ANO XIII - NUMERO 198
La poesia di
Enrico Testa
Luglio 2020
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
www.comunitaitaliana.com
mosaico@comunitaitaliana.com.br
Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Editori
Andrea Santurbano
Fabio Pierangeli
Patricia Peterle
Revisore
Elena Santi
S
ulla scia di alcuni altri numeri dedicati alla poesia italiana contemporanea, ora è la
volta del genovese Enrico Testa, classe 1956. Il suo primo volume, Le faticose attese
Grafico
Alberto Carvalho
(San Marco dei Giustiniani, 1988), esce con una prefazione firmata nientemeno che da
Copertina (Foto)
Dino Ignani
per i libri a venire.
COMITATO SCIENTIFICO
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Casadio (Univ. “G. d’Annunzio, Chieti
e Pescara); Beatrice Talamo (Univ.
della Tuscia di Viterbo) Cecilia Casini
(USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma
“Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ.
Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro
(USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma
“Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ.
di Roma III); Giovanni La Rosa (Univ.
di Roma “Tor Vergata”) Lucia Wataghin
(USP); Mauricio Santana Dias (USP);
Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle
(UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari);
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Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina
(UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG).
COMITATO EDITORIALE
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Rubens Piovano; Sergio Michele;
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all’elaborazione del presente numero”
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
2
La poesia di Enrico Testa
Giorgio Caproni, poeta livornese che, come sappiamo, ha adottato Genova come sua «città
dell’anima». Una prefazione breve e incisiva e, al contempo, un carico di responsabilità
Il suo secondo libro di poesia, In controtempo (1994), esce per Einaudi (che d’ora
in poi sarà la sua casa editrice), venendo accolto con molto favore sulle pagine di L’Unità
da Giovanni Giudici, il quale lo giudica un libro che si distacca «nell’orrenda babele di
chiasso e chiacchere». Ed è lo stesso Giudici, in questa recensione, ad indicare già due
caratteristiche importanti del poeta: il rigore e la suprema pazienza.
La sostituzione arriva nel 2001, confermando l’importanza di alcuni motivi che
ritorneranno anche nei libri successivi, seppur con dei mutamenti, anche di tono: il
paesaggio umano, la pluralità di voci, il rapporto con le persone scomparse, i piccoli
animali, la figura dell’altro, i fili sfilacciati della memoria. Tutti aspetti, questi, che mettono
al centro della sua poesia l’esperienza, la sua percezione e i suoi effetti.
I pluripremiati Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013) consolidano ulteriormente
la figura di Testa nel panorama poetico italiano. A proposito della pubblicazione del
secondo, Alberto Asor Rosa afferma sulle pagine di La Repubblica: «[s]i capisce così che,
sperimentalmente parlando, la ricerca di Testa, mentre s’impernia decisamente sul disagio
contemporaneo, ne addita al tempo stesso il superamento, inaugurando la proposta di
una poesia che, più che dire, addita con esattezza millimetrica le condizioni attuali del
nostro esserci – e il loro circostanziato espandersi nel mondo».
L’«andare a pezzi», riscontrato nei libri precedenti, si conferma dunque in Cairn,
pubblicato nel 2018. Dopo trent’anni di scrittura poetica, forse qui c’è un passaggio
decisivo, un ciclo che si chiude, per aprirsi, chissà, a futuri percorsi.
I saggi qui raccolti testimoniano con le loro acute letture critiche la forza di questa
scrittura e di un accento ormai riconoscibile. Ringraziamo per la collaborazione Fabio
Moliterni, Paolo Zublena, Fabio Pierangeli, Lucia Wataghin, Patricia Peterle, Sebastiana
Savoca, Luiza Faccio e Prisca Agustoni. E in chiusura, un piccolo registro degli ultimi
viaggi di Enrico Testa in Brasile.
Buona lettura!
Indice
«Un cielo privato ma condiviso»:
la poesia di Enrico Testa da Le faticose attese a Cairn
Fabio Moliterni
pag. 04
Un «tremante ex-voto».
Poesia come rito
Paolo Zublena
pag. 08
«Come una polpetta crepata».
Cibi, escrementi e viaggi in Enrico Testa poeta.
Fabio Pierangeli
pag. 12
«La caduta del cielo», di Enrico Testa
Lucia Wataghin
pag. 20
Sei inediti di Enrico Testa
pag. 24
«Segnavia e segnavita», appunti sulla poesia di Enrico Testa
Patricia Peterle
pag. 26
Sintassi, metro e prosodia nelle poesie di Enrico Testa
Sebastiana Savoca
pag. 30
«Quadretti di genere»: una lettura di Ablativo
Luiza Faccio
pag. 34
Enrico Testa al Festival Internazionale di Letteratura Chiasso Letteraria
Prisca Agustoni
pag. 38
Enrico Testa in Brasile
pag. 40
Rubrica
Sottomissione e segreto
Francesco Alberoni
PASSATEMPO
pag. 42
pag. 43
3
«Un cielo privato
ma condiviso»:
la poesia di Enrico
Testa da Le faticose
attese a Cairn
Fabio Moliterni
Enrico Testa è giunto al suo sesto
libro di poesie e ha festeggiato
proprio con il 2018 appena
trascorso il trentennale della
sua opera d’esordio . I versi
1
dell’ultima raccolta coprono gli
anni 2012-2017 2: si tratta di
una gestazione pluriennale che
viene puntualmente registrata ad
apertura della Nota d’autore, così
recita il titolo di una sua antologia
o del mercato. Voglio dire che
dei paradossi che attraversano la
imitazioni epigoniche e dalle sirene
sulla poesia del secondo Novecento
la pronuncia di Testa si è fatta
sua opera in versi, risuonando in
cagionevoli e volubili delle mode
via via sempre più riconoscibile
e personale, si è aperta con il
tempo a una varietà significativa
di registri formali e di risonanze
concettuali, restando tenacemente
come avveniva nelle precedenti
fedele alle sue origini. È, questo,
plaquette (con una scansione che
il segno di una tensione dialettica
raccolta e la successiva). Sempre
dettato uniforme o monotono né
solitamente indicava con regolarità
nella quale vive la sua scrittura in
in dialogo con una precisa idea
appartiene con certezza a questa
la durata di un lustro tra una
versi, che non si risolve mai in un
a tutti nota3: è una delle aporie o
particolare all’interno di questo
ultimo libro. Dove, come cercherò
di mostrare, alle costanti retoriche
e tematiche della sua scrittura
lirica, a certe modalità enunciative
oramai riconoscibili e familiari si
sovrappongono alcuni elementi
di novità che forse risentono
delle riletture critiche che,
contemporaneamente alla stesura
di Cairn, Testa andava facendo
di poesia che discende dai suoi
o a quella scuola, linea o corrente,
intorno a Montale e in particolare al
“maestri” riconosciuti, Montale
e resta come sospesa sul crinale
Caproni e Sereni, nell’arco ormai
di un trentennio la sua scrittura
tra continuità e discontinuità,
tradizione e postumità, tra un
Montale della “vecchiaia”, da Satura
in versi è cresciuta al riparo dai
1
4
rischi del manierismo, delle sterili
prima e un dopo la lirica, come
in poi4. Di seguito tratteggerò i
punti salienti di questa tensione
tra continuità e variazioni.
E. Testa, Le faticose attese, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1988.
2
E. Testa, Cairn, Torino, Einaudi, 2018 (d’ora in avanti solo con l’indicazione di pagina).
3
Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005.
4
Come è attestato dalla monografia E. Testa, Montale, Firenze, Le Monnier, 2016, che risulta essere una riscrittura profondamente mutata di quella
Come è stato fatto notare dai
/ o provo a ricordare”, p. 95),
del tempo, vive da sempre di queste
suoi migliori critici , la poesia di
“viandante”, monade “inert[e] o
ossessive costellazioni di immagini,
stesso tempo vitale e necessaria,
siamo di fronte a uno strumentario
5
impazient[e]”, esiliata, rifratta e
di questi tratti formali specifici
meglio, la specificità del linguaggio
proprio perché è implicata, volente
retorico che deriva da un versante
narrativo, aprendo i confini della
forma lirica tradizionalmente
sono con voi, ancora. / Senza di voi,
intesa a una pluralità di voci e di
gli altri: “Risaliamo tra la gente / E
niente” (p. 100).
quale Testa è fine conoscitore,
personaggi, quadri fotogrammi
La sua poesia, indifferente alle
o situazioni che vedono l’io alle
mode passeggere e al trascorrere
Montale, come detto, fino a Sereni
Testa si presenta da subito come un
congegno o un dispositivo di stampo
dialogico: difende l’autonomia, o
lirico pur ricorrendo ai modelli
semiotici di tipo teatrale e (pseudo)
confusa nelle voci altrui ma allo
o nolente, nella rete dei rapporti,
degli incontri e delle relazioni con
prese con una folla di personae e
e distintivi. È bene chiarire che
preciso della lirica italiana (con
i suoi addentellati europei) del
frequentandolo anche come lettore,
traduttore e critico di poesia (da
e Caproni in compagnia magari
con i nodi più o meno intricati delle
relazioni umane, tra memoria e
dolore, presente e passato. Questa
condizione della voce poetica si
traduce in pochi, costanti e precisi
Dino Ignani
tratti retorico-formali che tornano
di libro in libro: l’assenza all’inizio
e alla fine di ogni componimento
delle maiuscole e dei segni di
interpunzione, per trasferire
sulla pagina scritta il senso di una
memoria che funziona come un
continuum, un dire senza origine
né fine; il succedersi di monologhi
in miniatura che restituiscono la
sensazione di un teatro mentale,
di Philip Larkin)6. È da segnalare,
interiore, accanto ai segni grafici
piuttosto, come alla persistenza e
o comunque l’inserimento di
sua opera in versi, corrispondano
che occupano la pagina indicando
alla tenuta di questi schemi o modelli
altre voci che soppiantano o
una modulazione e pronuncia
linea con lo statuto etico che regola
stilistici diversi che, soprattutto
né conciliante di questi versi, come
Eallora:gliincisioleparentetiche
l’attivarsi del registro colloquiale,
retorici, veri e propri pattern della
sostituiscono quella del soggetto
personali tra riprese e variazioni,
lirico. Un soggetto che si presenta, in
contaminazioni e intrecci di registri
della natura nient’affatto pacificata
della sua scrittura.
la poesia di Testa, e a testimonianza
una entità enunciativa decentrata
in Cairn, dimostrano della vitalità
solcano capronianamente i versi con
e spesso relegata ai margini
effetti di continue messe a fuoco o di
(“aspetto un segnale da lontano
cortocircuiti e slittamenti percettivi;
apparsa per Einaudi nel 2000.
5 Cfr. A. Cortellessa, Enrico Testa, sé come un altro, in Id., La fisica del senso Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi, 2006, pp. 528-533;
P. Zublena, Enrico Testa, in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi
et alii, Roma, Sossella, 2005, pp. 559-575; P. Peterle, Vagando qua e là. La poesia di Enrico Testa, in “Nuova corrente”, n. 160, luglio-dicembre 2017, pp. 133-147.
6
Cfr. P. Larkin, Finestre alte, traduzione e cura di E. Testa, Torino, Einaudi, 2002.
5
al dopo / e ai suoi falsi, interessati
mai “l’aristocrazia linguistica”
profeti. / Al momento a me basta
del codice lirico10; e l’aumento di
questo rosario di sguardi”, p. 97.
La presenza dei toponimi e degli
antroponimi convive con l’uso opaco
la sostenutezza del tono, con la
vertiginosa tensione o complessità
“quasivita” – i viaggi, i sogni e la
veglia, che diventano le occasioni per
attivare l’ascolto o lo sguardo rivolti
soliti / nonso, noncredo, forse…”, p. 37),
insieme alla sintassi nervosa e alla
frequenza emblematica di avversative
(“eppure”, “ma”) testimoniano a un
tempo dell’estraneità del soggetto
al mondo presente e il suo radicato
smarrimento esistenziale, ma anche
la declinazione etica dello sguardo,
medium prensile e recettivo per
afferrare e riportare sulla pagina l’eco
di quella che è la vera Heimat della sua
antropologica – “etnografica” – della
sua “poesia di pensiero”. È una
chiave di lettura valida anche per
decifrare la mobilità e la varietà dei
registri presenti in Cairn: perché
alle figure e alle “voci” della natura,
all’oscillazione dei referenti, tra
segnali degli assenti e dei trapassati,
statuto ambiguo e straniante di
in una fraterna o filiale comunanza
certe scene e situazioni disegnate,
/ di un’esistenza muta: mia, vostra,
anche lessicale dei dettagli e un
/ Incautamente sperando / nella
un’apertura a compasso delle
piante alberi fiori e animali, captare i
primi piani e piani sequenza, allo
e reversibilità tra i vivi, i morti e i
sospese come di consueto tra
loro’” (p. 37); “Rischio la vita per
velo onirico e allucinatorio che
superstiti: “‘Ne va dell’esistenza…
l’estrema concretezza e precisione
i morti. / Rischio la vita per i vivi.
le circonda, Testa risponde con
pietà degli uni e degli altri” (p. 11)
risorse linguistiche ed espressive.
morti dimenticati: / gli uni e gli altri
sintassi al lessico ricercato alla
– e infine: “i corpi degli esseri vivi
in abbandono / i corpi degli esseri
E la figuralità, la “permanenza” del
codice lirico a tutti i livelli, dalla
più corporei che mai” (p. 9).
metrica – le citazioni e i cultismi,
scriveva di un “passo doppio” come
le
cadenza che ne accompagna tutta
“lontanosvanente”, “taglioferita”,
vive insieme di una “tensione
il ricorso all’endecasillabo e
all’oltre” e di una fedeltà alla
soprattutto la ricerca della rima
A proposito di Montale, Testa
le inversioni e le paronomasie,
l’opera poetica: di una poesia che
“quasivita”), le anafore e le iterazioni,
neoformazioni
(come
poesia: l’“ostinata vita interstiziale”
in clausola – convivono con un
(p. 93), le “miniature sbreccate” (p.
pessimismo o scetticismo crescenti
incremento di fenomeni linguistici
22), “un cielo privato ma condiviso”
“vita brulla”, “di quaggiù” , di un
ai quali corrispondono una “non
e retorici di segno opposto.
(p. 63),“il primo risveglio (gli basta
rassegnata rassegnazione”, un
anche un cenno) / della vita dispersa
“non pacifico disincanto” . Che si
Mi riferisco anche qui a certi
procedimenti che probabilmente
“una ricca povertà” – nella quale
rivalutazione dell’ultimo Montale,
il lessico impoetico non scalzano
e prosastici, la punteggiatura serrata,
e melmosa” (p. 108) – o come una
dichiarazione di poetica: “no, non è
il gran mare dell’essere / di poeti e
degli altisonanti filosofi / […]. / È,
nel suo poco, qualcosa di meno e di
più…..”, p. 115; “Il vuoto lasciamolo
7
E. Testa, Montale, cit., p. IX.
8
Ivi, pp. 104-106.
9
Ivi, p. 112.
10 Ivi, p. 38.
6
e dintorni) con la compattezza e
nell’intrecciare tentativi di colloquio)
sospesa, allucinata o visionaria, di
“Dicono che…”, “La mimica dei miei
anni del suo “stile tardo” (Satura
dei deittici, nel disegnare scenari (o
calati spesso in una dimensione
le espressioni dubitative (“O forse…”,
plurilinguismo coabita anche negli
7
8
riflettono col passare del tempo
in una peculiare veste formale –
9
la semplicità e la “plebe linguistica”,
la cadenza prosastica o colloquiale,
derivano dalla lettura dei “suoi”
poeti e in particolare dalla
ma sono risolti in una chiave
originale e convincente: i versi liberi
l’incremento dell’intonazione
diaristica e dello stile elencatorio
e nominale, le giustapposizioni,
le terne (o quaterne!) di aggettivi,
“un tamtam digitale” (p. 97), “u[n]
e “borghese” di Sereni, il Montale
e appunti presi da un diario o da
di Caproni) sia Philip Larkin, al
bukkake!” (p. 106).
Spesso in forma di aneddoti
decostruttore dei miti d’oggi, l’ironia
beffarda e i paradossi alla maniera
verbi o sostantivi posti in sequenza,
un giornale di bordo, tra incontri
spesso per asindeto e senza segni di
e agnizioni, paesaggi familiari o
interpunzione: “Pellegrini lamenti
esotici, parabole, occasioni private
questa sezione. Ma come avviene in
certe poesie dell’inglese (Finestre
le “sottopoesie” di Cairn, come
alte, Gli alberi), queste manifeste
geme impreca tace”, p. 31; “al cumulo
e breviari metafisici in miniatura,
Caproni definiva i suoi “versicoli”
di Erba francese, fanno registrare
dichiarazioni di misantropia e
disgusto, disadattamento e non
vestito nero calze e scarpe / di
nello stato d’animo e nella postura
coesistere con gli scatti verticali, con
liquido bianco vischioso denso”,
del soggetto lirico alle prese con il
le epifanie o evocazioni di una realtà
più “impuro” che talvolta accoglie,
di Capaneo): “il mio paese i suoi
scongiuri riti”, p. 25; “insieme
balbetta prega ride grida / piange
di aliti suppliche fiati / respiri affanni
preghiere”, p. 57; “e schizzando
p. 106, ecc. . Un abbassamento
11
del tono e in generale un lessico
registra e irride i barbarismi del
parlato globalizzato, le derive della
lingua contemporanea: “i turisti i
monti muti i ciancivendoli dei blog”
(p. 10), “Prima che come preti antichi
/ il loro breviario, / riprendiate a
stringere tra le mani / smartphone
o cellulari / e a connettervi al vostro
mondo” (p. 41), “doni spermatici
o squirting equinoziali” (p. 25),
indubbiamente un mutamento
degrado della realtà contemporanea
(si veda su tutte la sezione Album
politici / gli escalofonisti tutti –
vecchi e nuovi – / i professionisti nel
maneggio dell’argilla / che impasta
parole in nome dell’affare. // E il
quale non a caso sono dedicate due
traduzioni o rifacimenti proprio in
appartenenza possono a volte
“altra”, sospesa tra memoria, amore
e dolore: tra i tentativi di allocuzione
e di ritorno salvifico nel cerchio degli
scomparsi, la fedeltà alle figure dei
trapassati e a un “oltre” che pur
insidiato dal “ciarpame” del presente,
non si consuma del tutto ma insiste
mio starmale” (p. 46). Credo che per
e resiste come “qualcosa di là da
limiti dell’invettiva, che schernisce,
lontano / del nostro amarci, / per il
Testa il vero nume tutelare di questo
(nuovo) sguardo amaro e risentito, ai
giudica e condanna i tempi presenti
(oltre all’indignazione trattenuta
venire”12: “Siamo ormai riconoscibili
soltanto / per il sorriso sempre più
gesto con cui ora / continuiamo – in
eterno – a salutarci” (p. 38).
11 Fenomeni già presenti, in nuce, nella precedente raccolta, Ablativo, Torino, Einaudi, 2013, p. 9: “[…] / camerate d’ansia / dove affiorano medici sadici
/ crudeli amici ostili cose…”; “quanti ascensori ho già preso fin qui! / di alberghi condomini uffici musei / università biblioteche ospedali / ciascuno diverso
dall’altro / per foggia arredo odore e colore”, p. 40; “elma in turco significa mela. / Iridescente prisma delle lettere / che riflette separa ricongiunge / anche
qui tra mura e minareti”, p. 90; “[…] / Nevai o fondali o prati glaciali / rocce basalti andesite. / A zero il male”, p. 96.
12 Ivi, p. 96. E ancora, da una poesia tratta sempre da Ablativo dedicata A Edoardo Sanguineti: “[…] / non molto mi resta se non il desiderio di dirle, /
sommesso replicando, / che nel mondo oggi / (che lei vedeva ormai condiviso e uguale) / in realtà ci sono poi di globale / solo la rete, le armi e i poveri / e che
(il legame è oscuro ma c’è) / i versi, se vuoti di ogni albagia / e ridotti quasi a patiti patemi del pathos, / servono ancora. / A poco ma servono / anche se a chi
e a cosa non so”, p. 37; ovvero, in una sereniana congiunzione tra morti, scomparsi e forma futuri: “[…] / Capisco allora che siete voi / i veri officianti della
cerimonia / pronti sempre ad insegnarmi / che qualcosa non è ancora svanito / anche se, nel tempo, tutto è finito”, p. 113.
7
Un «tremante ex-voto».
Poesia come rito
Paolo Zublena
La poesia di Enrico Testa consente,
male storico (per riformulare passi
per le sue caratteristiche di conti-
celebri delle Tesi sul concetto di sto-
tentativo di sintesi sincronizzante,
Provare a salvare un mondo quoti-
nuità e soprattutto compattezza
ria) – anche se l’accento è qui più
nonostante i circa trent’anni e i sei
diano di oggi, di ieri, di madri e padri
tematica e stilistica, di condurre un
libri – ciascuno con una propria
specificità – in cui si articola .
1
Diciamo innanzitutto, fon-
etico, più politico invece in Benjamin.
(e di figli), talora di antenati – senza
alcuna garanzia di salvezza. Le tracce
delle relazioni umane presenti e
dandoci anche sulla profonda au-
passate (dall’amore all’amicizia ai
a livello di poetica esplicita, che
che restano impigliate al mondo delle
tocoscienza della propria scrittura
privilegiati e intensi rapporti fami-
che l’autore ha sempre dimostrato
liari) sono – anche nelle immagini
sperienza, fondata sul ricordo e
ora intermediari: e spesso entrambe
quella di Testa è una poesia dell’esull’interpretazione di fatti dell’esistenza – e principalmente legati
all’esistenza dell’autore empirico.
Evocati da questo io che in-
sieme viene da loro convocato e
interrogato stanno gli attori e i
temi cruciali di questa poesia: il
dialogo con i morti innanzitutto; la
memoria; la quotidianità; il sogno;
piante e degli animali (ora ricordi,
le cose insieme) – le uniche reliquie
per questo nel sogno si esprime al
immanenza. Il dolore, a volte l’ango-
– la rischiosa dualità tra dolcezza
di trascendenza che balenano in
massimo grado – e con forza, in ta-
scia, può essere un interruttore che
e paura: le quali a volte diventano
una cornice di pura e talora crudele
schiude i labili confini delle «cretacee
porte» – come le chiamava Caproni
vero terrore, inestinguibile angoscia,
come nel terribile sogno di sono le
si intitola una sezione di Cairn, dalla
due di notte (C 59).
sua poesia eponima). Una porta che
fondamentale con l’esperienza vis-
perduti. Ne risultano lacerti di un
suta: il compito è quello di trattenere
mondo onirico in cui l’io si rappre-
La memoria ha un rapporto
momentanea consolazione, a volte
– tra vivi e morti (e Portale di fango
il paesaggio; il dolore; l’amore; gli
animali e le piante; il viaggio.
luni episodi, persino agghiacciante
Il paesaggio è strettamente lega-
si apre spesso nel sogno, privilegiato
to all’infanzia, mediato dalla memoria
terreno di comunicazione con i cari
propria e altrui: è quindi il proprio paesaggio – montalianamente indelebile
nel ricordo. Spesso questo serbatoio
dalla rete dell’oblio tutto un mondo
senta talvolta in prima, talvolta in
di immagini è compreso nel sogno, o
di uomini e cose. È una memoria
terza persona, facendo l’esperienza
nettamente benjaminiana, resto di
del vedersi da fuori in modo per
speranza, residua porta di accesso
certi versi più spaesante di quanto
confina da vicino con i suoi terreni;
del Messia, arca per i vinti e i senza
nome spazzati via dal torrente del
in genere non consenta la semplice
rappresentazione letteraria. Proprio
ma più ci si allontana dal paesaggio
familiare, più si va verso un’interroga-
zione spaesante sullo statuto dell’io,
degli altri e delle cose (statuto etico,
1
Fa parziale eccezione il primo libro (Le faticose attese Genova, San Marco dei Giustiniani, 1988). Il quintetto dei volumi einaudiani, tutti nella Collezione
di poesia (quella nota come «collana bianca») è composto dai seguenti titoli: In controtempo (Torino, Einaudi, 1994); La sostituzione (Torino, Einaudi, 2001);
Pasqua di neve (Torino, Einaudi, 2008); Ablativo (Torino, Einaudi, 2013); Cairn (Torino, Einaudi, 2018). Il rimando dopo le citazioni da questi testi sarà costituito
da una sigla (rispettivamente IC, S, PN, A, C) seguita dal numero di pagina.
8
prima che ontologico). Il che si acuisce
Dicevamo di un io legato alle
rimanda, nella sostanza e nei termini
quando la rappresentazione del pae-
esperienze dell’autore empirico.
saggio è una conseguenza del viaggio
Questo non deve far pensare – e
– tema che nello sviluppo diacronico
del resto ben lo testimonia il lavoro
che Testa stesso usa, alla filosofia
consente di riconoscere, attraverso
mitarsi a due titoli parlanti3 – a un
di Emmanuel Lévinas (addirittura
un titolo come La sostituzione pro-
della poesia di Testa ha conosciuto
critico dell’autore di Per interposta
viene dal repertorio concettuale di
via via una netta crescita: il viaggio
Altrimenti che essere)4. E tuttavia
lo spaesamento, la propria condizio-
persona e di Dopo la lirica: per li-
ritorno all’ipostatizzazione dell’io
ne di esiliati e insieme di radunare
lirico (come avviene in molta poesia
i frammenti di una identità sempre
ingenua o anche consapevolmente
del pathos dell’esistenza – di un’e-
rabile riflessione che chiude il primo
come nel progetto avanguardista.
ancora da costruire. Un viaggio, quindi,
sempre in perdita , come nella memo2
capitolo, Fine dei viaggi, di Tristi tropici:
perché il recupero di ciò che hanno da
dire i realia, i loro strani e spaesanti
appelli – agiti o subiti –, il tentativo
stesso di ricostruire un’identità del
soggetto non possono avere mai una
riuscita senza resti. Qualcosa è sempre
malinconicamente destinato a sfuggire
– per quanto (e questo avviene anche
in Lévi-Strauss) il paesaggio strano ed
estraneo dei viaggi consenta talora
brevi momenti di dolcezza se non di
pacificazione.
neolirica), né del resto a una sua
più o meno compiuta cancellazione,
Critica della soggettività e
insieme ricostruzione di una cer-
ta forma debole di soggettività, la
poesia di Testa rappresenta nel più
ampio numero di testi sì un io – ma
la poesia è lontana dai concetti:
queste stesse parole si riempiono
sistenza singola e individuale. Ma la
singolarità che diventa unicità dell’io
non è stampino ontologico, ma responsabilità etica, impossibilità di
sottrarsi, (senso di) colpa – nominativo che diventa accusativo: «la
soggettività in sé è il rigetto verso sé
[…]. L’unicità di sé è il fatto stesso di
portare la colpa d’altri»5. Convocato
un io riconducibile a un soggetto più
dal vocativo, l’io si declina insomma
sua condizione continuamente al-
Lévinas – transita in una delle poesie
“leggero” di quello della metafisica
all’accusativo – come nell’Eccomi
lusa o dichiarata di esiliato (se ne
più importanti de La sostituzione.
tradizionale, messo all’angolo nella
biblico, che – a lungo discusso da
accennava prima rispetto al tema del
E del resto il pronome (o meglio i
viaggio) e di ostaggio. Questo trat-
pronomi, per Testa) costituisce quel
tamento del soggetto palesemente
territorio opaco della lingua che,
2
Si veda Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960, pp. 41-42.
3
Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999; Dopo la lirica, a cura di Enrico Testa, Torino, Einaudi, 2005.
4 Scrive Lévinas: «La soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione dell'affezione, sensibilità, passività più passiva di ogni passività, tempo
irrecuperabile, dia-cronia non sincronizzabile della pazienza, esposizione sempre da esporre, esposizione da esprimere, e così, da Dire e, così, da Dare».
Questo «sradicamento di sé» è, per Lévinas, profondamente legato all’esperienza del dolore (Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza,
Milano, Jaca Book, 1983, pp. 63-64 e p. 63).
5
Ivi, p. 140
9
lontano dalla designazione ontolo-
zioni e tipi di comunicazione, nella
gicamente salda, ospita l’indefinito
poesia moderna, dove il modulo del
da ogni ontologia – persino una
una ricorrenza altissima. […] la messa
in cui ipseità e alterità si confondono
dialogo con l’assente e il suo sottotipo
traccia del trascendente, o, se si
in scena, nella scrittura, di un dialogo
sivo – «mitomodernismo» all’italiana
coevo ai suoi esordi) – si manifesti,
specie con il procedere nel tempo,
in quella che potrebbe essere – fuori
di allocuzione agli scomparsi hanno
sempre più come (equivalente di) un
vuole, del divino.
in cui prende la parola anche la figura
alla crisi di presenza del soggetto
Non ci si è però ancora soffer-
mati su un fatto di fondo. Diciamo alla
del trapassato tramuta l’allocuzione
in colloquio e l’assenza in presenza
rito che oppone una resistenza alla
fuga dei giorni e dei ricordi e reagisce
individuale («il mio asfodelico sé»
di A 8 – io indebolito e insieme af-
grossa: c’è una poesia che ha un valore
irriducibile e prospetta il ruolo del
fratellato alla nebbia degli omerici
– o si muove su un piano – prettamente
discorso poetico come quello di una
prati dei morti). In questa forma di
ontologico (le cose ultime, il nulla, la
“reliquia secolarizzata” (Benjamin),
rito, gli oggetti (spesso allineati nel
verifica della consistenza dei realia);
sedimento delle procedure ritua-
ricordo) o le brevi narrazioni non
c’è una poesia prettamente fenome-
li dell’evocazione dei morti e della
valgono come segni mitici, come
nologica (basata sulla percezione del
loro funzione di mantenimento di
simboli o allegorie di qualcos’altro,
soggetto); c’è una poesia politica (o,
un contatto. Nel tempo in cui i morti
ma come pegni, come ancore della
più spesso e peggio, “impegnata”, nel
“sono respinti fuori della circolazione
la di Testa non appartiene ad alcuna
in cui viene quotidianamente rescisso
memoria, come collettori di gesti:
di queste categorie (al di là di ovvie
il legame tra morente e sopravvissuto,
centro ha soprattutto contenuti (e
forza a inattuali strutture antropolo-
senso stigmatizzato da Adorno): quel-
simbolica del gruppo” (Baudrillard) e
eccezioni che si possono situare nelle
la poesia si rivolge, anacronisticamen-
punti di vista) etici e antropologici.
giche e, nel fare ciò, rivela quella che
sue periferie): è una poesia che al suo
Parlando della soggettività, si è
già in parte detto dell’aspetto etico.
Conviene allora soffermarsi su quello
antropologico – pure a esso stretta-
mente legato. Il passato visto benja-
te, verso il più remoto dei passati, ridà
è forse la sua più profonda specificità:
un recupero e un incremento delle
forme del comunicare che, seguendo la tacita legge dell’eccedenza del
come agenti di una continuità tra le
generazioni in cui – pur nell’inderogabilità della finitezza – è possibile
persino una sorta di sopravvivenza.
Un «tremante ex-voto», come già si
esprimeva IC 16: a suo modo anche
una definizione della poesia – che va
avvicinata a quella dei versi «ridotti
quasi a patiti patemi del pathos» di A
37. Nei volti e negli oggetti custoditi
dalla memoria poetica si rinnova
senso, convoca nel proprio ambito
l’invocazione, si conserva – con pa-
di significazione anche ciò che la
radossale convergenza di speranza
un recupero che assomiglia a un’ope-
un decreto d’ostracismo, reputandolo
fronti dei perduti, è non meno vero
al posto di antiche storie” (Benjamin),
contenuti arcaici ormai rifiutati dalle
una poesia mossa da questa spinta,
riaffiorano nel discorso della poesia.
L’origine rituale del genere lirico, con
antropologiche, legate al mondo antico o a “culture etniche” più recenti,
rassegna dei bocconi della cucina di
sua presenza; e ostensiva: cercare di
la scrittura poetica – che in Testa è
La tendenza quindi non a ca-
modificando attraverso i tempi fun-
dell’improbabile – reboante e regres-
minianamente come rovina da salvare
(un passato da cui i morti parlano
con voce da custodire) è oggetto di
razione rituale: «“Rovine che stanno
norme del comportamento sociale
le sue due forme basilari (imperativa:
rivolgere alla divinità la richiesta della
rendere presente i tratti della figura
desiderata e assente) si riproduce,
6
doxa del comportamento e le sue
regole intimidatorie sottopongono a
eccentrico e irrimediabilmente privo
di sensatezza» . Testa, oltre a scrivere
6
riscontrerà nel tempo queste radici
e angoscia – il pathos.
Se ciò appare evidente nei con-
nei confronti delle cose: «Ti dai da
fare a mettere insieme una collezione
per impedire che le cose scompaiano» (PN 21). Di qui i frequenti elenchi
nominali, come in C 56, commovente
anche in testi altrui7.
un tempo – che evoca i cari morti per
sempre stata lontana dal presentarsi
tegorizzare il reale, ma a elencare e
come mito (nulla di più lontano da lui
salvare, quasi come su una piccola
Si comprende quindi perché
essere da loro rievocata.
arca, gli oggetti, le piante, gli animali
Enrico Testa, Pronomi, Torino, Il Segnalibro, 1996, pp. 18-19.
7 Così, ad esempio, in Enrico Testa, «Di alcuni motivi antropologici nella poesia di Sereni», in Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito,
Milano, Ledizioni, 2014, pp. 29-41.
10
possa costituire un deprezzamento)
come quell’istituto che attraverso i
due procedimenti fondamentali del
frazionamento (morcellement) e della
ripetizione (répétition) tenta di contrastare la necessità di schematismo
tipica del mito, in buona sostanza del
pensiero, «per ristabilire la continuità
del vissuto» : sfuggire insomma alla
9
e gli umani, per tentare (invano: di-
speratamente, se si vuole) di mantenere il flusso della vita – il colloquio
inestinguibile con i morti e anche il
rapporto tra le generazioni – culmina talora in una esplicita ostensione
del rito. Così per la deposizione dei
tovaglioli presso il tavolo familiare:
«Discretamente sorvegliato dai miei
essere interpretato nemmeno più
dai padri, ma dagli «antenati» (C 20).
Questa dimensione rituale del-
la poesia, già presente fin dagli inizi,
ha conosciuto tuttavia un’intensifica-
zione nei libri più recenti. L’ultimo, del
resto, ha per titolo Cairn – ed è difficile
non cogliere nel testo eponimo una
allusione metapoetica. Le monta-
concettualizzazione per attingere,
gnole di sassi designate non certo a
con ostinazione e a volte persino
caso da una parola inglese di origine
ossessione, l’indistinta opacità del
gaelica (celtica) – la quale può avere
è una reazione a ciò che il pensiero
accezioni che si trovano testimoniate
all’esperienza del mondo; risponde al
bre: «In tempi remoti, monumenti: /
di superare, non è la resistenza del
/ e i corvi in pattuglia ritornanti, / in
mondo all’uomo bensì la resistenza,
forma di pegno o rispetto per i morti
vissuto. Scrive ancora Lévi-Strauss:
«Il rituale non è una reazione alla vita,
ha fatto alla vita. Esso non risponde
direttamente al mondo e neppure
modo con cui l’uomo pensa il mondo.
Ciò che in definitiva il rituale cerca
un effetto spaesante per il lettore
italiano – sono, in ossequio alle due
nei dizionari, un segnale per trovare
la via e un antico monumento funesepolture o santuari di pietra lavica o
calcare / eretti, sotto le male nuvole
all’uomo, del suo proprio pensiero»10.
/ o forse (ambigue le sragionevoli
degli affetti: / compio un rito muto
In altre parole, il rito pertiene alla
ragioni / dei viventi) per impedir
di gesti persi / che vale più di quel
sfera dell’espressione – e l’espres-
e tempi diversi» (A 53).
Certo – si intenda bene – non
dell’ethos e del pathos.
loro di svegliarsi. / Ora però ci di-
Così, per tornare alla poesia,
e segnavita» (C 60). Ancora esisten-
ti («relitti») sottratti soprattutto
sangue, non dovremo pensare tanto
lari / eseguo una visibile partizione
che sembra / sospeso com’è tra età
sione riguarda soprattutto le sfere
si tratta del rito sociale che l’antro-
il «furto bagatellare» del tovagliolo,
pologia contemporanea indaga come
inerte o contraddittoria sopravviven-
za secolare del sacro8, e nemmeno
del rito come performance o come
dramma sociale nelle interpretazioni prevalenti che vanno da van
Gennep a Turner. Semmai viene in
mente il finale dell’Uomo nudo di
Lévi-Strauss, che concepisce il rito
(e lasciamo perdere il fatto che ciò,
nell’economia teorica di quel testo,
parte di una collezione di ogget-
cono, in tanto affannarsi, / qual è il
sentiero irriconoscibile. // Segnavia
za e memoria che si intrecciano. E
se le more vicino ai sassi sanno di
alla fuga del tempo, produce sì una
ai precedenti letterari della pianta
un amico morto (C 7). L’«incisione
radice antropologica: il sangue che
«reliquia secolare», ma in quanto
che sanguina (da Polidoro a Pier
rituale» lasciata sul tavolo dalle trac-
testimonia la presenza dei morti e
«pegno di fedeltà» nei confronti di
ce di matita è – oltre a una «cabala
coniugale» – anche la «traccia» delle
orme animali sulla neve: il primo
linguaggio, sacro nel quotidiano, a
della Vigna), ma a una più generale
che, forse, permette di entrare con
essi in una terrena materiale comu-
nione – che è poi il cuore stesso di
questa intera opera poetica.
8 Per quanto a essa possano parere riconducibili i casi di descensio ad inferos attivata da fatti quotidiani: come la Smoking area di C 77 – zona fumatori di un
aeroporto che per analogia (l’azione degli aspiratori) riporta («Un Tartaro a portata di mano») alla cripta di un cimitero genovese presente nella memoria – o
i bagni dell’autogrill di C 99-100 – per un attimo immagine dell’ingresso in Ade, per via della moneta-obolo da pagare al guardiano.
9 Così Lévi-Strauss: «In fin dei conti l’opposizione tra rito e mito è quella fra il vivere e il pensare, e il rituale rappresenta un imbastardimento del pensiero
asservito alle esigenze della vita. Esso riduce, o meglio tenta invano di ridurre, le necessità del primo a un valore limite che però rimane sempre irraggiungibile:
altrimenti il pensiero stesso verrebbe a essere abolito. Questo disperato tentativo, sempre destinato al fallimento, per ristabilire la continuità del vissuto
smantellato dallo schematismo che il pensiero mitico ha sostituito ad esso, costituisce l’essenza del rituale» (Claude Lévi-Strauss, L’uomo nudo, Milano, Il
Saggiatore, 1971, p. 637).
10 Ivi, p. 642. Così, già in Pasqua di neve, i quarti di montone appesi al mercato di fronte all’interrogazione del soggetto sanciscono se non un nichilistico non
sapere, almeno l’irriducibilità della vita al pensiero: «Che si tratti delle prove necessarie / a stabilire finalmente le misure della perdita / o dei resti di sacrifici
immemorabili / a questo punto è inutile saperlo» (PN 17).
11
«Come una
polpetta crepata».
Cibi, escrementi e viaggi
in Enrico Testa poeta
Fabio Pierangeli
Propongo ai lettori di Mosaico il mio intervento sulla poesia di Enrico Testa per il convegno Il cibo nell’arte contemporanea,
svoltosi a Roma, nel giugno del 2019, nella sede prestigiosa del pergolato della villa appartenuta a Ingrid Bergman
e Roberto Rossellini, a Tor Carbone, Parco dell’Appia Antica a Roma, ora sede dell’Istituto Alberghiero Tor Carbone.
In quei mesi usciva di Testa un prezioso volume presso Il Mulino, Bulgaro. Storia di una parola malfamata.
Narrazione raffinata e incalzante, dottissima, non saprei dire se più garbatamente ironica nell’affondare
nella ferita del fanatismo serpeggiante o più amara nel constatare come si arriva ad un pregiudizio etnonimo
che può sfociare in un discrimine razziale, nella stretta connessione tra segni linguistici ed etica sociale.
Enrico Testa conduce alle origini di un logoro “modo di dire” ancora in voga (pista bulgara, maggioranza
bulgara, editto bulgaro, bulgaro-balcano quale uomo temibile, bruto), nella Storia e nella storia delle parole,
per arrivare all’attualità, figlia pecorona di stereotipi del passato, per «opera di quel “linguaggio di ripetizione”
largamente utilizzato dalle macchine verbali dell’identico: l’informazione, la politica e le altre istituzioni del
linguaggio (…) È la porta d’ingresso nel regno dell’ovvio, di quanto, estratto da un lessico precostituito, viene
offerto al destinatario come “un’evidenza chiusa”. E in questo regno, i padroni e, ad un tempo stesso, gli officianti del
rito che in esso si celebra quotidianamente sono gli stereotipi etnici, le opinioni o, meglio, i pregiudizi del gruppo
che proietta la luce (e le ombre) della sua vis denominandi su un altro gruppo marcato nei secoli negativamente».
La lingua, spiega bene Testa (e dunque la poesia, mi permetto di aggiungere), proprio nel caso del poeta
di Cairn, non si conosce da sola e non può essere considerata come sistema a se stante. Così la lunga ricerca
storica approda ad un punto di partenza preciso del discrimine razziale, motivata con sorde ragioni religiose,
quanto poi, nella superficialità del divenire, accreditato luogo comune. Si tratta dell’eresia dei borgomili,
apparsa nei Balcani nel IX secolo, un movimento manicheo, che «allontanandosi dal cristianesimo ortodosso,
aderì ad una radicale forma di ascetismo: rifiuto di ogni autorità terrena, professione di povertà, ripudio della
guerra e un distacco dalle cose materiali spinto al punto di astenersi dalla procreazione».
Le ragioni novecentesche e attuali dell’uso discriminante della parola, per un popolo tra i più poveri d’Europa,
ma anche tra i più attivi, per esempio nel contrastare il nazismo a favore degli ebrei, non bastano a spiegarne i
motivi, piuttosto si tratta di un innesto tra quelle ragioni storiche legate alle distruzioni dell’eresia, con molte
affinità con i catari, a ragioni più vicine nel tempo. In definitiva, il caso bulgaro, è emblematico, ed estremamente
attuale, della poca tolleranza dell’altro da sé che purtroppo, nella superficialità dell’oggi, deriva da molto lontano.
La poesia dei cairn è anche quel linguaggio non appiattito agli stereotipi del pensiero (anche di taluni
poeti) ma si rende capace di atti di conoscenza dentro l’esistenza quotidiana, all’interno della formazione
individuale della coscienza come nell’evidenziare tare, di natura razzistica, nella società globale.
12
«La poesia è essenzialmen-
e crasse portate, sull’asse terri-
poco, in aperta campagna. / Mangio
te linguaggio figurato, conden-
gno e metonimico. Il macrocosmo
ma sia espressiva e al contempo
pianeta avulso e ben alimentato,
e guardo nel cielo - chi sa quante
evocativa. La figuratività si di-
in cui trova dimora anche la lirica
Bloom nell’incipit del suo volume
privazione o sentieri mistici, l’uva
sato in modo tale che la sua for-
della poesia dialettale rimane un
stacca dal significato letterale».
contemporanea. Sul piano metafo-
Le figure retoriche, continua Harold
L’arte di leggere la poesia (in Italia
rico la semplicità del pane indica
e il vino dionisiaci immettono in
donne / stan mangiando a quest’o-
ra - il mio corpo è tranquillo; / il
lavoro stordisce il mio corpo e ogni
donna».
Vittorio Sereni morde in
un’anguria la polpa dell’estate;
ma ha anche provato il clima di
si legge da Garzanti, 2010), creano
sentieri sensuali, come nel modello
un significato che non potrebbe
biblico degli innamorati del Cantico
La poesia, in generale, scava
Il pane e formaggio degli umili
ricettari dai campi di prigionia sono
attorno ad immagini evocative,
e dei sottoproletari arricchisce e
arrivati fino a noi. Ho avuto modo
attraenti e irsuti, operai vivono
Guerra Mondiale dei tre scrittori
nelle osterie di Pavese, le sue rosse
Gadda, Tecchi e Betti.
consistere senza di loro.
la prosa può occuparsi con più
precisione, come i poemi narrativi o civili, di alimenti, banchetti
dei cantici.
caratterizza la forza del ceto contadino o proletario; personaggi
ciliegie, la campagna, i pergolati.
Si ricordi La cena triste, una tra le
orrore attorno alle guerre, carestia
e privazione. Dalla gente comune,
al soldato, al prigioniero. Diversi
di analizzare quelli da Celle lager,
il campo di prigionia della Prima
La poesia contemporanea
scritta in carcere accenna al rito del
più riuscite composizioni di quel
cibo, ribelle alle portate garantite
dine, dall’incipit, come sempre
dalle famiglie durante i colloqui. In
capolavoro che è Lavorare stanca
dalle istituzioni e creativo con quel
in Pavese, memorabile e scat-
questi tavoli ristretti si scambiano
e la splendida Mania di solitu-
poco che riesce ad arrivare da fuori,
tante, pur in una situazione di
culture alimentari, dalle regioni
paralisi: «Mangio un poco di
italiane a quelle del mondo. Un
cena seduto alla chiara fine-
ottimo caffè sbuca sempre, diventa
le vie tranquille conducono / dopo
Per citare un altro poeta del
stra. / Nella stanza è già buio e
si guarda il cielo. / A uscir fuori,
perfino leggendario in poesie e
prose dalla reclusione.
Novecento, le osterie di Caproni
sono immaginate sul confine metafisico di una terra diafana, di una
ricerca decretata come impossibile,
eppure ripetutamente evocata. Si
rincorre la bestia: animale o dio?
Aspettiamo il tiro del franco cac-
ciatore, l’incalzare del rito della
caccia, non per portare in cucina
libagioni, ma per confondersi
con la preda, in un duello che
metafisico.
13
Zanzotto gusta zucchero golo-
atteggiamento misantropo; si tratta,
troviamo ulivi e castagni, ma anche
che si tenta, “faticosamente”, di
temporanei, la semplicità del pane
definendone, mi viene da dire, una
si volge, come in Giuseppe Conte,
mente contaminate dalla natura,
so, salvia rossa e radicchio, Franco
Marcoaldi gusta birra; in Elio Pecora
la più modesta cena della vita di
ogni sera nella città. In poeti con-
diventa tema mistico, per esempio
in Mariangela Gualtieri. Viceversa
contro lo spreco e l’eccesso, che
potrebbe portare, con l’esaurirsi
delle risorse di un globo affaticato
e stanco, ad una carestia questa
volta irreversibile.
Senza alcuna pretesa sistematica, scegliendo un terreno di testimonianza di lettore appassionato,
dedico agli amici degli incontri di
letteratura e cibo, Franco Zangrilli
e Giuseppe Varone, nel poetico
considerazione sulla sorte umana
esplicitare. Come nel volumetto
Bulgaro, scavando nelle parole,
loro antropologia precisa, per scoprire alterità e differenze magistral-
tici luoghi delle altre raccolte, di-
versamente da quelle osterie di
avamposto metafisico, è sede di
prepotenza, di divertimento a tutti
i costi, indifferente ad ogni fragilità.
Rospi ingordi gli avventori nello
smemorarsi della sera, in questa
lirica senza titolo, della sezione
Discorso dell’ostaggio:
proprio come nel caso dei cairn.
Arricchiamoci delle nostre reci-
Non ricordo più il nome dell’albergo
l’ispirazione poetica e culturale di
La sera prima al ristorante
Testa. Nel prato coperto e freddo, la
gli empi, i golosi e gonfi come rospi,
proche differenze, suona un motto
di Paul Valéry che senso valido per
melma qualunquista e superficiale,
anche delle parole, resiste il seme di
dove al mattino, a colazione,
cercai di consolare il tuo tremore.
non ti avevano rivolto neppure la parola.
una non detta ma allusa speranza,
Non fu difficile dopo accordare,
dettata agli affetti veri.
il mio al tuo passo lento
nel lungo corridoio,
Così in Faticose attese, o in
più doloroso accarezzarti nel silenzio
Alla dispersione e allo spreco
pergolato che ci accoglie su una
delle consolari più famose al mon-
titolo appare rovesciamento non
do, alcune note sull’ultimo libro
solo climatico del compimento della
di Enrico Testa, Cairn che ritengo
del ristorante, si contrappongono
tra i migliori degli ultimi anni e
Resurrezione in un piattume grigio
distante da ogni meraviglia, dove
per Montale, appare un fiore.
forza religiosa la presenza dei lari,
rappresentativo dell’Italia di oggi.
Storico della lingua italiana e
della poesia di fama internazionale,
ha pubblicato sei raccolte di liriche.
La prima del 1988 per San Marco
dei Giustiniani Le faticose attese,
le successive cinque (compresa
Cairn) con Einaudi.
In generale, Testa vive, con
sgomento e incredulità, la spro-
porzione tra la sua pietas curiosa
dell’aldilà, una energia vitale feri-
un Pasqua di neve (2008), dove il
appunto, inaspettato, raro, come
In questa raccolta, viaggi e
alimenti corrono paralleli in una
linea di smemoratezza, specchio
di una condizione umana affannata
perché non riesce a decifrare il
proprio destino, nonostante le lenti
filosofiche e poetiche sovrapposte
al primo istintivo sguardo.
Le osterie dell’amato Caproni
di chi ti dava per morta anzitempo.
le immagini della intimità della
casa quando si percepisce con
tema sempre più sentito nelle recenti raccolte di Testa. Gli innume-
revoli viaggi sembrano riportare
a questo colloquio intimo, con chi
ha compiuto il trapasso finale.
In gesti semplici e ripetitivi, in
Ablativo (2013), come può essere
piegare lentamente un tovagliolo
e rimanere stupiti di essere in
restano quel margine dove una pa-
contatto, per scarica elettrica dei
ta dal senso della morte e il caos
rola scambiata sottovoce potrebbe
mondano, deprimente e spersona-
portare conforto, evidenziando la
lizzante, di cui il ritrovarsi a pranzo
sommessa epifania di una umanità
ricordi, si ritrova una «geometria
o a cena, per ricorrenze particolari
o nella quotidianità del lavoro o
familiare, rappresentano un cuneo
nel mosaico complessivo.
A prima vista potrebbe sem-
brare una dichiarazione di netta
separazione dal mondo di oggi, un
14
invece, di una diversa misura di
Il ristorante, come in iden-
ancestrale».
Nel ristorante mondano, inve-
più autentica.
ce, si ritrovano i compagni di classe
Canzone dell’alba, dove il soggetto
zioni, un luogo di riunione di sen-
Il vino dell’ubriaco non scalda,
come nella poesia tratta da Larkin,
ormai avanti negli anni. Quello che
doveva rappresentare, nelle inten-
poetante e trasgressivo nel verso
timenti e di affetti da rinsaldare, si
incipitario dichiara «lavoro tutto il
rivela una contraddittoria serata di
giorno e la sera provo a ubriacarmi».
rimpianti, dal sapore dolce amaro.
Il cibo diviene parte integrante di
inadatto, incapace di abbandonarsi
questa delusione, probabilmente
ad una gioia passeggera.
già preventivata: è mediocre e le
«briciole dimenticate sul pavimento
l’oggetto della tavola, il tovagliolo di
/ invitano i colombi ad entrare».
Losanna (si rammenti il precedente
Le briciole e soprattutto i gentili
di Ablativo), si lega al ricordo, acqui-
colombi fanno parte di quel recu-
sta, con lo struggersi della poesia,
pero dell’interstiziale, del rifiuto
dignità. L’indifferenza si sviluppa in
scuri Caproni e Montale. L’attesa,
che si tratta della premessa da cui si
E invece, proprio in quel caffè,
iperbole e Testa ne coglie l’elemento
al centro della poetica delle ultime
paradossale, per rendere ragione
raccolte, sotto il segno dei due Dio-
giunge con facilità alla corruzione,
in questi ultimi libri, tocca le corde
alla malvagità. Ma anche ad una
più rade, cade imminente, nascosta
professionalità rigida e asettica
tra il traffico degli spostamenti, le
visite e i viaggi, una certa confusione mentale:
Oh venisse una sua breve notizia
(fioca e speranzosa)
Lungo il viale dei tigli
che porta alla stazione…
mi basterebbe una lettera sola
anche smangiata e corrosa.
La mancanza del desiderio
trasmette nei luoghi della città
globalizzata un grigio colore che
fotografa i gruppi di turisti e di
cittadini. «Sono inerti e lenti. /Non
rivendicano nulla alla vita». Lo spaesamento del viandante romantico
e novecentesco si è ridotto a questo
Diverse liriche di Cairn ri-
non senso, all’automatismo mecca-
precedenti, specie nella sezione
farà mai vera esperienza, storica e
prendono il tema del viaggio e
raddoppiano l’invettiva dei libri
Album di Capaneo. Nel caos di città
gremite rimangono briciole di una
utopia. L’affollata città brasiliana di
San Paolo ne è emblema.
Gazze e stracci a San Paolo
nico di chi fotografa continuamente
Cosa? fotografia dell’albergo da
un convegno a Palermo «asilo di
blatte e filologi».
Tuttavia la maglia rotta nella
rete si scorge, ancora più netta che
nell’illustre precedente, in questo
contesto. Già dall’interrogativo del
titolo e dall’aspettarsi «un segnale
da lontano», come poi, più avanti,
al margine di un evento turistico in
Sardegna, quando l’idea del vuoto
una realtà monumentale di cui non
diviene così ripugnante, perché
quando il poeta si trasforma nel
si decide per un’altra strada, dove
umana. Il disagio si fa umoristico,
pitocco «inutile al paesaggio» che
visita gli States delle vetrine luccicanti e della merce sportiva griffata
e costosa. Ha questo senso la sosta
nello svizzero Cafè Romand, nella
tutta questa gente che incontriamo per via
che nasconde il vuoto, come in
prima sezione che porta il titolo, ro-
è sul punto di perdersi.
vesciato e sarcastico, ma non privo
Cosa serva per trattenerli
di attesa, della diade filosofica: Ora e
troppo facile scelta (che ha i suoi
interessati profeti di nichilismo), e
abitano persone, singolari e plurali:
«Al momento a me basta questo
rosario di sguardi. / O anche solo il
riflesso d’ambra / che, alla partenza
o al ritorno, / inclina, nella stretta,
l’occhio sulla mano / in cerca di
conforto».
Sono i luoghi riassunti nell’ul-
qui. Luoghi dello spaesamento, non
tima sezione dal titolo esplicito nel
loro non vorrebbero.
poco», confessa di rubare cose
sotto il segno del capovolgimento
ancora un momento sull’abisso
certo della epifania della salvezza.
suo essere appiccicato, accatastato
Sono inerti e lenti.
Il poeta, «cleptomane da
inutili in questi viaggi, souvenir
Nonsisadove che fa eco alla prima,
Non rivendicano nulla alla vita.
banali strappati alla usura del pop,
Briciole gemiti preghiere.
per bisogno di confessare la sua
luoghi esotici sempre uguali a se
non lo si sa
e - anche a saperlo -
Le gazze nere gracchianti sugli alberi del viale innocenza, perfino la commozione
e sui rami le ragnatele di stracci
senza oggetto, in quel mondo turi-
e plastica a brandelli pencolanti
stico che lo ha già definito goffo e
dell’ora e qui. Stazioni di polizia,
stessi, e il vero tormento degli aerei,
dove anche se «ti vorrebbero seda-
to», esce ancora fuori una vitalità
sghemba e generosa, assicurata
15
da quella parola sottovoce tanto
amata dal poeta.
non c’è più e per i dimenticati in
l’acume e la pazienza di una lunga
terra, è il vivere di molti, di troppi
tradizione di sapori. Da qui, il terro-
(se non di quasi tutti) senza capire
re dell’allegoria, in un tipico modo
tico, con le mosche ronzanti, diviene
niente, «fingendo, alcuni, di capire
di diminuirsi, di amplificare l’effetto
lano il cielo della patria e deter-
di cui specialmente è piena la Roma
la “morale” la lirica delle polpette.
L’albergo di Casablanca, asetlo spazio della rabbia, immagine
di quelle bestie idiote che sorvo-
mina «il mio starmale»: sono gli
«escalofonisti tutti – vecchi e nuovi
- /i professionisti del maneggio
dell’argilla», di cui si dice, in buona
tutto». La specie dei «pavoncelli
sediziosi» che oltraggiano l’umiltà,
degli urlanti e dei politici, descritta,
sempre con grande lucidità e nitore
linguistico, nonostante l’insolita
forza dell’invettiva, in una delle
compagnia di altre “mosche” nella
liriche successive nel diario del
Escalofonisti è neologismo
rima con il male, con lo sconforto
lirica successiva che se ne può fare
certamente a meno.
tratto dal “parlar chiaro” di papa
Bergoglio: sono scalatori nel senso
dispregiativo di arrampicatori so-
ciali. I parchi sono riempiti da quel
che resta di incivili pic nic «bottiglie
moderno Capaneo, non prima di
aver fissato nel Natale borghese, in
di questo trascurato vivere che
dei forti e dei sani a chiudere con
All’altare dei lari. Sentendosi una
polpetta crepata che, dopo tutti
quegli anni, non ha trovato una
sua durevole dimensione, una sua
capacità di tenacia per rispondere
adeguatamente ai condimenti eterogenei e falsificati della modernità.
Il richiamo alimentare, per-
fettamente in linea con la trama
sembra escludere la possibilità di
immaginifica delle metafore della
questa devastazione incorporea
narrativa Metafisica del pollaio, dove
una epifania della autenticità.
Il poeta sembra opporre a
raccolta, trova una vetta creativa, tra
alto e infimo, nella straordinaria lirica
di plastica e lattine accartocciate».
la violenza dell’escremento, della
Ciò che addolora il poeta, nella
“merda” per ricordarci di quali
immerso nella poesia di un passato
umanità, ora e qui, siamo fatti.
ancora poco tecnologico, lavorare nel
stessa profonda sensibilità per chi
Come un banco di prova, in
equilibrio tra le generazioni forti e
la fragilità di oggi, ecco il poeta in
cucina, con le polpette che non sono
venute granché, sotto lo sguardo
della zia e forse della nonna, morta
tanti anni prima.
Nella cucina scura, non detto,
si aspetta quel miracolo della congiunzione tra vivi e i cari defunti
diffusa in tutta la raccolta, come si
è visto. La goffaggine del presente,
anche nel preparare i cibi della me-
appare, nei ricordi, il liceale Testa,
pollaio, offrendo alle galline pane
vecchio ammollato nell’acqua.
La scala diventa l’oggetto del
transfert: non molto diversa da
quella biblica di Giacobbe:
nei suoi pochi pioli
in un verso, a me la vita
e, nell’altro, le mie preghiere
ad un cielo privato ma condiviso
da chi ora invece tace
come acciaio nel rosaio
moria, o nel versare liquidi e succhi,
Una sghemba metafisica del pollaio.
chiede di essere perdonata, di poter
maturità, si rida della fantasia del
perduta anche quella “povera” arte
iniziazione, affondata nell’antico e
quello di guanàbana, con tanto
di doppio senso in Un incidente,
abbracciare la grande presenza che
si nasconde, mentre sembra andata
di cucinare le polpette.
Povera è usato chiaramente
in antitesi: in quelle ricette risiede
la ricchezza del ricordo, la creati-
vità suprema della gente semplice,
16
inettitudine, davanti allo specchio
Poco importa che, nella piena
ragazzo: quella scena rimane intatta
come un vocabolario primitivo, una
sospinta verso l’alto, se non altro il
cielo delle persone scomparse. Di
tutte le parole, allora, se ne sceglie
una, quella del sentimento prevalente: «magone».
Ablativo e di quest’ultima raccolta,
ai cibi di plastica degli imbecilli che
si comprano in via della Scemenza,
in ogni nazione, ormai.
Si veda, in questa recita dell’inautentico di cui il cibo è elemento
non secondario, la lirica della sosta
forzata in aeroporto a Cagliari Elmas,
Vuoto d’ore, con lo squallido e deserto self-service, dove si consuma
l’insalata mista e il trebbiano scadente è valido solo per smemorarsi.
Il cibo si esprime nella forma
della evacuazione, dell’escremento,
del vomito, volutamente rovesciato
di fronte al conformismo generale,
da cui si esce solo invocando paragoni lontani e assurdi, come nel
Ancienne cuisine apre la se-
Solo nella terra e nei topi
zione che offre il titolo complessivo
non abbiamo piantato i nostri
i sapori della cucina povera dei
e nelle piccole volpi,
lari domestici, nonni e bisnonni,
meste e diffidenti
[ultimi denti
alla raccolta, Cairn, snocciolando
in tempi precedenti alla stabilità
economica. La densità evocativa
si coniuga bene con la concretezza
dei cibi, estraendone, letteralmente
i succhi, il cuore emotivo.
«Bocconi di stenti», patate
- le uniche che ora qui
ancora ci confortano
con i loro grandi occhi
benevoli e attenti
Al finale di Ancienne cuisine
grandi come biglie, tassi, merli
conviene allora, per distanza oppo-
fiduciosi e gentili, colombacci de-
sitiva, accostare altri emblematici
boli e lenti, immancabili castagne,
fino a noia, il crescione rubato
alle capre.
L’opposto delle cucine raffi-
versi mutuati da Larkin, Fuori per
un panino:
nate e dei fast food. Cibo strappato
«Sabato mattina.
con fatica della terra o ricavato
col corpo tutto dolorante
dalla fauna circostante, anello
piedi compresi.
sacrificale di una società fondata
Degli imbecilli
Esco per un po’ di carne
sul rispetto e su una liturgia lenta
si salutano come automi
e corale.
mentre mi scontrano
Il poeta mantiene la sua ironia
senza clemenza.
gentile, evitando il baratro della
È un inferno
nostalgia, descrivendo con reali-
comprare qualcosa
smo, attraverso la cucina, il mondo
in Vico della Scemenza».
andato e quello presente. Spetta al
lettore il confronto, secondo la sua
esperienza e sensibilità.
Flash riassuntivo, dalle cit-
tà della dispersione dei viaggi di
poeta, ancora Larkin, che piscia
sul fuoco e si imbratta di cenere o
molla scoregge nel viale, vomitando
sulle proprie scarpe: «In queste
mansioni, l’una dopo l’altra, sta oggi
la vita /dolente / finché la morte
non renda il nostro corpo ancor
più / perfetto e fetente».
Lo schifo, l’escremento, la
defecazione si può affidare ad altri: abbiamo anestetizzato anche
la merda. A persone che hanno
lasciato il proprio paese, i propri
affetti e si occupano del corpo fe-
tente e imperfetto degli anziani o
dei malati delle classi agiate del
mondo occidentale.
Nel suo realismo assoluto, la
lirica di chiusura della sezione Volti
e chiodi, L’ordure, l’ordre, ha una sua
violenza più incisiva della prece-
dente perché colpisce una dinamica
diffusa e assolutamente condivisa
dalla nostra società. Un dato di fatto.
Una poesia racconto, come
altre nella raccolta in una suggestiva
commissione tra alto e basso. La
signora elegante che esce col cane,
sempre indaffarata al cellulare, lo
porta al giardinetto a fare i suoi
17
bisogni e poi lo pulisce e «animata
tra ora e qui e al di là, nel mo-
da quell’amore, verso la redenzio-
sacchetto bluviolaceo che depone
cari alla morte. Su quella soglia,
l’allusione al mar rosso (minusco-
Lo sguardo festoso del cane,
mente nell’egoismo del non senso
non pare richiamarle alla mente,
o si sente come una ferita aperta,
gli occhi pieni di lacrime del padre
dell’attesa, ne costituisce l’avam-
da senso civico / e rispettosa del
bene comune», ne raccoglie in una
come un tesoro.
mento supremo, per ogni uomo,
ne. Lo sguardo acuto e realistico,
dell’accompagnamento dei propri
ma non dissacrante, avverte che
in bilico, o ci si rifugia completa-
una parodia, essere pronunciato
in falsetto, ma con convinzione e
neppure per il «gioco del contrasto»:
visibile all’esterno. Un tema così
verità. Questo è il compito della
immobile a letto
posto più radicale, di fronte alle
la, in modo commovente, capace
a cui poco prima rifiutò lo stesso servizio
intimo che si aggancia a quello
lacrime della madre, il tramite
parola che «dice ancora / quanto
non c’è più niente da dire», parodi abbracciare e perdonare ogni
della vita. Colei che ha cura, per
colpa (ma non si sottovaluti, anche
come la riflessione sul micro rac-
Capace di instaurare la dia-
conto offerto in seguito: l’attesa è
lettica umanissima e interessantis-
tando sulle ripetizioni e raddoppia-
dei propri cari defunti è un valore
Rinuncia al patrimonio
menti sonori, è la condizione della
e loro transustanziazione
di prepotenza nell’attesa minuta e
inestimabile, tra i pochi sopravvis-
delegandolo,
con schifo pari al magone del vecchio,
all’ecuadoriana arruolata a tal compito
[e ad altri.
Mistero della merda.
degli scarti più umani
sotto il segno di un diverso padrone
Stridore evidente, che l’intel-
statuto antropologico.
L’incipit virgolettato funziona
eterna, si domanda il poeta, pun-
vita stessa? L’attesa metafisica entra
dolorosa affinché la morfina plachi
in questa lirica programmatica,
l’ironia e l’autoironia).
sima che percorre Cairn, il ricordo
suti all’invettiva verso la stupidità
contemporanea.
Tra le liriche dedicate a questa
il dolore per risalire poi al generale
vera e propria religio, un silenzio
filosofico, mantenendo lo stesso
perdurante nel mezzo del clango-
perché la tua morfina, mamma,
l’esplicitazione di una poetica. Pro-
correlativo oggettivo:
re strillato della società distratta,
condita qui dallo snobismo idiota
ti plachi almeno per la notte
della donna, appartiene normal-
domandomi una amnesia generale.
sa annunciata da un titolo che è,
ligenza del poeta coglie, con sarcasmo pacato, fotografando nitidamente la scena. Il risultato è però
violento, tanto questa figurazione,
e il rivotril faccia effetto,
mente alle nostre famiglie di ceto
medio.
Il desiderio di scomparire, del
Pone il tema del lavoro degli
non esserci di fronte al dolore, al
immigrati, di fatto una risorsa im-
quel corpo insultato dalla vecchiaia
portante e ormai irrinunciabile,
e introduce al cuore pulsante del
libro, l’elegia struggente per le pre-
e dalla malattia, alimentato tramite
sondini di plastica, infrange e traumatizza i ricordi.
senze invisibili, per le ombre del
Il poeta, per il fatto stesso di
ricordo. Invettiva e pietas, come nel
comunicare questa desolazione,
caso di questa lirica, sono i binari
queste domande, non è capace di
paralleli, all’interno della struttura
amnesie. Il suo continuo e ironico
dell’intero volume.
umiliarsi è segno di umanità pro-
Il corpo malato, come un sudario in cui riposano speranze e
sofferenze, torna al centro di «ma
si dovrà proprio eternamente?»,
con versi memorabili, in bilico
18
lo nel testo) non può che essere
fonda, singolare, acuta. Alla fine
ripagata, dai versi finali della lirica,
addolorati, ma con un segno di speranza, di passare il quotidiano mar
rosso, aperto da quella dedizione e
scelgo un rubino in prosa, quasi
invece, un verso totalmente lirico:
Il fumo azzurro delle lontananze.
Gli anziani, i nonni hanno una luce
di santità senza il bisogno di ceri
Testa saggista e storico della lingua,
«gran tempra».
estranea alle trattorie di paese, alle
come il pregio più alto della poesia
celebrativi. Erano donne e uomini
e basta. Moralmente sani e vivi, di
dell’ultima parte del Novecento. Non
osterie della gente semplice, luoghi
Una guida e un sostegno, sep-
pur in una dimensione onirica.
della parola sommessa.
Quella luce perpetua, un contro
Con una generosa lettera in-
viata a chi scrive, Enrico Testa,
altare, ma impossibile, alla attesa
eterna, finisce per esserlo la poesia,
rispondendo ad una mia in cui
nella trama quotidiana, nel ricer-
esponevo le idee alla base di que-
care occhi e volti fuori dagli stracci
sto saggio, rilevava «i motivi a me
raccolta. Sotto il segno di Montale,
quotidiani a situazioni sociali, il
più cari» di Cairn: «la realtà umana
del non senso e della indifferenza.
di oggi, il ponte che unisce istanti
Sono le pietre miliari della
del miracolo laico umile, silenzioso,
precipitare in un fango in cui si
appena percettibile, ma presente
confondono ragioni primordiali di
alla lucida autoironia amara e a
vita e inutile dispendio dei nostri
tratti gioiosa del poeta. Si produ-
sforzi, l’invocazione e un’attesa di
cono nei luoghi dell’indifferenza,
resurrezione per i dimenticati».
ra carpa dei giapponesi.
cibi) delle nove sezioni da Ora e qui a
fenomeni naturali, episodi umani,
Mi sembra di poter sintetizzare
apparizioni animali, come la signo-
il passaggio attraverso i luoghi (e i
I Cairn «altrove li chiamano
Steinmänner, uomini di pietra, /
nima e soprattutto la contraddittoria
da queste parti invece, un po’ maldestramente, ometti» ne sono il
Radura che contiene le luci e le ombre
della condizione umana, nell’umido
Nonsodove il fango della poesia omo-
buio, selva dantesca, si può trovare
correlativo oggettivo completo, in-
una luce trasognata. Allora non si
cludendo l’idea di guida caproniana
nell’esistenza irta più che di ostacoli
pungenti di ottusità, e quella della
può fare a meno di correre, infrangere la disillusione e l’indifferenza,
loro accezione antica di monumenti
Ecco il segno di un’altra orbita
funerari eretti «in forma di pegno o
che Arsenio intravede nella bufera
umana speranza, tra rumori liquidi
un pensiero ambiguo e sragionevole
montagnole di sassi che sull’altipia-
nascano da dentro o da fuori».
rispetto per i morti». Oppure, ecco
l’emergere anche in questo caso di
montante e Testa in questi simpatici
sguscianti nel sottobosco. Comunque
e totemici omini di pietra, piramidali
«Nessuno sa dire se questi suoni /
tipico dei viventi, «per impedir loro
no invaso dalla nebbia amichevol-
Testa, portandosi dentro a questi
rovi pungenti, vi passano serpi e le
versi tanti precedenti, dal culto dei
more mature, assaggiate, sanno di
familiari, le apparizioni, le invettive,
sangue. Così è la vita, e la lotta, il
di risvegliarsi».
Importante, sottolinea deciso
che ora (ora e qui) ci dicono, in tanto
affannarsi (quanti affanni nei luoghi
mente indicano una traccia.
Accanto si formano cespugli,
Male-Natale.
Eppure l’umiltà di quei sassi,
dell’indifferenza di questo volume,
segnavia e segnavita, evitano alle
in cui il Palazzo di giustizia è un
persone di cadere nei crepacci e
ennesimo e forte testimone di mura
nei ghiaioni insidiosi.
e corridoi), «qual è il sentiero irriconoscibile.// Segnavia e segnavita».
ricaderci ancora nella illusione, nella
Indicano quella poetica dell’in-
terstiziale, su cui riflette anche il
Nonsodove e tutto il libro si
chiudono, modificando uno scam-
bio di battute di Pinter, in Ceneri alle
ceneri, sul motivo dell’impossibilità
di un nuovo inizio.
Testa inventa una soglia, quel
baratro che si diceva. Negando
l’attesa l’ha fatta brillare, più di
una volta, nella notte del detrito e
dell’invettiva. È la parola «che dice
ancora». Negli spazi interstiziali
è capace di indicare nuovi inizi,
nascondendoli per pudore.
19
«La caduta
del cielo»,
di Enrico Testa
Lucia Wataghin
“A volte vi rivedo tutti quanti in cucina.”
Enrico Testa, Ablativo
“È difficile venire qui a dire che vuoi includerti nelle cose scomparse mentre ti dai da fare
a mettere insieme una collezione per impedire che le cose scompaiano”.
Ablativo
Un piccolo volume, Jardim de sarças,
essere “fraterni” (Metafisica del
suggerimento venuto dal Brasi-
una plaquette stampata in poche
pollaio). Il nuovo libro, questo pic-
le, sulla natura e le modalità del
Peterle, Andrea Santurbano, Luisa
poesia e il poeta, muniti di aculei,
copie a Ipanema per la 7letras nel
2019, con traduzione di Patricia
Faccio, raccoglie, in veste brasiliana,
alcune delle poesie più recenti di
Enrico Testa, 10 poesie in tutto (6
tratte dall´ultimo libro, Cairn, del
2018, e 4 inedite, del 2019). Testa
poeta e critico è stato intensivamente pubblicato e tradotto in Brasile,
dove è venuto più volte per corsi e
conferenze, e questo libro, pensato per l´edizione brasiliana, porta
qualche segno dei suoi soggiorni
in questo paese.
Giardino di rovi è il titolo ita-
liano (ma nella plaquette compare
solo il titolo in portoghese, Jardim
de sarças), titolo ossimorico e bi-
oppone fiori e rovi, a definire la
dialogo con i morti, che occupa
sin dall´inizio la poesia di Enrico
Testa. La caduta del cielo riunisce
secondo la migliore tradizione dello
dunque due aspetti opposti e com-
stundaio (quel ligure dal caratte-
plementari: da un lato, concretezza
re diffidente, orgoglioso e timido,
e dotato di in “senso di specifica
terrena e materiale, rappresentata
dall´allusione al mondo genovese,
superiorità nell´ordine dei valori
dall´altra il richiamo a una cosmo-
con quella dei dizionari genovesi.
mondo dei morti. Se nei giardini
morali”, secondo la definizione di
Montale, che peraltro non coincide
logia primitiva che offre diversi
mezzi simbolici di contatto con il
Rigore, austerità e crescente vigore
di Testa non mancano crochi e
ama anche, come fa in Cairn, ripren-
ligure adottivo Giorgio Caproni,
nell´invettiva – spine e aculei - sono
caratteri della poesia di Testa, che
dere e tradurre magistrali invettive
da altri autori e testi, come Larkin
e la Bibbia).
Partiamo qui da una poesia,
fronte che indica non un roveto,
La caduta del cielo, in cui il mondo
mancano spine e rose; del resto
l´ambito della memoria domestica,
ma il mondo, “questo giardino in-
ligure incontra in modo inaspettato
vaso dai rovi” (Grate) dove non
il mondo brasiliano: da una parte
per questo poeta i rovi possono
20
colo florilegio in versione bilingue,
appunto genovese, e dall´altra un
altri tributi a Montale (così come
al ligure Sbarbaro e soprattutto al
a ognuno per ragioni significati-
vamente diverse, ma tutte legate
a scelte identitarie di sobrietà e
grande discrezione), è a un altro
genovese, il poeta dialettale Edo-
ardo Firpo, che Testa attribuisce
qui il compito di rappresentare il
senso terreno, scettico, materiale
e popolare delle cose, da conciliare
con la cosmologia brasiliana de
La caduta del cielo, tutta una straordinaria concezione del mondo
tutto ciò che proviene dalla terra
(si parla qui dell´alimentazione
degli antenati, “bocconi di stenti”
che chiede urgentemente di essere
attinti direttamente dalla natura).
po1 ripresa qui da Testa fa il nido
morti e d´altra parte nella costante
in terra, s´alza e canta [“a fà o seu
affermazione di concretezza, fisici-
trapposizione terra-cielo conte-
controbilanciata dall´aspirazione
ascoltata. L´allodola (in genovese,
Terra, fango, letame sono termini
“a laudrinn-a”) della poesia di Fir-
ricorrenti nell´intenso dialogo con i
nïo in tæra, a s´arsa e a canta”]; la
tà, corporeità, anche questa basila-
terra, il primo termine della con-
re in questa poesia, anche quando
nuta in questa figura, si ramifica
la bellissima, autoironica, poesia
istintivamente indispensabile, si-
forse ora meno scettico poeta am-
curo, concreto punto di riferimento.
mette con filosofica rassegnazione:
abbondantemente e in profondità
nella poesia di Testa, come il più
Così è affermato in Cairn per esem-
pio il legame “fin dentro la terra.
all´accesso a tutt´altri universi. NelMetafisica del pollaio (Cairn), il
“Pur non avendo mai avuto segno,
/ su quell´umile e sporco albero
suo annuncio catastrofico di morte
di tutta l´umanità, che seguirà alla
morte della foresta, qualora non si
riesca a fermarne la distruzione.
Oltre la sua scorza:”, con tutto ciò
della vita, / di alcun movimento
La cosmogonia yanomami è stata
che è dentro, confuso, mescolato
in discesa o in salita / (non anime
descritta in un libro dallo stesso
a formare la terra: “tra larve radi-
ci fragili lombrichi / ali di morte
oggi, dopo tanti affanni, / non mi
dallo sciamano yanomami Davi
farfalle crisalidi e orbettini./ Nel
angeli luci e messaggi) / a rifletterci
Kopenawa e dall´antropologo fran-
pantano più umano dell´umano”
sembra poi così bislacca. / O forse
titolo (La caduta del cielo), firmato
sbaglio ora come sbagliavo prima
sia, Ancienne cuisine, il rapporto è
La poesia La caduta del cielo,
condotto all´estremo, all´identità
dedicata al genovese Edoardo Firpo
tre che nel campo dell´antropologia
(E fango ancora); in un´altra poe-
materiale del corpo prodotta dall´assorbimento senza mediazioni di
/ e prima ancora.”
e al brasiliano Davi Kopenawa, allu-
de alla cosmogonia yanomami e al
cese Bruce Albert: un testo di vitale
importanza – politica e sociale, ole etnologia –, pubblicato prima in
Francia nel 2010 e poi in Brasile,
nel 2015, per la Companhia das
Letras, con il contributo prestigioso
dell´antropologo Eduardo Viveiros
de Castro, che ne scrive la prefazio-
ne. Una breve sintesi di Viveiros de
Castro spiega che il mondo secondo
gli Yanomami è “un essere vivo
composto di innumerevoli esseri
vivi, un superorganismo costantemente rinnovato dall´attività vigi-
lante dei suoi guardiani invisibili,
gli xapiri, immagini spirituali del
mondo”; è un “plenum animistico”,
che richiede grande attenzione e
rispetto per la “natura mitica delle
cose”.2 Per Kopenawa, “La foresta
1 A vitta. Gh’ò domandòu a un vegettin de l´Antoa / ch´o fava a guardia a-e pegœ: / - Comme o se ciamma quest´oxellin che canta? / - A l´è a laudrinn-a a l´è,
/ a fà o seu nïo in tæra, a s´arsa e a canta. [La vita. Ho domandato a un vecchietto dell´Antola / che custodiva le pecore: / Come si chiama quell´uccellino che
canta? / È l´allodola, / che fa il nido in terra, si alza e canta.
2 Eduardo Viveiros de Castro. “O recado da mata” (prefácio). In Davi Kopenawa e Bruce Albert. A queda do céu. São Paulo: Companhia das Letras, 2015,
pp. 13-14.
21
è viva. Morirà solo se i bianchi
L´interesse di Testa per
Fra una personale cosmogo-
insisteranno nel distruggerla. Se
l´antropologia e suoi possibili rap-
nia animistica e la scrittura poetica
ci riusciranno, i fiumi spariranno
porti con la poesia è già attestato in un
si può situare l´animarsi delle voci
montagne per giocare nella foresta
in cui riprende l´idea, già di Walter
dalle cose terrene: voci già emesse,
sotto la terra, la terra si disferà (...).
Gli spiriti xapiri, che scendono dalle
nei suoi specchi, fuggiranno molto
lontano. I loro padri, gli sciamani,
non potranno più chiamarli e farli
suo saggio del 2014 su alcuni motivi
antropologici nella poesia di Sereni,
Benjamin, che “la scrittura poetica
mantenga alcuni punti di tangenza
o di contatto con un mondo pre-mo-
danzare per proteggerci. (...) Allora
derno che, ormai ‘superato’ dallo
finiranno col morire. Quando non
può ricondursi a moduli, schemi, temi
moriremo, uno dopo l´altro, così i
bianchi come noi. Tutti gli sciamani
ne sarà rimasto nessuno vivo per
sostenere il cielo, il cielo cadrà”.3
Di fronte alla prospettiva di ge-
svolgersi dei comportamenti e dei
che popolano il mondo poetico di
Testa, provenienti dalla natura e
passate, che si risvegliano, voci
come preghiere, come suppliche,
fiati, affanni, “aliti sospiri baci /
lacrime respiri di sollievo o di
tormento / sudori passaggi delle
codici della società contemporanea,
dita”, trattenuti dalla “superficie
in altro modo, ed esteso al dialogo
uno soltanto, di molteplici cuori./
propri delle culture ‘etniche’”. Detto
4
con i morti in tali culture e in poesia,
astratta” delle grate di un confessionale (Grate); “voci o echi, in
Nessuno sa dire se questi suoni /
nocidio, la filosofia della natura
un brano di un´intervista concessa a
nascano da dentro o da fuori” (Radura), “voci insidiose e petulanti”
fine del mondo, appunto la caduta
Patricia Peterle e Elena Santi:
è stata una forma di dialogo con
del cielo, che Testa riprende nella
gli assenti e, in particolare, con i
formano uno “strato – che circonda
funesto, al “peso crescente dei
strada. (...) Nel passato e soprattutto
degli yanomami si è allargata a
“Fin dalle origini (...) la poesia
che assediano l´io (sotto la sferza
sua breve poesia e che attribuisce,
morti. La mia poesia non fa altro
in realtà il pianeta intero - folto
morti”:
sotto altre latitudini il possibile
comprendere questa profezia di
in contesto diverso ma altrettanto
che percorrere, a suo modo, questa
“contatto” con gli scomparsi av-
La caduta del cielo.
a Edoardo Firpo e Davi Kopenawa
l´allodola fa il suo nido a terra,
s´alza con ali tremanti e canta nel cielo
che, per il peso crescente dei morti,
veniva anche per mezzo di forme
rituali che avevano la funzione di
mediare e assorbire gradualmente
il lutto, modellando, per così dire,
l´assenza. Poi, al contrario, c´è stata
della funzione e del rispetto per i
strato dopo strato,
morti: espulsi dal circuito sociale
Non fa nemmeno ombra, l´allodola:
si nutre di germogli di cicuta e di uova
[di locusta,
scende verticale tra le nubi.
Solo lei rimarrà col suo trillo
a rasentare – nell´azzurro fuggendo –
questa inconsapevole allucinazione
patita con immeritata dedizione
delle tante suppliche emanate” (se
si potesse dar forma...), una sorta di
aura della preghiera rivolta però a
un caproniano “latitante signore”;
sarà “l´odore dei millenni che si
respira all´improvviso” (Può darsi
sia). Sono voci anche il raspìo della
vera del genitore sul palmo della
mano del bambino (dopo averlo
una radicale rimozione della morte,
sta per cadere a cascata,
conficcandoci, noi, sottoterra.
di un´irruente primavera), voci che
e simbolico ancora prima d´essere
entrati nell´aldilà. In questa situazione, a meno che non ci si voglia
affidare a pratiche medianiche o
spiritiche, che personalmente sento
lontane, la poesia resta l´unica pra-
tica simbolica, oltre alle preghiere
per i credenti, di rapporto e dialogo,
benché paradossale e aporetico,
con i morti”.5
3
Davi Kopenawa e Bruce Albert. A queda do céu, cit. p.6.
4 Enrico Testa. “Di alcuni motivi antropologici nella poesia di Sereni”. Atti del convegno Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposto.
Milano: Ledizioni LediPublishing, 2014, p. 29.
5 Enrico Testa. “O fio das relações humanas”. Entrevista com Enrico Testa. In Patricia Peterle e Elena Santi. Vozes. Cinco décadas de poesia italiana. Rio de
Janeiro: Editora Comunità, 2017, p. 312.
22
piegato più volte), e il becchettio
ai lavori dell´orto e del giardino:
si torna al mondo ligure, in cui si dà
geggi “adatti esclusivamente per
gli assenti e i morti. Questo dialogo
e mestieri”); molti termini della
della R di Firpo sul marmo (il merlo
becchetta sul marmo), e con questa
“hai passato a spinare rose / tutta
la tua vita” (Tela di sacco); gli ag-
soprattutto l´instancabile dialogo
le rose”, “cesoie da giardino”, tutta
con le “ombre care dell´infanzia”,
un´“eredità di dedizione, manie
è nutrito di memoria di persone,
fatti, episodi, rapporti con il mondo
naturale, campagne, paesaggi di
“travi e sterpi e spine”, i monti
liguri, stranamente manca il mare,
quasi mai nominato. Il mondo vegetale (giardini, orti, campagna,
piante, fiori), molto presente in
questa poesia, mantiene vincoli
soprattutto con il mondo degli
affetti domestici, con apparizioni
famigliari “d´invadente sembianza”, spesso legate ai lavori della
campagna e degli orti, e con tutta
la grande, vicina e remota, famiglia
dei morti. I temi del giardino, dei
lavori dell´orto, delle piante e dei
botanica dei monti e della vegeta-
zione, i tipi di piante e fiori liguri;
termini legati alla vita domestica:
cucina, copriletto (in cui capita di
avvolgere i morti), lavello, stoviglie,
ciniglia e varichina, citrosodina,
le tovaglie di cerata, la voce della
Singer; il linguaggio burocratico:
bollette dell´Enel, abbonati, rim-
borsi, l´ASL, agenzia delle entrate,
inadempiente, bollettino; alcuni
termini regionali (sbrego, magone),
le parole degli avi che nessuno
più usa (brenno [crusca], cabanna,
brugo [erica, scopa]), il vocabolario
in disuso di una “famiglia remota”.
Gli incontri con la famiglia
morti s´intrecciano e in posizione
dei morti si danno nell´universo
preminente appare il domestico,
domestico, nella lingua domesti-
il famigliare, a cui è legata tutta
ca, anche questa a volte remota,
un´area molto viva e interessante
in termini forse non distanti da
di assenza o sospensione”, ridursi
quelli pensati dal poeta quando
a “semplice spazio d´eco di proso-
quella della lingua “di stalla e di
parla dei motivi antropologici in
cucina”, che si estende a altri do-
altri dialoghi con i morti. “A volte
popee” perché “i revenants (...) si
affetti, di oppressione e idiosin-
al grande banchetto o convito con
precarie verità”, come dice Testa,
di cui si hanno ampie notizie an-
asfodelico o autoironicamente so-
della lingua della poesia di Testa,
mini del quotidiano a esprimere
un variegato carico di memoria e
crasie, di nostalgie e insofferenza.
La vita quotidiana della memoria
che mescola termini caratteristici,
impoetici, burocratici, commerciali,
farmaceutici, di cose che ancora
vi rivedo tutti quanti in cucina” è
presentano per vocem, l´io è messo
in crisi da voci in assedio o sottil-
un verso di Ablativo che fa pensare
mente pervicaci o messaggere di
tipica della mentalità “primitiva”,
di Testa può essere elegantemente
i morti, struttura antropologica
che nella letteratura occidentale
ancora, della poesia di Sereni.7 L´io
migliare a “una polpetta crepata”
(Testa ne cita delle tracce in Se-
(detto di quando cucina polpette
“sotto lo sguardo mite della zia /
colare ambito temporale e spaziale:
reni, Montale, Pascoli, Ripellino,
termini legati all´orto come cura,
in tale condizione di dialogo fuori
attività famigliare (lo spinare, ter-
dal tempo e dallo spazio è messo
mine d´altro significato adattato
in crisi, può trovarsi in “situazioni
un granché); è sempre ospite di
si usano o non si usano più, un
idioletto riconoscibile in un parti-
Handke).
6
Certo che lo statuto dell´io
6
Enrico Testa. “Di alcuni motivi antropologici nella poesia di Sereni”, op. cit.
7
Ibidem.
(o forse della nonna / morta però
tanti anni prima)” (non sono venute
voci di cui non vuole fare a meno,
provenienti non da qui, non da ora.
23
Sei inediti
di Enrico Testa
Il giardino
(da A. Marvell, The Garden)
Uomini vani a brigar tanto in coro
per un serto di palma, quercia o alloro,
per coronare una fatica incessante
con una sola tra erbe e piante,
la cui ombra breve, rotta e sottile
con discrezione deride la loro vita ostile
mentre qui alberi e fiori stringono un patto generoso
per tessere le ghirlande del riposo.
Intorno il deserto avanza, rossastro e accidioso,
ma mai si vide un verde come questo così amoroso.
Amanti folli e crudeli d’ardente errore
incidono sui tronchi il nome del loro amore.
Poco sanno o poco curano di quanto questi alberi
vincano in bellezza ogni padrona dagli occhi fieri.
Alberi fraterni, ovunque io ferisca il corpo vostro
nessun nome vi si leggerà che non sia il vostro.
Qui la mente si ritrae dalla voglia ingrata
di vita e ancor più vita; e non più assetata
si fa oceano dove d’incanto ogni sembianza
incontra, tra i terreni, la propria somiglianza –
e crea, arretrando ancora e ancora,
altri mondi, altri mari e una nuova aurora
e tutto quanto ha creato poi, d’un tratto riduce a niente:
a un pensiero verde sotto una verde ombra innocente
La caduta del cielo
a Edoardo Firpo e Davi Kopenawa
l’allodola fa il suo nido a terra,
s’alza con ali tremanti e canta nel cielo
che, per il peso crescente dei morti,
sta per cadere a cascata,
strato dopo strato,
conficcandoci, noi, sottoterra.
Non fa nemmeno ombra, l’allodola:
si nutre di germogli di cicuta e di uova di locusta,
scende verticale tra le nubi.
Solo lei rimarrà col suo trillo
a rasentare – nell’azzurro fuggendo –
questa inconsapevole allucinazione
patita con immeritata dedizione
24
Grate
opaco, è forse il solo metallo
in chiesa che non brilla
l’ottone traforato
di questo piccolo mobile di legno
borromaico e polveroso.
Una garitta di peccati
veri o inventati
che ha per cuore,
nascosto e pensieroso,
un graticcio di listelli marrone
o una grata incisa a graffi di coltello.
Pare ben pulita
ma in realtà trattiene
per anni e anni
sulla sua superficie astratta
- questa insolente grattugianime –
aliti sospiri baci
lacrime respiri di sollievo o di tormento
sudori passaggi delle dita
ristagni del silenzio
impronte di volti sconosciuti.
A lato del suo mormorio cieco
si sentono altre voci;
altri astri fanno luce
di là dalle candele.
E il gelo dei marmi s’imperla di brina
per un vento umido e caldo
in cui frusciano, da fuori,
frustoli di palme ingiallite.
Altre grate sì pure loro
da cui passano però, Greta,
le tue monche verità
e il nostro dolore.
Da riferire con garbo
- tu che ne conosci i covi –
al latitante signore
di questo giardino invaso dai rovi
13 aprile 2019
Rune
Voliera senza gabbia
Risso Luigi ragazzo del ’99,
diventato sordomuto per meningite
contratta in guerra,
è venuto stanotte in sogno a salutarmi:
ad abbracciare, sorridente,
il suo adorato e adorante nipote
che lo accompagnava a lavorar la terra
sotto il cielo azzurro di febbraio.
1899 e 2019: centovent’anni in un nodo solo.
Se lo scrivo è per dire che ora sono,
tra gli umani, l’unico a ricordarsi di lui:
per tenere a mente
questo incontro avvolto nella luce
di tre lune,
per inciderlo con precisa data
- 15 gennaio 2019 – su legno antico
con i tratti netti, e segreti, delle rune
La dura pelle degli anni, la sforano le rondini
che, a primavera, calano a picco
sulla piazza accanto al mare.
Geometria azzurrina di inchini e curve
che imita in cielo il moto delle onde.
Lo fanno in onore di una bambina
che si slancia sull’altalena nei giardini:
è dolce e amorosa nel vento,
vela che non conosce ancora giogo o pena
nella sua veste linda di crespo rosa.
LaCrocifissione
(da Dylan Thomas, This was
the crucifixion on the mountain)
Qui in trasposta immagine
restano le loro ali tracciate dalla mano
sui margini delle pagine.
Dalla finestra si vede solo un merlo
sull’antenna del tetto di fronte.
Canta.
La sua compagna, timorosa, è rimasta
a guardia della cuna di paglia
tra i rami alti del limone.
Questa fu la crocifissione sulla montagna,
nervo del tempo in aceto, tomba patibolare
intrisa di sangue come le spine lucenti che piansi;
il mondo è la mia ferita, Dio è Maria nel suo dolore.
Taccia ogni canto. È piegata, la donna, come tre alberi.
Ha per lacrime spilli e i seni sotto la sua veste
palpitano come pettirossi nel cavo d’una mano.
Questo fu il cielo, Cristo Qualunque, che gli angeli
conficcarono nel divino batter di chiodi
finché dai miei capezzoli l’arcobaleno dai tre colori
balzò su, rianimato dalle lumache, da polo a polo.
Questa è ora la crocifissione sul pianoro.
Poggia, vecchio ragazzo povero Cristo solo,
la testa sulle mie ginocchia: volto e memoria.
Sto accanto all’albero di ladri, acconcio ogni gloria.
Donna dalla lunga ferita, trasformo quest’istante in
[montagna.
Sto accanto all’orologio del respiro, testimone del sole.
Sostengo i figli del cielo col battito del mio cuore.
Pochi mesi dopo l’effervescenza senza posa
di fitte schegge volanti
- leggere tra gli affanni a far nidi di fango e gemme
tra i legni della malga in montagna.
Sono le rondini di Lindau,
le rondini di Giovanni,
le rondini dell’Indo
e quelle del Giordano.
Passano flottiglie aeree di parrocchetti
bercianti stormi verdi di cocorite:
petulanti archimandriti
che sfregiano le icone
Le prime quattro poesie fanno parte della plaquette
Jardim de Sarças (7Letras, 2019)
6 aprile 2020
25
«Segnavia
e segnavita»,
appunti sulla poesia
di Enrico Testa
Patricia Peterle
Nell’arco di trent’anni – dalla
pubblicazione di Le faticose
attese (1988) a Cairn (2018)
– la scrittura di Enrico Testa è
ovviamente cambiata, maturata,
pur mantenendo alcuni elementi di
continuità. Se da un lato è possibile
identificare in questo percorso
delle variazioni di registro,
lessico e metrica, fino a sfiorare
il genere dell’invettiva, come nel
caso di Cairn, dall’altro è possibile
riaffermare una specie di fedeltà
alle sue origini poetiche. Comunque
sia, Enrico Testa è sicuramente
una delle grandi voci della poesia
italiana contemporanea.
Vorrei proporre un primo
piccole vedute sull’intimità del
scrittura è segnata da uno sguardo
fatto da «”pezzi” o frammenti» ,
l’utilizzo di un linguaggio ‘comune’,
Testa-lettore, costituendo un libro
organico nella sua disorganicità,
1
che a loro volta cercano di tessere
i fili di letture fatte, che restano
comunque dei relitti o residui,
come «l’eco o il borbottìo di alcuni
libri amati e ritenuti essenziali»2;
insomma, un vero e proprio diario
di bordo del viaggiatore-lettore
che si mostra disposto all’ascolto.
La poesia viene dunque intesa
come «transito», al di fuori delle
concezioni autonomiste della
letteratura, ma anche come canale di
che si volta verso la quotidianità,
verso ciò che c’è attorno all’io, con
in uno stile semplice3, un poetare
che diventa perfino un «andare
a pezzi» («là fu il principio / e
di ciò che venne dopo / non so
darvi conto»; «il mio sé vuoto lo
prendo, / in controtempo»4). Un
linguaggio segnato dalla semplicità
grammaticale, ma che ogni tanto
viene puntellato e scosso dall’uso
di alcuni termini che fanno parte
della tradizione o di uso raro, dalla
violazione di certe regole e dalla
dialogo, di riflessione su sensazioni
disposizione della rima nel verso.
private e collettive e, ancora, come
Con Pronomi, libro esaurito, ma
spazio di slittamenti e spostamenti.
fondamentale nel suo percorso,
attraverso una lettura obliqua di
Prendendo le dovute distanze, Testa
Testa si apre e si offre al suo lettore,
Pronomi, volumetto pubblicato
si congeda da tendenze simboliste
si mette a nudo in una movenza di
nel 1996 da il Segnalibro, ormai
e sperimentaliste, avvicinandosi ad
introvabile, ma che è senza dubbio
alcuni poeti della cosiddetta terza
smascheramento. La trama che ne
accostamento alla sua poesia
una dichiarazione di poetica.
Sono pagine che rappresentano
generazione del Novecento. Infatti,
sin dai primi testi poetici, la sua
risulta è fitta, non sempre omogenea
– e non poteva essere diversamente
–, di nomi e citazioni (quasi uno
1
«Non di aforismi, che sono il frutto di ben altra energia del pensiero, ma di “pezzi” o frammenti è composta questa sottile raccolta. La quale non ha
un filo evidente che la percorra da un capo all’altro né un’unitarietà di temi o di argomenti; anzi ciò che può individuarne il carattere è, da un lato, il proprio
procedere del suo discorso secondo i modi del contraddire e, dall’altro, la fitta presenza di citazioni, che fanno di questo libretto un registro o diario di
letture[…]»,E. Testa, Pronomi, Il Segnalibro, Torino, 1996, p. 7.
2
E. Testa, Pronomi, p. 7.
3 Cf. E. Testa, Lo stile semplice, Einaudi, Torino, 1997, in cui si legge proprio alla fine «La ricerca di uno “stile semplice” ad un tempo vicino al discorso
comune e lontano dai luoghi comuni e in grado di esprimere, grazie all’approfondimento delle risorse linguistiche, contenuti di alta complessità si trova
quindi – afferrata la preda di una lingua nazionale e parlata – ad affrontare nuove figure […] diventa sempre più, nella stretta dei tempi, un azzardo
affascinante e rischioso da giocarsi ad un tavolo affollato di simulacri vocali e di fantasmi letterari, in cui la gioia del riconoscimento nella parola di tutti può
d’un tratto tramutarsi nella separatezza del loro silenzio» (p. 350)
4
26
E. Testa, In controtempo, Einaudi, Torino, 1994 pp. 16 e 50.
scrivere in proprio con parole altrui).
In questa sinfonia di voci vengono
convocati, tra gli altri, Paul Celan,
la cui forza e potenzialità stanno
appunto nella polifonia e policromia
di questa complessa tessitura i cui
Emmanuel Lévinas, Giorgio Caproni,
nodi sensibili intrecciano in modo
Vittorio Sereni, Giovanni Giudici,
armonico poesia, prosa, saggistica,
Peter Handke, Henri Meschonnic,
filosofia e musica. Un pensare
Maurice Blanchot, Beppe Fenoglio,
essi, di spazi altri e significati vari,
Pasolini, Alfonso Gatto, Gerard
addirittura orme del passaggio
Roland Barthes, Walter Benjamin,
Michail Bachtin, Fëdor Dostoevskij,
Italo Calvino, Franco Rella, Cesare
Pavese, Primo Levi, Pier Paolo
affabulando, si potrebbe dire. I
nomi citati, detentori, ciascuno di
alla fine dell’alchimia di lettura
proposta da Pronomi diventano
Genette, Cesare Viviani, Giorgio
del lettore tese a tracciare un
Agamben e Thomas Benhard,
sentiero diverso; così, nella
abbia a che fare con le leggi
controtempo).
nuovi accostamenti, subiscono un
non può più racchiudere in sé un
oltre alla Bibbia e Miles Davis (a
cui viene dedicata una poesia in In
Come già ricordava Roland
misura in cui vengono riannodati
in questo fitto ordito, ricevendo
processo di riappropriazione con
Barthes, «[l]a mia lettura non è
cui assumere ulteriori significati.
produzione d’un altro testo e
del mostrarsi da dentro nelle
neutra o innocente come quella
della macchina: è un atto, la
non una riproduzione identica,
l’amplificazione del testo con cui
essa ha a che fare. […] leggo con gli
occhi, leggo con la testa, ma leggo
con quello che ho nel ventre. Tutto
Certamente, come è già stato detto,
questo è un volume del denudarsi,
preferenze più intime, tuttavia,
com’è ovvio, questo svelamento
non può essere totale. Infatti, nomi
quali Montale e Pascoli, essenziali
6
in Testa, qui rimangono fuori, pur
il mio corpo partecipa alla lettura».
continuando a risaltare grazie alla
È un orchestrare, quello di Testa,
loro stessa assenza.
5
dell’ospitalità. In tale prospettiva,
un testo poetico, qualsiasi esso sia,
messaggio unico, monocromatico;
del suo ordito fanno parte anche i
contrari. In una costellazione di
questo genere, il problema dell’io
diventa appunto un indagare anche
dello stesso lettore, una pratica
significante 7. Quella di Testa è
dunque una figura complessa, al
pari di molti altri autori del ’900;
considerando gli ambiti della sua
scrittura, oltre a quello artistico,
troviamo quello del professore
Nel caso specifico di Enrico
universitario, quello critico
frutto della lezione caproniana, è
edizioni, per non parlare dei saggi
la figura di un poeta il cui gesto è
dedicati alla poesia italiana del
dire, e della sua tribù; cioè, solo
specifico di Philip Larkin – altro
Testa quello che si delinea, anche
(curatore e prefatore di alcune
molto simile a quello dell’etnografo:
’900), quello giornalistico e infine
conoscendo l’io più profondo che
nome da includere nell’elenco delle
un etnografo di sé stesso, per così
risiede in se stessi si possono
quello della traduzione, nello
“care letture”. Quest’ultimo ambito,
raggiungere gli altri; un’ azione,
cioè la traduzione, considerando
si vuole, di una condizione che
7Letras, nel 2019 – che riporta
questa, che non può far a meno
di una condizione plurale e, se
anche Jardim de Sarças, la plaquette
bilingue pubblicata in Brasile da
5
R. Barthes, Società, testo e comunicazione, a cura di Gianfranco Marrone, Edizione Club degli Editori, Milano, 1999, p. 270.
6
Da ricordare il volume Montale (Le Monnier, 2016), riscrittura della monografia pubblicata nel 2000 da Einaudi.
7 «La nozione di pratica significante restituisce al linguaggio la sua energia attiva […] manca una punteggiatura in realtà la pluralità si trova di primo
acchito nel cuore della pratica significante, sotto forma di contraddizione: le pratiche significanti, anche se provvisoriamente si accetta di isolarne una,
dipendono sempre da una dialettica, non da una classificazione», in R. Barthes, Società, testo e comunicazione, p. 232. Si vedano le parole di Marina Cvetaeva:
«E cos’altro è la lettura se non decifrazione, interpretazione, estrazione di un mistero che è rimasto dietro i versi, dietro i confini delle parole? (Per non
parlare, poi, delle «difficoltà della sintassi»!). La lettura è prima di tutto co-creazione. Se il lettore è privo di fantasia, nessun libro si regge. Ci vogliono
immaginazione e buona volontà», in M. Cvetaeva, Il poeta e il tempo, p. 39.
27
anche dei testi inediti –, meriterebbe
fossi più tu a dirla»11. L’equilibrio
chiedere: traduzioni?, imitazioni?,
della distinzione”12 tra inizio e fine,
un’attenzione maggiore da
si basa sulla rottura del principio di
parte della critica. Ci si potrebbe
non-contraddizione e sulla “morte
rifacimenti? Un percorso, insomma,
riaffermando che la coerenza in
(ma si potrebbe pensare anche
riflessione, fatta da un’altra voce
che viene appunto offerto dal gesto
poesia non è un valore obbligatorio.
traduttorio: come dice Meschonnic
Questi versi sono anche una
a Benveniste), il discorso
(segnalata dalle virgolette), su come
presuppone il soggetto, inscritto
possa essere l’inizio di un volume
prosodicamente e ritmicamente
di poesia. Cioè, non c’è bisogno di
nel linguaggio, la sua oralità e la
fare un annuncio, di scegliere un
sua fisicità.
di conseguenza, il rapporto con
La scrittura, e dunque anche,
persone, animali, oggetti ed
necessariamente, la sua poesia,
occasioni è un elemento essenziale
cioè la sua praxis, è il compito
della sua costituzione. Tutto questo
del senso, a condizione che
comporta un’attenzione particolare
risposta – senza risoluzione
mondo e di farne parte, letti con
essa non sia l’assunzione di
un senso annodato, ma la
– all’ingiunzione assoluta di
a istanze etiche ed estetiche, al nodo
della responsabilità, dello stare nel
lenti percettive e sensibili.
dover annodare. E questa
L’origine come qualcosa di
ingiunzione imprescrittibile
essenziale, che si sa che esiste,
è anche irriducibile ad ogni
estetizzazione “poeticizzante”
o “letteraria”.
8
In tale prospettiva, il letterario
diventa anche un indagare che
ma che con lo scorrere del tempo
viene meno sempre più. Rimane lì,
sempre più attraversata, sfumata
e, infine, decentrata e esplosa,
secondo le parole di Lévinas. La
poesia di apertura di Pasqua di
richiede una ricerca9, che prende
neve, in tono leggero, introduce
compresa quella di una potenza
un inizio / o, al modo degli indiani,
le sembianze di una scoperta
altra, di un rapporto di forze,
impersonale che si mostra alla fine
come un’altissima singolarità.
10
Se ne deduce che questa scrittura
predilige il dato sensibile e che,
8
lessico o una struttura più alta per
richiamare l’attenzione. La scelta
di questo inizio, per riprendere il
discorso sull’origine, appartiene
ad un «moto fluido»; e nello stesso
modo in cui inizio e fine possono,
avvicinandosi, quasi confondersi,
anche la parola può scorrere come
se «quasi non fossi più tu a dirla».
L’ultimo verso aggiunge così un altro
dato, quello sul soggetto, collocato
su una specie di soglia («quasi»), che
è già un segno indiziario di questo
laboratorio, del “dislocamento”,
del suo decentramento e, perché
no, perfino di certa indicibilità che
fa parte anche della vita stessa. Il
desiderio di rivivere e riscoprire,
come in una sorta di esplorazione,
questa complessa problematica:
gli stessi spazi vissuti nel passato,
/ camminare cancellando / ad
bambini c’era l’abitudine «a risalire
«puoi cominciare anche /senza
diventa un fallimento come quando
ogni passo il principio; / e finire
d’estate i torrenti / per trovarne
senza chiudere / interrompendo
disarmato la parola / quasi non
si ricorda, in un’altra poesia, che da
le fonti.»13. Ancora una volta due
strofe e due movimenti: uno del
J. L. Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano, 1997, p. 151.
9 «[…] vie – fra tantissime altre – sulle quali la lingua si fa sonora, sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali,
forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi… Una sorta di rimpatrio», in P. Celan, La verità della poesia, a
cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1993, p. 29.
10 Cfr. G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 12-15, e si veda anche il frammento di W. Benjamin, citato da J. L. Nancy:
«Eppure, la scrittura non comporta, in sé, nulla di utilitario, e durante la lettura non cade via come una scoria. Essa si fonda su ciò che viene letto quanto
‘figura’», in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, introduzione di Giulio Schiavoni, traduzione di Flavio Cuniberto, Einaudi, Torino, 1999, p. 228.
11
E. Testa. Pasqua di neve. Torino: Einaudi, 2008, p. 5.
12 A proposito del tema della “morte della distinzione”, esplicitato nella poesia Controcanto di Giorgio Caproni, contenuta nel volume Conte di Kevenhüller
(1986), Testa ricorda alcuni aspetti fondamentali, quali «la logica paradossale della reversibilità» e l’«effrazione dello statuto organico di persona», nel saggio
E. Testa, Con gli occhi di Annina. La morte della distinzione, in Giorgio Caproni: lingua, stile, figure, a cura di Davide Colussi e Paolo Zublena, Quodlibet, Macerata,
2014, pp. 45-58. Su questo argomento sempre di E. Testa, si veda Giorgio Caproni, «Ad portam inferi», in Filologia e storia letteraria. Studi per Roberto Tissoni,
a cura di Carlo Caruso e William Spaggiari, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2008, pp. 653-660.
13
28
E. Testa. Pasqua di neve, p. 10.
ricordo e l’altro più riflessivo,
risponde allo sforzo di una
iniziale. Le reminiscenze di questo
rappresentazione del “reale”,
passato appartenuto all’infanzia
ma alla tensione che dirige
che va oltre i dettagli della spinta
onnicomprensiva e sterile
esistono solo in quanto ricordi,
lo sguardo tra la sponda –
in movimento – della realtà
il tentativo esplorativo di cercare
un’identificazione delle fonti reali
e quella – immobile – della
con quelle create col tempo dalla/
scrittura17
nella memoria, che è addirittura
dimenticanza, non può che creare
La poesia pertanto rende
possibile il difficile, e può essere
delle frane e delle tensioni.
L’atmosfera buia presente nel primo
vista come un accesso, ma non al
regime della precisione; infatti, la
verso della seconda strofa funziona
da anticamera per l’ultimo: «la
poesia non comunica ma mette in
delusione dell’origine». Ossia, il
atto, fa scattare l’articolazione dei
desiderio di recuperare sentimenti
sensi. Per riprendere Jean-Luc Nancy,
o luoghi visti nel passato, cercando
chi distrugge un mosaico per
la poesia non produce o riproduce
un fallimento («Raccogli pure tutto
dio! – del tutto diversa» . È ancora
al senso. Come ha sottolineato Roberto
di avere le stesse sensazioni, è un
tentativo che può solo franare, è
quello che vuoi: / pietre, bacche,
scaglie di corteccia… / Non ti
resterà altro nella mente / che gli
ricomporre poi con le medesime
tessere una figura nuova e – mio
16
Testa a scrivere:
insetti celesti della montagna: / le
slavate monetine del sempre» ).
14
L’origine, infatti, non è fissa in un
luogo o legata ad un ricordo di essa,
ma è lo spazio in cui si produce
questa tensione e sospensione del
[…] il rapporto tra la lingua
della poesia e la quotidianità e
i suoi discorsi: con lo sgranarsi
– un pre- e dopostoria. L’origine
15
può essere allora vista come un
vortice, di cui differenza e distanza
sono elementi intrinseci: come si
legge in una delle “prose” poetiche
«l’uso che posso farne è, sotto il
mio sguardo spaurito, quello di
che cresce», da un lato «continuazione
e retaggio»18 e dall’altro disposizione
dell’io verso immagini e situazioni
appunto nel rapportarsi, che viene
concreti acuminati sfuggenti,
di là della nostra presa. Della
questi attraversamenti provocano
in cui però si avverte e si cerca l’erba
con un destino – il nostro –
sfilata degli oggetti e dei nomi,
Non si tratta dunque di genesi, ma
sì del dispiegarsi molteplice che
Galaverni, Cairn «è un libro terminale
– le più varie – su cui Testa cerca
la cui fisionomia è tracciata
aperte, come l’immagine dialettica.
un’azione integrale della disposizione
dei giorni che restano, con la
tempo, che permette un incrociarsi
di tempi, necessari alle forme
significazioni, ma costituisce
da fatti minimi, da slittamenti
impercettibili e rovinosi: al
poesia è propria anche la
disponibilità verso tutto questo:
l’allontanarsi dalle secche del
“poetico”, del “letterario” e dalle
figure cosmetiche è già dentro
l’orizzonte dell’ascolto, in cui
il rischio di “ingrigirsi” nella
precisione nominalistica e nella
concretezza referenziale non
di interrogarsi. Ancora una volta, il
fulcro di questa scrittura si presenta
coniugato in vari modi. Allora, non
è forse una semplice casualità che,
pur aprendo nuovi spazi nel suo
laboratorio poetico, Testa in alcuni
passaggi di Cairn, da leggere come
dichiarazioni poetiche, evochi versi
e presenze di raccolte passate, come
in apertura:
non ci diremo addio.
Non sappiamo come dirlo,
e non vale la pena di
[impararlo19
14 Ivi, p. 106.
15 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, p. 227.
16 E. Testa. Pasqua di neve, p. 26
17
E. Testa, Pronomi, pp. 14-15.
18 R. Galaverni. «Mucchi di sassi per i morti e per segnare la via ai vivi». In La lettura, 11 marzo 2018.
19 E. Testa. Cairn. Torino: Einaudi, 2018, p. 5.
29
Sintassi, metro e
prosodia nelle poesie
di Enrico Testa¹
Sebastiana Savoca
«Un verso assolutamente ritmico potrebbe esistere
forse solo qualora si affidassero alla convenzione
tipografica tutti gli elementi dell’‘esecuzione’, conferendo ad esempio all’a capo il valore di una unità di
interpunzione», scriveva Fortini nel 19582. Sebbene
nelle poesie di Testa questa condizione non venga
totalmente saturata, è pur vero che la distribuzione
del testo tende a una segmentazione versale in cui le
pause metriche si sovrappongono a quelle linguistiche,
e viceversa. Emblematico a questo proposito l’ultimo
componimento della raccolta poetica Cairn :
si deve però dire che luoghi simili sono esposti, più di
altri, al rischio di interpretazioni ambigue. Lo si vede
bene nella poesia sfilano lungo la navata:
sfilano lungo la navata
i volti consunti dei mercanti:
coniugi severi e dignitosi
benefattori attenti agli scambi
5 tra il qui e l’aldilà.
(sfilano lungo la navata, da Pasqua di neve, vv. 1-5, p. 48)
3
«Non possiamo ricominciare ancora.
Soltanto possiamo ancora finire».
«Ma non abbiamo mai finito».
«Oh, sì. Non crederlo.
5 Abbiamo finito molte volte e molte volte.
Non una volta sola.
E ora possiamo finire di nuovo.
E ancora e ancora.
Senza un nuovo inizio»
La parola «dignitosi» in punta di verso potreb-
be costituire il secondo elemento della dittologia
aggettivale o potrebbe essere aggettivo riferito a
«benefattori». In quest’ultimo caso «dignitosi» e «be-
nefattori» sarebbero in enjambement. La scansione
versale suggerisce però una lettura che muove verso
la prima direzione. Pare più sensato pensare che
in corrispondenza della pausa metrica vi sia anche
quella sintattica. Coinciderebbero così, come sembra
avvenire quasi sempre nelle poesie di Testa, il piano
(«Non possiamo ricominciare ancora», da Cairn, p. 116)
metrico, sintattico e fonologico.
Il caso più diffuso di questa sovrapposizione
In questo caso metro e sintassi coincidono: ogni
sono le enumerazioni. Al contrario della poesia «Non
delegando al metro le relazioni sintattiche tra gli ele-
teggiatura appare essenziale, esplicitata solo se ritenuto
verso, escluso l’ultimo, si conclude con un punto. Ma
non è raro che Testa ometta i segni di interpunzione,
menti. Accade infatti che sia la segmentazione versale
a modulare la sintassi. Sebbene il contesto permetta
quasi sempre di dare il giusto ruolo ai diversi elementi,
possiamo ricominciare ancora» in questi luoghi non
appaiono segni di interpunzione a fine verso. La punstrettamente necessario. Testa evita la ridondanza intonativa a fine verso, omettendo i segni di interpunzione
che restituirebbero visivamente la sovrapposizione
1 Questo lavoro riprende alcuni argomenti affrontati nella mia tesi di laurea Il rapporto tra metro e sintassi nelle poesie di Enrico Testa. Uno studio secondo
la linguistica teorica contemporanea (2017), a cui rimando per una trattazione più estesa. Nel frattempo Testa ha pubblicato Cairn (2018), che si aggiunge in
questa sede al corpus delle raccolte poetiche già oggetto di studio della mia ricerca: Le faticose attese (1988), In controtempo (1994), La sostituzione (2001),
Pasqua di neve (2008), Ablativo (2013). Ringrazio il mio relatore, il professor Luca Zuliani, per l’attenzione e la puntualità delle sue osservazioni, indispensabili
per lo sviluppo di questo studio, e la mia correlatrice, la professoressa Laura Vanelli, per le riflessioni calzanti.
2 F. Fortini, Verso libero e metrica nuova, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano, 2003, pp. 799-808, p. 807, nota 4. L’articolo
compare per la prima volta in «Officina», 12, aprile 1958, pp. 504-511; poi in Saggi italiani, 1974, pp. 315-23; Saggi italiani, 1987, pp. 340-9.
3
30
E. Testa, Cairn, Einaudi, Torino, 2018.
tra la pausa sintattica e quella metrica. Ad esempio
la melodia del verso conciliando la sintassi col metro.
paesaggio, non compare nemmeno una virgola:
che le pause linguistiche che descrivono i confini dei
nella prima parte della lirica a filo d’acqua intravedo,
nonostante il poeta elenchi gli oggetti che scorge nel
a filo d’acqua intravedo
gli oleandri fioriti sulla riva
il porto tranquillo
le case sulla collina
5 il campanile della mia chiesa
i bagnanti di porcellana
illuminati dal sole.
(a filo d’acqua intravedo, da Ablativo, vv. 1-7, p. 66)
È pur vero che la presenza di virgole avrebbe
alterato, almeno in parte, l’intonazione e quindi la
resa espressiva di questi versi. L’assenza di punteg-
giatura infatti pare compattare tutti questi elementi
Capita spesso ad esempio che a fine verso le virgole
sanciscano l’inizio e la fine di una subordinata, di modo
contorni intonativi cadono in corrispondenza delle
pause metriche. Così accade nei versi
al divino procurator di doglie,
quando giunse la sera
nella nostra casa,
non chiedemmo nulla;
(al divino procurator di doglie,
da In controtempo, vv. 1-4, p. 62)
Il secondo dei meccanismi a cui Testa ricorre per
garantire il normale profilo prosodico della lingua consiste nell’andare a capo rispettando i contorni intonativi
dei sintagmi. Numerosi infatti i casi in cui la segmenta-
in unico oggetto, come se Testa volesse trasmettere
zione versale separa il verbo e il suo soggetto, sfruttando
un’unica immagine, senza indugiare fotogramma per
quella pausa minima e impercettibile che risiede tra i
fotogramma su ciascuna figura.
È evidente che nelle liriche di Testa la pausa
metrica e quella linguistica tendano a sovrapporsi.
Considerando la poesia la carpa centenaria immobile
nel fango se ne ha la conferma. Quando Testa legge
questa poesia, in occasione del ventunesimo Festival
Internazionale della Poesia di Genova4, nel 2015, si
due costituenti maggiori. Considerando i versi «il tuo
moccico azzurro / infiora i fazzoletti» (s’addormentano,
da Le faticose attese, vv. 5-6, p. 16) si nota infatti che Testa
segmenta metricamente il discorso nei ‘punti deboli’
della linea sintattica; in quei punti cioè che intervallano
affida in larga misura alle pause metriche, conferendo
significato agli elementi in relazione alla loro disposizione nel verso. La sua esecuzione infatti mette in luce
la stretta connessione tra il metro e la sintassi. Fin da
subito si nota che tra un verso e l’altro il poeta effettua
una pausa più o meno lunga e che, al contempo, il nor-
male profilo prosodico della lingua non viene alterato.
Si potrebbe quindi pensare che, durante la produzione
delle sue liriche, Testa semplicemente pieghi il metro
alla sintassi. Eppure i confini versali spezzano di con-
tinuo la linearità sintattica. Non si capisce allora come
mai la normale linea prosodica del discorso non venga
alterata. Cercando di trovare giustificazione a questa
apparente contraddizione si notano però due mecca-
nismi interni che, ripetendosi, configurano un certo
sistema. Il primo di questi meccanismi consiste nell’uso
di subordinate, incisi o parentetiche che frammentano
le frasi. Ci si aspetta quindi che questi costrutti inter-
feriscano con la linearità prosodica; in realtà regolano
4 Per le osservazioni che seguono è stato isolato l’audio dal video che si trova su YouTube al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=BZ2js7fWmA
(consultato il 12.10.2017).
31
la sequenza tra un sintagma e un altro. Così, nonostante
l’uso di una sintassi fortemente segmentata, l’effetto è
quello di grande naturalezza. Non a caso Caproni, nella
Presentazione de Le Faticose attese5, scriveva che quelle
di Testa «sono poesie – tutte – che sembrano scritte quasi
à la lisière de la prose, tant’è apparentemente semplice
il linguaggio»6. Ma è evidente che una tale naturalezza
del discorso, in un testo scritto, non possa che essere
frutto di una complessa orchestrazione.
Può risultare utile allora ritornare sull’esecuzione
della poesia la carpa centenaria immobile nel fango. Uti-
la carpa centenaria [0.26] immobile nel fango
al fondo dello stagno ghiacciato
0.47 s
la timida biscia [0.11] acquattata
0.81
sotto la petraia battuta dal grecale
0.03
5 la lucertola dalla vita latente e
0.71
[silenziosa
nascosta nella crepa del muro
0.15
sono, [0.41] nel loro letargo invernale,
0.45
prossime all’eterno.
0.72
Come noi, [0.19] nel sonno
0.47
(la carpa centenaria immobile nel fango,
da Ablativo, p. 16)
lizzando Praat7, un programma di fonetica che permette
l’analisi acustica dei files audio, è possibile misurare
l’intervallo di tempo che intercorre tra un verso e l’altro
e tra elementi presenti all’interno dello stesso verso. Il
correlato fonetico al quale si fa affidamento è la durata del
silenzio, ovvero il tempo in cui vi è assenza di fonazione.
Vi sono però dei limiti. Ad esempio l’influenza che ha
sulla percezione delle pause un tratto soprasegmentale
come la lunghezza o, banalmente, la presenza di incer-
tezze ed esitazioni , che descrivono le cosiddette pause
8
accidentali. È dunque necessario limitare questo studio
alle sole pause sistematiche, quelle pause cioè che sono
previste e prevedibili e che, pertanto, fanno parte della
competenza di un parlante nativo9. Si tenga inoltre in
considerazione che, poiché l’analisi è condotta su un’unica poesia, le osservazioni a cui si perviene in questa
sede assumono valore di sondaggio. Segue un esempio
di come siano state condotte le misurazioni di tempo.
Tra le parentesi quadre sono stati inseriti i valori delle pause che intervengono in quel punto del
verso. Considerando i confini versali, ciò che fin da
subito si può notare è che la durata dei silenzi non è
direttamente proporzionale al segno di interpunzione
che descrive la pausa. Accade così che tra i versi 2 e
3 («al fondo dello stagno ghiacciato / la timida biscia
acquattata»), in assenza di punteggiatura, la pausa sia
di 0.81 secondi quando invece tra i versi 7 e 8 («sono,
nel loro letargo invernale, / prossime all’eterno»), pur
essendoci la virgola, il silenzio duri 0.72 secondi. Allo
stesso modo tra i versi 8 e 9 («prossime all’eterno. /
Come noi, nel sonno»), nonostante il punto, la pausa è
di soli 0.47 secondi. Pare che l’intervallo di tempo tra
i versi non sia influenzato tanto dalla punteggiatura
quanto piuttosto dalle dipendenze e dalle relazioni
che intercorrono tra i diversi elementi, disattendendo
quindi l’idea che una pausa linguistica forte implichi
un silenzio più lungo. Tuttavia capita spesso che vi sia
questa apparente discrepanza; sarà allora necessario
scindere il contesto testuale, in cui l’unità di misura
è la frase, da quello orale, dove invece l’unità di riferimento è l’enunciato. Si tratta quindi di cogliere lo
scarto tra la struttura del testo e il discorso in cui il
La parte evidenziata in rosa descrive l’intervallo
di tempo che intercorre tra la fine del primo verso e
l’inizio del secondo nella poesia la carpa centenaria
immobile nel fango. I dati ricavati dall’analisi di questa
lirica sono i seguenti:
5
32
testo si compie concretamente. Si assumerà così che
i segni di interpunzione intervengono a creare delle
gerarchie interne al componimento, ma, in accordo
con la semantica del testo, contribuiscono anche a
modulare le intonazioni dell’esecuzione. La relazione
logico-semantica intrattenuta dagli elementi, infatti,
E. Testa, Le faticose attese, San Marco dei Giustiniani, Genova, 1988.
6
G. Caproni, Presentazione, in E. Testa, Le faticose attese, cit., p. 8.
7
Praat, di Paul Boersma e David Weenink, www.praat.org
8
Cfr. M. Nespor, Le strutture del linguaggio. Fonologia, il Mulino, Bologna, p. 211.
9
Cfr. Ivi, p. 269.
influisce attivamente sulla durata dei silenzi tra i
il risultato della sintassi. È molto probabile che le due
quella semantica sono quindi pause che si presen-
e il participio passato «acquattata» vi è un intervallo di
diversi costituenti. Uno degli effetti della mancata
sovrapposizione tra la segmentazione sintattica e
tano come mediazione di più variabili. Sembrerebbe
questo il motivo per cui ad esempio tra i versi 8 e 9
prospettive coesistano. Ne è prova quanto accade al
terzo verso: tra il sintagma nominale «la timida biscia»
tempo di 0.11 secondi. Questo dato isolato forse dice
poco. Ma se si riprendono in mano i valori relativi alle
la pausa è di soli 0.47 secondi: il connettivo come che
pause tra i versi si noterà che il silenzio tra «la timida
opposti, ma sullo stesso piano; senza cioè che vi sia un
pausa tra il quinto e il sesto verso
apre l’ultimo verso è il fulcro di una similitudine in cui
gli elementi comparati si dispongono in due estremi
biscia acquattata» e «sotto la petraia battuta dal gre-
cale» è appena di 0.03 secondi. Nella stessa poesia la
costituente gerarchicamente superiore all’altro. Inoltre
(«la lucertola della vita latente e
nella durata della pausa metrica e di quella sintattica.
secondi, valore vicino a quello della
la somiglianza degli elementi comparati implica il loro
avvicinamento, a cui si associa dunque una riduzione
Considerando tutte le osservazioni fatte sino ad
silenziosa / nascosta nella crepa
del muro») ha una durata di 0.15
pausa interna al terzo verso (0.11
ora pare dunque che più di ogni cosa siano i legami
secondi). Il fatto che il sesto verso
pause interne ai versi che hanno una durata maggiore
nominale («la lucertola») come il
tra i costituenti a modulare l’esecuzione. Infatti, con-
trariamente a quanto ci si attenderebbe, vi sono delle
rispetto ad alcune pause di fine verso (si fa riferimento
ai valori di 0.03 e 0.15 secondi). Escludendo la pausa
interna al v. 3, di cui si dirà qualcosa a breve, e quella
al v. 7, effetto della virgola, vi sono altre due pause
interne al verso: una di 0.26 secondi tra «la carpa
centenaria» e «immobile nel fango» e l’altra di 0.19
secondi tra «Come noi» e «nel sonno». In quest’ultimo
si apra con un participio passato
(«nascosta») riferito a un sintagma
participio passato «acquattata» si
riferisce al sintagma nominale «la
timida biscia» sembra suggerire che,
in entrambi i casi, sia la sintassi il
punto di riferimento per la lettura
che Testa fa di questi versi. A ben
vedere, considerando l’intero corpus di poesie, ci si
caso, sebbene la virgola giustifichi la pausa, va però
accorge che sede privilegiata dei participi passati è
che il segno di interpunzione, più che assumere un
del discorso e, allo stesso tempo, si preoccupi di avvici-
notato che la durata del silenzio è più breve di quella
che solitamente le virgole descrivono. Sembra infatti
ruolo sintattico, realizzi uno schema sotteso al verso.
proprio l’inizio del verso. Pare cioè che Testa ricorra a
una scansione metrica che accompagni i normali respiri
nare la sintassi al metro. Quando, come nel caso appena
Pare che nel primo e nell’ultimo verso vi sia la volontà
visto, questo non accade si avverte lo scarto rispetto a
rittura il ritmo dei due emistichi risulta lo stesso («la
di verso, segua una pausa di 0.03 secondi. É come se su
di spezzare i versi in due parti, attraverso una cesura
che dilata il tempo. E si noti che nel primo verso addicàrpa centenariaˇimmòbile nel fàngo»: ~ + ~ ~ ~ + ~).
Sembra pertanto che in questi luoghi venga riservata
una maggiore attenzione al ritmo; il rallentamento
dell’esecuzione non solo permette di dare maggiore
enfasi all’incipit e all’explicit, ma pare anche rivelare il
metro che sottosta al verso. Effettivamente i valori delle
pause interne di questi versi sono simili a quelli trovati
per alcune pause metriche di fine verso; si può dunque
pensare che in questi casi vi sia una vera e propria
pausa metrica interna al verso o, in alternativa, che i
dati trovati per i confini versali siano semplicemente
quella che ormai si era sedimentata come norma. Non
è un caso infatti che al participio «acquattata», in punta
questi versi agisse un fenomeno di compensazione: a
una pausa sintattica significativa interna al verso (0.11
secondi) segue una riduzione della pausa metrica che
interessa lo stesso verso. E quelle cesure che paiono
esservi nel primo e nell’ultimo verso sembrano rive-
lare un discorso metrico, apparentemente assente,
sotteso a tutta la poesia di Testa. Sembra cioè che a
sprazzi appaiano dei varchi in cui si riesce a ravvisare
la struttura sottesa al testo, dei veri e propri cairn10
che il poeta dispone lungo le sue poesie come punti
di riferimento per orientare il lettore.
10 Si allude all’ultima raccolta di Testa, Cairn, ma, in particolare, alla seconda delle due accezioni con cui la parola viene indicata sulla quarta di copertina
della raccolta, ovvero ai «segnavia sui tragitti montani per indicare la prosecuzione di un sentiero».
33
«Quadretti di
genere»: una lettura
di Ablativo
Luiza Faccio
Pensare a proposito della poesia
unisce 64 poeti italiani, dedica il
di Enrico Testa, poeta, insegnan-
saggio che introduce la sezione in
te e critico letterario, è riflettere
sulla parola “relazione”: alla ricerca dell’altro, del dialogo con
l’altro. Questa relazione è legata a
cui è presente Testa, intitolato “Il
domestico che atterrisce. La tematizzazione del quotidiano della
poesia di oggi”, a pensare a questo
temi che circondano la poesia di
spazio della vita quotidiana nel
Testa come il gesto, la memoria e
testo poetico, dialogando con al-
la morte, e si trova nel quotidia-
cuni autori durante la costruzione
no, in quanto lo scrittore sceglie il
del loro pensiero, in particolare
luogo delle cose comuni di tutti i
giorni come palcoscenico dei suoi
versi. Le sue poesie si incontrano
in questo spazio della vita quotidiana e nei suoi dettagli e azioni,
sia nella sfera privata che in quel-
la pubblica, in costante contatto
con l’esterno, avvicinandosi o
prendendone le distanze, attraverso spazi e culture diverse. È
da questo punto di vista che verrà
Maurice Blanchot. Zublena affer-
questa trasposizione dell’“identità”, lasciando il posto al collettivo,
andando dal micro al macro. Zublena recupera inoltre un brano di
Blanchot, dal testo La parole quo-
tidienne (1969), in cui dice: “nel
quotidiano, manca il soggetto, o
almeno esso è neutrale, anonimo:
il quotidiano è il movimento con
cui l’uomo si tiene come a sua in-
ma che la vita di tutti i giorni è il
luogo dell’impenetrabile, dove si
Quando si pensa a questo spazio in
può conoscere solo a partire dai
cui non ci sono nomi, in cui la real-
frammenti, dalle trame, perché
la sua interezza, sfugge. L’identità
tà personale è scarsa, l’impressiocome “luogo comune”, nel senso
appare neutra quando si guarda al
che non importa quanto si parli
quando si tenta di catturarla nel-
comune vivere quotidiano nel suo
complesso, diventando cosí più
grande dell’’individuo. Esiste, in-
proposta una breve lettura di al-
fatti, il pensiero collettivo di tutti i
cune poesie dell’opera Ablativo,
giorni, lo spazio del neutro e il quo-
pubblicata nel 2013, ma è anche
tidiano privato, in cui prestiamo
Paolo Zublena, nell’antolo-
riscontrabile una certa neutralità,
una chiave per leggere la poesia
attenzione a questo “io”; tuttavia,
gia Parole plurale (2005), che ri-
poiché l’io può anche diventare un
di Testa nel suo insieme.
“noi”, in cui esiste la possibilità di
anche nella dimensione privata, è
saputa nell’anonimato umano”1.
ne è quella di una vita quotidiana
di un “Io”, che scrive a partire dal-
le sue esperienze e che è inserito
in questo ambiente quotidiano, in
questa scena; quella voce personale diventa plurivocale, potendo
riflettere e dispiegarsi in altre voci.
Questa plurivocalità è molto
presente nei versi di Enrico Testa.
In Ablativo, ad esempio, le poesie
appaiono sotto forma di citazio-
1
ZUBLENA, Paolo. Il domestico che atterrisce: la tematizzazione del quotidiano nella poesia di oggi. In: Parola Plurale. A cura di G. Alfano, A. Baldacci, C. B.
Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli e P. Zublena. Roma: Luca Sossella, 2005, s/p.
34
come lampi della quotidianità
ne. In alcune poesie, l’esterno è al
razione tra questi “io”. La parola
centro dell’attenzione: è possibile
“gesto” è ricorrente in Ablativo,
una poesia che passa attraverso
do i gesti della scrittura, del fisico
vista che dell’udito, e del gesto,
corpi che interagiscono tra loro e
in niente”4, questo essere con-
lici. Nella seguente poesia vengo-
ci fa pensare a questo movimen-
ascoltare nei versi quei corpi che
essendo collocata in modi diversi
un “io”, ma si apre ad altri occhi,
e del ricordo, per esempio. In tut-
camminano, parlano, cantano. È
altri corpi. La vita quotidiana di
questa interazione è un luogo
comune, è un luogo in cui i sensi
sono tutti in allerta vivendo e cercando relazioni, come si può ve-
dere dai primi versi della poesia
iniziale di Ablativo: “il cagnetto
alla catena / il gatto che insegue
la lucertola / le settembrine fio-
e con significati diversi, includento il libro possiamo percepirli, nei
che attirano da vicino il poeta.
Qui, l’interazione con l’altro avviene attraverso i sensi, sia della
“con un solo magico gesto della
mano / ci illuse di aver ridotto
in ciò che accade intorno a loro,
trassegnato come qualcosa che
no rilevati alcuni di questi punti:
to come un gesto fisico, ma anche
nelle domande e nei gesti simbo-
«e Palermo? Palermo è la piazza
in un mattino ventoso
inganna, che a causa della mano
illusorio e metaforico, che porta
con sé il passare degli anni.
Come nella poesia succi-
rite sulla ripa / il tramonto sulla
sotto un depauperato cielo barocco
tata, possono esserne osservati
vetreria… / Quadretti di genere.
vicina alla chiesa della Kalsa.
altri voci e corpi che compongo-
/ Ma allora perché c’inteneriscono / sino alle lacrime?” . In
2
questi versi iniziali, un richiamo
Lì, tra i cellulari della polizia penitenziaria
(una cerimonia era in corso)
tema della vita quotidiana, pre-
si fece avanti una zingara scalza
sentando scene come: una cena,
all’attenzione ai piccoli dettagli
ad offrirci per un euro
del “quadro comune” che, benché
un santino di papa Giovanni.
reazioni. Qui il rapporto si instau-
Astuta e benedicente
ra con la natura, con la fauna e la
ci illuse di aver ridotto in niente
flora, in primo piano, e la scelta
del cane, del gatto, delle settem-
la trafila degli anni
brine, tutti appartenenti a uno
e le spine e le prove del presente»
semplici, suscitano sensazioni e
no Ablativo e rafforzano anche il
un cane alla catena, amici e per-
con un solo magico gesto della mano
sone in piazza, luoghi esterni e
talvolta privati, che ci permettono
di analizzare questa interazione
reciproca. In questo flusso presente nei suoi libri, nelle scene e
i divoradio e gli animali da preda
3
scenario quotidiano, osservabi-
nei dialoghi, Testa dà voce a diver-
si “io”, e li include nelle sue poesie, come possiamo riscon-
li nel spazio di tutti giorni, non
La poesia senza titolo, parte
essendo, per esempio, elementi
della sezione “Tropico dello Scor-
in Ablativo, quando
di natura esotica, come un’orchi-
pione”, è caratterizzata dalla sce-
l’autore dialoga con
questi elementi dall’ordinario,
assemblando, permettendoci di
dea o un lupo, che sono rari da
na descritta in questa piazza di
collocandoli nel campo dello stra-
avere lampi di immagini, e molto
trovare. Il poeta, tuttavia, disloca
ordinario, senza, tuttavia, portarli
fuori dallo spazio comune, poiché
vedere lo straordinario nell’ordi-
nario intenerisce il suo spettatore
fino alla commozione.
Quando si riflette sulle ca-
ratteristiche di questo spazio di
apertura verso l’altro, il gesto è
molto presente, così come l’inte-
trare, ancora una volta,
Palermo, che si sta gradualmente
altro: sensazioni, come quella del
vento, che segnalano temi quotidiani e naturali (che seguono
la linea della semplicità). Questa
vita quotidiana può essere vista
attraverso la figura della zingara
scalza che vende i santini, o persino attraverso il cellulare della
polizia; elementi comuni, quasi
2
TESTA, Enrico. Ablativo. Traduzione di Patricia Peterle, Silvana De Gaspari e Andrea Santurbano. San Paolo: Rafael Copetti editor, 2014, p.12.
3
Ivi, p. 50.
4
Ibid.
35
un personaggio chiamato “Anto-
volte ancora oggi / sento lo stesso
dato ancora [...]”5. Riflettere sulla
sensazione dell’altro si manifesta
nio”: “Fino a quando, Antonio, mi
raspío / anche se la mia mano è
poesia che parla della vita quo-
in questa poesia attraverso il toc-
dal privato al pubblico, che acca-
ricordo di quel tocco.
chiedo, / fino a quando ci sarà
vuota / e la tua è solo cenere”7. La
tidiana, è pensare a uno spazio a
co, lo sfregamento del biglietto nel
cui tutti appartengono e che passa
palmo della mano, che risveglia il
socializzazione e interazione tra
può pensare al gesto fisico della
de per strada, di solito un luogo di
In questi estratti poetici, si
mano che guida l’altro, così come
corpi. Parlare di questa vita quo-
al ricordo che un tale gesto risve-
tidiana è un gesto per dare voce a
chi e a ciò che spesso non ha voce,
glia, “a volte ancora oggi / sento
e non è nemmeno visto, passando
lo stesso raspío”, è una sensazione
inosservato, sia perché fa parte di
uno scenario già “creato” o perché
che può essere rivissuta solo dalla memoria. Un altro esempio è il
è consueto, come, ad esempio, la
zingara in piazza e il poliziotto.
In un’altra poesia di Ablativo, possiamo comprendere meglio
questa interazione con l’altro e
come sono presenti questi corpi,
agendo naturalmente, giorno per
giorno, lavorando, cantando... Il
corpo è visto nell’ambiente in cui
si trova, dove si avverte la presenza nel momento in cui interagisce,
attraverso il tatto o l’udito; si mo-
strano corpi i cui sensi si predispongono alla ricerca di altri corpi.
In questa poesia, presente nella sezione “Binario 20”, possono essere
identificati i romeni che cantano e
un altro corpo che vede e ascolta:
“cantano ancora / i carpentieri ro-
meni / sui ponteggi davanti casa:
/ [...] un inno di cui non afferro il
gesto non fisico, ma simbolico, del
cantare l’inno, come fanno i romeni, l’inno che rappresenta un luogo,
di solito la propria patria, la casa e
la nostalgia del ricordare. Il gesto
senso. / Fasciato nel silenzio /
del canto va ben oltre le parole e
a partire dalla loro interazione e
come ravvivare le origini, ricordare
vedo e ascolto” , o addirittura, si
6
rivelano come corpi che vediamo
che in seguito diventano ricordi di
l’atto del cantare stesso, si può an-
che pensare a molti altri significati,
il proprio paese e rappresentare il
un corpo che non esiste più, come
luogo di origine. Giorgio Agamben,
del tram / (un tagliando rosa da 70
per una comunità e come, con la
la poesia nella sezione “Viaggio
dell’ombra”: “[...] tenevi il biglietto
lire) / infilato tra la vera e il dito.
/ Quando mi portavi per mano
/ sentivo grattare sul palmo. / A
nel testo “Note sul gesto” (1996),
riflette sull’importanza del gesto
sua perdita, si cerca instancabilmente il suo recupero:
Un’epoca che ha perduto i
suoi gesti è, per ciò stesso,
ossessionata da essi; per
uomini, cui ogni naturalezza
è stata sottratta, ogni gesto
diventa un destino. E quanto più i gesti perdevano la
loro disinvoltura sotto l’azione di potenze invisibili,
tanto più la vita diventava
indecifrabile.8
36
5
Ivi, p. 30.
6
Ivi, p. 68.
7
Ivi, p. 92.
8
AGAMBEN, G. Mezzi senza fine. Torino: Bollati Boringhieri, 1996, p. 48.
In questa ricerca del gesto
ne dell’altro, attraverso il gesto di
come destinazione, si può pensa-
piegare il tovagliolo. Si fa riferi-
nute, cercano di preservare una
tamente sorvegliato dai miei lari
re alle tradizioni che, se mante-
mento diretto alle case, “Discre-
certa cultura, un simbolo rappre-
/ eseguo una visibile partizione
sentativo e senza di esse il signi-
degli affetti”12, attraverso l’allusio-
ficato si perde. Un esempio è la
ne ai lari, divinità venerate dai ro-
della loro patria come un gesto di
e alla protezione dei loro membri,
ritorno a casa.
a conferma di questa proposta di
poesia già commentata, in cui gli
mani e legate alla sfera domestica,
stranieri romeni cantano l’inno
precisamente, alla loro protezione
Questo atto simbolico si trova
lettura critica. Di origine Etrusca,
anche in un’altra poesia che fa parte
“Lari” erano protettori della ter-
della sezione “Viaggio dell’ombra”,
ra, della campagna, mentre “Lari”,
in cui, attraverso i versi, si percepi-
per i Romani, era la Divinità che
sce come il rituale possa essere un
gesto, poiché è spesso accompagnato da un movimento corporeo. Tut-
liare, più in particolare, la cucina.
È dopo cena, raccogliendo i tova-
proteggeva lo spazio privato della
famiglia. Vi è, da parte degli ante-
glioli in una geometria ancestrale,
nati, una protezione per la casa e
tavia, è un movimento al di là della
che il rito passa attraverso le gene-
per coloro che la abitano. Quelli
che vengono trasmessi per anni, di
to da quell’“io”, porta con sé l’om-
sulla serenità della famiglia, sulle
semplice azione fisica, che rappresenta un’origine o mostra significati
generazione in generazione:
razioni. È un’azione che va al di là
dell’“io”, che, sebbene sia compiu-
bra delle generazioni precedenti.
Visto in relazione alla morte, pre-
che se ne sono già andati (morti)
continuano a vegliare sulla casa e
tradizioni, sull’incontro delle diverse generazioni.
Da questi gesti simbolici che
quando, a sera, dopo cena raccolgo
so nella memoria e tenuto in vita,
dal tavolo i nostri tre tovaglioli
la piega del tovagliolo è come il
attraversano una tradizione di cui
e li scuoto e piano li piego
“rammendo” del tessuto, il tentati-
spesso non si conosce l’origine, è
e poi li dispongo, in simmetria scalare
vo di mantenere vive tali tradizioni
evidente un movimento “tra” ge-
e in un ordine segreto sempre uguale,
e il ricordo familiare di coloro che
nerazioni e tempi. È, quindi, un
quel che sembra / sospeso com’è
che parte dalla vita quotidiana e
dentro il cassetto,
obbedisco ai principi di una geometria
[ancestrale.
Discretamente sorvegliato dai miei lari
se ne sono andati: “compio un rito
modo di pensare alla medialità,
tra età e tempi diversi”10. Il gesto
dalle scene comuni per riflettere
muto di gesti persi / che vale più di
eseguo una visibile partizione degli affetti:
porta con sé una “tradizione” e un
che vale più di che sembra
tempi diversi, in quanto non ap-
compio un rito muto di gesti persi
sospeso com’è tra età e tempi diversi
9
In questa poesia senza titolo,
scritto in una sola strofa, con versi
liberi e due rime finali: “uguale” /
“ancestrale” e “persi” / “diversi”,
viene presentato un luogo delimitato: lo spazio del privato, il fami9
simbolismo, sospesi tra epoche e
partiene più né all’uno né all’altro,
ma a entrambi, come l’ombra che
non sa chi è il proprietario, “chi è
il padrone dell’ombra?”11 o “chi è
il padrone del gesto”, colui che lo
riflette o il corpo che lo riproduce?
L’io diventa plurivocale, perché
va al di lá di se stesso, in direzio-
al flusso continuo. È una poesia
su questa soglia, sull’origine delle
cose che ci circondano, sul tro-
varsi nel mezzo di qualcosa che
è venuto prima e di ciò che deve
ancora venire. È il gesto come me-
dialità. Il gesto della tradizione,
della scrittura, della memoria, del
corporeo. Sono romeni che can-
tano l’inno per ricordare la loro
terra, zingari che ballano e che ci
portano in altri luoghi.
TESTA, op. cit., p. 94.
10 Ibid.
11
Ivi, p. 80.
12
Ivi, p. 94.
37
Enrico Testa
al Festival
Internazionale
di Letteratura
Chiasso Letteraria
Prisca Agustoni
Al Festival Internazionale di Letteratura Chiasso Let-
per fare in modo che le diverse attività svolte in campo
cittadina svizzera di Chiasso, sul confine con l’Italia,
relazione tra di loro, valorizzando al meglio il suo
poesia italiana contemporanea si sono presentate al
ha presentato al folto pubblico attento in sala (oltre
teraria, evento tra i più seguiti nella Svizzera italiana
e che si tiene ormai da 14 anni ad inizio maggio nella
c’è sempre uno spazio speciale riservato alla poesia,
curato dal poeta Fabio Pusterla. Molte voci della
Festival nel corso degli ultimi anni, sia per realizzare
delle letture, sia per degli interventi durante delle
e docente universitario) potessero essere messe in
spessore intellettuale.
Dopo un’introduzione durante la quale Pusterla
200 persone) non solo il percorso artistico e accademico di Testa, ma soprattutto il cronogramma affettivo
tavole rotonde dal taglio più intimista, sotto forma di
dei loro precedenti incontri, Testa ha preso la parola
comitato ha realizzato quando ha
dei suoi manoscritti d’esordio. Il dialogo è stato poi
interviste o dialoghi aperti con l’invitato.
È stata questa la scelta che il
e ha ricordato i suoi inizi, legati alla frequentazione
del grande maestro, Giorgio Caproni, il primo lettore
pensato al poeta Enrico Testa per
intercalato da brevi letture commentate di alcune
l’edizione del 2019 che si è appena
sue poesie tratte dalla sua ultima silloge, Cairn, uscita
condotta da Fabio Pusterla, durante
caratterizza, dell’assenza come tema centrale struttu-
conclusa, un incontro sotto forma
presso la bianca di Einaudi nel 2019, durante i quali
di intervista dialogata, abilmente
Testa ha parlato, con la discrezione e ironia che lo
la quale Testa è stato invitato a ripercorrere temi e motivi del proprio
lavoro come poeta, sin dagli esordi,
ma anche come saggista e docente
universitario. In effetti, la scelta di
una sua partecipazione come un
incontro dialogato è stata pensata
38
culturale da Testa (autore, critico letterario, saggista
rante anche del suo linguaggio poetico. Alcuni aspetti
da lui rilevati durante la lettura sono riscontrabili
anche in sillogi precedenti, a conferma di un percorso
coerente di costante ricerca di un linguaggio teso verso
l’equilibrio tra l’osservazione di una realtà fatta di
eventi quotidiani e un canto interiore, silenzioso ma
cadenzato, anteriore forse alle cose, che universalizza
di conseguenza il suo discorso. Lo sguardo del poeta
è rivolto verso fuori di sé, spesso sprovvisto di una
centralità lirica che vuole piuttosto dialogare con le
cose e gli indizi del presente.
Ampio spazio è stato preso anche dalla veste di
Enrico Testa come critico e saggista, in particolare
quando Pusterla si è riferito all’antologia curata da
Testa, Dopo la lirica 1960-2000 (Torino, Einaudi, 2005),
nella quale il docente genovese ha riunito le voci di
oltre quarante poeti italiani del secondo Novecento
mostrando un ventaglio eterogeneo della produzione
poetica italiana contemporanea, ma che – come com-
mentava lo stesso Testa durante la presentazione –
l’acuto senso critico di Testa, lo rendono indubbiamente
non si voleva né definitiva né impositiva, nonostante
una voce unica nel panorama della poesia italiana
Seduta nella decima fila delle sedie nere dello
alla scena poetica italiana, iniziata durante gli anni
spesso le antologie siano recepite come tali e come
tali siano soggetto a critiche.
spazio officina, locale sede del Festival, immersa nel
contemporanea, lontano da logoranti chiacchierii e
diatribe stilistiche. La sua importante contribuzione
ottanta, pare essersi stabilita meno in base alla cen-
silenzio della platea attenta, attorniata da un’archi-
tralità della sua persona (aspetto, questo, fortemente
con l’ambiente che sottolinea ancor di più il suo grande
macerazione delle problematiche simboliche e antro-
tettura volutamente impersionale e fredda, tutta in
cemento, le parole di Enrico Testa suonano in contrasto
respiro umanista. Dotato di un ampio sguardo sulla
tradizione lirica italiana e sui cambiamenti vissuti dalla
cultura italiana nel corso dei secoli, la discrezione e
rifiutato anche dalle scelte stilistiche dei suoi versi),
quanto piuttosto sulle basi di una riflessione e di una
pologiche care all’umanità. Le parole dette e i versi
letti in quella domenica pomeriggio d’inizio maggio
ne hanno reso palese il valore.
39
Enrico Testa in Brasile
I
l viaggio è senz’altro un tema di grande rilievo nella poetica di Enrico Testa, come si evince
anche dalle sue poesie. Negli ultimi sei anni, Testa è venuto più volte in Brasile, in particolare tra Florianópolis e São Paulo, rispettivamente nella Universidade Federal de Santa
Catarina e nella Universidade de São Paulo, in qualità di Visiting Professor (CNPq, CAPES) e
conferenziere. Viaggi, questi, che restano in un modo o nell’altro registrati nella sua scrittura
poetica, nella traduzione e circolazione dei suoi libri di poesia e saggi (si pensi, ad esempio, al
più recente Eroi e figuranti) e nella pubblicazione delle sue lezioni brasiliane.
Casa das Rosas, presentazione a São Paulo di Páscoa de neve, 2016
40
Seminario agosto/settembre 2019
Seminario agosto/settembre 2019
Plaquette bilingue che riposta
anche dei testi inediti, 2019.
Copertina della traduzione brasiliana
2019, di Eroi e Figuranti
Volume pubblicato nel 2016, che
raccoglie le lezioni del Seminario
svolto nel 2014
Copertina della traduzione brasiliana
2014 di Ablativo
Copertina della traduzione
brasiliana 2016,
di Pasqua di neve
41
Francesco Alberoni
42
Sottomissione
e segreto
Le persone che durante l’infanzia e l’adolescenza
sono state molto controllate e rimproverate, a cui
sono state imposte regole sgradite, essendo impotenti hanno dovuto chinare la testa nascondendo
la loro vera natura. Hanno frenato i loro impulsi,
si sono mostrate agli altri sottomesse ma, nello
stesso tempo, la loro collera, la loro ribellione
interiore cresceva.
Hanno nascosto i loro veri sentimenti i loro
veri pensieri. Hanno frenato la loro spontaneità,
la loro creatività. Infatti, proprio quando erano
autenticamente se stessi, si sentivano più giudicati,
criticati, condannati. È rimasta loro nel profondo la
paura di chi ha potere, di chi comanda, ma anche un
risentimento celato e sempre pronto ad esplodere.
In termini psicoanalitici possiamo dire che la
prolungata oppressione sociale ha prodotto in loro
un Super Io sociale che condanna ogni loro gesto
nuovo e originale. Essi perciò si frenano ogni volta
che si sentono pieni di vita, di slancio.
Ma dopo essersi frenati ed aver messo in scena
un comportamento dimesso si rimproverano per
non aver saputo continuare ad agire spontaneamente e, nello stesso tempo, si rimproverano di aver
fatto trasparire qualcosa della loro natura ribelle.
Le persone colpevolizzate hanno verso la
società l’atteggiamento che ha la vittima verso il
carnefice. Vorrebbero che smettesse, lo odiano ma
non sono aggressive con lui, cercano di ingraziarselo: qualunque cosa facciano è sempre sbagliato.
Queste persone oppresse dal super io sociale
temono sempre di essere rimproverate. Quindi
finiscono per sentire qualsiasi osservazione critica
qualsiasi suggerimento, qualsiasi invito come una
imposizione, una obbligazione, un rimprovero.
E hanno timore, se qualcosa va male, di essere
accusate. Allora si difendono come la domestica
che, abituata ad essere rimproverata, se rompe
qualcosa dice subito “Non sono stata io!” e, se c’è
un’altra persona presente, tende a dare la colpa a lei.
Un’ultima conseguenza della loro condizione
è che per fare qualcosa di nuovo, al di fuori del controllo sociale, lo fanno in segreto, di nascosto, non
parlandone a nessuno. Quindi non condividono con
gli altri gli aspetti più creativi, importanti e nuovi
della loro vita, non raccontano loro le esperienze
più interessanti, le emozioni più vere e profonde.
La paura del rimprovero sociale così le spinge
a condurre, accanto a quella manifesta, una vita
segreta. Solo il segreto le rassicura, ma questo
segreto dà agli altri l’impressione che ci sia in
loro sempre qualcosa di misterioso, qualcosa di
celato di cui non si deve parlare. Alcune di queste
persone finiscono per condurre nel corso degli
anni e dei decenni una doppia vita. Anche una
doppia vita amorosa, anche con uomini o donne
diversi. Ogni volta hanno una vita ufficiale manifesta, spesso vuota, e una vita intensa e vitale ma
nascosta, segreta.
Come può salvarsi e cambiare una persona
così? Solo lasciando il suo ambiente, il luogo dove
è cresciuta e dove vivono le persone che l’hanno
criticata, oppressa e da cui ha dovuto difendersi con
il segreto perché a costoro continuerebbe a mentire.
Deve entrare in un ambiente completamente
nuovo, avendo cura questa volta di appoggiarsi
solo a persone forti e generose che non hanno
bisogno di vantarsi o di opprimere qualcuno per
sentirsi potenti. Un ambiente nuovo dove non
subisce oppressioni, non è costretta a nascondersi,
a dimostrarsi dimessa, silenziosa, innocua. Un
ambiente dove può parlare apertamente dicendo
quello che pensa e che sente. Un ambiente dove
non c’è spazio per il segreto, ma dove deve usare
con intelligenza la riservatezza. Un ambiente dove
nessuno le rimprovera niente anzi l’apprezza per
quello che fa e dice apertamente. Un ambiente in
cui sente di poter fare qualcosa di utile e poter
esprimere le sue capacità e le sue idealità.
Allora, poco a poco emergerà la sua personalità più profonda, quella che era sempre stata
costretta a tacere, a nascondere, a fingere, ed emergerà la sua personalità esuberante e creativa. Una
personalità molto forte e con un grande fascino che
gli altri cercavano di schiacciare perché temevano
di esserne travolti e dominati.
PASSA
TEMPO
DIVERTIMENTO
L’Italia ha, anche, la più antica banca del mondo ancora in
attività: la Banca Monte dei Paschi di Siena, operativa dal 1472.
SUDOKU
CURIOSITÀ
SOLUZIONI
SUDOKU
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