla Grammatiki (Libanius’ imperial speech to Constantius II and Constans (or. 59): context, tradition and innovation). L’autrice studia l’uso del trattato di Menandro retore nei panegirici di Libanio, ma anche di Giuliano, individuando richiami anche letterali ma giustamente concludendone che non si può parlare comunque di un uso pedissequo del trattato di Menandro, che comunque è limitato e marginale in fondo nella valutazione della costruzione del testo encomiastico. Ammesso tuttavia che Libanio o altri autori di panegirici possano fare all’occasione un uso diretto del trattato di Menandro, non solo conosciamo per l’epoca tardo antica trattati analoghi, come quello dello pseudo Dionigi di Alicarnasso, ma si può pensare che certe scelte strutturali e tematiche degli autori di panegirici fossero diventate luoghi comuni delle scuole di retorica. Anche la puntuale analisi dei temi dell’ideologia politica romana nei panegirici di Simmaco, confrontati con la Gratiarum actio di Ausonio a Graziano, del saggio di Robert Chenault (Roman and gallic in the latin panegyrics of Symmachus and Ausonius), richiama il motivo importante della incidenza, non solo letteraria e formale, della cultura e dei valori specifici dell’autore dell’encomio nella scrittura del testo. Simmaco riprende, per descrivere l’elezione di Valentiniano da parte dell’esercito, la terminologia dei comizi repubblicani mettendo in evidenza il superiore valore dell’elezione contemporanea. Valentiniano è eletto da un senato militare, da un castrensis senatus. Chenault mette giustamente in evidenza il fatto che questo confronto fra l’elezione dell’imperatore da parte dell’esercito e quella dei magistrati nei comizi fosse nei panegirici latini tardo antichi un tema ricorrente, dal momento che lo ritroviamo anche in Ausonio e in Mamertino. Se però si può ammettere che il giudizio negativo sui comizi elettorali potesse essere effettivamente condiviso da Simmaco, diverso è il caso dell’elezione da parte dei vertici militari presentati come un castrensis senatus. Pensiamo, per esempio, alla esaltazione nella Historia Augusta dell’elezione dell’imperatore Tacito da parte del senato romano, al quale questo ruolo viene riconosciuto dallo stesso esercito. L’elezione ideale di un imperatore, nell’ideologia tradizionalista senatoriale, sarebbe quella da parte del senato, come avvenne anche nel caso dell’elezione dell’usurpatore Attalo con l’appoggio di Alarico. Nel pensiero non espresso di Simmaco, si può pensare che il castrensis senatus o occupi indebitamente il posto il ruolo che toccherebbe al vero senato o costituisca una soluzione di necessità che non pregiudica la prerogativa ideale del senato romano. Nel suo saggio, in cui riprende le analisi di una sua recente monografia (Emperors and usurpers: civil war, panegyric and the construction of legitimacy, Oxford 2018) Adrastos Omissi (Civil war and the late Roman Panegyrical Corpus) richiama anch’egli un tema importante della rappresentazione dell’imperatore nella panegiristica, lo spazio attribuito agli usurpatori, da Carausio a Magno Massimo, in molti panegirici. Sul piano etico e politico l’usurpatore è un tiranno dipinto con le caratteristiche negative dell’ideologia classica e costituisce un contraltare ideale alla legittimità ed alle virtù dell’imperatore celebrato (sarebbe stato interessante possedere panegirici di usurpatori: di Magnenzio, per esempio, possiamo identificare motivi di polemica anticostantiniana nella narrazione di Zosimo). L’autore mette opportunamente in evidenza il valore storico, nonostante qualche imprecisione cronologica e qualche deformazione encomiastica, della narrazione delle usurpazioni, fatta di fronte ad un pubblico di cortigiani e funzionari che. in qualche misura, erano a conoscenza dei fatti. Se il giudizio etico e politico sugli usurpatori è costruito secondo luoghi comuni, l’autore mette brillantemente in luce come il tema della illegittimità della loro presa del potere sia in rapporto a situazioni e ad esigenze propagandistiche diverse. Carausio è un pirata, Massenzio è un figlio illegittimo di Massimiano, Magnenzio è un barbaro ed un tiranno, che oltre aver ucciso un imperatore legittimo dell’Occidente, aveva osato muovere guerra contro l’imperatore legittimo della pars orientale. Un tema trasversale principalmente di natura letteraria affronta nel suo contributo Roger Rees (Not Making faces: Prosopopeia in late antique panegyric). La sua attenta analisi produce conclusioni incontrovertibili: la prosopopea è molto più frequente nei panegirici latini che in quelli greci, e tra i panegirici latini soprattutto nei panegirici di Mamertino e Pacato, e tocca il suo apice nei panegirici di Claudiano, in relazione certamente alla loro forma poetica. Forse da uno studioso acuto e raffinato come Rees ci si poteva attendere anche un’analisi approfondita del significato ideologico e politico di questa scelta retorica: dando la parola a Roma, allo stato, agli dei si intendeva forse a volte dare una giustificazione autorevole a comportamenti e scelte che potevano essere non facilmente accettati e condivisi. C’è poi una serie di saggi dedicati ad un panegirico in particolare. Una giovane studiosa, Belinda Washington, ha dedicato il suo contributo al panegirico di Giuliano in onore di Eusebia, moglie di Costanzo II. La studiosa mette in luce la singolarità dell’encomio di un imperatrice, ma in generale di una donna, che al più viene citata all’interno dell’encomio del marito, come nel panegirico di Plinio. Nella sua analisi sulla menzione delle mogli all’interno dei panegirici, l’autrice presta attenzione soprattutto alla Laus Serenae, dedicata da Claudiano alla moglie del suo mecenate Stilicone, mettendone opportunamente in evidenza le differenze, che dipendono essenzialmente dalla diversa statura politica e dalla diversa autorevolezza e visibilità delle due donne. Eusebia è una consigliera ascoltata dal marito, soprattutto nella scelta di richiamare Giuliano dal suo isolamento e di consentirgli di studiare ad Atene e poi di assegnargli il titolo di Cesare, ma appunto si limita a questo ruolo senza apparire pubblicamente. La scelta di Giuliano di comporre un encomio dell’imperatrice nasce dalla specificità della sua situazione di difficoltà di rapporti con il cugino Costanzo e dalla consapevolezza che l’imperatrice era il suo sostegno più sicuro, che egli per questo ritiene opportuno confermare e rendere pubblico. Se dunque, come giustamente mette in evidenza l’autrice, l’imperatrice è elogiata in quanto moglie, come avviene spesso negli elogi di una donna, la sua influenza decisiva sul marito, principalmente, ma non solo, in rapporto a Giuliano, è il centro reale del panegirico, Shaun Tougher analizza la Gratiarum actio di Claudio Mamertino all’imperatore Giuliano per il conferimento del consolato del 362. L’autore mette in evidenza come Mamertino, nella descrizione della marcia di Giuliano verso Oriente, prima che la morte di Costanzo lo facesse riconoscere unico imperatore, faccia già trasparire il radicale cambiamento di regime che Giuliano rendeva manifesto concretamente nelle sue scelte di questo periodo. Viene denunciata da Mamertino la corruzione imperante e l’assenza di criteri etici nella selezione dei funzionari ed il rigore che Giuliano rende visibile già in queste prime nomine, a partire da quelle che riguardano Mamertino stesso, che lascia intendere che sta difendendosi da critiche che venivano mosse soprattutto alla sua nomina al consolato. Un’attenzione opportuna Tougher presta alla descrizione degli interventi di Giuliano nei confronti delle città greche durante questa marcia, che sono presentati come gli inizi della politica di Giuliano nei confronti delle città. Quanto al suo rapporto con Costantinopoli, Tougher riconosce che la recitazione di un panegirico in lingua latina davanti al senato di Costantinopoli avrebbe potuto essere considerato una mancanza del rispetto dovuto a quel corpo, ma giustamente, a mio avviso, non dà troppo importanza alla cosa. Mamertino è consapevole del legame affettivo di Giuliano per Costantinopoli, ma anche dell’onore che l’imperatore rende al senato della città, accompagnandovi, comportandosi da senatore tra i senatori,, i due consoli dell’anno. E’ degno di lode il saggio di un giovane e promettente ricercatore, Robert Stone, sui panegirici di Temistio a Teodosio incentrati sul problema gotico (Inviting the enemy in: assimilating barbarians in Theodosian panegyric) L’autore segue con finezza l’evoluzione dell’atteggiamento di Temistio nei confronti dei Goti attraverso le orazioni 14, 15 e 16. Nelle prime due orazioni i Goti sono rappresentati come barbari che Teodosio ha sconfitto e si ripromette di sottomettere. Nell’orazione 16 invece, scritta dopo il trattato con i Goti del 382, in onore del magister militum e console del 383 Flavio Saturnino, che aveva avuto un ruolo decisivo nei negoziati con i Goti, viene formulato l’audace progetto di una integrazione dei barbari nell’impero, che si prospetta addirittura in un futuro indefinito, come completa, un progetto che era difficile far accettare dal pubblico del panegirico, il senato di Costantinopoli, e che viene apertamente criticato dopo la morte di Teodosio. Infine, di grande interesse è il saggio di James Cork-Webster autore di una recentissima monografia sull’atteggiamento di Eusebio di Cesarea verso l’impero romano (Eusebius and Empire: constructing Church and Rome in the Ecclesiastical History, Cambridge 2019). L’autore analizza la costruzione della rappresentazione encomiastica di Costantino come primo imperatore cristiano, all’interno di tre opere in cui egli appare come protagonista, di cui però solo una appartiene esplicitamente al genere encomiastico: la Storia ecclesiastica, il discorso per i tricennali dell’imperatore e la Vita Constantini. Il tratto essenziale che differenzia l’encomio eusebiano di Costantino dagli encomi tradizionali del sovrano è il fatto che il discorso di lode concerne primariamente Dio del quale l’imperatore è l’agente nella storia. Anche se sono richiamate dell’imperatore, come anche del suo collega Licinio nelle edizioni della Storia ecclesiastica prima di quella definitiva, scritta dopo il 324, le tradizionali virtù cardinali, esse appartengono primariamente a Dio stesso. L’imperatore non è l’unica persona negli encomi eusebiani attraverso la quale Dio opera nel mondo: sullo stesso piano vi sono la chiesa e i vescovi, con i quali Costantino condivide la funzione, su un piano tuttavia di superiorità rispetto ai singoli vescovi, in quanto κοινὸς ἐπίσκοπος, come si esprime Eusebio nella Vita Constantini. In conclusione, una lettura proficua e stimolante per tutti gli studiosi di tarda antichità, sia sul piano letterario che su quello storico, che potrebbe contribuire ad alimentare i futuri studi sulla materia soprattutto, si spera, nella prospettiva di ulteriori ampi commentari filologici e storici sulle singole opere. VALERIO NERI