From: DOMUS 1044 (March 2020), pp. 12-16 © Editoriale Domus S.p.A. Milano
Thomas Will
Il patrimonio come risorsa
Heritage as a Resource
Come previsto quasi 50 anni fa in The Limits to
Growth (Donella H. Meadows et al., 1972), gli
effetti dei nostri interventi sull’ambiente hanno
ormai un impatto sulla vita di tutti i giorni. Al
pari dei membri di molte altre professioni interessate, gli architetti si sono dichiarati consapevoli del problema e disponibili ad assumersi la
responsabilità di mitigare una catastrofe globale
che – come sottolineano gli scienziati – si può
ancora scongiurare, anche se solo teoricamente. Secondo l’impegno sottoscritto da oltre
800 studi di architettura nel Regno Unito, per
rendere il settore edilizio parte di un “sistema
autosufficiente in costante rigenerazione”, è necessario un cambio di paradigma.
I passaggi indicati per effettuare questa trasformazione sono numerosi. Come nella maggior parte di questi scenari, la speranza è riposta in materiali e metodi di costruzione rigenerativi e rispettosi del clima, forniti dalla ricerca,
dalle nuove tecnologie e da standard progressivi. Questo si traduce in un’architettura sempre più regolata e, purtroppo, meno direttamente legata a capacità artigianali e immaginazione spaziale. Gli obiettivi mirati a ridurre l’impatto negativo di un’attività edilizia in costante
aumento sono fissati da decenni, ma, anche
dove sono stati parzialmente rispettati, ciò non
ha comportato alcuna riduzione complessiva
delle emissioni di anidride carbonica o di un
sempre crescente uso del suolo. I vantaggi acquisiti sono stati inoltre più che controbilanciati dalla domanda dei consumatori e dall’effetto rimbalzo. È dubbio che in tempi recenti ci
sia stata una significativa attività di costruzione
che possa essere definita sostenibile nel senso
stretto del termine.
Nella dichiarazione d’intenti degli architetti
dobbiamo quindi considerare una componente
di ordine diverso: la semplice necessità di costruire meno. Questa opzione assolutamente
ovvia è stata giustamente posta in primo piano
dal contributo Tedesco “Reduce, Reuse, Recycle. Architecture as Resource” (“Ridurre, riutilizzare, riciclare. Architettura come risorsa”)
alla Biennale di Architettura di Venezia del
2012. Tuttavia, nei nostri sforzi pratici verso
una cultura edilizia sostenibile, viene spesso lasciata da parte. Sappiamo perché: è probabilmente l’opzione più difficile da seguire, sia at-
As predicted almost 50 years ago in “The Limits to Growth,” the effects of our environmental interventions have now reached everyday
life. Like many concerned professions, architects have declared their awareness and willingness to take responsibility for mitigating a
global catastrophe that is – as scientists point
out – still avertible, if only theoretically. According to a pledge signed by over 800 architectural practices in the UK, a paradigm shift
is called for to make the construction industry
part of a “constantly regenerating and selfsustaining system”.
The steps outlined for this transformation
are manifold. As in most such scenarios, hope
is placed in regenerative, climate-friendly
building materials and methods, provided by
research, new technologies and progressive
standards. That means an architecture that is
increasingly regulated and, regrettably, less a
direct outcome of craftsmanship and spatial
imagination. However, such goals to reduce
the negative impact of our ever-increasing
construction activities have been set for decades. Even where they have been partly met,
this hasn’t resulted in any overall reduction in
CO2 emissions or land use expansion. Savings
have been more than offset by consumer demand and rebound effects. It is doubtful
whether there has been any significant building activity lately that may be called sustainable in the strict sense of the word.
We then must consider one component in
the architects’ declaration that is of a different order: the demand to simply build less.
This most obvious option was for instance
rightly given first place in the German contribution ‘Reduce, Reuse, Recycle’ at the 2012
Venice Architecture Biennale. Yet in our practical efforts towards a sustainable building
culture, it is often left aside. We know why. It
is likely the option that is hardest to follow,
whether through a reduction in spatial de1
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traverso una riduzione delle esigenze spaziali,
sia attraverso il rigoroso riutilizzo e la rivitalizzazione del patrimonio edilizio esistente. Ciò
nonostante, diventa sempre più ovvio come,
oltre alla ricerca e alle nuove tecnologie, solo
una radicale presa di distanza dalla narrativa di
una crescita continua possa portare a un correttivo pertinente. Solo allora, il meno (costruzione) sarà di più (riduzione). Come l’esperienza dimostra, la volontà collettiva necessaria
per fare questo sarà abbastanza forte solo se la
minaccia sarà chiara e tangibile. La moderazione richiesta, tuttavia, non sarà causata dalla
retorica apocalittica. Dev’essere intesa come
uno sforzo produttivo, ed è necessario evidenziare i benefici derivanti, nonché il valore sociale e il prestigio a essa collegati.
Per attuare questo cambio di prospettiva,
può rivelarsi utile uno sguardo al passato. Un
secolo fa, l’architettura si è avviata verso un
nuovo mondo dove, secondo la celebre frase di
Ludwig Mies van der Rohe, il meno doveva essere più. Ciò ha portato a una radicale rinuncia
alle forme ricche e pompose dei tardi stili
eclettici, dove ‘meno’ significa meno decori,
meno elementi superficiali, retorici, una riduzione volta a un uso libero di mezzi nell’interesse della precisione formale e tettonica.
Nelle opera migliori tutto ciò ha prodotto una
nuova espressione poetica e una nuova eleganza. Spesso, tuttavia, ha preso l’aspetto sterile e impoverito dei prodotti del Bauwirtschaftsfunktionalismus, criticato poi negli anni Sessanta (“Less is a bore”, “Meno è una noia” di
Robert Venturi).
“Il meno è più” non si riferiva alla mera attività di costruzione. Al contrario, la produzione
edilizia non aveva mai visto un incremento
come nel secolo in cui “il meno è più” è
emerso come principale paradigma dell’architettura. Da quando i “limiti alla crescita” sono
diventati evidenti, essi raramente sono stati direttamente correlati con l’industria delle costruzioni o con le visioni architettoniche. Ora ci
viene ricordato che la sola produzione di cemento provoca l’otto per cento di tutte le
emissioni di CO2. E sappiamo che in Germania,
per esempio, lo spazio abitabile medio per persona è più che raddoppiato dal 1965.
“Il meno è più” non era un ideale puramente
estetico. Mentre cercava l’astrazione, il Movimento moderno rifletteva anche l’economia
dei mezzi necessari per far fronte alle esigenze
spaziali delle società industriali avanzate. Ciò
mands or through the rigorous reuse and revitalization of the existing building stock. Nonetheless, it becomes more and more obvious
that, in addition to research and new technologies, only a radical turning away from the
story of perpetual growth will bring about a
relevant corrective. Only less (construction)
will be more (reduction). As experience tells
us, the collective will necessary for this, it will
only be strong enough if the threat is obvious
and tangible. The required abstinence will,
however, not be brought about by apocalyptic
rhetoric. It needs to be understood as a positive endeavour, with an emphasis on what is
gained, and with social value and prestige attached to it.
For this shift of perspective, a look back can
be useful. A century ago, architecture embarked for a new world in which, according to
Mies van der Rohe’s great phrase, less was
supposed to be more. It was a radical renunciation of the rich and flamboyant forms of the
late eclectic styles. ’Less’ meant less decor,
fewer superficial, rhetoric elements, a reduction aimed at a spare use of means in the interest of formal and tectonic precision. In better works, a new poetic expression and elegance was achieved; often, though, the result
was the sterile, impoverished look-and-feel of
the products of ‘Bauwirtschaftsfunktionalismus’, consequently criticized since the
1960s (R. Venturi’s ‘Less is a bore’).
‘Less is more’ did not refer to the sheer
amount of building activity. On the contrary,
never before has building production undergone such increases as in the century in which
‘less is more’ emerged as a prominent paradigm of architecture. Ever since the ‘Limits to
Growth’ became evident, they seldom were
directly correlated with the construction industry or with architectural visions. Now we
are reminded that cement production alone
causes 8% of all CO2-emissions. And we know
that, for example, in Germany the average living space per person has more than doubled
since 1965.
‘Less is more’ was not a purely aesthetic
ideal. While striving for abstraction, the Modern Movement also reflected the economy of
means necessary to cope with the spatial de2
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che qui interessa è questa ricodifica positiva
della rinuncia ai dettagli decorativi in un principio di progetto progressivo. Possiamo imparare da questo, ora che è tempo d’interpretare
“il meno è più” in un senso più ampio. Riduzione di elementi formali e strutturali, raffinate
versioni del minimalismo: queste non sono più
le preoccupazioni principali. Il tema fondamentale è la riduzione della produzione lorda di
edifici, ma solo se le nostre dichiarazioni d’intenti vanno oltre le vaghe intenzioni. Non più
richiesto dalle condizioni di una cultura di
massa industriale, ma da quelle di una società
postindustriale che affronta emergenze ambientali, il nostro ruolo di architetti è trasformare questa limitazione in un’agenda progettuale sensata. Qui, la conservazione architettonica e urbana entra in gioco come un’autorità
con una lunga tradizione di competenza, di
strumenti legali e di accettazione da parte del
pubblico.
La conservazione moderna del patrimonio
ha avuto origine dall’osservazione che lo sviluppo industriale e i relativi cambiamenti sociali hanno decimato ambienti e paesaggi che
ci erano familiari, caratterizzati in gran parte
dal loro patrimonio architettonico. È successo
a tale velocità e scala che, nel 1815, Karl Friedrich Schinkel ammoniva: “Se ora non si prendono misure molto generali e rigide, [...] presto
ci ritroveremo spaesati, nudi e sterili come una
nuova colonia in una terra disabitata”. L’interesse per l’evidenza storica e la continuità, simboleggiata da grandi opere d’arte e architettura, ha contribuito a creare la conservazione
come progetto critico della modernità. Il suo
obiettivo non era prevenire il progresso, ma
mitigarne gli effetti collaterali di distruttivi.
Seppur concepita da un’élite, la conservazione
del patrimonio storico-artistico ha raggiunto
un’accettazione popolare e duratura. Ha ottenuto il riconoscimento quale interesse universale dell’uomo e quale pubblico dovere, secondo la formulazione di organizzazioni come
l’UNESCO (alla pari della comparsa degli alloggi
popolari e altre disposizioni dello stato sociale).
Mentre il ritmo della modernizzazione ha
raggiunto dimensioni globali, non sono più solo
i monumenti significativi ad avere bisogno di
protezione per stabilizzare il senso d’identità e
appartenenza delle nostre società. Dobbiamo
rivolgerci allo stock di edifici ordinari e al loro
ruolo di risorse ambientali, sociali e simboliche.
mands of advanced industrial societies. What
is of interest here is this positive re-coding of
the abstinence of decorative detailing into a
progressive design principle. We may learn
from this, now that it is time to interpret ‘less
is more’ in a broader sense. Reduction of formal and structural elements, refined versions
of minimalism – these are no longer the
prime concern. Reduction of gross building
production is the prime concern, but only if
our manifestos move beyond vague intentions. No longer necessitated by the conditions of an industrial mass culture, but by
those of a post-industrial society facing environmental emergencies, our role as architects
is to turn this restraint into a meaningful design agenda. Here, architectural and urban
conservation comes into play as an authority
with a long tradition comprising expertise, legal instruments and public acceptance.
Modern heritage conservation originated
from the observation that industrial development and the accompanying societal changes
decimated familiar surroundings and sights,
largely characterized by their architectural
heritage. It happened at such speed and magnitude that, K. F. Schinkel, warned in 1815, “If
very general and rigorous measures are not
taken now, […] we will soon stand there uneasy, naked and barren like a new colony in
an uninhabited land.” The concern for historic
evidence and continuity, as symbolised by
great works of art and architecture, helped
establish conservation as a critical project of
modernity. Its goal was not preventing progress but mitigating its destructive side effects. While conceived by the elite, heritage
conservation attained popular and lasting acceptance. It gained recognition as a universal
human concern and a public task, as formulated by organisations like UNESCO (comparable to the emergence of social housing and
other provisions of the welfare state).
With the pace of modernisation having
reached global dimensions; it is no longer just
significant monuments that need protection
in order to stabilise our societies’ sense of
identity and belonging. We have to turn to
the stock of mundane buildings and their role
as environmental as well as societal and
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Questa è una sfida per architetti e ambientalisti. I valori tradizionalmente attribuiti agli edifici e ai siti di riconosciuto interesse storico, artistico, scientifico, etnografico o tecnologico,
non devono essere messi in discussione: devono essere tuttavia integrati con valori che
appartengono meno alla sfera di chi intende
l’architettura come arte o la storia come
scienza, ma si riferiscono piuttosto all’ambito
di quella che un tempo era la lingua vernacolare: edifici ordinari che modellano il nostro
ambiente quotidiano. È stato dimostrato che la
crescente rilevanza del sentirsi a casa in un
luogo, locale o sociale, è una conseguenza diretta della maggiore esperienza di mobilità e
migrazione.
La comunità di quanti difendono il patrimonio storico-artistico lo sa da tempo. Pur continuando la loro missione di salvare i pochi
eletti, vale a dire gli edifici e i quartieri più preziosi in tutta la loro ricchezza e particolarità,
quanti si occupano di conservazione hanno assunto il ruolo di sostenitori della valorizzazione
dei ‘molti’, ovvero dei siti e delle strutture generiche delle nostre città. Spesso risalenti al
Dopoguerra, questi costituiscono una parte
molto più grande dell’ambiente costruito rispetto a quelli il cui significato storico o artistico è ufficialmente attestato. Riconoscendo
la loro importanza per le comunità locali e simultaneamente ricordando a noi stessi che
non poche, ma molte strutture devono essere
risparmiate nel progetto globale di protezione
del clima, i temi si fondono: dobbiamo dare
maggiore considerazione a questi banali scenari come soggetti intrinseci d’immaginazione
architettonica e urbana. In un’epoca ora chiamata Antropocene, la conservazione è diventata una preoccupazione esistenziale onnicomprensiva, non più limitata agli specialisti. Il
compito sia dei produttori sia dei consumatori,
sia della professione di architetto nel suo insieme è quello di moderare le minacciose dinamiche della crescita indirizzandole verso il proclamato stato d’equilibrio di un sistema costantemente rigenerante e autosufficiente.
Potrebbe non essere abbastanza, ma ne vale
la pena. E come ha recentemente suggerito Jonathan Franzen su The New Yorker (8 settembre 2019), il tema non si limita alla questione
delle emissioni di carbonio. Nel suo appello E
se smettessimo di fingere, Franzen conclude
che non dovremmo più negare la realtà, ma
accettare la verità: i cambiamenti climatici ca-
symbolic resources. This is a challenge to architects and conservationists alike. The values
traditionally attributed to listed heritage
buildings and sites with historic, artistic, scientific, ethnographic or technological significance, are not to be questioned. But they
must be complemented with values that belong less in the connoisseur’s sphere of architecture as art, or history as science, but rather
to the sphere of what was once vernacular architecture: ordinary buildings that shape our
everyday environment. It has been demonstrated that the growing relevance of feeling
at home in a place, local or social, is a direct
consequence of the increased experience of
mobility and migration.
The heritage community has long been
aware of this. While continuing their mission
of rescuing the chosen few, i.e. the most valuable buildings and districts in all their richness
and detail, conservationists have taken on the
role of advocates for the appreciation of the
many, i.e. the generic sites and structures of
our cities. Often dating from the post-war era,
these make up a much larger part of the built
environment than those listed for historic or
artistic significance. By acknowledging their
importance for local communities and simultaneously reminding ourselves that not a few
but many structures need to be spared in the
global project of climate protection, the arguments merge: we need to give more consideration to these mundane settings as intrinsic
subjects of architectural and urban imagination. In an age now termed Anthropocene,
conservation has become an all-inclusive, existential concern. No longer restricted to specialists, the task of producers and consumers
alike, and of the architectural profession as a
whole is to temper the threatening dynamics
of growth towards the proclaimed balanced
state of a constantly regenerating and selfsustaining system.
It might not be enough. But it is worth the
effort and it is not limited to the issue of carbon emissions as Jonathan Franzen recently
suggested in The New Yorker. In his appeal
‘What if We Stopped Pretending’ he concludes that we should no longer deny reality
and accept the truth: catastrophic climate
change is by now no longer to be averted.
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tastrofici non possono più essere evitati. Pertanto, potrebbe non essere saggio investire
tutte le energie “in una scommessa sul lungo
period ormai persa, riducendo le emissioni di
carbonio nella speranza che ciò ci salverà”. Altri tipi di azione assumono un significato maggiore rispetto ai grandi cambiamenti industriali. “In tempi di crescente caos, le persone
cercano protezione nell’appartenenza tribale e
nella forza delle armi piuttosto che nello stato
di diritto, e la nostra migliore difesa contro
questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi legali funzionanti, comunità funzionanti. [...] ogni sistema [...] dovrà
essere il più forte e sano possibile”. Per l’ambiente costruito possiamo aggiungere: mantenere città funzionanti. Il compito attuale implica la manutenzione, il miglioramento e il riutilizzo creativo del patrimonio edilizio di cui disponiamo, rafforzando la resilienza urbana
piuttosto che perseguire scenari apocalittici o
di evasione in mondi nuovi e migliori.
Therefore, it may be unwise to invest all energies “into a hopeless longest-shot gamble, reducing carbon emissions in the hope that it
will save us.” Other kinds of action take on
greater meaning than massive industrial
changes. “In times of increasing chaos, people
seek protection in tribalism and armed force,
rather than in the rule of law, and our best
defense against this kind of dystopia is to
maintain functioning democracies, functioning legal systems, functioning communities.
[…] every system […] will need to be as strong
and healthy as we can make it.” For the built
environment, we can add: to maintain functioning cities. The task at hand implies repairing, upgrading and creatively reusing the
building stock we have, strengthening urban
resilience rather than pursuing apocalyptic or
escapist scenarios of new and better worlds.
Thomas.Will@tu-dresden.de
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