Le solite sciocchezze di Ivy
Jonathan Coe
Quando uscii dalla chiesa e m’incamminai sui ciottoli del viale che
conduceva nel punto in cui erano stati sepolti i miei nonni, notai che Gill
era ancora ferma davanti alla loro lapide e fissava il camposanto con una
strana espressione gelida negli occhi.
Era un mattino grigio e ventoso, l’antivigilia del Venerdì Santo. Il vento
che soffiava con raffiche violente e imprevedibili portava con sé il rumore
del traffico proveniente dalla distante M54 e aveva già rovesciato la corona
di fiori che avevamo appena deposto. M’inginocchiai e la raddrizzai.
«E ora?», dissi, «andiamo a casa?».
Non rispose. Si voltò verso di me aggrottando le sopracciglia e
sembrava sul punto di chiedermi qualcosa quando un rumore alle nostre
spalle la spinse a guardarsi attorno nervosamente. Era il cancelletto del
camposanto che il vento apriva e chiudeva a intermittenza.
«C’è stato qualcun altro qui?», mi chiese, «oltre a noi due, voglio dire.
Hai visto qualcuno?»
Feci cenno di no col capo. Eravamo arrivati in paese solo da mezz’ora e
l’avevamo trovato vuoto e insonnolito. Mia sorella si strinse forte nel
cappotto e cominciò a dirigersi lentamente verso la macchina, con lo
sguardo fisso sul suolo e gli stivali che tracciavano solchi profondi nella
ghiaia, passo dopo passo. Poi, però, prima di raggiungere il portico, si voltò
di nuovo bruscamente. Fissò intensamente il castagno antistante il muro più
lontano, in direzione del campo di bocce. Ai suoi piedi c’era una panchina
di legno.
«Qualcosa non va?», le chiesi.
«Te lo dirò dopo».
Ivy and Her Nonsense, in J. Coe, 9th & 13th, Penguin, London 2005, pp. 3-19. Traduzione di Paolo
Costa. Tutte le note seguenti sono del traduttore.
1
Mi offrii di guidare e le chiesi se era ancora dell’umore giusto per quel
viaggio sentimentale che ci eravamo ripromessi di fare sulla strada da
Birmingham. Assentì meccanicamente e così, dopo aver fatto retromarcia,
mi immisi nella strada principale, feci una sosta incerta al primo incrocio e
imboccai una viuzzola un tempo familiare, oggi verdeggiante e battuta dal
vento. Dopo pochi minuti, durante i quali il parabrezza si cosparse di
goccioline di pioggia, la casa dei miei nonni si profilò all’orizzonte.
Parcheggiammo su uno spiazzo d’erba distante circa cinquanta metri
dall’ingresso principale e le rivolgemmo uno sguardo assente, senza sapere
che fare.
«L’hanno trasformata di sana pianta, non è vero?»
I nuovi proprietari – come continuavo a immaginarmeli, quindici anni
dopo il loro trasloco – avevano aggiunto un’ala di due piani dove mio
nonno aveva costruito al tempo su un lato della casa il suo laboratorio col
tetto a una falda.
«Effettivamente non è male», devo ammetterlo. «Il merito va
riconosciuto, quando c’è».
Lanciai un’occhiata a Gill, convinto che avesse un’opinione in materia,
ma aveva gli occhi chiusi e una mano appoggiata sulla tempia, come se
avesse mal di testa. Le strinsi la mano libera e mi accorsi che era gelata.
«Mi dispiace», sussurrò, «prima è accaduto qualcosa di strano. Tutto
qua». Poi si soffiò il naso in un Kleenex (ne teneva una copiosa riserva
infilata in entrambe le maniche del suo cardigan) e aggiunse: «Andiamo,
vero? Non penso di poter affrontare la fattoria».
Allora: aveva davvero visto un fantasma nel camposanto quella mattina
– o due fantasmi, per essere più precisi? Non ha mai ritrattato la sua
versione iniziale, e solo l’orgoglio, credo, può avermi impedito di crederle
completamente: la sensazione di avere subito un sottile affronto famigliare
– la sensazione, se volete, di essere stato «tagliato fuori» – nell’apprendere
che i miei nonni avevano scelto di apparire a Gill, anziché a me. Senza
dubbio era in grado di descrivere la scena in maniera convincente e
dettagliata. Mio nonno era seduto sulla panchina con in bocca la sua pipa di
radica (spenta), l’apparecchio acustico in ordine e con addosso il suo
pesante cappotto spinato di lana; mia nonna aveva con sé, come al solito, il
thermos che aveva comprato decenni prima da Woolworth e che ci aveva
accompagnato in tutti i picnic e le escursioni della nostra infanzia. Secondo
Gill sembravano rilassati e contenti – anche se chiaramente erano intirizziti
dal freddo – ed erano anche totalmente concentrati sui loro affari;
impegnati in una conversazione lunga e animata (un tratto strano, a dire il
vero, che non si accordava con i miei ricordi della loro relazione) e ignari
2
della presenza vigile di mia sorella. L’illusione, se di questo si trattava, era
durata più o meno dieci o quindici secondi.
Gill mi raccontò tutto ciò mentre guidavamo verso casa, procedendo
lungo le strade più veloci, completate da poco, che effettivamente facevano
risparmiare qualche minuto rispetto al vecchio tragitto, ma solo perché
aggiravano tutte le città, i villaggi e gli angoli del paesaggio che lo avevano
reso un tempo interessante. Mentre parlava della sua singolare visitazione,
ero ben consapevole che mi stava trattando come il suo fratellino e potevo
avvertire nel suo comportamento un sottofondo di competitività infantile.
Sembrava quasi che sapesse che, descrivendola in termini così dettagliati e
prosaici, poteva retrospettivamente sminuire la mia limitata esperienza in
quest’ambito. Era solo una questione di tempo perché abboccassi all’amo; e
così quando alla fine mi disse, seccamente, «vedo che non credi a una sola
parola di quanto ho detto», mi sentii rispondere:
«È ovvio che ti credo. È ovvio. Non dimenticare che, dopo tutto,
qualcosa del genere è accaduto anche a me una volta».
Sorrise e i suoi occhi luccicarono per la soddisfazione. «Oh, ti prego –
non dirmi che stai per tirare fuori di nuovo quella vecchia storia, vero?»
«È accaduta davvero. Non me la sono inventata».
«Ma eri piccolo. Eravamo entrambi solo dei ragazzini. Ed eri mezzo
addormentato quella volta».
Lasciai cadere l’argomento, non avendo alcuna intenzione di sottoporre
ancora i miei ricordi al suo scrutinio malevolo. Dopo pranzo, però, mentre
mi dirigevo da solo in auto verso la casa dei miei genitori, sentii di nuovo i
ricordi che prendevano il sopravvento. Ricordai le visite settimanali che da
bambini eravamo soliti fare nello Shropshire; le vacanze estive, con le gite
mattutine a pescare e i lunghi pomeriggi trascorsi seduti da soli nella sala,
leggendo libri e ascoltando il lento ticchettio dell’orologio del nonno. Mi
ricordai le mattine di Natale, quando si aprivano i regali dopo colazione e
poi venivamo trascinati fuori a camminare lungo i campi ghiacciati sotto un
chiaro cielo invernale. E soprattutto mi ricordavo un Natale.
Quel pomeriggio, quando presi una scala e salii nella soffitta dei miei
genitori, non sapevo bene che cosa stessi cercando, ma lasciai che la mia
attenzione venisse calamitata da una pila di scatole di cartone accatastate
sotto le grondaie nell’angolo più lontano e oscuro. La luce della mia torcia
incocciò in questo mucchio di ciarpame e si posò su di esso, facendolo
risaltare in un alone brillante: la mia infanzia. Mi avvicinai con cautela,
accovacciandomi ed evitando le travi più basse per poi sedere con
apprensione per alcuni istanti prima di spazzolare via la polvere dalla prima
scatola e sbirciare al suo interno.
3
Avevo tempo solo per gettare un’occhiata alle pagine umide e increspate
di vecchi taccuini e diari, o per sfogliare le pagine di antichi album in cui
avevo incollato, con maniacale diligenza, centinaia di ritagli dedicati ai
miei calciatori e alle mie pop star preferiti. Dopo non molto mi imbattei in
una scatolina di legno zeppa di diapositive Kodak su cui mi gettai con
entusiasmo, estraendole e inquadrandole con la torcia una per una. Vacanze
dimenticate, giardini dimenticati, automobili di famiglia dimenticate,
parenti dimenticati. Eccomi sulla spiaggia a Llanbedrog con la zia Ivy e lo
zio Owen: dimostravo quattro o cinque anni e, noncurante della macchina
fotografica, ero stato colto in un atteggiamento rilassato, una mano
beatamente infilata nella parte anteriore del mio costume da bagno. Il mio
prozio e la mia prozia erano seduti sui loro asciugamani da spiaggia e
porgevano all’obiettivo i sorrisi fiduciosi e sereni di persone che erano
sopravvissute a una guerra, avevano conosciuto la prosperità negli anni
seguenti e non erano ancora state toccate dalle nuove incertezze degli anni
’60. Potevo sentire ancora le loro voci – quella di mio zio: monotona,
profonda e gutturale; e quella di mia zia: stridula e ferma – mescolate alle
urla di bambini e al lento sciabordio dell’acqua contro i ciottoli. Il mio
passato era zeppo di voci: l’ininterrotta colonna sonora della mia famiglia e
delle loro chiacchiere, pettegolezzi, battibecchi. Come mi era sembrato
tranquillo oggi il paese, in confronto. Ero contento di non essere andato
fino alla vecchia fattoria dello zio Owen, ormai vuota e desolata.
Ma eccola qui la fattoria, proprio nella diapositiva che avevo in mano.
Tutta la famiglia era seduta a tavola in cucina per cena – fatta eccezione per
mio padre che doveva essere il fotografo. Eravamo in tutto in undici con i
bicchieri sollevati, sorridenti e con in testa i cappelli di un party natalizio: il
mio era troppo grande per me e mi era scivolato su un occhio. Solo mia
nonna, a ben guardare, sembrava avulsa dall’ilarità generale e aveva un
aspetto distaccato e pensieroso. Il che mi faceva supporre che si trattasse
proprio dello stesso Natale a cui avevo pensato – il Natale subito dopo la
sua partecipazione a un processo in veste di giurato. Per un po’ fissai con
stupore questo tableau in miniatura che sembrava contenere un mondo
tanto misterioso e implausibile quanto quello di un vecchio film
insopportabilmente raffazzonato. E il mio sguardo era ancora fisso sulla
foto, ancora impegnato a decifrare il suo segreto, quando la mia torcia –
ormai chiaramente a corto di batterie – cominciò a tremolare, ad
affievolirsi, per poi spegnersi definitivamente, precipitandomi tutto d’un
botto nell’oscurità impenetrabile della memoria.
Allora era una consuetudine recarci ogni anno nello Shropshire per
passare il Natale nella casa dei miei nonni. Si arrivava nel pomeriggio tardo
4
della vigilia di Natale e dopo una breve, energetica fase dedicata a disfare
le valigie, gli adulti si sedevano a bere un bicchiere di sherry e a scambiarsi
notizie. Il salotto era più chiaro e più allegro del solito: le sue ampie
finestre si affacciavano sui giardini antistanti e retrostanti e gli ultimi raggi
del sole, amplificati dalla neve, si riflettevano nelle decorazioni natalizie
appese sull’albero del nonno e ci ammiccavano rispecchiandosi nei fili
argentati intrecciati sui suoi fitti rami.
«Be’, mamma, sembra proprio che alla fine sei sopravvissuta
all’ordalia», disse questa volta mia madre, mentre io e Gill pescavamo da
un vassoio di biscotti sforzandoci di non apparire irrequieti.
«Oh, non è stato poi così male. Sono solo contenta che sia finito tutto in
tempo per Natale. Ho ancora metà delle cose da fare», rispose rivolgendo
uno sguardo severo a mio nonno. «Ovviamente, Jim non è stato di grande
aiuto».
Mio nonno ignorò il rimprovero e scelse invece di mormorare: «Peccato
che non abbiate preso la decisione giusta».
«Oh papà, non cominciare», disse mia madre, dopo di che Gill riuscì a
cambiare argomento, chiedendo se non fosse ormai ora di nutrire i cavalli.
I miei nonni possedevano qualche acro di terra di fianco alla casa e qui
si occupavano di due cavalli da corsa appartenenti ai loro vicini, che
gestivano una grande scuderia. Uno dei nostri rituali preferiti era
accompagnare mio nonno, ancora robusto e muscoloso malgrado l’età,
mentre portava delle balle di fieno giù nel paddock dove i cavalli
aspettavano pazientemente, fianco a fianco. Questa volta ero dispiaciuto per
loro, perché le mani mi dolevano per il freddo nonostante i guanti. Noi lo
precedevamo correndo, armati di zuccherini di cui erano molto golosi.
«A quale ordalia è sopravvissuta la nonna?», chiesi a Gill che per me era
sempre una fonte di conoscenza.
«Non sai proprio niente, vero?», disse lei (cosa per altro vera). «Ha
partecipato a un processo. Una donna ha ucciso suo marito e lei doveva
decidere se era colpevole o meno. Era uno dei giurati. Mamma ha detto che
era tutto scritto sui giornali, ma non me li ha lasciati leggere».
Mio nonno ci aveva quasi raggiunto, perciò cominciò a sussurrare: «Lo
ha fatto con un coltello. All’inizio è stato lui che ha cercato di accoltellarla,
ma poi lei si è impadronita del coltello e lo ha ucciso: lo ha colpito
centinaia e centinaia di volte. Con un temperino – proprio come quello che
mi regaleranno questo Natale».
La spiegazione, benché icastica, era tutt’altro che soddisfacente, ma per
una cosa almeno ero in vantaggio rispetto alla mia sorella maggiore: sapevo
dove i miei nonni tenevano i vecchi giornali – erano impilati nel laboratorio
del nonno, in attesa del prossimo falò. Mi ci intrufolai prima del tè e passai
5
qualche minuto tra l’umidità e il gelo sfogliando le pagine dello Shropshire
Star. Gli odori familiari dell’acquaragia e dei trucioli di legno erano
temperati oggi dal profumo dolce delle clementine: si trovavano senza
dubbio nel loro solito nascondiglio, ma ero troppo assorbito dal mio
compito per rubacchiarne una. Di fatto, non dovetti cercare a lungo la mia
storia: era lì sulla prima pagina di una delle copie più recenti. «LA DONNA
DEL COLTELLO BECCA CINQUE ANNI», era il titolo a lettere capitali, e sotto,
in caratteri appena più piccoli, si poteva leggere: «La giuria l’assolve
dall’accusa di omicidio volontario».
Mentre leggevo la cronaca, numerosi frammenti delle conversazioni
degli adulti che avevo orecchiato negli ultimi mesi cominciarono alla fine a
prendere senso. Si trattava di un caso che aveva diviso la comunità locale, e
persino la mia famiglia: la coppia in questione viveva infatti solo a qualche
miglia di distanza ed eventi così sensazionali erano rari in questo placido
angolo del mondo. La moglie aveva tradito il marito, il quale aveva
minacciato di ucciderla in diverse occasioni; e una notte, quando alla fine
sembrava ormai sul punto di attuare la sua minaccia, lei lo aveva preceduto
strappandogli il temperino dalla mano e ficcandoglielo ripetutamente nel
petto. L’interesse della mia famiglia aveva toccato il culmine quando la mia
nonna ricevette la richiesta di partecipare alla giuria che avrebbe dovuto
giudicare il caso, e immagino che l’esperienza si sia rivelata per lei molto
inquietante. La nonna era una donna pacifica e religiosa (pur senza eccessi)
e dev’essersi sentita sperduta in questo mondo di passioni feroci, e a
peggiorare le cose contribuì anche l’insistenza con cui i suoi parenti più
puritani – in particolare sua sorella – suggerirono che la moglie non era
altro che una Gezabele e una prostituta che meritava l’ergastolo. Alla fine
la giuria era giunta a una conclusione diversa; e sebbene le frasi invocate –
come «instabilità mentale» e «circostanze attenuanti» – avessero solo un
significato vago per me, mi trovai completamente d’accordo quando vidi
sul giornale la foto del marito assassinato. «Il volto che l’assillerà per
sempre». Questa sì sembrava la faccia di un assassino e anche in quella
riproduzione sfuocata e a grana grossa i suoi occhi incavati – che
sembravano vuoti e minacciosi allo stesso tempo – esercitavano un fascino
terribile. In effetti, s’impressero in me con tale intensità che quando sentii
chiamare per il tè, per un qualche impulso perverso e sconsiderato strappai
rapidamente la fotografia e la portai di nascosto su nella nostra camera.
La cena della vigilia di Natale era offerta dai miei prozii nella loro
fattoria e veniva obbligatoriamente dopo un gioco di sciarade mimate che
diede a Gill un’ulteriore opportunità di dimostrare tutta la sua abilità. A tale
scopo la famiglia si riuniva nella grande sala, con il suo caminetto e le
6
pesanti poltrone scolorite. Dopo aver spedito Gill nel corridoio,
sceglievamo un personaggio televisivo che lei doveva indovinare. A quel
punto Gill ritornava quasi senza fiato per la fretta di assistere alle nostre
imitazioni che smascherava sempre dopo pochissimi tentativi (mai più di
tre). Tommy Cooper1 non rappresentò affatto un problema; e lo stesso
dicasi per il maldestro tentativo dello zio Owen di sfidare la gravità
sollevando insieme le sue braccia e le sue gambe, come un paio di forbici.
«Harry Worth», disse Gill, arrossendo di piacere2.
Per cena venivano serviti carne fredda, torta di maiale, barbabietole,
sedano e patate lesse condite con sale e pepe. Anche questo spazio era
riservato alle chiacchiere tra adulti, mentre io e Gill dovevamo
accontentarci di scalciarci con foga sotto la tavola. Se facevamo abbastanza
rumore, potevamo fingere di non prestare ascolto alla conversazione
generale, che a quel punto poteva diventare piacevolmente disinibita.
«Vorrei sapere», disse zia Ivy, rivolgendosi alla sorella nel suo consueto
timbro stridulo e monotono (già allora era ormai quasi completamente
sorda), «perché avete deciso di farla passare liscia a quella creatura».
«Lascia perdere, donna», disse lo zio Owen. «Non conosci i fatti. Sai
solo quello che hai letto sui quotidiani ».
Mia madre era d’accordo. «Ha detto che ha agito solo per legittima
difesa: e se vedeste la foto di suo marito sul giornale, le credereste sulla
parola».
«È stata una scelta difficile», soggiunse mia nonna. «Una scelta
difficilissima. Non sono mai riuscita a formarmi un’opinione del tutto
chiara, come altri membri della giuria. Sembrava la decisione più cristiana
da prendere. Persone del genere meritano compassione. Ne risponderanno a
Dio. In ogni caso», si sfiorò le labbra con un tovagliolo sporco di
barbabietola, «lui non l’ha mai assalita fisicamente. L’ha solo minacciata».
«Minacciata!», sbottò zio Owen. «Vorrei ben vedere. Non l’ha forse
minacciata di tagliarle la gola?».
«Sssss!», disse qualcuno, mentre Gill, inosservata, era impegnata in una
breve pantomima a mio uso e consumo: sollevò il coltello e se lo passò
lentamente lungo la gola, sorridendo come un piccolo demonio. Per un
attimo dovetti trattenere a stento le lacrime. Poi venne il turno dei petardi
natalizi, della distribuzione dei cappelli e delle foto; e sebbene il mio
cappello fosse troppo grande e non capissi un’acca degli indovinelli e Gill
1
Attore comico e illusionista inglese (1921-1984). [N.d.T.]
Attore comico inglese (1917-1989), celebre negli anni Sessanta per uno sketch televisivo nella cui
sigla d’apertura realizzava un trucco ottico con l’aiuto della vetrina di un negozio, dando l’impressione
di una levitazione. [N.d.T.]
2
7
avesse una bussola, mentre tutto quello che avevo io era un fischietto non
funzionante, il mio umore migliorò notevolmente.
Dopo cena, mentre gli altri si spostavano in salotto con i caffè, noi
restammo indietro distribuendo avanzi ai tre cuccioli di spaniel che
avevano trascorso l’ultima mezz’ora chiusi in uno stanzino laterale e
grattando furiosamente la porta della cucina. In parte per distogliere Gill
dal tema dell’omicidio, dissi qualcosa sulla sua abilità nelle sciarade
mimate e le chiesi se aveva un segreto: dopo di che, con mia somma
sorpresa, e con una smorfia compiaciuta e complice, tirò fuori dalla tasca
una grossa chiave.
«Vieni con me», disse, e mi condusse nell’atrio, dove una porta nascosta
sotto la scala di quercia e normalmente chiusa, conduceva giù nella cantina
dei vini. Mi spiegò che si poteva arrivare direttamente sotto il soggiorno e
ascoltare ogni parola che veniva detta. «Non ti sei mai chiesto perché ero
sempre a corto di fiato?».
«Possiamo provarci ora?», le chiesi, affascinato dalle opportunità
dischiuse da questo sistema.
«Ok». Aprì la porta. «Vai tu per primo».
Ovviamente, la prima cosa che sentii fu la porta sbattere dietro di me e
la chiave che girava nella serratura. Diedi qualche colpo sulle assi e provai
anche a urlare, ma sapevo che Gill voleva farmi aspettare un po’. Ero
comunque deciso a sperimentare il suo trucco, così non appena trovai
l’interruttore della luce, feci un sospirone e cominciai coraggiosamente a
scendere le scale, lasciandola sola con le sue vane speranze di udire le mie
suppliche.
A dire il vero, la cantina conteneva più frutta che vino, e più tele di
ragno che altro. Inoltre, sebbene esplorazioni un po’ meno atterrite me ne
avrebbero in seguito rivelato la compattezza e la regolarità, quella notte mi
sembrò infinita e labirintica. C’erano diverse stanze che si aprivano su
entrambi i lati di un corridoio principale che a sua volta faceva parecchie
inattese svolte e dovetti sbirciare nervosamente dietro ogni angolo prima di
osare di avvicinarmi alle voci che si facevano sempre più distinte sopra la
mia testa. Lungo i muri, dove s’intravedevano i mattoni grezzi sotto un
sottile strato di calce, potevo vedere le scie argentate delle lumache.
Una volta giunto proprio sotto il pavimento della sala, la conversazione
sarebbe stata facilmente udibile anche se la voce dominante non fosse stata
quella di mia zia Ivy.
«Ma davvero non sei neanche un po’ spaventata?», stava dicendo.
«Oh Ivy, santo cielo, la smetti di inzigare?».
8
«Lo sai, io non credo a quelle sciocchezze», disse mia nonna. «La
religione cristiana è tutto ciò in cui ho bisogno di credere, e pensavo che lo
stesso valesse per te, visto che mi sembra che leggerai in chiesa stanotte».
«Meglio te che me, cara. Non sto dicendo altro».
«Smettila di ravanare, Ivy. Lo scherzo è bello finché dura poco».
(«Ravanare» era una delle parole preferite della zona, più o meno un
sinonimo di «inzigare». Peccato che nessuno mi avesse mai spiegato che
cosa significasse «inzigare».)
«Comunque», insistette Ivy, «anche nelle chiese ci sono gli spiriti.
Questo è un fatto certo».
«Lo Spirito Santo», suggerì argutamente zio Owen.
«Sto parlando del cimitero di Chetwynd, appena fuori Newport. Non
avete mai visto il fantasma della signora Piggott, che svolazza nella sua
camicia da notte e pettina i capelli del suo bambino tra le tombe?».
«Perché, tu l’hai vista?».
«No, personalmente no. Ma mentre ero seduta nel camposanto, le foglie
hanno cominciato a stormire intorno alla mia testa e gli alberi a piegarsi e a
gemere anche se non c’era un filo di vento nell’aria».
Il mio prozio, probabilmente grazie al suo contatto giornaliero con i
maiali aveva accumulato un repertorio di grugniti molto espressivo e a quel
punto ne fece partire uno particolarmente buono. Potei udire distintamente
il rumore della tazza di caffè della zia Ivy che veniva posata enfaticamente
sul piattino.
«Sto solo dicendo che quest’uomo, ucciso da sua moglie a sangue
freddo, è un uomo che non riposerà in pace nella sua tomba stanotte. So io
cosa farei se fossi in lui. Farei una capatina da quelle persone che hanno
perso l’occasione di vendicarmi. Ecco cosa farei».
E non appena sentii queste parole, comprendendole solo a metà,
un’improvvisa paura mi spinse a voltarmi. Nel corridoio si stava formando
una larga ombra umana, che diventava sempre più grande mentre avanzava
verso di me con un’andatura spietata. Non avendo la possibilità di scappare,
potei solo rannicchiarmi contro il muro e provare la deliziosa sensazione
del terrore che si tramutava in sollievo mentre vedevo Gill girare l’angolo
per dirmi che la mia ordalia era finita.
Quel Natale, per la prima volta, gli adulti avevano deciso che eravamo
abbastanza grandi per partecipare alla messa di mezzanotte insieme al resto
della famiglia. Ci recammo così alla chiesa del paese con due macchine:
sempre affamati di novità. Io e Gill avevamo scelto di viaggiare con i nostri
nonni. Friggevamo per l’attesa sui sedili posteriori, osservando i fari che
gettavano fasci di luci sulle alte siepi gelate.
9
«Le solite sciocchezze di Ivy», disse mia nonna spazientita. «Dio solo sa
perché le permettono di leggere in chiesa. Lo sanno tutti che è la persona
meno religiosa del paese».
«Lo sai perfettamente perché glielo consentono», replicò il nonno.
«Perché ha una voce squillante».
Non ricordo granché della messa, la mia prima esperienza del rituale
anglicano. So solo che feci molta attenzione a tutti i riferimenti allo Spirito
Santo, anche se non avevano un tono particolarmente spaventoso – nulla di
paragonabile alla successiva passeggiata nel camposanto, che aveva
l’aspetto di un posto lugubre e solitario, a dispetto delle voci che potevo
udire intorno a me di persone che chiacchieravano e si scambiavano
allegramente gli auguri di buone feste. Anche mio nonno, nella cui mano
forte e coriacea avevo affondato la mia, si fermò un attimo a osservare le
lapidi sparpagliate e potei sentire un brivido attraversargli il corpo. Forse
era il freddo, o forse il pensiero che anche lui sarebbe finito lì in un non
lontano futuro, con la sua tomba intirizzita da un forte vento orientale.
Spesso condividere una stanza da letto con Gill era un supplizio non da
poco, ma stanotte ero lieto della sua compagnia. Come al solito, non aveva
nessuna voglia di dormire. L’anno precedente aveva cercato di stare sveglia
tutta la notte, nella speranza di scoprire qualcosa di più sull’interessante
processo tramite cui due calzini venivano depositati ai piedi dei nostri letti,
zeppi di dolci zuccherati e di soldi di cioccolato che dovevano servire come
antipasto per le principali attrazioni che ci attendevano giù di sotto. Ma
quest’anno, apparentemente, voleva solo parlare.
«Il temperino sarà fantastico», disse. «Sarò la sola ragazza a scuola ad
averne uno».
Gill mi stava provocando, perché sapeva che questo regalo mi avrebbe
fatto impazzire di gelosia; non avevo avuto l’intraprendenza di chiedere
nulla di così eccitante e mi ero limitato a scrivere un biglietto a Babbo
Natale suggerendogli un paio di scarpe da calcio. (E, in realtà, non le
desideravo nemmeno; le avevo chieste solo per compiacere mio padre, che
non aspettava altro che io manifestassi finalmente qualche inclinazione
sportiva.)
«Come fai a sapere che ti porterà quello che desideri?», le chiesi.
«A chi ti stai riferendo?», disse Gill. Fece una pausa, e poi cominciò a
sghignazzare tra sé e sé, in un modo che mi metteva a disagio.
«Perché ridi?».
«Per colpa tua», disse, «sei così buffo».
10
Rise ancora un po’ e poi tacque. Potevo sentire il suo respiro che
diventava sempre più regolare. Fuori il vento stava aumentando d’intensità
e i rami del melo cominciavano a strisciare contro la finestra.
«Tu credi negli spiriti, Gill?».
«No», mormorò.
«Zia Ivy ci crede».
«È una vecchia stupida. Così dice papà».
«E l’uomo morto?», mi arrischiai a dire. «Dev’essere arrabbiatissimo
con la nonna».
«I morti non possono arrabbiarsi», disse Gill. «Dormi, adesso».
Ma non riuscivo a dormire. Il vento continuava a crescere d’intensità e
tutta la casa sembrava pullulare di strani cigolii e sussulti: per la mia
fantasia eccitata erano rumori di porte che si aprivano e di pesanti passi che
salivano le scale. Mi alzai e tirai le tende, ma immersa nella luce della luna
la nostra stanza non appariva meno sinistra, un mondo di profili evocativi e
dense pozze di oscurità. Lottai contro una serie di immagini inquietanti:
Gill che fingeva di tagliarsi la gola a cena; la gigantesca sagoma che veniva
verso di me nella cantina; il tremore di mio nonno alla vista notturna del
cimitero. Soprattutto, ricordavo la fotografia dell’uomo assassinato che
avevo così incautamente ritagliato dalle pagine del giornale locale e che da
un momento all’altro mi aspettavo che potesse emergere, temperino nella
mano, dalle ombre.
Date le circostanze, feci quello che qualsiasi intraprendente bambino di
sette anni avrebbe fatto: decisi, cioè, di svegliare i miei genitori. Avevo
notato che le richieste di essere ammessi nel loro letto raramente
incontravano una forte opposizione, e questo era chiaramente un caso
urgente, visto che non ero assolutamente nelle condizioni di trascorrere la
notte da solo. Mi alzai perciò rapidamente, mi avvolsi nella vestaglia e mi
diressi verso il pianerottolo.
Lì vidi qualcosa di sorprendente. Tutto era buio, fatta eccezione per un
fascio irregolare di luce proveniente dalla stanza dei miei nonni. Ero partito
dall’idea che la mia famiglia fosse andata a letto ormai da un pezzo, ma
sembrava sconsiderato far alzare mia madre e mio padre se i miei nonni
erano ancora svegli. Cambiai direzione, allora, e puntai verso la loro stanza
e, dopo aver sostato per alcuni secondi, durante i quali non sentii alcun
rumore, aprii la porta senza dire una parola.
La luce tremolante doveva provenire da una candela, perché si spense
quasi del tutto nel momento in cui, aprendo la porta, feci entrare uno
spiffero di aria fredda. Gli eventi successivi accaddero molto rapidamente.
Il lato del letto che dava sulla porta era quello di mia nonna e potevo
scorgere la sua sagoma mentre dormiva tranquillamente in posizione
11
supina. Seduto al suo fianco c’era un uomo. All’inizio il suo volto era
nascosto nell’ombra: tutto ciò che potevo vedere era il riflesso della lama di
un coltello nella sua mano sollevata. Si voltò bruscamente non appena
entrai e per un attimo, breve ma dilatato, ci fissammo. I suoi occhi incavati
s’impressero a fuoco nei miei: erano vuoti e minacciosi allo stesso tempo.
A quel punto mi voltai e scappai verso la stanza dei miei genitori dove
spalancai la porta e in un attimo riuscii a svegliare l’intera casa. Anche Gill
corse a vedere che cosa stava succedendo. E così, cullato da mia madre che
si era seduta con gli occhi velati sul bordo del letto, spiegai che avevo
appena visto un fantasma che cercava di uccidere la nonna.
«Un fantasma?».
«Un uomo. Era seduto sul letto, proprio al suo fianco».
A quel punto arrivò anche mio nonno, ancora in pigiama.
«Che succede?», disse.
«Ti ha visto», sussurrò mia madre.
Mio nonno le mise un dito sulle labbra e le fece cenno di no col capo. A
me disse: «Sembra proprio che hai fatto un brutto sogno».
«Non era un sogno. Era l’uomo. L’uomo del giornale».
Capendo che qualsiasi tentativo di risolvere la situazione mediante
argomenti razionali non sarebbe servito a nulla, mia madre rimandò tutti a
letto, ma per il momento mi consentì di restare nella sua stanza, dove,
accoccolato tra i corpi dei miei genitori, devo essermi alla fine abbandonato
a un sonno leggero. Ho conservato poi un vago ricordo di mio padre che mi
sollevava e mi riportava nella mia stanza. Il rumore della porta che si
chiudeva alle sue spalle deve avermi svegliato completamente, e a quel
punto potei scorgere gli occhi di Gill che brillavano nel buio.
«Sei uno zuccone», mi disse.
«Perché?».
«Quello che hai visto era il nonno che stava incartando i nostri regali».
Non appena registrai queste parole, cominciò a prendere forma una
nuova e difficile domanda.
«Cosa intendi dire?», dissi, lentamente.
Ed è così che Gill – con un senso, ne sono certo, di inesprimibile piacere
e trionfo – trovò l’occasione giusta per spiattellarmi la verità tutt’altro che
magica sul luogo da cui erano provenuti i nostri regali di Natale in tutti
questi anni.
«Allora il coltello…» cominciai.
«Era il mio regalo, ovviamente. Ti ho detto che ne avrei ricevuto uno».
Sbadigliò vistosamente e si raggomitolò ancora di più nel suo intrico di
lenzuola e coperte. «Buona notte, zuccone».
12
Offeso da questo insulto finale aggiunsi a mo’ di replica: «Buona notte –
idiota», e poi rimasi sveglio per un po’ chiedendomi se Gill fosse poi
davvero così intelligente, dopo tutto. Nel silenzio della notte girai e rigirai
mentalmente la sua spiegazione in ogni modo possibile e la trovai difettosa.
Alla fine il giorno di Natale spuntò, illuminando la campagna avvolta in
uno strato consistente di neve fresca. I campi arati ai piedi del giardino
effondevano ondulazioni di un bianco fluttuante e quella mattina l’aria era
così chiara che se ci si sedeva sul muro terrazzato e si guardava verso il
Wrekin, si poteva facilmente scorgere il Needle’s Eye 3. La luce del sole
aveva inondato la sala quando aprimmo i regali dopo colazione. Tutti erano
di ottimo umore; il trambusto della notte era ormai dimenticato.
Per una volta era Gill a sentirsi delusa. Le mie scarpe da calcio
calzavano perfettamente, e lo stesso dicasi del cappotto che i miei genitori
le avevano comprato. C’erano giocattoli, libri e giochi di società in
abbondanza, ma nessun temperino. A quanto pare, alla fine avevano deciso
che non era un regalo adatto per una ragazzina.
In seguito Gill mi rintracciò nella dispensa – dove mi stavo riempiendo
le tasche di avanzi di cibo in previsione della nostra passeggiata mattutina –
e mi sbatté contro il muro.
«Mi avevi detto che c’era un temperino», ringhiò. «L’hai detto».
«Ti giuro che c’era», protestai.
«Mi hai mentito».
«Non ho mentito. C’era un coltello. Ma l’uomo che ho visto non era il
nonno. Te l’ho detto».
Mollò la presa e fece un passo indietro, guardandomi con ferocia.
«Sei pazzo, ecco cosa sei», mi disse. «Sei completamente suonato».
Così la pensava lei, comunque. Ma tornati dalla passeggiata, non appena
ebbi un momento per me, mi parve un gesto di assoluta lucidità correre di
sopra, prendere la fotografia dell’uomo dal mio cassetto e gettarla nel fuoco
della sala. Mentre osservavo la sua faccia che bruciava, si anneriva e
spariva, rivolsi una preghiera al mio neoacquisito Dio perché non tornasse
più a farci visita.
3
Il Wrekin è un colle dello Shropshire orientale alto circa 400 metri, sulla cui sommità si trova un
affioramento roccioso noto come Needle’s Eye (cruna d’ago). [N.d.T.]
13
Nota al testo
Ivy and Her Nonsense è uno dei pochi racconti scritti da Jonathan Coe –
un genere non amato da un autore votato essenzialmente al romanzo e agli
intrecci narrativi complessi e «panoramici» (una duratura impronta
impressa in giovane età sulla sua vocazione di scrittore dall’autore a cui ha
anche dedicato la tesi di dottorato: Henry Fielding). Il racconto risale al
1989 ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Alcuni dei suoi
personaggi e luoghi si sono tuttavia rimaterializzati nell’ultima opera di
Coe: La pioggia prima che cada (Feltrinelli, Milano 2007). Gill è infatti la
donna che, insieme alle due figlie, ascolta il nastro registrato in punto di
morte dalla zia Rosamond. E la scena iniziale del libro è ambientata nello
stesso cimitero in cui Gill e il fratello (David) si trovano all’inizio del
racconto e l’episodio della «visitazione» dei nonni viene esplicitamente
menzionato a pagina 11, assumendo così ufficialmente lo status di vero e
proprio antefatto del libro. Ma non solo. Mano a mano che la storia si
dipana, nel romanzo fanno la loro fulminea e ammiccante apparizione
anche altri landmarks del racconto: le diapositive Kodak, la fattoria della
zia Ivy, il gelido vento da est, i party delle vigilie di Natale con i loro buffi
cappelli di ordinanza, i limpidi chiari di luna invernali, i contrasti di luce
dello Shropshire, la neve fresca, i cuccioli di spaniel, le ondulazioni del
paesaggio, le delizie e gli orrori della vita famigliare, fantasmi e presagi più
o meno illusori.
La cura maniacale dei dettagli è uno dei pilastri su cui poggia lo
storytelling di Coe. L’intuizione che lo guida sembra riassumersi nell’idea
che è nel dettaglio più insignificante che va ricercato il significato profondo
delle vicende umane. Sempre che ne abbiano uno. Quale che sia la nostra
opinione in merito, la questione non può però essere risolta a priori:
bisogna raccontare. The Rain before it Falls è incentrato sul tema della
memoria famigliare e la sua conclusione è soffusa di un’atmosfera fatata e
quasi magica, in cui la rivelazione del senso degli eventi narrati assume
l’aspetto di una sorta di apparizione fuggevole e comunque inafferrabile. A
ben vedere, è la stessa atmosfera al contempo ordinaria e incantata che
domina il racconto semiautobiografico che viene pubblicato qui per la
prima volta in traduzione italiana.
14