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QUESTO NON E’ UN MANUALE di LUZZATI Capitolo uno: le pipe di Magritte 1. Tanto per cominciare. Prima di reputare il messaggio inutile, insensato, facciamo ogni sforzo per conservarlo: siamo spinti dalle regole conversazionali ad andare alla ricerca di un’interpretazione che non ci metta di fronte ad una contraddizione. E ciò accade sovente anche nei casi più evidenti di illogicità. Il più efficace meccanismo di fuga dai controsensi consiste nell’intendere i termini-chiave in modo non letterale. I giuristi, maestri in queste strategie, sono restii ad ammettere l’esistenza di contraddizioni insolubili. I problemi di coerenza logica vengono trattati come problemi interpretativi. La mia pubblicazione oltre a trasmettere informazioni e concetti indispensabili, vuole sollecitare nel lettore una riflessione personale. Per spiegarlo utilizzerò un passo di Moritz Schlick, uno de padri fondatori del neopositivismo logico: l’etica è considerata una parte della filosofia. Ma secondo il punto di vista qui proposto, la filosofia non è una scienza, cioè non è un sistema di proposizioni, ma il suo compito consiste nel chiarire il contenuto delle proposizioni scientifiche, cioè nello scoprire e determinare il loro significato. Così la determinazione del significato ultimo è sempre il risultato di una attività; questa attività costituisce l’essenza della filosofia; non esistono proposizioni filosofiche, ma solo atti filosofici. Le proposizioni ci dicono qualcosa di vero o di falso sui fatti e, quando organizzate in modo coerente e sistematico, le proposizioni formano un discorso scientifico. Della fissazione o del chiarimento dei significati, invece, si occupa la filosofia, servendosi delle definizioni; per il filosofi analitico, non vi sono definizioni vere o false. Da tale prospettiva, la filosofia è priva di ogni pretesa veritativa: non coglie profonde verità. Semplicemente essa ragiona sui quadri concettuali e sugli impegni valoriali dei soggetti. La filosofia è un’attività, prima ancora di essere l’insieme delle dottrine che sono il risultato di una siffatta attività. Di conseguenza, finché si fanno affermazioni vere o false, e comunque controllabili empiricamente, sui processi mentali dei soggetti, per un pensatore analitico non si sta facendo filosofia morale; si ricade invece in un discorso scientifico, quello della psicologia. Il filosofo morale sarà tenuto a illustrare le possibili soluzioni etiche, nessuna delle quali è vera o falsa, d’altra parte, discuterà del significato che per lui e per gli altri tali scelte assumono, valutando in piena autonomia i parametri alla cui stregua esse sono giustificabili o refutabili. Il filosofo del diritto può scrivere manuali o trattati: lo fa quando espone in forma sistematica la storia della propria disciplina e le dottrine prodotte nel corso del tempo. L’atteggiamento è quello di un invito ad un dialogo senza censure in modo da diventare maggiormente liberi e responsabili, liberi perché responsabili. 2. Quale filosofia del diritto? Se, evitando il termine filosofia, si parlasse di teoria generale del diritto, che è una parte della nostra disciplina, e più precisamente la parte che riflette sui concetti giuridici fondamentali, molti dubbi sull’utilità di tale materia per il corso di studi sarebbero rintuzzati sul nascere. Si potrebbe dire che la filosofia del diritto è la somma della teoria generale del diritto più l’esposizione analitica delle dottrine della giustizia. In ogni campo il libero confronto è decisivo. La domanda corretta non è quella che si chiede se lo studio della filosofia sia giustificato bensì la seguente: quale filosofia del diritto è giustificata, utile o opportuna? A tal proposito occorre una distinzione che ci fornisce Norberto Bobbio, il quale contrappose polemicamente due filosofie del diritto: quella dei filosofi e quella dei giuristi. La filosofia del diritto dei filosofi non è fatta da esperti di questioni giuridiche e considera la filosofia come una sorta di super-scienza che guida il sapere umano. Essa consiste nel travasare in modo meccanico nel campo particolare dell’analisi del diritto le tesi di un dato indirizzo speculativo generale. Questo modo di vedere relega il diritto a una posizione ancillare rispetto alla filosofia. Mentre il giurista è considerato un tecnico che risponde a interrogativi specialistici circa il diritto vigente, il filosofo rivendica la competenza sulle questioni supreme, chiedendosi che cosa sia il diritto da un punto di vista ideale e a quali valori di giustizia esso vada subordinato. Viene così a realizzarsi una scissione insanabile fra la filosofia del diritto e le esigenze teoriche e operative dei giuristi. La filosofia del diritto dei giuristi, invece, anziché prendere le mosse da una concezione del mondo precostituita, assume quale punto di partenza i problemi di ruolo e di metodo degli stessi giuristi: è fatta da uomini di legge che a furia di riflettere sui concetti e i temi di cui si occupano nel loro lavoro professionale, sono diventati filosofi. D’altro canto viene meno ogni artificiosa separazione fra le questioni alte e le questioni basse, fra i valori e gli aspetti tecnici, fra la domanda quid ius? (che cos’è il diritto?) e la domanda quid iuris? (che cos’è di diritto?). Di conseguenza viene a stabilirsi una linea di perfetta continuità tra la filosofia, la teoria del diritto e l’alta dottrina. Con la filosofia del diritto le questioni di metodo giuridico sono affrontate in modo interdisciplinare servendosi non solo delle griglie concettuali dei giuristi, ma anche delle nozioni della logica formale, della linguistica, dell’informatica, della neo-retorica, della teoria dei giochi, della teoria dell’organizzazione e così via. Mentre la dogmatica giuridica con le sue costruzioni deve cercare di dare una soluzione autorevole, il filosofo del diritto è libero di sostenere che un determinato problema, allo stato degli atti, non può ricevere alcuna risposta definitiva. La filosofia del diritto dei filosofi: -ritiene la filosofia superiore al diritto; -cala dall’alto sul diritto tesi filosofiche aprioristiche; -crea una discontinuità fra la filosofia e la dottrina. La filosofia del diritto dei giuristi: -tratta alla pari la filosofia e le costruzioni dei giuristi; -parte del basso, ossia dalle esigenze dei giuristi, anche se i metodi d’analisi impiegati possono essere mutuati da altre discipline; -mantiene un legame di continuità tra la filosofia e le elaborazioni dottrinali. Si comprende che la filosofia del diritto deve configurarsi come una meta-giurisprudenza, cioè come una riflessione sulla giurisprudenza. 3. Una parola difficile: meta-giurisprudenza. Il termine meta-giurisprudenza si compone di due parti: il prefisso “meta” e giurisprudenza un vocabolo ambiguo. Con esso ci si può riferire a: -una facoltà universitaria; -l’attività dei giudici e/o il suo risultato. Nelle accezioni della giurisprudenza di legittimità, ossia le sentenze e le attività esegetiche della Corte di Cassazione e d i giurisprudenza di merito, cioè alle sentenze alle attività esegetiche degli altri giudici; -l’attività dei giuristi e/o il suo risultato. Allorché si sostiene che la filosofia del diritto dei giuristi è una meta-giurisprudenza si sta semplicemente dicendo che si vuole che tale disciplina analizzi i discorsi dei giuristi. Alla meta-giurisprudenza descrittiva si aggiunge anche una meta-giurisprudenza prescrittiva che non si limita a riferire le opinioni dei giuristi, ma le critica mettendole in discussione. Il filosofo si pone così a un livello più elevato, anche se non c’è nessuna pretesa di superiorità valutativa da parte del filosofo. Quest’ultimo, infatti, anziché occuparsi dell’applicazione delle leggi ai casi concreti, si sofferma a riflettere sulle tecniche, sui metodi, sugli schemi concettuali, sul modo di ragionare e sull’etica di ruolo degli esperti del diritto. Supponiamo che fuori brilli un sole che spacca le pietre e Maria affermi: “sta piovendo”. L’affermazione di Maria è falsa. Immaginiamo ora che Giovanni chieda ad Alberto: “che cosa ha detto Maria?” e che Alberto risponda: “Maria ha detto che sta piovendo”. Questa seconda affermazione sarà vera. I criteri di verità e falsità sono diversi. La ragione di questa differenza sta nel fatto che in un caso si sta constatando un fatto, nell’altro caso si sta riportando un discorso. Una cosa è chiedersi se sia vero che qualcuno ha certe credenze o convinzioni; un’altra è chiedersi se tali credenze o convinzioni corrispondono ai fatti. Noi ci poniamo a un livello metalinguistico tutte le volte in cui parliamo delle parole o quando ci chiediamo quale sia il significato o l’interpretazione di una determinata disposizione legislativa o analizziamo la struttura logica di una frase. Ecco un esempio sorprendente: ciò che sto affermando in questo esatto momento è falso. Tale asserzione cade in un paradosso. Infatti, se ciò che dico è vero, allora è falso, mentre se è falso, è vero. Questo è dovuto alla circostanza che la frase in questione afferma qualcosa su se stessa, annullando la differenza di livello tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio. Ci vuole poco a comprendere che l’attività che consiste di salire di livello linguistico comporta un regresso all’infinito. La serie: “io dico che tu dici che egli sostiene che…” non ha fine. Così un meta-metalinguaggio discorrerà su un metalinguaggio e, se volgiamo parlare di un meta-metalinguaggio, dovremmo aggiungere un altro “meta-“, e così via. Non esiste un ultimo livello linguistico. È sempre possibile ascendere ad una posizione più elevata. 4. Meta-norme e sovra-norme. Nello studio e nella pratica del diritto entrano in gioco strutture linguistiche a molti livelli. Un es. banale: un giudice pronuncia una sentenza. Nel farlo dovrà interpretare certi testi legislativi per valutare se siano applicabili al caso concreto e cerca di attribuire un significato alle parole del legislatore e così facendo viene a collocarsi su un piano metalinguistico rispetto al linguaggio legislativo. Inoltra la motivazione della sentenza può esaminare i rapporti tra un regolamento e determinate leggi o può discutere se una legge ordinaria sia conforme o no al dettato di questo o di quel principio costituzionale: dunque in questo caso ci si ritrova ad un livello meta-metalinguistico. Se poi la sentenza in questione viene discussa per proporre un ricorso o un appello, o viene commentata in un testo di dottrina o in una rassegna di giurisprudenza siamo costretti ad aggiungere un altro “meta-“ alla nostra già lunga catena. Il filosofo del diritto si trova improvvisamente in cima a tale elenco: è colui che parla dei giuristi, i quali parlano del diritto. Considerando però la struttura di un ordinamento giuridico, la superiorità linguistica non va mai confusa con la superiorità gerarchica. Es.:l’art 11 Prel. Dice: “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Questo significa forse che non possano esservi leggi retroattive? Ma vi sono le leggi di interpretazione autentica. Qui l’interpretazione proviene dallo stesso legislatore e serve a chiarirne il significato in modo vincolante anche per il passato. Perciò l’interpretazione autentica avrà necessariamente un’efficacia retroattiva. Come si spiega un simile contrasto? Per sviscerare questo problema occorre innanzitutto andare a vedere quale posto occupino le Preleggi nella gerarchia delle fonti: si tratta di leggi ordinarie, dunque la previsione dell’art. 11 Prel. potrà essere derogata, in base al criterio cronologico (art. 15 Prel.), da qualsiasi altra legge ordinaria posteriore che l’abroghi espressamente o sia con essa incompatibile. Certo, il caso delle leggi retroattive potrebbe dar luogo a situazioni di irragionevolezza evidente e di disparità di trattamento diventando così censurabile ai sensi dell’art. 3 Cost. Di conseguenza, il principio di stretta legalità (nullum crimen nulla poena sine lege) non dipende dall’art. 11 l dall’art. 14 delle Preleggi, ma dall’art. 25 Cost., per il quale :”nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Pertanto, mentre l’art 11 e 14 delle Preleggi sono meta-norme rispetto ad una legge del Parlamento, l’art. 25 Cost. è una sovra-norma. Solo in quest’ultima ipotesi vi è anche un rapporto di superiorità gerarchica. Una norma che parla di un’altra norma, ossia una meta-norma, non è necessariamente una norma superiore. Esercitazione: si esamini la sentenza della Corte costituzionale nella quale è sancito il divieto di retroattività della legge, salvo per la materia penale (art. 25 della Costituzione), purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti. 5. Questioni di metodo. Invece di aversi un’unica filosofia, volta a costruire un sistema, ossia una visione del mondo complessiva, avremmo così tante “filosofie su”, ciascuna delle quali farebbe capo a una diversa facoltà specialistica. Questo paradosso era già stato adombrato dal padre della scuola giusfilosofica genovese, Tarello, il quale diceva: “sotto la rubrica filosofia del diritto si coltivano essenzialmente i seguenti ordini di ricerche: a)analisi del linguaggio dei giuristi; b)teoria della logica delle proposizioni normative; c)teoria dell’argomentazione giuridica; d) storia della cultura giuridica; e) storia delle dottrine e scuole giuridiche; f)individuazione delle ideologie politiche e delle ideologie tecnico-operative degli operatori giuridici. Io non vorrei un’operazione di sterilizzazione ideologica dei dipartimenti giuridici. A me importa che certi seminari siano fatti assieme a studenti che faranno il giudice, il funzionario degli Interni, il funzionario delle Finanze, che non assieme a studenti che faranno il professore di filosofia”. Le facoltà filosofiche non si scioglieranno in quanto rispondo ad un’esigenza di interdisciplinarietà. Infatti la filosofia del diritto, intesa come meta-giurisprudenza, utilizza anche strumenti diversi da quelli che sono di solito impiegati dai giuristi. Le tecniche e le convinzioni dei giuristi vengono analizzate dal filosofo sulla scorta di precise conoscenze logico-argomentative, storiche, linguistiche, informatiche ecc. Ciò consente, per Tarello, di stanare le ideologie politiche e tecnico-operative su cui gli addetti ai lavori vorrebbero tacere. La meta giurisprudenza invece di dedicarsi al vacuo abbellimento culturali ad attività strettamente professionali, rifiuta l’idea che il giurista si riduca a mero tecnico, o, peggio, a semplice esecutore. Si oppone alla sterilizzazione ideologica dello studio del diritto. Gran parte dell’attività del filosofo è così volta alla demolizione del mito del giurista-scienziato mettendone in forse le pretese di neutralità. Si deve distinguere bene tra una meta giurisprudenza descrittiva e una meta giurisprudenza prescrittiva. La prima analizza le tecniche impiegate dai giuristi, il loro modo di argomentare e i valori a cui essi si ispirano; la seconda è propositiva e critica; essa dibatte su quali mezzi si debbano impiegare se si vuole ottenere un determinato fine. In particolare, nella meta-giurisprudenza prescrittiva rientrano tutte le questioni relative alla giustizia e alle politiche del diritto. 6. Perché vale la pena aprire la “scatola nera”. È possibile utilizzare il computer o la televisione senza sapere come siano fatti dentro. Analogamente è verosimile che il giurista possa svolgere il suo mestiere anche se non ha mai sentito parlare di norma fondamentale, di regole tetico-costitutive…Il vero problema però sarebbe come lo svolgerebbe. Del resto, a volte neppure il giurista riesce a spiegare a sé e agli altri quel che fa. Altre volte ha chiaro quel che fa, ma stenta a convivere con l’applicazione di norme e principi che, in certi casi, sono totalmente divergenti dalle proprie convinzioni più salde. Una prima risposta a questi disagi, l’incomprensione della pratica giuridica e il conflitto di doveri, è la politica dello struzzo: nascondere la testa sotto terra, scegliendo di diventare obbedienti esecutori che non fanno mai domande. L’alternativa è quella di aprirsi a una riflessione critica e qui la filosofia del diritto dei giuristi può rivelarsi preziosa. Essa, quantunque, possa contenere aspetti di una meta giurisprudenza prescrittiva, è tutto fuorché una precettistica, poiché insegna a rompere col cieco spirito di dottrina e a sottrarsi alle logiche di potere e da lezioni di autonomia. Ecco perché il buon docente di filosofia deve insistere sul metodo e sulla capacità degli allievi di argomentare le proprie tesi. Oggi l’uomo di cultura è più che mai un seminatore di dubbi, non un collezionista di certezze. Il pensatore moderno è mosso da una tensione antidottrinaria, non si fida, distingue sempre e va in cerca di prove, è convinto di non poter dire l’ultima parola su nessun problema perché tutto il nostro sapere è fallibile e rivedibile. Ma imparare un metodo che consenta il controllo interno degli asserti sostenuti, che esplori i nessi logici fra le varie tesi, richiede un addestramento, necessita un saper fare. Es.: come il buon medico non è colui che sa ripetere a menadito il manuale di patologia, ma è colui che sa riconoscere le malattie, così anche il giurista è colui che ha sviluppato una capacità diagnostica riguardo alle fattispecie concrete: ciò è il frutto di uno specifico addestramento. La distinzione tra knowing that (conoscere) e knowing how (saper fare) è stata teorizzata da Rayle, secondo il quale: “può capitare che si muova correttamente un pezzo sulla scacchiera anche senza saper giocare a scacchi: il fatto che il pezzo venga mosso al posto giusto non comporta, in quanto tale, conoscenza della regola rispettiva, e nessuno potrebbe rintracciarvi un fattore visibile che premetta di decidere se la mossa era corretta per caso o consapevolmente. Chi sa recitare le regole degli scacchi non per questo sa giocare, mentre chi sa fare le mosse permesse dalle regole sa giocare anche se non è in grado di dirci le regole stesse. È sulla scacchiera che si esercita il suo saper fare. I bambini, le persone di mezza cultura, i militari possono pensare che l’ammaestramento consista nel rendere l’allievo capace di ripetere scimmiescamente quanto gli viene insegnato. Imparare è diventare capace di eseguire certe cose corrette e appropriate in qualsiasi circostanza di un certo tipo generale, rispondendo a certe variabili nei limiti di queste; è essere pronti al fare sia in un senso generico che in un senso specifico, sia disposizionalmente che episodicamente”. Ryle è noto per aver contestato il mito cartesiano secondo cui vi sarebbe una sostanza pensante accanto ad una sostanza estesa: è il c.d. dogma delle Spettro nella macchina. Ryle spiega che vi è una fondamentale differenza tra conoscere e saper fare. Il filosofo del diritto che pratichi una meta-giurisprudenza è convinto che non basti esibire i concetti, recitando pedissequamente certe formule o slogan, ma occorra anche imparare ad usarli. Non è sufficiente la memorizzazione né il saper ripetere le cose giuste al momento giuste: occorre sviluppare determinate disposizioni o capacità di ragionamento. Qualora una facoltà di giurisprudenza non riuscisse a compiere quest’opera di formazione, fallirebbe nei suoi compiti istituzionali. 7. Una scala da gettar via. Una delle difficoltà è che il linguaggio filosofico è un linguaggio specialistico e, come il diritto, ha i suoi tecnicismi. Non si deve però assolutamente dire che la filosofia è troppo astratta, perché questa è una sciocchezza. Il possesso dei concetti astratti consiste nella capacità di esprimersi con i termini appropriati nelle occasioni giuste e di compiere con successo determinate operazioni. L’unico tratto distintivo tra la filosofia e altri settori può essere l’idea erronea che il filosofo non si occupi di questioni rilevanti in grado di investire la vita vissuta e i dilemmi esistenziali dell’uomo comune. È vero il contrario, perché interrogativi come: “vi è un margine di discrezionalità nel giudizio penale?” o come: “si deve sempre obbedire agli ordini?”, sono tipici quesiti filosofici che toccano, a volte in modo drammatico, anche la nostra quotidianità. Capitolo due: Istituzioni o norme? 1. Partendo dalle prime esperienza. Do per nota la differenza tra diritto oggettivo e diritto soggettivo. La prima espressione designa un ordinamento giuridico, la seconda una pretesa tutelata da un ordinamento. La parola diritto è usata soggettivamente quando risulti sostituibile da termini come “pretesa”, “libertà” o “potere”, mentre è usata oggettivamente quando tale termine può grosso modo essere rimpiazzato dall’espressione “ordinamento”. Una trattazione manualistica tirerebbe avanti per la sua strada proponendo subito il classico problema giusfilosofico di cui ci dobbiamo occupare in questa parte: quello del concetto di diritto. Ma così si rischiano di perdere di vista gli scopi di un’eventuale definizione della giuridicità. Gli studiosi di diritto pubblico definiscono il diritto facendo rifermento alle istituzioni; i privati parlano invece di norme. Per i primi l’ordinamento è un insieme di norme; per i secondi è un’organizzazione funzionante. Il filosofo fa notare che le due impostazioni non possono coesistere coerentemente. È ovvio che privatisti e giuspubblicisti hanno esigenze, fini e metodi differenti. Ma ciò giustifica forse che si diano due nozioni inconciliabili di diritto oggettivo? Questo fatto getta ombre sulla pretesa di “scientificità” degli studi giuridici, perché tali contrasti rendono difficile continuare a pensare al diritto come un oggetto di studio unitario che “esiste” indipendentemente dagli atteggiamenti dei soggetti. Né è soddisfacente l’atteggiamento di quei giuristi che fanno uso di definizioni provvisorie, lasciando al filosofo il compito d’approfondire la discussione: “il giurista delega alla filosofia del diritto il compito di indagare ulteriormente e procede tranquillamente con le sue definizioni minimaliste”. Gli autori ripropongono, con la delega, la vecchia filosofia del diritto dei filosofi, i quali dovrebbero occuparsi di questioni molto importanti, a parole, ma del tutto irrilevanti per quel che concerne la giurisprudenza coltivata dagli addetti ai lavori. La questione di fondo: siamo sicuri che il modo in cui si tracciano i confini della giuridicità sia del tutto irrilevante rispetto alla soluzione dei problemi tecnico-giuridici? Il filosofo en dubita e le differenza d’opinione fra privatisti e pubblicisti testimonia la fondatezza di questo dubbio. Segnare i confini del diritto vuol dire anche stabilire quali sono le fonti dell’ordinamento e decidere quali sono le prescrizioni valide. 2. L’accostamento dei privatisti. Relativamente alla posizione dei cultori di diritto privato, il quesito cui bisogna rispondere verte sul modo in cui i giuristi dei differenti settori intendono il concetto di diritto oggettivo, senza ulteriori qualifiche o specificazioni. Pietro Trimarchi dichiara: “il diritto si presenta come un insieme di comandi, i quali possono avere natura di regole generali: possono riferirsi cioè ad ipotesi definite in base ad alcune caratteristiche generali e perciò suscettibili di prestarsi un numero indeterminato di volte. Il comando giuridico di carattere generale e astratto si dice norma giuridica e consente in buona misura la prevedibilità delle decisioni che verranno prese nei singoli casi concreti”. Nel brano vi sono tre problemi spinosi: I termini quale comando, regola, norma, nell’uso, suonano ambigui. Si tende spesso a ignorare la differenza fra una formula normativa, che è un insieme di parole, e i significati che sono ascritti a tale formale attraverso l’opera degli interpreti. Il filosofo è abituato a chiamare disposizioni gli enunciati normativi, ossia le stringhe di parole, e a chiamare norme i loro significati. Occorre sottolineare il fatto che nel manuale di Trimarchi il diritto è definito come un insieme di comandi. Il vocabolo comando richiama alla nostra mente più la specificità degli ordini che la generalità delle regole. Nell’uso ha un carattere individuale, non generale. Ad ogni modo, nel testo citato si usa il termine comando senza convogliare l’idea che si tratti di una direttiva individuale: si desidera lasciar invece trasparire una visione imperativistica del diritto. L’idea che ne emerge è caratteristica del positivismo giuridico: il diritto è solo il diritto posto, riconducibile ad atti autoritativi, ossia di volontà; la validità delle leggi non dipende invece da un’intrinseca ragionevolezza delle prescrizioni o dalla “sapienza” veicolata dalla tradizione. Pertanto, la definizione esaminata non sarebbe accettabili da un giusnaturalista, il quale subordina la validità alla giustizia. I vocaboli norma e regola derivano da metafore del linguaggio tecnico dell’architetto. Questo fa sì che di regole si parli esclusivamente in un senso generale. Quanto poi alle norme, sia i giuristi sia i filosofi, discutono spesso, oltre che di norme generali e astratte, di norme individuali e/o concrete, quando intendono riferirsi alle sentenze o al contenuto di specifici atti negoziali o della pubblica amministrazione. Il terzo aspetto problematico riguarda la distinzione tra le leggi provvedimento, che sarebbero tali solo in senso formale, perché, pur essendo leggi individuali e concrete, sono state emanate dal Parlamento, e le leggi materiali, le quali, invece, rivestono le caratteristiche della generalità e dell’astrattezza, rispondendo dunque a una chiara ideologia illuministica, la quale pretende che si giunga a un alto grado di certezza del diritto e di prevedibilità delle decisioni particolari. Carnelutti negli anni ’40 dava conto del concetto di diritto in modo simile al passo del Trimarchi: “quando il precetto è imposto, cioè sanzionato, diventa un comando e si passa dall’etica al diritto. Si è così delineato il fenomeno giuridico, che consiste in un sistema di comandi diretti a comporre i conflitti di interessi tra i membri di un gruppo sociale. Questa forma, si compone in tre caratteri: 1) l’imperatività: non v’è diritto dove non vi sia comando; 2) l’intersubbiettività; infine bisogna aggiungervi il carattere della statualità, lo stato essendo quella istituzione, in cui si esprime la totalità o la compiutezza del diritto”. Carnelutti andrebbe ricompreso tra i pubblicisti, tuttavia con il Trimarchi vi è un punto di contatto molto importante: l’uso ripetuto della parola comando e l’enfasi sull’imperativismo. D’altro parte, in Carnelutti v’è anche un richiamo tipico del vecchio positivismo, alla statualità del diritto, nel senso che solo il diritto statale era considerato “vero” diritto. 3. Le tesi dei pubblicisti. La tradizione degli studiosi di diritto pubblico propende verso l’istituzionalismo. Paolo Biscaretti di Ruffa, dopo aver ricordato che per i privatisti il diritto è un sistema di norme afferma che: “il giuspubblicista è costretto a superare la sfera dominata dalle regole in questione per risalire alle fonti di produzioni delle norme stesse, prendendo direttamente in considerazione le istituzioni che le pongono concretamente in essere o le attuano e le tutelano. Il fenomeno giuridico viene a identificarsi con la stessa struttura ed organizzazione di quella determinata società, inducendo, di conseguenza, ad accogliere in noto trinomio: diritto=istituzione=ordinamento giuridico. Ogni raggruppamento sociale, una volta raggiunta una stabile sistemazione, dà origine ad un’istituzione, cioè ad un ente che si presenterà, di per sé, in ogni elemento, come giuridico. È innanzitutto organizzazione o corpo sociale. Ed è precisamente quest’ultimo che comunica alla norma la natura giuridica e non viceversa; giacché l’efficacia e la garanzia della norma non sono il frutto dei caratteri intrinseci presentati dalla norma stessa, bensì trovano la loro base nei molteplici ingranaggi e congegni che vengono a costituire l’ultima struttura dell’istituzione”. Le norme poste, cioè che traggono origine da fonti autoritative, si distinguono per una particolarità degna della massima attenzione: possono essere inefficaci, pur continuando a prescrivere obblighi. Questa situazione d’inefficacia si può verificare anche per gli atti normativi che pongano in modo immediato un effetto giuridico: un nuovo ente può essere istituito sulla carta, ma non ricevere poi i mezzi concreti per realizzare le proprie finalità istituzionali; una norma ne abroga implicitamente un’altra, ma i giudici fanno finta di niente e continuano ad applicare la norma abrogata. Dunque capita che la validità e la cogenza giuridica delle norma si scindano dalla loro effettività o efficacia. L’art. 15 e 8 delle Preleggi mostrano come le leggi ordinare non possono essere abrogate per desuetudine, ossia per il solo venir meno dell’efficacia. Nel nostro paese tra le fonti ufficiali non vi è alcuna consuetudine abrogativa, né le leggi possono essere derogate dagli usi. Gli studiosi di diritto pubblico temono il rischio che il diritto divenga l’equivalente di una lingua morta con formulazioni valide, reperibili sui codici, ma senza riscontro nelle prassi degli organi costituzionali e dei cittadini. Essi non vogliono un mondo fantasmatico del dover essere parallelo all’universo dei fatti. Per questo si sforzano di fondare la giuridicità sull’effettività dei pubblici poteri. Da tale desiderio di non perdere il contatto con la pratica effettiva, nasce la teoria istituzionalistica. L’elemento originario e fondamentale della giuridicità, va ricercato, anziché nelle norme, nella reale esistenza di un’organizzazione effettiva che operi nella sfera sociale: l’istituzione. Ricorrendo all’immagine delle foglie e dei rami, come fanno i privatisti, ci si avvede che le norme sarebbero sospese per aria se non si reggessero alla realtà istituzionale, la quale rappresenta il tronco e la radice della pianta. Secondo l’istituzionalista se si parla del diritto in termini di norme autoritative, non si dà una spiegazione sbagliata, ma incompleta. Infatti le norme saranno pur poste da determinate fonti di produzione effettive, con specifici atti. Insomma, una costituzione non sta in piedi da sola, dovrà essere concessa da un sovrano riconosciuto come legittimo o sarà elaborata da un’assemblea costituente eletta dal popolo e operante nel pieno dei suoi poteri. Il diritto oggettivo è dunque rappresentato quale un’organizzazione concreta, unitaria e funzionante. Le norme sono solo una facciata, perché la giuridicità si regge sui poteri effettivi, sui rapporti di forza dell’assetto politico di una data società. L’istituzionalismo è incompatibile con il normativismo perché danno una risposta divergente alla stessa domanda: “in che cosa consiste la giuridicità?” A detta dei normativisti bisogna cercare un criterio normativo ultimo, la c.d. norma fondamentale, e, all’interno dell’ordinamento stesso, può sussistere una divergenza tra il diritto valido e le pratiche effettive degli organi pubblici. Al contrario per l’istituzionalismo quel che conta in definitiva è l’effettività dei poteri ultimi con decisioni incontestabili e che ricevono l’aperto riconoscimento della collettività. La soluzione a cui pervengono gli istituzionalisti è una soluzione giusrealistica. 4. Le istituzione nel pensiero di Santi Romano. Uno dei padri del diritto pubblico fu Santi Romano, presidente del consiglio di stato e senatore del regno, ed ebbe il merito di aver importato l’istituzionalismo in Italia. Nell’opera L’ordinamento giuridico sostiene che gli elementi costitutivi del concetto di diritto inteso come istituzione sono tre: Una base di fatto, la società; La finalità cui il diritto tende, ossia l’ordine; Il mezzo con cui realizzare tale fine, cioè l’organizzazione. Il concetto del diritto deve ricondursi al concetto di società e inoltre non c’è società senza che in essa si manifesti il fenomeno giuridico. Per società deve intendersi un’entità che costituisca un’unità concreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono. E deve trattarsi di un’unità effettivamente costituita. Il concetto del diritto deve contente l’idea dell’ordine sociale: il che serve per escludere ogni elemento da ricondursi al puro arbitrio o alla forza materiale, cioè non ordinata. L’ordine sociale non è quello dato dall’esistenza di norme che disciplinano i rapporti sociali: il diritto, prima di essere norma, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante. Ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico: l’equazione fra i due concetti è necessaria e assoluta. Romano paragona l’ordinamento ad una sorta di scacchiera, in cui sono le norme stesse ad essere mosse come pedine. Dunque il processo di obiettivazione che da luogo al fenomeno giuridico non comincia con l’emanazione di una regola, bensì in un momento anteriore. L’obiettività delle norme è solo un pallido riflesso della realtà di un potere impersonale che trascende i singoli individui. L’ente di cui si discute deve avere un’esistenza obbiettiva e concreta, e, per quanto immateriale, la sua individualità deve essere esteriore e visibile. Ecco perché il vocabolo istituzione non è impiegabile in senso figurato. La realtà giuridica, secondo Romano, non va vista come un mondo di pure astrazioni. Il diritto crea ex novo, ma non ex nihilo. Deve dunque esservi qualcosa di tangibile, un sostrato materiale. In buona sostanza, Romano considera immediatamente giuridico un fatto, l’ordinamento sociale, che altri studiosi ritenevano fosse antecedente al diritto. In tale prospettiva, l’istituzione non è la mera fonte del diritto, né il diritto è il prodotto dell’istituzione. La tesi qui sostenuta è che sussista una perfetta identità tra istituzione e diritto. Lo stato nella dottrina pubblicistica consta di tre elementi costitutivi: Popolo; Territorio Governo (o sovranità). Uno stato non possiede un determinato territorio, ma è un determinato territorio. Santi Romano abbandona l’idea della statualità del diritto ritenendo che vi siano sia istituzioni al di sopra delle stato sia al di sotto di esso. Per diventare un’istituzione, un gruppo deve concretamente organizzarsi; ma allora anche una setta o un’associazione a delinquere, purché organizzate, costituiscono un’istituzione. Per Romano siffatte entità sarebbero tutte provviste d’una natura giuridica, anche se per lo stato esse versano nella più completa illegalità. Questa conclusione è molto importante: ciascun ordinamento qualificherà dalla sua prospettiva i rapporti con gli altri sistemi giuridici. Questa teoria è denominata pluralismo giuridico. La giuridicità non è più una caratteristica del solo ordinamento statale. La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e la teoria dell’istituzione sono indipendenti. Romano esamina una serie di ipotesi-limite, nelle quali l’organizzazione è presente soltanto in modo embrionale (una fila, lo sport, un gioco, la cavalleria). L’idea romaniana che esiste nella vita sociale un ordine immanente, accessibile alla conoscenza, pare suffragata anche da considerazioni di senso comune. Il filosofo resta perplesso di fronte alla retorica della concretezza da cui Romano e i pubblicisti vorrebbero far discendere l’obbiettività della c.d. scienza giuridica. Non potrebbe trattarsi di una intangibilità illusoria? 5. Una rapina che non rispetta il copione. Prima di giungere alla resa dei conti nel cfr. fra il normativismo e l’istituzionalismo, bisogna chiarire il rapporto fra le norme e òa realtà sociale. Esempio: uscendo dall’università, una studentessa si avvia verso casa e la sua attenzione è calamitata da un giovane dall’aria losca che si avvicina ad un’anziana signora e tenta di sottrarle la borsetta. Il malvivente, impossessatosi infine della borsa, si allontana. Possiamo dire che Maria ha assistito a una rapina? Se la borsetta è stata sottratta con la forza, allora si è verificata una rapina ai sensi dell’art. 628 c.p., 1° comma. Nel caso in cui il giovanotto sottraesse con destrezza la borsa, avremmo una fattispecie di furto aggravato. D’altra parte, i confini fra il furto con strappo e la rapina sono assai labili. E se il ragazzo, dopo aver preso la borsetta, che la donna in un attimo di distrazione aveva posato per terra, si allontanasse di corsa, dando però un pugno a un passante che cercava di ostacolarlo? In tale ipotesi si parlerà di una rapina impropria. Di fronte ad una serie di casi distinti per il Codice penale, però un giornale li denominerebbe tutti sotto la comune etichetta di scippo. Supponiamo ora che quell’avvenimento sia qualificabile come un’ipotesi chiara di rapina ai sensi delle nostre leggi penali. Ciò nonostante, si potrebbe ancora discutere se Maria abbia veramente assistito ad una rapina. Maria ha certamente visto e ha udito e può raccontarci una serie di eventi che verranno raggruppati dal giudice sotto la fattispecie astratta della rapina. Tuttavia, non ha avuto esperienza diretta del significato che sarà attribuito a quegli accadimenti. Può persino capitare che una persona matura e sana di mente creda di commettere un determinato reato, ma ne commetta un altro o non ne commetta nessuno. A dipanare questi dubbi, ci viene in soccorso Kelsen, uno dei più grandi filosofi del diritto, che spese parecchi argomenti a favore del normativismo e del positivismo. Nei lineamenti di dottrina pura del diritto Kelsen afferma: “ se si analizza un qualsiasi fatto considerato come diritto, si possono distinguere due elementi: l’uno è un atto sensibilmente percepibile il quale procede nello spazio e nel tempo, un accadimento esteriore, l’altro è un significato immanente o aderente a quest’atto o accadimento. La conoscenza relativa al diritto trova quindi, per lo più, una auto qualificazione del materiale che precede la qualificazione che deve effettuare la scienza giuridica. Da ciò risulta la necessità di distinguere il significato soggettivo da quello oggettivo di un atto. Il significato soggettivo può, ma non deve coincidere col significato oggettivo che spetta a quest’atto nel sistema di tutti gli atti giuridici, cioè nel sistema del diritto”. Il diritto è più raffinato delle nostre fantasie e attribuisce efficacia a certi atti che normalmente, da un punto di vista giuridico, ne sarebbero privi, come nel caso del matrimonio celebrato dal funzionario di fatto. Si possono immaginare infiniti casi di legittimità solo apparente. L’atteggiamento di Kelsen è ben diverso da quello di Santi Romano, il quale, come s’è visto, riconosce la giuridicità a tutti gli atti provenienti da una organizzazione qualsivoglia, purché effettiva. Per Kelsen, al contrario, l’aspetto esteriore dell’agire umano è solo un “frammento di natura”. I fatti non hanno mai un immediato valore sul piano del diritto. Un medesimo identico comportamento, in circostanze diverse assume significati differenti. “La norma funziona così come schema qualificativo. La qualificazione di un fatto come esecuzione di una sentenza capitale e non come omicidio non risulta affatto da una percezione sensibile, ma soltanto da un processo di pensiero: dal rif. al codice penale e di procedura penale. Che questi fatti abbiano questo significato, vuol dire soltanto che tali fatti nella loro totalità corrispondono a determinate disposizioni della costituzione; che il contenuto di un avvenimento effettivo coincide cioè col contenuto di una norma in qualsiasi modo presupposta”. Kelsen distingueva fra i significati soggettivi e quelli oggettivi degli atti. Quest’ultimo è il significato che si conferisce alle condotte servendosi di norme valide. Una simile affermazione apre problemi enormi sulla natura della validità, che per Kelsen, è l’esistenza specifica della norma nella sfera del dover essere e, a tal fine, bisogna risalire ad una norma fondamentale. I fatti da soli, in sé considerati, non hanno alcun valore intrinseco, né giuridico né antigiuridico. La giuridicità dipende da un giudizio. È possibile un giudizio oggettivo o sarà necessaria una presa di posizione dei soggetti? A questo punto, però, la tangibilità e la concretezza dell’istituzionalismo si sgretola. Si pensi, a come oggi, in un’età di scambi molto veloci e intensi, la territorialità dello stato sia messa in crisi. Kelsen insegnava che la realtà dello stato sovrano, quale conglomerato effettivo di poteri, spesso si risolve in un abbaglio intellettuale. Kelsen tratta la dottrina pubblicistica, riducendo il territorio e il popolo a meri ambiti di validità delle norme: “ il rapporto della norma con lo spazio e con il tempo costituisce la sfera della validità spaziale e temporale della norma. Questa sfera di validità può essere delimitata, ma anche illimitata. Accanto alla sfera di validità spaziale e temporale delle norme si può distinguere la sfera della validità reale (o materiale). E se ci si riferisce agli uomini la cui condotta è regolata dalle norme, si possono distinguere queste norme anche secondo la loro sfera di validità personale. Secondo la costituzione di uno stato federale, la sfera di validità reale viene ripartita fra le norme che costituiscono l’ordinamento dello stato superiore e le norme che costituiscono l’ordinamento degli stati membri”. 6. Viene prima l’uovo o la gallina? Bobbio nel volume Teoria della norma giuridica rivolse all’istituzionalismo di Santi Romano una serie di critiche, pur salvandone il pluralismo giuridico. Bobbio si muove su una lunghezza d’onda affine a quella di Kelsen e cerca di dimostrare che il concetto-chiave dell’istituzionalismo, quello d’organizzazione, presuppone le norme, in quanto non si può avere un’autentica organizzazione senza norme. Ne segue perciò che l’istituzione non può essere il dato fondamentale e originario del fenomeno giuridico. “ le definizioni di termini scientifici sono convenzionali. Chi afferma che è diritto soltanto il diritto statuale adopera la parola diritto in senso stretto. Chi ritiene, seguendo gli istituzionalisti, che sia diritto anche quello di un’associazione a delinquere, adopera il termine diritto in senso più largo. Ma non vi è una definizione vera o falsa, ma, semmai, una definizione più opportuna e una meno. Per quel che riguarda il valore scientifico della teoria dell’istituzione, se cioè la considerazione del diritto come istituzione valga a sostituire al teoria normativa nella comprensione e spiegazione del fenomeno giuridico, propongo due osservazioni critiche: Anzitutto la teoria dell’istituzione, credendo di combattere la teoria normativa demolendo la teoria statalistica del diritto, si pone un falso bersaglio. La teoria normativa non coincide affatto con la teoria statalistica. La teoria normativa si limita ad affermare che il fenomeno originario dell’esperienza giuridica è la regola di condotta, mentre la teoria statalistica afferma che queste regole hanno particolari caratteristiche. La teoria statalistica è una teoria normativa ristretta. Il Romano ha scritto che “prima di essere norma” il diritto “è organizzazione”. Che significa organizzazione? Significa distribuzione di compito in modo che ciascun membro del gruppo concorra al raggiungimento del fine comune, ma questa distribuzione di compiti non può essere compiuta se non mediante regole di condotta. E allora non è vero che l’organizzazione venga prima delle norme, ma è vero l’opposto che le norme vengono prima dell’organizzazione. Perché so possa svolgere il processo di istituzionalizzazione che trasforma un gruppo inorganico in un gruppo organizzato, cioè in un ordinamento giuridico, occorrono tre cose: 1) che siano fissati i fini a cui l’istituzione dovrà tendere; 2) che siano stabiliti i mezzi idonei a raggiungere quei fini; 3) che siano attribuite le funzioni specifiche dei singoli componenti del gruppo affinché ciascuno collabori al raggiungimento del fine. Dunque il processo di istituzionalizzazione e produzione di regole di condotta non possono andare disgiunti, ma allora la teoria dell’istituzione non esclude, bensì include la teoria normativa del diritto, la quale non esce dalla polemica vinta, ma se mai, rafforzata”. Bobbio pur accogliendo la massima ubi ius ibi societas (dove c’è diritto, lì c’è società) respinge la massima inversa, ubi societas, ibi ius (dove c’è società, lì c’è diritto), accolta invece da Romano. Si è soliti parlare di istituzioni anche in altri campi come in economia (moneta, libero mercato e imprese). I linguisti considerano l’intero linguaggio come un’istituzione. Queste attività, tuttavia, non sono di per sé immediatamente giuridiche. Le accezioni del termine istituzione sono variabili ed è evidente che gli esperti del diritto non possono vietare agli altri studiosi di usare accezioni di istituzione assai lontane dal mondo giuridico. È inoltre indubbio che in parecchie ipotesi non siamo di fronte ad autentiche organizzazioni, intese come il frutto di una progettazione intenzionale e consapevole. Non di rado le convenzioni derivano da una coordinazione spontanea. Vi sono sistemi giuridici dove le consuetudini sono una fonte di produzione d’importanza primaria. Va inoltre notato che le consuetudini sono l’unico tipo di norme che non possono essere valide se non sono anche affettive. Se volessimo trovare una caratteristica comune a tutte le istituzioni, dentro il diritto e fuori di esso, sarebbe la seguente: che i rapporti istituzionali ci spingono ad assumere un comportamento strategico. Per ottenere le nostre finalità, non è sufficiente considerare il solo nesso di causa ed effetto; dobbiamo tener conto anche delle condotte altrui in grado di interagire con le nostre; una delle ragioni per le quali facciamo così è perché lo fanno gli altri o ci aspettiamo che gli altri si comportino in un dato modo (condizione di dipendenza). Il modello imperativi stico ingenuo dello stato-carabiniere che ottiene l’obbedienza puntando l’arma della sanzione, è una visione di corto respiro. Il diritto, infatti, non è costituito soltanto di comandi. Bobbio parla esclusivamente di un unico tipo di norme o regole: le regole di condotta, senza distinguere fra le norme che conferiscono poteri e le norme di mero comportamento. Oggi gli ordinamenti giuridici, oltre a guidare le azioni umane, creano organi, fissano competenze, dettano procedure e prevedono nullità. Una cosa è essere liberi di compiere determinate azioni e un’altra è avere il potere di porre validamente in essere certi effetti riconosciuti dall’ordinamento nel proprio o nell’altrui interesse. Del resto, vi non norme che non possono essere propriamente violate. Se il legislatore dice che una legge è abrogata, l’effetto abrogativo si produce immediatamente. Diverso è il caso della VI diposizione transitoria della Costituzione, che imponeva la “revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti” entro cinque anni dall’entrata in vigore della carta. Tale norma non produceva effetto abrogativo immediato, bensì statuiva a carico del Parlamento l’obbligo di abrogare certe norme. Essa era quindi violabile. L’art 12 cost. stabilisce: “la bandiera della repubblica è il tricolore italiano”; la nostra bandiera risulta essere proprio questa e non un’altra. Si potrebbe obbiettare che esiste il vilipendio alla bandiera ai sensi dell’art. 292 c.p., in cui si precisa che per bandiera nazionale s’intende la bandiera ufficiale dello stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali. Ma tale obbiezione non è del tutto convincente, perché l’art. 12, stabilisce cosa s’intende per bandiera italiana e come tale non impone un comportamento. Per punire il vilipendio si dovrà aggiungere un’ulteriore previsione. Siamo vicini ad un errore cognitivo sulla situazione giuridica. D’altro canto potremmo immaginare che l’art. 292 c.p. venga abrogato o considerato incostituzionale per contrarietà all’art. 21 cost. (libertà d’opinione), senza che l’art 12 cost. divenga inutile o cada nel nulla. Si può allora concludere che l’istituzionalismo, pur indebolito dal cfr. col normativismo, ha ancora molti insegnamenti da impartire specialmente se rinuncia alla pretesa illusoria di star descrivendo fatti intrinsecamente giuridici e include tra le istituzioni anche i fenomeni che dipendono da regole tacite e da una coordinazione spontanea. 7. Fatti bruti e fatti istituzionali. Dunque il normativismo vince la partita; ma a trionfare non è il decrepito normativismo che considera i sistemi giuridici come insiemi di comandi, di imperativi o di mere norme di condotta provenienti dallo Stato. Emerge un normativismo trasformato, che non desidera più ridurre tutte le norme all’unico modello della norma di comportamento assistita dalla sanzione ed è caduto il vecchio dogma della statualità del diritto. Di questo mutamento di prospettiva è nota la distinzione di John Searle, tra fatti bruti e fatti istituzionali. Il mondo è composto da fatti bruti che cadono sotto i nostri sensi e ciò non è esauriente. “Lasciando da parte la questione dell’etica e dell’estetica, esistono molti tipi di fatti, fatti che sono evidentemente obbiettivi. Un matrimonio, una partita di calcio, un processo, un’azione legislativa, propongo di chiamarli fatti istituzionali. Sono sì dei fatti, ma la loro esistenza, a differenza di quella dei fatti bruti, presuppone l’esistenza di certi istituti umani. Es. prendiamo l’istituto della moneta che prevede che ora devo pagare tot.: togliete l’istituto e tutto quello che mi rimarrà sarà un pezzo di carta con vari segni colorati. Questi istituti sono sistemi di regole costitutive; i fatti istituzionali possono essere spiegati solo in base alla regole costitutive che vi sottostanno”. L’aggettivo “bruto” serve a creare un contrasto tra i fatti come li intendiamo normalmente e i fatti istituzionali. Questi ultimi non cadono sotto la nostra esperienza. C’è bisogno della mediazione di regole. Risulta discutibile il termine “fatti giuridici” con cui gli studiosi si riferiscono a meri fatti bruti, come la nascita, la morte i quali sono fatti e basta, in quanto constatabili anche prescindendo dal sistema giuridico. Essi si trovano su un piano ben diverso da altri fatti che hanno una dimensione istituzionale come: il fatto che Tizio sia sposato e che Caia sia cittadini italiana. L’esistenza di questi ultimi è condizionata alla radice da uno sfondo normativo e dal compimento di specifici atti che non si risolvono nella mera descrizione empirico-fattuale di dati comportamenti esteriori. Le istituzioni hanno una dimensione simbolica, creano situazioni che esistono al di là dei dati sensoriali immediati. Il substrato materiale di cui si servono in molti casi può essere eliminato o sostituito. Il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure traccia un paragone efficace tra il gioco degli scacchi e le strutture dei significati di una lingua: sia i giochi sia le lingue, possono considerarsi, al pari del diritto, riuscite istituzioni, ossia insiemi di regole effettive con le quali gli uomini interagiscono e agiscono, visto che certe azioni esistono esclusivamente in virtù delle regole. Nel suo Corso osserva: “ la lingua è un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio: il fatto che il gioco sia passato dalla Persia in Europa e di ordine esterno, ed è interno, al contrario, tutto ciò che concerne il sistema e le regole. Se sostituisco dei pezzi di legno con dei pezzi in avorio il cambiamento è indifferente per il sistema: ma se diminuisce o aumenta il numero dei pezzi, questo cambiamento investe profondamente la “grammatica” del gioco. Il cavallo si può sostituire con un altro equivalente e anche una figura priva di qualsiasi rassomiglianza con quello che sarà dichiarata identica, purché ad essa si attribuisca lo stesso valore”. Si può giocare a scacchi anche con pedine umane o per corrispondenza. L’importante è che la scacchiera ideale continui ad avere sessantaquattro caselle, sia orientata nel modo giusto e che le pedina si muovano nel corretto modo. 8. Ma l’inefficacia delle norme positive è davvero il punto debole del normativismo? La debolezza del normativismo consisterebbe nel fatto che le norme poste in modo valido da una qualche autorità possono essere largamente inefficaci o, addirittura, restare del tutto inattuate. Ma siamo sicuri che la divaricazione tra la validità e l’efficacia delle norme positive sia davvero il tallone d’Achille del normativismo? È naturale che tale contrasto sia indesiderabile; il giurista possiede gli strumenti tecnici e concettuali per mostrare la differenza fra ciò che accade realmente e ciò che dovrebbe accadere. È quindi molto importante essere per lo meno in grado di far notare le divergenze tra le prassi dell’apparato pubblico e il dover essere giuridico stabilito attraverso le norme. Dire che ci sono norme perfettamente valide però disattese, rifiutarsi di nascondere il diritto in effettivo, è utilissimo. Serve a criticare il diritto e le prassi inferiori per mezzo del diritto superiore, attivando, quando ciò sia possibile, gli organi di controllo. Queste idee sono state sviluppate da Luigi Ferrajoli, il quale ha assegnato ai giuristi il compito di segnalare i contrasti fra le leggi ordinarie e la costituzione e le lacune del diritto. Infatti, da una prospettiva positivistica, si respinge ogni operazione sottobanco. Se si ritiene di non dover più applicare determinate norme, allora bisogna abrogarle o modificarle esplicitamente. Nell’ipotesi contraria, potrebbe capitare che norme che sembravano disapplicate vengano applicate all’improvviso contro qualche sventurato che incappi nelle maglie della legge. Celebre è il caso degli anni ’60 di Aldo Braibanti, il quale intrattenendo una relazione omosessuale, fu condannato per il reato semi-dimenticato di plagio ai sensi dell’art. 603 del Codice Rocco. Dopo non molto quella stessa norme fu dichiarata costituzionalmente illegittima con la sent. 8 giugno 1981, n. 96 per la sua indeterminatezza, rilevando il contrasto con l’art. 25, 2 comma della costituzione. La questione è ancora più scottante quando a essere trasgredite o a restare lettera morta sono alcune disposizioni centrali contenute nella Costituzione. In Italia molti istituti esplicitamente previsti dalla costituzione (il CNEL, le regioni, la Corte Costituzionale) sono stati attuati con colpevole ritardo per via dell’ostruzionismo della maggioranza. Fra le norme che presumibilmente non saranno mai attuate vi è l’art. 39 cost. dove si prevede per i sindacati a base democratica l’obbligo di registrarsi e la capacità di stipulare contratti collettivi con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti a una data categoria. Costantino Mortati ha creato un concetto volto a dare una risposta a questi problemi: quello di costituzione materiale. Secondo questo scrittore “il fine politico, in quanto incorporato in un’istituzione statale”, formava l’essenza stessa della costituzione e diveniva la fonte prima del diritto dello stato. In tal chiave, forma di stato, regime e ordinamento giuridico si trasformavano in espressioni equivalenti. La nozione di Costituzione materiale, è usata tanto in senso conservatore, per impedire revisioni sgradite, quanto in senso innovativo, per avvallare modifiche implicite delle norme costituzionali. Se si taccia d’ingenuità il legalismo costituzionale di Mortati che nutrirebbe l’aspirazione di poter contrapporre vittoriosamente agli avvenimenti costituzionali la nuda forza delle parole; se si ritiene che la Costituzione scritta non tragga la sua forza da puro fatto di essere scritta, ma da una situazione storico-materiale concreta, allora si è pronti ad ammettere che la Costituzione materiale possa cambiare in modo del tutto indipendente da quella formale. Così, però, il diritto finirà con l’appiattirsi sull’effettività. La nozione di costituzione materiale è gradita agli studiosi di politica e così scrive Galli della Loggia: “ da quando la Seconda Repubblica è nata è in crisi; a renderla così inefficace è un vizio d’origine: l’assenza di una costituzione materiale. Il sistema della Prima Repubblica, il quale era sì bloccato (perché privo di alternanza di governo), ma funzionava, mentre il sistema della Seconda Repubblica è invece esattamente l’opposto: non è bloccato ma non funziona, poiché è nata senza il consenso vero della politica e perciò priva di una costituzione materiale. È chiaro che le regole effettive, gli equilibri di potere, possono divergere dalla lettera. Il normativi sta considera suo dovere quello di segnalare gli inadempimenti del legislatore, dicendo che certe disposizioni costituzionali sono state relegate nel limbo semplicemente perché la classe politica non si vuole sobbarcare né i costi, sul piano del consenso, dell’attuazione di quelle norme, né i costi di una riforma costituzionale. Il giurista, invece di dire che la costituzione materiale è cambiata senza che nessuno se ne accorgesse, deve mostrare ai cittadini un’ambiguità, una tensione, un disaccordo tra le fonti dell’ordinamento. Capitolo tre: Le norme giuridiche e altri strani animali. 1. Come si individuano le norme giuridiche? Il modo migliore per assicurare l’autonomia degli studi giuridici dalla politica e dalle molteplici discipline che indagano sulla vita associata è considerare il diritto come un insieme di norme piuttosto che come un’organizzazione effettiva. La giuridicità va ricercata nelle norme valide e non nell’apparente concretezza dei corpi sociali o delle istituzioni. Voi, che un giorno sarete giudici e avvocati, dove diavolo andate a pescare le norme di cui dite di occuparvi? Le risposte sono varie: La prima risposta: basta aprire i codici. Si tratta di una reazione affetta da un certo provincialismo, poiché è possibile menzionare sistemi giuridici dove le c.d. norme non scritte hanno, o hanno avuto, un ruolo ben maggiore di quello che esse rivestono nell’ordinamento italiano odierno. Tale affermazione è esagerata in ogni caso: essa risente del forte impatto ideologico che la codificazione ha esercitato nella nostra cultura. La seconda risposta è di tipo empirico. Bisogna vedere come si comporta la gente normale e, nei casi dubbi, chiedere agli esperti. La soluzione più agevole è imitare gli altri, comportarsi come il proprio vicino. Se aspiriamo a impratichirci del diritto, dobbiamo farci addestrare dagli addetti ai avori: imparare quel che ci dicono e agire nel modo che essi ci suggeriscono. Anche questa soluzione si rileva inadeguata. In effetti, la difficoltà cui andiamo incontro è che non sempre le abitudini sociali e le prassi condivise rivestono un valore normativo. Vi è una terza risposta che integra e completa le altre due: non si può fare a meno di interpretare. E questo vale tanto per le parole quanto per le azioni. Le conoscenze giuridiche non sono riconducibili a una base osservativa. Esse prendono le mosse dall’esame di determinati documenti e delle condotte umane; ma poi quel che conta, ossia il significato di tali documenti e condotte, non cade sotto i nostri sensi. In altri termini, il giurista ha di fronte elementi che sono portatori di un valore simbolico. Non si può però quasi mai giungere a un’interpretazione univoca. Sebbene alcune interpretazioni siano chiaramente sbagliate, il più delle volte è impossibile parlare di un’interpretazione giusta poiché vi è un procedimento che sempre un margine discrezionale. Il risultato di questa situazione è che le controversie dei giuristi non si chiudono mai definitivamente. Se le espressioni normative sono spesso incerte e plurivoche, è altrettanto difficile desumere dalle azioni umane le norme che le guidano. Le intenzioni sottostanti ai comportamenti possono infatti essere interpretate in molte maniere differenti. La terza risposta, pur con un atteggiamento più equilibrato, non è del tutto soddisfacente- La domanda di partenza: ma esiste un tratti distintivo che differenzi le norme giuridiche dalle norme non giuridiche? Una lunga tradizione di studiosi ha creduto di trovare la giuridicità delle norme in una serie di caratteristiche specifiche, in primo luogo nella circostanza che le norme giuridiche fossero sorrette da una sanzione socialmente organizzata. I teorici del diritto attuali sono così giunti alla conclusione che le norme giuridiche sono tali, non perché rappresentino contenuti particolari, ma soltanto per una caratteristica formale: quella di appartenere ad un ordinamento giuridico. Pertanto, il problema della giuridicità si sposta dalle norme all’ordinamento. 2. Prima risposta. Facile, basta aprire i codici Apriamo un codice o la gazzetta ufficiale. Vi troviamo norme? In un certo senso questa risposta approssimativa è tollerabile. Nel Codice Civile dove si trovano le norme sulla proprietà? Nel terzo libro, art. 810 c.c. e seguenti. Art 833 c.c.: “atti di emulazione- il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. I termini scopo e fine sono sinonimi? Supponiamo lo siano. In tale ipotesi è lo stesso usare un vocabolo o l’altro? Un giurista risponderebbe di no. Il testo non può essere mutato a piacere senza che intervenga una legge. Non si può nemmeno inserire una virgola o mutare l’ordine delle parole: senza una riforma legislativa ciò non è consentito. L’art. 1 cost.: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Forse si discuterà si cosa significhi democratica, però sul fatto che compaia questa parola e non un’altra non si discute. Il testo è un dato fisso. Esercitazione: art. 2031, comma 1 c.c.: “obbligazioni naturali- non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace”. Il vocabolo ripetizione è impiegato in un modo che si discosta dall’uso comune, non tecnico. Tuttavia, nonostante le difficoltà interpretative, persino uno straniero che ignori l’italiano sarebbe in grado di controllare la correttezza di queste formule legislative. Si tratta di un’attività puramente meccanica. Occorre dunque distinguere, fa le disposizioni e le norme. Con disposizione si intenderà un enunciato ufficiale incluso in un testo legislativo o regolamentare. Quando si parla di enunciati, frasi, formule legislative, articoli, ci si sta riferendo solo a un numero finito di parole tenute assieme da criteri di completezza grammaticale. Tali espressioni sono identificabili indipendentemente dai loro significati. Invece, una norma è un contenuto prescrittivo espressa mediante enunciati o con segni non verbali o può persino restare implicita. Inoltre vi possono essere norme senza disposizione (le consuetudini e i principi generali). Una norma è uno dei molteplici significati che, attraverso l’interpretazione, sono attribuibili ad una singola disposizione. La norma non cade sotto i nostri sensi: essa è un possibile risultato dell’interpretazione, è un’interpretazione-risultato. Quando prendiamo in mano un codice, ciò che vi si legge sono le disposizioni, non le norme. Le norme sono i significati attribuiti alle disposizioni attraverso gli enunciati di cui constano i discorsi degli interpreti. Data una disposizione, in genere si danno molte norme. I costituzionalisti sono tra i pochi ad aver sviluppato in modo organico la distinzione fra disposizioni e norme. Si volga la mente alle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale. In simili ipotesi, la conformità o la difformità della legge alla costituzione non è affermata in assoluto, ma solo in quanto alla disposizione si dia un determinato significato, come chiarisce Gustavo Zagrebelsky: “sentenze interpretative di accoglimento e di rigetto sono due facce della stessa medaglia che facilmente possono essere interscambiate. Questi due tipi di sentenze appaiano l’espressione di un unico fenomeno. Ciò si comprende quando si pensi che nelle sentenze interpretative di rigetto si trovano due affermazioni: che la norma a tratta dal testo x è conforme alla costituzione; che la norma b tratta dallo stesso testo, viceversa, le è contraria”. A proposito della scindibilità delle norme dalla disposizione che le esprime è stata elaborata la dottrina del c.d. diritto vivente identificato con la giurisprudenza delle corti superiori. Bisogna ricordare che vi sono anche norme senza disposizione riferendoci ai principi generali del diritto, quando rimangono impliciti e alle consuetudini. Tuttavia anche le consuetudini possono essere messe per iscritto. Ma, in tali ipotesi qual è il valore della scrittura’ l’art 9 delle Preleggi: “raccolte di usi- gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria”. Questi significa che si può dimostrare che la consuetudine col tempo è cambiata o che non esiste più. Nulla di simile si può fare nei cfr. della legge. Il testo delle leggi è fisso per garantire la certezza. Vezio Crisafulli afferma quanto segue: “sebbene, sul terreno logico, ogni norma sia formulabile, quel che contraddistingue la disposizione vera e propria è che la disposizione precede e condiziona la norma, ponendosi come dichiarazione vincolante ed insostituibile (ed in questo senso costitutiva) della norma, anche se, di rado sia di per sé sufficiente a determinare per intero ed univocamente il significato storicamente attuale”. Ne segue che le disposizioni propriamente intese, a differenza degli enunciati normativi, non hanno un valore ricognitivo, bensì esse danno origine a nuove norme valide che prima non c’erano. Questa è una tecnica per razionalizzare la produzione giuridica, tipica del positivismo giuridico e dell’illuminismo. Non si deve credere, però, che tale modello, che vede la legge diventare la fonte prevalente o monopolistica del diritto, possa estendersi ad ogni sistema giuridico. 3. Seconda risposta. Bisogna vedere come si comporta la gente normale e, nei casi dubbi, chiedere agli esperti. Allarme UFO. L’ideologia positivistica vuole che le norme siano agganciate ad atti (e a fatti) che fungono da fonti. Tale situazione è più complicata di quel che sembra. Non è possibile contare le leggi in vigore. Questo perché l’art 15 prel. recita: “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”. Questo significa che, accanto all’abrogazione espressa, vi è quella implicita. In quest’ultimo caso può non essere del tutto chiaro se una legge sia stata abrogata. Esercitazione: le disposizioni all’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965 e del R.D., 26 aprile 1928, n. 1297, relative all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sono ancora in vigore? Le opposte opinioni del consiglio di stato e della corte di cassazione. Se vogliamo conoscere il significato delle disposizioni, dobbiamo sapere come esse sono interpretate. I giuristi statunitensi oppongono il law in books (il diritto nei libri) al law in action (il diritto in azione) che non coincidono mai del tutto. Seguendo l’esempio statunitense potremmo pensare che l’identificazione delle norme giuridiche non si ricava dai codici, bensì dall’osservazione delle pratiche sociali. Si potrebbe perciò pensare che il giurista si trasformi in una specie di scienziato empirico che esamina le azioni umane come farebbe un sociologo, un economista, un antropologo o uno studioso di psicologia. La tesi secondo cui, per conoscere le norme bisogna badare a come, di fatto, si comporta la gente non appare dunque a prima vista insensata, anche se è più adatta ai sistemi di diritto consuetudinario che a quelli dell’Europa continentale. Qui immagino una storia: che un marziano, a bordo della sua astronave, solchi il cielo di Milano e atterri sul Duomo. Nascosto dietro alle guglie la creatura aliena spia il comportamento degli esseri umani per redigere una relazione per l’Accademia Marziana delle Scienze. La prima cosa ad attrarre l’attenzione dell’extraterrestre sarà il traffico automobilistico. L’extraterrestre fa subito un’importante scoperta: le automobili si fermano quando si accende una luce rossa in mezzo alla strada e ripartono allorché essa scompare e compare una luce verde. L’extraterrestre non parla la nostra lingua e non è in grado di comunicare. Il nostro etnologo in erba nota che a intervalli settimanali un gran numero di persone riempie edifici scoperti ad anello, lanciando urla ritmate mentre ventidue giovani in mutande corrono dietro ad un oggetto sferico che cercano di un altare delimitato da due pali, una traversa e una rete. Tali esperienze di estraneità radicale sono assai difficili da rendere. A questo proposito, Ludwig Wittgenstein, nelle sue Ricerche Filosofiche ebbe a dire: “se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo”. Una cosa è certa: i comportamenti compiuti in ottemperanza a una norma, che cioè seguono una regola, non sono distinguibili da una condotta meramente regolare. Il fatto che le automobili si fermino al rosso potrebbe essere una mera abitudine sociale. Per comprenderlo dobbiamo prendere in considerazione non solo le azioni, ma anche i loro significati. 4. Una questione di punti di vista. Non tutte le norme sono poste. Molte volte manca un organo o un’autorità che con i suoi atti ponga in essere determinate disposizioni. Ciò accade in particolare nei sistemi giuridici consuetudinari e nei sistemi normativi non giuridici. In questi casi non possiamo prendere le mosse da un testo scritto ufficiale il quale abbia un valore incontrovertibile. Hart contribuì a svecchiare il dibattito contemporaneo sul positivismo giuridico nell’opera il Concetto di diritto del 1961, distinguendo fra due atteggiamenti: il punto di vista interno e quello esterno. Il primo punto di vista è l’accostamento di chi accetta le norme e le usa cine criteri di giudizio; il secondo rappresenta la prospettiva di colui il quale guarda alla pratica dal di fuori, senza prendervi parte. Il punto di vista esterno si divide in moderato ed estremo. Il punto di vista esterno estremo è quello del nostro amico marziano che si accontenta di registrare le regolarità osservabili. La sua descrizione della vita sociale sarà compiuta in termini di predizioni, probabilità e indizi. Sotto tale profilo non siamo in grado di distinguere un’abitudine, da una condotta collettiva retta da norme. Il sociologo, lo psicologo e lo storico sono tenuti a dar conto dei significati che gli agenti attribuiscono ai proprio comportamenti, così che le loro teorie ruotino attorno a possibili interpretazioni, ,on più delle sole formule verbali, ma anche delle azioni e delle intenzioni che muovono tali azioni. S’impone un passaggio al punto di vista esterno moderato. Tale approccio esterno resta distaccato e si differenzia quindi nettamente dal punto di vista interno, che invece caratterizza colui il quale faccia uso delle norme per guidare o criticare i propri e gli altrui comportamenti. Da ultimo, viene il punto di vista interno, che richiede l’accettazione delle norme, il loro uso come argomenti validi. Qui la mera convergenza esteriore delle condotte non è più sufficiente a distinguere una norma da un’abitudine. Ciò che conta è che chi accetta la norma assume un atteggiamento critico verso le deviazioni dal dettato normativo. L’esistenza della norma costituisce una buona ragione per criticare i comportamenti che si allontanano dal modello. Tale atteggiamento critico viene meno quando ci si scosta soltanto da uno schema d’azione abituale che sia privo di qualsiasi valore normativo. “questo aspetto interno delle norme può venire spiegato semplicemente sulla base delle regole di qualsiasi gioco. I giocatori di scacchi non si limitano ad avere l’abitudine simile di muovere la regina nello stesso modo. I giocatori hanno, in più, un atteggiamento critico e riflessivo nei cfr. di questo modello di condotta: lo considerano cioè come un criterio di condotta per tutti coloro che giocano a scacchi. L’aspetto interno delle norme è spesso travisato, in quanto presentato come una mera questione di sentimenti, in contrasto con il comportamento fisico esternamente osservabile. Ma tali sentimenti non sono né necessari né sufficienti per l’esistenza di norme obbligatorie. Ciò che è necessario è che vi sia presente un atteggiamento critico riflessivo nei cfr. di certi modelli di comportamento intesi come criteri comuni di condotta, e che questo si manifesti nella critica, nelle richieste di conformità e nel riconoscimento che simili critiche e richieste sono giustificate. Esempio: un malvivente ordini ad un passante: “ o mi consegni il tuo portafoglio o sparo!”, spianando una pistola. Questo è senza dubbio un ordine sostenuto da minacce. Il vecchio imperativismo di John Austin spiegava gli obblighi giuridici come comandi generali sostenuti da minacce. Hart sostiene che in tal modo si giunga a confondere due situazioni diverse: quella in cui si può asserire che qualcuno è stato obbligato, cioè costretto, a fare qualcosa e quella in cui si può affermare che egli aveva l’obbligo di farla. Nella prima situazione pesa soprattutto un dato psicologico: che qualcuno subisca quella che sente come una costrizione. Questa circostanza di fatto funge da motivo delle sue azioni. Nel caso di un obbligo autentico, invece, si presuppone che vi sia una norma e che questa sia utilizzata quale ragione giustificante per adottare una condotta conforme al modello di condotta messo in atto. E capita che i nostri comportamenti risultino vincolati da norme anche in situazioni in cui la nostra psiche non è per nulla turbata ad es. divieto di sosta. Vi è una maggiore aspettativa che i doveri morali suscitino emozioni di quanta vi sia a proposito degli obblighi giuridici, del costume o delle buona educazione. Tuttavia, anche in materia morale gli stati d’animo che si provano variano molto da individuo a individuo, da cultura a cultura. 5. Terza risposta. Occorre sempre interpretare. La sottodeterminazione delle norme rispetto all’esperienza. La conoscenza normativa passa necessariamente attraverso l’attività esegetica (interpretativa) che assegna significati alle disposizioni e non è arbitraria: occorre tener conto delle regole semantiche e pragmatiche del linguaggio tecnico giuridico. Dunque è evidente che l’attività esegetica non è un’attività meccanica ma vi è sempre un margine di scelta discrezionale. Data una disposizione, si possono ricavare molte norme in concorrenza fra loro. Queste incertezze dell’interpretazione testuale possono spingere a dare rilievo alla studio dei comportamenti effettivi della gente comune e dei giuristi. Alla fine ci accorgiamo che anche i comportamenti effettivi, al pari delle parole della legge, devono essere interpretati. Solo l’attività esegetica ci consente di ricavare le norme che essi esprimono. Vorrei mostrare che la comprensione del significato delle azioni umane è altrettanto discutibile della comprensione del significato delle leggi. In entrambe le ipotesi vi sono ambiti di scelta non vincolata: la soluzione di solito è tutt’altro che univoca. Le cose non filano lisce quando qualcuno ti dice: “se vuoi sapere come devi comportarti, imita le mie azioni”. La comunicazione attraverso l’esempio e l’imitazione suscita spesso dubbi. Le nostre capacità osservative non bastano. A volte i codici di comportamento sono diversi, se non opposti. Es. il cristiano in chiesa si scopre il capo; al contrario, l’ebreo, per rispetto verso la divinità tiene il capo coperto. Non di rado, compiamo topiche o atti involontari di scortesia, perché siamo traditi da false analogie. Esiste un noto gioco di carte per bambini che si chiama uno. Lo scopo è esaurire tutte le carte che si hanno in mano. Il punto essenziale è che il giocatore che resti con una sola carta deve ricordarsi di dire uno prima di fare la sua giocata, altrimenti, per penalità, dovrà pescare altre due carte dal mazzo. Coloro che studiano le regole sociali si trovano in qualche modo nei panni di quel piccolo giocatore principiante che non ha avuto voglia o tempo di leggere le istruzioni. Le regole sono sotto determinate rispetto alle loro applicazioni. Per dirla altrimenti, possiamo immaginarci infinite regole sotto le quali cada la serie finita di casi di cui abbiamo esperienza. L’esempio mostra un ulteriore svantaggio: trattandosi di un comportamento concreto che funge da “modello muto”, e non di una descrizione linguistica di “ciò che bisogna fare”, non è possibile colmare i dubbi interpretativi mediante una ridefinizione dei termini. Le incertezze restano insolubili perché le norme non sono veicolate mediante il linguaggio. Il diritto consuetudinario tende a trasformarsi in diritto giurisprudenziale poiché c’è bisogno di qualcuno che spieghi, insegni, e all’occorrenza, decida. La consuetudine si basa su un elemento materiale (la ripetizione costante e uniforme di un dato comportamento) e un elemento psicologico (l’opinio iuris ac necessitatis). Bobbio ritiene che l’elemento psicologico della consuetudine genera un circolo vizioso. Si richiede negli agenti la credenza paradossale che una data consuetudine esista già sul piano del diritto, affinché la consuetudine stessa possa sorgere. Ma se la consuetudine non è ancora sorta, è fuori luogo parlare di un elemento c.d. psicologico secondo cui il comportamento in questione andrebbe considerato come giuridicamente doveroso. Qui bisogna distinguere tra due cose spesso confuse: Condizione di dipendenza. Mi comporto in un certo modo perché lo fanno anche gli altri. Altrimenti non lo farei; o lo farei lo stesso, ma per una ragione diversa, che eventualmente concorre con il mio conformismo auto interessato. I contenuti dell’azione usuale si compiono a condizioni di reciprocità. Lewis afferma: “nella città di Oberlin tutte le chiamate venivano interrotte senza preavviso dopo tre minuti. Poco dopo tra gli abitanti si sviluppò una convenzione secondo la quale, quando una chiamata veniva interrotta colui che aveva chiamato doveva richiamare, mentre colui che era stato chiamato aspettava. Tale convenzione diventò operante quando un numero sufficiente di noi aveva cominciato a conformarvisi”. Gli inconvenienti di una diversa convenzione non avrebbero impedito di raggiungere un equilibrio di coordinazione. Inoltre, la condizione di dipendenza, insita nei comportamenti collettivi spontanei, non va confusa con la giuridicità della consuetudine. Per quel che riguarda la natura giuridica del comportamento consuetudinario, le opinioni dei singoli sono irrilevanti. Contano invece le opinioni ufficiali della collettività, le quali riconoscono oil diritto prodotto spontaneamente. Ma questo riconoscimento non incide sul funzionamento della consuetudine. Bobbio ha ragione quando ritiene che l’opinio iuris dei consociati non possa essere un presupposto essenziale del sorgere di una consuetudine. Ma ha torto quando confonde tale convinzione con un elemento psicologico che deve essere presente nella coscienza dei singoli individui affinché la consuetudine funzioni. Questo elemento psicologico non è la percezione della giuridicità, bensì una qualche conoscenza di quale sia l’azione ritenuta genericamente “appropriata” e la consapevolezza di un’interdipendenza delle proprie azioni con quelle degli altri. Esercitazione: si discuta la voce consuetudine nelle Teoria Generale di Bobbio. Anche i comportamenti collettivi sono soggetti a interpretazione, quindi la soluzione migliore è ricorrere a qualche dichiarazione dotata di autorità, dal momento che le consuetudini mettono in gioco meccanismi comunicativi assai complessi. 6. La giornata del signor Rossi Il signor Rossi è un funzionario di banca. Si domanda se si debba concedere un prestito a un cliente. Sarebbe giusto concedere il prestito in quanto si tratta di una persona meritevole, bisogna astenersene per ragioni di prudenza. In caso contrario è molto probabile che la banca finisca col rimetterci e l’ultima cosa che Rossi desidera è essere scorretto con il suo datore di lavoro. Rossi ha a cena i Verdi ed il figlio minore dei Verdi è maleducato, ma offendere gli ospiti non è bello. Da questa favola si ricavano due insegnamenti. Il primo è che tutta la nostra vita si svolge ed è intellegibile nell’ambito di un fitto tessuto normativo (multa, gioco degli scacchi, regole della buona educazione). A una lettura più accurata l’acquisto del giornale tramite un valido contratto di compravendita e che il viaggio in tram suppone la conclusione di un contratto di trasporto di persone. Entrambi i negozi sono stipulati informalmente o tacitamente. Inoltre nei registi dello stato civile vi sono gli status del diritto di famiglia. La nostra esistenza si svolge nelle maglie di una fitta ragnatela normativa. Il secondo insegnamento è che non tutte le norme sono giuridiche. Nel racconto sono menzionate regole sociali, morali, prudenziali e tecniche. Come facciamo a discriminare le norme giuridiche dalle altre norme che giuridiche non sono? Questo problema ha chiari risvolti pratici. Per rispondere alla suddetta domanda già le elementari intuizioni dell’uomo comune ci consentono di tracciare una rozza tipologia basata sulla struttura e sul contenuto delle norme. Es. prendere il cibo con le mani potrà suscitare la più viva riprovazione e sanzioni informali. Teniamo distinte le regole tecniche da quelle morali e giuridiche. Non sussiste un vero obbligo di agitare la bomboletta prima dell’uso: se io non voglio, mi è lecito non farlo. La mia cinepresa potrebbe tranquillamente restare inutilizzata, se trovassi il manuale di istruzioni troppo complicato per i miei gusti o non avessi il tempo per studiarlo. Ovviamente, l’aver fatto un uso improprio del prodotto può avere un rilievo giuridico, facendo venire meno una garanzia. Queste valutazioni si aggiungono alla giustificazione di un dato comportamento sulla base della sua efficienza rispetto all’ottenimento di un determinato risultato. L’aspirante uxoricida è preso dal disappunto perché la moglie è scampata al suo tentativo di avvelenamento e sostiene che avrebbe dovuto darle una dose tripla. Siamo sul piano dell’aperta immoralità e dell’illegalità evidente, ma sotto il profilo tecnico conta solo la correlazione mezzo-fine, l’adeguatezza di un’azione per raggiungere un dato scopo. Il nostro buon senso dice che vi sono vari tipi di norme. Meno condivisibile è invece la tesi intuitiva che le norme giuridiche sono tutte riconducibile a uno stesso modello unitario. Tale conclusione è sbagliata, per quanto ragionevole ci paia. La conclusione sarà che qualsiasi norma può essere presa in considerazione dal diritto; la giuridicità, di conseguenza, non dipende dai contenuti normativi, bensì da determinate caratteristiche formali. Per capire se ci troviamo di fronte a una norma giuridica valida, dobbiamo prendere in considerazione i criteri di validità di un intero ordinamento. 7. Comandi e consigli. I c.d. caratteri essenziali delle norme giuridiche. Hobbes, teorico dell’assolutismo è considerato uno degli inventori della scienza politica e, pur muovendosi nel solco del diritto naturale, precorse il moderno positivismo. Nel Leviatano distingue tra consigli e comandi: “si ha comando quando un uomo dice: fa questo, o non fare questo, e non ci aspetta altre ragione che non sia la volontà di colui che dice ciò. Si ha consiglio quando un uomo dice: fa, o non fare questo, e deduce le sue ragione dal beneficio che deriva a colui al quale egli dice ciò. Perciò tra consiglio e comando c’è una grande differenza di fine poiché il comando è diretto al beneficio proprio e il consiglio al beneficio di un altro. Un’altra differenza rispetto alla persona del destinatario: nel caso di comando egli è obbligato, nel caso di consiglio la condotta è facoltativa. Una terza differenza riguarda la responsabilità: nel consiglio, la responsabilità ricade sul consigliato e non sul consigliere, mentre nel caso del comando, la responsabilità ricade su chi lo dà, e non su chi lo riceve”. Ai quattro punti sopra esposti, se ne aggiungere un quinto: il comando è riconducibile alla volontà di chi lo dà e caratterizza il mondo delle leggi, mentre la forza del consiglio poggia sulla sua ragionevolezza e sull’idoneità di persuadere un destinatario razionale. Nel pensiero di Hobbes il diritto naturale pone fine all’anarchia e legittima il sovrano assoluto; ma con ciò, la volontà del sovrano si sostituisce ad ogni pretesa giusnaturalistica che il diritto si debba conformare a una superiore razionalità. La legge si risolve nel potere di un’autorità che comanda ai sudditi; essa non dipende da nessuna verità religiosa o filosofica. Marsilio da Padova concepisce lo stato come un prodotto umano indipendentemente da qualsiasi presupposto teologico e nel suo Defensor pacis osserva: “ la legge può però essere considerata in due modi. Nel primo, può essere considerata in sé, in quanto essa mostra soltanto quel che è giusto o ingiusto, vantaggioso o nocivo; e in quanto tale, è detta scienza o dottrina del diritto. Nel secondo è interpretata come un precetto coattivo legato ad una punizione o ad una ricompensa da attribuire in questo mondo. Perciò non tutte le vere conoscenze delle cose giuste e civilmente benefiche sono delle leggi, ove non siano state emanate mediante un comando coattivo che ne imponga l’osservanza, o non siano state fatte per mezzo di un comando, anche se poi una tale vera conoscenza è certo necessaria per avere una legge perfetta. Queste norme non sono assolutamente perfette, poiché, nonostante abbiano la forma propria, cioè un comando coattivo che impone di osservarle, mancano però di giustizia”. La giustizia non è un requisito necessario dei comandi, tuttavia serve a distinguere non già le leggi dalle non-leggi, bensì la legge perfetta da quella imperfetta. Per Marsilio le leggi regolano le azoni esclusivamente sotto l’aspetto esteriore. A differenza di Marsilio, la tradizione fino alla fine del Seicento distingueva fra un diritto perfetto, assistito dalla forza, e un diritto imperfetto in cui l’applicazione della forza avrebbe costituito una violenza illecita. Thomasius nell’opera Fondamenti di diritto naturale e delle genti ruppe con la tesi dei suoi predecessori e sostenne che bisognava riservare la qualifica di diritto solo alle norme che venivano fatte valere coattivamente. È opportuno distinguere tre sfere: l’honestum (la morale del foro interno), il decorum (la morale nel suo aspetto sociale) e il justum (il diritto). Per lui il diritto si distingue dalla morale perché è costituito esclusivamente da imperativi negativi. La morale comanda e il diritto proibisce. Il diritto impedirebbe il male maggiore (guerra), promuovendo il bene minore (pace esterna), mentre l’onesto impedisce il male minore (recar danno a se stessi), ma promuove il bene maggiore, rendendo l’uomo più saggio. La limitazione reciproca dell’originaria libertà comporta il divieto di ingerirsi nella libertà altrui. Secondo questo autore, il diritto si distingue dalla morale anche per i caratteri dell’esteriorità e dell’intersoggettività, in quanto, il diritto regola solo le azioni esterne e le pretese giuridiche sono in un rapporto di reciprocità. La distinzione di Kant fra autonomia e eteronomia. Sono autonomi gli imperativi nei quali chi pone la norma e chi l’esegue è la stessa persona. Si dicono eteronomi gli imperativi in cui la persona da cui proviene la norma è diversa dal destinatario che è tenuto ad eseguirla. “L’autonomia del volere è quella della proprietà della volontà per cui essa è legge a se stessa. Se la volontà cerca la legge in qualche altra parte che nella capacità delle sue massime a costruire una sua propria legislazione universale, ne deriva un’eteronomia. Per contro, l’imperativo morale, e perciò categorico, dice: io devo agire così e così, a prescindere da qualsiasi cosa io voglia”. Per Kant nella morale la volontà è pura, no è influenzata da impulsi sensibili, da appetiti o da paure esterne. Viceversa, nel caso del diritto, ciò che importa, è la conformità esteriore alle norme per realizzare la coesistenza degli arbitri secondo una legge universale della libertà. La volontà non è più pura, perché il diritto è unito alla facoltà di costringere chi pregiudica di fatto la libertà altrui. I cultori del diritto naturale, hanno avuto cura nel distinguere il foro interno della morale e il foro esterno del diritto e hanno messo in luce il nesso tra diritto e forza. Austin, influenzato dall’utilitarismo, sostenne che il diritto è un insieme di comandi generali provenienti da un’autorità, i quali sono sostenuti da minacce e ricevono, quindi, un’obbedienza abituale. Rudolf von Jhering, ammiratore di Bismark, capovolge le tesi di Kant sulla morale e nell’opera Lo scopo nel diritto, in cui sostenne che la volontà umana non può porsi in movimento da sola senza alcun interesse. Per Jhering il nostro volere sarebbe spinto esclusivamente da impulsi egoistici, o comunque non disinteressati, che possono essere messi al servizio della collettività. Per l’autore, il diritto è l’insieme delle norme coercitive vigenti in un certo stato, che detiene il monopolio della sanzione. Gli imperativi del diritto si distinguono da quelli della morale e dei costumi per l’elemento della coercizione esterna, ricollegato al potere statale. Si passa da una valutazione negativa della costrizione, che per Kant rende eticamente impura la volontà, a un’analisi realistica delle motivazioni psicologiche. Abbiamo così una meccanica sociale di cui la coercizione sarebbe una delle quattro molle. Essa caratterizza la sfera del diritto, così come il guadagno contraddistingue l’economia. A queste due molle egoistiche si aggiungerebbero però quelle etiche dell’amore e del senso del dovere. Che cosa costringe le forza elementari della società all’ordine ed alla cooperazione? A questa domanda l’autore risponde in termini di leve psicologiche. La coazione si trasforma con Jhering in un ingranaggio senza il quale il moderno apparato statale non può funzionare. 8. Riepilogo. Alcune obbiezioni piuttosto ovvie. Idonei a distinguere le norme giuridiche da tutte le altre vi sono elementi ricorrenti. I criteri distintivi più noti e utilizzati sono: L’esteriorità L’eteronomia La coattività. A cui si aggiungono la generalità e l’astrattezza, la bilateralità (corrispondenza tra il diritto attribuito a un soggetto e l’obbligo a carico di un altro), la statualità e l’esteriorità ( un carattere nato dall’esigenza garantistica). Si ritiene che il diritto non si debba occupare di ciò che gli uomini pensano o credono, ma debba disciplinare solamente le azioni umane, senza entrare all’interno della coscienza. Il foro esterno deve essere nettamente distinto dal foro interno. Si ritiene che in un regime di certezza del diritto e di stretta legalità, la corrispondenza degli atti concreti alle fattispecie criminose debba essere empiricamente controllabile. La seconda caratteristica è l’eteronomia. Non c’è bisogno di un’adesione alla filosofia kantiana per tenere distinte le norme che provengono da un’autorità cui obbediamo per paura di una punizione o per conformismo, dai precetti che noi seguiamo per intima convinzione. Nel diritto si parla di autonomia negoziale per indicare la sfera di interessi la cui regolazione è lasciata alla libera iniziativa dei privati. Non tutti i casi di eteronomia rientrano nell’ambito del diritto: il caso più noto è rappresentata dai precetti religiosi. Il terzo carattere è quello della coattività, il quale per la sua posizione centrale nel dibattito gli si dedicherà un esame approfondito. Es.: art. 315 c.c., doveri del figlio verso i genitori- il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”. La norma espressa dalla frase evidenziata non è direttamente sanzionata. Potremmo immaginare che una simile mancanza di rispetto possa rendere illecita la causa di un contratto, ma è discutibile che la nullità sia una vera propria sanzione. Eppure ci viene spontaneo dire che questa è una norma giuridica, è un articolo del Codice. La disposizione è valida in quanto approvata con un determinato procedimento. Non è affatto un caso isolato. Si considerino l’art 1, 70 della costituzione e l’art. 1321 c.c.: si tratta di disposizioni eterogenee, le quali, pur essendo prive di sanzione (sempre che non si consideri come tale la nullità) sono ritenute giuridiche. Esercitazione: siamo in grado di avanzare alcune obbiezioni generali alla teoria sanzionatoria: Si nota che esistono parecchie norme che, pur considerate giuridiche, sono prive di sanzione. Il concetto di sanzione, dilatandosi, si snatura poiché viene perduto l’originario collegamento della nozione con l’uso organizzato della forza. Del resto vi sono altri tipi di norme non sanzionate: quelle che attribuiscono poteri o stabiliscono competenze. È però assai dubbio che la nullità sia una sanzione. Del resto, oltre a norme giuridiche la cui violazione non è punita, ve ne sono molte che sono inviolabili. Pensiamo a una norma che ne abroghi un’altra, a una definizione giuridica, all’istituzione di un ente pubblico. Dopo questa obbiezione il teorico può fare una mossa ardita: dire che il carattere coattivo del diritto va visto a livello di un ordinamento nel suo insieme, globalmente considerato. Questa tesi è assai promettente, ma sposta il discorso: non si ragiona più della giuridicità della singola norma. D’altra parte, basta un minimo di riflessione per accorgersi che vi sono interi ordinamenti che hanno una coattività incerta. Questo è il caso del diritto internazionale e del diritto costituzionale. Austin ha negato la giuridicità all’ordinamento internazionale, considerandolo quale mera moralità positiva. Jhering e Kelsen hanno ritenuto che questo fosse un diritto primitivo, dove, mancando un soggetto che detenga il monopolio della forza, la coazione dovesse essere esercitata in forma decentrata, cioè dalla parte offesa. La guerra e la rappresaglia possono considerarsi sanzioni quando ricorrono gli estremi di uso legittimo della forza. Il diritto costituzionale contiene le norme più importanti di tutte, perché tratta dei diritti fondamentali e disciplina i poteri supremi dello stato; è problematico trovare norme costituzionali munite di sanzione. Se le attività degli organi che si trovano al vertice dello stato fossero garantite dalla sanzione, ci vorrebbero altri soggetti istituzionali che facciano rispettare le regole e quindi gli organi non sarebbero più gli organi supremi. Molti autori hanno notato che l’idea che ogni norma giuridica sia assistita da una sanzione innesca un regresso all’infinito. I giuristi chiamano norme primarie le norme di comportamento che si rivolgono ai comuni cittadini. Supponiamo che si tratti di un divieto di sosta. Ci vuole un’altra norma, detta secondaria, la quale comminerà la sanzione in caso di trasgressione della norma primaria. È ovvio che o si va avanti all’infinito o s’interrompe la catena delle norme e ci si trova con un’ultima norma, la quale sarà necessariamente non sanzionata. Ross, teorico del diritto danese e del realismo giuridico scandinavo sostenne la tesi che il diritto sia un insieme di norme sanzionate dalla forza: “il rapporto delle norme giuridiche con la forza sta nel fatto che le norme concernono l’applicazione della forza, e non che esse sono sanzionate dalla forza”. L’ultima trasgressione, resta senza conseguenze. Thon ha chiamato la norma dove si interrompe tale catena normativa con l’appellativo di “norma impotente”. 9. La razionalizzazione kelsiana. Ci troviamo in un vicolo cieco e la via d’uscita è stata strenuamente ricercata da Kelsen. Al fine di sfuggire alle precedenti obbiezioni contro la tesi della coattività, egli combina due mosse teoriche assai efficaci: Trasforma le norme giuridiche in giudizi ipotetici; Capovolge la distinzione tradizionale fra norme primarie e secondarie Noi siamo abituati a considerare le norme quali comandi che prescrivono o proibiscono a qualcuno di fare qualcosa. Tutti questi sono imperativi categorici, o incondizionati: i comportamenti sono dovuti a prescindere dalle loro conseguenze vantaggiose o svantaggiose per gli agenti: potremmo chiamarli comandi senza se. Tale caratteristica strutturale costringe chi vuole far valere una norma con la forza a fare una di queste due cose: o emanare una seconda norma che prescriva la punizione al trasgressore, o appoggiarsi ad un potere di fatto. Perciò, o si do origine ad un regresso all’infinito o il discorso si sposta dal piano giuridico a quello politico. Kelsen riconfigura le norme giuridiche come giudizi ipotetici, composti cioè da una condizione e da una conseguenza. La struttura delle norme giuridiche diventa questa: SE…ALLORA… la conseguenze è la sanzione che cessa di essere un elemento esterno e diventa una parte costitutiva di ogni norma giuridica. L’altro elemento è il “se”, ossia la condizione della sanzione, che assume il nome tecnico dell’illecito. Per Kelsen tutte le norme giuridiche devono essere riconducibili allo schema I-S (SE ILLECITO, ALLORA SANZIONE), “Non uccidere!”, isolatamente preso, non esprime una vera norma giuridica. Questa disposizione è riformulabile secondo lo schema I-S. Otteniamo così: “se qualcuno uccide un uomo, allora è punti con la reclusione”. Illecito, per Kelsen, non deve essere inteso nell’accezione comune di “azione che infrange il diritto”. Per l’autore, infatti, l’illecito non è un atto antigiuridico, ma è una parte della norma ed è la condizione cui è subordinata la doverosità dell’atto coattivo. “ Se…, allora…” non caratterizza solo i discorsi giuridici, ma anche le leggi scientifiche, nelle quali si descrive un nesso di causa-effetto. Nell’ipotesi delle norme, invece, non si descrive quello che accade. Si prescrive quel che deve accadere. Tra l’illecito e la sanzione vi è un rapporto di imputazione e dunque se si verifica l’illecito, allora deve seguire la sanzione. Kelsen opera un drastico capovolgimento, mettendo le norme secondarie al posto delle norme primarie e viceversa. Ad essere primarie sono le norme che riguardano l’applicazione della sanzione, che nella dottrina giuridica corrente sono considerate secondarie. Le norme primarie sono le norme che si risolvono nello schema “se…allora”. Le norme primarie hanno come destinatari i giudici e i pubblici funzionari. Ai cittadini si rivolgono le norme secondarie, che prescrivono la condotta che serve a evitare la sanzione, ossia la condotta opposta a quella sanzionata. Così l’obbiezione del regresso all’infinito pare neutralizzata. Ora si riconosce che la forza non è un elemento estrinseco, ma è qualcosa che sta all’interno del diritto. I veri destinatari delle norme (primarie) adesso coincidono con coloro che le applicano: questi ultimi non detengono un potere di mero fatto, ma hanno il potere giuridico di costringere i trasgressori a conformarsi alle direttive. Questo mutamento consente di riaffermare l’autonomia della sfera giuridica da quella politica. Tant’è che la validità delle norme, secondo Kelsen, non poggia su una qualche realtà ultima di carattere meta-giuridico, che rinvia al mondo della politica, bensì riposa su una norma ultima. Kelsen interpreta le definizioni normative, le attribuzioni di potere e ogni altra previsione priva di sanzione, come frammenti di norme. L’illecito non è la sola condizione da cui dipende l’applicazione dell’atto co-attivo. Le norme non sanzionate sono dunque per Kelsen incomplete. Esse ricevono un significato teorico solo quando sono interpretate come ulteriori condizioni da cui discende la sanzione. La norma completa rappresenta una sezione verticale dell’intero ordinamento. Pensiamo al reato di vilipendio della bandiera nazionale. L’ “allora” della punizione dell’atto individuale di vilipendio, non dipende soltanto dal “se” dell’accertamento della commissione di tale atto. Vi saranno molti altri “se”. Tra queste condizioni possono essere elencate: a) se vale la norma fondamentale; b) se la costituzione italiana è stata legittimamente approvata dall’assemblea costituente; c) se c’è una sentenza passata in giudicato…:allora Tizio deve essere punito con la multa di 1000 euro. Il dovere di eseguire l’atto coattivo individuale, che colpisce Tizio dipende da una serie di condizioni che, nel loro insieme, rappresentano uno spaccato dell’ordinamento giuridico nella sua gerarchica. La norma completa teorizzata da Kelsen diventa assai ingombrante, ma si può dire in qualche modo che tutto il materiale giuridico è fatto rientrare senza contraddizioni nello schema della norma sanzionatoria. Occorrerà però vedere se tale riduzione è soddisfacente sul piano esplicativo e su quello concretamente operativo. 10. La sconfitta del riduzionismo: non vi è un unico tipo di norma giuridica. Procuste, mitico brigante greco, stirava a forza quelli che erano troppo corti e amputava le membra di coloro la cui statura sopravanzava la lunghezza del giaciglio. In fondo, anche Kelsen, con il suo riduzionismo fa la stessa cosa. Per Kelsen vi è un unico modello di norma giuridica, quello della norma coattiva; se una norma si scosta da tale schema tipico, vi è fatto rientrare a forza. Tutte le norme giuridiche sono ridotte ad un solo tipo, anche al prezzo di gravi distorsioni. Il principale critico della posizione kelsiana è Hart il quale, pur riconoscendo che il desiderio di uniformità non è per nulla disonorevole, ritiene che tale aspirazione vada argomentata in modo adeguato con le seguenti conclusioni: “l’idea originariamente semplice della minaccia di un male o di una sanzione è estesa fino a includervi la nullità di un atto giuridico; la nozione di norma giuridica è stata ristretta fino a escludere le norme che attribuiscono poteri, considerate come meri frammenti di norme: lo sforzo di ridurre a questa semplice singola forma la varietà di norme finisce per imporre ad esse una falsa uniformità”. Secondo Hart, Kelsen ha il torto di trascurare la radicale differenza di funzione far norme di tipo diverso. In particolare, Kelsen non è riuscito a differenziare le norme che attribuiscono poteri da quelle che impongono doveri. In quest’orizzonte teso a distinguere le norme su un piano pragmatico o funzionale, oltre che strutturale, il problema se la nullità possa essere considerata una punizione assume una certa importanza. Il sig. Bianchi vuole fare un testamento e utilizza il computer o la macchina da scrivere per scrivere. Mancando la forma olografa, il testamento è ovviamente nullo. Non si vuole né punire, né premiare; il testamento non è un negozio valido semplicemente perché Bianchi non ha utilizzato in modo corretto le forme che, per ragioni di certezza e di pubblicità degli atti giuridici, la legge aveva previsto. In modo analogo, se il convenuto citato in giudizio per l’adempimento di un contratto ne nega la validità perché, al momento della stipulazione era un minore, non lo fa per autopunirsi, ma perché desidera liberarsi dal vincolo. Così, il giudice sarà spesso del tutto indifferente di fronte alla pronuncia di una corte superiore che invalida una sua decisione. Si tratta delle c.d. sentenze suicide. In tutti questi casi ci si limita a togliere il riconoscimento giuridico agli atti difformi da un certo modello o che eccedono i poteri conferiti. Kelsen ha una concezione del diritto e della norma giuridica puramente strutturale, che trascura volutamente gli aspetti funzionali e teologici (finalistici) che, invece, premono tanto Hart. Per Kelsen qualsiasi scopo collettivo può essere perseguito attraverso il diritto che quindi, anche nella concezione asettica di Kelsen, ha per lo meno una funzione: quella di guidare i comportamenti dei consociati. Hart rileva come l’idea secondo la quale le norme giuridiche avrebbero come principali destinatari i funzionari, invece dei cittadini, sia in netto contrasto con le normali istituzioni linguistiche. D’altro canto, se si trascurano le finalità e le funzioni che le norme giuridiche esercitano si finisce col confondere una multa con una tassa e Hart afferma: “la pena per un reato, come una multa, non è la stessa cosa di una tassa imposta per l’esercizio di un certo tipo di attività, sebbene entrambe implichino l’ordine rivolto ai funzionari di infliggere un’uguale perdita di denaro. Ciò che differenzia questi concetti è che il primo implica un reato o un’infrazione di un dovere nella forma di violazione di una norma creata per guidare i cittadini comuni”. Secondo Hart, bisogna evitare di focalizzarsi sui rimedi sussidiari che sono apprestati quando il rispetto per le norme viene meno. Piuttosto, si deve guardare soprattutto ai diversi modi in cui il diritto è usato per controllare, guidare e pianificare la vita fuori dai tribunali. Per risolvere la questione della giuridicità di una singola norma, badiamo al modo in cui essa è stata prodotta, e/o è stata riconosciuta, dalle fonti di un dato ordinamento giuridico. Una norma è giuridica se appartiene a un ordinamento giuridico. Prima di poter specificare se la norma in esame è giuridica, dobbiamo essere in grado di stabilire che essa è una norma valida. Per far questo dobbiamo servirci dei criteri ultimi d’identificazione del diritto vigenti propri di quel particolare ordinamento. Esistono dei criteri identificativi formali, che cioè prescindono dai contenuti prescrittivi e così il giurista moderno che cerca il diritto in vigore non si sforza di ricostruire l’improbabile norma giuridica completa di Kelsen, ma va a vedere se determinate direttive siano state deliberate in modo conforme alle (meta-) norme di competenza, ossia dagli organi competenti e seguendo la procedura prevista. A questo punto emerge che il problema della giuridicità si sposta dalla singola norma all’ordinamento. Capitolo quattro: dalla norma all’ordinamento, dall’ordinamento alla definizione. 1. Un considerevole passo avanti. Ci siamo accorti che le norme non sono immediatamente ricavabili da nessun dato osservativo, ma sono “accertate” attraverso operazioni interpretative complesse. Come è possibile distinguere le norme giuridiche dalle altre norme? L’idea prevalente era che le norme giuridiche fossero direttive violabili poste o riconosciute d’autorità in grado di farle rispettare con la forza. Questa tesi ha mostrato di non corrispondere all’esperienza. O meglio, per farla corrispondere all’esperienza, bisognava ricorrere a una palese forzatura. Tale strada è stata intrapresa da Kelsen con la teoria dei frammenti di norme. Il risultato di tale tentativo di risistemazione del materiale giuridico si è rivelato contro intuitivo per via, da una lato, dalla varietà tipologica delle norme giuridiche, dall’altro, nel mondo moderno il diritto si distingue dalla morale, più che per la sua specificità dei contenuti, soprattutto per mezzo dei criteri formali con cui le fonti di ciascun ordinamento giuridico stabiliscono quali siano le norme che ne fanno parte. È evidente che la presenza o meno di una coazione non costituisce l’elemento decisivo per dire se una singola norma sia giuridica oppure no. Il problema della giuridicità delle norme deve essere risolto da ciascun sistema giuridico con i propri standard. La questione della giuridicità non può essere affrontata sul terreno delle norme particolari, ma va discussa sul piano ordina mentale. Tuttavia, come facciamo a stabilire se un ordinamento è giuridico? Una cosa è la validità delle norme particolari e una cosa ben diversa è la legittimità di un intero ordinamento. Nulla garantisce la fondatezza dei criteri ultimi della validità normativa, si tratti della norma fondamentale di Kelsen o della norma di riconoscimento di Hart. 2. Sistemi statici e sistemi dinamici. Kelsen, l’autore che ha concepito nel modo più persuasivo il diritto come norma coattiva, è stato anche il filosofo che ha dato la trattazione più completa del diritto visto come ordinamento e distingue fra specie di ordinamenti: quelli statici e quelli dinamici. “ una pluralità di norme forma un’unità, un sistema, un ordinamento quando la sua validità può essere ricondotta a un’unica norma come fondamento ultimo di questa validità. Questa norma fondamentale costituisce l’unità nella pluralità di tutte le norme che formano un ordinamento. Si possono distinguere due diverse specie di ordinamenti. Le norme della morale sono dedotte dalla norma fondamentale della veridicità. Ciò che interessa è il conoscere che le numerose norme di una morale sono già contenute nella loro norma fondamentale; le norme morali particolari possono essere tratte dalla norma fondamentale universale mediante una deduzione dall’universale al particolare. La norma fondamentale ha qui un carattere statico materiale. Di diversa specie sono le norme giuridiche. Queste non sono valide in forza del loro contenuto. Ogni qualsiasi contenuto può essere diritto. Una norma vale come norma giuridica perché è stata prodotta secondo una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico. La norma fondamentale di un ordinamento giuridico positivo non è altro che la regola fondamentale per la quale sono prodotte le norme. Essa è il punto di partenza di un procedimento; ha un carattere assolutamente dinamico-formale. Da questa norma fondamentale non si possono dedurre logicamente le singole norme del sistema giuridico. Esse debbono essere prodotte da un particolare atto che le pone, atto non di pensiero, ma di volontà”. Ci vuole qualcosa che tenga le norme assieme. Kelsen chiama questo principio unificatore con il nome di norma fondamentale. Gli ordinamenti statici sono quelli morali e gli ordinamenti dinamici sono quelli giuridici. Nel caso degli ordinamenti statici l’unità del sistema è garantita mediante criteri contenutistici. Dunque, una norma appartiene ad un ordinamento morale quando può essere dedotta da un principio universale in cui è implicita. L’accertamento della validità di una norma diventa così essenzialmente un’operazione logica. Kelsen non si stanca di ripetere che la giustizia è un ideale irrazionale. Per quanto essa possa essere indispensabile per la volontà e l’azione dell’uomo, essa non è però accessibile alla nostra conoscenza. Kelsen quando parla di sistemi statici sta pensando alla morale costruita a tavolino dai filosofi del Seicento e ai sistemi di diritto naturale: “ sotto il profilo del legislatore tale metodo suggerisce a) che le norme siano formulare in modo chiaro e conciso; b) che il legislatore formuli solo i principi generali e le eccezioni; tutte le norme intermedie sono infatti inutili potendo essere ricavate per via logico-dimostrativa dalle regole generali. Leibniz scriveva che il diritto romano poteva ridursi in un solo foglio che contenga tutte le regole generali”. A Kelsen interessano però gli ordinamenti dinamici. Quando bisogna accertare la validità di una norma, ossia la sua appartenenza ad un ordinamento giuridico, i criteri utilizzati, non sono contenutistici, bensì di tipo formale. Si va a vedere il modo in cui la norma in questione è stata prodotta. Di conseguenza, una norma valida è una norma che è stata prodotta conformemente alle sovra-norme dell’ordinamento, dagli organi competenti e con le procedure previste. Gli ordinamenti dinamici sono in linea di massima sistemi di diritto posto. Ciò significa che tali ordinamenti necessitano di una pluralità di atti che creino continuamente il diritto. Mentre nel sistema di Leibniz le norme intermedie erano ricavate tramite la deduzione dal generale al particolare, in un sistema dinamico può accadere che due autorità emanino norme logicamente incompatibili. In simili ipotesi si parla di antinomie. Il diritto positivo, secondo Kelsen, deriva da concreti atti di volontà: positivismo giuridico. 3. La costruzione a gradi: una singolare staffetta. Per aversi un ordinamento giuridico unitario abbiamo bisogno di un criterio ultimo di validità, la norma fondamentale, solo risalendo alla quale si può accertare a) se una norma giuridica è valida; b) se due norme giuridiche appartengono al medesimo ordinamento. Bisogna vedere se la norma in questione è stata prodotta dalle fonti dell’ordinamento. Kelsen ha davanti una complessa gerarchia di norme a molti livelli che egli chiama costruzione a gradi. Per individuare un insieme di norme come appartenenti allo stesso ordinamento giuridico, basta avere un criterio meta-normativo che le tenga insieme. Viceversa, non è per nulla scontato che tutti i sistemi giuridici siano necessariamente organizzati secondo una complessa gerarchia delle fonti. Il problema centrale è come si passa da una norma superiore a una inferiore in un sistema dinamico. Kelsen parla dell’ordinamento giuridico come di una concatenazione produttiva fra norme di livello diverso. Le norme superiori delegano le autorità inferiori, ossia le autorizzano a produrre norme, conferendo loro i poteri normativi necessari. S’instaura un rapporto di delegazione da autorità ad autorità. È una specie di staffetta. Si verifica un passaggio di poteri da un’autorità anteriore nel tempo e/o superiore gerarchicamente a un’altra autorità successiva e/o inferiore. In tal modo si assicura l’unità e la continuità dell’ordinamento. Quando una siffatta successione s’interrompe perché le norme cominciano a essere create stabilmente in modo diverso da come era stato previsto, si verifica una rivoluzione giuridica. Simili discontinuità non vanno drammatizzate, poiché gli ordinamenti posteriori, cioè i vincitori delle rivoluzioni, regolano i conti con il loro passato, decidendo, mediante i propri criteri, quali norme e rapporti del defunto ordinamento di debbano riconoscere. Nei sistemi statici il cemento che connette le norme è la deduzione, invece in quelli dinamici è il rapporto di delegazione. Secondo la tesi di Kelsen, in base alla quale non c’è una differenza contenutistica fra ordinamenti morali e giuridici perché, come sappiamo, qualsiasi contenuto normativo può diventare diritto. I criteri che i sistemi giuridici utilizzano per riconoscere la validità delle norme sono di tipo formale. Si va a controllare in primo luogo chi ha approvato le relative disposizioni e in quale modo l’ha fatto. 4. Il problema della validità. Per affrontare il problema della validità delle norme occorre distinguere fra due questioni diverse. Prima questione: che cosa vuol dire che una data norma giuridica è valida? Seconda questione: quali sono i criteri per stabilire se una norma è giuridicamente valida? Secondo Kelsen, dire che una norma è giuridicamente valida significa affermare contemporaneamente tre cose: -che la norma appartiene all’ordinamento giuridico preso in considerazione; -che la norma è giuridicamente obbligatoria, ossia si applica e deve essere rispettata; -che la norma esiste. La terza tesi è discutibile. Kelsen sostiene che la validità è l’esistenza specifica della norma. In realtà Kelsen vorrebbe affermare che le norme esistono solo per modo di dire, in un senso ideale, non nella sfera dei fatti, ma sul terreno della doverosità. Quel che è fuorviante è concepire le norme come entità, di cui possiamo parlare, ma che sussistono indipendentemente dai nostri discorsi. Le norme valide non sono strane entità. Per il filosofo analitico le norme sono costituite proprio dai nostri discorsi. Dire che un’affermazione è vera significa soltanto accettarla fino a prova contraria. Analogamente, la validità è l’accettazione delle norme. Dal punto di vista interno di Hart, asserire che una norma è valida, equivale a dire che la si accetta, che essa funge da metro di giudizio. Se una norma è valida, guiderà direttamente la condotta dei cittadini: la condotta in questione, se conforme alla norma, sarà giuridicamente giustificata. La validità costituisce una buona ragione per fare qualcosa o per criticare i comportamenti difformi dal modello normativo. Quali sono i criteri per stabilire se una norma appartiene all’ordinamento, cioè pera stabilire se essa vincola i consociati? Tali criteri non spiegano né definiscono la validità, ma servono ad accertare se e quando una norma valga in un dato ordinamento. Da un punto di vista formale, una norma è valida se essa, è stata prodotta in modo conforme a una norma superiore appartenente all’ordinamento e non è stata espulsa dal sistema. Una norma viene eliminata dall’ordinamento, cessando di essere valida, quando è dichiarata incostituzionale (es. caso dell’abrogazione). Vi sono però anche criteri materiali di validità che hanno avuto crescente rilevanza con l’affermarsi delle costituzioni rigide. Una norma, anche se prodotta rispettando i criteri formali relativi alle competenze e alle procedure, non può essere valida se è incompatibile con le norme gerarchicamente superiori: si dirà che è in vigore una norma che non è materialmente valida. Del resto, è fisiologico che nei nostri ordinamenti vigano parecchie norme (materialmente) invalide, che non sono ancora state espulse dall’ordinamento per la ragione che la loro invalidità non è stata ancora dichiarata formalmente dagli organi di controllo. 5. Un modello semplificato. Affrontando il tema della validità si è tentata una razionalizzazione delle fonti con le tre ipotesi illuministiche: Si è supposto che l’ordinamento avesse una struttura gerarchica e che tale complessa struttura somigliasse a una sorta di piramide rovesciata, il cui vertice fosse la norma fondamentale. Tuttavia, molti diritti somigliano maggiormente a una rete. Si è supposto che per ogni gradino della scala gerarchica si potesse decidere in modo netto, con un sì o con un no, il problema della validità (vigenza). In molti ordinamenti, però la situazione è differente. Per es. ci si può chiedere quante volte un comportamento collettivo debba essere ripetuto per diventare dal punto di vista giuridico una consuetudine. Allo stesso modo ci si può domandare quando si consolidano i precedenti e quale sia il loro peso sulle future decisioni. Si è infine supposto che le fonti di produzione di un dato ordinamento fossero elencate in modo chiaro e vincolante per tutti, che cioè il giurista fosse in grado con operazioni semplici, di estrarre una lista definitiva delle autorità e dei fatti da cui soltanto può legittimamente discendere il diritto. Tale elenco esauriente e tassativo, in realtà, non esiste. A proposito dell’ultimo punto, molti studiosi negano alla giurisprudenza il carattere di fonte di produzione, poiché le sentenze non innovano il diritto. Le decisioni dei giudici al massimo possono fungere da fonti di cognizione del diritto. Questa tesi è stata messa in discussione da vari autori tra cui Alessandro Pizzorusso: “tale riesame muove dal presupposto che l’efficacia delle fonti del diritto non è sempre identica a se stessa, ma consiste in una pressione sui destinatari delle norme affinché ne osservino il comando la quale è variamente sanzionata e talvolta non è sanzionata affatto. Nel diritto anglosassone si possono individuare casi nei quali il precedente ha efficacia vincolante e casi nei quali esso ha efficacia persuasiva. Tale efficacia persuasiva è ravvisabile anche in relazione ai precedenti desumibili dalle sentenze dei giudici italiani: se così non fosse non si capirebbe perché sia legittimamente prevista la funzione di nomofilachia (di controllo dell’esatta osservanza della legge). Tale efficacia del precedente non è un fatto puramente culturale, ma un dato risultante dal diritto positivo. Tale principio si collega al principio di eguaglianza dal quale deriva che casi analoghi debbano essere giudicati in modo analogo. Se questo è il fondamento della regola che stabilisce l’efficacia, almeno persuasiva del precedente giudiziario, anche nel diritto italiano è evidente”. Si vede come l’efficacia delle fonti cessi di essere dicotomica per essere invece graduabile: manca una previsione esplicita della giurisprudenza quale fonte di produzione. È chiaro che anche nei sistemi dinamici ci sono sempre molti momenti statici, in cui si guarda ai rapporti contenutistici. Utilizzerò uno schema ideale. Mi spiego meglio. Se devo cercare una parola sul vocabolario, per es., tatuaggio, esiste un metodo preciso per risolvere questo problema compiendo una serie finita di passi non ambigui. È possibile ipotizzare che sia dia una sorta di algoritmo per calcolare se una disposizione è vigente, ossia formalmente valida? Questo procedimento somiglierebbe all’azione di salire su una lunga scala, un gradino dopo l’altro. Si controlla se la disposizione è stata prodotta seguendo la procedura prevista dalla metanorma di grado superiore. Ma questo non è sufficiente. Andando a vedere se questa norma è stata prodotta in modo conforme a una meta-metanorma di livello ancora più elevato. E così via. Il procedimento va reiterato finché non si arriva a una norma ultima che autorizzi tutti gli organi inferiori a produrre validamente norme. Due norme appartengono al medesimo ordinamento? Dovremmo procedere in modo non molto dissimile da quel che si fa nel computo dei gradi di parentela. Nel caso delle norme A e B dobbiamo risalire un passo dopo l’altro alle rispettive metanorme e poi alle norme ancora superiori finché non si incontra la norma fondamentale. Se la norma fondamentale è la stessa, allora si può dire che le norme A e B appartengono al medesimo ordinamento. 6. Un rampino appeso nel vuoto, ovvero la norma fondamentale. Nella dottrina kelsiana, la norma fondamentale esercita una triplice funzione: -unifica un sistema normativo; -individua le fonti di un ordinamento giuridico positivo, distinguendo il diritto vigente dalle ideologie e dalle convinzioni morali; -conferisce validità alle norme del sistema, trasformandole in significati giuridici “oggettivi” degli atti umani. Altamente problematica è la terza funzione: quella di garantire a priori l’oggettività e la scientificità della conoscenza giuridica. Kelsen dichiara: “ con la teoria della norma fondamentale, la dottrina pura del diritto tenta di rilevare, attraverso l’analisi dei procedimenti effettivi, le condizioni logico-trascendentali del metodo, sinora usato, della conoscenza giuridica positiva”. Le perplessità sulla validità-esistenza delle norme finiscono col ridurre le norme stesse a misteriose entità. La norma fondamentale è vista come un fenomeno ipotetico, non è posta, ma presupposta, essendo essa la condizione ideale di ogni atto o procedimento con cui è posto il diritto. La norma fondamentale non è una norma positiva, è una specie di rampino inesistente, un gancio immaginario appeso nel vuoto, che regge le norme inferiori. Una delle testi centrali del positivismo giuridico è che tutte le norme giuridiche sono positive, ma ci accorgiamo che non è positiva la norma più importante, quella da cui deriva l’unità e l’identità stessa del sistema giuridico. Qualcuno potrebbe pensare che questa difficoltà sia rimediabile. Purtroppo le cose non sono così semplici, Kelsen dice. “la formulazione schematica della norma fondamentale di un ordinamento giuridico è la seguente: la coazione deve essere posta nelle condizioni e nel modo che è stato determinato dal primo costituente e dagli organi da lui delegati”. A e B appartengono al medesimo ordinamento? Alcuni casi sono facili, altri casi sono molto più complessi: non siamo in gradi di decidere sulla base del diritto positivo se abbiano ragione o torto quanti nutrano la convinzione che i diritti statali e quello internazionale formino un solo ordinamento. La norma fondamentale allora è perfettamente inutile ai fini dell’individuazione di un sistema giuridico unitario. Questo lo si desume dal brano citato sopra, dal quale emerge chiaramente che, per risolvere il problema dell’identità di un ordinamento bisogna già sapere qual è la costituzione originaria determinata dal primo costituente. Tuttavia, se si possiede tale informazione, la norma fondamentale diventerebbe superflua: il problema di partenza sarebbe automaticamente risolto. La norma fondamentale non funziona. È come una banderuola che segna qualsiasi direzione in cui lo sospinge il vento. 7. La norma di riconoscimento e la rivincita dell’effettività. La norma fondamentale non funziona neppure in una situazione notevolmente semplificata, perché tale norma non è positiva, è una mera ipotesi. È evidente che per risolvere in modo efficace il problema dell’identità di un ordinamento occorre partire da un dato positivo. La prima ipotesi è di fondare l’ordinamento su un documento solenne. L’idea però non regge. Qualora ciò avvenisse, l’atto fondamentale sarebbe posto da un organo che, a sua volta, dovrebbe essere autorizzato da una norma anteriore: si avrebbe un regresso all’infinito. Una strategia alternativa potrebbe essere quella di muovere non da una norma di base, bensì da un potere o da un atto costituente o da qualche situazione di fatto quale, per es. una rivoluzione vittoriosa o la resistenza al nazifascismo. Indubbiamente, una simile fondazione esercita un forte impatto simbolico, ma ciò riguarda solo la legittimazione politica dell’ordinamento. Per quanto, invece, concerne le questioni dell’identità e delle fonti dell’ordinamento mi pare che il risultato di tale accostamento sia meno soddisfacente del previsto. Supponiamo per ipotesi che una costituzioni stili la lista delle fonti dell’ordinamento. Sorgerebbero alcuni problemi: -come facciamo a dire che quello è davvero il punto apicale, ossia il vertice del sistema? -che cosa succede se cominciamo a operare alcune fonti che non erano state previste dall’elenco originario o se alcune delle fonti originarie s’inaridiscono o non vengono mai attivate? -se l’elenco fosse dichiarato tassativo, o immutabile, o il suo cambiamento fosse ricollegato ad un procedimento aggravato, si potrebbe cambiarlo nonostante tutto o, per lo meno, mutare il procedimento aggravato? Comunque si risolvano tali interrogativi, occorre prendere decisioni innovative. Ciò che in realtà accade è che i giuristi elaborano una dottrina sulle fonti che non è chiusa, ma muta nel tempo, reagendo alle situazioni imprevedibili man mano che queste emergono in concreto. Hart propone di sostituire la teoria della norma fondamentale di Kelsen con la nozione di norma di riconoscimento, la quale: -è positiva; -non è né valida né invalida. Hart spiega la propria tesi: “ nella maggior parte dei casi la norma di riconoscimento non viene dichiarata, ma la sua esistenza si manifesta nel modo in cui vengono individuate le norme particolari, da parte dei tribunali o di altri funzionari o dei privati o dei loro consiglieri. La norma di riconoscimento di un ordinamento giuridico è come la regola di punteggio di un gioco. L’uso di norme di riconoscimento non espressamente formulate, da parte dei tribunali e di altri, nell’individuazione di norme particolari dell’ordinamento, è un aspetto tipico del punto di vista interno. Coloro che usano tali norme in questo modo manifestano così la loro accettazione di esse come guida. Ciò che viene in tal modo non lasciato espresso forma lo sfondo o contesto normale delle affermazioni di validità giuridica e perciò si dice che esso è presupposto da queste. Ma è importante vedere precisamente che cosa siano questi elementi presupposti. Essi consistono in due cose. In primo luogo, una persona che asserisce seriamente la validità di una data norma giuridica, fa uso di una norma di riconoscimento che riconosce adatta per l’individuazione del diritto. In secondo luogo, è un dato di fatto che questa norma di riconoscimento non è solo accettata da lei, ma è la norma di riconoscimento realmente accettata e usata nel generale funzionamento dell’ordinamento. Se si dubitasse della verità di questo presupposto, potremmo verificarla riferendoci alla prassi effettiva: al modo in cui i tribunali individuano ciò che si deve considerare come diritto, e alla generale accettazione di questi procedimenti di individuazione. La norma di riconoscimento non può essere né valida né invalida, ma viene semplicemente accettata come adatta per essere usata come criterio di validità. La sua validità è assunta ma non può essere dimostrata, è come dire che noi assumiamo, ma non possiamo mai dimostrare, che la sbarra di un metro conservata a Parigi, che è criterio definito per la correttezza di ogni misurazione in metri, è essa stessa corretta”. Così i criteri con cui un determinato ordinamento identifica il diritto valido cessano di essere una categoria a priori. Si tratta invece di criteri positivi; ciò significa che si può andare a verificare la prassi consolidata di chi partecipa a questa pratica sociale. Qui siamo davanti ad una pratica che non ha una natura giuridica: essa può dirsi meta-giuridica. I criteri di validità sono paragonabili al metro campione di Parigi. Chi si serve di questa pratica per stabilire quali siano le norme valide dell’ordinamento, si pone da un punto di vista interno:accetta la norma di riconoscimento. La norma di riconoscimento è auto-esecutiva; essa presuppone la generale efficacia dei propri criteri. Questa è una rivincita dell’effettività in quanto, secondo Hart, l’asserzione che la norma di riconoscimento esiste può essere soltanto un’affermazione fattuale esterna. Ma perché badare a ciò che dicono o decidono i giudici e i pubblici funzionari invece che tener conto semplicemente dell’opinione pubblica? È una scelta assai ragionevole perché hanno un particolare prestigio, ma anche perché l’ordinamento attribuisce alle loro dichiarazioni uno speciale carattere di autorità. La norma di riconoscimento hartiana attribuisce ai giudici e ai pubblici funzionari la “competenza della competenza”. La norma di riconoscimento, sul piano contenutistico è aperta, l’importante è che nei casi dubbi ci sia sempre qualcuno autorizzato a decidere sulle fonti, qualsiasi cosa egli decida. Ecco le principali differenze tra: -Kelsen: 1) è un filosofo neo-kantiano; 2)considerazione solo strutturale del diritto; 3) riduzionista (un solo tipo di norma); 4)validità equivale all’esistenza specifica delle norme; 5) norma fondamentale valida, ma non positiva. -Hart: 1) è un filosofo del linguaggio; 2)considera anche le funzioni delle norme; 3)molti tipi di norma; 4)la norma è uno standard di giudizio, valido se accettato nell’ordinamento; 5) norma di riconoscimento: positiva, ma né valida né invalida. 8. Ma l’effettività non è l’ultima parola. La conclusione cui giunge Hart è che un sistema normativo deve essere nel suo complesso efficace: “ dall’inefficacia di una singola norma deve essere tenuta distinta una generale inosservanza delle norme dell’ordinamento. Questa può essere così completa e prolungata, da dover dire, nel caso di un ordinamento nuovo, che questo non si è mai stabilito come ordinamento giuridico di un dato gruppo, o, nel caso di un ordinamento stabilito da tempo, che esso ha cessato di essere l’ordinamento giuridico del gruppo. In entrambi i casi manca il contesto o sfondo normale per fare delle affermazioni interne sulla base delle norme dell’ordinamento. Si può dire che ci fa un’affermazione interna sulla validità di una particolare norma dell’ordinamento presuppone la verità dell’affermazione esterna relativa al fatto che l’ordinamento è in generale efficace”. L’autore sostiene che sarebbe un futile gioco, fare asserzioni da un punto di vista interno, quello di chi accetta le regole e le usa, se non sullo sfondo di un sistema in linea di massima efficace. L’efficacia del sistema è il presupposto della validità delle singole norme. Hart non dice che simili asserzioni interne sarebbero impossibili; dice invece che sarebbero assurde. Finché ci si pone da un punto di vista esterno, non vi sarà alcuna problematica concettuale. Un sociologo del diritto sarà in grado di rilevare con esattezza le ideologie e le attività dei giuristi senza essere costretto a condividerle. È lecito dire che uno studioso, quale il sociologo del diritto, che elenca le fonti di produzione e descrive in modo distaccato le leggi e la loro applicazione, si muove sul terreno della scienza giuridica? In sé non vi sono ostacoli. Tuttavia, dovrebbe essere chiaro che il giurista non si limita a descrivere. Quando include nella lista delle fonti esclude una fonte particolare, il giurista si trova nella posizione del teologo che stabilisca qual è il canone biblico. Tali elencazioni, lungi dall’essere una mera constatazione storica, hanno un valore normativo. La dichiarazione che per la religione cattolica i libri sacri dell’antico testamento sono Genesi, Esodo, Levitico…Dal punto di vista esterno essa equivale all’affermazione di fatto che per i cattolici praticanti i libri sono questi. Da un punto di vista interno essa assume un significato prescrittivo: vuol dire che tutto ciò che si trova in quei libri deve essere considerato vincolante. Per ciò che riguarda le fonti del diritto Crisafulli affermava in maniera analoga: “ giacché il concetto storico-formale, o prescrittivo, delle fonti di un ordinamento dato comprende soltanto quei fatti e atti giuridici che l’ordinamento definisce tali, legittimandoli a costruire il diritto oggettivo. E definendo le proprie fonti, ogni ordinamento giuridico definisce, sé medesimo sotto l’aspetto normativo, stabilendo quali disposizioni normative siano da annoverarsi tra quelle che lo compongono (e lo modificano), dando perciò della norma giuridica, una configurazione, a sua volta convenzionale e storicamente relativa anch’essa”. Dal brano di Hart a me pare: -che l’autore si stia riferendo alle affermazioni sulle fonti da un punto di vista interno e non da una prospettiva storica o sociologica; -che egli reputi l’efficacia dell’ordinamento come un requisito di rilevanza, di non oziosità delle affermazioni interne, non certo come una loro condizione di sensatezza o di logicità; -egli abbia estrema cura nel distinguere tra ciò che significa dire che una singola norma è valida e ciò che significa dire che un ordinamento è efficace nel suo complesso. La norma di riconoscimento hartiana: la sua esistenza è una questione di fatto. Per comprendere come operi la norma di riconoscimento di Hart, egli ipotizza che si dia un ordinamento primitivo, costituito da sole norme primarie. In tal caso, l’asserzione che una data norma esiste può essere soltanto un’affermazione esterna di fatto quale un osservatore, che non accettasse la norma potrebbe compiere e verificare. Egli suppone che l’osservatore distaccato sia in grado di distinguere fra la mera concordanza di abitudini e il valore normativo del comportamento. Un simile accertamento resterebbe una questione separata dalla desiderabilità o dal valore della condotta. Analogamente, negli ordinamenti evoluti, la norma di riconoscimento, potrebbe essere esclusivamente rilevata da un punto di vista esterno. Il criterio dei criteri, la meta-fonte, è una norma che può accertarsi esclusivamente in via di fatto e non ha senso chiedersi se essa sia valida oppure no. Queste tesi sono messe in discussione da Scarpelli che ha compreso come il positivismo giuridico, lungi dall’essere una mera descrizione distaccata del diritto qual è, implica anche una dimensione di scelta razionale: “la norma fondamentale opera a livello metalinguistico come criterio selettivo delle proposizioni ammesse e non ammesse nel sistema delle norme e non è per nulla tenuta a presentare le caratteristiche richieste alle proposizioni (normative) cui si riferisce. Ogni giudizio di validità, ogni impiego del concetto di validità suppongo il principio fondamentale del sistema per evitare confusioni. Alla determinazione del criterio di validità (infrasistematica) si accompagna una legittimazione extragiuridica del diritto positivo. In ogni caso, altro è constatare che un sistema di norme è effettivo in un gruppo sociale, altro è assumere in proprio le norme del sistema a guida dei comportamenti e criterio per giudicarne. Ma se l’affermazione dell’effettività di un sistema di diritto positivo è legata al punto di vista esterno, mentre il principio fondamentale è considerato dal punto di vista interno, allora tra l’affermazione dell’effettività di un sistema di diritto positivo e l’accettazione dal punto di vista interno del principio fondamentale del sistema c’è un salto, una frattura. La proposizione fattuale affermante l’effettività di un sistema di diritto positivo non implica la proposizione regolativa esprimente il principio fondamentale del sistema, e considerando dal punto di vista interno il principio fondamentale si rimane, pur avendo riconosciuto l’effettività del sistema, logicamente liberi di accettarlo o non accettarlo. È questa una semplice applicazione della legge di Hume, della tesi generale che tra il discorso fattuale e il discorso normativo c’è un salto logico. Il principio di effettività ha il torto di nascondere la scelta politica fingendo in suo luogo una semplice constatazione sociologica”. Scarpelli: -concorda con Hart nel sostenere che i criteri di validità dell’ordinamento non possono essere applicati alla meta-norma che tali criteri esprime. Di conseguenza, mentre si può dire che questa o quella norma particolare è valida, il che significa semplicemente che essa appartiene all’ordinamento, non è logico dire che un ordinamento è valido: sarebbe come affermare che l’ordinamento appartiene a se stesso. La giuridicità è una caratteristica distinta dalla validità e può valutarsi solo da una prospettiva esterna al diritto; - egli sostiene in dissenso da Hart che la giuridicità dei sistemi giuridici non può fondarsi sull’effettività, proprio perché un giudizio espresso da un punto di vista interno, presuppone che si accettino le norme, non può basarsi unicamente sull’accertamento di un fatto (l’effettività). Ci vuole anche una premessa prescrittiva. Se tutti si comportano in un certo modo, questo non implica che si debba comportare così. Le nostre speranze sono state disattese: il problema della giuridicità non può essere risolto neanche a livello di ordinamento. Si può dire se una norma è valida oppure no, ma resta però aperta la questione fondamentale: come si fa ad accertare se l’ordinamento in questione è giuridico? 9. Definizioni reali e nominali. Abbiamo creduto di poter risolvere il problema ponendoci sul piano sistematico degli ordinamenti, ma non abbiamo ottenuto i risultati sperati. Queste battute d’arresto sono operazioni di pulizia, che sgombrano il campo dalle false piste. L’insistente tentativo di spiegare il diritto dal basso, mediante l’osservazione di determinati fenomeni, ha fatto sì che non ci si rendesse conto che una spiegazione soddisfacente può venire solo dall’alto, operando a un livello concettuale. Hart ritiene che, per chiarire il fenomeno della giuridicità, occorra porsi da un punto di vista esterno e badare ai fatti. Il diritto è quel che i giuristi fanno e dicono esser tale. Si tratta di generalizzare l’esperienza. Il concetto di diritto è così ricostruito dal basso, con una rilevazione sociologica. Scarpelli ritiene che partecipino alla pratica sociale denominata diritto e non possano pertanto descriverla dall’esterno con tono distaccato, limitandosi a riportare discorsi altrui. La giuridicità dei giuristi non è materia di mere rilevazioni sociologiche; al contrario, essa è costruita dall’alto, in quanto dipende dai principi che si adottano per scegliere quali devono essere le meta-norme atte a individuare gli ordinamenti giuridici. Si può quindi supporre che, se la giuridicità si costituisce dall’alto, sistemando le categorie di cui ci serviamo, come vuole Scarpelli, e non dal basso, come pensa Hart, allora c’è una soluzione a portata di mano: ricorrere a una definizione di diritto. Una definizione di diritto è perfettamente in grado di fungere da selettore dei criteri di giuridicità. Vi sono due concezioni contrapposte di che cosa sia una definizione: la concezione realistica e quella nominalistica. La prima è sbagliata; la seconda è la prospettiva corretta. La concezione realistica è quella prospettiva secondo la quale la domanda “che cos’è il diritto?” va tradotta nella domanda “che cos’è veramente il diritto?”. Chi definisce il diritto si interroga sulla sua essenza. Questa concezione risale a Platone. Lo storico e teorico Hermann Kantorowicz dichiara: “ non sapevo che il nemico più pericoloso per la scienza è quel servo infedele e, segreto padrone del pensiero, che è il linguaggio. È pertanto un errore fondamentale ritenere che le definizioni riguardino il problema del vero o del falso uso del linguaggio. Queste sono le conseguenze di ciò che verrà qui chiamato realismo verbale”. In tal modo, si finisce col creare, quello che Jhering chiamava un cielo dei concetti, ossia un mondo immaginario popolato dalle idee e ci si illude di essere in grado di cogliere grandi verità con una pura intuizione intellettuale. Nelle trappole tese dal linguaggio ci cadono anche i giuristi esperti i quali, invece di parlare dell’uso di una parola, rispondono descrivendo le caratteristiche essenziali della cosa designata. Si giunge così alla concezione nominalistica delle definizioni che, per la filosofia analitica è l’unica accettabile. Per il nominalismo le definizioni non sono né vere né false, ma stabiliscono o riconoscono regole per l’uso delle parole. Esse sono attività metalinguistiche: hanno cioè per oggetto non le cose o situazioni di fatto, bensì espressioni linguistiche. Una definizione (diretta) non fa che ridurre l’espressione da definire, il definiendum, ad altre espressioni, dette definiens, con le quali è sostituibile, che dovrebbero essere più chiare della prima. Non si esce dall’ambito del linguaggio. L’aspetto fondamentale di questa nuova impostazione è che le definizioni stabiliscono una regola per l’uso dei termini e le regole linguistiche, al pari di tutte le altre regole, non assumono un valore di verità. Il linguaggio non è il calco di una realtà preesistente: è costituito invece da convenzioni. Le definizioni sono strumenti concettuali, mezzi per conseguire scopi. Anziché essere giudicabili per la loro verità devono valutarsi per la loro adeguatezza funzionale. Occorre domandarsi a che cosa servono, se sono utili, teoricamente opportune e feconde, idonee a realizzare certi obbiettivi. Pierino dice al professore che non può dargli un’insufficienza perché, in fondo, tutte le lingue sono convenzionali e, quindi, non c’è mai una risposta giusta. In realtà, Pierino sta facendo confusione. È convenzionale che il nostro cavallo sia reso con horse in inglese. Tuttavia, quando una definizione si è fissata nel lessico di una lingua, si può andare a controllare se la gente conosce e applica correttamente la regola che, dipendendo dalle abitudini collettive, avrebbe anche potuto essere diversa. Pierino stipulando che egli in avvenire userà un certo termine in un dato modo, non ha alcun potere di decidere per gli altri. L’art 12 delle Preleggi: se le disposizioni sono oscure, il giudice dovrà prendere decisioni discrezionali sul significato dei termini mediante ridefinizioni che ne precisino il senso in alcune direzioni. 10. Se si possa risolvere il nostro problema dando una definizione del termine diritto. Una risposta complessa. È possibile fissare i criteri della giuridicità attraverso una definizione della parola “diritto”? Se ci si professa nominalisti, bisognerà escludere che si possa trovare il vero concetto di diritto, che, cioè, la giuridicità si riduca a una categoria razionalmente evidente che solo il filosofo può scoprire. Kant provò a fare qualcosa del genere quando nella metafisica dei costumi si chiese: che cosa è il diritto? La questione originaria quindi si sdoppia. Da un lato il giurista si può accontentare di sapere che cosa appartenga al diritto, dall’altro, il filosofo andrà in cerca di criteri universali che permettano di stabilire se ciò che è prescritto è anche giusto, perciò dovrà richiamarsi alla ragione pura quale unico fondamento di ogni legislazione positiva possibile. Per la concezione nominalistica, esistono, infatti, molte possibili definizioni del termine diritto in virtù di diversi fini differenti. Glanville Williams afferma che la controversia a proposito della parola diritto è una disputa puramente verbale e quindi irrilevante e conclude: “queste polverose dispute devono durare per sempre? Sarà così, a meno che non ci decidiamo a renderci conto che le definizioni non hanno importanza di per sé. Il solo modo intelligente di trattare la definizione di una parola dai molteplici significati è di riconoscere che la definizione, se vuole essere quella del significato ordinario, deve essere essa stessa molteplice”. Basta che quando si dice: “il diritto internazionale non esiste” si spieghi bene se questa è un’affermazione di fatto o è una proposta di definizione. Abbandonato il solido terreno dell’effettività e delle pratiche sociali realmente esistenti, il diritto diventerebbe un futile gioco, come dice Hart. Qualsiasi insieme di norme meriterebbe di essere insignito con l’onorevole titolo di sistema giuridico. Così anche le più vaghe aspirazioni morali si trasformerebbero in diritto vigente. È lecito criticare l’adeguatezza delle definizioni. Una definizione assurda, incoerente, poco chiara, che non tenga conto dei fatti è del tutto inaccettabile. D’altra parte, una definizione deve essere un meccanismo che funzioni. Premesso che, per il nominalista, le definizioni sono strumenti, occorre controllare se esse sono in grado di raggiungere gli scopi dichiarati. Le definizioni, in fondo, servono a evitare le dispute verbali, non a moltiplicarle, poiché fissano il significato dei termini secondo criteri di economia e di semplicità. Mediante una definizione del termine diritto si possono dunque dare risposte interessanti al problema della giuridicità. Se non altro, tale strumento consente di evidenziare le scelte di campo retrostanti che gli addetti ai lavori preferiscono sottacere. Nulla deve restare implicito. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le definizioni non servono a chiudere i problemi. Sono solo strumenti atti a facilitare la discussione. Capitolo cinque: positivismi. 1. A proposito di validità, effettività e giustizia. Le teorie del diritto: tre capienti scatoloni. Definire è come mettere le carte in tavola. Tuttavia, le definizioni non sono auto-fondanti o autosufficienti. Nell’indagine svolta ci siamo resi conto che un ordinamento giuridico non è solo un sistema di fonti che esistono in via di fatto. In realtà, le fonti vanno identificate con qualche criterio meta-giuridico. Le tre grandi teorie o concezioni del diritto sono: il giusnaturalismo, il realismo giuridico e il positivismo giuridico. Lo studio che assume a proprio oggetto tali teorie si chiama meta-teoria. La linea che seguirò resta dunque quella di una sobria discussione teorica e meta-teorica ispirata ai criteri di essenzialità. I criteri di valutazione più noti sono tre: -ci si può domandare se la legge, o una norma da essa espressa, sia valida. La validità è l’appartenenza della norma all’ordinamento. In un ordinamento moderno si dovrà controllare se la legge che l’esprime è stata prodotta dagli organi competenti e con le procedure previste, se la norma contrasta con le norme superiori e se è stata dichiarata incostituzionale o abrogata. -possiamo chiederci se la legge è efficace. Ciò equivale a domandarci se la legge sia rispettata dai cittadini e dall’apparato statale, se sia applicata dai tribunali e se le violazioni siano punite. -è possibile che si voglia sapere se la legge è giusta. Ci si interroga se la norma risponda o meno a determinati valori superiori o a certi ideali etici. Le questioni nascono nella misura in cui le diverse concezioni del diritto rappresentano in modo differente i rapporti fra tali tipi di valutazione: -il giusnaturalismo è la teoria del diritto che riduce la validità alla giustizia; -il realismo giuridico è la teoria del diritto che riduce la validità all’efficacia; -il positivismo giuridico è la teoria del diritto secondo la quale validità, giustizia ed efficacia sono criteri di valutazione indipendenti e irriducibili l’uno all’altro. Di tutte e tre le concezioni del diritto si conoscono versioni sia conservatrici sia progressiste e, per ciò che riguarda il giusnaturalismo e il realismo, anche rivoluzionarie. I) Il giusnaturalismo è una concezione riduzionistica secondo la quale una norma non può essere giuridicamente valida se non è anche giusta. La sua forma più estrema è esemplificata da Sant’Agostino: “se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini, tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell’impunità”. Una convinzione simile si trova nel giurista Radbruch che visse l’esperienza della Germania hitleriana: “fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: un ordine è un ordine! E “la legge è la legge! Perciò il concetto di ingiustizia legale era una contraddizione in sé, quanto lo era quello di diritto sovra legale. Il conflitto fra la giustizia e la certezza del diritto potrebbe dunque essere risolto in un senso tale per cui il diritto positivo abbia la precedenza, anche quando è, nel suo contenuto ingiusto, a meno che il contrasto fra la legge positiva e la giustizia giunga a un grado tale di intolleranza che la legge, in quanto diritto ingiusto, debba arretrare di fronte alla giustizia”. Sull’immagine caricaturale del positivismo giuridico come rigido legalismo e feticismo per la legge fine a sé stessa, il giusnaturalismo non nega in alcun modo l’esistenza del diritto positivo. Mentre per il giuspositivismo c’è solo il diritto positivo, per la scuola del diritto naturale la giuridicità si dispone sue due livelli: il piano delle leggi positive e quello del diritto ideale. Il modello giusnaturalista non implica che ogni dissonanza fra il diritto positivo e gli ideali superiori dia luogo automaticamente all’invalidazione del diritto ingiusto. Ciò dovrebbe accadere solo nei casi più drammatici. Non ogni ingiustizia causa l’inesistenza giuridica delle norme. Nella versione conservatrice del giusnaturalismo accade che la conformità del diritto positivo agli ideali di giustizia provvisoriamente si presuma fino a un’improbabile prova contraria. In tal modo, si finisce col dare alle norme vigenti, allo status quo e all’esercizio del potere un’aprioristica legittimazione morale, che altrimenti mancherebbe loro. Spesso l’appello al diritto naturale serve a far valere con la forza una determinata ideologia politica o una data morale religiosa, i cui valori sono considerati veri o assoluti. Di fatto i criteri di giustizia differiscono in modo notevole al variare delle situazioni storiche, delle latitudini e delle singole persone. La tesi che si sia in grado di conoscere i valori morali, il c.d. cognitivismo etico, si rivela assai debole. II) veniamo ora al realismo giuridico. Secondo questa concezione, l’unico diritto valido, o meglio esistente, è quello che sussiste in via di fatto: è il diritto efficace, che è rispettato dai cittadine e che erge dalle decisioni e dalle prassi delle pubbliche autorità, in particolare dei tribunali. I realisti si sforzano di eliminare dal loro vocabolario i concetti di tipo normativo, considerandoli ideologici e inadeguati a un’indagine che voglia dirsi scientifica. Axel Hagerstrom, caposcuola del realismo scandinavo, riteneva che si dovesse ripulire la giurisprudenza dall’armamentario metafisico di cui solitamente faceva uso. Questa concezione emerge anche nel suo allievo Karl Olivecrona, il quale scrisse: “ciò che sta alle origini di tali discorsi nebulosi sulla relazione del sovrannaturale del dover essere è soltanto un’espressione verbale connessa a certe emozioni. La parola dovere è usata per influenzare il comportamento degli uomini. È puro nonsenso sostenere che esse denotano una qualsiasi realtà: la loro unica funzione è quella di agire sugli animi degli individui spingendoli a fare o non fare una certa azione, e non già quella di comunicare delle informazioni. Le norme vengono raffigurate come espressioni della volontà dello stato il quale però, correttamente inteso, non può emettere dei comandi; solo se lo si concepisce in senso metafisico, come un vero e proprio dio in terra, può essere considerato come un’entità che comanda o che esprime il suo volere attraverso le norme. Ma tutto questo non è altro che puro misticismo. L’organizzazione che detiene la forza, cioè l’organizzazione statale, è composta per la maggior parte da uomini addestrati ad eseguire automaticamente le leggi, senza permettere alle loro opinioni personali di interferire. Per mezzo delle varie leggi si fa in modo che gli uomini tengano a freno gli elementi pericolosi, mantengano una certa divisione della proprietà, si curino dei vecchi e degli ammalati, educhino la gioventù e così via. Tutte queste attività, indispensabili per la vita civile, sono rese possibili dall’atteggiamento della popolazione nei cfr. della costituzione. Tale atteggiamento funziona come un’immensa sorgente di potere per la macchina legislativa, mettendo in grado coloro che occupano le posizioni chiave di governare il paese”. L’idea è che il linguaggio giuridico non ha una portata conoscitiva, ma solo un impatto emotivo sfruttando l’attitudine all’obbedienza dei soggetti cui si rivolge. I realisti hanno la pretesa di scoprire i rapporti di potere effettivi. Jerome Frank sostenne che la certezza del diritto è un mito. La generalità e l’astrattezza delle norme giuridiche è ritenuta puramente illusoria. Le norme sono al servizio dell’ideologia, non della scienza. A differenza dell’ingiustizia, l’inefficacia è in qualche misura obbiettivamente accertabile; i realisti vengono messi in difficoltà dalla stessa radicalità della loro contestazione nei cfr. della giurisprudenza ufficiale. I giuristi, i giudici sono influenzati dalle loro preferenze ideologiche . È evidente che in ogni sistema giuridico vi sono problemi di incertezza e di trasparenza che sono del tutto fisiologici. Il realista afferma che il linguaggio normativo in quanto tale è vuoto nonsenso. Che esso serve sempre e solo a mascherare gli effettivi processi decisionali. L’inganno investe l’intera pratica sociale dei giuristi. Parlare di regole, norme, obblighi, diritti e doveri è sviante. I vincoli giuridici sono legami puramente immaginari. Questa tesi non sta assolutamente in piedi. Il problema non è tanto se a volte la partita è truccata, ma senza tali termini non c’è partita e non ci sono neppure dei giocatori: ci sono solo atti privi di significato. Queste obbiezioni si rivolgono soprattutto alle versioni estreme del realismo. III) il positivismo giuridico si allontana dalle altre concezioni perché non è riduzionista. Tale approccio desidera mantenere rigorosamente distinti i tre criteri valutativi. Il filosofo del diritto positivista, dunque, tiene separate le questioni de iure condito da quelle de iure condendo, il diritto vigente dai progetti di riforma, il diritto dalla morale. Ciò non significa che si debba disinteressare delle ricerche deontologiche, relative all’una o all’altra idea di giustizia. Il moderno positivista non crede che il diritto sia necessariamente certo o efficace, anzi ammette che questi problemi vadano indagati empiricamente. Tuttavia, accertato che una norma valida è inefficace, ritiene che tale norma vada ugualmente applicata, finché resta in vigore o debba essere abrogata in modo aperto. Il positivismo si rende conto con chiarezza che i tre valori assegnabili alle norme vanno collocati su piani nettamente diversi. La giustizia è un valore soggettivo, nel senso che, per i non-cognitivisti le idee di giustizia possono mutare da individuo a individuo. La validità è un valore intersoggettivo, nel senso che, i giuristi utilizzano tecniche che li mettono in grado di stabilire una convergenza nel giudizio dei diversi individui su quali siano le norme valide. L’efficacia è un valore tendenzialmente oggettivo, nel senso che comporta, seppure con molte cautele e complessità, l’accertamento di una situazione di fatto. 2. Qualche tentativo di classificazione all’interno del positivismo giuridico. Il giuspositivismo si è sviluppato con numerose varianti. Hart polemizza con Fuller sulla separazione tra diritto e morale: “può essere utile individuare cinque significati del termine positivismo: 1. la tesi che le leggi sono comandi provenienti da esseri umani; 2. la tesi che non vi è una connessione necessaria tra diritto e morale, ossia tra il diritto com’è e il diritto come deve essere; 3. la tesi che l’analisi dei concetti giuridici è a) un valido oggetto di ricerca b) da tenere distinto dalle indagini storiche sulle cause o sulla genesi delle leggi, dalle indagini sociologiche e gli altri fenomeni sociale; 4. la tesi che un sistema giuridico è un sistema logico chiuso, in cui si possono dedurre in modo logico le decisioni giuridicamente corrette muovendo da premesse costituite da sole norme giuridiche, senza far rif. a scopi sociali, a indirizzi politici o a standard morali; 5. e la tesi che i giudizi morali non possono essere fondati o difesi da argomenti, prove fattuali o dimostrazione d’ordine razionale (non-cognitivismo etico)”. Hart parte col piede sbagliato. Il primo punto, infatti, indica il positivismo giuridico con l’imperativismo. L’idea che tutte le norme coattive siano ordini coattivi. Per il positivismo tutto il diritto è diritto posto o comunque riconducibile ad atti o fatti dell’uomo. Secondo il positivismo, il diritto è esclusivamente una creazione storica o artificiale. Si nega l’esistenza di un diritto eterno, universale e incorruttibile, che valga per tutti gli uomini. Ciò non significa, però, che la morale abbia uno status differente dal diritto. Credo che il non-cognitivismo etico sia condivisibile, tuttavia trovo inopportuna la sua presenza nell’elenco delle tesi tipicamente positiviste. Il quarto punto è un relitto di altri tempi. Il vecchio positivismo, infatti, sosteneva contro ogni evidenza che il ragionamento giuridico fosse costituito da una catena di sillogismi, senza alcuno spazio per compiere scelte discrezionali. Sul terzo punto la tesi ivi sostenuta rivendica l’autonomia degli studi giuridici dalle ricerche sociologiche, dalle ideologie politiche e dalle preoccupazioni morali. Il secondo punto è il più importante. Certo, le convinzioni etiche influiscono sulle leggi e sulla loro applicazione; ma tra diritto e morale non c’è, né deve esservi, alcuna connessione necessaria: tali campi vanno distinti. Discuteremo se la separazione tra il diritto e la morale presupponga, come vuole Hart, una scienza del diritto ideologicamente neutrale. Più sistematica dell’elencazione di Hart, è la classificazione delle tesi positivistiche di Bobbio il quale ritiene che: “ il positivismo mostra tre aspetti diversi con cui esso si è storicamente presentato: -come un modo di avvicinarsi allo studio del diritto; -come una determinata teoria o concezione del diritto; -come una determinata ideologia della giustizia”. Questi tre filoni sono indipendenti l’uno dall’altro. La prima accezione è quella del positivismo giuridico come metodo: “è un modo di intendere lo studio scientifico del diritto, e quindi il compito del giurista. Scopo della scienza del diritto è di considerare il diritto qual è e non quale dovrebbe essere. Alla base di questa teoria della scienza giuridica sta l’assunzione di una netta separazione tra la validità e valore del diritto, a cui si è giunti attraverso la considerazione del diritto come mero fatto storico, e quindi prescindendo da ogni legittimazione etica. In questa prima accezione di positivismo giuridico positivista è colui che assume di fronte al diritto un atteggiamento avalutativo, o oggettivo, o eticamente neutrale, cioè che assume a criterio per distinguere una regola giuridica da una non giuridica la derivazione da fatti accertabili. La seconda accezione è quella del positivismo giuridico come teoria: “è a questo secondo aspetto del positivismo giuridico, cioè alla concezione statalistica del diritto, che sono connesse alcune note teoriche che vengono di solito considerate come caratteristiche del positivismo giuridico: 1)riguardo alla definizione del diritto, la teoria della coattività; 2)riguardo alla definizione di norma giuridica, la teoria imperativistica, secondo cui le norme giuridiche sono comandi; 3)riguardo alle fonti del diritto, la supremazia della legge sulle altre fonti; 4)riguardo all’ordinamento giuridico nel suo complesso, il carattere della completezza o mancanza di lacune e anche quello della coerenza o mancanza di antinomie; 5)riguardo al metodo della scienza giuridica e dell’interpretazione, la considerazione dell’attività del giurista e del giudice come attività essenzialmente logica”. La terza accezione è quella del positivismo giuridico come ideologia; è la visione che esprime l’obbedienza incondizionata alle leggi valide: “ questa attribuzione di un valore positivo al diritto esistente avviene di solito attraverso due tipi diversi di argomentazione: 1) il diritto positivo, per il solo fatto di essere positivo cioè di essere l’emanazione di una volontà dominante, è giusto; 2)il diritto serve indipendentemente dal valore morale delle sue regole, al raggiungimento di certi fini desiderabili, come l’ordine, la pace, la certezza e in generale la giustizia legale. L’obbedienza delle norme giuridiche è un dovere morale, intendendosi per dovere morale un’obbligazione interna o in coscienza”. Il positivismo ideologico è un deprecabile legalismo che sfocia in atteggiamenti di statolatria e di cieco ossequio alle autorità costituite in quanto tali. Idee come queste furono di grande aiuto al regime hitleriano, che se ne servì per vincere ogni accenno di resistenza e di critica. Occorre capire bene che cosa non va nel positivismo ideologico. Questa concezione si presta a una rappresentazione caricaturale del positivismo giuridico perché porta un dato punto di vista sino alle sue estreme conseguenze. L’obbedienza o c’è o non c’è e se c’è deve essere assoluta. Mentre il giusnaturalismo riduce la validità alla giustizia, qui si verifica la riduzione opposta: la giustizia viene ridotta alla validità. È annullata la libertà di ciascun individuo di dichiarare in coscienza quali azioni egli ritenga giuste e quali ingiuste. Viene meno la possibilità della critica, nonostante Bentham, uno dei padri fondatori del positivismo, insistesse sul precetto (obbedier puntualmente, criticare liberamente). Oggi quel precetto è diventato più complicato a causa della presenza di numerose leggi che sono in contrasto con la costituzione: non è per nulla detto che si debba scegliere fra una totale obbedienza e una totale disobbedienza alle leggi vigenti. Dal positivismo come complesso di teorie il bilancio che Bobbio trae dal suo panorama teorico non potrebbe essere maggiormente fallimentare. Abbiamo la sensazione di aggirarci in un cumulo di macerie. Nessuno più pensa che il diritto sia costituito unicamente da leggi statali. Che cosa è andato storto nel positivismo che Bobbio denomina teorico? La cosa peggiore è stata che la completezza e la certezza del diritto non fossero trattate come problemi da risolvere, bensì come soluzioni definitive acquisite, come dogmi inconfutabili. Il positivismo ottocentesco dava la risposta sbagliata a un’esigenza profondamente giusta: quella di giungere a una semplificazione delle fonti e rendere il giudizio sulla validità delle norme maggiormente suscettibile di controllo intersoggettivo. Secondo il positivismo metodologico, il diritto va studiato come un fatto e non come un valore. Per Bobbio affermare che una norma è valida equivale ad asserire che essa fa parte di un ordinamento giuridico reale, effettivamente esistente in una data società. In altri termini, egli sta pensando ad un accertamento in ultima analisi di carattere empirico che consenta di tracciare la distinzione tra diritto valido e morale. È evidente che la sintonia tra questo studioso e il pensiero di Hart, per il quale queste due sfere sono separabili in relazione alla possibilità di conoscere le norme giuridiche con criteri positivi, in un modo indipendente dalle nostre convinzioni morali. Qui però sorge una grave difficoltà. Come notava Scarpelli altro è affermare che un sistema di norme è effettivo, altro è assumerlo in proprio come guida dei comportamenti. È vero che il giuspositivismo aggancia la validità, o almeno la vigenza, a determinati fatti e atti. Ma questi sono soltanto i criteri della validità, stabiliti da ciascun ordinamento; resta poco chiaro che cosa implichi per noi dire che valgono determinate norme. Nessuno è assolutamente in grado di stabilire in modo avalutativo quali siano le norme che si devono applicare. Non ha senso parlare di una naturale separatezza del diritto dalla morale, poiché entrambi i fenomeni sono creazioni umane; bisognerebbe dire che il diritto viene separato dalla morale, a cui era originariamente unito. Tale separazione ha luogo mediante un uso intenso di tecniche formalistiche e in virtù di un’organizzazione istituzionale di crescente complessità. Il formalismo consiste nel prendere decisioni rinunciando a esprimere il nostro libero apprezzamento sui fatti cui le decisioni stesse si riferiscono. Le tecniche formalistiche impiegate dal diritto vanno dalla scrittura, dall’autorità, dalla incontestabilità delle decisioni, dalla rilevanza o irrilevanza legale di determinati fatti fino ad arrivare alla gerarchia delle fonti, alla codificazione e alle regole sui metodi interpretativi consentiti. Proprio per mezzo di questi scomodi formalismi, che poi sono quelli il cui uso è caldeggiato dal positivismo teorico, la validità giuridica si trasforma da un giudizio personale in un valore sempre più intersoggettivo. Il formalismo dell’ideologia positivistica ora si capovolge completamente e non serve a stabilire che cosa sia giusto. Tale compito resta affidato alla coscienza dei singoli. Il positivismo aggiornato si guarda bene dall’affermare che tutte le norme valide sono giuste. 3. Questioni di metaetica. Uno dei principali problemi del giusnaturalismo è la sua pretesa di conoscere i valori etici, di ricavare dai fatti principi incontrovertibili relativi a ciò che è giusto. Ulpiano, giureconsulto romano del II sec., affermava: “diritto naturale è ciò che la natura ha insegnato a tutti gli animali”. Sono espressioni singolari, che mescolano l’istinto con le istituzioni. Da una simile visione normativa della natura vien fuori un variopinto bazar di concezioni che si disputano fieramente il campo; esse una cosa in comune ce l’hanno: che tutte si presentano come la vera morale o la vera giustizia. Siamo cioè di fronte a concezioni oggettivistiche dell’etica. È il cognitivismo etico. La filosofia analitica è non-cognitivista. Ritiene che occorra distinguere nettamente tra le scelte morali e gli asserti verificabili sui fatti. Per tale ragione, la tesi sostenuta dagli analitici è chiamata Grande divisione tra essere e dover essere, tra enunciati descrittivi ed enunciati che prescrivono o valutano. I giusnaturalisti nelle loro dimostrazioni passano spesso dall’essere al dover essere come nell’es. dei pesci di Spinoza: “i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono i padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. Ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. In questo passo il filosofo sta descrivendo un mondo anteriore alle leggi civili, allo stato, dove conta solo la potenza. Per quel filosofo la potenza della natura è la potenza stessa di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa. Scarpelli muove un’obiezione analitica: “un simile modo di procedere va contro il principio linguistico e logico detto legge di Hume. Fra le proposizioni descrittive di caratteri stati, vicende, rapporti di cose e le proposizioni normative c’è un salto logico: come da premesse normative non è consentito dedurre conclusioni descrittive, così non è consentito il contrario. Può sembrare però che in una dottrina giusnaturalistica il passaggio dalle proposizioni descrittive alle proposizioni normative sia logicamente consistente: un attendo scrutinio però, rivela che in siffatti casi un elemento normativo è già nascosto nelle premesse. Il diritto naturale, in breve, porta dentro di sé un irrimediabile vizio logico”. Il salto logico di Hume è usato per attaccare il giusnaturalismo, ma, neppure le tesi del positivismo metodologico sono risparmiate da questo genere di critiche: fallacia naturalistica. Perché il gelato alla fragola della gelateria ecologica è buono? La risposta si articola in una serie di affermazioni verificabili. Ma siamo proprio sicuri che la bontà del gelato di quel tipo sia riducibile ad un simile elenco, che possa essere definita solo in termini fattuali senza aggiungere nulla? C’è da dubitarne. Il punto è che possiamo benissimo essere d’accordo sui fatti, ma poi trarne conseguenze diverse sul piano valutativo. A chi ci dimostrasse in modo inconfutabile che la pena di morte riduce veramente il tasso di criminalità, saremmo sempre in grado di obbiettare che quella pena, anche se efficace, resta contraria al più elementare senso di umanità e non è altro che un assassinio di stato. La mamma rimprovera Pierino: “Pierino, comportati normalmente! Non dare martellate sulle dita a tua sorella! Pierino chiede con un fare innocente: “perché non si possono dare martellate sulle dita?”. E la mamma, fuori dai gangheri, risponde: “ ma insomma, non si possono dare perché le martellate fanno male. Ecco perché!”. La povera donna ha ingiunto al figlio di comportarsi normalmente. Forse nella normalità c’è anche un’idea normativa, tant’è che la mamma in quella stessa situazione avrebbe potuto dire al figlio di comportarsi come si deve. D’altra parte, che le martellate causino dolore è generalmente vero, salvo qualche raro caso di insensibilità patologica; ma da tale asserzione fattuale non si può trarre immediatamente la conclusione prescrittiva: vi è un salto logico. Il rimprovero della mamma è solitamente interpretato come un’argomentazione in cui compare una premessa normativa tacita che è inutile rendere esplicita. I logici, in casi come questo, parlano di entitema, cioè di un sillogismo incompleto in cui manca o resta sottointesa una delle due premesse. Il buon senso ci porta a pensare che la sventurata genitrice non intenda dire: “queste azioni causano dolore, quindi sono moralmente riprovevoli”; la frase appena enunciata appare una scorciatoia per dire qualcosa di più complesso ossia: -premessa maggiore normativa: (tutti gli atti che causano dolore sono moralmente riprovevoli); -premessa minore fattuale: prendere la gente a martellate è un atto che causa dolore; -conclusione normativa: prendere la gente a martellate è un atto moralmente riprovevole. Tra parentesi vi è la premessa implicita con cui integriamo il discorso della madre. Ad ogni modo, anche i paradossi ci fanno capire che i fatti, di per sé, non ci impongono nulla, perché siamo liberi di atteggiarci come ci pare nei cfr. dei fatti. In ogni caso, vi sono molte ipotesi in cui comportamenti che causano dolore sono consentiti su piano giuridico o su quello morale. Es. l’esercizio del pugilato, purché i contendenti si comportino secondo lealtà e siano rispettate le regole sportive. Gli studiosi di diritto penale e la giurisprudenza parlano di una causa di giustificazione non codificata. Analoghi problemi sorgono per un intervento chirurgico, talvolta gravemente invalidante pur salvando la vita. La stessa liceità morale e giuridica è del tutto fuori discussione, salvo che non manchi il consenso informato del paziente, poiché, l’art. 32, 2 cost.; dice “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Oggi, del resto, si fa un gran parlare delle mutilazioni genitali femminili, proibite dalla legge 9 gennaio 2006 n. 7 ove si punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagioni tali mutilazioni. Nell’ipotesi in cui la mamma di Pierino, spazientita, gli dà un meritato scapaccione: le diverse teorie educative rispondono in modo differente alla domanda se sia bene infliggere ai figli punizioni corporali, purché lievi. La mamma, se vive in Italia, dovrà procurarsi un buon avvocato. Infatti, secondo la sent. Cass. Sez. V pen., 18 gennaio 2010 n. 10 afferma: “anche un solo schiaffo è stato ritenuto come abuso di mezzi di correzione”. Resta poi sempre in agguato l’ipotesi di percosse. Dunque non appena si scopre la premessa normativa implicita, viene svelata un’insospettata complessità. La tesi che tra essere e dover essere c’è un salto logico è stata usata per criticare il giusnaturalismo, che pensa di poter conoscere i veri valori, cadendo nella c.d. fallacia naturalistica. Uno dei casi più esemplari di violazione della legge di Hume è il passo del vangelo giovanneo che proclama: “conoscere la verità, e la verità vi farà liberi”. Questa fallacia naturalistica non riguarda il contenuto delle particolari conclusioni che si vogliono sostenere, bensì riguarda il modo in cui tali conclusioni sono state sostenute. Siamo nel campo della meta-etica, non dell’etica. Le norme sono valide perché appartengono a un ordinamento effettivo rappresenta l’aspetto centrale del positivismo metodologico di Bobbio e Hart, criticato da Scarpelli. 4. Che cosa resta della scienza giuridica. Scelte controllabili. La tesi in discussione è quella che riconduce la validità delle norme alla loro appartenenza ad un ordinamento effettivamente esistente. Non mi sembra salda l’idea, del positivismo ideologico, che sia sufficiente un accertamento di carattere empirico per distinguere il diritto qual è dal diritto quale deve essere. La tesi ora contestata è stata espressa dal giurista danese Alf Ross il quale afferma di voler dimostrare che: “il punto cruciale della controversia non ha nulla a che fare con il positivismo giuridico correttamente inteso, ma si inquadra in realtà in una controversia tra due diverse scuole giusnaturalistiche. Il positivismo antimetafisico di Ross nega che i principi o i giudizi etici siano espressione di una verità. La seconda fondamentale tesi del positivismo giuridico rientra nella teoria o nella metodologia della scienza del diritto. Essa afferma che è possibile accertare l’esistenza del diritto di un certo paese e in una certa epoca e descriverne il contenuto in termini puramente fattuali, empirici, basati sull’osservazione e sull’interpretazione di fatti sociali. Ciò interessa in particolare il concetto di validità, esso non ha alcun posto né alcuna funzione nella teoria del diritto. La validità è un’idea a priori, non riconducibile a termini empirici definiti da fatti osservabili. Affermare l’esistenza di una regola o di un sistema di regole equivale ad affermare l’iterazione di un complesso di fatti sociali, comprendendovi anche le condizioni psicologiche del soggetto. Questa idea, caratteristica del giusnaturalismo e del pensiero quasi-positivista, non ha alcun posto in una teoria del diritto che sia basata su principi empirici. La validità in senso normativo non ha una funzione di descrizione e di spiegazione della realtà. La sua funzione consiste nel rafforzare l’ordinamento giuridico proclamando che gli obblighi da questo stabiliti non sono meri obblighi giuridici, sostenuti da sanzioni, ma anche doveri morali. Il concetto normativo di validità è, insomma, lo strumento di un’ideologia che sorregge l’autorità dello stato”. Ross ha la capacità di recuperare, e di analizzare con estrema sottigliezza, i concetti normativi, da lui considerati in definitiva quali concetti psicologici. Ross si muove nel solco della Grande Divisione fra essere e dover essere ed è un filosofo divisionista. Le accuse colpiscono in primo luogo il positivismo ideologico che egli irride denominandolo quasi-positivismo. Lo chiamano positivismo ma, di giusnaturalismo si tratta. Da tali critiche è colpito persino Kelsen, colpevole di aver elevato le norme giuridiche a schemi qualificativi che danno agli atti un significato oggettivo e di aver trasformato la validità in un valore oggettivo garantito aprioristicamente dalla norma fondamentale. Per Hart e Bobbio solo i criteri ultimi della giuridicità di un ordinamento siano agganciati all’effettività: per loro una norma giuridica può essere inefficace, senza perdere la sua validità; ma l’ordinamento nel suo complesso, per potersi dire giuridico, deve essere, in una certa misura, effettivo. Ross, invece, essendo realista, non è disposto ad affermare che una norma appartiene all’ordinamento giuridico se non risulta che questa è anche efficace. L’affermazione delle validità non comporta di per sé alcun obbligo morale. Si deve essere in grado di asserire che determinate leggi costituiscono diritto valido e nello stesso tempo essere moralmente liberi non solo di criticare quelle leggi, ma anche di violarle. Il positivismo da anni ormai non è più la filosofia dell’obbedienza incondizionata. Ora vi è un problema diverso, quello della possibilità di una scienza del diritto. Che un approccio avalutativo al fenomeno giuridico si possa dare non lo pensa solo Ross, ma lo pensano anche gli esponenti del positivismo metodologico, Bobbio e Hart. Bobbio infatti ritiene che la caratteristica dell’ordinamento scientifico nello studio dei fatti morali sia rappresentata come astensione da ogni presa di posizione di fronte alla realtà osservata (neutralità etica). Prendiamo una questione facile: in Italia c’è la pena di morte? La risposta corretta è no. Chiunque potrebbe andare a controllare. Cosa significa controllare? Si guarda forse se la disposizione è efficace? Si risale fino a una norma di riconoscimento? In realtà no. L’esperto normalmente si limita a consultare certi testi ufficiali. Quando si dice che un dato ordinamento è effettivo, non si va molto oltre il senso comune; ci si accontenta di una vaga consapevolezza che vi sono tribunali funzionanti, che c’è un posto dove si fanno le leggi e che le azioni contro la legge sono punite. Normalmente certe questioni non si pongono, anzi è opportuno metterle tra parentesi. Altrimenti il giurista si comporterebbe come quel medico che, senza alcuna necessità, prescrive a pioggia al paziente gli esami più strani e invasivi. Però, deve essere parimenti chiaro che i problemi di solito trascurati potrebbero, in talune circostanze, anche sorgere. Non è impossibile che ciò accada. Es. supponiamo che la legge costituzionale del 2007, invece di rendere assoluto il divieto della pena capitale, avesse ampliato le ipotesi in cui tale condanna era ammissibile. La dottrina costituzionalistica tende a porre parecchi limiti impliciti al potere di revisione. È noto che nel nostro ordinamento vi sono parecchie leggi vigenti che potrebbero essere dichiarate invalide dalla Carta costituzionale. E il giudizio dell’illegittimità costituzionale in molti casi non è per nulla ovvio. D’altra parte, ogni sistema giuridico è aperto verso l’alto: per stabilire i criteri ultimi di validità, occorre uscire dal sistema. Di conseguenza, sullo sfondo vi sono numerosi problemi di legittimità, d’identità, di continuità e di confini dell’intero ordinamento. I giuristi risolvono tali questioni una alla volta, ma mano che si presentano elaborando una dottrina delle fonti che sarà necessariamente incompleta. L’importante è che vi sia qualcuno che decida. Nel caso di lacuna da un lato, non si può sperare di trovare il tassello mancante con ricerche più accurate; dall’altro, il giurista non può semplicemente dare atto del silenzio o dell’oscurità della legge. Lo studioso resta coinvolto in scelte valutative di vasto raggio: il diritto è fondamentalmente poroso e ammette numerose decisioni contrastanti. La discrezionalità dei tribunali non è un elemento accidentale, o patologico, ma dipende dallo stesso linguaggio normativo e dalle forme di vita sottostanti: si opera sempre all’interno di una cornice compromessa con i valori. Più che di una scienza oggettiva è il caso di parlare di indagini che giungono, non sempre, a soluzioni intersoggettive, condivise da tutti gli addetti ai lavori. Occorre rendersi contro che la possibilità di dare risposte controllabili varia d’intensità secondo i sistemi giuridici presi in esame. Essa è particolarmente elevata nei diritti moderni caratterizzati dalla forte presenza di tecniche formalistiche. 5. Metodo giuridico e legittimazione politica. Un dialogo di Platone, l’Eutifrone, racconta che Socrate, accusato di empietà, incontra davanti al tribunale un sacerdote, di nome Eutifrone, venuto a denunciare il padre per aver ucciso uno schiavo e Socrate chiede lui: “che cos’è il santo?”. La religione greca aveva una forte valenza politica e civile. Dunque la pietà religiosa era parente stretta della giustizia. Eutifrone cerca di rispondere affermando che “hostion” è ciò che è caro agli dei, ma vi è un dilemma: “ il santo viene amato dagli dei in quanto è santo, o in quanto viene amato dagli dei è santo?” La questione era particolarmente complicata ai tempi di Socrate, perché gli dei del pantheon greco erano assai litigiosi. Si trova un commento di Ludqig Wittgenstein, il quale, parlando sui problemi di etica di Schlick, osserva: “ secondo Schlick nell’etica teologica si danno due concezioni della natura del bene: secondo l’interpretazione più piana, il bene è bene perché dio lo vuole; secondo l’interpretazione più profonda, dio vuole il bene perché è bene. Credo che la prima concezione sia la più profonda: bene è quel che dio comanda. Essa infatti taglia la strada a qualsiasi spiegazione del perché sia bene, mentre proprio la seconda concezione è quella piatta e razionalistica che fa come se si potesse ancora motivare quel che è bene”. È una questione delicata. Personalmente sposo un’etica basata sull’autonomia del giudizio umano e vedo con sospetto qualsiasi appello ai precetti divini. Premesso che il dilemma è un interrogativo cui si possono dare due risposte (i due corni del dilemma) entrambe inadeguate. Primo corno: un comportamento è comandato dall’autorità perché è giusto? Secondo corno: un comportamento è giusto perché è comandato dall’autorità? I giuristi sono di fronte a un’alternativa fra la volontà e la ragione, fra ciò che prescrive il principe dall’alto della sua autorità e le opinioni su ciò che è giusto cui si perviene attraverso un libero esame. La prima tesi (è comandato perché è giusto) proviene dal giusnaturalismo, con la sua pretesa di ridurre la validità alla giustizia. La seconda tesi (è giusto perché è comandato) caratterizza il positivismo ideologico e il legalismo che praticano la riduzione opposta, risolvendo la giustizia nell’obbedienza incondizionata alle norme giuridiche valide. L’unica concezione del diritto accettabile è un positivismo anti riduzionista, che mantiene rigorosamente distinti validità, giustizia ed efficacia. Kelsen per uscire da questo dilemma esprime un’opinione netta. Parlando dei rapporti fra diritto e morale, egli dice: “ chi considera il diritto come un sistema di norme valide non deve tener conto della morale; e chi considera la morale come un sistema di norme valide non deve tener contro del diritto. Ma in questo modo di afferma soltanto che non esiste alcun punto di vista dal quale il diritto e la morale possano essere considerati contemporaneamente validi ordinamenti giuridici normativi. Non si possono servire due padroni”. Questa spiegazione non fa altro che ribadire le difficoltà che abbiamo incontrato. L’alternativa che si apre è tra due possibilità estreme: ritenere giustificate senza discutere tutte le norme che promanano da un’autorità riconosciuta, o ritenere che il diritto, per essere valido, debba conformarsi ai precetti di una determinata morale. Per uscire da tale tunnel pare vadano sostenute contemporaneamente due tesi: -il diritto, per essere conoscibile, ossia controllabile intersoggettivamente, deve separarsi dalla morale; -è la morale stessa che separa il diritto dalla morale e, comunque, in caso di conflitto fra questi due ordini, la decisione ultima spetta alla morale dei singoli individui. Supponiamo di avere un diritto consuetudinario, senza giudici o tribunali. In un caso simile ciascuno si comporterebbe come gli pare giusto, secondo le proprie valutazioni personali. Nell’ipotesi limite e assai improbabile in cui non siano utilizzate tecniche formalistiche per deliberare e far rispettare le decisioni e faccia difetto un minimo di istituzionalizzazione, ossia non vi sia davanti agli occhi di tutti una macchina che funzioni, diviene assai problematico parlare di diritto. Una definizione di diritto che omettesse di considerare che il diritto è una pratica necessariamente collettiva sarebbe inadeguata. Se viene meno una convergenza di fatto, non è giustificato parlare di diritto. Questa convergenza di fatto è calibrabile con diversa intensità secondo i vari sistemi giuridici concreti. La certezza del diritto e la controllabilità intersoggettiva del diritto vigente, lungi dall’essere una caratteristica obbiettiva di un sistema giuridico, una sorta di dato, è qualcosa di voluto, di costruito artificialmente. Tutto dipende da quello che si può chiamare il tasso di garantismo di un dato ordinamento giuridico; ma il formalismo non è mai completamente eliminabile dal diritto. Affinché il sistema sia in qualche misura controllabile, occorre che la morale individuale arretri, faccia un passo indietro, come dice Scarpelli: “è inerente al positivismo giuridico una scelta politica, ma la scelta politica è scelta del diritto positivo identificato attraverso le sue caratteristiche formali, è scelta di una scienza e di una pratica del diritto che, una volta accettato il diritto positivo, lo studino e lo applichino fedelmente prescindendo da ogni giudizio di valore sul suo contenuto, con la scelta generale di rinunciare alle scelte particolari. I giudizi interni ad un sistema di diritto positivo si distinguono dai giudizi di valore sul sistema. È la morale, in una parola, che separa il diritto dalla morale”. Per il positivista, con la parola diritto si designa una pratica sociale normativa che si distingue dalla morale in virtù di un certo grado, più o meno intenso, di organizzazione istituzionale connesso all’uso di tecniche formalistiche. L’aspetto filosoficamente importante è che il formalismo è il coltello che separa il diritto dalla morale. La morale arretra di fronte alla legge, ma non lo fa per uno spirito di cieca obbedienza. Lo fa per ragioni morali, che, in determinate ipotesi, potrebbero anche venir meno. Si paga un prezzo sul terreno morale, ma occorre, sempre sul piano etico, valga la pena pagarlo. Si tratta dunque di un conformismo moralmente ragionevole, revocabile e condizionato. Non sussiste un obbligo morale assoluto di obbedire alla legge. Non credo spetti al giurista fornire una legittimazione politica del sistema giuridico, anche perché su tali questioni ognuno di noi ha idee piuttosto divergenti. Da un minimo di controllabilità nel passaggio da un soggetto all’altro, invece, il metodo giuridico non può mai prescindere, altrimenti svanisce l’oggetto stesso del sapere dei giuristi. Gli agenti morali autonomi sono liberi di prendere la posizione che a loro sembri più appropriata. La validità giuridica non comporta un obbligo morale all’obbedienza. Ognuno può decidere di seguire regole che reputi ingiuste, ma cui si piega perché sono state approvate democraticamente. Non c’è contraddizione. Non vale né il cieco legalismo né il giusnaturalismo. E questo per una ragione elementare: in un mondo in cui vige una varietà di sistemi normativi e di criteri di giudizio, non possiamo sperare di trovare un’unificazione di tutti i valori etici e giuridici in un supersistema. La soluzione di conflitti fra norme appartenenti ai sistemi giuridici e a quelli morali non può trovarsi altro che nella coscienza dei singoli individui che decidono. Per quel che riguarda poi l’esistenza del diritto, ci si accontenta che le condotte convergano in via di fatto. Basta che sussista un consenso per sovrapposizione, che cioè, nonostante i disaccordi politici, filosofici e giuridici, si mettano in atto le condizioni concrete che rendano possibile la continuazione di questa pratica. I formalismi sono usati per rovesciare l’ideologia legalistica, non per rafforzarla. Essi sono tesi ad aumentare le possibilità di controllo delle operazioni che sono compiute dai giuristi. Queste tecniche servono a tenere a tenere distinto il foro esterno del diritto dal foro interno della coscienza. L’effettività dell’ordinamento è un mero fatto da cui non si traggono direttamente conseguenze morali o giuridiche. L’uomo di legge vive nel mondo e tiene conto dell’esperienza, valutandola. Ecco perché, con un pizzico di polemica, parlerei di positivismo antideologico. 31