Norme inespresse
Giorgio Pino*
Sommario
In questo saggio intendo mettere a fuoco alcune questioni teoriche sulle norme
inespresse, nella convinzione che si tratti di una categoria estremamente importante
per capire il lavoro dei giuristi, anche quando (e forse, soprattutto quando) questi
ultimi si astengono dal dichiararne espressamente l’utilizzo. Allo stesso tempo, credo
che questa nozione porti allo scoperto i limiti intrinseci di alcuni concetti abitualmente impiegati nella teoria dell’interpretazione, specialmente di stampo analitico, quali
“interpretazione”, “integrazione”, “cornice di significati ammissibili”, e simili: una
discussione sulle norme implicite può dunque essere una valida occasione per una
riflessione più generale sull’interpretazione giuridica. Ad ogni modo il mio scopo,
qui, è di problematizzare la nozione di norma inespressa, e la correlativa distinzione
con le norme espresse, senza con ciò necessariamente rifiutare né l’una né l’altra.
Parole chiave: Norme espresse. Norme inespresse. Interpretazione. Integrazione.
Abstract
The aim of the essay is to put to test some theoretical issues surrounding the
topic of “unstated norms”. The underlying assumption is that a reflection on unstated norms is able to bring to the fore several important features of the job of
jurists, even when – possibly, most of all when – jurists deny that they are indeed
working with unstated norms. At the same time, the notion of unstated norm paves
the way to a critical reflection on some conceptual tools often deployed in analytical
jurisprudence, such as “interpretation”, “construction”, “legitimate meanings”, and
the like. Accordingly, an inquiry on unstated norms may prove a valuable occasion
for a more general reflection upon legal interpretation.
Keywords: Stated norms. Unstated norms. Legal interpretation. Integration of
the law.
* Dipartimento di Giurisprudenza, Università Roma Tre. Via Ostiense 161, 00154, Roma, giorgio.
pino@uniroma3.it.
ANALISI E DIRITTO
2020: 93-126
93
GIORGIO PINO
1. A caccia di fantasmi
Tra i teorici del diritto è più o meno un luogo comune osservare che nelle loro
operazioni quotidiane i giuristi usano, oltre alle norme derivabili direttamente da
un testo normativo, anche norme inespresse; o che gli ordinamenti giuridici contengono, oltre alle norme derivabili direttamente da un testo normativo, anche norme
inespresse. Le norme inespresse, o implicite, sarebbero le norme ricavate dai giuristi
con strategie argomentative di vario tipo, e accomunate dalla circostanza di non essere direttamente formulate in un testo normativo – più precisamente, le norme implicite sono norme che non possono essere considerate il significato di un enunciato
formulato in un testo normativo. Le norme inespresse, cioè, sarebbero frutto non di
un’attività che esplicita o che riproduce, per mezzo di una “semplice” traduzione,
ciò che un testo normativo dice, ma piuttosto di un’attività che aggiunge, in maniera
creativa, nuovo materiale normativo rispetto a quello prodotto dal legislatore (in
senso ampio).
Sfortunatamente questo luogo comune, che peraltro io stesso condivido, si trova
stretto tra fuochi opposti. Per un verso, infatti, non c’è accordo tra i teorici del diritto sul modo in cui tracciare la distinzione tra norme espresse e norme inespresse (o
la distinzione, ad essa parallela, tra interpretazione e “integrazione”, o “costruzione”). Con la conseguenza che, a seconda dello schema teorico e delle definizioni di
volta in volta adottate, le norme inespresse potranno apparire o come un fenomeno
affatto eccezionale e marginale, e al limite patologico, o all’opposto come la componente preponderante del materiale utilizzato dal giurista nel suo lavoro quotidiano.
Così, ad esempio, Enrico Diciotti riconosce che la propria concettualizzazione produce la conseguenza che «si dovranno ritenere inespresse moltissime norme applicate dai giudici»1. Esito, questo, che invece è ritenuto «alquanto paradossale» da
Riccardo Guastini, il quale evidentemente ritiene che le norme inespresse non siano
una componente preponderante dell’ordinamento2.
Per altro verso, i giuristi “pratici” sembrano alquanto renitenti a qualificare apertamente come “inespresse” le norme che essi individuano tramite procedimenti (che
i teorici chiamano) “integrativi” o “costruttivi”. L’esempio più chiaro, anche se in
un certo senso poco rappresentativo, è dato dal procedimento per analogia: anche
se in via generale esso è formalmente consentito o addirittura imposto dal nostro
diritto positivo, di solito è impiegato con notevole pudore dai giuristi italiani anche
al di fuori dei casi (norme penali e norme eccezionali) in cui è espressamente escluso3. E probabilmente lo stesso potrebbe essere detto per molti altri ordinamenti
1
Diciotti 2020: § 4.
Guastini 2013: 134.
3
Si veda a titolo di esempio l’ampia analisi svolta in Alpa 1998 che, a dispetto del titolo, è sostanzialmente una ricognizione dei modi in cui i giudici evitano di fare ricorso all’analogia.
2
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NORME INESPRESSE
a diritto codificato. Con ciò non intendo dire, si badi, che i giuristi che operano in
questi ordinamenti non facciano affatto ricorso all’analogia e ad altri procedimenti
integrativi. (Anche perché si dovrebbe poi distinguere ciò che i giuristi fanno da ciò
che i giuristi dicono di fare. Un giurista, assumo, può tranquillamente far ricorso
all’analogia senza dirlo.) E la stessa analogia, in fin dei conti, è probabilmente percepita dai giuristi di civil law come un caso estremo di integrazione del diritto (e dunque, proprio in quanto caso estremo, poco rappresentativo), mentre altre tecniche
integrative sono adoperate più frequentemente e apertamente dai giuristi. Ciò che
intendo dire, piuttosto, è che è relativamente raro che i giuristi affermino di stare
impiegando una tecnica “integrativa” anziché “interpretativa”, e soprattutto è raro
che i giuristi dichiarino apertamente che la norma che stanno utilizzando in un certo
caso è una norma inespressa. È ovvio che questa è una generalizzazione, che tollera
vari controesempi; e inoltre non è affatto detto che le analisi svolte dalla teoria del
diritto debbano restare ostaggio solo di ciò che i giuristi “dicono di fare”, anziché
spingersi ad indagare su ciò che essi “fanno realmente”. Tuttavia, credo che questo
sia un dato di cui una indagine teorica debba in qualche modo tenere conto, a pena
di raffigurare la pratica giuridica come un gigantesco autoinganno, o adottare verso
di essa una poco plausibile error theory4.
In questo saggio intendo dunque mettere a fuoco alcune questioni teoriche che
riguardano la categoria “norme inespresse”, nella convinzione che si tratti di una
categoria estremamente importante per capire il lavoro dei giuristi, anche quando (e
forse, soprattutto quando) questi ultimi si astengono dal dichiararne espressamente
l’utilizzo. Allo stesso tempo, credo che questa nozione porti allo scoperto i limiti
intrinseci di alcuni concetti abitualmente impiegati nella teoria dell’interpretazione,
specialmente di stampo analitico, quali “interpretazione”, “integrazione”, “cornice
di significati ammissibili”, e simili: una discussione sulle norme implicite può dunque essere una valida occasione per una riflessione più generale sull’interpretazione
giuridica. Ad ogni modo il mio scopo, qui, è di problematizzare la nozione di norma
inespressa, e la correlativa distinzione con le norme espresse, senza con ciò necessariamente rifiutare né l’una né l’altra. Esistono infatti buone ragioni per mantenerle.
Una buona ragione è che la nozione di norma inespressa, e la distinzione tra interpretazione e integrazione del diritto, sono presenti nel linguaggio e (soprattutto)
nelle pratiche dei giuristi. Un’altra buona ragione è che la possibilità di un’attività
integrativa del diritto da parte degli interpreti è contemplata dal diritto positivo
stesso, autorizzandola (art. 12, co. 2, preleggi), o vietandola (art. 14 preleggi).
Ovviamente, che una distinzione sia presente nel linguaggio dei giuristi, o nel
diritto positivo, è un argomento in favore del potenziale interesse teorico della distinzione in questione, ma non è affatto un argomento conclusivo in favore del fatto
4
La necessità che l’indagine teorica si mantenga in qualche misura fedele al “senso comune dei
giuristi” è rivendicata ad es. da Guastini 2013: 134, e Chiassoni 2019: 122.
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GIORGIO PINO
che si tratti di una distinzione chiara e precisa – e nemmeno, al limite, per considerarla una distinzione sensata. È del tutto possibile che il diritto positivo prescriva
o autorizzi qualcosa di insensato. In ogni caso, mantenere queste distinzioni non
implica che sia sempre possibile tracciarle con sicurezza; e magari è anche possibile
che i casi dubbi (di interpretazione, di integrazione; di norme espresse, di norme
inespresse) siano più frequenti e rilevanti dei casi chiari. In altre parole, queste distinzioni possono anche essere mantenute, ma a condizione di non essenzializzarle5.
Procederò in questo modo. In primo luogo, prenderò in considerazione alcuni
tentativi di distinzione tra norme espresse e norme inespresse, al fine di mostrarne
i limiti (§ 2). Poi proverò a delineare un modo alternativo di porre la questione,
nel quadro di un più complessivo resoconto dell’attività interpretativa (§ 3). Infine,
cercherò di trarre spunto da tutto ciò per qualche riflessione più generale sull’interpretazione giuridica e la sua “creatività” (§ 4).
2. Norme inespresse, interpretazione, costruzione
Dunque, nonostante qualche disaccordo, è generalmente ammesso che nel diritto “esistano” norme inespresse. A dire il vero, mi sembra che spesso i disaccordi
riguardino non tanto il “se”, ma il “come”: non se norme inespresse “ci siano” (in
qualche senso di “esserci” che lascerò qui del tutto inesplorato), ma come esse siano
individuabili o vengano di fatto individuate.
Iniziamo col dire che, per comune ammissione, quella delle norme inespresse
è una categoria eterogenea. Alcune norme inespresse possono essere individuate
tramite argomenti puramente logico-deduttivi a partire da norme espresse, mentre altre possono essere individuate tramite argomenti retorico-persuasivi, sempre a
partire da norme espresse oppure a partire da tesi puramente dogmatiche prive di
qualsivoglia aggancio testuale nel diritto positivo6. Di questa eterogeneità si cerca
talvolta di dar conto individuando, all’interno della categoria generale delle norme
inespresse, alcune sotto-categorie come le “norme implicite”, e le “norme totalmente inespresse”7. Non nego che simili distinzioni possano essere teoreticamente
5
Si noterà, peraltro, che le ragioni in favore della distinzione tra norme espresse e norme inespresse che ho indicato nel testo hanno importanti ricadute pratiche. E questo, molto spesso, non manca di condizionare profondamente l’elaborazione teorica sul tema. Come ha esattamente notato Jerzy
Wróblewski 1991: 98, «the difference between the stated and the unstated in law is related to conceptual
choices which are not axiologically neutral».
6
Guastini 2004a: 103-106; Ratti 2008: 319 ss.
7
La distinzione tra norme “implicite” e norme “inespresse” è presente ad esempio in Guastini
1990: 124: «altri principi appaiono, per così dire, totalmente inespressi, cioè né formulati né impliciti in
alcun segmento del discorso legislativo». V. anche Diciotti 2015; Barberis, 2019: 187; 2020: § 4.2. (che
comunque non usano questa distinzione in modo identico).
96
NORME INESPRESSE
fondate; per parte mia, però, ed esclusivamente per ragioni di semplicità espositiva, rinuncerò ad articolare ulteriormente la nomenclatura e utilizzerò le espressioni
“norme inespresse” e “norme implicite” come perfettamente sinonime (al pari, ovviamente, della coppia “norme espresse” e “norme esplicite”).
Ebbene, il modo più ovvio di individuare la categoria delle norme inespresse è
“in negativo”: sono norme inespresse quelle che non possono essere ragionevolmente considerate come il significato di una disposizione (cioè di un enunciato presente
in una fonte del diritto). Talvolta, con espressione meno precisa, si dice che le norme inespresse sono norme “prive di formulazione” (cioè prive di formulazione testuale in una fonte del diritto); quest’ultima definizione è però meno precisa perché,
a ben vedere, una norma non può essere mai formulata in una fonte del diritto: le
fonti del diritto (e più precisamente: le fonti-atto, le fonti dotate di aspetto testuale)
non contengono mai norme, ma disposizioni, enunciati da interpretare al fine di
individuare le norme. A rigor di termini, dunque, è la disposizione, e non la norma,
ad essere ‘formulata’ in una fonte del diritto.
Dunque, quando una norma può essere ragionevolmente considerata come il significato di una disposizione, individuato a seguito di interpretazione, essa è una
norma espressa. Una norma espressa è, per definizione, il prodotto dell’interpretazione di una disposizione. Di contro, le norme inespresse non sono frutto di interpretazione, propriamente intesa, ma di “integrazione”, o di “costruzione”. I giuristi,
quantomeno in Italia, parlano spesso di “integrazione”, nelle varianti della “auto-integrazione” (ad es. tramite analogia) e della “etero-integrazione” (ad es. tramite ricorso all’equità o alla “natura delle cose”). “Costruzione” è termine che ha origine
nella pandettistica tedesca8, ed evoca precisamente l’idea del carattere sistematico del
diritto; recentemente questo termine è stato riportato in voga da Riccardo Guastini9,
per designare una varietà di operazioni diverse da quelle strettamente interpretative,
tra cui appunto l’individuazione di norme inespresse (ma anche ulteriori operazioni
che non coincidono con l’integrazione e l’individuazione di norme inespresse)10.
Ora, è evidente che il quadro fin qui tracciato è ancora piuttosto incompleto.
Infatti, è evidente che la distinzione tra norme espresse e inespresse è parassitaria
8
Lazzaro 1965.
Guastini 2011.
10
Conviene comunque sgomberare il campo da un possibile fraintendimento che potrebbe derivare dall’uso, da parte dei giuristi nordamericani, della apparentemente analoga distinzione tra interpretation e construction. In realtà, la coppia interpretation/construction si riferisce alla distinzione tra
l’attribuzione di un significato puramente linguistico, da una parte, e il dare al testo interpretato “effetti
giuridici”, dall’altra; e tali “effetti giuridici” coprono un insieme assai eterogeneo di attività quali l’attribuzione di significato sulla base di criteri tipicamente giuridici, l’integrazione della norma nel complessivo tessuto normativo, il ricorso a finzioni giuridiche, l’applicazione al caso concreto. Anche se qualcuna
di queste cose ricadrebbe nella nozione di “costruzione” così come impiegata da Guastini in poi, si vede
chiaramente che la coppia interpretation/construction ha ben poco a che vedere con la coppia interpretazione/costruzione.
9
97
GIORGIO PINO
rispetto alla distinzione tra interpretazione e integrazione (o costruzione). Solo se è
possibile distinguere tra interpretazione e integrazione, tra le attività che consistono
nell’attribuzione di significati a testi (e dunque genuinamente interpretative) dalle attività che non possono essere considerate come attribuzione di significati a testi, si potranno poi distinguere le norme espresse dalle norme inespresse. A questo proposito,
è venuta in soccorso la nozione – già presente in Kelsen11 – di “cornice dei significati”.
L’idea, nella sua semplicità, è piuttosto attraente, e può essere riassunta nel modo
seguente. Ogni enunciato si presta ad esprimere una pluralità di significati possibili.
Se l’interprete individua una norma scegliendo uno dei significati che ricadono all’interno della cornice dei significati possibili, allora si può dire che ha posto in essere
una attività interpretativa, e che la norma così individuata sia una norma espressa. Se
invece l’interprete individua una norma che non può essere considerata come uno
dei significati appartenenti alla cornice, allora ha svolto un’attività (non interpretativa
ma) integrativa o costruttiva, e la norma così individuata è una norma inespressa.
Purtroppo, la semplicità di questa idea è affatto ingannevole. Il modello della
cornice non può funzionare per distinguere tra interpretazione e integrazione, tra
norme espresse e norme inespresse. Per mostrare perché, discuterò qui di seguito
due possibili versioni, recentemente proposte, dell’argomento della cornice. (Il lettore che non si appassioni particolarmente alle dispute intra-teoriche, e soprattutto
che sia disponibile ad una considerevole apertura di credito nei confronti del mio
argomento, può subito saltare al § 3.)
2.1. Guastini
Riccardo Guastini è stato il primo, per quanto ne so, a riformulare la teoria
kelseniana della cornice nei termini di una teoria analitica dell’interpretazione giuridica12. Secondo Guastini, la “cornice” consiste nella somma dei diversi possibili
significati di un testo normativo, individuati «tenendo conto delle regole della lingua, delle diverse tecniche interpretative in uso, delle tesi dogmatiche diffuse in
dottrina, etc.»13. Fintanto che l’interprete sceglie una norma che ricade all’interno
della cornice, avrà individuato una norma espressa, tramite un’attività genuinamente
interpretativa; se invece l’interprete individua un significato “fuori cornice”, allora
avrà creato una norma inespressa, frutto di costruzione o più precisamente, per l’appunto di “interpretazione creativa”14. (Giova ricordare, comunque, che secondo
11
Kelsen 1934: cap. VI; 1960: cap. VIII. Ma nelle traduzioni italiane l’originale “Rahmen” è stato
di solito tradotto con “schema”.
12
V. ad es. Guastini 2011. Barberis ha rintracciato già nella metà degli anni ’90 i primi usi di questa
nozione da parte di Guastini: v. Barberis 2019: 193 ss.
13
Guastini 2011: 28.
14
«La cornice (anche se di incerta identificazione) […] serve a classificare le operazioni degli interpreti: in particolare, a discriminare tra interpretazione propriamente detta e creazione di diritto nuovo»
98
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Guastini l’interpretazione creativa non è il solo modo per individuare norme inespresse: queste ultime potranno essere individuate anche attraverso altre tecniche di
“costruzione giuridica”, come ad esempio la concretizzazione di principi.)
Cosa c’è che non va in questa ricostruzione? In estrema sintesi, le cose seguenti15.
L’illusoria semplicità della cornice. A ben vedere, l’individuazione della cornice dei significati possibili, utilizzando i criteri indicati da Guastini, sembra essere
un’impresa disperata. Ciò a causa dell’estrema eterogeneità delle tecniche interpretative rilevabili in una qualunque cultura giuridica appena sviluppata, e a causa del
fatto che tali tecniche si prestano solitamente ad essere implementate in molti modi
diversi. Per tracciare la cornice si dovrà dunque elaborare una combinazione tra i
diversi criteri offerti dalle regole della lingua (incluse le rispettive varianti storiche,
probabilmente), dalle regole giuridico-positive sull’interpretazione (a loro volta oggetto di interpretazione, ovviamente, e dunque a loro volta passibili di molteplici
differenti declinazioni in sede interpretativa), dalle tesi dogmatiche e dalle tecniche
interpretative presenti nella cultura giuridica (di tutte le tesi dogmatiche e tecniche
interpretative? anche di quelle più marginali, cervellotiche ed eterodosse?), che peraltro si prestano normalmente ad essere sviluppate in modi diversi.
Così, ad esempio, dando per scontato che il ricorso all’interpretazione sistematica sia una delle “tecniche interpretative in uso”, non si potrà fare a meno di notare:
a) che l’interpretazione sistematica è in realtà una famiglia di tecniche, che possono
ben dare luogo a risultati interpretativi opposti (ad es., l’argomento della “costanza
terminologica”, e l’argomento – speculare – della “incostanza terminologica”16, di
modo che già questo solo argomento potrebbe far rientrare nella cornice significati
(non solo diversi ma) opposti; b) il “sistema” rilevante può essere ritagliato in molti
modi diversi: qual è il “sistema” dell’art. 2043 c.c.? il Titolo IX del c.c.? tutto il Libro IV? l’intero diritto delle obbligazioni, a prescindere dalla sua collocazione nel
codice civile (leggi speciali, ecc.)? l’intero codice civile (che ovviamente contiene
tante altre cose oltre al diritto delle obbligazioni)? il diritto civile nel suo complesso?
Il diritto civile alla luce della Costituzione? l’intero ordinamento italiano (ad includere anche il diritto penale, amministrativo ecc.)? il diritto civile alla luce del diritto
dell’Unione europea? E così via.
E si può presumere (a voler dare qualche significato allo «etc.» usato da Guastini nella sua definizione) che all’individuazione della cornice potranno concorrere
anche considerazioni ulteriori (e da Guastini non specificate) come ad esempio le
(Guastini 2011: 60; v. anche 29, 61, 267, 338, 425-426).
15
Ho già avuto modo di criticare questo aspetto della teoria dell’interpretazione di Guastini: Pino
2013. Quanto scrivo qui di seguito riprende, sviluppa, e (forse) chiarisce quanto ho già cercato di argomentare in quella occasione.
16
In proposito, v. Guastini 2004a: 170-171.
99
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definizioni indicate dallo stesso legislatore, o altre indicazioni provenienti dall’autorità normativa, come ad es. le rubriche, i “considerando” nelle direttive e nei regolamenti comunitari, o le motivazioni o relazioni di accompagnamento a certi atti
normativi, ecc.
Non è per niente chiaro cosa possa entrare o non entrare nella cornice. La cornice può essere costruita con i criteri più diversi: non appena si provi a prendere sul
serio i criteri indicati da Guastini, la costruzione della cornice comincia ad assumere
le fattezze di un’impresa vagamente onirica, o di una passeggiata nella biblioteca di
Babele.
Le cornici dipendono dall’interpretazione. Come conseguenza di quanto abbiamo
appena visto, per essere almeno parzialmente praticabile l’individuazione della cornice dei possibili significati non potrà che essere effettuata tramite una selezione di
criteri, ritenuti dall’interprete più ragionevoli, all’interno della sterminata messe dei
criteri potenzialmente ammissibili elencata poco sopra.
Ad esempio, si potrebbe pensare che le «regole della lingua» siano quelle
dell’italiano attuale, e non quelle del momento in cui la legge da interpretare è stata
promulgata (o viceversa). Oppure, si potrebbe pensare che le «tecniche interpretative in uso» siano quelle impiegate dalla Corte di Cassazione (o dalla “migliore
dottrina”, o dalle Corti di Appello dei capoluoghi con più di un milione di abitanti,
ecc.). Parimenti, si potrebbe pensare che le «tesi dogmatiche diffuse in dottrina»
siano quelle adottate unanimemente da tutti i giuristi, o da tutti i giuristi specializzati in una certa disciplina, o dai giuristi specializzati in una certa disciplina e che
siano riconosciuti come “particolarmente autorevoli” (good luck with that), o dai
giuristi specializzati in una certa disciplina e che abbiano almeno una volta nella vita
pubblicato un saggio su «Analisi e diritto», e così via.
Una simile riformulazione della cornice è possibile, ovviamente, e probabilmente è ciò che effettivamente fanno i giuristi (e che fa lo stesso Guastini17) quando
provano a tracciare qualcosa di simile alla cornice. Ma ciò porta semplicemente alla
luce il fatto che la cornice non è (solo) un presupposto della distinzione tra interpretazione e integrazione: in realtà, la cornice stessa dipende dall’interpretazione.
Interpreti diversi individueranno cornici diverse18: e non perché un interprete ha
17
In realtà, quando si impegna nella discussione di esempi concreti della distinzione tra norme
espresse e inespresse, Guastini manifesta un atteggiamento inequivocabilmente testualista-letteralista:
è norma inespressa qualunque norma che non risponda al significato letterale della disposizione (ad es.
Guastini 2011: 158-161). Ma ciò è in aperta contraddizione con il modo in cui lo stesso Guastini definisce
la cornice: non si può assolutamente dire, infatti, che qui e ora il metodo testualista-letteralista esaurisca
l’universo delle «diverse tecniche interpretative in uso, delle tesi dogmatiche diffuse in dottrina, etc.», e
nemmeno che sia quello più rappresentativo.
18
Così come, ovviamente, uno stesso interprete potrebbe, in via di esperimento mentale, prospettarsi plurime cornici alterative.
100
NORME INESPRESSE
ragione mentre l’altro si sbaglia, ma proprio perché, in ipotesi, essi staranno implementando in maniera perfettamente corretta sotto-insiemi diversi di criteri (regole
della lingua, tecniche interpretative, tesi dogmatiche, ecc.), all’interno della disordinata pletora di criteri astrattamente disponibili in una certa cultura giuridica. Un
giurista “formalista” (testualista, letteralista, ecc.) individuerà la cornice in maniera
diversa da come lo farà un giurista “sostanzialista”, esattamente perché tali giuristi
implementeranno diversi “codici interpretativi”, “principi metodologici”, “ideologie delle fonti”19. Questo sarebbe esattamente un caso di faultless disagreement:
un disaccordo in cui nessuna delle parti è davvero in errore, perché ciascuna parte
usa (correttamente, in ipotesi) criteri diversi e parimenti ammissibili20. Nessuno di
questi criteri è più “vero” degli altri. Al limite, un criterio potrebbe essere, in un
certo periodo, numericamente prevalente all’interno di una certa cultura giuridica:
ma questo lo si potrebbe affermare solo in via di cauta generalizzazione, e comunque resterebbe ancora da dimostrare che il criterio prevalente sia anche costruito
in maniera tale da tracciare una distinzione netta e univoca tra norme espresse e
inespresse.
Nell’idea che la cornice dipenda dall’interpretazione, a ben vedere, non dovrebbe esserci niente di sorprendente. In fin dei conti, abbiamo imparato proprio da
Guastini quanto sia pervasiva l’interpretazione, al punto, ad esempio, che le lacune,
le antinomie, e lo stesso ordinamento giuridico, non sono altro che entità dipendenti
dall’interpretazione: usando certe tecniche interpretative o tesi dogmatiche apparirà una lacuna, o una antinomia, mentre usando altre tecniche interpretative o tesi
dogmatiche la lacuna o l’antinomia sparirà21. E lo stesso ordinamento giuridico, in
quanto costruito in ultima analisi dagli interpreti, avrà diverso contenuto e diversa
forma a seconda delle tecniche interpretative o tesi dogmatiche adottate dai diversi interpreti22. Ebbene, esattamente come le lacune, le antinomie, e l’ordinamento
giuridico, anche la cornice è un concetto dipendente dall’interpretazione. Di più:
se è vero, come afferma Guastini (pour épater le juriste?), che tutte le lacune sono
19
Per queste nozioni, Chiassoni 2002-2003 (sui codici interpretativi); Diciotti 1999: 277-291, 494539 (sui principi metodologici dell’interpretazione); Pino 2016: 152 ss. (sulle ideologie delle fonti, o
ideologie giuridiche).
20
Mi pare che questo non sia tenuto ben presente da Damiano Canale quando, alla mia tesi della
ineluttabile pluralità delle cornici, obietta che ciò dipende dalla circostanza, del tutto eventuale, che qualche giurista sbagli a costruire la cornice (e che quindi, davanti a due cornici, una sia quella giusta e l’altra
quella sbagliata). Certo che questo è possibile: ma ciò non ha nulla a che vedere con il mio argomento,
come lo avevo già esposto in Pino 2013.
21
Il caso più eclatante: la tesi dogmatica della norma generale esclusiva, che fa magicamente scomparire tutte le lacune.
22
Su lacune, antinomie, e ordinamento giuridico come concetti dipendenti dall’interpretazione,
v. ad es. Chiassoni 1999a: 293 ss.; Guastini 2011: 279, 295; Ratti 2008: 339-349. Ancora più in generale,
sulla “non trascendibilità dell’interpretazione”, v. Celano 1999: 241-245.
101
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probabilmente lacune assiologiche23, forse è vero che anche le cornici di volta in
volta proposte dai giuristi (e dallo stesso Guastini) sono nient’altro che “cornici
assiologiche”.
Dunque, non c’è una meta-cornice oggettiva, archimedea, a partire dalla quale
distinguere in maniera altrettanto oggettiva tra norme espresse e norme inespresse,
tra interpretazione del diritto esistente e creazione di diritto nuovo. Una cornice
(qualunque cornice) è frutto di un’opzione interpretativa di fondo, guidata da certi principi metodologici, e dunque ispirata in ultima analisi da un punto di vista
normativo e assiologico – e non puramente scientifico e “cognitivo”24 – sul diritto.
E, ammesso che una qualunque tra le cornici possibili riesca ad individuare criteri sufficientemente determinati per distinguere ciò che sta dentro (interpretazione,
norme espresse) da ciò che sta fuori (integrazione, norme inespresse), questa distinzione varrà solo per chi effettivamente adotta quella cornice, sulla base di un
proprio codice interpretativo, o ideologia giuridica, e non anche per chi adotta una
cornice diversa.
La cornice è indeterminata. Oltre ai problemi appena visti riguardo alla praticabilità della cornice, il modello della cornice risulta essere inadeguato anche perché si
fonda su una metafora che intende presentare come netta, qualitativa, una differenza (la differenza cioè tra norme espresse e inespresse, tra interpretazione e integrazione) che in realtà è solo graduale, sfumata e indeterminata. Che la distinzione tra
norme espresse e norme inespresse sia graduale e sfumata, in realtà, è apertamente
riconosciuto dallo stesso Guastini25. Ma allora viene da chiedersi perché ricorrere,
in questo campo, proprio ad un’immagine metaforica che porta con sé l’idea della distinzione netta, del perimetro ben circoscritto (cos’altro contraddistingue una
cornice se non la sua attitudine a delimitare?).
Il problema, si badi, non è semplicemente che esistono casi dubbi: una distinzione (come, nel nostro caso, quella tra norme espresse e inespresse) può essere
23
Guastini 2011: 161, 224.
Per l’idea che sia possibile individuare una cornice di possibili significati in maniera puramente
scientifica e “oggettiva”, vedi invece Guastini 2004a: 81; 2004b: 85 («L’accertamento di un significato è
operazione cognitiva (e dunque scientifica)»; 2001: 31, 36.
25
Guastini 1990: 125: «di fatto, può risultare molto difficile, o addirittura impossibile, decidere se
una norma costituisca interpretazione di una certa disposizione (e sia quindi una norma espressa) o se
invece costituisca una norma ulteriore implicita» (corsivo aggiunto); 1993: 369: «l’estensione del significato di una disposizione tende a sfumare nella formulazione di una norma nuova (non riconducibile
a quella disposizione come suo significato). Tra le due cose non vi è una differenza netta, ma solo una
differenza di grado» (corsivo aggiunto); 2001: 2034, n. 3: «la linea di demarcazione tra interpretazione
dei testi normativi e integrazione del diritto è incerta e sottile»; 2004a: 82: interpretazione e integrazione del diritto «tendono fatalmente a sfumare l’una nell’altra»; 2011: 282: «la linea di demarcazione tra
l’interpretazione estensiva propriamente detta e la costruzione di una norma inespressa è molto fluida e
sottile»; v. anche 98-100, 162.
24
102
NORME INESPRESSE
importante e interessante anche se è sfumata. Il problema è che, nel nostro caso,
i casi dubbi, indeterminati ecc. sembrano essere l’assoluta maggioranza; come ho
già detto (§ 1), è piuttosto raro che i giuristi letteralmente inventino una norma dal
nulla: la stragrande maggioranza delle norme inespresse sono (o sono presentate
come) sviluppi, derivazioni, slittamenti progressivi a partire da norme espresse, si
trovano cioè in una specie di enorme zona grigia tra interpretazione e integrazione.
E questo mare magnum, che invero rappresenta l’assoluta normalità dei casi nel
lavoro dei giuristi, viene relegato dall’immagine della cornice al rango di caso marginale, stravagante, tra ciò che sta sicuramente dentro e ciò che sta sicuramente fuori
dalla cornice.
In conclusione, dunque, il concetto di cornice così come delineato da Guastini
sembra per un verso impraticabile, pressoché vuoto, se inteso nei termini di un’improbabile meta-cornice; e per altro verso inidoneo a svolgere la sua funzione primaria (distinguere l’interpretazione propriamente intesa dall’integrazione del diritto,
le norme espresse dalle norme inespresse), se non assumendo un punto di vista
prescrittivo sulla “migliore” cornice: difendibile sulla base di argomenti normativi,
certamente, ma ovviamente e inevitabilmente controverso.
2.2. Canale
La teoria della cornice di Guastini è stata recentemente difesa, e parzialmente
riformulata, da Damiano Canale. In estrema sintesi, e salvo fraintendimenti da parte
mia, mi sembra che la tesi di Canale sia riassumibile così.
In primo luogo, «le regole della lingua, i canoni interpretativi applicati dai giudici
e le tesi dogmatiche in uso sono criteri necessari e sufficienti per tracciare, in termini
strettamente linguistici, la cornice dei significati ammissibili di una disposizione in
un ordinamento determinato»26. A tal fine, secondo Canale, soccorre la nozione di
“frame semantico”, cioè un contesto enunciativo «composto perlomeno dall’agente
che proferisce la disposizione, dal tempo e dal luogo nei quali il proferimento avviene, e dal mondo nel quale si svolge la comunicazione linguistica»: completando queste variabili (agente, tempo ecc.) alla luce di una certa dottrina dell’interpretazione
(cioè alla luce di canoni interpretativi e delle tesi dogmatiche in uso), l’interprete è
in grado di dare un contenuto di significato determinato alla disposizione da interpretare27. Pertanto, «la distinzione tra norme espresse e inespresse [come formulata
da Guastini e emendata da Canale] non soffre dei problemi di indeterminatezza che
le vengono imputati»28 (in particolare, da Enrico Diciotti, e da me).
26
27
28
Canale 2019: 248; 2020: § 3.
Canale 2019: 261, 265; 2020: § 7.
Canale 2019: 248; 2020: § 3.
103
GIORGIO PINO
In secondo luogo, la distinzione tra interpretazione (che individua norme
espresse) e costruzione (che individua norme inespresse) risiede nel diverso tipo
di inferenze (schemi di ragionamento, strutture argomentative) messe in campo: ci
sono inferenze tipicamente e propriamente interpretative, e inferenze tipicamente e propriamente costruttive29. Ed è possibile così «distinguere in modo chiaro e
analiticamente rigoroso le norme espresse dalle norme inespresse, così come l’interpretazione dalla costruzione giuridica». Con la conseguenza, peraltro, che una
norma (perfino una stessa norma) è una norma espressa se è stata individuata tramite
argomenti interpretativi, mentre è una norma inespressa se è stata individuata con
argomenti costruttivi30.
Canale, se ho ben ricostruito la struttura fondamentale del suo argomento, condivide dunque con Guastini l’idea che sia possibile costruire una cornice di significati (sulla base di regole linguistiche, canoni interpretativi e tesi dogmatiche in uso),
e che tale cornice distingua le norme espresse dalle norme inespresse. A differenza
di Guastini, però, Canale sostiene anche le seguenti tesi (peraltro negate espressamente da Guastini): che la cornice sia determinata (che la linea che separa norme
espresse e norme inespresse sia netta, e rigorosamente tracciata); che la distinzione
tra interpretazione e costruzione, e di riflesso la distinzione tra norme espresse e
norme inespresse, dipenda esclusivamente dal tipo di argomenti impiegati dall’interprete. Vediamo31.
Ancora problemi con la cornice. Nella misura in cui Canale ricorre al concetto di
cornice, la sua teoria è vulnerabile a tutte le obiezioni già viste poco sopra (§ 2.1). In
primo luogo, infatti, i criteri tramite cui dovrebbe essere tracciata la cornice, e che
29
Su una posizione simile a quella di Canale, centrata soprattutto sul diverso tipo di inferenze,
sembra anche Chiassoni 2019: cap. 5.
30
Canale 2019: 245, 251; 2020: §§ 3 e 5.
31
Un’altra differenza tra Canale e Guastini consiste nell’uso da parte del primo di un apparato
concettuale di stampo inferenzialista e contestualista. Sembra però che questo apparato concettuale non
renda sempre un buon servizio alla plausibilità della tesi che egli vuole difendere. Penso in particolare
alla nozione di “frame semantico” cioè, come abbiamo visto, un contesto enunciativo «composto perlomeno dall’agente che proferisce la disposizione, dal tempo e dal luogo nei quali il proferimento avviene,
e dal mondo nel quale si svolge la comunicazione linguistica». Applicando questa concettuologia ad
un caso di interpretazione costituzionale statunitense (in particolare sull’VIII emendamento), Canale
ne ricava che in una prospettiva intenzionalista-originalista, l’agente che proferisce la disposizione è il
legislatore storico; e fin qui la cosa è chiara, pur con le note difficoltà associate alla figura del legislatore
storico. Invece, in una prospettiva che potremmo chiamare dinamica-evolutiva, «l’VIII emendamento
viene proferito da un lettore competente al tempo in cui la norma viene applicata, un lettore che impersona
la società americana» (Canale 2019: 263; 2020: § 7, corsivi aggiunti). Non è chiarissimo cosa significhi che
una disposizione giuridica venga “proferita da un lettore”, né in che modo un lettore impersoni un’intera
società; probabilmente è soltanto un modo involuto per dire che, per questa seconda prospettiva interpretativa, l’interprete deve ipotizzare o costruire un legislatore ideale fittizio che si esprime nel linguaggio
della società attuale. Cioè, che l’interprete deve ricorrere all’interpretazione evolutiva.
104
NORME INESPRESSE
Canale indica forse un po’ frettolosamente, non sembrano affatto idonei allo scopo,
quantomeno in assenza di ulteriori informazioni. Quali sono, infatti, i canoni interpretativi rilevanti? tutti quelli censiti dalle teorie dell’argomentazione, o solo alcuni
di essi?32 e vanno impiegati in tutte le loro possibili declinazioni? o solo, ad esempio,
nel modo in cui sono intesi dalla “giurisprudenza prevalente”? e come si individua
quest’ultima? e quali sono le tesi dogmatiche “in uso”? in uso da parte di chi?33 E
così via. Con l’aggravante, peraltro, che Canale afferma in maniera invero un po’
fideistica che tutto ciò dovrebbe produrre un risultato determinato, e dunque una
netta distinzione tra norme espresse e norme inespresse. Ma, almeno fintantoché i
criteri interpretativi non siano ragionevolmente specificati, una simile affermazione
non appare credibile. E si può peraltro dubitare che anche un insieme preciso e
ben determinato di criteri interpretativi sia sempre, o anche solo talvolta, in grado
di produrre esiti interpretativi determinati: ad esempio, ammesso che i giuristi usino come criteri interpretativi solo l’argomento letterale e quello dell’intenzione del
legislatore (come auspicato dall’art. 12 preleggi), si può forse presumere che questi
criteri producano sempre, o anche solo talvolta, esiti interpretativi determinati?34
In secondo luogo, Canale sembra ordinare i tre criteri indicati per delineare la
cornice (le regole della lingua, i canoni interpretativi applicati dai giudici e le tesi
dogmatiche in uso) secondo una progressione (ovviamente logica, non cronologica):
dapprima si consultano le regole della lingua, dotate di certe “potenzialità semantiche”, selezionando così un primo ambito dei significati ammissibili; poi, all’interno
di questo ambito, andrà fatta una selezione sulla base dei canoni interpretativi applicati dai giudici e delle tesi dogmatiche in uso35. La cornice dei significati è dunque
una sottoclasse dei significati linguisticamente ammissibili. Questo però produce
esiti un po’ controintuitivi. Infatti, un significato che risulti perfettamente legittimo
dal punto di vista degli usi linguistici, ma che non sia anche supportato dai canoni
interpretativi e tesi dogmatiche in uso, dovrebbe essere qualificato come una norma
inespressa. Si avrebbe in tal caso una norma inespressa dotata però, in ipotesi, di un
diretto e inequivoco aggancio testuale, il che sembra un po’ strano.
32
Barberis 2006 ne censisce 10. Tarello 1980: cap. VIII ne censisce 15. Chiassoni 2007: 80-96 ne
censisce 25.
33
Non sembrano granché risolutive le formule utilizzate da Canale, quali: osservare «il comportamento di una comunità linguistica considerata nel suo complesso» (2019: 250; 2020: § 4), osservare «la
prassi interpretativa e argomentativa nel suo complesso» (2019: 265; 2020: § 7), operare un «censimento
degli argomenti interpretativi utilizzati in un ordinamento» (2019: 265; 2020: § 7). (Si ricordi che l’obiettivo di Canale è «distinguere in modo chiaro e analiticamente rigoroso le norme espresse dalle norme
inespresse, così come l’interpretazione dalla costruzione giuridica»; 2019: 248; 2020: § 3.)
34
Cfr. Celano 2019: 56-59, per la tesi che l’attività interpretativa consiste nell’implementare una
funzione, la “funzione E”, che non è mai né “compiutamente determinata” (cioè capace di assegnare a
ogni enunciato da interpretare uno e un solo significato), né “ben determinata” (cioè capace di assegnare
a ciascun enunciato da interpretare un insieme finito, e predeterminato, di significati).
35
Canale 2019: 264; 2020: § 7.
105
GIORGIO PINO
Inoltre, utilizzando lo schema di Canale una stessa norma linguisticamente ammissibile potrebbe cambiare il proprio status da espressa a inespressa (o viceversa)
nel corso del tempo, a seconda che cambino le convenzioni interpretative e le tesi
dogmatiche di riferimento. Consideriamo, ad esempio, una norma N, corrispondente ad un possibile significato linguistico di una disposizione e ricavata tramite una
certa tecnica interpretativa TI; N è dunque una norma espressa; ove però la tecnica
interpretativa TI venisse successivamente abbandonata36, N diventerebbe una norma inespressa – pur essendo sempre qualificabile come un legittimo significato (linguistico) di quella disposizione. E lo stesso vale, ovviamente, per il caso inverso: il caso
cioè dell’irrompere37 di una tecnica interpretativa nuova (che so, l’interpretazione
conforme a CEDU, l’argomento comparatistico…), che consente di selezionare un
significato linguisticamente ammissibile ma finora ignorato dai giuristi; avremmo
così una norma espressa, che fino a quel momento era però una norma inespressa
pur essendo, in ipotesi, perfettamente accettabile dal punto di vista linguistico.
Argomenti “interpretativi” vs. argomenti “costruttivi”. Canale fa dipendere la distinzione tra interpretazione e costruzione (e dunque tra norme espresse e inespresse) dagli argomenti effettivamente utilizzati dai giuristi per giustificare una certa
decisione (tanto che Canale ammette che in taluni casi la distinzione non è chiara,
è indeterminata, solo a causa dell’opacità delle argomentazioni presentate dai giuristi)38. Questa è una distinzione dicotomica: un argomento interpretativo non può
essere anche un argomento costruttivo, e viceversa. Ebbene, mi sembra che questa
tesi sia piuttosto problematica.
Ci si può chiedere infatti in che modo Canale utilizzi la nozione di “argomento”
(o “inferenza”, “struttura inferenziale”, e simili). Sembra che Canale impieghi questa nozione per denotare non solo il modo in cui si passa da certe premesse a certe
conclusioni, ma anche il tipo di materiale utilizzato nell’argomentazione (un testo
normativo, una lacuna, ecc.), e altresì il tipo di output che essa produce. È possibile,
ovviamente, usare la nozione di “argomento” in questo modo; ma dovrebbe essere
chiaro che non si tratta dell’unico modo possibile di usare questa nozione. Anzi, mi
sembra più frequente, in logica e in teoria dell’argomentazione, che le nozioni di “argomento”, “inferenza” e simili, siano usate in una maniera più neutra e “formale”, a
36
E nuovamente, si porrebbe il problema: quanto tempo ci vuole per far considerata come “abbandonata” una tecnica interpretativa, e quanti giuristi devono averla abbandonata? Non sto dicendo
che simili interrogativi non possano avere qualche tipo di risposta, ma mi pare chiaro che la risposta non
potrà essere determinata, se non in via di stipulazione (problema del sorite).
37
Nuovamente: da parte di quanti giuristi? Per quanto tempo? Ecc.
38
Canale 2019: 264; Canale 2020: § 7. A dire il vero, Canale afferma anche che compito della teoria
dell’argomentazione è portare alla luce le premesse implicite delle argomentazioni dei giuristi. Condivido, ma allora non mi è chiaro perché poi Canale faccia dipendere la distinzione tra interpretazione e
costruzione dagli argomenti effettivamente presentati dai giuristi.
106
NORME INESPRESSE
denotare cioè solo il tipo di passaggio dalle premesse alla conclusione dell’argomento
stesso: così, un argomento è deduttivo a prescindere, ad esempio, dalla circostanza
che produca una conclusione vera oppure una conclusione falsa (la verità o la falsità
della conclusione dipenderà dalla verità o falsità delle premesse, mentre il modus ponens, ad esempio, è sempre un argomento deduttivo indipendentemente dalla circostanza che operi su premesse vere o su premesse false). Ebbene, mi sembra che la distinzione, nel modo in cui è istituita da Canale, tra inferenze interpretative e inferenze
costruttive dipenda in gran parte – non dalla struttura “formale” dell’argomento,
ma – proprio dal diverso tipo di output che esse rispettivamente producono. Un’inferenza interpretativa è, per Canale, un’inferenza che produce una norma espressa,
mentre un’inferenza costruttiva è un’inferenza che produce una norma inespressa.
Ora, in teoria dell’interpretazione è stato più volte notato che molti schemi argomentativi – in verità la maggior parte – possono essere impiegati indifferentemente per
individuare norme espresse e norme inespresse39. Perfino l’argomento dell’intenzione del legislatore, che è di solito considerato uno degli argomenti interpretativi più
formalisti e “conservatori” (o “statici”), potrebbe giustificare l’individuazione di una
norma inespressa, ad esempio se collegato alle presunte intenzioni controfattuali del
legislatore. La differenza tra argomenti interpretativi e argomenti integrativi, eventualmente, sta non tanto nel tipo di argomenti impiegati, e forse neanche nel tipo di
“materiali” utilizzati40, ma esattamente nell’output del procedimento argomentativo
– a seconda, cioè, che la norma individuata possa essere o no considerata come il significato di un testo normativo, e dunque più o meno direttamente da esso “veicolata”,
“formulata”, ecc. Ma se è così, allora diventa evidente che il vero lavoro, nella distinzione tra norme espresse e inespresse, viene svolto dal rapporto (qualunque cosa ciò
39
Questo è stato notato, di volta in volta, a proposito della capacità dell’argomento a simili di
giustificare tanto un’interpretazione estensiva quanto un’analogia (Bobbio 1968; Tarello 1980: 350-354;
Guastini 2001; 2004a: 159-160; 2011: 282); a proposito della capacità dell’argomento teleologico di
fondare sia norme espresse sia norme inespresse (Diciotti 2013). Per affermazioni ancora più generali,
Tarello 1980: 392-394 (che considera la distinzione tra argomenti interpretativi e argomenti produttivi
«poco fondata», e non dettata «da una realistica considerazione di ciò che gli argomenti servono a fare»);
Guastini 2004a, 180-181; 2011: 277 (secondo cui tutti gli argomenti “produttivi”, con la sola eccezione
dell’argomento a contrario, sono anche argomenti interpretativi); Pino 2013: 90-94.
40
Infatti, anche la tesi (Guastini 2004a: 104; Canale 2019: 243) che i procedimenti interpretativi
prendono le mosse da disposizioni, mentre i procedimenti costruttivi prendono le mosse da norme (a
loro volta espresse o inespresse), di per sé sola non è molto convincente. Per un verso è solitamente
ammessa l’esistenza di norme “isomorfe”, lessicalmente identiche alle (e dunque indistinguibili dalle) disposizioni interpretate (v. infra, § 3): un procedimento argomentativo che ha come punto di partenza una
norma isomorfa sarà interpretativo o costruttivo? e cosa lo distingue da una “innocua” interpretazione
correttiva? Per altro verso, è assolutamente normale che gli interpreti non operino direttamente sui testi
delle fonti del diritto, ma piuttosto su precedenti interpretazioni (cfr. Pino 2016: 37, sulla distinzione tra
“disposizioni genuine” e “disposizioni spurie”); dovremmo dunque inferirne che l’assoluta maggioranza
dei procedimenti argomentativi dei giuristi sono, per questa sola ragione, procedimenti costruttivi che
producono norme inespresse?
107
GIORGIO PINO
voglia dire) tra l’esito interpretativo e il testo di partenza, anziché dal tipo di argomenti
messi in campo. E così, a ben vedere, dovrebbe essere anche per Canale, che come
abbiamo visto adotta una certa versione della teoria della cornice. Anche per Canale,
dunque, la differenza tra norme espresse e norme inespresse non può che dipendere
esclusivamente dalla circostanza che la norma individuata stia dentro oppure fuori
dalla cornice, a prescindere dal tipo di argomenti impiegati per individuarla.
La distinzione tra argomenti interpretativi e argomenti costruttivi si rivela così
del tutto ridondante, parassitaria rispetto alla distinzione tra ciò che sta dentro e ciò
che sta fuori dalla cornice. Non svolge alcun ruolo autonomo41.
La norma che visse due volte. Uno dei frutti della distinzione categorica, difesa
da Canale, tra interpretazione e costruzione è la tesi, invero un po’ singolare, secondo cui una norma – una stessa norma – può essere espressa e inespressa allo stesso
tempo42. Infatti, secondo Canale, se quella norma è stata individuata con un procedimento interpretativo, allora conta come norma espressa; mentre se quella stessa
norma è stata individuata con un procedimento costruttivo, allora conta come norma inespressa. Così, ad esempio, pensiamo ad un giurista che abbia tratto in via di
interpretazione (più o meno) letterale dall’art. 575 c.p. la norma espressa “È vietato
l’omicidio”; non contento, il nostro giurista interroga poi i principi costituzionali,
rinviene un principio (inespresso) secondo cui l’ordinamento tutela il diritto inviolabile alla vita, e – con tipico procedimento costruttivo – da tale principio deriva
per concretizzazione la regola “È vietato l’omicidio”. A questo punto, la norma “È
vietato l’omicidio” avrà contemporaneamente lo status di norma espressa e di norma
inespressa.
Nuovamente, mi sembra che gli schemi concettuali adottati da Canale si rivelino
troppo rigidi, e finiscano per generare esiti controintuitivi43. Mi sembrerebbe molto
41
Questa difficoltà non è sfuggita a Chiassoni 2019: 123, che ha avvertito come la propria distinzione tra norme espresse e norme inespresse da una parte, e tra interpretazione e integrazione dall’altra
(distinzione simile, sotto questo specifico aspetto, a quella di Canale) sia a rischio di circolarità. Chiassoni
risolve la cosa affermando che si tratterebbe comunque di una circolarità non viziosa, ma virtuosa. Che
sembra solo un modo elegante di lanciare la palla in tribuna.
42
Canale 2019: 245, 251; 2020: §§ 3 e 5. Non è chiarissimo se Canale intenda dire che in questi casi
ci sono due norme (una espressa e una inespressa), oppure che c’è una norma sola, espressa e inespressa
allo stesso tempo. I passi in cui Canale enuncia questa tesi legittimano entrambe le letture. Ma in fin dei
conti questa può essere considerata una questione solo nominalistica, la cui soluzione non cambia granché dal punto di vista del problema teorico di cui ci stiamo occupando.
43
Peraltro, non si vede perché fermarsi alla distinzione norme espresse/norme inespresse. Se,
come sostiene Canale, ad essere determinante è la struttura dell’argomentazione messa in campo, allora
perché non parlare anche di “norme letterali” (ricavate con un argomento letterale), “norme psicologiche” (ricavate con un argomento psicologico), “norme teleologiche” (ricavate con un argomento teleologico), “norme conformi a” (ricavate con un’interpretazione adeguatrice), ecc.? Con la conseguenza, nuovamente, che una stessa norma potrà essere contemporaneamente una “norma letterale”, “psicologica”,
“teleologica”, “apagogica”, “sistematica”, ecc.
108
NORME INESPRESSE
più semplice e lineare, invece, descrivere l’esempio della norma “È vietato l’omicidio” nel senso che quella norma (in ipotesi, norma espressa in quanto agevolmente
riconducibile ad un testo normativo come suo significato) possa essere giustificata/
argomentata non solo sulla base di argomenti testuali, ma anche sulla base di argomenti più complessi. Questo, evidentemente, non influisce di per sé sullo status
della norma dal punto di vista della distinzione tra norme espresse e inespresse,
ma piuttosto sulla qualità e cogenza degli argomenti messi in campo, e dunque sui
relativi “oneri argomentativi”, nonché su ulteriori operazioni argomentative che il
giurista potrebbe voler intraprendere a partire da quella norma (nel nostro esempio,
la norma “È vietato l’omicidio” apparirebbe infatti non più come una norma di rango meramente codicistico, ma altresì come una norma in qualche misura richiesta
dalla stessa Costituzione: a cambiare non sarebbe più lo status espresso o inespresso
della norma, ma la sua “forza”, la sua “autorevolezza”).
3. Abbandonare la cornice
Tiriamo le fila. È ampiamente accettata, quantomeno dai teorici del diritto,
l’idea che l’ordinamento giuridico comprenda o possa comprendere non solo norme espresse, ma anche norme inespresse. Ma non è chiaro in che modo distinguere
le une dalle altre. I tentativi più sofisticati elaborati a tal fine sembrano destinati al
fallimento. La “cornice” non ha confini determinati. La distinzione tra argomenti
“interpretativi” e argomenti “integrativi” (“produttivi”, “costruttivi”) non riesce –
quantomeno nella maggior parte dei casi – a mantenersi parallela a quella tra norme
espresse e norme inespresse.
Cosa è andato storto? Il principale punto debole delle tesi che ho discusso finora
consiste, ritengo, nel volersi affidare ad una metafora inadeguata, e a distinzioni categoriche. La cornice è una metafora inadeguata perché veicola l’idea della precisione: una cornice non delimitata non ha molto senso44. (L’uso metaforico di “cornice”
ha, come condizione minima di sensatezza, che l’entità metaforizzata abbia confini
precisi.) E i tentativi di dare contenuto determinato a questa metafora si sono rivelati fallimentari.
Il problema dunque sta proprio qui: nel tentativo di dare una parvenza di determinatezza ad un fenomeno (la distinzione tra interpretazione e integrazione, tra
norme espresse e norme inespresse) che in sé non è determinato. Da ciò, l’artificiosità, e in fin dei conti l’implausibilità, dei tentativi di ricondurre questo fenomeno
44
Abbiamo visto che mentre Guastini ammette l’indeterminatezza della cornice (§ 2.1), Canale sostiene invece che la cornice sia un concetto rigoroso e determinato (§ 2.2). Nel primo caso (Guastini), la
metafora della cornice è dunque inappropriata; nel secondo (Canale) il modo in cui la cornice è costruita
ha mostrato che in realtà essa non è affatto determinata.
109
GIORGIO PINO
ad un’immagine, come la cornice, che veicola esattezza, precisione, confini ben delineati. Forse abbiamo bisogno di metafore, o comunque di strumenti concettuali,
che tengano adeguatamente conto di questo aspetto del fenomeno di cui ci stiamo
occupando. Non “la cornice”, dunque, ma magari “la costellazione”, “la nebulosa”
o, perché no?, “il cancello” (un cancello non è necessariamente chiuso, può essere
socchiuso, aperto, spalancato, non a tenuta stagna, ecc.)45.
Quale concettualizzazione alternativa si potrebbe impiegare per rendere meno
intrattabile questo fenomeno?
3.1. La struttura del procedimento interpretativo
Proviamo, innanzitutto, a cambiare angolo visuale: non più l’angolo visuale
“statico”, o “geografico”, della distinzione tra aree di significati (di qua ciò che sta
dentro la cornice, di là ciò che sta fuori; di qua i significati ammissibili, di là quelli
non ammissibili; di qua l’interpretazione “propriamente detta”, di là la “creazione
di diritto nuovo”46; di qua il diritto “di produzione legislativa”, di là il diritto “di
produzione giudiziale”47; di qua il diritto “vigente”, di là il diritto “vivente”48); ma
piuttosto l’angolo visuale, “dinamico”, che guarda all’interpretazione come attività.
È possibile infatti ricostruire l’attività interpretativa come un processo che prende le mosse da una “prima interpretazione”, o interpretazione prima facie, del testo
da interpretare, e che si conclude con l’individuazione di una interpretazione “tutto considerato” o, per l’appunto, interpretazione “conclusiva”49. L’interpretazione
conclusiva rappresenta una condizione di equilibrio, che l’interprete ritiene di aver
raggiunto dopo aver soppesato – alla luce di considerazioni che gli appaiono rilevanti in base alla sua competenza tecnica, alla sua ideologia giuridica, al suo senso
di giustizia ecc. – la plausibilità, l’accettabilità, l’applicabilità, la validità ecc. della
norma ottenuta tramite l’interpretazione prima facie.
Tipicamente, l’interpretazione conclusiva individua la norma destinata ad essere
utilizzata come premessa maggiore di un sillogismo giuridico decisionale. Ma ovviamente le norme così individuate possono essere “usate” anche in contesti diversi da
quelli immediatamente applicativi, come ad esempio in un’argomentazione dottrinale; così come possono essere usate a fini diversi rispetto al figurare nella premessa maggiore di un sillogismo decisionale: ad esempio, l’interpretazione conclusiva
45
L’espressione “nebulosa di significati” è usata da Diciotti 2015: 49; dei “cancelli delle parole” parla
Irti 2016. Che sia preferibile abbandonare la metafora della cornice è sostenuto anche da Barberis 2020.
46
Guastini 2011: 60 (e cfr. supra, n. 14).
47
Canale 2019: 241.
48
Ferrajoli 2013: 128-133. Altrove però Ferrajoli (2016: 177) ha riconosciuto che la soggezione del
giudice alla legge «è questione di grado».
49
Per questo schema di analisi dell’attività interpretativa, Chiassoni 1999b: 24-26; Diciotti 1999:
203 e passim; Ratti 2008: 236 ss.; Guastini 2011: 111, 401-402, 405; Pino 2016: cap. I.
110
NORME INESPRESSE
può portare il giurista a sollevare (o a proporre che sia sollevata) un’eccezione di
costituzionalità su quella norma; o a rilevare che quella norma debba considerarsi
tacitamente abrogata. Al limite, il giurista potrebbe anche ritenere che la norma
individuata a seguito di interpretazione conclusiva non sia neanche astrattamente
idonea ad essere applicata: o perché del tutto inintelligibile50, oppure perché priva
di significato propriamente normativo dovendo essere piuttosto qualificata come un
mero “programma”, una clausola di stile, una formula meramente retorica, ecc.51.
Si badi: quella appena descritta è una scansione in senso ampio “logica”, che
non pretende di descrivere ciò che effettivamente accade nella testa dell’interprete;
anche se si può ragionevolmente ipotizzare che spesso un processo simile abbia
effettivamente luogo anche sul piano psicologico. Inoltre, si tratta evidentemente
di una semplificazione, o meglio della ricostruzione di un frammento soltanto del
ragionamento giuridico; questa immagine, in particolare, lascia in ombra il lavoro
interpretativo “anteriore”, che l’interprete svolge al fine di identificare una disposizione come disposizione, come frammento del discorso delle fonti52.
Ora, se si mettono a confronto la norma individuata tramite interpretazione prima facie e la norma individuata tramite interpretazione conclusiva, può accadere:
1) che la norma individuata tramite interpretazione conclusiva risulti identica alla
norma individuata tramite l’interpretazione prima facie; oppure,
2) che la norma individuata tramite interpretazione conclusiva evidenzi uno “scarto”, maggiore o minore, rispetto alla norma individuata tramite interpretazione
prima facie – ossia una maggiore o minore “distanza” tra il significato più immediato che si può attribuire alla disposizione di partenza, e la norma formulata
dall’interprete53.
Nel primo caso, avremo una norma (conclusiva) che semplicemente riproduce,
reitera, conferma, il significato prima facie54.
50
Kelsen 1934: 128 («La legge stabilisce qui appunto una cosa priva di senso. Ciò non è da escludere perché le leggi sono opera umana. Una norma può avere anche un contenuto privo di senso»);
Kelsen 1960: 281.
51
Si tratta, in altre parole, di “disposizioni senza norme” (Guastini 2011: 69), in questo caso ottenute tramite una “interpretazione abrogante” (Tarello 1980: 36-37, 305; Chiassoni 2007: 135-136). Per
alcuni esempi, Pino 2014: 54-57, 78-80.
52
Comanducci 1992: 39. Per una ricostruzione dettagliata di alcune di queste attività interpretative “anteriori” all’interpretazione della disposizione, Pino 2014.
53
Ho già usato la nozione di “scarto” in Pino 2016: 31-36, riprendendola, con qualche adattamento,
da Gianformaggio 1988. Cfr. anche Chiassoni 2007: 124, che parla di «distanza tra una disposizione e la sua
traduzione giudiziale» (si ricordi però che Chiassoni adotta lo schema concettuale della cornice: supra, n. 29).
54
Si può parlare in questo caso di norma “isomorfa”: cfr. Chiassoni 2007: 124. La nozione di “isomorfia” proviene da Wróblewski 1967: 14; Dascal, Wróblewski 1988: 215, 221 (che però utilizzano la
nozione di isomorfia in maniera parzialmente diversa da come è stata intesa qui, a denotare la situazione
in cui un caso concreto è perfettamente sussumibile nella norma che corrisponde al significato più ovvio
del testo normativo).
111
GIORGIO PINO
Nel secondo caso, avremo una norma (conclusiva) che è stata ricavata a seguito
di una “correzione” del, o più in generale uno scostamento dal, significato prima
facie: correzione e scostamento che potranno essere più o meno intensi, e al limite
potranno spingersi anche ad individuare, per la norma conclusiva, un contenuto
che non può affatto essere considerato come un significato della disposizione di
partenza.
Questo quadro, ovviamente, è ancora incompleto. Per un verso, infatti, occorre
chiarire che cosa conti, qui, come significato prima facie. Per altro verso, occorre vedere meglio in cosa possono consistere i possibili scostamenti dal significato prima facie.
3.2. Il significato prima facie (L’interpretazione0)
Dunque, che cosa è, qui, il significato prima facie? Con questa espressione intendo fare riferimento ad una nozione affatto minimale, al “grado zero” del procedimento interpretativo55: mi riferisco cioè al significato della disposizione che risulta
più ovvio dal punto di vista delle regole linguistiche, alla luce delle convenzioni sintattiche e semantiche tipiche della pratica giuridica di riferimento.
Il linguaggio del diritto ha, notoriamente, una struttura stratificata56. Talvolta,
il linguaggio giuridico incorpora senz’altro il linguaggio ordinario. Talvolta, il linguaggio giuridico utilizza un linguaggio “tecnico”, inteso come linguaggio specifico del diritto, con termini che non si ritrovano anche nel linguaggio ordinario57.
Talvolta, infine, il linguaggio giuridico si presenta come linguaggio “tecnicizzato”:
o nel senso che il diritto contiene vocaboli che sono presenti anche nel linguaggio
ordinario, ma assegnando ad essi un significato del tutto diverso58; o nel senso che
il diritto contiene vocaboli che sono presenti anche nel linguaggio ordinario, ma
selezionando uno specifico significato tra i diversi che quel vocabolo ammetterebbe
anche nell’uso ordinario59; o, infine, nel senso che il diritto sfrutta (non vocaboli
ma) strutture sintattico-grammaticali e costruzioni lessicali del linguaggio ordinario
in un modo peculiare – in un modo, cioè, che nel linguaggio ordinario suonerebbe
astruso o sorprendente, anche se non incomprensibile, mentre nel linguaggio giuridico appare del tutto normale60.
55
Riprendo questa espressione, che trovo molto efficace, da Celano 2019: 57-58.
Su questo aspetto del linguaggio giuridico, Scarpelli 1976: 995-996; Tarello 1980: 108-117; Irti
1990: 72-73; Belvedere 2000: 560-561; Mortara Garavelli 2001; Schauer 2015.
57
“Abigeato”, “novazione”, “comodato”, “anticresi”, “anatocismo”, “enfiteusi”, “accomandita”,
contratto “estimatorio”, “patto commissorio”, “azione revocatoria”, “sostituzione fedecommissaria”,
“quota di legittima”, “rescissione”, “evizione”, “rogatoria”, “litispendenza”…
58
“Compromesso”, “successione”, “confusione”, “invenzione”, “delazione” (dell’eredità), “rappresentazione”, “colpa”, “capacità”, (atto di) “citazione”, “competenza”, “prescrizione”, “decadenza”,
“mora”, “azione”…
59
“Erede”, “tributo”, “residenza”, “assenza”, “corruzione”, “parente”…
60
Un esempio è la prassi da parte dei testi normativi di veicolare prescrizioni attraverso il modo
56
112
NORME INESPRESSE
La presenza massiccia di termini tecnici e tecnicizzati all’interno del linguaggio
giuridico ha come conseguenza che l’interpretazione prima facie, il “grado zero” del
processo interpretativo, non possa essere ancorata esclusivamente alle regole e agli
usi linguistici “generali” del linguaggio ordinario. È implausibile, ed euristicamente
ozioso, supporre che nell’interpretazione della parola “confusione” in un articolo
del codice civile, vi debba essere concettualmente un primo stadio dell’interpretazione in cui il giurista si domanda se tale articolo faccia riferimento ad uno stato di
smarrimento mentale anziché ad un particolare modo di acquisto della proprietà.
Così come è implausibile, ed euristicamente ozioso, supporre che nell’interpretazione dell’art. 575 c.p. vi debba essere concettualmente un primo stadio dell’interpretazione in cui il giurista si chiede se tale articolo stia raccontando una storia o
esponendo i risultati di una ricerca sociologica, anziché stabilire un precetto.
Dunque, l’interpretazione prima facie, il primo esito (da un punto di vista concettuale) dell’attività interpretativa, consiste nell’attribuire al testo da interpretare
il significato più ovvio, alla luce non solo delle regole del linguaggio ordinario (di
cui il diritto, ovviamente, si serve), ma anche alla luce delle convenzioni sintattiche
e semantiche proprie del diritto, e che rendono il linguaggio giuridico anche un
linguaggio tecnico e tecnicizzato. Chiamerò questo livello dell’interpretazione “Interpretazione0”.
Una precisazione è necessaria. Nel diritto si possono trovare tecnicismi e tecnicizzazioni di varia origine. In particolare, possiamo trovare a) tecnicismi e tecnicizzazioni presenti e definiti nel linguaggio delle fonti: ciò vuol dire che il diritto
positivo contiene testualmente gli strumenti per attribuire a quei termini un significato almeno provvisorio, ad esempio tramite le definizioni legislative, le rubriche,
il co-testo (i commi di uno stesso articolo; gli articoli immediatamente precedenti
e seguenti di una stessa legge, o appartenenti allo stesso “capo”, “titolo”, ecc.); b)
tecnicismi e tecnicizzazioni presenti e definiti solo nel linguaggio dei giuristi, e non
anche da parte del diritto positivo61; e anche c) tecnicismi e tecnicizzazioni presenti
nel linguaggio delle fonti, ma definiti (solo) dai giuristi62.
Ebbene, l’interpretazione0 è una nozione minimale, corrispondente appunto al
“grado zero” del procedimento interpretativo, nel senso che essa individua un significato prima facie alla luce solo delle tecnicizzazioni operate dal diritto positivo stesso;
verbale indicativo, anziché l’imperativo; oppure di impiegare espressioni apparentemente descrittive,
anziché prescrittive o deontiche (cioè, non accompagnate da “si deve”, “è vietato”, o simili: art. 575 c.p.
«L’omicidio è punito…»). Un altro esempio è lo stucchevole uso della congiunzione “ovvero” a significare, invariabilmente, “oppure” (anziché, come sembra più frequente nell’italiano comune, “ossia”).
61
L’esempio più famoso è “negozio giuridico”. Per la distinzione tra “tecnicizzazioni legislative” e
“tecnicizzazioni dottrinali”, Tarello 1980: 113. V. anche Irti 1967: 170, che distingue tra “nomenclatura
legale” e “nomenclatura scientifica” (cioè dottrinale).
62
Un esempio di quest’ultimo caso è il concetto di “dolo”, presente nel codice penale e nel codice
civile, ma privo di definizione legislativa. Lo stesso si può dire per “nesso di causalità”.
113
GIORGIO PINO
non include invece anche i significati consolidati nel “diritto vivente”, o da parte
della “dottrina maggioritaria”, o simili: queste variabili interpretative appartengono
a fasi più “critiche” del procedimento interpretativo, e dunque entrano in gioco
in momenti (concettualmente) successivi del procedimento interpretativo rispetto
all’interpretazione prima facie.
3.3. Oltre il significato prima facie (Interpretazione1, Interpretazione2,
Interpretazione3…)
L’interpretazione0 è scarsamente informativa. È vero che essa è già un’interpretazione, che presuppone certe scelte, nonché il possesso da parte dell’interprete di
certe abilità “tecniche”, e che inoltre mette fuori gioco alcune possibilità semantiche: ad esempio, la possibilità che la disposizione interpretata incorpori significati
“comuni” anziché tecnici o tecnicizzati – con ciò eliminando, almeno provvisoriamente, una possibile ambiguità nel testo da interpretare. Tuttavia, normalmente
l’individuazione del significato prima facie lascia ancora aperte numerose questioni
e numerose scelte interpretative.
Il significato prima facie, infatti, può essere ambiguo, o indeterminato (talvolta,
talmente indeterminato da essere inservibile se non passando per una previa “concretizzazione”); può fare rinvio ad altre disposizioni, anch’esse bisognose (ovviamente) di interpretazione; può essere tale da generare una lacuna, o una antinomia;
può apparire obsoleto, o inadeguato alla luce di certi principi e valori che si assumono rilevanti per l’ordinamento; può incontrare casi inediti, imprevisti, ai quali
sembra offrire una soluzione inadeguata. L’interprete potrebbe, inoltre, ritenere
che in fin dei conti il significato migliore (conclusivo) del testo da interpretare sia
non quello tecnicizzato, ma proprio quello ordinario. In sintesi, una interpretazione
conclusiva che si limiti semplicemente a reiterare l’interpretazione0 (in cui, cioè, vi
fosse uno “scarto nullo” tra l’interpretazione prima facie e l’interpretazione conclusiva) con ogni probabilità risulterà, nella maggior parte dei casi se non in tutti,
insoddisfacente63.
In tutte le ipotesi appena viste, che corrispondono peraltro all’assoluta normalità
dei casi nel lavoro del giurista, il procedimento interpretativo passa dunque ad una
fase successiva, in cui si operano vari tipi di scostamenti rispetto al significato prima
facie. Qui di seguito proverò a passare in rassegna diverse possibili modalità in cui
si possono effettuare questi scostamenti interpretativi, raggruppandole in ragione
dell’intensità dello scarto rispetto al significato prima facie.
63
Guastini 2001: 17, nt. 16: «Di regola, fatto salvo qualche (raro) caso di interpretazione (diciamo
così) “strettamente” letterale, che semplicemente itera (come un’eco) il testo interpretato, l’enunciato
interpretante non riproduce alla lettera, ma riformula l’enunciato interpretato, differenziandosi da esso
sotto il profilo del lessico e/o della struttura sintattica». V. anche Celano 2019: 57-58.
114
NORME INESPRESSE
Un primo gruppo di operazioni si caratterizza per il fatto che la norma conclusiva rimane abbastanza fedele al significato prima facie, pur essendo il frutto di
qualche tipo di intervento manipolativo su di esso. Ecco alcuni esempi.
Correzione (in senso stretto). L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva,
precisa il significato prima facie o elimina una possibile incongruenza in esso, effettuando una sostituzione che viene presentata come puramente lessicale: o ricorrendo ad una sinonimia, cioè sostituendo solo la “parola”, e non la “cosa”, designata
dall’interpretazione prima facie, nella convinzione evidentemente che la sostituzione
lessicale risponda ad usi più diffusi, più tecnicamente adeguati, ecc.: una sostituzione intesa, cioè, solo a chiarire il significato prima facie, senza in alcun modo alterarlo64. Oppure facendo emergere verbi “virtuali”, nascosti ellitticamente nella
prosa in cui è stato redatto il testo da interpretare, al fine di renderne più agevole la
comprensione65. Oppure ancora, infine, correggendo quello che viene inequivocabilmente avvertito come un mero errore materiale nella formulazione testuale della
disposizione di partenza66 (interpretazione correttiva in senso stretto).
Esplicitazione. L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva, arricchisce
o precisa il significato prima facie con un procedimento puramente deduttivo (ad
esempio, tramite una “sussunzione generica”)67, o con uno sviluppo strettamente
logico-definitorio68, oppure facendo appello a consolidate implicature conversazionali, come ad esempio quella che porta a dare per sottintesa la presenza di avverbi
64
Ad esempio, gli “usi”, di cui agli artt. 1 e 8 preleggi, da intendersi come “consuetudini”.
Per alcuni esempi, Serianni 2012: 95-96.
66
Due esempi, piuttosto noti. 1) In materia di impianti industriali potenzialmente inquinanti,
l’art. 25, comma 6, del d.P.R. n. 203 del 1988 considera reato «il trasferimento dell’impianto senza
l’autorizzazione prescritta dall’art. 13»; ma l’art. 13 riguarda l’autorizzazione per la continuazione delle
emissioni di impianti preesistenti, mentre l’autorizzazione da richiedersi per il trasferimento dell’impianto in altra località è contemplata dall’art. 15 (su questa vicenda, v. Corte costituzionale n. 185/1992;
e Guastini 1992). 2) In materia di arresti domiciliari, l’art. 276, comma 1-ter, c.p.p. (prima di un recente
intervento modificativo), era così formulato: «in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata
dimora […]». Come si vede, il significato prima facie di questa disposizione è del tutto incongruo, visto
che il soggetto che si trova agli arresti domiciliari è semmai destinatario, banalmente, di un divieto di
allontanarsi dalla propria abitazione ecc. Ed è proprio così che questa disposizione è stata costantemente interpretata, nel corso dei circa quindici anni in cui questa disposizione è rimasta in vigore in questa
formulazione.
67
Ad esempio, a partire dalla norma prima facie «vietato il furto», corrispondente alla formulazione testuale di una disposizione, in maniera puramente deduttiva si possono derivare le norme N1 «vietato
il furto di automobili», N2 «vietato il furto di televisori», N3 «vietato il furto di libri». Sulla “sussunzione
generica”, Bulygin 1992: 267-268; Guastini 2011: 24-25.
68
Ad esempio, utilizzando la concettualizzazione dei diritti soggettivi elaborata da Hohfeld, si dà
un rapporto di correlazione logico-definitoria a) tra pretesa e obbligo, b) tra libertà e assenza di pretesa,
c) tra potere e soggezione, d) tra immunità e incompetenza. Di conseguenza, se una norma prima facie
attribuisce a Tizio una certa pretesa, essa può (o meglio: deve) essere intesa nel senso che attribuisce a
Caio l’obbligo corrispondente – e così via. In proposito, Pino 2017: 81-84.
65
115
GIORGIO PINO
come “solo”, “soltanto”, “esclusivamente”, anche se non figurano nel testo della
disposizione69.
Estensione. L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva, include nell’ambito di applicazione della norma casi che, alla luce del significato prima facie, risultavano dubbi; in tal modo ottenendo una norma dal campo di applicazione più ampio
rispetto alla norma prima facie (interpretazione estensiva).
Restrizione. L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva, esclude dall’ambito di applicazione della norma casi che, alla luce del significato prima facie, risultavano dubbi; in tal modo ottenendo una norma dal campo di applicazione più
ristretto rispetto alla norma prima facie (interpretazione restrittiva).
Selezione. A fronte di ambiguità presenti nel significato prima facie, l’interprete
sceglie un possibile significato, ad esclusione degli altri. Ciò può accadere non solo
in ragione delle possibili ambiguità presenti nel linguaggio ordinario (che peraltro,
in fin dei conti, dal punto di vista dell’interpretazione giuridica risultano spesso alquanto innocue), ma anche e soprattutto in ragione di ambiguità che potremmo dire
tipiche del linguaggio giuridico, e che consistono nel fatto che uno stesso termine
tecnico o tecnicizzato può essere presente nel linguaggio delle fonti in accezioni diverse, oppure può aver ricevuto tecnicizzazioni diverse in sede di usi dottrinali e giurisprudenziali (le “tecnicizzazioni non univoche”)70. Infine, l’ambiguità da sciogliere
può anche riguardare il dubbio se un termine tecnicizzato presente in un enunciato
delle fonti debba essere inteso secondo il significato, appunto, tecnico-giuridico,
oppure secondo il significato ordinario (dubbio che si pone spesso, in particolare,
nell’interpretazione costituzionale, a causa del basso tasso di tecnicismo giuridico
con cui sono state, volutamente, redatte molte costituzioni contemporanee71).
In tutti questi casi si avrà un’interpretazione conclusiva che, pur manipolando in
vario modo il significato prima facie, è tuttavia suscettibile di essere avvertita dai parlanti competenti – in un contesto culturale dato – come una precisazione del significato della disposizione di partenza, e non come l’invenzione di una norma nuova72.
La norma così individuata intrattiene uno scarto “minimo”, o talvolta uno scarto
“medio”, rispetto all’interpretazione prima facie. Potremmo convenire di chiamare
tutto questo “Interpretazione1”, o “interpretazione correttiva”, o “interpretazione
in senso stretto”.
69
Diciotti 2015. Si pensi all’art. 48 cost.: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno
raggiunto la maggiore età», normalmente interpretato nel senso che il diritto di voto è attribuito solo ai
cittadini maggiorenni.
70
Sulle “tecnicizzazioni non univoche”, e i relativi problemi interpretativi, Tarello 1980: 112-113.
Alcuni esempi (“mobili”, “dolo”, “ammortamento”) si possono leggere in Belvedere 2001-2002.
71
Il “domicilio” di parla l’art. 14 cost. è lo stesso “domicilio” di cui parla il codice civile? O corrisponde alla nozione di “domicilio” nel linguaggio comune? O ad un’altra nozione ancora?
72
È interessante notare che Guastini considera le norme che sono derivazioni logico-deduttive da
norme espresse come norme – sì implicite, ma allo stesso tempo – “positive” (Guastini 2011: 161).
116
NORME INESPRESSE
Ma non è finita qui, ovviamente. Infatti possiamo procedere ancora lungo la
linea dello “scarto”, della “distanza” da un significato prima facie, e imbatterci così
in altre operazioni interpretative piuttosto interessanti.
Sostituzione. L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva, sostituisce uno
o più elementi presenti nella norma individuata con interpretazione prima facie, in
tal modo ottenendo una norma che avrà un campo di applicazione diverso – ma, per
l’interprete, più corretto, o il solo corretto – rispetto a quello della norma prima facie
(interpretazione sostitutiva). Diversamente dalla “correzione in senso stretto” vista
prima, in questo caso non si tratta di una sostituzione meramente lessicale, ma della
sostituzione di un concetto o di un significato con un altro. E, diversamente dall’interpretazione estensiva, non si tratta qui di includere nel campo di applicazione
della norma un caso dubbio, ma di includere un caso diverso da quello contemplato
nel significato prima facie, eventualmente in sostituzione di esso73.
Addizione. L’interprete, in sede di interpretazione conclusiva, integra la norma
prima facie con elementi ulteriori e in essa non previsti (interpretazione additiva)74.
Tali elementi ulteriori potrebbero anche provenire da altre norme, e in tal caso
l’addizione si risolverà in un gioco di incastri tra la norma prima facie e questa altre
norme (il combinato disposto, gli “elementi normativi” delle fattispecie penali).
Concretizzazione. Alcune delle norme individuate in sede di interpretazione prima
facie possono presentare un elevato grado di genericità e di indeterminatezza: nella
loro fattispecie, nella loro conseguenza giuridica, o in entrambe. Si tratta in particolare dei principi (espressi), e delle norme che includono clausole generali e rinvio
a standards. Per norme di questo tipo, l’interpretazione prima facie risulta particolarmente vacua. Per rispondere a domande quali “L’art. 21 cost. protegge la blasfemia?”, “L’art. 32 cost. consente il suicidio assistito?”, “Tirare in lungo una trattativa
precontrattuale è comportamento contrario a buona fede?”, è necessario intraprendere un’operazione di concretizzazione delle norme di partenza, che richiede argomenti che vanno ben al di là una lettura testuale delle disposizioni di riferimento75.
In tutti questi casi, la distanza rispetto al testo di partenza, e alla sua interpretazione prima facie, è decisamente maggiore rispetto a quanto abbiamo visto nell’interpretazione1: la norma conclusiva si trova in un rapporto di scarto “medio”, o talvolta
anche di scarto “massimo”, rispetto all’interpretazione prima facie. Ma non si può
certo dire che in questi casi la formulazione testuale della disposizione, e il suo significato prima facie, non contino nulla: in una discussione sul trattamento giuridico della
73
Un esempio è la prassi pressoché costante della Corte costituzionale di interpretare il riferimento ai «cittadini», contenuto nell’art. 3 cost., nel senso di «tutti» (ad includere, cioè, anche i non cittadini).
74
Ad esempio, una norma prima facie che impone di far indossare la museruola ai cani quando
li si porta a passeggio, viene reinterpretata nel senso che occorre munirsi anche di guinzaglio (riprendo
questo esempio da Belvedere 2001-2002: 570).
75
Guastini 2011: 192-195, 201-203; Pino 2016: 94-96. Si veda però Diciotti 2018, per una critica
alla tesi che l’applicazione di principi richieda sempre concretizzazione.
117
GIORGIO PINO
blasfemia in Italia, ad esempio, sarebbe un po’ strano affermare che l’art. 21 cost., e la
sua formulazione testuale, non abbiano alcun ruolo da svolgere e non facciano alcuna
differenza. Quelle viste qui, dunque, sono ancora attività “interpretative”, anche se
non strettamente testuali76. Potremmo convenire di chiamarle “interpretazione2”, o
“interpretazione-integrazione”.
Infine, procedendo ancora oltre sulla linea dello scarto, dello scostamento rispetto ad una possibile formulazione testuale di partenza e ad un significato prima
facie, troviamo le norme individuate tramite procedimenti argomentativi quali l’analogia, l’introduzione di eccezioni implicite in una norma espressa (che può anche
essere descritta come l’individuazione di una norma inespressa che fa eccezione ad
una norma espressa77), e l’individuazione di principi inespressi con la modalità “dal
basso verso l’alto”, ossia tramite un’abduzione78. In queste ipotesi, il rapporto con
un significato prima facie è ancora più remoto, anche se i procedimenti argomentativi in esse impiegati prendono comunque le mosse (concettualmente) da una o più
norme espresse e dunque presuppongono una previa attività interpretativa rispetto
alla quale sono concettualmente parassitari. Ciò che contraddistingue queste ipotesi, però, è che l’esito del procedimento “interpretativo” non consiste nel pretendere
di assegnare un significato ad un testo di partenza, ma nell’introdurre qualcosa di
nuovo – di nuovo rispetto al significato prima facie, ma presentato come “già presente” nell’ordinamento, quantomeno nel senso di argomentabile a partire da materiali
normativi forniti dall’ordinamento stesso. Potremmo convenire di chiamare tutto
ciò “interpretazione3”, o “interpretazione creativa”, “interpretazione in senso ampio”, “interpretazione-normazione”79.
Ho individuato deliberatamente questi tipi di interpretazione con degli aridi
numeretti (interpretazione1, interpretazione2…), anziché ricorrere a denominazioni
più estrose, per rendere chiare due cose: 1) che non istituisco alcun ordine assiologico tra queste forme di interpretazione; e 2) che ci possono essere buone ragioni
per chiamare tutto ciò interpretazione – una di queste buone ragioni essendo esattamente il carattere graduale e sfumato con cui si transita dall’una all’altra, e la conseguente artificiosità di linee di demarcazione rigide tra le une e le altre.
Infatti, la distinzione tra interpretazione1, interpretazione2, e interpretazione3
dipende in ultima analisi da una nozione non dicotomica ma scalare come quella di
76
Per Guastini, ovviamente, «la concretizzazione non è un’operazione interpretativa in senso stretto: è piuttosto un’operazione “costruttiva”» (Guastini 2011: 201).
77
Salvo il caso in cui la norma N1, alla quale l’eccezione implicita viene associata, non facesse a sua
volta eccezione ad altra norma N2: in tal caso, l’eccezione implicita a N1 avrà l’effetto di far riespandere
il campo di applicazione di N2: cfr. Diciotti 2015: 58.
78
Pino 2010: 65-68.
79
Per formule di questo tipo, v. Chiassoni 1999b: 22-23 (interpretazione “in senso ampio”); Diciotti 1999: 215-217 (“interpretazione-normazione”); Guastini 2011: 29-32 (“interpretazione creativa”).
118
NORME INESPRESSE
“scarto” (o “distanza”, o “scostamento”). E ovviamente non disponiamo di una unità di misura per quantificare lo scarto. Ciò tuttavia non impedisce affatto di stabilire
(salvo i casi di “penombra”) che, rispetto al significato di partenza, N0, la norma N1
risulti intrattenere uno scarto minore rispetto alla norma N2, e ancor più rispetto
alla norma N3. Ciò potrà essere affermato del tutto sensatamente da un parlante in
possesso di competenze linguistiche e giuridiche – esattamente come è normalmente possibile affermare che Tizio è più “divertente”, o più “fantasioso”, di Caio, pur
non essendo tali qualità riconducibili a una unità di misura propriamente detta80.
Di conseguenza, non c’è una netta linea divisoria tra interpretazione1 e interpretazione2, così come non c’è una netta linea divisoria tra interpretazione2 e interpretazione381. Far rientrare nella nozione di “domicilio” la camera d’albergo, il cruscotto di un’automobile, o una roulotte, sono esercizi di interpretazione estensiva
o di analogia? Affermare che il concetto di “titolare di assegno divorzile” include
anche i soggetti astrattamente qualificati a percepire un assegno divorzile (anziché
solo coloro che di fatto già percepiscono tale assegno), è interpretazione estensiva,
interpretazione additiva, o analogia82? Il problema, come ho già avuto modo di dire,
non è che esistano casi dubbi come questi: il problema è l’assoluta preponderanza e
pervasività dei casi dubbi. La gestione dei casi dubbi rappresenta l’assoluta normalità del lavoro del giurista: anche perché il giurista entra in azione esattamente per
decidere i casi dubbi – o per crearli.
Inoltre, come abbiamo già avuto modo di vedere (supra, § 2.2) una distinzione
tra questi tipi di interpretazione non può essere fatta dipendere dal diverso tipo
di argomenti interpretativi messi in campo rispettivamente nell’interpretazione1,
nell’interpretazione2, nell’interpretazione3. L’argomento a simili potrà essere utilizzato per effettuare un’interpretazione estensiva oppure un’analogia. L’argomento
della dissociazione potrà essere utilizzato per effettuare un’interpretazione restrittiva o per individuare un’eccezione implicita83. L’argomento teleologico potrà essere
80
Sulle nozioni “non misurabili”, Endicott 2000: 46-47.
Diciotti 1999: 493. Più netta sembrerebbe essere la linea di separazione tra l’interpretazione0
e l’interpretazione1. In fin dei conti, sembrerebbe, l’interpretazione0 fotografa un significato fissato da
regole interne al diritto positivo, di cui l’interprete si limita a prendere atto – la “vera” interpretazione comincia dopo, con l’interpretazione1, allorché l’interprete mette in campo i suoi ferri del mestiere (tecniche interpretative, tesi dogmatiche…). Questo, in linea di massima, è vero. E tuttavia talvolta
non è facile distinguere con precisione neanche tra l’interpretazione0 e l’interpretazione1. Ciò accade, ad
esempio, quando una certa tecnicizzazione dottrinaria è talmente consolidata da apparire indiscutibile, e
sostanzialmente incorporata nel diritto positivo stesso (si pensi al significato di “dolo”: assolutamente pacifico per definizione dottrinaria, anche se non definito dal diritto positivo). Secondo Riccardo Guastini,
peraltro, «è impossibile tracciare una chiara linea di confine tra il linguaggio del diritto e il linguaggio dei
giuristi: essi sono soggetti ad un continuo processo osmotico» (Guastini 2011: 225).
82
Riprendo questo esempio da Belvedere 2001-2002: 566.
83
Guastini 2011: 282, interpretazione estensiva e analogia sono due modi «di argomentare o di fraseggiare una medesima operazione» (v. anche 276-277, 284). Per la tesi che tra interpretazione estensiva
81
119
GIORGIO PINO
utilizzato sia nell’interpretazione1 sia nell’interpretazione2. Con un ragionamento abduttivo si potrà individuare un principio inespresso, ma anche un principio
espresso. E anche la concretizzazione è un procedimento argomentativo che può
condurre all’individuazione tanto di norme inespresse quanto di norme espresse. Non intendo escludere in assoluto che qualche argomento sia utilizzabile solo
nell’interpretazione1 (o nell’interpretazione2, o nell’interpretazione3): ad esempio, è
verosimile che l’argomento del significato letterale individui invariabilmente norme
espresse. Ma questo non inficia il mio argomento: la mia tesi della assoluta preponderanza di casi dubbi non è confutata dalla presenza di casi paradigmatici di casi
chiari di norme espresse e inespresse (a ben vedere, la presuppone).
In ogni caso, e ancora una volta, io non ho mai preteso di individuare distinzioni
nette: al contrario, uno degli scopi di questo saggio è proprio mostrare che in molti
casi è impossibile, oppure (anche se possibile) inutile, tracciare distinzioni nette.
3.4. Norme espresse e norme inespresse - Redux
Dove ci porta tutto questo, dal punto di vista della distinzione tra norme espresse e norme inespresse?
Come ho detto all’inizio di questo saggio, non è mia intenzione sconfessare
queste nozioni. Infatti, possiamo certamente dire che una norma isomorfa è una
norma espressa (anche se la rilevanza pratica delle norme isomorfe è estremamente
limitata). Probabilmente possiamo qualificare come norme espresse anche molte
norme conclusive individuate a seguito di una correzione del significato prima facie
che si limiti a scegliere tra significati parimenti ammessi (sciogliendo una ambiguità), o che precisi un significato indeterminato restando pienamente all’interno
di un margine di accettabilità, di tollerabilità linguistica (anche dal punto di vista
del linguaggio tecnico e tecnicizzato, come abbiamo visto) nel contesto culturale
di riferimento. Probabilmente possiamo qualificare così anche le norme logicamente implicite. Forse possiamo qualificare così anche le norme non testualmente
formulate, ma derivate tramite una implicatura conversazionale che, nel contesto
culturale di riferimento, sia considerata ovvia. Più o meno, si tratta di ciò che sta
nell’interpretazione1.
Passiamo adesso alla polarità opposta dello spettro. Certamente sono norme inespresse quelle ricavate tramite analogia. Così come le norme che sono ricavate introducendo un’eccezione implicita tra i casi chiari di applicazione del significato prima
facie («le ambulanze sono certamente veicoli, ma…»). E probabilmente sono da
considerarsi inespressi certi principi del tutto privi di formulazione, ma solo dotati
di “indizi di rilevanza” sparsi qua e là nell’ordinamento (il principio della certezza
e analogia vi sia solo una differenza di grado, v. Guastini 1993: 369; Gianformaggio 1987: 327. V. anche
supra, n. 39 e testo corrispondente.
120
NORME INESPRESSE
del diritto, il principio della separazione dei poteri...). Più o meno, è ciò che si può
ricavare con l’interpretazione3.
Tra queste polarità opposte, si trova un mare magnum di possibilità intermedie,
per ciascuna delle quali si potrebbe plausibilmente argomentare di essere in presenza tanto di una norma espressa quanto di una norma inespressa84. Che dire, ad
esempio, della norma ricavata dalla concretizzazione di un principio espresso, ad
esempio costituzionale? e della concretizzazione di una clausola generale? Peraltro,
molte norme individuate con una interpretazione correttiva, e di solito considerate
norme espresse, non sono dotate di un preciso riferimento testuale, quantomeno nel
senso che la norma ottenuta in sede di interpretazione conclusiva si presenta come
un bel po’ diversa rispetto alla norma prima facie.
Ma il problema è anche più profondo e corrosivo di così. Il problema, infatti,
è che non siamo in grado di affermare con certezza quanto scarto sia necessario o
sufficiente per transitare, di scostamento in scostamento, di manipolazione in manipolazione, da una norma espressa a una norma inespressa.
La distinzione tra norme espresse e inespresse è incerta, sfumata, fluida. Al di
fuori dei casi paradigmatici85, non avendo a disposizione una metrica per misurare
lo scarto, non ci resta che imbarcarci in una valutazione della plausibilità, accettabilità, coerenza, ecc. degli argomenti utilizzati per individuare una certa norma
conclusiva.
4. La creatività dell’interpretazione
Concludo questo saggio già troppo lungo con due brevi chiarificazioni, probabilmente non del tutto oziose.
I) La priorità che ho assegnato al linguaggio tecnico-giuridico al fine dell’individuazione del significato prima facie è una priorità concettuale. Non è, ovviamente,
una priorità assiologica: non dipende da opzioni assiologiche come il valore della
certezza del diritto, o la deferenza verso il legislatore democratico; e da nessuna
84
Damiano Canale, come abbiamo visto (nt. 38, e testo corrispondente), ha affermato che questa
indeterminatezza dipende solo dalla opacità degli argomenti usati dai giuristi. Non mi pare che ciò sia
necessariamente vero. Ad esempio, se si ripercorre la nota vicenda giudiziaria di Radio Vaticana (Cass.,
sez. III pen., 13 maggio 2008, in «Foro italiano» 2009, II, 262), si può vedere agevolmente che tanto
l’argomento dell’analogia quanto l’argomento dell’interpretazione estensiva, così come articolati nei vari
gradi di giudizio, erano invero piuttosto efficaci e ben fondati. Esattamente all’opposto di quanto sostenuto da Canale, in questo caso l’indeterminatezza è dipesa anche dalla ricchezza delle argomentazioni
che pesavano su entrambi i piatti della bilancia.
85
Anche i casi paradigmatici, peraltro, hanno una loro precarietà: sono indiscussi solo fino a quando non vengono messi in discussione (con argomenti dotati di qualche plausibilità, ovviamente).
121
GIORGIO PINO
parte ho sostenuto (né la mia tesi offre argomenti in questa direzione) che l’interpretazione (conclusiva) debba rispettare il più possibile il significato prima facie così
definito.
La priorità concettuale del significato tecnico-giuridico deriva dalla particolare
natura del linguaggio giuridico come “linguaggio amministrato”86: un linguaggio in
cui i significati non coincidono del tutto con quelli del linguaggio naturale, ma sono
decisi con atti autoritativi interni alla pratica giuridica. Ma ciò lascia del tutto impregiudicato quale sia il modo migliore, per gli interpreti, di interpretare, rielaborare,
manipolare il significato prima facie. Quest’ultima non è più una questione concettuale, ma – ora sì – assiologica: è la questione della scelta di un codice interpretativo,
scelta che in ultima analisi rimanda alle opzioni etico-politiche dell’interprete. E da
questo punto di vista, il significato tecnico giuridico non ha necessariamente priorità87.
II) La tendenza ad estendere il campo semantico di “interpretazione” al di là
della mera attività di attribuzione di significati a testi (meglio ancora se svolta all’interno delle possibilità circoscritte da una “cornice”), viene talvolta criticata non
solo sulla base di argomenti teorici (la distinzione tra norme espresse e inespresse,
tra argomenti interpretativi e costruttivi…), ma anche sulla base di argomenti pragmatici: tale espansione della nozione di “interpretazione”, infatti, avrebbe l’effetto
di contrabbandare, dietro un’etichetta percepita come rassicurante, da business as
usual, attività che sono in realtà creative, innovative ecc.
Ebbene, anche l’ampliamento del concetto di interpretazione qui proposto (a
ricomprendere l’interpretazione1, l’interpretazione2, l’interpretazione3) risponde
non solo a considerazioni teoriche – quelle esposte finora in questo saggio – ma anche a considerazioni pratiche. Come dovrebbe aver mostrato la mia analisi, infatti,
elementi “creativi”, innovativi, sono presenti in tutti gli stadi dell’interpretazione,
anche nell’interpretazione188. (A cambiare, ovviamente, è l’intensità dell’intervento.
Ma quanta intensità è richiesta per far scattare l’allarme democratico, e l’attentato
alla separazione dei poteri?). L’idea che il diritto “giudiziario”, o il diritto “vivente”,
siano qualcosa di nettamente separato dal diritto “legislativo” – l’idea che i giudici
“creino diritto” solo quando fanno analogia, o quando interpretano “fuori cornice”,
86
La fortunata espressione si deve, come è noto, a Mario Jori (v. ad es. Jori 2013; 2016). Sulle
implicazioni di ciò rispetto all’interpretazione giuridica, v. anche Celano 2019.
87
Come abbiamo visto (supra, nt. 71 e testo corrispondente) è del tutto possibile che, in sede di
interpretazione conclusiva, il significato tecnico-giuridico venga abbandonato in favore di un significato
“comune”.
88
«Entro certi limiti, un’attività integratrice e manipolatrice è connaturale all’interpretare […]
il discorso legislativo» (Tarello: 1980: 37). «La distinction entre interprétation et création, est la simple
reproduction d’une idéologie qui tend à faire croire que l’interprète n’à normalement qu’un pouvoir limité
par le cadre interprétatif» (Troper 2018: 67). «A ben vedere, ogni atto di interpretazione/applicazione di
un testo normativo nasconde una sua trasformazione» (Bin 2020: 25).
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NORME INESPRESSE
o simili – è un’illusione rassicurante. La realtà è ben diversa, e prenderne atto equivale ad un invito a richiedere agli interpreti adeguati standard argomentativi, e a
mantenere alto lo scrutinio anche sulle attività “semplicemente” interpretative, non
solo su quelle “creative”.
Mauro Barberis ha osservato, con ragione, che l’espediente della “cornice” è
servito al realismo giuridico italiano, specialmente nella versione “genovese”, per
immunizzarsi dal rischio dello scetticismo interpretativo estremo89. Se è così, allora
dovremmo considerare la cornice alla stregua di una apparecchiatura ortopedica:
una volta che abbia servito al suo scopo non c’è più bisogno di indossarla. Oltre ad
essere inutile, darebbe solo intralcio. Meglio metterla via.
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89
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