LATINOAMERICA
analisi testi dibattiti
Quadrimestrale
n.
66
Dossier: Gli spiriti dell’Africa nel Nuovo Mondo / a cura di Mariella
Moresco Fornasier
L Ceci / La Chiesa in America latina negli ultimi trent’anni
A. Garzia / Il Papa a Cuba
N. Manuzzato / Il sacerdote e il giaguaro
Marcos / Massacro Acteal
E. Patanè / Donne, streghe, angeli nella marea ciclica di Arenas
J. Ramos Regidor / Teologia della liberazione: una sfida per il Nord
D. Simini / Economia cubana. Intervista a Carlos Tablada
Culture indigene / E. Jossa, M. Moresco Fornasier
Anno XIX, n. 66
gennaio-aprile 1998
cp. 64091
00100 Roma
Tel. 807.37.42 - 807.21.97
Comitato di direzione
Mauro Castagnaro, Aldo Garzia, Bruna Gobbi, Nicoletta
Manuzzato, Antonio Melis,
Mariella Moresco Fornasier,
Anonio Moscato, Manuel Pla
na, Daniele Pompejano, José
Rhi Sausi, Alessandra Riccio,
Enzo Santarelli, Massimo
Squillacciotti, Maria Rosaria
Stabili, Angelo Trento.
3
11
José Ramos Regidor
Teologia della liberazione:
una sfida per il Nord
25
Lucia Ceci
La chiesa in America latina
negli ultimi trent’anni
37
Massacro Acteal
a cura di Nicoletta Manuzzato
41
a cura di Mariella Moresco Fornasier
47
Mariella Moresco Fornasier
La Grande Attraversata
53
Laennec Hurt on-Mariella Moresco
Fornasier
Uomini e spiriti ad Haiti
Direttore responsabile
Alessandra Riccio
La rivista non assume la re
sponsabilità delle opinioni
espresse negli articoli firmati.
In copertina:
Rolando Cordoba,
offset, 1979.
Sped. abb. post. gr. IV, 70%
Autorizz. del trib. di Roma
n. 18142 del 6-6-1980
Stampa: Salemi Pro. Edit.
Via Pianell, 26
Diego Sitnini
Cuba: un sistema economico
efficiente e umano
Intervista a Carlos Tablada Pérez
DOSSIER / GLI SPIRITI
DELL’AFRICA NEL NUOVO M ONDO
Redazione
Bruna Gobbi, Enzo Santarel
li, Massimo Squillacciotti,
Maria Rosaria Stabili, Angelo
Trento.
Aldo Garzia
II Papa a Cuba
59
73
Mariella Moresco Fornasier
Culti religiosi nell’Occidente cubano:
la Regia de Ocha e le società segrete
Abakua
Mariella Moresco Fornasier
H Palo Monte e lo spiritismo
nell’Oriente cubano
83
Rosamaria Susanna Barbara
Quando gli dei danzano .
99
II sacerdote e il giaguaro
Nicoletta Manuzzato
Chiuso in tipografia
il 21-2-1998
a colloquio con Roman Pina Chan
103
Elina Patané
Donne, streghe, angeli, nella marea ciclica di
Arenas
CULTURE INDIGENE
Emanuela Jossa
111
Le prospettive di liberazione indigena
124
Mariella Moresco Fornasier
Autonomia indigena i diritti di cittadinanza
129
RECENSIONI E SCHEDE
Stabili, Il sentimento aristocratico: élites cilene al
lo specchio (1860-1969) (A. Trento) - TarozziVecchi (a cura di), Partenze-Ritorni: italiani in
America latina (A. Trento) - Belli, Waslala. Me
moriale dal futuro (E. Patané) - Fleites-Garzia,
Cuba Cultura. Viaggio nell’identità di un’isola
(A. Riccio) - Vàzquez Diaz, Lisola del Cundeamor (A. Riccio) - Diaz, I fuochi di Sant’Elmo, a
cura di Rosa Maria Grillo (A. Riccio) - A. Riccio,
S. Cruz, Donne a Cuba. Lettere credenziali (A.
Mariottini) - Evora, Tomàs Gutiérrez Alea (E.
Patané) - Paoletti, El aguafiestas. Mario Bene
detti la biografia (E. Patané) - Amir Hamed,
Troya blanda (D. Simini) - Rivera, Ecrits sur l’art
(A. Rimmaudo) - Pereyra, Del Moncada al Chia
pas - Historia de la lucha armada en América La
tina (G. Carotenuto)
Aldo Garzia
Il Papa a Cuba
Il ’98 è iniziato con i riflettori puntati su L’Avana. Per cinque giorni, dal 21 al 25
gennaio, Cuba è diventata il centro del mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha
riacceso l’interesse internazionale sul destino dell’isola più grande dei Caraibi.
Il viaggio del Papa poteva diventare una scommessa azzardata da parte del go
verno dell’Avana che apriva le sue frontiere a decine di telecamere e accettava la sfi
da del dialogo con la Chiesa di Roma. L’evento presentava il rischio di una destabi
lizzazione politica, anche se potenzialmente recava con sé la chance di riproporre la
"questione Cuba" sullo scenario internazionale: L’Avana, infatti, non si dà per vin
ta nella sua lotta contro il blocco economico imposto dagli Stati Uniti fin dal ’62
(reso ancora più asfissiante con la Legge Torricelli del ’92 e con la Legge HelmsBurton del ’96) e chiede il pieno reinserimento nella comunità internazionale senza
rinunciare alla peculiarità della propria storia politica iniziata con la rivoluzione del
’59. Dall’89 in poi - anno dell’avvio della dissoluzione dei Paesi del "socialismo rea
le" - Cuba ha tentato di resistere rinnovando la sua organizzazione economica (tu
rismo di massa, liberalizzazione del dollaro, economia mista e apertura agli investi
menti di capitale straniero, quote di lavoro privato su scala familiare) pur facendo i
conti con il blocco economico e con la timidezza degli aiuti della Comunità euro
pea e degli altri Paesi latinoamericani. La strategia della resistenza ha avuto ragio
ne, seppure al prezzo di una compressione dei livelli di vita degli abitanti dell’isola:
Cuba non ha seguito il destino delle altre realtà del "socialismo reale". Di resisten
za, però, non si può sopravvivere all’infinito e l’invito rivolto da Fidel Castro a Gio
vanni Paolo II di visitare Cuba aveva alla vigilia il sapore di una rinnovata intenzio
nalità politica.
Come avviene spesso quando si parla di questo Paese, le oltre centocinquanta te
levisioni e i duemilacinquecento giornalisti arrivati sull’isola per seguire l’avveni
mento del viaggio papale avevano nella testa uno schema predefinito: a L’Avana sa
rebbe successo quello che era puntualmente accaduto nei paesi dell’Est dopo i viag
gi del Papa polacco; Wojtyla avrebbe contribuito alla spallata decisiva contro il so
cialismo cubano, dove non avevano potuto né il pluritrentennale embargo degli Sta
ti Uniti e i quasi dieci anni che separano il ’98 dalla caduta del Muro di Berlino e
dall’avvio del "periodo especial" (la violenta crisi economica cubana seguita alla fi
ne dei rapporti di favore con i Paesi del "socialismo reale").
3
Non è accaduto nulla di tutto questo. La visita papale si è caratterizzata per uno
svolgimento lineare e per un reciproco rispetto dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Wojtyla e Castro hanno dialogato tra diversi ed è apparso evidente che questa vol
ta il Papa - a differenza di quanto accadde per esempio nella sua visita nel Nicara
gua governato dai sandinisti - non era mosso da propositi destabilizzanti: anzi, in
contrava più volte il leader cubano manifestandogli stima e facendo intendere di es
sere convinto che solo quest’ultimo può avviare un’ulteriore trasformazione del
Paese. Il puzzle Cuba si è così confermato ancora una volta di difficile interpreta
zione e giorno dopo giorno sono cadute le facili previsioni di una débàcle: sul "ca
so cubano" - la verifica è venuta anche in questa occasione - non reggono gli sche
mi che assimilano la storia della rivoluzione di Castro alle vicende del "socialismo
reale" dell’Est europeo. Con limiti, errori e con molti segnali di logoramento, la sto
ria iniziata nel ’59 non è ancora arrivata al capolinea e dimostra di avere capacità di
tenuta e di rinnovamento a cui contribuiscono tasselli diversi: la spiccata voglia di
indipendenza nazionale, la miopia politica della Casa Bianca e della destra cubana
che vive a Miami, l’assenza di credibili alternative, il pericolo che le ricette del ca
pitalismo selvaggio fn vigore in altre realtà dell’America Latina finiscano per mette
re la parola fine alle conquiste sociali della rivoluzione, la leadership di indubbia ge
nialità politica di Castro. Anche quanto è avvenuto a Mosca e nelle altre capitali del
l’Est dall’89 in poi spiega la resistenza cubana (la guerra civile nell’ex Jugoslavia e
la dissoluzione dell’ex Unione Sovietica hanno fatto diventare molto prudenti an
che coloro che alla fine del decennio Ottanta chiedevano che Cuba seguisse a pas
so di galoppo la "perestroika" di Mikhail Gorbaciov).
Nei mesi che hanno preceduto il viaggio di Giovanni Paolo II non sono man
cati i tentativi di far salire la tensione a Cuba. In estate una serie di attentati dina
mitardi colpivano alcuni luoghi turistici dell’Avana (gli hotel Nacional, Triton, Copacabana e il popolare ristorante La Bodeguita del Medio) con l’obiettivo di di
mostrare all’opinione pubblica internazionale la vulnerabilità del Paese che avreb
be ospitato il Papa (un giovane italiano veniva ucciso da una scheggia in seguito al
l’esplosione di una parte della caffetteria dell’hotel Copacabana). Nel mese di ot
tobre ambienti della destra vaticana facevano circolare la notizia che l’ala dura del
Partito comunista cubano era intenzionata a far fallire l’appuntamento del viaggio
papale e che per raggiungere questo obiettivo si sarebbero frapposte difficoltà or
ganizzative alle richieste della Santa Sede sull’agibilità delle piazze di alcune città
per le messe del Papa e sulla trasmissione in diretta televisiva di ogni iniziativa del
Pontefice in terra cubana. Molte agenzie di stampa internazionali lanciavano suc
cessivamente la notizia che lo Stato cubano aveva vietato l’affisione di immagini
raffiguranti il Papa sui luoghi di lavoro, lungo le strade e all’ingresso delle case pri
vate pena la minaccia di una capillare repressione. Nelle settimane immedia
tamente precedenti l’arrivo di Giovanni Paolo II il quotidiano spagnolo "El Pais"
rendeva pubblica la notizia di una microspia rinvenuta in un edificio del quartie
re Siboney che si stava restaurando a tempo di record per renderlo agibile come
residenza papale (il governo dell’Avana replicava con una visita lampo del ministro
delle forze armate Raul Castro in Vaticano che serviva a scongiurare il vento di cri
si tra Cuba e Santa Sede, facendo intuire che pure l’esercito dava via libera all’ar
rivo del Papa che poi avrebbe alloggiato presso la Nunziatura dell’Avana e non nel
l’edificio di Siboney).
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Tutte queste congiure sono state superate: i nemici dell’incontro Wojtyla-Castro
erano numerosissimi e quest’ultimo rispondeva celebrando a ottobre sia il V Con
gresso del Partito comunista cubano all’insegna della continuità con la storia del
l’indipendenza nazionale rappresentata dalla rivoluzione sia i funerali di Ernesto
Che Guevara e di altri guerriglieri che erano morti con lui trent’anni prima in Boli
via (i resti erano stati rinvenuti pochi mesi prima in quel Paese dopo lunghe ricer
che). LT1 gennaio, inoltre, a pochi giorni dal viaggio papale, si celebravano a Cuba
anche le elezioni che servivano a rinnovare il Parlamento: partecipava il 98 per cen
to dei cittadini, le schede bianche e nulle superavano di poco il tre per cento. L’en
fasi (e la buona dose di retorica) che Castro poneva su questi avvenimenti serviva a
fare quadrato intorno alla rivoluzione e alle sue istituzioni, presentando Cuba il più
possibile unita di fronte all’eccezionale avvenimento dell’arrivo di Giovanni Paolo
II e convincendo anche gli scettici presenti nell’apparatodello Stato e del Partito co
munista sull’opportunità di questa mossa azzardata da parte della leadership rivo
luzionaria. Era come se di fronte a un evento storico bisognasse prima chiudere una
pagina della rivoluzione che ne assicurasse la continuità per poterne aprire un’altra.
Fidel accettava la sfida all’interno e nei confronti del mondo.
Incontro fortissim am ente voluto
Via via che la data della visita di Giovanni Paolo II a Cuba si avvicinava è ap
parso evidente che quell’appuntamento era fortissimamente voluto sia dal Papa sia
da Castro. Le precarie condizioni di salute del Pontefice (colto da un leggero ma
lore una settimana prima della sua partenza) non mettevano in forse il viaggio nep
pure per un momento. Il leader cubano, che aveva ripristinato la festività di Natale
con un discorso che sottolineava l’importanza del viaggio papale di fronte all’As
semblea nazionale del potere popolare (il Parlamento cubano), teneva una confe
renza stampa di sei ore in televisione per tornare a battere il tasto della positività
dell’arrivo di Giovanni Paolo II a Cuba e per invitare la popolazione a rendere
omaggio all’illustre ospite. Castro, inoltre, dava semaforo verde a molte richieste di
parte vaticana: accesso della Chiesa locale ai mezzi di informazione in occasione
della visita papale (il cardinale cubano Jaime Ortega Alamino teneva per la prima
volta un discorso in tv di mezz’ora), ampia disponibilità alle dirette televisive e fi
nanche via libera all’arrivo di pellegrini organizzati da Miami (le navi che avrebbe
ro dovuto condurli a L’Avana sono state successivamente soppresse a causa delle
pressioni sul vescovo di Miami della comunità cubana che vive in Florida).
In quella concitata vigilia - ma pure nel corso dei giorni trascorsi dal Papa a Cuba
- è apparso evidente che Castro metteva in campo il proprio ruolo e prestigio per con
vincere della bontà dell’iniziativa quanti erano dubbiosi nel governo e nel Partito co
munista. E’ probabile che non sia stato facile per lui ottenere il pieno appoggio di
quanti guardavano più ai rischi che ai vantaggi della presenza di Giovanni Paolo II
sull’isola. Fidel insisteva soprattutto nel sottolineare il carattere "religioso" e non "po
litico" del viaggio di Wojtyla, ricordando allo stesso tempo che sulla critica al capita
lismo selvaggio e alla società del consumismo c’erano molti punti di contatto tra lui e
il Pontefice (negli ultimi mesi - sottolineava Castro - la sintonia era aumentata con la
scelta del Sinodo della Chiesa delle Americhe di battere il tasto dell’impagabilità del
debito estero dei Paesi del Terzo mondo: questa ipotesi era stata fatta propria da Cu5
ba fin dal lontano ’85, quando si svolse a L’Avana il vertice del Movimento dei Paesi
non allineati). Il presidente cubano, nello stesso discorso in tv, precisava di non di
menticare certo che la prima fase del papato di Giovanni Paolo II si era caratterizza
ta per la lotta al comuniSmo dei Paesi dell’Est ma ironizzava sull’ipotesi che la fine del
"socialismo reale" fosse spiegabile solo per le spallate del Vaticano ("Quella crisi era
più profonda e poi il Papa ha capito i limiti del capitalismo e del consumismo").
Castro, nel saluto di commiato all’aeroporto José Marti a un Wojtyla stanco ma
felice per la sua visita, ricordava che il suo governo aveva messo a disposizione del
l’illustre ospite le piazze di quattro città (Santa Clara, Camaguey, Santiago e L’Ava
na), che tutte le messe del Pontefice erano state trasmesse in diretta dalla televisio
ne e che migliaia di giornalisti avevano potuto svolgere il proprio lavoro senza al
cuna limitazione di contatto con la realtà cubana ("Abbiamo dimostrato al mondo
che sappiamo dialogare e essere rispettosi delle reciproche convinzioni"). Poi se
guiva un duro riferimento alla politica di Washington, a cui Giovanni Paolo II re
plicava con una frase a effetto: le misure di blocco economico contro una popola
zione sono sempre "ingiuste e eticamente inaccettabili".
"Cuba deve aprirsi al mondo e il mondo deve aprirsi a Cuba", aveva detto
Wojtyla al suo arrivo a L’Avana esplicitando il senso del suo viaggio e invitando Ca
stro ad avere il coraggio del confronto. Il Papa chiudeva la sua visita con parole di
condanna della politica degli Stati Uniti, dopo aver insistito per cinque giorni sulla
richiesta del superamento del monolitismo della società cubana. Castro replicava
con una grande capacità di ascolto e di ossequio nei confronti dell’illustre ospite.
Nel rinnovato rispetto verso la religione cattolica (di conseguenza verso i credenti
di ogni fede religiosa e verso il pluralismo culturale) e nella condanna all’embargo ame
ricano sono racchiusi i risultati di questo incontro tra Castro e Wojtyla che era stato
preparato nei dettagli fin dal viaggio a Roma compiuto nel novembre ’96 dal leader cu
bano in occasione del vertice della Fao sui problemi della fame nel mondo. I due per
sonaggi che fanno ormai parte della storia di questo Novecento hanno trovato punti di
incontro e di accordo. Il Papa chiedeva più spazio per la Chiesa cattolica (maggiore vi
sibilità sociale, facilitazioni organizzative, accesso ai mezzi di informazione, fine di ogni
discriminazione) e Castro rispondeva positivamente su quasi tutti i punti della trattati
va tra Stato e Chiesa cercando nell’apertura di questo dialogo un modo efficace per
reinserire Cuba nella realtà internazionale e per aprire una fase nuova della sua rivolu
zione (i più ottimisti, dopo il viaggio papale, parlano addirittura di "seconda rivolu
zione cubana"). Né Castro né Wojtyla hanno rinunciato ovviamente ai rispettivi prìn
cipi: il "comandante en jefe" - fin dal discorso di benvenuto al Papa - ricordava la sto
ria ingloriosa della "conquista delle Americhe" e del colonialismo spagnolo di cui la
Chiesa non si può dire orgogliosa (facendo arrabbiare la diplomazia di Madrid che dal
l’insediamento del governo di destra di José Maria Aznar non aveva un ambasciatore
a L’Avana); Giovanni Paolo II ribadiva il messaggio di riconciliazione della Chiesa di
Roma non risparmiando critiche all’eccesso di semplificazione della società cubana in
dotto dall’esasperato marxismo leninismo dei decenni precedenti.
Avvio di un positivo dialogo
Il dialogo-confronto tra i due personaggi è continuato nella visita di Wojtyla al
palazzo presidenziale, all’Università dell’Avana e nel corso della messa a Piazza del6
la Rivoluzione dove Castro sedeva in prima fila tra gli invitati sotto l’enorme palco
bianco su cui c’era un grande crocifisso e oltre il quale - disegnato sulla facciata del
la Biblioteca nazionale José Marti - dominava una grande immagine di Cristo che
sembrava guardare quella di Ernesto Che Guevara che tanti anni domina uno degli
angoli della piazza. Era la metafora più appropriata per descrivere il dialogo tra
L’Avana e la Chiesa di Roma.
Il Papa ha battuto il tasto dei diritti civili, della libertà religiosa, della fine di ogni
ideologia totalitaria chiedendo ai cattolici cubani di ritornare protagonisti della sto
ria della propria isola. Castro, ricordando di aver frequentato da studente le scuole
gestite dai gesuiti, si è mostrato disponibile a correggere gli eccessi di intolleranza
della rivoluzione. In questo modo il dialogo è apparso sincero e foriero di novità da
una parte e dall’altra: in quella di una rivoluzione che vorrebbe rinnovarsi ma che fa
fatica a superare vecchi schemi; in quella di una Chiesa cubana troppo a lungo com
pressa in un ruolo marginale (l’ateismo di massa è stata una scelta del governo del
l’Avana a metà degli anni Sessanta e non solo un incidente di percorso, come invece
ha cercato di dire Castro ricordando che le incomprensioni erano venute soprattut
to dalla Chiesa troppo schierata con la locale borghesia all’inizio della rivoluzione).
C’è poi un altro dato destinato a lasciare un segno nella Cuba del prossimo fu
turo. Per la prima volta dal ’59 le piazze cubane sono state teatro di manifestazioni
non politiche e centinaia di migliaia di persone hanno potuto cantare e manifestare
con slogan e cartelli i propri convincimenti religiosi. Faceva impressione vedere nel
le strade dell’Avana, di Santa Clara, Camaguey e Santiago tanta gente che in modo
liberatorio ritrovava il gusto della partecipazione oltre gli angusti confini o del par
tito o delle manifestazioni ufficiali. E la sorpresa continuava con le immagini televi
sive che in diretta davano conto di quasi tutte le iniziative pastorali del Papa, fa
cendo entrare in ogni casa cubana il messaggio di un’attività religiosa finalmente li
bera da ogni limitazione.
La prima sorpresa si è avuta con il discorso del cardinale Jaime Ortega Alamino
in televisione alla vigilia dell’arrivo del Papa, poi lo stesso cardinale teneva un’affol
lata conferenza stampa nell’Hotel Habana libre. Il vertice della Chiesa cubana - so
prattutto nelle parole con cui Maurice Estiu, vescovo di Santiago, presenteva Gio
vanni Paolo II ai fedeli della seconda città per importanza dell’isola - non rispar
miava aspre critiche verso la massificazione ideologica e sociale che hanno accom
pagnato l’istituzionalizzazione della rivoluzione, ma il Papa e il clero dell’isola usa
vano sapientemente acceleratore e freno. Anche la richiesta di un’amnistia per i de
tenuti politici veniva condotta con discrezione e senza imporre ultimatum.
L’obiettivo della Chiesa di Roma, per ora, è rafforzare gli spazi acquisiti a Cuba
fin dal ’91 (caduta di ogni discriminazione sociale nei confronti dei credenti, fino a
quella data per i cubani era meglio non dichiarare la pratica di una fede religiosa
per non essere penalizzati nella loro vita pubblica) e incentivare un laicato cattoli
co che potrebbe convogliare molte aspirazioni sociali compresse. Nel più lungo pe
riodo, la Chiesa cubana (e quella di Roma) non nasconde troppo il suo desiderio di
contribuire a dar vita a un partito di ispirazione cattolica che potrebbe diventare
protagonista di una transizione verso il pluralismo politico sull’isola (per ora na
scerà un nuovo seminario e nuovi preti e suore arriveranno a Cuba in attesa che le
vocazioni rafforzino una gracile struttura organizzativa, mentre non ci sarà il via li
bera a scuole private di orientamento religioso). A Pinar del Rio, nella parte più oc7
cidentale dell’isola, il quarantenne Dagoberto Valdes dirige un centro di formazio
ne del laicato cattolico che ispira anche la rivista "Vitral" e che si candida ad af
fiancare il lavoro direttamente ecclesiale della Chiesa cubana.
Castro e i dirigenti della rivoluzione che hanno partecipato alle messe abbando
nando le divise militari e indossando giacca e cravatta, che si incontrano con il Pon
tefice, che sottolineano la positività di un confronto sono altrettanti segnali che
qualcosa di profondo è cambiato sull’isola più grande dei Caraibi nel corso della vi
sita di Wojtyla. Dopo il passaggio del Papa, nulla è più uguale a prima a Cuba.
Nonostante lo scetticismo con cui la maggioranza dei cubani ha guardato all’esito
del viaggio papale ("Con la sua partenza si tornerà alla routine di sempre e lo Sta
to ripresenterà un volto autoritario"), gli spazi conquistati dal cardinale Ortega e
dalla Chiesa cattolica sono un dato acquisito. Irreversibile è pure la fine dell’antico
monolitismo rivoluzionario. Tornare indietro significherebbe rifar precipitare L’A
vana nell’isolamento politico e economico; quelle centinaia di migliaia di persone
che hanno accompagnato da vicino la vista del Papa difficilmente rinuncerebbero a
manifestare con libertà le proprie convinzioni. Un passo falso del governo cubano
in questa direzione potrebbe avere conseguenze imprevedibili, deludendo ancora
una volta le aspettative di chi vorrebbe difendere la rivoluzione aggiornandola alla
realtà di fine secolo. A Cuba non basta aver restitito alla dura prova del "periodo
especial" e aver aperto le porte all’economia mista, al turismo di massa, ai primi ten
tativi di superare gli eccessi di centralizzazione e pianificazione dell’economia, se
tutto questo diventa solo una strategia di contenimento e non una capacità di rin
novare idee e aspettative verso una rivoluzione che ha ormai quarantanni.
Sarà Castro a premere sull’acceleratore, annunciando la separazione delle cari
che al vertice dello Stato? Resterà segretario del Partito comunista, lasciando ad al
tri l’incarico di primo ministro e avviando di fatto un cambiamento al vertice? Sul
settantunenne Fidel, ritornato in in smagliante forma fisica dopo le voci preoccu
pate sulla sua salute che erano circolate la scorsa estate, grava il peso politico e
psicologico di preparare il futuro della Cuba del Duemila e il modo con cui questo
Paese guarderà al ruolo di chi l’ha governata per quarant’anni. Di fronte all’inter
rogativo se le iniziative di Castro nei confronti del Papa e della Chiesa cattolica fos
sero dettate da una "crisi religiosa" o da un progetto politico, il buon senso vuole
che la risposta sia la seconda: anche se è impossibile prevedere come prenderà for
ma questo progetto nei prossimi mesi. Dopo la partenza di Wojtyla, Fidel è torna
to a insistere sul leit motiv che il viaggio del Pontefice è stato "un fatto storico" e
che con la Chiesa di Roma si può trovare un accordo sull’idea di "globalizzazione
della solidarietà" come risposta alla globalizzazione dell’economia (cosa vorrà dire
nel concreto è tutto da vedere).
Le controm isure di W ashington
Ogni volta che un avvenimento vede per protagonista Cuba non si può trala
sciare di analizzare le reazioni politiche degli Stati Uniti. Per seguire la visita papa
le sono giunti sull’isola oltre un migliaio di giornalisti di quel Paese (il 40 per cento
del totale) e "Cnn", "Nbc" e "Abc" hanno sconfitto tutte le emittenti televisive
concorrenti per qualità e quantità di informazioni relative al viaggio di Giovanni
Paolo IL Una tale presenza di organi di informazione statunitensi non si registrava
8
sull’isola dai primi anni Sessanta: immagini, commenti, reportage relativi a Cuba so
no entrati in milioni di case americane abituate a considerare quella realtà come un
nemico da combattere. La potente lobby cubana che vive in Florida non se l’è sen
tita di attaccare oltre un certo limite la scelta del Papa, anche se non ha mostrato
nessun gesto di riconciliazione verso L’Avana: il mancato arrivo sull’isola delle navi
di pellegrini provenienti da Miami ha reso amara la visita del Papa, dimostrando
che neanche il suo magistero è in grado di far dialogare le due Cuba che si fronteg
giano da un versante all’altro dello Stretto della Florida.
Ma proprio in quei giorni di fine gennaio l’attenzione dell’opinione pubblica degli
Stati Uniti era rivolta soprattutto alle vicende giudiziarie che hanno visto come impu
tato il presidente Bill Clinton (la presunta relazione adultera con Monica Lewinsky).
Solo dopo le nette dichiarazioni del Papa di condanna del blocco economico america
no contro Cuba sono venute le prime reazioni della Casa Bianca e del Congresso (cin
que senatori del Partido democratico erano presenti a L’Avana nei giorni della visita di
Giovanni Paolo II). Democratici e repubblicani (anche il senatore Helms che è firma
tario della legge che dal ’96 ha reso più inflessibile l’embargo contro L’Avana) si sono
dichiarati disposti ad allentare le misure di blocco economico per quanto riguarda la
possibilità di commerciare prodotti farmaceutici e alimentari. Il provvedimento - se
condo le motivazioni dei proponenti - avrebbe finalità "umanitarie" e terrebbe conto
delle raccomandazioni del Pontefice. Clinton si è limitato a esprimere parere favore
vole, confermando ancora una volta l’impressione che la sua presidenza non si carat
terizzerà (salvo imprevisti) per una nuova politica nei confronti di Cuba nonostante il
secondo mandato lo renda Ubero da ricatti elettorali.
Castro ha risposto a questa piccolissima inversione di marcia degh Stati Uniti ri
badendo la richiesta che il blocco economico contro Cuba dev’essere ehminato nella
sua totalità. In un lungo discorso tenuto appena una settimana dopo la partenza del
Papa dall’isola, il leader cubano ha sostenuto che un’eventuale attenuazione del bloc
co economico da parte statunitense sarebbe motivata solo dalla volontà di mitigare la
condanna internazionale verso quella politica. Le parole di Giovanni Paolo II - secon
do Fidel - avrebbero rafforzato l’isolamento di Washington, ma mitigare l’embargo
non servirebbe a nulla perché Cuba ha bisogno di capitah stranieri che investano nel
l’isola in piena libertà e senza pressioni contrarie, di commerciare Uberamente a livel
lo mondiale e di accedere ai crediti economici deUe istituzioni internazionaU come un
qualsiasi altro Paese. Proprio dopo la visita del Papa, L’Avana ha lanciato una nuova
offensiva contro le penalizzazioni economiche che subisce a causa del blocco econo
mico (le potenzialità di sviluppo deU’isola nel turismo e neU’economia mista a parte
cipazione di capitale straniero sono gravemente limitate dalle continue pressioni nega
tive che vengono daU’altra parte deUo Stretto deUa Florida).
Il principale e più importante risultato dell’incontro Wojtyla-Castro è il ritorno pre
potente suUa scena internazionale del "caso Cuba": chi vuole continuare con la politica
deU’isolamento contro L’Avana deve fare i conti con i molti segnaU positivi che sono ve
nuti daU’isola prima, durante e dopo la visita pastorale del Papa. L’Europa potrebbe fi
nalmente diventare un partner indispensabile per l’economia deU’isola, mentre è pro
babile che gU Stati Uniti facciano sempre maggiore fatica a mantenere la propria politi
ca di accerchiamento nei confonti deU’Avana. Castro e la rivoluzione cubana escono
rafforzati e pienamente legittimati dada sfida con Wojtyla e il Vaticano. La pagina nuo
va deUa rivoluzione cubana che si è aperta a inizio del ’98 è sicuramente positiva.
9
Le illustrazioni di questo numero sono tratte da II manifesto dell’Ospaaal, Edizione
Il Papiro, Milano, 1997.
Il volume raccoglie la collezione del Catalogue o f Ospaaalposters, 1994, offerta dai suoi autori
Lincoln, Cushing, Dan Walsh e Michael Rossman.
L’Ospaaal, nata da un accordo della Prima Tricontinentale, nel 1996, ha come obiettivo la rea
lizzazione della solidarietà tra i popoli dell’Africa, Asia e America latina.
Asela Péerez, offset, 1973, 33x53 cm.
10
José Ramos Regidor
Teologia della liberazione:
una sfida per il Nord
Nonostante allarmismi e dichiarazioni infondate, anche oggi, «la teologia della
liberazione non è sepolta sotto il muro di Berlino, perché non si è mai alleata ad un
progetto specifico o partitico, estrapolando la natura del suo discorso», come ha det
to recentemente il teologo brasiliano della liberazione Frei Betto1. Infatti, è vero che
«l’utopia cristiana si esprime in categorie umane, politiche e storiche». Proprio per
questo il discorso teologico sulla società più giusta si incontra con due problemi dif
ferenti: da una parte, mantenere le distanze tra l’utopia evangelica e le categorie in
cui esprime i suoi progetti specifici, per evitare qualsiasi forma di confusione e di to
talitarismo; d’altra parte, non lasciarsi trascinare da un progetto di giustizia spiritua
lista, paternalista, assistenzialista, che non tiene conto delle radici profonde dell’in
giustizia dominante nella nostra società e frena l’impegno dei credenti per una civiltà
alternativa. Qui mi limiterò alla teologia latinoamericana della liberazione che ha
avuto un notevole influsso reciproco con le esperienze vissute anche in Italia123*.
1. G en esi, storia, m aturazione
La teologia latinoamericana della liberazione è nata e si è sviluppata all’inter
no di un processo storico5, caratterizzato dall’intreccio tra due realtà significative
1 Frei Betto, Non è sepolta sotto il muro, in “Adista” , Roma, 28 giugno 1997.
2 Per una visione d’insieme, cfr. J. Ramos Regidor, Gesù e il risveglio degli oppressi. La sfida della
teologia della liberazione, Mondadori, 1981. - Id., La teologia della liberazione, Datanews, 1996. - Id., Li
berazione e alterità. 25 anni di teologia della liberazione, in ‘Testimonianze”, 11,1996, pp. 25-44. Cfr. an
che B. D’Avanzo, Chiesa e liberazione in America Latina, Edizioni Dehoniane, 1988. Sul dibattito più re
cente: I. Ellacuria e J. Sobrino (a cura), Mysterium liberationis. Concetti fondamentali della teologia del
la liberazione, Boria e Cittadella ed., 1992. - J. Comblin, J. I. Gonzalez Faus e J. Sobrino (a cura), Cam
bio social y pensamiento cristiano en América Latina, Editorial Trotta, Madrid, 1993. - S. Rodriguez, Pasado y futuro de la teologia de la liberación. De Medellin a Santo Domingo, Editorial Verbo Divino, Estella, 1992. - J. J. Tamayo, Presente y futuro de la teologia de la liberación, Ed. San Pablo, Madrid, 1994.
3) Cfr. E. Dussel, Storia della Chiesa in America Latina. Colonizzazione e liberazione, 14921992, Q ueriniana, 1992. - Id. (a cura), La Chiesa in America Latina, 1492-1992: il rovescio del
la storia, Cittadella ed., 1992.
11
che fanno parte di questo stesso processo. Innanzitutto una realtà socio-politica,
cioè il movimento popolare, il risveglio degli oppressi, la presa di coscienza dei po
poli impoveriti ed esclusi e le loro organizzazioni che lottano contro la situazione
ingiusta di esclusione e di impoverimento (sfruttamento, violenza, oppressione).
Un fenomeno della seconda metà degli anni ‘50, che ha avuto i suoi momenti più
forti nelle rivoluzioni cubana (1959) e sandinista (1979). Allo stesso tempo c’è sta
ta una realtà cristiano-ecclesiale, presente aH’interno dei movimenti popolari dalla
parte degli impoveriti e degli esclusi e impegnata nella loro prassi di liberazione.
Ciò avvenne all’inizio, sopratutto nei gruppi e nelle associazioni operaie e studen
tesche di ispirazione cristiana e nelle esperienze delle comunità ecclesiali di base.
Anche in riferimento alla rivoluzione cubana, in alcuni congressi continentali di
sindacati e di studenti, tra il 1959 e il 1961, questi cristiani rifiutarono il riformismo
ispirato alla dottrina sociale della chiesa cattolica e fecero propria l’ipotesi rivoluzio
naria e socialista, nel senso di una fuoriuscita dai meccanismi del sistema capitalista ri
tenuto la radice della situazione di povertà delle grandi maggioranze latinoamericane.
Ciò avvenne, per esempio, nella Confederation latinoamericana de sindicatos
cristianos (Clasc) riunita a Quito nel 1959, e nell’incontro organizzato dalla ]uventud universitaria católica (Juc) del Brasile nel 1961. Anche nelle chiese evangeliche
storiche e poi in quelle pentecostali, certi settori significativi hanno vissuto un’e
sperienza simile a quella della chiesa cattolica. Fin dall’inizio, si collocarono nella
stessa linea alcuni gruppi come quelli del Movimiento estudiantil cristiano (Mec) e,
a partire dal 1961, quelli dell’Iglesia y sociedad en América Latina (Isal).
In questi gruppi e nelle comunità di base, i cristiani hanno cominciato a ren
dersi conto che l’interpretazione tradizionale del vangelo non era capace di rispon
dere ai problemi vissuti nella loro nuova esperienza di fede. Perciò hanno comin
ciato ad elaborare una nuova interpretazione della Bibbia e della storia del cristia
nesimo dal punto di vista degli impoveriti e degli esclusi, cioè dal rovescio della sto
ria, come ha detto Enrique Dussel. In questa realtà storica è quindi avvenuta la pri
ma “gestazione” della teologia della liberazione, iniziata ancora prima del Concilio
Vaticano II (ottobre 1962-dicembre 1965).
Certamente, l’evento del Concilio ebbe un grande influsso sulla preparazione * '
della nascita e del consolidamento della teologia della liberazione. Nel Concilio, la
chiesa cattolica ha cercato di “aprirsi al mondo”. Ma questo mondo aveva connota
zioni diverse, a volte contrastanti. Infatti, il Nord del mondo poneva alle chiese i pro
blemi della modernità, dello sviluppo, della scienza, della tecnologia, dell’indiffe
renza religiosa, dell’ateismo. Invece, la chiesa cattolica latinoamericana si trovava di
fronte ad un mondo che in parte aveva, in termini diversi, gli stessi problemi della
modernità, vissuti dalle élite e dai settori dominanti, largamente minoritari e forte
mente integrati nella cultura occidentale del Nord. Ma i vescovi latinoamericani sco
prirono che i problemi che caratterizzavano questo mondo erano quelli legati alla si
tuazione di ingiustizia e di povertà, di miseria e di esclusione delle grandi maggio
ranze latinoamericane (80%) dalle quali «sta salendo verso il cielo un clamore sem
pre più tumultuoso ed impressionante. E’ il grido di un popolo che soffre e che chie
de giustizia, libertà, rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli»4.
4
') Puebla. Documenti, Emi, 1979.
12
Nei tre anni dopo la fine del Concilio Vaticano II si andò organizzando, con
solidando e approfondendo un grosso dibattito che è servito a “coscientizzare” e
coinvolgere le chiese e i cristiani di base, in preparazione alla Conferenza dell’Epi
scopato Latinoamericano che ebbe luogo a Medellin (Colombia, agosto-settembre
1968), con l’obiettivo di applicare il Concilio alla peculiare situazione dell’America
latina e dei Caraibi. In quella importante conferenza, la chiesa cattolica latinoame
ricana si è lasciata interpellare dal grido delle grandi maggioranze impoverite ed
escluse ed ha fatto tre opzioni fondamentali: per i poveri, per le comunità ecclesia
li di base e per la liberazione integrale.
Nello stesso anno di Medellin, nel luglio 1968, il teologo peruviano Gustavo
Gutiérrez utilizzò per primo la formula «verso una teologia della liberazione», in una
sua conferenza sul tema. Si può quindi dire che sono passati trent’anni dalla prima
utilizzazione di questa formula. Dopo Medellin, questo movimento sociale ed eccle
siale si è diffuso in tutto il continente, anche in dialogo e collaborazione con i movi
menti popolari e della sinistra laica. Tra gli altri, si ebbe in quell’epoca una vittoria
politica della teoria della dipendenza, assunta, criticamente e autonomamente anche
dalla teologia della liberazione e che ne sottolineava le sue dimensioni culturali.
Nel corso di questi movimenti storici si è progressivamente elaborata, nella
prassi e nella teoria, la teologia della liberazione. Molti ritengono che il 1971 sia sta
to l’anno della maturità delle formulazioni sistematiche e articolate di questa teolo
gia. Infatti, come hanno detto Leonardo Boff e Clodovis Boff nel 1986, «nel di
cembre del 1971, G. Gutiérrez pubblica il libro inaugurale di questa teologia con il
suo Teologia de la liberación, perspectivas. Nel maggio dello stesso anno Hugo Assmann aveva già pubblicato il libro collettivo Opresión-liberación: desaflo de los cristianos e in dicembre Leonardo Boff terminava sotto forma di articoli il suo Jesus
Cristo Libertador. Era così aperta la strada per una teologia fatta a partire dalla peri
feria e articolata con i suoi problemi, che rappresentavano e continuano a rappre
sentare ancor oggi una enorme sfida alla missione evangelizzatrice delle chiese»5.
Gli stessi autori citano anche altri teologi della liberazione che, fin dagli inizi di que
sto processo, hanno avuto un grosso impatto positivo sul movimento delle comu
nità ecclesiali di base e sulla teologia della liberazione: Juan Luis Segundo, Hugo
Assmann, Lucio Gera, Eduardo Pironio (vescovo segretario del Celam, poi cardi
nale integrato nella Curia Vaticana), Segundo Galilea e altri. Tra i protestanti, Emi
lio Castro, Julio de Santa Ana, Rubem Alves, José Miguez Bonino ed altri ancora6.
2. Caratteristiche principali e strutture ep iste m o lo g ic h e
Nei suoi primi venticinque anni di storia, il movimento della teologia della li
berazione ha acquisito alcune caratteristiche peculiari e alcune strutture epistemo
logiche che costituiscono la sua identità e che ha mantenuto con continuità nella di
versità dei contesti, a livello socio-economico, politico, culturale ed ecclesiale, nel
le due fasi diverse della sua storia: cioè, nei primi quindici anni (1971-86) in cui era
presente la vitalità della sinistra sociale e cristiano-ecclesiale, e nei dieci anni suc-
5) L. Boff e C. Boff, Come fare teologia della liberazione, Cittadella ed., 1986.
6) Id., pp. 107-108
13
cessivi (1986-96) in cui emerge la crisi della sinistra, la caduta delle ideologie tota
lizzanti e l’appello etico e cristiano verso una civiltà alternativa. In queste due fasi
storiche si trovano presenti alcune delle dimensioni più caratteristiche della teolo
gia latinoamericana della liberazione.
1) Come si è detto fin dall’inizio, la caratteristica fondante di questa teologia è
l’incontro tra due fattori storici: da una parte la realtà socio-politica dei movimen
ti popolari, della loro coscienza e della loro organizzazione, delle loro lotte contro
l’ingiustizia in cui vivono gli impoveriti e gli esclusi. Questa realtà ha avuto i suoi
momenti culminanti nella rivoluzione cubana (1959) e in quella sandinista (1979).
D’altra parte, la realtà storico-sociale dei cristiani che fanno la loro opzione per i
poveri e si impegnano in queste lotte di liberazione. Con frequenza la parola pove
ri è sostituita con le parole impoveriti ed esclusi, perché non si tratta del singolo iso
lato bensì del suo intreccio con gli altri, con i dinamismi socio-economici e politici
che sono la causa del loro impoverimento e della loro esclusione. Inoltre, i cristia
ni riconoscono i poveri come soggetti e protagonisti delle loro lotte, come soggetti
di diritti e di doveri, a livello sociale ed ecclesiale, nel rapporto dialettico tra la di
mensione collettiva e la soggettività dell’individuo, per evitare i possibili equivoci
dell’individualismo e del collettivismo.
2) In questa prospettiva la teologia della liberazione intende se stessa come ri
flessione sull’esperienza di fede vissuta dai credenti nei processi storici di libera
zione degli impoveriti e degli esclusi. Quindi non si parte dall’alto, da formule teo
logiche e dogmatiche stabilite. Si parte invece dal basso, dall’esperienza storica, dal
le lotte degli impoveriti e dall’esperienza dei cristiani presenti e coinvolti in quelle
lotte. In quanto riflessione su quest’esperienza, la teologia della liberazione ricono
sce se stessa come atto secondo, non neutrale, che viene dopo l’atto primo, che è
quella speciale esperienza di fede e di spiritualità cristiana stimolata dall’opzione
per gli impoveriti, considerati come soggetti e protagonisti della loro storia e della
storia del mondo.
3) In quanto riflessione critica sull’esperienza di fede stimolata dall’opzione
per i poveri, questa teologia utilizza la mediazione degli strumenti scientifici: in
nanzitutto, le scienze umane e sociali per conoscere i meccanismi di impoverimen
to, di esclusione e di sofferenza; inoltre, le scienze ermeneutiche, per interpretare la
Bibbia e i testi del passato dall’attuale punto di vista dei poveri; e infine la media
zione della pratica di liberazione, come criterio critico e costruttivo delle sue ela
borazioni teologiche.
4) Nel contesto storico dei cinquecento anni di conquista e colonialismo, que
sta teologia è la prima teologia della periferia, del Sud del mondo, perché parte da
una esperienza di fede che cerca di interpretare il vangelo dando priorità ai pro
blemi ed ai punti di vista del Sud, delle sue culture e delle sue religioni, che esiste
vano prima della Conquista e anche oggi acquistano una nuova vitalità. Le altre teo
logie occidentali, presenti in America latina, sono state importate, sono nate nel
Nord e sono state imposte dall’evangelizzazione colonizzatrice. Esse esprimono l’e
sperienza di fede, vissuta nel Nord, che ritiene prioritari i problemi, le culture, gli
interessi e i punti di vista dei settori dominanti nei paesi del Nord e delle minoran
ze dominanti nei paesi del Sud, sostenute dal sistema coloniale.
5) A partire dall’esperienza di fede e di spiritualità la teologia della liberazione
esercita una funzione profetica con un duplice compito: analizzare e criticare i mecca14
nismi dell’ingiustizia socio-economica, politica, ecologica e culturale che emarginano i
due terzi dell’umanità; servire da stimolo alla creazione di un nuovo tipo di civiltà, giu
sta, libera e solidale, come base di quella speranza attiva che cerca di immaginare e co
struire il futuro nella linea della liberazione dei poveri e della guarigione della terra.
6)
Dalla descrizione di queste caratteristiche principali si è visto che la teolo
gia della liberazione cerca di dare un senso al conflitto storico, più o meno grave,
con i potenti della società e della chiesa. Nel contesto della guerra fredda, in nome
della lotta al comuniSmo per la difesa della civiltà occidentale e cristiana, la repres
sione del potere civile e militare ha fatto della chiesa dei poveri latinoamericana una
chiesa dei martiri.
AH’interno della chiesa cattolica, la teologia della liberazione è stata forte
mente osteggiata soprattutto dal 1972, quando si organizzò un gruppo dedicato
alla lotta contro questa teologia, coordinato fin dall’inizio dal cardinale Alfonso
Lopez Trujillo allora arcivescovo di Medellm e appoggiato dai settori dominanti
e conservatori del Vaticano, più o meno legati al potere oppressivo e politico do
minante nel mondo. Questa opposizione ha avuto il momento più forte nei due
documenti del cardinale Ratzinger (settembre 1984 e marzo 1986) e nello scon
tro parallelo tra lo stesso Ratzinger e il teologo brasiliano Leonardo Boff. La chie
sa dei poveri e le comunità cristiane di base non si sono riconosciute nella con
cezione della teologia della liberazione utilizzata da quei documenti vaticani, in
fluenzati dal clima della guerra fredda. Perciò le comunità di base rispondono
cercando un dialogo con le istituzioni, eticamente dignitoso, e allo stesso tempo
si impegnano nella ricerca di molteplici strade che possano portare alla reinven
zione della chiesa dal basso9
3. Caduta delle id eo lo g ie totalizzanti, alterità e so c ie tà civile
Questa teologia è nata e si è diffusa e consolidata in una prima fase storica
(1971-1986) caratterizzata dalla vitalità dei movimenti popolari e dei movimenti ec
clesiali, della sinistra socio-politica e della sinistra ecclesiale, per la liberazione dei
popoli impoveriti. In questa situazione la chiesa dei poveri e la sua teologia hanno
prestato particolare attenzione alle dimensioni socio-economica e politico-militare
dell’oppressione. Con l’obiettivo di conoscere la perversità di questi meccanismi, i
teologi della liberazione hanno utilizzato, criticamente, le scienze sociali e politiche,
tra cui l’analisi marxista.
Venticinque anni dopo e, più precisamente, negli ultimi dieci anni (19861996), la società attuale è profondamente cambiata a livello mondiale e si sta av
viando verso una crisi epocale che spinge alla ricerca di una sua alternativa e con la
quale devono fare i conti anche la chiesa dei poveri e la teologia della liberazione.
In breve, questi cristiani ritengono che i profondi cambiamenti e il passaggio di ci
viltà in cui siamo anche noi immersi intorno a due problematiche o dimensioni rea
li, diverse fra loro ma anche profondamente intrecciate:
1) Nella fase culminante degli eventi globali, la caduta del muro di Berlino nel
7)
Cfr. J. L. Segundo, Teologia de la liberación. Respuesta aI Cardinal Ratzinger, Ed. Cristianidad, 1985. - Il caso Boff, Emi, 1986.
15
dicembre 1989 ha messo in evidenza la fine della guerra fredda, il crollo del bipo
larismo, la caduta delle ideologie totalizzanti e la crisi del socialismo reale come
problemi che fanno riferimento alla crisi della civiltà attuale. Ma la caduta delle
ideologie totalizzanti non si riferisce soltanto ai socialismi reali. E’ palese che la glo
balizzazione e il neo-liberismo - che sono i modi di essere del capitalismo attuale aumentano la produzione sacrificando all’ideologia totalizzante del mercato l’impoverimento e l’esclusione degli altri, soprattutto nei rapporti Nord-Sud, nei due
terzi dell’umanità. I meccanismi socio-economici e politici dell’idolatria del merca
to impediscono all’attuale società la ricerca di una risposta adeguata alla crisi eco
logica. Inoltre, entro questa sua prospettiva ideologica, in parte nascosta, la civiltà
attuale si dimostra incapace di riconoscere le antiche e le nuove soggettività e alte
rità, nella ricerca di una civiltà alternativa.
2) Altri eventi che caratterizzano questo passaggio di civiltà sono il diffonder
si della società civile, i problemi - positivi e negativi - legati all’emergere di nuove
alterità che pongono il problema dell’intreccio tra la liberazione degli impoveriti e
il riconoscimento della loro alterità. Si tratta della capacità di reagire di fronte alla
validità - sempre parziale - delle culture e dei movimenti emergenti che chiedono
di essere liberati dalla negazione della loro identità e della loro dignità, dall’occul
tamento delle loro soggettività e dal rifiuto della loro autodeterminazione, negata
nelle donne con il al sistema patriarcale e negata ai popoli indigeni e neri durante
cinquecento anni di colonialismo.
Naturalmente i problemi, i soggetti e i movimenti che sono portatori della lo
ro alterità, influiscono positivamente e/o negativamente ai livelli della politica e in
genere della società e anche degli individui. Si tratta innanzitutto dei movimenti e
dei soggetti classici, in particolare il movimento operaio e contadino. Ma si tratta
anche di nuovi movimenti e soggetti, parziali e provvisori, che in gran parte fanno
riferimento ai rapporti Nord-Sud e sono impegnati per la pace e per la giustizia, per
la democrazia, per l’ambiente, per i diritti umani, per l’autodeterminazione dei po
poli indigeni, degli afroamericani e in genere dai popoli del Sud, per il riconosci
mento della differenza di genere delle donne e degli uomini, per il riconoscimento
delle alterità e dei pluralismi culturali, per la solidarietà con gli esclusi, ecc. L’e
mergere e il diffondersi di tali movimenti avviene nella società civile, sempre in
trecciata con la politica, per un cambiamento radicale di questa società. Questa
realtà e questi movimenti sono un indice di una certa ripresa della sinistra, contro
i meccanismi perversi dei neoliberismi dilaganti nel pianeta e per la costruzione di
una nuova umanità.
4. T eologia della liberazione: dalla crisi di civiltà all’inserim ento
v erso il futuro
Non è facile mantenere unite le caratteristiche della teologia della liberazione,
specialmente nella situazione degli ultimi dieci anni. Tuttavia, restando fedeli alle
dimensioni costruite nel passato, le comunità ecclesiali di base e la teologia della li
berazione si lasciano interpretare dal nuovo, riconoscono alcuni limiti che ora ap
paiono con maggior chiarezza e cercano di inserirsi criticamente nella creazione del
futuro, in quello che ritengono il passaggio storico dell’umanità verso una nuova ci
viltà. La teologia della liberazione vi appare come una realtà storica, soggetta al
16
cambiamento e alle crisi, mai arrivata a soluzioni complete, sempre aperta al plura
lismo e ai problemi nuovi e coraggiosa nell’utilizzare nuovi strumenti di analisi e di
intervento.
Dalla metà degli anni ‘80, in occasione dei dibattiti sui cinquecento anni della
Conquista e della colonizzazione dell’America, la teologia della liberazione ha sco
perto che, oltre la dimensione socio-economica e politica della Conquista e della
colonizzazione, c’era il problema del riconoscimento dell’altro. Ciò vuol dire il ri
conoscimento delle alterità degli indios e dei neri, della loro identità sempre in di
venire, della loro autodeterminazione e della validità della cultura e delle religioni
tradizionali, negate dal colonialismo fino ad oggi8.
In questo contesto la teologia della liberazione prende atto del significato po
litico della società civile, considerata come «agente di trasformazione e di rinnova
mento», come dice, tra gli altri, Pablo Richard9. Questi teologi rimangono forte
mente impegnati con la sinistra politica e con il movimento operaio e contadino,
contro i meccanismi economici e politici del neo-liberismo, per una nuova umanità.
Ma allo stesso tempo questi cristiani e teologi della liberazione intrecciano il loro
impegno politico con le realtà della società civile e vi collaborano criticamente. So
prattutto sui temi riguardanti i problemi Nord-Sud, essi lavorano insieme con le
Organizzazioni non governative (Ong), con i sindacati, le associazioni ecologiche
ed ambientaliste e le organizzazioni culturali, religiose, civiche che lavorano dal
basso in un processo molteplice di coscientizzazione, creando un tessuto civico, so
ciale, ecologico, culturale, religioso e politico capace di lottare per un cambiamen
to radicale della società attuale.
Oggi, nelle chiese cristiane latinoamericane ci sono due impostazioni, diverse
e in parte contrastanti: 1) a livello della chiesa gerarchica e istituzionale, tira un ven
to di destra che intende normalizzare le comunità ecclesiali di base e la teologia del
la liberazione; 2) ma allo stesso tempo crescono le comunità cristiane di base e al
tre forme della chiesa dei poveri che lavorano con i soggetti classici e con quelli
emergenti, anche di taglio laicale, impegnate nei cambiamenti radicali che tendono
ad una società alternativa. Quindi, questa chiesa dei poveri partecipa alla costru
zione di un tipo di cristianesimo pluriculturale che va nascendo dal basso, denun
ciando e superando l’oppressione che accompagna la concezione tradizionale del
cristianesimo monoculturale, cioè europeo ed occidentale. In questa prospettiva, lo
stesso Frei Betto, nel dialogo e nella convivenza tra i due tipi di chiesa, chiede un’a-
8) Cfr. L. Boff e V. Elizondo (a cura), 1492-1992. La voce delle vittime, in “Concilium ” , 6, 1990.
- L. Boff, Nuova evangelizzazione. Prospettiva degli oppressi, Cittadella 1990. - Id., 500 anni di
evangelizzazione. Dalia conquista spirituale aita liberazione integrale, Cittadella ed., 1992. - Id.,
Con la libertà del vangelo, La Piccola Ed., 1992. - T. Todorov, La Conquista dell'America. Il pro
blema dell’altro, Einaudi, 1984. - F. Mires, In nome della croce. Dibattito teologico-politico sull’olo
causto degli indios nel periodo della Conquista, La Piccola Ed., 1991. - G. Gutiérrez, Alla ricerca
dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, 1995. - E. Balducci, Montezuma scopre l ’Europa. Il senso di un centenario, Ed. Culture della Pace, 1992. - G. G i
rardi, La conquista dell’A merica dalla parte dei vinti, Boria, 1992. J. Ramos Regidor, Conquista/in
vasione/ resistenza. 500 anni di negazione dell’altro, in “ Bollettino della Cam pagna Nord-Sud”, Ro
ma, 1, 1991, pp. 4-24.
9) P. Richard, La teologia de la liberación en la nueva conjuntura, in “Pasos”, 34, 1991, pp. 4-5.
17
nalisi teologica più profonda per quanto riguarda la teologia dei ministeri, tra cui il
diritto canonico e il primato di Pietro10*.
5. La q u estio n e del so cia lism o e lo zap atism o in C hiapas
La teologia della liberazione si è occupata molto del rapporto tra la fede cri
stiana e la lotta per la giustizia sociale e politica degli impoveriti ed esclusi. Nel di
battito circa la Conquista e la colonizzazione ha preso coscienza che quel tipo di li
berazione poggiava realmente sul riconoscimento dell’alterità e della soggettività,
come singoli e come popoli. Perché la loro cultura e la loro religione sono la base
della loro identità e quindi della loro autodeterminazione in quanto capacità di es
sere soggetti attivi nella storia propria e nella storia del mondo, assieme agli altri po
poli e culture. In questa prospettiva, l’emergere di nuove alterità e di nuovi e anti
chi soggetti storici, nella società politica e nella società civile, ha condotto a rico
noscere il carattere relativo, parziale e provvisorio e orientato verso il futuro, come
è proprio di ogni realtà storica. Oggi non esiste più un soggetto che possa essere
portatore universale e unico della storia, con una cultura salvifica totale e totaliz
zante, che conduce sempre a nuove forme di totalitarismo e di fondamentalismo.
Quindi, anche il movimento operaio non è più un soggetto portatore e salvifico del
la storia universale. E’ vero che esso può avere un ruolo importante nella storia at
tuale. Ma questo ruolo non può essere totalizzante, non può avere una risposta
esauriente per tutto, deve essere cosciente dei propri limiti. Il suo è un compito re
lativo e provvisorio, in riferimento ai diversi contesti storici. Questo movimento è
chiamato a dialogare e collaborare con altri movimenti e soggetti storici, per lotta
re insieme contro i meccanismi escludenti del neoliberismo e per la ricerca demo
cratica di una società alternativa. Entro la consapevolezza di queste nuove realtà, si
può dire con Frei Betto che «la teologia della liberazione deve stare attenta a non
restare imprigionata nei concetti di classi sociali. Ci sono realtà come le donne, i
bambini, i neri e gli indigeni che esigono impostazioni diverse»11.
Nella prospettiva della ricerca di una utopia alternativa, il sogno zapatista e
l’insurrezione indigena e zapatista in Chiapas (1 gennaio 1994) sono piene di sim
boli e di indicazioni culturali e politiche. Da una parte esse sono un appello ai tan
ti popoli indigeni latinoamericani che si trovano in situazioni simili e dall’altra que
sti interventi culturali e politici sono il loro contributo alla costruzione di una nuo
va civiltà. Sempre più consapevolmente, essi intendono sfidare e dialogare con il
mondo occidentale.
Tra i temi centrali di questa sfida, essi hanno denunciato l’economicismo dei
modelli occidentali del capitalismo e inquadrano e presentano la loro organizza
zione dell’economia nella prospettiva etica e culturale delle loro tradizioni indige
ne. Da questo punto di vista, la loro organizzazione dell’economia non è sotto
messa ai poteri né agli interessi dei singoli, ma è centrata sugli uomini e sul benes
sere della comunità nazionale e internazionale. Questa rivendicazione della loro
dimensione etica e culturale include il riconoscimento della loro alterità e della lo-
10) Frei Betto, Non è sepolta..., op. cit., p. 15.
" ) Frei Betto, Non è sepolta..., op. cit., p. 14.
18
ro identità che sono state negate nei cinquecento anni di colonialismo. Da questi
accenni appare che il riconoscimento della loro alterità e della loro soggettività si
gnifica anche la rivendicazione di essere soggetti e protagonisti della loro storia e
della storia del mondo12.
Alcuni teologi della liberazione prendono atto di questa realtà e cercano di ri
proporre un cambiamento radicale della società e della chiesa, dai punti di vista
delle culture e delle religioni dei popoli indigeni. In questa prospettiva, monsignor
Samuel Ruiz Garda, arcivescovo della diocesi di San Cristóbal de Las Casas, parla
di una strada da percorrere verso una chiesa autoctona, di cui si era parlato nel
Concilio Vaticano II. Per monsignor Ruiz si tratta di una chiesa in cui i popoli in
digeni sono riconosciuti come soggetti e protagonisti nella lettura del vangelo, nel
l’organizzazione della chiesa e nella celebrazione dei sacramenti13. Di fatto, questo
protagonismo è parallelo al loro impegno prima nell’insurrezione e poi nella orga
nizzazione della società civile e della società in generale, come soggetti della resi
stenza all’oppressione militare ed economica, nella lotta contro il neo-liberismo.
Perciò ha un significato molto positivo la lettera (Città del Messico, 14 novembre
1996) in cui i provinciali dei gesuiti di tutta l’America Latina hanno condannato il
neo-liberismo, in particolare nel Messico e nel Chiapas, mettendosi chiaramente
dalla parte degli indigeni e degli zapatisti14.
6. Povertà, cultura, alterità: teologia della cultura nella linea della
liberazione
La presa di coscienza delle dimensioni culturali dei popoli indigeni e degli afroa
mericani ha indotto molti teologi della liberazione a ripensare i concetti di povero e
di povertà. Recentemente Frei Betto ha detto: «Povero è un termine biblico, che com
prende tutti quelli che si trovano, in qualsiasi modo, privati dell’accesso ai beni ma
teriali e simbolici imprescindibili dalla dignità umana, come diritto personale e co
munitario a cercare la felicità». Nello stesso testo l’autore offre un’ulteriore precisa
zione: «la povertà ha cause strutturali, il che significa che, a rigore, non vi sono po-
12) Cfr. Subcomandante Marcos. Dal Chiapas al mondo. Scritti, discorsi e lettere sulla rivolu
zione zapatista, a cura di R. Bugliani, Erre Emme Edizioni, 1996. - Subcom andante Marcos con
Y. Le Bot, Il sogno zapatista, Mondadori, 1997. - G. Almeyra e A. D’Angelo, Chiapas. La rivolta za
patista in Messico, Datanews, 1994. - R Coppo e L. Pisani (a cura), Armi indiane. Rivoluzione e
profezie maya nel Chiapas messicano, Edizione Colibrì, 1994.
13) Cfr. S. Ruiz Garcia, In quest’ora di grazia. Lettera pastorale del 6 agosto 1993, in “Adista” ,
10, 1994, pp. 3-13. - Id., Perché s ’incontrino la giustizia e la pace. Lettera pastorale del 2 agosto
1996, in S. Ruiz, Giustizia e pace si baceranno, a cura di J. Santiago, Ed. Lavoro, 1997. - G. G i
rardi, A. Grossi e A. Tosolini, Sui sentieri indigeni della chiesa in Chiapas, Ed. Alfazeta, 1996. - G.
Girardi, La insurrección indigena y la construction de la esperanza. Tres aportes, CRIE, Mexico,
1996. - S. Ruiz Garci'a, AmericaLatina - Messico. Edificare le Chiese autoctone, intervista a cura
di F. Strazzari, in “ Il regno-attualità” , 16, 1997, pp. 449-454. - G. Ituarte, Messico - Marcos, Ruiz e
gli altri, intervista a cura di F. Strazzari, ibid., pp. 450-454.
14) Cfr. EI neoliberalismo en América Latina. Carta de los Provinciates Latinoamericanos de la
Comparila de Jesus, Università Iberoamericana, Città del Messico, 1997. - F. Lopez, America La
tina - Messico. Da Roma viene quel che a Roma va, in “ Il regno - attualità” , 16, 1997, pp. 455-458.
19
veri (poiché nessuno sceglie di esserlo, e quelli che lo sono vorrebbero vivere in con
dizioni migliori), esistono persone impoverite, che i rapporti sociali di ingiustizia e di
oppressione hanno privato dei diritti fondamentali»15. Ciò significa che gli impoveri
ti non sono persone isolate ma in rapporto, personale e comunitario, con le strutture
dominanti nella nostra società che producono le condizioni ingiuste dell’esclusione e
dell’impoverimento, specialmente tra i popoli del Sud. Il riferimento di questo testo
di Frei Betto ai beni materiali e simbolici rievoca il dibattito in cui si è utilizzato con
frequenza il concetto di povertà antropologica e/o culturale. In realtà, si tratta di una
proposta approfondita soprattutto dalla teologia africana, fin dai suoi inizi1617.
Dall’antropologia la teologia della liberazione ha assunto anche la categoria dell’alterità intesa come diversità culturale: «essa non dice carenza ma differenza, non
enuncia una negatività da colmare ma una positività da riconoscere. L’altro si erge qui
di fronte a me come un già, dotato di un’identità che chiede di essere accolta come
tale»!/. Oltre la solidarietà che l’indio evoca come povero, l’alterità è direttamente
una richiesta del riconoscimento del suo essere soggetto e protagonista della sua vita
nella storia del mondo. Sempre con la consapevolezza che qualsiasi realtà umana, an
che la solidarietà, l’alterità e l’identità hanno aspetti positivi e negativi. Tra le diverse
alterità oggi storicamente presenti, si può parlare dell’alterità culturale, etnica, raz
ziale, di sesso o di genere, dell’alterità della natura e delle singole religioni, e di quel
le prodotte dai vari tipi di esclusione e di emarginazione presenti nella società mo
derna (immigrati, portatori di handicap, anziani, minori, disoccupati, tossicodipen
denti, omosessuali e sieropositivi, ecc.). I meccanismi di esclusione propri del modo
attuale di sviluppo raggiungono sia le dimensioni socio-economiche, per ostacolare le
lotte per la liberazione dei poveri, sia le dimensioni culturali e antropologiche che
rendono più difficile il riconoscimento dell’alterità. Per queste ragioni le molteplici
dimensioni dell’oppressione rendono necessaria, per la teologia della liberazione, la
mediazione analitica di tutte le scienze.
L’intreccio tra povertà, cultura e alterità è servito ai teologi della liberazione per
approfondire il significato della prima e della nuova evangelizzazione. Nel dibattito,
che ha portato ad una nuova interpretazione della Conquista e della colonizzazione,
è diventata una premessa necessaria l'elaborazione di una teologia critica della cultu
ra nella linea della liberazione o, come dice Leonardo Boff, una teologia della cultu
ra di segno liberatore18*20.
Molti teologi hanno affermato che nella prima evangelizzazione non ci fu un
15) Frei Betto, La teologia de la Uberación, se vino abajo con el muro de Berlin?, in “ Exodo”, 38,
1997, pp. 32-38.
16) Cfr. J. Cone, Teologia nera della liberazione e Black Power, Queriniana, 1973. - A. Le M o
ne (a cura), Teologie del Terzo mondo: teologia nera e teologia latinoamericana della Uberaziond',
Queriniana, 1974. - R. Gibellini (a cura), Teologia nera , Queriniana, 1978. - J. Parratt (a cura), Cri
sto in Africa. Teologi africani oggi, Claudiana, 1994. - M. Nkafu Nkemnkia, Il pensare africano co
me vitalogia, Città Nuova Ed., 1995.
17) A. Rizzi, L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Ed. Paoline,
1991. - Id., L’oro del Perù: la solidarietà dei poveri. Dalla cultura indigena all’uomo nuovd’, Emi, 1984.
18) Cfr. L. Boff, 500 anni di evangelizzazione. Dalla conquista spirituale alla liberazione inte
grale, Cittadella ed., 1992. - R. Almeida Cunha, La teologia de la Uberación a la luz de la nueva
evangelización, Ed. San Pio X, Madrid, 1993.
20
vero annuncio del vangelo, ma l’imposizione della versione europea del vangelo.
Oggi, tutti riconoscono che il vangelo di Gesù il Cristo ha avuto ed ha bisogno di
culture in cui esprimersi. Ma nessuna cultura, nessuna religione e nessuna teologia
può esaurire il mistero di Dio, il mistero di Gesù il Cristo, il mistero dell’uomo. Ciò
rende possibile il passaggio dall’incarnazione del messaggio evangelico nella cultu
ra europea ad una nuova incarnazione dello stesso vangelo nelle culture dei popo
li indigeni e afroamericani, che potrà portare a costruire un nuovo tipo di cristia
nesimo pluriculturale.
Inculturazione è un termine teologico recente che si va approfondendo con la
pratica e la riflessione missionaria. Si oppone ad acculturazione, adattamento o assi
milazione, in cui la cultura dell’evangelizzazione era dominante e che perciò ha per
messo l’occidentalizzazione del vangelo e l’imposizione del cristianesimo monocul
turale. Invece l’inculturazione annuncia il vangelo dall’interno delle culture, come
dialogo alla pari tra le culture e le religioni dei popoli evangelizzati e la cultura del
l’evangelizzatore. In questo dialogo tutti agiscono come soggetti responsabili di un
modo nuovo e diverso di parlare di Dio, in una efficace reciprocità: i popoli indige
ni parlano di Dio a partire dal loro modo di essere e di agire, cioè a partire dalla lo
ro cultura e dalle loro religioni ancestrali, mentre l’evangelizzatore parla di Dio e di
Gesù il Cristo a partire dalla sua tradizione occidentale ed europea. Ma anche l’e
vangelizzatore, superando il colonialismo imperante, deve essere aperto ad essere
evangelizzato, ad essere soggetto di una nuova evangelizzazione, perché si trova di
fronte ad una nuova forma indigena di parlare del Dio di Gesù il Cristo. Oltre che
in rapportio con le dimensioni culturali dei popoli, l’inculturazione esiste necessa
riamente in rapporto con i condizionamenti sociali e politici. Perciò, una evangeliz
zazione inculturata sarà veramente liberatrice se richiede e pratica insieme la lotta
per la liberazione socio-economica e politica, per l’autodeterminazione dei popoli19.
Tutto ciò implica la presa di coscienza della relatività (non relativismo) di ogni
cultura e di ogni religione. Il gesuita Azevedo la formula così: «Come gli esseri uma
ni concreti, ogni cultura è caricata di elementi positivi e negativi. Proprio per que
sto può migliorare e riorientarsi, correggersi e crescere, rapportare e trasformarsi.
Nessuna cultura può essere assoluta. Nessuna è esaustiva dell’umano... Nessuna
cultura può presentarsi, quindi, come l’unico o come il miglior cammino per arri
vare alla fede»20. E ancora Azevedo sostiene che «nel livello attuale di presupposti
antropologici e della coscienza teologico-missionaria non si può concepire e giusti
ficare un cristianesimo monoculturale. Al contrario, il risultato universale di una
adeguata evangelizzazione inculturata sarà un cristianesimo multiculturale, che co
struirà l’unità profonda della fede nella diversità di concezioni ed espressioni cul
turali». In questa prospettiva sta sorgendo un cristianesimo pluriculturale, nelle
forme concrete di un cristianesimo azteca, maya, inca, quechua, aymara, guarani,
ecc., e forse un cristianesimo latinoamericano192021.
19) Cfr. P. Suess, Inculturazione, nel volume di I. Ellacuri'a e J. Sobrino (a cura), Mysterium liberationis..., op. cit. - F. Castillo, Cristianesimo e inculturazione in America Latina, in “Concilium ” ,
1, 1994, pp. 104-121. - P. Sues, Scarsa visibilità nello scenario della missione. Analisi critica di re
centi documenti e tendenze della chiesa, ibidem, pp. 142-158.
20) M. Azevedo, Cristianesimo, esperienza multiculturale. Come vivere e annunciare la fede cri
stiana nelle diverse culture, in “Sial”, 12, 1995, pp. 23-27.
21
Non accettare la logica del limite, della contingenza, della relatività e del plu
ralismo storico può portare il cristianesimo monoculturale alTassolutizzazione dei
dogmi e delle strutture religiose istituzionali, che sono alla base di ogni tipo di fon
damentalismo, come è capitato nel regime di cristianità, dominante nei cinquecento
anni di colonialismo. Ciò vale anche per le organizzazioni socio-culturali e politiche
che abbiano la pretesa di presentarsi come una organizzazione monoculturale.
Da notare ancora che la IV Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano
(Santo Domingo, 12-28 ottobre 1992) ed anche papa Wojtyla sono stati attenti alle
culture indigene, afroamericane e meticce. Tuttavia è mancata un’analisi seria delle
radici economiche, politiche e culturali della povertà attuale e del loro intreccio con
i meccanismi dominanti nei rapporti Nord-Sud, che escludono i due terzi dell’u
manità dalla famiglia umana. Inoltre la nuova evangelizzazione di cui si è parlato ri
mane sempre la presentazione della versione europea e monoculturale del cristia
nesimo occidentale, con i grossi limiti e le grosse sfide di cui si è parlato sopra.
7. Molteplicità di te o lo g ie della liberazione
Nel contesto del dibattito ancora in corso sul passaggio da un cristianesimo
monoculturale ad un cristianesimo pluriculturale (azteca, maya, inca, quechua, aymara, guarani, ecc.), a partire degli anni ‘90 è apparsa e si è diffusa la teologia india
della liberazione, come anche la teologia nera e/o afroamericana. Gli indios e i ne
ri vengono riconosciuti come soggetti della riflessione sulla loro fede nella lotta per
la loro liberazione. Si tratta di una ricerca molto complessa e si percepisce oggi la
formazione di due indirizzi diversi: 1) La teologia india-india, che reinterpreta il mi
stero di Dio dall’intemo e a partire dalle proprie tradizioni culturali e dalle proprie
religioni originarie, indipendentemente dal cristianesimo; 2) La teologia india-cristiana, elaborata da indigeni cristiani teologi che amano la loro identità india e ama
no anche le Chiese e sono convinti della possibilità e della fecondità di una sintesi
tra la tradizione cristiana e le loro tradizioni originarie2122.
Parallelamente, col diffondersi delle comunità cristiane afroamericane in ri
ferimento alle lotte per la loro liberazione e all’evolversi dei movimenti religiosi
afro, si è andata formando una teologia nera della liberazione. Per questa teologia
Dio è nero. Dio è identificato con il popolo nero, e questo rende possibile l’intrec
cio tra i culti religiosi di origine afro e l’impegno per la liberazione dalle conse-
21) Cfr. M. Azevedo, Cristianesimo..., op. cit., p. 25. Inoltre cfr. R. Fornet-Betancourt, Hacia una
filosofia interculturale latinoamericana, ed. Dei, San José, Costa Rica, 1994.
22) Cfr. Teologia india. Primer Encuentro Taller Latinoamericano, Ed. Cenami e Ed. Abya Yala,
1991. - Teologia india. Segundo Encuentro Taller Latinoamericano, Ed. Abya Yala e Ed. Cenami,
1994. - Hacia una Teologia cristiana india del pluralismo religioso, Declaración de la Asociación
de Teólogos Indios, Pueblo Kuna, Panama. - A. Wagua, Attuali conseguenze dell’invasione euro
pea dell’America. Da! punto di vista indigend’, in “Concilium” , 6, 1990; pp. 55-65; “ Un prete indio
si racconta. Due morti per una risurrezione” , in “Nigrizia Verona, n. 10, ottobre 1991, pp. 32-34. Id., Sacerdote indio e V Centenario: Per me il processo di morte cominciò con l ’entrata in semi
nario, in “Adista” , 49, 1992, pp. 1-2. - Id., Prese di posizione indigene a 500 anni dall'invasione, in
“ Latinoamerica” , 48, 1992, pp. 15-21. - R. Gibellini, Il Dio della vita nella notte di un popolo. Terzo
Incontro di riflessione teologica per i popoli indios, in “ Il regno-attualità", 18, pp. 553-555.
22
guenze del razzismo come ideologia generata dalla schiavitù coloniale. In partico
lare, la teologia nera partecipa molto alle riflessioni della teologia femminista, per
ché la donna nera è il simbolo della maggiore sofferenza sopportata dalle popola
zioni afroamericane. Si tratta di una teologia positiva, una teologia della grazia, del
l’energia che deriva da una visione del cosmo in cui natura e persona umana sono
integrate. Perciò la teologia nera è anche teologia ecologica. In ogni caso, quest’in
sieme di riflessioni rivela la vitalità attuale della teologia della liberazione25.23*
Spagna
contemporanea
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Ppromosso dall'Istituto di studi storici G aetano Salvemini di Torino,
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cario intestato allo stesso
23) Cfr. A. Aparecido da Silva, Afroamericani e teologia nera, in “Sial” , 13, 1995, pp. 25-26. - H.
Frisotti, Popolo nero e Bibbia. Una riconquista storica, in “Am anecer”, 3, 1996.
23
XXX
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24
Lucia Ceci
La Chiesa in America latina
negli ultimi tren tan n i1
Al termine dell’ultima sessione conciliare, il 23 novembre 1965, Paolo VI incon
trò a Roma i cardinali e i vescovi latinoamericani presenti al Concilio, per celebra
re il X anniversario della costituzione del Consejo episcopal latinoamericano1. Mo
strando di aver ben presente la situazione del subcontinente, il pontefice sottolineò
come la crescente conflittualità, che investiva settori sempre più ampi della popo
lazione, fosse uno dei tratti caratterizzanti l’attuale momento. Con toni preoccupa
ti egli riportò poi l’attenzione dei padri alla facilità con cui, tra deluse attese e non
corrisposte speranze, si andassero diffondendo “forze operanti pericolose”, tra cui
la più dannosa, per la sua carica di messianismo sociale e i suoi esiti di ateismo dot
trinale e pratico, era “il marxismo ateo”. Ma il discorso non era incentrato sulla ri
provazione o la condanna; esso era piuttosto un richiamo vigoroso a rinnovare le
strutture pastorali, attraverso “un impegno straordinario” che valorizzasse il ruolo
dei laici, a ricercare “soluzioni d ’insieme”, a promuovere una specifica azione so
ciale: “della giustizia l’aspetto sociale è quello che più colpisce e interessa il mondo
in generale e quello latinoamericano in particolare, ove intensi e profondi sono i
contrasti”. Paolo VI toccò, anche se brevemente, un ultimo, significativo tema: nel
l’adempimento dei suoi doveri sociali per la costruzione di un ordine di giustizia nei
riguardi di tutti, la Chiesa doveva dare l’esempio “con la testimonianza della po
vertà”. Il pontefice riprendeva dunque e rilanciava come sfide per la Chiesa lati
noamericana alcune delle prospettive aperte dal Concilio: il rinnovamento dell’ec
clesiologia e della pastorale, l’idea di una Chiesa a servizio del mondo, che, in Ame
rica latina, diveniva soprattutto il mondo dei poveri e degli emarginati, l’esigenza di
uno stile di vita più sobrio e solidale.
Come avrebbe ricordato uno dei padri presenti quel giorno a Roma, mons. Mar
cos Me Grath, l’intervento di Paolo VI ebbe l’effetto di infondere grande entusia
smo nei vescovi e cardinali latinomericani, in procinto di tornare nei propri paesi:12
1 II presente contributo ha il carattere di una rapida sintesi sulla Chiesa latinoamericana, a par
tire dalla conclusione del Concilio Vaticano II. Per le ragioni imposte da questa prospettiva non
analitica è stato necessario limitarsi a prendere in esame gli aspetti e i momenti ritenuti più signi
ficativi di tale percorso ecclesiale.
2 Cfr. Insegnamenti di Paolo VI, III (1965), Città del Vaticano 1966, pp. 653-669.
25
“una luz para nuestros caminos al irse, terminado el Concilio, proyectandolo hacia
nuestro continente”3. In realtà l’intento di attualizzare le indicazioni conciliari nel
la particolare situazione latinoamericana si era già andato definendo durante una
riunione che il Celam aveva tenuto a Roma nello stesso mese di novembre. In que
sta occasione i vescovi individuarono come strumento principale di tale “aggiorna
mento” la II Assemblea generale dell’episcopato latinoamericano, da tenersi, di lì a
tre anni, nella città colombiana di Medellin, avendo ufficialmente come tema “La
Chiesa nella trasformazione dell’America latina alla luce del Concilio”4.
Che si fosse in una fase di profonde trasformazioni, era una percezione abba
stanza diffusa in America latina. Gli anni ‘60 rappresentarono infatti un mo
mento denso di avvenimenti ed esperienze che sembravano essere decisivi nell’orientare il futuro del subcontinente: la rivoluzione cubana era entrata nella fa
se di definitiva caratterizzazione in senso socialista e pareva indicare la direzio
ne di un futuro possibile, i movimenti di liberazione e la lotta armata si erano
diffusi in molti paesi, mentre, proprio nell’anno di chiusura del Vaticano II, il sa
cerdote colombiano Camilo Torres decideva di entrare nella guerriglia. Inoltre il
processo di urbanizzazione, avviato a partire dagli anni ‘40, non essendo stato
accompagnato da un adeguato sviluppo dell’occupazione, aveva determinato un
generale deterioramento delle condizioni di vita dei settori popolari urbani, che
iniziavano in questi anni a manifestare un crescente scontento e a organizzarsi,
oltre che nelle tradizionali strutture sindacali, in forme di mobilitazione indipendenti dai luoghi di lavoro, come i comitati di quartiere o i vari comitati di ba
se5. In un continente a larghissima maggioranza cattolico, il rinnovamento ec
clesiale e pastorale promosso dal Concilio si caratterizzò dunque, e per molti
aspetti si radicalizzò, attraverso l’incontro con i movimenti e le esperienze poli
tiche in atto in America latina.
A questi anni risale anche l’elaborazione della “teoria della dipendenza”, teoria che
nei suoi principali esponenti si dichiarava “neo-marxista” ed era proposta, nella for
ma classica, da André Gunder Frank, insieme ad altri studiosi di scienze sociali latinomericani, per spiegare il fallimento dei progetti politici riformisti e delle politiche
economiche da essi adottate6. Tale teoria, sulla base di analisi storico-economiche, di
mostrava che il sottosviluppo dell’America latina non era un momento casuale e cro
nologicamente anteriore del processo di modernizzazione, ma il sottoprodotto stori-
3 Me Grath, Unas notas sobre Paolo VI y la colegialidad episcopal en América Latina, in Pao
lo VI e la collegialità episcopale. Colloquio internazionale di studio, Brescia, 25-26-27 settembre
1992, Brescia - Roma 1995, pp. 236-240.
4 Cfr. H. Parada, Crònica de Medellin, Bogota 1975, pp. 35 ss.
5 Cfr. M. Carmagnani-G. Casetta, America Latina: la grande trasformazione 1945-1985, Torino
1989, pp. 10-35.
6 Di Gunder Frank si vedano soprattutto Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, trad,
it., Torino 1969 [1967] e America Latina: sottosviluppo o rivoluzione, trad, it., Torino 1971 [1969],
Tra gli apporti di studiosi latinoamericani sulla teoria della dipendenza cfr. F. H. Cardoso-E. Falet
to, Dipendenza e sviluppo in America Latina, trad, it., Milano 1971 [1969], Th. Dos Santos, La
nuova dipendenza, trad, it., Reggio Emilia 1971 [1968]; Celso Furtado, Gli Stati Uniti e il sottosvi
luppo nellAmerica Latina, trad, it., Milano 1971 [1969]; Dipendenza e sottosviluppo in America La
tina, a cura di Salvatore Sechi, Torino 1972.
26
co dell’espansione capitalistica di altri paesi, e asseriva che l’unica strada percorribile
per uscire da tale situazione di dipendenza era la rivoluzione socialista'.
Oltre a divenire uno dei presupposti teorici della sinistra latinoamericana78, la
“teoria della dipendenza” venne fatta propria da alcuni settori del mondo cattolico
impegnati nelle lotte di liberazione del continente, attraverso iniziative di singoli, di
gruppi, di comunità e di esponenti dell’episcopato9. Già a partire dagli anni 19661967, gruppi di sacerdoti che si riunivano per studiare i documenti conciliari ave
vano preso posizioni di denuncia nei confronti dei governi militari o oligarchici, del
neocolonialismo nordamericano, richiamando la Chiesa a un impegno più efficace
tra i poveri. Si formavano in questo modo i “Sacerdotespara el Tercer Mundo” in Ar
gentina, “Golconda” in Colombia, la “Oficina Nacional de Investigation Social”
(Onis) in Perù e gruppi simili in Cile, Guatemala, Ecuador, che prendevano parte
direttamente alla lotta politica e si dichiaravano favorevoli al sistema economico so
cialista, in molti casi con l’aperta disapprovazione dei vescovi locali101.
In questo contesto, la comparsa, nel marzo del 1967, dell’enciclica Populorum
Progressio di Paolo VI sembrò legittimare e incoraggiare alcune direzioni assunte
all’interno del mondo cattolico latinoamericano. Come è noto, in essa il papa for
niva un orientamento cristiano sui problemi della giustizia e dello svluppo dei pae
si del Terzo mondo, completando il Vaticano II e in particolare la Gaudium et
Spes11. La denuncia dello “squilibrio crescente” tra paesi ricchi e paesi poveri, la
condanna del “liberalismo senza freno” e dell’’’imperialismo internazionale del de
naro”, si accompagnava, nella Popidorum Progressio, all’affermazione della neces
sità di un superamento dei rapporti di dipendenza economica propri del “neocolo
nialismo”, attraverso la ridefinizione delle relazioni internazionali e dei meccanismi
di indebitamento dei paesi in via di sviluppo, e alla proclamazione del diritto di tut
te le nazioni a uno “sviluppo integrale”, nozione centrale nell’enciclica12. Si affer7 Una bibliografia sulla teoria della dipendenza e sulle analisi critiche ad essa relative in J. Ga
briel Palma, The Latin America Economies, 1950-1990, in The Cambridge History of Latin Ameri
ca, voi. XI, Bibliographical Essays, ed. by L. Bethel!, Cambridge 1995, pp. 529-541.
8 Un quadro del carattere “militante” della teoria della dipendenza emerge chiaram ente in II
nuovo marxismo latinoamericano, introduzione e cura di G. Santarelli, Milano 1970. Si tratta di una
selezione degli Atti del Congresso internazionale sull’America Latina tenutosi a Nimega, in Olan
da, nel 1968, cui sono aggiunti un’altra serie di “testi rappresentativi del rinnovamento attualm en
te in corso in America Latina nel campo degli studi sociali” . (Cfr. l’Introduzione p. V).
9 Su questo cfr. anche A. Me Govern, Latin America and “Dependency” Theory, in Liberation
Theology and the Liberal Society, ed. by M. Novak, American Enterprise for public Policy Re
search, Washington 1992, pp. 106-132.
10 Cfr. Ch. Smith, The Emergence of Liberation Theology, Chicago-London 1991, pp. 136-139.
11 La mancanza di una chiara consapevolezza dei problemi del sottosviluppo è evidente anche
in uno dei primi studi sulla costituzione pastorale, come quello di Th. Mulder, La vida econòmicosocial, Exposición de las ideas centrales del capitulo, in La Iglesia en el mundo de hoy. Estudios
y comentarios a la constitution «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II (esquema XIII), diri
gida por G. Barauna, Madrid 1967, pp. 483-517, soprattutto pp. 597-501.
12 Un’analisi della Populorum Progressio in P. Poupard, L'einsegnement social de Paul VI, in
Paul VI et la modernité dans l’Église. Actes du colloque organisé par l’École fran gaise de Home
(Home 2-4 juine 1983), Roma 1984, pp. 429-443, in particolare pp. 430-436 e in II magistero di Pao
lo VI nell’enciclica «Populorum Progressio», Giornata di studio, Milano 16 marzo 1988, Roma 1989
27
mava quindi che tale sviluppo richiedeva “trasformazioni audaci, profondamente
innovatrici”, ma veniva respinto il ricorso all’insurrezione rivoluzionaria, “fonte di
nuove ingiustizie”, anche se si lasciava intendere che questa poteva costituire l’ulti
mo rimedio “nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse grave
mente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso al bene
comune del paese” (n. 31). La questione della legittimità della lotta armata era un
tema destinato ad avere immediate ripercussioni in America latina, e sul quale Pao
lo VI tornò, per circoscriverlo, in più occasioni13. Esso fu anche uno dei problemi
su cui prese posizione la II conferenza generale dell’episcopato latinoamericano,
che si tenne a Medellin dal 26 agosto al 7 settembre 1968.
Nel tentare di rileggere il Concilio alla luce dei cambiamenti in atto nella società
e nella Chiesa latinoamericane, i sedici documenti conclusivi della conferanza si ar
ticolarono attorno ad alcuni nodi tematici fondamentali: l’analisi del sottosviluppo
come conseguenza del neocolonialismo economico; il problema della violenza ri
voluzionaria; il tema della liberazione dei poveri e degli oppressi; la povertà nella
Chiesa; la scelta delle comunità ecclesiali di base (cebs)14. Tra le forme privilegiate
di presenza della Chiesa negli ambienti poveri, le conclusioni di Medellin, soprat
tutto a livello di “orientamenti pastorali”, indicarono infatti le cebs, menzionate nei
vari documenti sulla pastorale, nel documento sulla catechesi, sulla liturgia, sulla
formazione del clero15. “Aperte al mondo e in esso inserite”, secondo il Celam le
comunità di base esprimevano la centralità che per il cristiano aveva “la forma co
munitaria di vita come testimonianza di amore e di carità”, l’ambito in cui la cele
brazione eucaristica poteva avere “una vera efficacia pastorale”, alla cui iniziazione
e assistenza andavano preparati i futuri sacerdoti. Cosi, mentre nel documento sui
movimenti di laici non si faceva alcun riferimento all’Azione Cattolica, il docu
mento sulla pastorale d ’insieme poneva al primo punto degli orientamenti per il
rinnovamento delle strutture pastorali le “comunità cristiane di base”, definite
“cellula iniziale della struttura ecclesiale, fuoco di evangelizzazione e attualmente
un fattore primordiale della promozione umana e dello sviluppo”.
Il sorgere delle comunità di base si collocava all’interno di quel dinamismo che
aveva visto da un lato la crisi delle strutture pastorali tradizionali della Chiesa, dal
l’altro lato la spinta di rinnovamento di tutta l’azione pastorale prodotta dal Conci
lio Vaticano II. Al tempo stesso, in un continente a maggioranza cattolica e in rapi
da crescita demografica, la carenza di sacerdoti aveva costituito una forte sollecita
zione a ‘inventare’ forme ecclesiali più autonome, animate e gestite sostanzialmen
te da laici16. In molti paesi latinoamericani in cui, soprattutto negli anni ‘70, si af13 Si vedano soprattutto il discorso in occasione del primo anniversario della Populorum Progressio e i discorsi di Paolo VI a Bogota nell’agosto del 1968, rispettivamente in Osservatore Ro
mano del 28 marzo 1968 e Insegnamenti di Paolo VI, VI (1968), Città del Vaticano 1969, pp. 355432.
14 Tra le edizioni italiane dei documenti di Medellin, si segue Medellin. Testi integrali delle con
clusioni della II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, Roma 1974. Esiste anche
una traduzione più recente nell 'Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, a cura di P.
Vanzan, Bologna 1995, pp. 119-267.
15 Cfr. J. Mejia, Medellin y las comunidades de base, Criterio, XLI, 1558 (1968), pp. 804-807.
,6 La mancanza di sacerdoti era un problema molto sentito in America latina, definita da Càrde-
28
fermarono regimi autoritari, con la conseguente repressione nei confronti dei parti
ti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari, le cebs costituirono uno dei pochi
luoghi di incontro e di riorganizzazione della base popolare. La presenza di queste
comunità si collegò cosi, sin dall’inizio, con i movimenti di liberazione, e il contat
to con la Bibbia, operato soprattutto a livello comunitario, tendeva ad essere un
confronto tra la propria storia, segnata dalla povertà e dal sopruso, e la storia di sal
vezza e di liberazione del popolo di Dio17. Nelle comunità di base i poveri affer
mavano il loro diritto a “prendere la parola”, ovvero il diritto di essere soggetti so
ciali ed ecclesiali. La presa della parola diveniva nella comunità “lettura militante”,
appropriazione della Scrittura, sottratta al monopolio clericale degli specialisti e ri
messa nella storia con una carica trasformatrice.
Nell’ambito dell’esperienza delle comuntà di base si sviluppò anche un modo di
verso di intendere la teologia e la figura del teologo: non più una riflessione acca
demica, fatta a tavolino, ma riflessione critica, alla luce della fede, sulla prassi di li
berazione, riflessione che ha per soggetto la comunità ecclesiale, al punto che si par
lerà di potere teologizzante dei poveri e del teologo come di un intellettuale orga
nico18. E non è certamente un caso il fatto che la maggior parte dei teologi della li
berazione, da Gutiérrez, ai fratelli Boff, al cileno Munoz, fossero impegnati in pri
ma persona nell’esperienza delle comunità di base. Presentata a grandi linee, per la
prima volta, dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez in un incontro pastorale
celebrato a Chimbote nel luglio del 196819, accennata, come prospettiva, nei docu-
nas “un continente católico sin sacerdotes”. Cfr. E. Càrdenas, La Iglesia latinoamericana en la hora
de la creacion del Celam, in Celam, Elementos para su historia. 1955-1980, Bogota 1980, pp. 2773. Tale carenza era particolarmente marcata in Brasile, dove, nel 1955, si trovavano circa 8 mila
sacerdoti per una popolazione di più di 54 milioni di persone. Statistiche e proiezioni relative a que
sto aspetto in F. Houtart - E. Pin, L’Église à l ’heure de Amérique Latine, Paris 1965, in particolare il
capitolo “Explosion démographique et institutions religeuses”, pp. 141-154. Rispetto al ruolo dei lai
ci nelle Ceb, L. Boff, sottolinea invece come queste, benché nella maggior parte dei casi debbano
attribuire la propria origine a un sacerdote o a un religioso, siano poi, di fatto, un “movimento di lai
ci” . Cfr. Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa, Roma 1978, p. 8.
17 Cfr. E. Bianchi, La centralità della Parola di Dio, in II Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. A l
berigo e J. P. Jossua, Brescia 1985, pp. 159-187, in particolare pp. 182-186. Su questi aspetti si
veda soprattutto M. de C. Azavedo, Comunidades eclesiales de base. Alcance y desafio de un
modo nuevo de ser Iglesia, Madrid 1986.
18 Cfr. G. Gutiérrez, Comunidades cristianes de base. Perspectives eclesiológicas, in Servir.
Teologia y pastoral, XVI, 90 (1980), pp. 709-746.
19 Cfr. Gutiérrez, Hacia una teologia de la liberación, Miec-Jeci, serie 1, doc. 16, M ontevideo
1969. Sull’incontro di Chimbote cfr. invece F. Montes, How the ‘ONIS’ Movement began and grew,
in Ladoc, IV, 45 (1974), sección 24.
20 È soprattutto nel paragrafo del documento conclusivo sulla giustizia dedicato alla “giustifi
cazione dottrinale”, che sembrava risuonare la prospettiva teologica della liberazione, laddove si
diceva che “è lo stesso Dio che, nella pienezza dei tempi, invia il figlio suo perché, fatto carne,
venga a liberare tutti gli uomini da tutte le schiavitù a cui li tiene soggetti il peccato, l’ignoranza, la
fame, la miseria e l’oppressione, in una parola l’ingiustizia e l’odio che hanno origine nell’egoismo
umano. (...) Nella Storia della Salvezza l’opera divina è un’azione di liberazione integrale e di pro
mozione dell’uomo in tutta la sua dimensione, opera che ha come unico movente l’am ore”.
29
menti conclusivi della II conferenza generale dell’episcopato latinoamericano20, la
teologia della liberazione si sviluppò negli anni successivi a Medellin, con il contri
buto di diversi teologi latinoamericani, attraverso alcuni incontri collettivi, grazie
soprattutto all’apporto dei cattolici Hugo Assmann, Segundo Galilea, Gustavo Gutiérrez, J. Luis Segundo, Enrique Dussel e dei protestanti Rubem Alves e José Miguez Bonino. In questi momenti di confronto e si andarono definendo con mag
giore chiarezza alcune prospettive centrali della teologia della liberazione, ap
profondite dagli stessi autori in diversi saggi21: la scelta del povero, visto anche nel
l’aspetto strutturale di classi sfruttate e popoli oppressi; l’assunzione della media
zione delle scienze sociali - con particolare riferimento alla teoria della dipendenza
- per articolare una lettura della realtà a partire da tale scelta; l’orientamento verso
trasformazioni radicali nella società e nella Chiesa; una visione della salvezza cri
stiana, e quindi della missione della Chiesa nel mondo, come liberazione integrale;
la lettura politica del tema biblico dell’Esodo2223*0.
Per la Chiesa latinoamericana, gli anni 70 da un lato rappresentarono dunque un
momento di forte sviluppo e creatività, dall’altro lato furono segnati da crescenti dif
ficoltà dovute all’inasprirsi della repressione attuata dai regimi autoritari affermatisi
in molti paesi del subcontinente e da un’accentuata politicizzazione che coinvolse
molti settori del mondo cattolico, non solo a livello di singoli cristiani o di comunità
di base, ma anche di parrocchie, organismi diocesani, e, in alcuni casi, anche a livello
di conferenze episcopali regionali o nazionali, occupando queste strutture il vuoto
creato dall’assenza di partiti e associazioni sindacali. La crescente politicizzazione che
coinvolse a vari livelli il mondo cattolico, ma anche la volontà di evitare un ulteriore
inasprimento del conflitto con le autorità militari, si ripercossero all’interno della
Chiesa latinoamericana nella direzione di un irrigidimento delle tendenze moderate e
conservatrici presenti nella gerarchia cattolica, che si manifestò soprattutto a partire
dalla XIV assemblema ordinaria del Celam, che si tenne a Sucre nel novembre del
1972 e portò all’elezione, come segretario generale del Celam, di mons. Alfonso Lo
pez Trujillo, vescovo ausiliare di Bogota, noto per le sue posizioni critiche nei con-
21 Nel 1972, in Canada, appariva una bibliografia sulla teologia della liberazione, che contava
già più di 600 titoli. Cfr. F. P. Vanderdhoff, Bibliografy: Latin America Theology of Liberation, O t
tawa 1972.
22 La bibliografia sulla teologia della liberazione, come è noto, è molto vasta, anche se spesso
lontana da una prospettiva storica. Una rassegna bibliografica critica relativamente recente in B.
Mondin, Teologia della liberazione: rassegna bibliografica, in Anuario de Historia de la Iglesia, III
(1994), pp. 247-273. Per una ricostruzione che privilegia la prospettiva storica, mi permetto di rin
viare al mio Per una storia della teologia della liberazione in America Latina, in Rivista di storia e
letteratura religiosa, XXXIII (1997), pp. 307-364.
23 Cfr. XVI Asamblea generai del Celam 1972. Informe del nuovo Secretano General, mon-
sehor Alfonso Lopez Trujillo. Instrumento de comunión colegial entre los obispos de America La
tina y la Iglesia Universal, in Documenta, voi. 5 (1972), pp. 295-299. Anche ad un’osservatore di
staccato, come la studiosa M. E. Crahan la nomina di Trujillo a segretario generale del Celam ap
pare, specie in rapporto a Medellin, come “una ritirata istituzionale sollecitata dai prelati più con
servatori, che alla riunione di Sucre del 1972 riuscirono a nominare segretario generale della con
ferenza un loro uorr>o”. Cfr. M. E. Crahan, Chiesa cattolica, in Storia dell'America Latina, a cura di
M. Carmagnani, in II mondo contemporaneo, Firenze 1979, pp. 51-63, in particolare pp. 57-58.
30
fronti della teologia di autori come Assmann, Boff, Gutiérrez, Segundo23. Lo stesso
mons. Trujillo, successivamente, avrebbe parlato del 1972 come di “uno de los varios
anos duramente dificiles” per la Chiesa latinoamericana, soprattutto in riferimento a
“las divisiones, la contestación, la crisis y los abandonos, la reducción del dogma a so
ciologia y de la pastoral a politica”24. Fu in questa medesima circostanza che comin
ciò a manifestarsi all’interno del Celam la tendenza a porre un freno a quel rinnova
mento pastorale e teologico che si era inizialmente sviluppato proprio all’interno di
tale organismo. A Sucre si decise infatti di porre termine alle attività degli istituti di
catechesi e liturgia e deìì'Institi/lo Pastoral Latinoamericano (Ipla), in cui lavoravano
i teologi della liberazione Galilea, Gutiérrez, Dussel, Comblin, Segundo, per riorga
nizzarli in un unico istituto, per la cui direzione fu fatto il nome del gesuita belga R.
Vekemans, dipendente direttamente dalla Segreteria Generale25. Benché fosse stato
stabilito di concludere le attività dell’Ipla nel giro di un anno, nel marzo del 1973 l’i
stituto aveva già terminato tutti i suoi corsi26.
La distanza che sempre più andò separando i teologi della liberazione dai verti
ci del Celam ebbe modo di manifestarsi, negli anni successivi, in incontri, docu
menti e pubblicazioni che finirono per risolversi, non proprio in una condanna,
quanto piuttosto nell’affermazione di una “ortodossia” in materia di teologia della
liberazione, ovvero di una prospettiva teologica che ne accentuava il carattere spi
rituale2', anche attraverso periodici come Tierra Nueva, di Vekemans28 e Medellin,
rivista ufficiale dell’Istituto teologico-pastorale del Celam, diretto, dal 1976, dal
francescano brasiliano B. Kloppenburg.
Quando, nel gennaio del 1979, si riunì a Puebla la III conferenza generale del
l’episcopato latinoamericano, tale separazione era ormai consumata, e nessuno
dei principali teologi della liberazione venne invitato ufficialmente come esper
to. Personalità come Gutiérrez, Comblin, Dussel, i fratelli Boff, Muhoz, Echegaray, Richard, Galilea, che in alcuni casi erano stati presenti a Medellin e rico
privano ruoli prestigiosi in facoltà teologiche, istituti di pastorale, centri di stu
di e azione sociale furono così esclusi dalla conferenza, anche se riuscirono co
munque a far sentire la propria voce, giungendo a Puebla in qualità di consiglieri
personali esterni di alcuni vescovi o della Conferencia latinoamericana de los re
ligiosos (Clar).
La diversità di orientamenti presenti nella Chiesa latinoamericana riunita a Pue
bla si ripercosse chiaramente nei testi definitivi della conferenza, che ebbero un245678
24 Cfr. A. Lopez Trujillo, El Celam. Organismo episcopal, in Celam, Elementos para su historia,
cit., pp. 119-132, in particolare p. 129.
25 Cfr. Vers une nouvelle orientation des épiscopats d'Amérique Latine, in Informations Catholiques Internationales, 428 (1973), pp. 12-13.
26 Cfr. Informations Catholiques Internationales, 430 (1973), p. 22.
27 Si vedano, in questa prospettiva, i due scritti di Trujillo Liberación marxista y liberación cri
stiana, Madrid 1974 eTeologia liberadora en América Latina, Bogota 1974. Si vedano anche i m a
teriali dell’incontro sulla teologia della liberazione, che si tenne, nel novembre del 1973, a Bogota,
organizzata dall’équipe teologico-pastorale del Celam: Liberación: diàlogos en el Celam, 3 voli.,
Bogota 1974 (trad. it. Liberazione: dialogo nel Celam, 3 voli., Roma 1976).
28 Di Vekemans si veda, oltre ai vari articoli su Tierra Nueva, Teologia de la liberación y cristianos por el socialismo, Bogota 1976.
31
carattere piuttosto etorogeneo, aperto a una pluralità di letture, spesso in contra
sto tra loro29. Nel documento finale e nelle singole parti finirono infatti per coesi
stere ispirazioni diverse, più o meno orientate verso un impegno di liberazione so
ciale e politica, distinto in ogni caso da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria e so
cialista30. A livello pastorale, se in una sezione si dava rilievo all’esperienza delle
comunità ecclesiali di base, si parlava di “evangelizzazione liberatrice”, e di “op
zione preferenziale per i poveri”, in un’altra si insisteva sulla necessità di valoriz
zare la “religiosità popolare”, intesa come “pietà popolare cattolica”31. Inoltre nei
documenti non ci fu nessuna condanna della teologia della liberazione, mai nomi
nata espressamente, ma affiorava chiaramente una posizione antimarxista e, quan
do si parlava di liberazione, si utilizzavano espressioni molto caute, per evitare
ogni possibile interpretazione in senso socialista. A poche settimane dalla fine del
la Conferenza, l’elezione di mons. Trujillo quale presidente del Celam, del vesco
vo argentino A. Quarracino, e altre nomine all’interno di questo stesso organismo,
lasciarono comunque intendere abbastanza chiaramente in quale direzione si av
viava il Celam nel periodo del post-Puebla323.
Negli anni ‘80 la Chiesa latinoamericana è tornata a interpellare o, per lo meno
a suscitare l’attenzione del mondo occidentale: l’esperienza del Nicaragua, con la
partecipazione di numerosi cattolici alla rivoluzione e al governo sandinista53, l’as
sassinio di mons. Romero34, le vicende della teologia della liberazione35, sono state
29 Secondo R. Jiménez, tale contrasto di interpretazioni era dovuto al fatto che i teologi della
liberazione, passando dalla critica di Puebla al tentativo di recuperarne le conclusioni nel senso di
una legittimazione delle proprie posizioni, pretendevano di leggere ’’entre h'neas lo que Puebla niega en el texto”. Cfr. Jiménez, Puebla, la teologia de la liberación y el Marxismo eri America Lati
na, in Tierra Nueva, IX, 34 (1980), pp. 69-75.
30 Cfr. Puebla. Comunione e partecipazione, trad, it., a cura di P. Vanzan, Roma 1979, pp. 449744 e Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, cit., pp. 269-551.
31 Alla religiosità popolare, tema ricorrente in diverse parti del Documento finale, era espres
samente dedicato il documento “ Evangelizzazione e religiosità popolare” .
32 Le due vicepresidenze furono affidate a mons. L. Cabral Duarte, noto per la sua ostilità alla
teologia della liberazione, e a mons. R. Arrieta Villabos, della diocesi di Tilaràn (Costa Rica). Cfr.
Un Celam piu omogeneo e piu conservatore, in II Regno/attualità, XXIV, 395 (1979), p. 171.
33 Tra gli studi sulla rivoluzione nicaraguense si vedano La revolución en Nicaragua. Liberación
nacional, democracia popular y transformación econòmica, R. Harris-C.M. Villas eds., México
1985 e D. Pompejano, Nicaragua: storia di una economia dipendente e di una transizione, M ila
no 1986. Sulla partecipazione di settori del mondo cattolico alla rivoluzione in Nicaragua si veda
no Fe cristiana y revolución sandinista en Nicaragua, Managua 1979, G. Girardi, Sandinismo,
marxismo e cristianesimo: la confluenza, Roma 1986; A. Bradstock, Saints and Sandinistas. The
Catholic Church in Nicaragua and its Response to Revolution, London 1987.
34 Secondo Gutiérrez, per la Chiesa latinoamericana, l’assassinio di mons. Romero sarebbe
stato “the most important event since the Puebla Conference” . Cfr. l’intervista rilasciata a J. Brock
man, The Prophetic Role of the Church in Latin America: A Conversation with Gustavo Gutiérrez,
in Christian Century, 19 ottobre 1983, pp. 931-935. Sulla figura e l’opera del vescovo salvadore
gno, si vedano, in particolare, le due biografie: J. Delgado, Oscar A. Romero: Biografia, Madrid.
1986, J. R. Brockman, Romero: a Life, New York 1989 ed E. Masina, Oscar Romero, prefazione
di L. Boff, San Domenico di Fiesole 1993.
35 Sui dibattiti sviluppatisi intorno alla teologia della liberazione si vedano Théologies de la libé-
32
solo il segno più evidente di un ininterrotto, anche se contrastato cammino. Al con
tempo, la crisi dei movimenti e dei partiti popolari che ispiravano al marxismo, i
problemi economici non solo irrisolti, ma aggravati dal crescente indebitamento, la
continuità in molti paesi del subcontinente dei regimi autoritari, la repressione
cruenta che aveva coinvolto e spesso continuava a coinvolgere, oltre alle organizza
zioni politiche e sindacali, esponenti del mondo cattolico, contribuirono senz’altro,
a partire dalla seconda metà degli anni 70 e per tutti gli anni ‘80, a ridimensionare
gli entusiasmi rivoluzionari, rendendo sempre più evidente la necessità di una veri
fica delle strategie politiche e degli assunti ideologici da parte di quei settori del
mondo cattolico che si riconoscevano nella teologia della liberazione e, più in ge
nerale, delle organizzazioni popolari*36. Abbandonati, nella maggior parte dei casi,
progetti rivoluzionari totalizzanti, queste si sono andate via via orientando verso
obiettivi più particolari, organizzandosi attorno a questioni come il diritto alla sa
lute e all’istruzione, la difesa della donna e dei bambini, il diritto degli indios alla
terra, la tutela dell’ambiente3'.
Per quel che riguarda l’episcopato latinoamericano, nei documenti più recenti si
è assistito a un rilancio dei temi della “nuova evangelizzazione” e della pastorale fa
miliare, mentre con crescente preoccupazione si cerca di far fronte al diffondersi del
le sètte religiose, soprattutto fondamentaliste38. Quelle iniziative pastorali che si ri
conoscevano nella teologia della liberazione hanno invece incontrato non poche dif
ficoltà. Nell’arcidiocesi di Olinda e Recife, dom Helder Camara è stato sostituito, nel
1985, da dom José Cardoso Sobrinho, che, nel giro di pochi anni, ha fatto chiudere
il Seminario regionale Nordest 2 e l’Istituto teologico regionale, e ha rimosso diver
si sacerdoti dalle rispettive parrocchie, perché troppo vicini alla teologia della liberation. Documents et Débats, B. Chenu-B. Laurei eds, Paris 1985; Teologìa de la liberación. Dos
sier, Centro de Estudios Interdisciplinarios, Caracas 1985; R. Gibellini, Il dibattito sulla teologia del
la liberazione, Brescia 1986 e Teologìa de la liberación, R. Vekemans-J. Cordero eds., Bogota
1988. Una raccolta di documenti su tali dibattiti anche in Liberation Theology. A Documentary Hi
story, A. T. Hennelly ed., New York 1990, pp. 348-520. Mi permetto infine di rinviare anche al mio
Per una storia della teologia della liberazione in America Latina, cit., pp. 355-364.
36 Sui caratteri dei movimenti sociali in America Latina negli ultimi venti anni, si vedano New So
cial Movements and the State in Latin America, D. Slater ed., Amsterdam 1985; Power and Popular
Protest: Latin America Social Movements, S. Eckstein ed., Berkeley 1989; Democrazia e partiti in
America Latina, a cura di L. Moriino e A. Spreafico, Milano 1991 e Dalle armi alle urne: economia,
società e politica nellAmerica Latina degli anni ‘90, a cura di G. Urbani e F. Ricciu, Bologna 1991.
37 Numerosi, ad esempio, i contributi di L. Boff sull’ecologia, alcuni dei quali raccolti nel volume
Ecologia, Mondialità, Mistica. L’emergenza di un nuovo paradigma, Assisi 1993. In tal senso anche
il numero della rivista Concilium dedicato a Ecologia e povertà: grido della terra, grido dei poveri.
Cfr. Concilium, XXXI, 5 (1995), con editoriali di L. Boff e V. Elizondo. Una sintesi sulle tendenze più
recenti della teologia della liberazione in F. L. Couto Teixeira, Teologia da Ubertagào. Novos desafios, Sào Paulo, Edigoes Paulinas 1991; J. J. Tamayo Acosta, Presente y futuro de la teologìa de
la liberación, Madrid 1994 e J. Ramos Regidor, Ubertagào e alteridade. 25 anos de história da Teo
logia da Ubertagào, in Revista Eclesiàstica Brasileira (Reb), LVII, 225 (1997), pp. 118-138.
38 Molti dei “documentos Celam”, negli anni ‘80, sono dedicati ai temi della famiglia. Se ne ri
cordano qui solo alcuni: La familia a la luz de Puebla, Bogota 1980; Fiesta de Dios en hogar, Bo
gota 1987; Jalones para una espiritualidad familiar y reflexiones del Seminario sobre la espiritualidad familiar celebrado en Ciudad de Panama, R. P, del 20 a! 25 de agosto de 1984, Bogota 1987.
33
razione39. Nell’ottobre del 1989 la Congregazione per la Dottrina della Fede è inter
venuta per porre fine al progetto continentale “Palabra y Vida”, avviato dalla Clar
l’anno precedente40. Il progetto, che doveva svilupparsi in cinque anni, era destina
to ai religiosi dell’America latina e si proponeva l’obiettivo di “alimentare la vita re
ligiosa con la Parola di Dio, letta con il cuore e nelle situazioni dei poveri”41. Accol
to favorevolmente dagli episcopati di Cile, Brasile e Bolivia, esso è stato fortemente
criticato dalla conferenza episcopale colombiana, presieduta dal card. Trujillo ed ha
suscitato l’intervento del Celam, della Pontificia Commissione biblica e, infine, del
la Congregazione per Dottrina della Fede. La Clar è stata accusata da questi organi
smi di ideologizzare la Bibbia, di ignorare la Tradizione, di creare un Magistero pa
rallelo, di diffondere quella teologia della liberazione condannata dalla S. Sede, at
traverso l’istruzione Libertatis Nuntius. La vicenda si è conclusa, oltre che con la for
zata interruzione del progetto “Palabra y Vida”, con la richiesta di dimissioni da par
te dei rappresentanti del gruppo biblico e del gruppo formativo della Clar, cui è sta
to altresì imposto un nuovo segretario.
Dal 12 al 28 ottobre 1992, dopo ben cinque anni di preparazione, si è svolta quin
di a Santo Domingo la IV Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. La
Conferenza, aperta da Giovanni Paolo II, ha avuto come tema “Nuova evangelizza
zione, promozione umana, cultura cristiana”. Celebrata nell’anno del Cinquecente
nario della conquista dell’America, essa è stata accompagnata da non poche polemi
che, relative sia al Documento di Consultazione offerto alle conferenze episcopali,
considerato da molti un passo indietro rispetto a Medellin e Puebla, sia all’opportu
nità di includere tra i momenti della conferenza una manifestazione penitenziale per
le responsabilità della Chiesa nella colonizzazione del continente42. La proposta di un
solenne atto penitenziale, presentata all’assemblea da 33 vescovi brasiliani, venne di
fatto boicottata dai due presidenti, il card, segretario di Stato Angelo Sodano e il card.
Nicolas Lopez Rodriguez, arcivescovo di Santo Domingo e presidente del Celam, che
rifiutò la sua cattedrale per la celebrazione, opponendosi altresì, anche se senza suc
cesso, all’invio da parte dell’Assemblea di un messaggio di felicitazioni per il Nobel a
Rigoberta Menchu, proposto dal card. Paulo Evaristo Arns43. Infine tra i 361 parte
cipanti, il regolamento ha escluso totalmente i teologi, che non sono potuti interveni
re neanche in qualità di esperti convocati dalle conferenze episcopali44.
Nei documenti conclusivi di Santo Domingo, alla fine, sono entrate comunque sug
gestioni e motivi provenienti dalle diverse realtà pastorali presenti nel continente. In
centrato sul tema della nuova evangelizzazione, il documento ha in primo luogo affer39 Cfr. Sial, XVIII, 11 (1995), p. 28.
40 Cfr. L. Kaufmann-N. Klein, Die Bibel den Armen wieder wegnehmen?, in Orientierung, LUI,
22 (1989), pp. 252-256, che ricostruisce dettagliatamente tutte le fasi della vicenda.
41 Cfr. G. Matti, Guerra sull’evangelizzazione, in Il Regno/attualità, XXXIV, 10 (1989), pp. 275-276
42 Cfr. C. Donegana, Le molte anime del continente cattolico, in II Regno/attualità, XXXVII, 2
(1992), pp. 49-60.
43 Cfr. F. Strazzari-A. Filippi, Santo Domingo. Una preparazione storica, una conclusione pa
storale, in II Regno/attualità, XXXVII, 20 (1992), pp. 626-6364
44 Come sottolinea con perplessità il vescovo brasiliano L. D. Valentini, anche i teologi invitati
dalla conferenza episcopale brasiliana, non ricevettero poi l’invito ufficiale del Celam. Cfr. Valenti
ni, A Conferéncia de Santo Domingo, in Reb, LUI (1993), pp. 5-18.
34
mato che questa ha come finalità la formazione di uomini e comunità mature nella fe
de e l’elaborazione di risposte alla nuova situazione dell’America latina, segnata dal ma
terialismo, dalla cultura della morte, dall’invasione delle sètte e di proposte religiose di
varia origine4’. Il crescente proselitismo delle sètte, denunziato anche da Giovanni Pao
lo II nel discorso di apertura, è un problema su cui il documento torna a più riprese,
per segnalarne le “proporzioni drammatiche”, e per esortare quanti sono impegnati nel
la pastorale a rendere più efficace l’azione evangelizzatrice della Chiesa attraverso la
promozione di quelle devozioni che le sono proprie, come la devozione all’Eucarestia,
alla Madonna, alla Parola di Dio “letta nella Chiesa”, in comunione e obbedienza al Ro
mano Pontefice e al proprio vescovo. Tra le nuove sfide colte dall’episcopato latinoa
mericano a Santo Domingo c’è anche la questione ambientale. Il documento sulla “pro
mozione umana”, considerato da alcuni il più avanzato4546, denunzia infatti i livelli inso
stenibili di inquinamento presenti ormai in molte metropoli sudamericane, la continua
spoliazione delle terre imposta alle popolazioni indigene e contadine, la distruzione del
la foresta amazzonica. Allo stesso tempo, i vescovi hanno proposto un modello di svi
luppo fondato su “un’etica ecologica”, in cui la crescita economica si coniughi con il ri
spetto della natura, e in cui i principi della destinazione universale dei beni della crea
zione, della giustizia e della solidarietà siano accettati come “valori indispensabili”. Ben
ché si individuino, tra i “segni dei tempi”, le condizioni di estrema povertà dovute a
“strutture economiche ingiuste”, si ribadisca l’opzione per i poveri e la scelta delle co
munità ecclesiali di base, la sfida “di particolare urgenza” è rappresentata dalla famiglia,
definita “santuario della vita”, e perciò, al tempo stesso, luogo da difendere “dai mol
teplici attacchi che riceve da più parti nella società attuale”, attacchi descritti con toni
molto forti: “terrorismo demografico”, “imperialismo contraccettivo”, “massacro del
l’aborto”. Un ultimo impegno assunto dalla Chiesa latinoamericana a Santo Domingo
è stato quello della “evangelizzazione inculturata”. Pur mostrandosi preoccupati di
fronte all’avanzare del processo di secolarizzazione, i vescovi non hanno attribuito al
l’espressione “cultura cristiana”, il significato di una imposizione intransigente della ve
rità cattolica. A partire da un discernimento dei valori e dei controvalori della moder
nità, l’episcopato latinoamericano riunito a Santo Domingo ha infatti proclamato la
propria volontà di promuovere un “processo di inculturazione” che abbracci l’annun
cio, l’assimilazione e la formulazione della fede, e dia particolare rilievo alla “incarna
zione del Vangelo” nelle culture indigene e afroamericane.
Resta il fatto che tale “evangelizzazione inculturata”, che contiene in sé l’idea di
un pluralismo teologico e di una valorizzazione delle chiese locali, sia poi avversa
ta dalla Chiesa di Roma, che negli anni ha rafforzato il controllo sulla Chiesa lati
noamericana e sul Celam, soprattutto attraverso la Pontificia Comisión para América Latina (Cai). Come è stato sottolineato, “si algunos sectores de la Teologia de
la Liberación ahora se retraen, no es debido a la calda del muro de Berlin (...); la
razón radica en las presiones provenientes de sectores del centro del poder en la
Iglesia católica que se empenan en la restauración de la hegemonia insistucional”47.
45 Cfr. Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, cit., pp. 553-598.
46 Cfr. J. O. Beozzo, Inculturagào, Evangelizagào e libertagào em Santo Domingo, in Reb, LUI
(1993), pp. 801-823.
47 Così S. Rodriguez, Pasado y futuro de la Teologia de la Liberación. De Medellin a Santo Do
mingo, Estella 1992, p. 256.
35
Rispetto alla teologia della liberazione, quest’azione di controllo si è manifestata
nell’invio di visitatori apostolici, nella chiusura di alcuni istituti teologici, nelle cre
scenti difficoltà opposte dai vescovi a concedere Ximprimatur per le pubblicazioni,
e ha conosciuto un momento di tensione particolarmente acuto quando, nel giugno
del 1995, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha contestato alcune posi
zioni della teologia femminista della liberazione dell’agostiniana brasiliana Ivone
Gebara, docente da oltre dieci anni dell’Istituto teologico di Recife. La teologa è
stata quindi invitata dal segretario della Congregazione per gli istituti di vita consa
crata e le società di vita apostolica card. F. J. Erràzuriz, ad osservare una sorta di si
lenzio per due anni, durante i quali non solo non avrebbe dovuto tenere conferen
ze e fare pubblicazioni, ma allontanarsi dal Brasile e dedicarsi allo studio della teo
logia, per correggere le proprie posizioni48.
Dal 16 novembre al 12 dicembre 1997, si è infine celebrato a Roma il primo Sinodo americano, convocato da Giovanni Paolo II a Santo Domingo e concepito co
me una delle tappe che preparano la Chiesa al Giubileo4950. Esso ha avuto come te
ma “Encuentro con Jesucristo vivo, camino para la conversion, la comunión y la solidaridad”, ed ha visto riuniti, per la prima volta, rappresentanti degli episcopati
dell’America meridionale, centrale e settentrionale, ovvero vescovi di Paesi del Sud
e del Nord del mondo. Il Sinodo non ha deluso le aspettative di quanti avevano ma
nifestato l’auspicio che si prendesse posizione sulla riduzione del debito estero’0.
Tra i temi presi in esame dall’assemblea, oltre alle questioni pastorali legate al rin
novamento della catechesi, alle comunità di base, all’avanzare delle sètte, hanno
avuto infatti una particolare rilevanza i problemi relativi alla realtà economica e so
ciale del continente, come la globalizzazione, lo stato sociale, le minoranze etniche,
le migrazioni. La richiesta di riduzione del debito infine è stata fatta, individual
mente, da molti dei 297 partecipanti, e ribadita con forza nella dichiarazione con
clusiva, caratterizzandosi effettivamente, come aveva anticipato l’arcivescovo O. A.
Rodriguez, presidente, dal 1995, del Celam51, quale “central theme” del sinodo52.
Dopo aver denunciato i mali provocati dagli abusi della globalizzazione della
cultura e dell’economia, dal narcotraffico, dal commercio delle armi e dalla corru
zione, nel messaggio conclusivo i vescovi hanno rivolto un appello “per la riduzio
ne o remissione dei debiti”, chiedendo ai capi di governo, economisti, operatori so
ciali, teologi, di “camminare con loro e con i poveri” , alla ricerca di una via che ri
spetti la dignità umana53.
48 Cfr. SIAL, XVIII, 3 (1995), pp. 27-28.
49 Sulla preparazione del Sinodo cfr. il numero monografico della rivista Medellin , XXIII, 90
(1997).
50 Cfr. Gutiérrez, Exigencias de comunión en un mundo dividido. Acerca del Sinodo america
no, in Pàginas, XXII, 145 (1997), pp. 18-25.
51 II Celam aveva proceduto al rinnovo delle cariche nel maggio del 1995, in una direzione con
siderata da alcuni di maggiore apertura rispetto al passato. Cfr. G. Zizola, Celam. Le nuove no
mine, in II Regno/attualità, XL, 12 (1995), p. 348.
52 Cfr. Pope John Paul opens historic meeting of American bishops, in The Tablet, 22 novem
bre 1997, pp. 1512-1514.
53 Cfr. Il messaggio conclusivo del Sinodo per l ’A merica al popolo di Dio, in Fides, 3250, 19 di
cembre 1997, pp. 789-791
36
Massacro Acteal
“Se non puoi avere la ragione e la forza, scegli sempre la ragione
e lascia che il nemico si tenga la forza...Ilpotente non potrà mai
cavare la ragione dalla sua forza, noi potremo sempre ottenere la
forza dalla ragione”
Se Fukuyama ha decretato la fine della storia, molti dopo di lui si sono affret
tati a decretare la fine della guerriglia. Del resto la democrazia non ha ormai
trionfato in tutta l’America latina? Non più dittatori, non più golpes, non più mi
litari al potere. Che senso avrebbe prendere ancora le armi, uscire dal gioco de
mocratico? Ma l’uso (e l’abuso) di certi termini può talvolta trarre in inganno.
Che significato possono dare, alla parola democrazia, i milioni di latinoamericani
che non si recano alle urne perché troppo occupati a sopravvivere, rovistando fra
i rifiuti delle discariche? Che significato possono dare i milioni di bambine e bam
bini di strada, che forse non raggiungeranno mai l’età per votare perché destina
ti a finire sotto i colpi di quanti vogliono “ripulire” le città? Che significato han
no dato, a questa parola, quanti si sono visti imporre un presidente come De Lozada in Bolivia (un uomo cresciuto ed educato negli Stati Uniti, che al momento
della sua elezione non conosceva neppure la lingua del paese che era chiamato a
governare) o come Abdalà in Ecuador (che negli spot televisivi si presentava nei
panni di Gesù Cristo e che in seguito venne allontanato dal potere per evidente
squilibrio mentale)? Se questi sono i casi più eclatanti, in gran parte del conti
nente latinoamericano (e non solo) i capi di Stato vengono praticamente costrui
ti dai media, che li impongono alla stregua di qualsiasi altro prodotto. E intanto
si allarga la forbice fra coloro che hanno tutto e i tanti, tantissimi che non hanno
nulla. Finché questi ultimi non saranno veramente liberi dal bisogno, finché non
avranno accesso a beni primari come la salute, l’alloggio, l’istruzione, che signifi
cato dovremo dare alla parola democrazia? E dunque, finché la stragrande mag
gioranza della popolazione non avrà gli strumenti per decidere liberamente, assi
steremo al paradosso di paesi, come il Messico, dove la guerriglia nasce proprio
per rivendicare la democrazia. Gli zapatisti allora non sono un richiamo per il tu
rismo politico nostrano, come qualcuno ha sostenuto. E i loro passamontagna
non servono unicamente a fare colore locale. Lo ha dimostrato, risvegliando di37
37
soprassalto tante coscienze intorpidite, il recente massacro di Acteal. In Messico
si uccide ancora per mantenere il controllo del potere politico ed economico. Che
certi schemi e certe convinzioni, oggi tanto di moda, siano da rivedere?
(ni.m.)
Nella lettera che qui riproduciamo, inviata dall’Ezln alla Commissione Naziona
le di Mediazione (Conai), il subcomandante Marcos analizza la situazione del Chia
pas all’indomani degli scontri di Ocosingo.
14 gennaio 1998
Signore e signori membri della Conai:
Abbiamo preso visione del documento che, con il titolo “Per una strategia di pa
ce democratica”, avete indirizzato ai poteri dell’Unione, all’Ezln, alla società civile
e ai popoli del mondo P ii gennaio 1998. Nella parte indirizzata all’Ezln ci chiede
te di continuare a operare all’interno dei confini della legge dell’l l marzo 1995,
mantenendo la nostra volontà di dialogo e di negoziato, di continuare a lottare per
vie politiche, di approfondire i nostri sforzi di dialogo con altre comunità e or
ganizzazioni indigene e non indigene del Chiapas, di incrementare il dialogo con
organizzazioni della società civile e della società politica.
Dal 12 gennaio 1994 (e non dall’incontro di San Miguel nell’aprile ’95, come se
gnalate nella vostra lettera) l’Ezln ha insistito più di una volta nel cammino del dia
logo per una soluzione pacifica della guerra. Non sono state poche né piccole le ini
ziative civili che l’Ezln ha lanciato, insieme alla parte migliore della società civile na
zionale e internazionale, per costruire le condizioni di una pace giusta e degna.
Esempi di queste iniziative pacifiche sono il dialogo della Cattedrale e la Conven
zione Nazionale Democratica nel ’94; il dialogo di San Andrés e la Consulta Na
zionale e Internazionale per la Pace nel ’95; l’appello alla formazione del Fzln, la ce
lebrazione del Foro Nazionale Indigeno, la firma dei primi accordi con il governo
federale (che continuano a essere disattesi), il Primo Incontro Continentale, il Fo
ro Nazionale per la Riforma dello Stato, il Primo Incontro Intercontinentale per
l’Umanità e contro il Neoliberismo e le riunioni tripartite Cocopa-Ezln-Conai nel
’96; la marcia dei 1.111 al Distretto Federale nel ’97.
La risposta governativa alla nostra manifesta volontà di dialogo e di negoziato è
stata il mancato compimento dei primi accordi sottoscritti, l’attivazione di gruppi
paramilitari, l’assassinio delle nostre basi d’appoggio, la persecuzione dei nostri di
rigenti, l’attacco di soldati federali contro le comunità, la dislocazione massiccia di
militari in tutto il territorio del Chiapas (anche se si tenta di minimizzare la geo
grafia dell’ingiustizia con il termine “zona di conflitto”).
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Il governo ha fatto assassinare 45 indigeni ad Acteal come momento culminante
di un’offensiva contro di noi. L’informazione della stampa e le confessioni di alcu
ni degli implicati evidenziano come il massacro sia stato pianificato in anticipo e no
to e diretto dalle autorità. Alcuni giorni fa, poliziotti della Sicurezza Pubblica del
lo Stato sono stati arrestati (dal Dipartimento dell’Emigrazione e non dall’esercito,
che in teoria dovrebbe applicare la “legge sulle armi e gli esplosivi”) mentre tra
sportavano armi provenienti dal Guatemala. Il destinatario? I gruppi paramilitari.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
38
Nel momento in cui venivamo a conoscenza del vostro documento, informa
zioni giunte al Comando Generale dell’Ezln confermavano l’assassinio della nostra
compagna Guadalupe Méndez Lopez, nel corso di un attacco della Sicurezza Pub
blica dello Stato del Chiapas contro una manifestazione pacifica nel capoluogo
municipale di Ocosingo, il 12 gennaio. Come risposta alle grandi mobilitazioni per
una pace giusta e degna, che si sono tenute in diverse città del Messico e del mon
do, le forze di polizia del governo hanno aperto il fuoco contro una manifestazio
ne civile di indigeni.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Nella comunità di La Realidad, tanto per fare un esempio, l’esercito federale ha
raddoppiato il numero di veicoli cingolati e di militari. Quattro volte al giorno, fi
no a 38 unità motorizzate “transitano” attraverso la comunità indigena tojolabal.
Aerei militari effettuano voli diurni e notturni in ore diverse e, di giorno, sopra le
abitazioni indigene compiono manovre “in picchiata” (come si usa fare, nel corso
dei combattimenti aerei, per mitragliare e bombardare postazioni fisse). Probabil
mente si preparano per il futuro.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Il governo federale, per bocca e per mano del suo ministro degli Interni, de
finisce la “nuova” strategia per il Chiapas: messa da parte degli interlocutori,
persecuzione e isolamento degli zapatisti e grandi quantità di denaro per conti
nuare ad alimentare la guerra fingendo di costruire la pace. È una strategia as
surda: il signor Rabasa è nominato “coordinatore del dialogo” (non “della dele
gazione governativa”, ma “del dialogo”). Dialogo con chi? Qual è la contropar
te del dialogo che, insieme con il governo, lo nomina coordinatore? E il ruolo
della mediazione? E quello della Cocopa? Il signor Rabasa si affretta a dichiara
re che il suo obiettivo non è il dialogo con l’Ezln, ma “qualcosa di più vasto”,
una “rivoluzione copernicana”!?). Si riferisce sicuramente a un dialogo con or
ganizzazioni diverse dall’Ezln in molte “tavole ristrette” (come è stato già tenta
to in precedenza), che distraggano l’opinione pubblica e tranquillizzino l’Unio
ne Europea. La “nuova” strategia governativa è un dialogo senza la controparte,
senza mediazione, senza collaborazione, insomma un monologo. La definizione
appropriata per Rabasa Gamboa sarebbe quella di “coordinatore del monologo
governativo sul Chiapas”.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Quando questa lettera giungerà a destinazione, i nostri compagni e le nostre
compagne avranno già sepolto Guadalupe Méndez Lopez sulle montagne zapatiste.
Guadalupe è morta lottando per vie politiche e la risposta che ha ottenuto è stata
una pallottola calibro 5,56 millimetri nel “lato anteriore sinistro” della pancia.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Quando questa lettera giungerà nelle vostre mani, il governo federale avrà rega
lato altre dichiarazioni di “pace”, presenterà una relazione dei suoi interlocutori con
gli “attori del conflitto” e chiederà che gli si presti fede, insisterà sul fatto che tutto
ciò che accade in Chiapas è un conflitto “fra poveri” e continuerà a puntare sul fat
to che i bocconi amari di Acteal e di Ocosingo siano digeriti (e dimenticati) dall’o
pinione pubblica. E l’esercito continuerà a perseguitarci e a provocare scontri.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Quale dialogo con organizzazioni indigene e non indigene, con la società civile
39
o politica possiamo approfondire o incrementare quando ci perseguitano come ani
mali, coi cani da caccia e con tutto l’armamentario tecnologico della morte?
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Venite, parlate con i soldati (un silenzio sarà la loro invariabile risposta alle do
mande sulla persecuzione), parlate con i poliziotti (“Io, se qualche figlio di puttana
mi tira una pietra, gli sparo un colpo”, diranno con rabbia). Parlate loro di dialo
go, di rispetto della legge, di diritti umani. “Obbedisco agli ordini”, risponderanno
sempre. Di chi sono gli ordini? Sappiamo già che cosa comandano (trovateli e di
struggeteli), ma non da dove vengono.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
L’esercito cerca affannosamente lo scontro con le nostre forze, lo si può consta
tare dai suoi movimenti, dall’atteggiamento e dalla distribuzione. Lo fa obbedendo
a ordini superiori? Se è così, allora dov’è la supposta volontà di pace del governo?
Lo fa di propria iniziativa? Se è così, allora chi governa in realtà questo paese?
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
A quale legge dobbiamo obbedire se chi la promulga non esige che venga ri
spettata e l’esecutivo la viola a seconda del suo interesse e della sua convenienza?
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Il governo federale non è disposto a negoziare con lealtà e responsabilità. De
sidera e cerca disperatamente solo un po’ di respiro nella crisi in corso. Tutti i
suoi sforzi attuali puntano a questo. Non cerca la pace, cerca tempo. Il suo obiet
tivo è fingere una possibile soluzione al conflitto. In seguito, quando le acque sa
ranno tornate tranquille, insisterà di nuovo nei colpi e nelle intimidazioni per co
stringere alla resa.
Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra.
Questo signore non vuole la pace. Ma ora si è tolto la maschera, ha eliminato
quella parola da tutti i suoi discorsi sul Chiapas e su di noi. Forse è meglio così. Noi
non siamo disposti ad arrenderci né a lasciarci colpire impunemente. Tutti i nostri
sforzi ora sono diretti a resistere alla pressione cui siamo assoggettati e a non cade
re nelle continue, e sempre più definitive, provocazioni guerrafondaie del governo.
Fino a quando? Questa è la domanda scritta col sangue ad Acteal. Questa è la do
manda che ci facciamo davanti alla tomba di Guadalupe. Questa è la domanda per
voi, per loro, per tutti. Addio. Saluti e ricordate che la pace o è giusta e degna, o
non è nient’altro che una guerra occulta.
Dalle montagne del sud-est messicano
per il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno - Comando Generale del
l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
Subcomandante Marcos
40
Diego Si'mini
Cuba: un sistema economico
efficiente e umano
/intervista a C arlos Tablada Pérez, eco n o m ista p r e ss o l’U niversità
di A nversa e m em bro del C onsiglio e co n o m ic o cu b a n o
Cuba è, da qualche anno a questa parte, al centro dell’attenzione, in quanto è
forse l’unico paese al mondo che sfugga al credo neoliberista, al culto del dio mer
cato, regolatore di tutti i conflitti e di tutte le differenze sociali, secondo i suoi se
guaci. Anche chi nutre simpatia per la strenua resistenza cubana alla violenta e qua
rantennale offensiva statunitense, ha spesso dimostrato scetticismo riguardo alla
possibilità di successo, di sopravvivenza, di un modello di sviluppo socialista lega
to si a parametri contabili, ma vincolato soprattutto al progresso e al benessere del
l’intera società. Ciò che molti credono è che la difesa dei diritti individuali e collet
tivi, la ricerca del benessere per tutti, siano ideali incompatibili con il progresso
economico, con l’efficienza e la redditività dell’impresa e del mercato. La scom
messa cubana, invece, sta proprio neH’abbinare l’interesse collettivo e l’eguaglianza
sociale con la prosperità economica. Con Carlos Tablada Pérez, economista cuba
no, abbiamo parlato di questo, per capire quali siano i meccanismi che consentono
di ritenere che il “modello cubano” non sia fallito né sia frutto di sogni o illusioni.
Cuba è la dimostrazione che il dogma neoliberista non è una verità assoluta.
Ti pare che si possa pensare di esportare questo modello, di estendere il “siste
ma cubano” nel mondo?
Ma no, intanto perché quel che c’è a Cuba non è un “modello”. Si sono tentati
diversi modelli; anche quello che c’è adesso lo vogliamo cambiare, perché ci sono
aspetti che non vanno. Ciò che a Cuba non è cambiato, dalla Rivoluzione e anche
da prima, sono i principi. Principi etici, che sono stati presenti praticamente in tut
te le tappe. Negli anni 70 questi principi hanno avuto una crisi, quando fu copia
to il modello sovietico (politico, culturale, economico), con un’incrinatura dei prin
cipi etici della Rivoluzione. A differenza di altri Paesi, non ci possiamo permettere
il lusso che vengano meno questi principi. Cuba non è isolata, non è un prodotto
di laboratorio, si sviluppa in un contesto in cui noi apparteniamo agli Usa: la men
talità attuale, quella degli anni ‘50 e che tuttora prevale, è quella delle “aree di in
fluenza”, secondo la quale Cuba deve diventare una neo-colonia nordamericana.
L’arma fondamentale per contenere l’avanzata ed evitare la guerra con gli Usa è pre
cisamente la presenza di questi principi etici. Il giorno che si dovessero perdere
41
questi principi, tutto sarebbe finito. Nei diversi modelli economici adottati, questi
principi sono sempre stati presenti. Anche quando era forte l’influenza, sovietica,
non si trattava di una copia pura e semplice. Attualmente abbiamo un’economia di
sopravvivenza e anche qui abbiamo applicato i principi etici. Non è che siamo antineoliberisti, ma il nostro progetto va contro il progetto neoliberista. Siamo anche
compagni di viaggio dei capitalisti della scuola keynesiana, dello stato sociale. L’i
deologia neoliberista è molto antidemocratica (parlo della democrazia rappresenta
tiva e capitalista, che ha prevalso nel mondo occidentale sviluppato come modello
nella seconda metà di questo secolo). Quello che notano i capitalisti meno dogma
tici, meno neoliberisti, anche Soros, è che questa situazione crea il brodo di coltu
ra di esplosioni sociali gravi, perché porta a livelli di diseguaglianza intollerabili e
mina alla base anche alcuni principi di sussistenza del capitalismo. Il capitalismo si
basa attualmente sulla speculazione finanziaria, sulla crescita del capitale parassitario con conseguente diminuzione dell’investimento nel capitale produttivo. Questo
comporta, perché cresca il capitale finanziario-speculativo, che si tolga la ricchezza
già creata a quanti la posseggono. L’accumulazione di capitale che si è verificata ne
gli ultimi cinque secoli si sta spostando, c’è una depredazione molto maggiore di
quella che si è avuta nella storia del capitalismo. Quel che il capitalismo fa in cin
que secoli, il neoliberismo lo fa in dieci anni: è una situazione esplosiva.
Cuba è un’isola in un oceano neoliberista. Come si può configurare una inevi
tabile apertura economica nei confronti del resto del mondo? Come si può asso
ciare questa apertura al rispetto dei principi etici di cui parlavi?
Gli unici capitalisti che esigono un progetto neoliberista sono gli Usa. I capitali
sti “soci” non hanno esigenze in questo senso. Noi faremmo a meno di loro se esi
gessero da noi una politica diversa. Non c’è in realtà una pressione del resto del
mondo affinché applichiamo una politica economica neoliberista.
Solo il governo statunitense fa pressione; anche qualche imprenditore norda
mericano non avrebbe problemi a investire a Cuba...
Esattamente: agli investitori chiediamo solo di accettare le regole che abbiamo
stabilito.
La legalizzazione del dollaro non comporta rischi di “dollarizzazione” dell’eco
nomia cubana?
Non è stata una misura del governo, bensì una realtà. Prima della crisi economi
ca, il cambio al mercato nero era di tre pesos cubani per dollaro. Pur essendoci più
di un milione di cubani all’estero, a nessuno veniva in mente di mandare denaro ai
parenti, in quanto i bisogni basilari erano soddisfatti. Quando i parenti venivano a
Cuba, portavano un paio di jeans, un registratore, un televisore a colori... Non c’e
ra il problema della sopravvivenza. Quando è venuta la crisi, con la perdita
dell’85% del commercio estero a causa del crollo del blocco socialista, le famiglie,
anche quelle ostili al governo, hanno cominciato a mandare denaro ai parenti, per
ché si sono rese conto che la crisi non era dovuta al governo, ma alla perdita im42
prowisa del commercio con 25.000 ditte. A luglio ‘96, si stimava che due milioni di
cubani (su una popolazione di circa 11 milioni) possedevano dollari. Che fare?
Mettere in galera due milioni di persone, adibendo allo scopo un’intera provincia?
Bisognava far uscire allo scoperto questo denaro, anche per trarne beneficio. I dol
lari circolavano esclusivamente nel mercato nero e non “entravano” nell’economia
cubana. Si è preso atto di una realtà, che ha portato vantaggio a tutti i cubani. D ’al
tronde non c’è stata una svalutazione del peso cubano, che era svalutato prima del
la legalizzazione. E successo il contrario: dal cambio a 760, si è arrivati a 26, con
un’oscillazione, nel ‘96, tra 19 e 25. Anche i cambi hanno una base reale: lo Stato
fissa i cambi seguendo il mercato nero.
Cosi il mercato nero scompare.
Certo. Ero all’Avana in dicembre. Il peso ha cominciato a svalutarsi in novem
bre, al mercato nero. Lo Stato ha calato ancor di più e l’ondata speculativa è cessa
ta. Stanno aprendo case di cambio, di proprietà statale, in tutto il Paese. Il merca
to nero valutario ha perso significato e il peso si sta apprezzando. E stata una poli
tica corretta. D’altronde è aumentata la quantità di lavoratori in possesso di pesos
convertibili. La fonte di ingresso di dollari non è più solo dai lavoratori che ope
rano nel turismo e dalle rimesse dall’estero, ma anche gli incentivi in altri settori,
con pesos convertibili: circa metà dei lavoratori ricevono parte dello stipendio in
valuta convertibile.
Quindi in qualche modo c’è speculazione.
Si, ma è una speculazione che protegge la popolazione: prima non c’era prote
zione. Ora, con l’intervento dello Stato, c’è un riequilibrio che attutisce le tensioni
speculative.
Il riapprezzamento del peso dovrebbe essere segno di buona salute dell’eco
nomia cubana.
Si è applicato un pacchetto economico, discusso da tutta la popolazione nel cor
so di quattro mesi, per applicare misure di tecnologia economica atte a risanare le
finanze dello Stato e ciò ha dato buoni risultati. In questo momento il deficit di bi
lancio del Paese è inferiore al 3%. Il ‘93 si era chiuso con il 37% di deficit fiscale,
il ‘96 con il 2,9%.
In linea con gli accordi di Maastricht!
Possiamo entrare nell’Unione europea! Tutto questo per dare la possibilità all’e
conomia (intendo l’economia produttiva, quella reale) dei differenti settori di ri
prendersi. e per impedire che l’inflazione ostacolasse la crescita economica che crea
ricchezza. Una scelta corretta: quasi tutti i settori industriali e agrari hanno comin
ciato a crescere, non solo i principali come la canna da zucchero, il nichel, il tabac
co, la pesca, ma anche l’industria meccanica, tessile, del cemento (la più importan
te dell’America Latina).
43
La ripresa produttiva riguarda soprattutto i settori rivolti all’esportazione?
Certo, ma quando sono state prese queste misure, tutte quelle industrie erano
paralizzate.
Sono anche cambiati i mercati.
Nel caso dell’industria del cemento, in precedenza la una produzione era so
stanzialmente destinata al mercato interno. Ma con il crollo degli investimenti, con
una crisi cosi profonda, per chi si sarebbe dovuto produrre? La produzione di ce
mento richiede un-grosso consumo di petrolio. Con l’esportazione si riesce a pro
durre cemento anche per il mercato interno e cosi si è ricominciato a costruire abi
tazioni. In scala minore, si prosegue la costruzione di immobili sociali.
Un sistema in cammino, dunque.
Nel ‘93 anche gli amici ci facevano le condoglianze. Sul finire del ‘94 la discus
sione si è spostata sul “quanto dureranno”. Oggi, anche negli Usa, si discute su
quanto tarderà il recupero completo: quattordici anni, dieci, otto, venti? Ma nes
suno discute la validità, la compatibilità del modello economico.
Ma allora, come dicevamo prima, il modello è valido e il dogma del neoliberi
smo non è un assoluto...
Questo dogma è cosi violento, cosi totalitario, che fa dimenticare alle persone
che gli unici cinque paesi che si sono veramente sviluppati secondo i criteri capita
listici negli ultimi trenta anni non avevano democrazia rappresentativa e avevano un
grosso intervento statale: Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Malesia.
In precedenza questo era avvenuto in Giappone, dove non c’era democrazia e c’e
ra una pianificazione minuziosa dell’economia, più rigida forse che nell’Urss dei
piani quinquennali. Se l’Urss avesse copiato il sistema di pianificazione giappone
se, la storia sarebbe stata diversa. Non c’è economia più pianificata di quella giap
ponese. Non c’è economia più pianificata per lo sviluppo di quella taiwanese e sud
coreana.
Buona parte dello sviluppo è dovuta però all’arrivo massiccio di capitali stranieri.
Certo, capitali stranieri, sottoposti però alle regole dello Stato, tenendo conto
della pianificazione, e soltanto nei settori che lo Stato individuava mano a mano co
me interessanti, con proporzioni prestabilite. Il capitale là non è entrato come è en
trato in Cile, come sta entrando in Argentina, per comprare industrie allo scopo di
smantellarle. La differenza tra Taiwan e l’Argentina è che, sotto il capitale neolibe
rista, semplicemente hanno comprato l’industria tessile argentina e dopo due mesi
l’hanno chiusa. A Taiwan non hanno potuto fare questo: sono entrati capitalisti con
provata esperienza nel settore e con garanzie che l’investimento era destinato alla
produzione. Gli investimenti dovevano poi servire in qualche modo alle infrastrut
ture, in particolare per la formazione. In Corea del Sud, negli anni ‘50, la maggior
44
parte della popolazione era analfabeta, gli ingegneri si contavano sulle dita di una
mano. Oggi vi si produce tecnologia di punta. Klaus Burbenius, economista nor
damericano, e Janis Simbalis, svedese, hanno confrontato lo sviluppo economico
cubano e quello taiwanese dal ‘59 alT‘89, sulla base dei parametri internazionali di
sviluppo. Cuba ha soddisfatto tutti questi parametri e in alcuni casi sono stati su
perati quelli taiwanesi.L’economia cubana, nonostante le oscillazioni da un model
lo all’altro e i tentennamenti, si è assestata su un ritmo di crescita annuale del 4,3%.
Nessun altro, né in America Latina né nel Terzo Mondo, ha ottenuto questo tipo di
risultato. Se mi domandi se possiamo essere un po’ più flessibili, ti rispondo di si,
perché ancora ci rimane un po’ del modello sovietico, un po’ di lentezza...
Ma una maggior flessibilità non può portare a un epilogo come quello nica
raguegno?
L’esperienza del Nicaragua è finita com’è finita in primo luogo perché in Nica
ragua non si è fatto quel che si è fatto a Cuba. Un confronto del genere non ha sen
so. Il livello di socializzazione raggiunto a Cuba non è mai stato raggiunto in Nica
ragua. Sul piano della politica interna ed estera non abbiamo fatto compromessi,
non abbiamo ceduto sui principi al capitale internazionale né al governo Usa, cosa
invece purtroppo avvenuta in Nicaragua. Diceva il Che: aU’imperialismo non devi
dare niente, perché se gli dai un dito ti prende un braccio, poi la testa. E questo a
Cuba non è avvenuto.
QUADERNI IBERO-AMERICANI
Attualità Cultura della Penisola Iberica
e deH’America latina
Abbonamento annuo L. 50.000 /ccp. 15476104 intestato a
Quaderni ibero americani, Via Montebello 21, 101124 Torino
45
Rafael Enriquez, offset, 1992, 46x65 cm.
46
Dossier / Gli spiriti dell’Africa
nel Nuovo Mondo
a cura di Mariella Moresco Fornasier
Mariella Moresco Fornasier
La Grande Attraversata
Sulle navi negriere hanno viaggiato gli spiriti dell’Africa e sulle acque che la se
parano dalla terra di schiavitù continuano a viaggiare per confortare e per farsi ono
rare dai discendenti degli schiavi che li portarono con sé, lacerati negli affetti, spoliati della loro identità, ricchi solo della loro visione del mondo e memori delle en
tità spirituali che lo reggono.
Hanno accompagnato i loro fedeli nell’attraversata dolorosa della tratta schiavi
sta e continuano ad attraversare le acque dell’oceano, chiamati dai tamburi dei fe
deli, così come compiono la grande attraversata le anime dei defunti, che ritornano
alla loro origine, alla terra degli antenati, ad un’Africa presente mitologicamente
nelle narrazioni e nelle formule di culto con il nome di Guinée, il tragico crocevia
del commercio schiavista.
“Los negros creyentes en los orishas, cuando se hunden o se mueren en la tierra, van volando al Africa”. 1
La nascita delle religioni di origine africana sul suolo americano dipende strettamente dalla tratta schiavista, ma non solo e non in maniera determinante dal suo
aspetto più immediatamente evidente, lo spostamento forzato delle grandi masse
deportate in America.
Le religioni afroamericane, fin dal loro primissimo conformarsi nei luoghi della
schiavitù, non furono la semplice trasposizione delle credenze africane, bensì il risul
tato di un complesso intreccio di fattori culturali ma anche (e forse soprattutto) so
ciali. Furono lo strumento del ricordo, ma anche della costruzione di una nuova iden
tità, senza la quale non sarebbe stato neppure possibile pensare il proprio futuro.
“Queste culture e sottoculture africane, incastonate nel mosaico delle culture oc
cidentali che determinano la civiltà del Nuovo Mondo, spezzano la loro forma di
difesa sviluppando il loro processo evolutivo e disperdendosi in questa civiltà, ar
ricchendo il folklore e le arti popolari fino a depurarsi in forme più elevate.
Tra queste forme culturali, quelle che si sono conservate di più sono state le re
ligioni, a causa della loro resistenza ad essere assorbite dalla religione cristiana, sia
per il loro contenuto sociale, sia perché molti di questi sistemi religiosi hanno co-
1
Secondo la credenza degli schiavi che dovevano affrontare il grande viaggio nelle navi negriere:
‘I negri che credono negli orisha, quando affondano o muoiono sulla terra, ritornano volando in Africa”.
47
stituito un elemento di sovversione che, più di una volta, ha terrorizzato i padroni
delle piantagioni, elemento sovversivo che portarono dall’Africa dove, senza alcun
dubbio, costituirono un fattore di ribellione (è noto che i babalawos o sacerdoti
yoruba, sfortunatamente consigliati dai mercanti di schiavi, combatterono l’inge
renza inglese quando questa nazione cercò di assestare un colpo decisivo alla trat
ta negriera).” 2
Esiste una relazione molto stretta tra le religioni afroamericane e la schiavitù, che
ne costituisce l’ambito di formazione e verso la quale queste religioni si pongono
come la prima forma di contestazione, di non accettazione del sistema schiavista.
Un sistema con caratteristiche diverse da quello della schiavitù antica e che pre
tendeva non solo di assoggettare il corpo e di arricchirsi con il lavoro dello schiavo,
ma di togliergli la sua stessa identità.
Battezzato prima dell’imbarco, lo schiavo verrà separato dalla famiglia e dal
gruppo di provenienza ed unito ad altri schiavi di etnie diverse per spezzare meglio
la sua resistenza. Ogni sua espressione culturale verrà proibita.
È da questo isolamento profondo e doloroso che cercherà di uscire, costituendo
un sistema simbolico comprendente la somma delle sue memorie e l’attualità della
schiavitù, della quale costituiva una possibilità di evasione e di riaffermazione di un
proprio mondo spirituale, gelosamente custodito ed occultato attraverso forme di
mascheramento attuate con l’adozione dei rituali imposti dalla religione dei padroni.
Seguendo la liturgia e le pratiche di devozione che gli venivano insegnate, riuscì
a esprimere la propria religiosità e a mantenere viva la propria identità, ‘ricono
scendo’ negli elementi iconografici dei santi cattolici, così come erano presentati
dalla tradizione religiosa popolare spagnola del XVI e XVII secolo, i simboli iden
tificativi degli spiriti tutelari ancestrali.
Nell’affrontare il tema della transculturazione, come Fernando Ortiz preferì
chiamare questo complesso fenomeno che portò alla nascita di una nuova cultura,
differente sia da quelle africane che da quelle europee che concorsero alla sua for
mazione, occorre avere presente che né l’Africa, né la Spagna e tantomeno l’Euro
pa del tempo costituivano entità culturalmente e religiosamente omogenee.
Le aree culturali yoruba e bantù, dalle quali proveniva la maggior parte degli
schiavi, avevano già subito processi di assimilazione di elementi di varie religioni
africane oltre che l’influenza dell’islam e del cristianesimo, apparso sulle coste del
l’Africa occidentale con l’insediamento dei primi avanposti portoghesi.
L’unico elemento di comunanza religiosa consisteva nella credenza in una divi
nità creatrice, assolutamente lontana, irraggiungibile dalle preghiere degli uomini,
alla cui sorte si dimostrava del tutto indifferente. Gli orisha, esseri spirituali identi
ficabili con l’energia della natura o con le attività dell’uomo, colmavano l’incom
mensurabile distanza tra la finitudine umana e la potenza di un Essere Supremo in
disponibile ad una qualsiasi forma di relazione e di contatto.
Uniti dalla condivisione di un sistema concettuale che riduceva il senso di ango
scia e di spaventosa solitudine che attanagliava l’uomo, che si percepiva perduto
nell’immensità indifferente dell’universo, erano divisi dalle forme religiose nelle
quali si traduceva questo sistema e dalla frammentazione dei culti che venivano re-
2 Lachataneré R., Elsistema religioso de los afrocubanos, ed. Ciencias Sociales, La Habana, 1992
48
si ai numi protettori delle molteplici tribù e sottotribù nelle quali era organizzata la
vita sociale africana.
In Spagna, all’epoca della colonia, molti elementi pagani erano ancora presenti
nelle manifestazioni religiose pubbliche, come dimostrato dai numerosi interventi
della gerarchia cattolica, che nel corso dei secoli cercò di imporre una separazione
tra elementi cristiani ed elementi pagani, che continuavano a persistere nella cultu
ra popolare. I richiami della chiesa si protrassero fino al XVIII secolo, ma la vita
delle colonie dipendeva in misura sempre minore dalle disposizioni che arrivavano
dalla Spagna e sempre di più dalle condizioni contingenti locali, rendendo praticamente impossibile l’eliminazione degli elementi pagani dalla devozione popolare.
La schiavitù comportò mutamenti nel corpo religioso africano ancora prima che
questo evolvesse in una nuova religione ‘americana’.
Trattandosi di religioni iniziatiche, nelle quali solo pochi individui erano ammes
si ai ‘segreti’ ultimi e solo dopo un lungo percorso di apprendimento, non potevano
essere conosciute, se non nei loro aspetti esteriori, più immediatamente recepibili e
la cui memoria tendeva ad affievolirsi con il passare del tempo, da persone preva
lentemente giovani, come erano gli schiavi deportati, e non facenti parte dei gruppi
sacerdotali preposti alla conservazione e trasmissione del sapere religioso.
Differenti da quelle delle comunità di origine erano anche le esigenze nella nuo
va terra e differenti furono quindi gli orisha di cui invocare la protezione.
La divisione dei gruppi familiari e tribali impedì l’identificazione dei nuovi grup
pi in un unico spirito protettore, avviando un processo di assimilazione di tutti gli
orisha tribali della nuova ‘famiglia religiosa’.
Uno studio sulle reciproche influenze e confluenze di elementi tra il cattolicesi
mo e le religioni yoruba e bantù è stato condotto, per quanto riguarda la realtà cu
bana, da Joel James, direttore della Casa del Caribe di Santiago,3 che propone un’a
nalisi interessante, distanziandosi dalle interpretazioni di studiosi precedenti, tra i
quali Fernando Ortiz che, nell’ambito dell’apporto africano, consideravano quello
yoruba come un elemento quasi esclusivo.
Joel James rivaluta l’apporto bantù-congo, partendo dalla considerazione che, a
suo parere, al momento della tratta negriera il panteon yoruba non era ancora strut
turato gerarchicamente, ma giunse ad una maggiore elaborazione solo dopo essere
entrato in contatto con il cattolicesimo e la sua sostanziale differenza concettuale
fra divinità e santi.
La cultura congo, con una minore articolazione di espressione religiosa, non è
stata in grado di operare una corrispondenza con i modelli yoruba e cattolico, aven
do come unica possibilità, in alternativa alla propria scomparsa, quella della so
vrapposizione (non della sincretizzazione, data la mancanza di un assorbimento ar
ticolato ed organico) di elementi delle altre due culture ai propri.
E interessante notare però che, nonostante i loro maggiori sviluppo e comples
sità, sono state prevalentemente la cultura cattolica e quella yoruba ad avere assun
to elementi religiosi da quella congo, quali una percezione più emozionale della fe
de ed un maggiore senso del mistero e del demoniaco, per quanto riguarda il cat
tolicesimo, mentre i credenti yoruba assunsero da quest’ultimo la rappresentazione
3 James J., Eri las raices del arbol, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1988
49
antropomorfa e la gerarchizzazione del loro panteon e, dalla religione Congo, una
concezione trascendente della natura. Quest’ultima acquisisce dai due modelli pre
cedenti la concezione di una relazione utilitaristica, di contropartita immediata, nel
rapporto tra l’uomo ed il mondo soprannaturale, mutuata dalle pratiche cattolica e
yoruba di presentare ai santi offerte mirate all’ottenimento di particolari grazie.
Nel processo di costruzione delle nuove religioni americane entrano anche ele
menti indigeni, come dimostrato dall’esistenza degli orisha caboclo in Brasile, da al
cuni elementi del vudù haitiano4 e della santeria cubana.
Il processo di transculturazione opera trasversalmente nei contenuti e nelle
espressioni esteriori della religiosità dei paesi dove vi è una presenza africana ed è
riscontrabile sotto forma di sedimenti culturali anche nella ritualità di coloro che si
professano cattolici praticanti senza l’adesione, neppure occasionale, ad altre pro
fessioni religiose (come accade, per esempio, a Cuba dove parte degli aderenti a re
ligioni afroamericane si professano anche cattolici).
In tutti i paesi interessati a questo processo si è incrementato negli ultimi decenni
l’interesse per le radici della propria cultura nazionale ed il conseguente fiorire di studi.
Dopo il periodo pioneristico in cui videro la luce le opere, ancora oggi fondamentali, di grandi studiosi,5 che hanno spianato la strada ad una migliore com
prensione del pensiero magico-religioso, persistente nonostante i processi di tenta
ta omologazione alla cultura occidentale, si assiste ora ad una più diffusa presa di
coscienza della importanza di questi elementi nella formazione della mentalità col
lettiva dell’intera comunità nazionale e di come possano interagire, talvolta in ma
niera determinante, con la vita sociale e politica. 6
Appare oggi evidente a quali insuccessi possano portare politiche sociali che non
tengano nel debito conto la differente sensibilità di percezione rispetto ad impor
tanti elementi costitutivi della cultura di origine africana, quali il senso del sacro,
perennemente presente negli atti della quotidianità, piuttosto che il senso di relati
vità nella definizione ed identificazione del Bene e del Male, sempre coesistenti e
mai definitivamente separabili; la concezione olistica per mezzo della quale ogni
singolo elemento acquista significato solo se inserito in una relazione di reciproca
4 Deren M., I cavalieri divini del vudù, ed. Est, Milano, 1997.
5 Ricordiamo tra gli altri, in una sintesi necessariamente lacunosa, stilata non in base alla qua
lità della ricerca, per la quale molti altri nomi di eccellenti ricercatori vi dovrebbero comparire, ma
del fatto di essere stati degli antesignani in questo specifico campo, i lavori di studiosi quali Fer
nando Ortiz, Lydia Cabrera e Rómulo Lachataneré per Cuba; di Alfred Métraux, Louis Mars, Jean
Price-Mars, tra i più noti nel folto gruppo di studiosi che pubblicarono numerosi ed importanti la
vori a partire dai primi anni del nostro secolo sul vudù haitiano; di Roger Bastide e Pierre Verger,
le cui opere furono scritte in un periodo più tardo rispetto a quello dei precedenti studiosi, ma che
rappresentano un punto fermo, irrinunciabile, per gli studi sulla religiosità brasiliana.
6 Un solo esempio è sufficiente per chiarire la stretta correlazione che può assum ere la reli
giosità popolare e l’azione politica di governanti che ne sappiano assumere i parametri concettuali.
Il dittatore haitiano Francois Duvalier, etnologo e conoscitore delle credenze popolari, si autoproclamò difensore della cultura haitiana “autentica” e del vudù, riuscendo ad ottenere un entusiastico sostegno di numerosi fedeli, che servirono il regime come informatori o integrando le fam ige
rate squadre dei Tontons-macoutes, ed aizzando il risentimento popolare contro la chiesa cattoli
ca, accusata di essere alleata dell’élite mulatta.
50
complementarietà (materiale/spirituale, uomo/divinità, visibile/invisibile, emotività/razionalità, tradizione/innovazione, passato/presente).
Nel mentre si iniziano a superare i pregiudizi negativi (ma il cammino si presenta
ancora molto lungo e di difficile compimento) che attribuiscono alle espressioni reli
giose afroamericane contenuti ed atteggiamenti irrazionali ed infantili7, si sta svilup
pando anche un sentimento di comune appartenenza culturale, più che geografica e
politica.
Sono di questi ultimi decenni i primi congressi internazionali afroamericani (al
cui ordine del giorno appaiono punti di grande importanza per la rappresentanza
politica di specifici bisogni sociali) e gli scambi culturali (seminari e convegni di
studio) tra studiosi di paesi appartenenti a quell’area di profondo meticciato cultu
rale che è il Caribe.
Questo dossier nasce dalla consapevolezza dell’importanza dei processi cultura
li in atto, che investono l’attualità ed il futuro (anche se traggono la loro linfa dal
passato) dell’America Latina e del Caribe.
Sono state presentate tre situazioni nazionali, tra le più conosciute al lettore euro
peo, con l’avvertenza di non considerarle come esaustive delle forme religiose a base
africana dei paesi presentati né, tantomeno, dell’intero subcontinente, dove sono pre
senti vecchie e nuove religioni in un continuo processo di amalgama e di genesi.8
Dati i fattori storici di sviluppo delle religioni americane, le modalità orali della
loro trasmissione oltre alla mancanza di una gerarchia sacerdotale che abbia il ruo
lo di conservazione dell’ortodossia, i vari culti presentano al loro interno una gran
de diversificazione rituale e perfino interpretativa degli attributi e dei significati del
le entità spirituali venerate, fino a giungere a “intepretazioni personali differenti ...
fino ad una atomizzazione”9.
Ciò non può non riflettersi sui risultati delle ricerche, che necessariamente pos
sono proporre “schemi teogonici ... non definitivi ... approssimazioni suscettibili
di cambiamento”.101
E ancora valida la considerazione di Fernando Ortiz sulla pratica religiosa cu
bana (ma applicabile anche oltre i confini dell’isola):
“Quando il cubano africano pratica una religione, qualunque essa sia, è solito ag
giungere: alla mia maniera”.11
7 Queste opinioni risentono della superficialità di chi si limita a giudicare l’esteriorità di queste
espressioni religiose e culturali senza conoscerne e capirne il sistema di pensiero che le informa,
espresso attraverso un modello comunicativo che non corrisponde a quello filosofico-teologico
occidentale, ma che si avvale di un insieme di racconti concernenti il mondo invisibile e le sue ma
nifestazioni ed il cui senso, utilizzando un metodo didattico paragonabile a quello delle parabole
evangeliche, serve ai credenti per interpretare i fatti quotidiani ed i responsi delle divinazioni.
8 Tra le più note, il rafastari giamaicano, l’umbanda brasiliano ed uruguayano, lo Shango Cult
di Trinidad Tobago, i culti afroindigeni del Caribe di terraferma e degli chocoanos e di altre com u
nità afrocolombiane, i rituali dei Bosch del Surinam e molti altri, presenti sia in terraferm a che nel
Caribe insulare.
9 Barnet M., La hora de Yemaya in ‘La Gaceta de Cuba” , marzo-aprile 1996.
10 Barnet M., op. cit.
11 citato in Millet J., El espiritismo. Variantes afrocubanas, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1996
51
Mi è stato possibile approfondire gli argomenti trattati in questo dossier grazie agii insegnamenti e alla più affettuosa disponibilità dimostratami da molte persone che ho avuto la fortuna di
frequentare sia durante un corso di specializzazione tenuto all’Avana, che in lunghi incontri in va
rie località cubane.
Desidero ringraziare il prof. Laènnec Hurbon (università della Sorbona di Parigi), la prof.sa Làzara Menéndez (università dell’Avana), la prof.sa Leyda Oquendo (Casa dellAfrica dell'Avana), il
dottor Anibai Arguelles (dipartimento studi sociorelegiosi dell’università dell’Avana), il dottor Emilio
Jorge Rodriguez (direttore del Centro Studi del Caribe della Casa de Las Americanas dell’A vana),
il dottor Joel James e il dottor José Millet (rispettivamente direttore e responsabile del gruppo di
ricerca della Casa del Caribe di Santiago), il dottor Julian Mateo, ricercatore della stessa istituzio
ne nonché, con sua moglie Pepa, amabile ospite, lo scultore Pedro Spengler ed il santero Enrique
Hernandez di Santiago, ed Emilio Lopez Creart.
Un ringraziamento particolare a Estrella Dominguez, iyalocha di Matanzas, albabalocha del
barrio di Atarès dell’Avana ed a Vicente Portuondo, oriaté di Santiago, che mi hanno accolto nel
le loro case tempi, elargendomi molti consigli e permettendomi di assistere alle loro cerimonie.
Un grazie di cuore a monsignor Carlos Manuel de Céspedes della curia vescovile dell'Avana,
a don Joan Rovira, direttore del seminario di Santiago e alla comunità delle Piccole Sorelle di Ge
sù dell’Avana, che hanno acconsentito a trasmettermi con grande disponibilità parte della loro pre
ziosa esperienza.
Il mio studio sarebbe stato molto meno proficuo senza l'aiuto, indispensabile ed affettuosissi
mo, di Paquita Lamadrid, Sandra e Roger Avita.
Noam Chomsky
Heinz Dieterich
Luis Javier Garrido
LA SOCIETÀ’ GLOBALE
Educazione Mercato Democrazia
Le drammatiche conseguenze della
globalizzazione per il lavoro, l’edu
cazione, la democrazia e le culture
nazionali alle soglie del XXI secolo.
pp. 160
L 23.000
La Piccola Editrice
Via Roma, 5 01020 Celle-no (VT)
Tel/fax 0761-912591
52
Laènnec Hurbon - Mariella Moresco Fornasier
Uomini e spiriti ad Haiti
Testo redatto da Mariella Moresco Fornasier su appunti tratti dalle lezioni svol
te dal prof. Laènnec Hurbon durante un seminario svoltosi presso la Casa de Las
Américas dell’Avana nell’agosto 1997.
*
“Vodun” è il termine che esprime “ciò che è sacro”, lo “spirituale”.
Uno dei due mondi di cui è composta la realtà naturale e quella dell’uomo, che
ne fa parte.
Il vudù è un sistema simbolico, nel quale l’individuo deve entrare per potere rea
lizzare il suo destino nel mondo, un destino conosciuto attraverso la divinazione.
Da questa definizione emerge il carattere profondo, il senso del vudù: una reli
gione mistica, che permette un contatto, una unione con il mondo spirituale per
mezzo della fisicità dei simboli, delle musiche, del corpo stesso del credente trami
te la possessione.
Per il praticante vuduista il mondo spirituale non è ‘altro’ dal mondo fisico, non
esistono due realtà estranee l’una all’altra, tra le quali trovare un collegamento,
provvisoriamente stabilito dal rito; il mondo invisibile ed il mondo visibile sono due
aspetti complementari della stessa realtà e, come tali, si deve necessariamente po
tere passare dall’uno all’altro, entrando in contatto con il mondo spirituale tramite
la fisicità della persona, concepita non come la semplice somma di corpo e di spi
rito, tra loro separati, ma come la fusione inscindibile dell’elemento materiale e di
quello spirituale.
Il mondo spirituale è vincolato al presente dei credenti comprendendo, tra le al
tre entità, anche gli spiriti dei morti, entrati a fare parte della relazione tra forze vi
tali, spiriti protettori della natura ed antenati, tutti accomunati dal termine ‘lwa’,
con il quale gli haitiani definiscono tutto ciò che appartiene al mondo invisibile.
In Africa, il culto dei morti mette in relazione i defunti più recenti di ogni grup
po familiare con gli antenati comuni al villaggio ed all’etnia, tra i quali compaiono
figure divinizzate, corrispondenti ai capostipiti tribali.
E’ interessante notare come nel vudù haitiano compaiano alcuni lwa, che rap
presentano gruppi o etnie africani ormai estinti, dei quali viene ricordata (e quindi
mantenuta viva) l’esistenza sotto forma di spiriti appartenenti alla famiglia dei lwa
della morte, compiendo in tal modo una operazione di ricupero della tradizione, rivitalizzata dall’adeguamento alle nuove situazioni.
Originariamente, nella situazione religiosa che corrispondeva alla organizzazio
ne sociale africana, vi erano tre livelli di pratica cultuale, corrispondenti alla fami
glia, intesa come asse di ascendenza (hennu-vudu), al villaggio (to-vudu) ed all’et
nia (ako-vudu). Oltre ai lwa collettivi, ogni individuo ereditava (ed eredita tutt’og53
gi) dalla propria famiglia un lwa-rasin (secondo la terminologia haitiana), una en
tità spirituale personale, che ne avrebbe accompagnato l’esistenza.
La rottura dei vincoli familiari e le condizioni di schiavitù modificarono i rap
porti interni alla sequenza simbolica che formava l’universo religioso africano. Per
dettero importanza, scomparvero o si trasformarono gli spiriti connessi al lignaggio
ed agli antenati, come quelli preposti alla protezione ed alla fecondità dei campi e
del bestiame, dato che lo schiavo sviluppò necessità diverse, non avendo alcun in
teresse alla fertilità di una natura dalla quale non poteva trarre alcun beneficio. Ac
quisirono invece maggiore importanza i lwa della guerra, esprimenti la virilità ag
gressiva, più adatti a rispondere al bisogno di ribellione degli schiavi.
La concezione fondamentale della visione cosmogonica africana permase però
inalterata, nonostante i profondi cambiamenti imposti da una organizzazione socia
le, che rispondeva al bisogno dei proprietari delle piantagioni americane di impedi
re ogni forma di relazione tra gli schiavi che ne permettesse l’organizzazione e ne fa
cilitasse le fughe e le ribellioni. Nonostante venissero separati i nuclei familiari e tri
bali e si tendesse ad affiancare schiavi provenienti da etnie differenti e nonostante le
severe proibizioni, ufficializzate dai Codici Neri, di praticare ogni forma di religione
che non fosse quella cattolica, di celebrare feste o di organizzare riunioni, gli schia
vi seppero ricostruirsi una identità, il cui fondamento era la concezione simbolica
unitaria, specifica del sostrato comune alle culture africane di appartenenza.
Gli spiriti del m on do
In un rapporto dialettico tra il mantenimento della tradizione e l’adattamento al
la nuova situazione, anche i nuovi lwa, nati in terra d ’America, vennero inseriti in
quella rete di relazioni, al di fuori della quale ogni singola entità spirituale perde il
proprio signficato più autentico. “Ogni lwa, preso in se stesso, ha un significato ri
stretto, ciò che importa veramente è l’insieme delle famiglie dei lwa, nella loro op
posizione e nella loro complementarietà, che formano il panteon del vudù”.1
Solo la relazione tra visibile ed invisibile, di cui i lwa sono gli strumenti di unio
ne, dà vita all’universo, dà senso all’esistenza dell’uomo che, inserito in questa cate
na simbolica, trova la propria umanità, il proprio posto nel mosaico dell’universo.
La sincretizzazione con le figure dei santi cattolici rimase al puro livello figurati
vo, limitandosi all’assunzione dei simboli esteriori che li contraddistinguevano nel
l’iconografia tradizionale ed operando un’azione di sintesi formale, che non inve
stiva il significato simbolico né del lwa né del santo cattolico.
Il rito collettivo, che si svolge all’interno dell’hounfó 12, ha lo scopo di realizzare
il passaggio dall’invisibile al visibile, attraverso una serie di gesti, di musiche, di ora
zioni il cui ordine cerimoniale corrisponde a precise esigenze, volte a rendere il con
tatto con il mondo degli spiriti non solo possibile ma anche sicuro, privo degli ele
menti di pericolo che l’inosservanza delle regole conosciute dagli specialisti può in
trodurre.
La valenza potenzialmente negativa, pericolosamente oscura dell’irruzione delle
1 Hurbon L , Les mystères du vaudou, Découvertes Gallimard, Parigi, 1993
2 II tempio, dove i lwa dispongono di propri spazi ed altari.
54
forze invisibili nella vita dei fedeli è sottolineata dalla necessità che la cerimonia,
con la quale vengono evocate, debba non solo essere guidata da un houngàn o da
una manbó3, ma debba anche avvenire all’interno di uno spazio preposto e svolta
seguendo precise regole cerimoniali.
Ogni tempio vudù comprende uno spazio aperto, destinato alle cerimonie, al cui
centro si innalza il potó-mitàn, il palo che rappresenta il punto d ’unione, il passag
gio tra i due mondi, la via percorsa dai lwa per congiungersi ai fedeli. Intorno a que
sto palo vengono deposte le offerte e disegnati i vévé, i disegni di una simbologia
talvolta molto complessa, indicativi di ogni lwa e che, insieme al suono dei tambu
ri, ‘chiamano’ gli spiriti.
Intorno al concetto di transizione dall’invisibile al visibile si è costruito un siste
ma simbolico comprendente diversi elementi, ognuno dei quali assume il significa
to di ‘porta d’accesso’, di passaggio necessario ed obbligato, affinché avvenga rin
contro tra le due differenti forme di manifestazione dell’unica realtà.
Chiamati dal rullo dei tamburi, i cui suoni, anch’essi codificati, corrispondono
ognuno ad uno spirito particolare, ed evocati dai vévé tracciati intorno al potómitàn, i lwa sono sempre preceduti da uno di loro, Legba, che ha il compito di apri
re la barriera che separa il visibile dall’invisibile.
Detto anche Papa Legba, è sempre il primo lwa a venire invocato, affinché la ce
rimonia possa avere inizio, dato il suo ruolo di protettore di tutto ciò che inizia, di
guardiano dei crocevia, delle abitazioni e dei templi, l’intermediario indispensabile
tra le entità spirituali e gli uomini.
Questa sua caratteristica di ‘aprire il cammino’ e di essere il custode delle case,
lo ha fatto assimilare alla figura di San Pietro, detentore delle chiavi del Paradiso.
Gli altri lwa, che presiedono agli aspetti della natura o alle attività umane, rive
stono un’importanza differente a seconda dei panteon corrispondenti ai tre riti
principali seguiti ad Haiti: Rada, Congo e Petro.
Frutto di un processo di sincretismo interno alle molteplici mitologie africane, i
riti haitiani attualmente praticati non corrispondono in toto alle diverse etnie origi
narie, se non nell’immaginario dei loro seguaci, che designano i rispettivi gruppi di
lwa con il nome di nanchón (nazioni), ed ai quali fanno corrispondere vari riti (ol
tre ai tre maggioritari, ve ne sono altri secondari), ognuno con propri canti, musi
che, cerimoniali ed animali sacrificali.
Il rito Rada occupa un posto preminente, tanto da essere l’unico utilizzato per
tutte le cerimonie di iniziazione. Onora i lwa originari del Dahomey, i ‘buoni lwa’,
caratterizzati da atteggiamenti di bontà e dolcezza, da attitudini protettive nei con
fronti dei propri fedeli.
I riti Congo onorano i lwa d’origine bantù, che amano cerimonie più esuberan
ti e vivaci, mentre i riti Petro sono riservati ai lwa ‘creoli’, prevalentemente origina
ri di Santo Domingo, che rappresentano il lato terrificante dell’occulto. Violenti e
vendicativi, sono invocati nelle pratiche di magia ed includono talvolta anche i lwa
Rada, quando vengono evocati nei loro aspetti violenti.
Nella visione vuduista, estranea ad una concezione rigidamente dualista, ogni
3 Rispettivamente il sacerdote e la sacerdotessa del vudù.
55
Kva presenta caratteristiche ‘buone’ e caratteristiche ‘cattive’. Il Male ed il Bene non
costituiscono concetti assoluti e tra loro escludentisi, ma assumono valenze relative
all’obbiettivo immediato del praticante.
Anche i lwa Petro e Congo, considerati fondamentalmente pericolosi, possono
dispensare benefici ai propri fedeli, a condizione di venire onorati e serviti secon
do precise regole cerimoniali.
La severa osservanza degli obblighi nei confronti dei lwa è imposta particolar
mente nei confronti dei lwa-achté, entità cui ci si rivolge quando i lwa-rasin, ere
ditati dalla propria famiglia, si dimostrano poco efficaci. Il rivolgersi a spiriti
‘estranei’, non vincolati da alcun compromesso con il gruppo di appartenenza, è
un atto da compiersi con grande cautela, dato il rischio che comporta la non cor
retta osservanza degli obblighi, talvolta molto onerosi, che è necessario assumer
si nei loro confronti e la cui inosservanza può attirare l’ira del lwa sull’intera fa
miglia del fedele.
Particolarmente esigenti nel reclamare i servigi loro dovuti, presenti in tutti i ri
ti e più potenti degli altri lwa, i lwa Marassa sono raffigurati iconograficamente co
me due gemelli e sincretizzati con i santi Cosma e Damiano.
La loro potenza deriva dall’unità primordiale che rappresentano, quell’unità ori
ginaria la cui rottura generò il mondo. Una unità rievocata, nelle cerimonie in loro
onore, dalla forma dei recipienti che raccolgono il cibo offerto e composti da più
elementi (zucche, caraffe) legati tra loro o direttamente realizzati con una forma
molteplice.
Solo se soddisfatti dal culto reso, i marassa possono rendere preziosi servigi, qua
le il dare indicazioni sulle erbe e le piante medicinali utili a guarire i malati.
Il culto dei morti
L’importanza attribuita al servizio delle anime dei defunti risulta evidente sia in
occasione di una morte, che durante le cerimonie che si svolgono in tutto il paese
in concomitanza con la ricorrenza cristiana dei defunti.
In questa occasione si possono incontrare, anche nei luoghi pubblici e per le
strade, persone possedute dai Gédé, gli spiriti della morte.
I simboli e gli attributi dei Gédé sono esplicitamente finalizzati ad esorcizzare la
morte con le espressioni più vitali, quali lo scherzo e l’unione sessuale.
La presenza della morte sembra diventare uno spunto per facezie, burle dispet
tose e danze lascive. La sua ineluttabilità è vinta solo dall’altrettanto forte scorrere
della vita, che va riaffermata proprio là dove il pensiero della morte si fa più pre
sente: le veglie funebri e le celebrazioni in onore dei defunti.
La nascita stessa dei Gédé è connessa ad una ‘morte’: il loro nome, infatti, è quel
lo di una etnia africana sconfitta militarmente dai suoi vicini e deportata a Santo
Domingo, dove ha cessato di esistere come gruppo distinto per rinascere ad Haiti
come un ‘popolo’ di spiriti della morte, capeggiati da Baron Samedi, la cui maca
bra rappresentazione iconografica (uno scheletro vestito con abito scuro e cappel
lo a cilindro) si accompagna a danze raffiguranti l’accoppiamento.
L’aspetto terrorifico e la gravità di Baron Samedi ben si accordano alle pratiche
di magia che vengono svolte sotto la sua particolare protezione agli incroci delle
strade e nei cimiteri, le cui croci innalzate non richiamano, per i vuduisti, la fede
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cristiana, ma costituiscono il simbolo dei crocevia (il passaggio dalla vita alla mor
te) e dei loro spiriti.
La compresenza della morte e dell’allegria è parte integrante delle veglie fune
bri, dove ai lamenti si succedono momenti di divertimento collettivo, con giochi e
racconti che prendono spunto da episodi della vita del defunto.
Tra i comportamenti codificati vi è ‘l’interrogatorio’ del morto, una sorta di con
versazione, che ha lo scopo di dargli una serie di messaggi, da portare con sé nel
suo viaggio ultraterreno.
Questa usanza è giustificata dalla credenza che l’anima non abbandoni imme
diatamente il corpo, ma gli resti vicino, all’interno della sua stessa casa, costituen
do un pericolo per i vivi, che potrebbe trascinare con sé.
I riti connessi alla morte hanno lo scopo di allontanare definitivamente dal ca
davere tutte quelle entità spirituali che ne avevano fatto un uomo e che, fino alla lo
ro completa dispersione, continuano a rappresentare un pericolo per la comunità.
Per gli adepti al vudù, i riti funebri contemplano l’ulteriore necessità di staccare dal
loro corpo lo spirito al quale si erano votati. Solo attraverso l’intervento di un
houngàn, il lwa del defunto ne abbandonerà il cadavere per entrare nel corpo di un
parente, che lo erediterà.
Gli spiriti dei morti recenti riceveranno attenzioni e periodiche offerte di cibo,
venendo assimilati alle altre entità spirituali del mondo invisibile, e come le altre en
tità potranno manifestare attenzione e protezione verso la propria famiglia o risul
tare minacciosi, causare malattie e disgrazie, se privati del tributo dovuto.
La p o s s e s s io n e
II morto recente è il primo anello, quello più vicino al mondo dei vivi, della ca
tena che, passando per gli antenati e gli spiriti della natura, unisce l’uomo al miste
ro della trascendenza.
Un mistero che cerca il contatto con il nostro mondo tramite i lwa, che a volte
amano manifestarsi, entrando nel corpo di un praticante durante le cerimonie in lo
ro onore.
Il fenomeno della possessione è stato indagato con la metodologia propria di di
verse discipline, non esclusa la psichiatria.
Di volta in volta definito, da studiosi con una formazione esclusivamente scien
tifica, come espressione di isteria collettiva, suggestione, plagio di menti deboli o si
mulazione, rappresenta per il vudù un momento fondamentale: il momento esclu
sivo dell’unione completa del credente con un lwa e, suo tramite, con la realtà ul
trasensibile.
Nella concezione vuduista, in ogni essere umano agiscono due forze spirituali, la
cui compresenza lo caratterizza come essere vivente e che lo abbandoneranno al
momento della morte. Senza l’azione di queste forze, che attraverso l’energia vitale
danno l’esistenza reale, l’identità umana al corpo materiale, l’uomo si ridurrebbe a
un kó kadàn (corpo cadavere).
Il fenomeno della possessione è spiegato con l’uscita dal corpo del credente di
uno dei due elementi spirituali e l’entrata, al suo posto, di un lwa che, passando per
la testa del posseduto, compie un itinerario attraverso l’intero corpo per adeguarlo
all’immagine del lwa stesso, tramite posture, atteggiamenti, espressioni del volto ed
57
emissioni di suoni, grida o frasi di senso compiuto, talvolta in lingue sconosciute al
fedele, ma che appartengono all’identità del lwa.
Lo spirito che desidera ‘cavalcare il suo cavallo’ (secondo l’espressione usata per
designare il momento della possessione), deve trovare una buona disposizione ad
accoglierlo, pena l’insorgere di malattie dovute ad una inadeguata posizione dello
spirito nel corpo del praticante che, al contrario, se si dimostra acquiescente e lo ac
coglie senza opporre resistenza, manifestandogli in tal modo la sua buona disposi
zione, ne riceverà in cambio una serie di benefici e sarà aiutato a trovare il senso
della propria esistenza nella complessità della realtà universale.
Questo risultato esistenziale è lo scopo più importante del sistema religioso vuduista, un risultato ottenuto tramite il complesso culto reso alle forze spirituali che
agiscono nella vita individuale e sociale.
Il rapporto con i lwa, che seppure invisibili appartengono allo stesso mondo dei
loro fedeli, permette al credente di vivere una relazione molteplice, che compren
de i rapporti tra l’individuo e la comunità, l’individuo e il cosmo, tra l’intero mon
do visibile e la realtà invisibile, conosciuta attraverso una concezione intuitiva (e
non razionalmente descrittiva) delle entità che la conformano.
Nella complessa realtà religiosa vuduista, ogni manifestazione apparente (ogget
to, rito, ecc.) è la forma simbolica che esprime il mondo invisibile e le relazioni esi
stenti tra le sue parti. La materializzazione di questo mondo simbolico è rappre
sentata dall’hounfó, il luogo di culto dove la comunità dei credenti si riunisce per
rinforzare il proprio legame con i lwa e trovare, per loro tramite, il senso della pro
pria esistenza.
“Per chi lo vive dall’interno, il vudù è un sistema simbolico che funziona a par
tire da princìpi e regole e che si può scoprire, sia attraverso la ‘mitologia’ che rac
conta la storia degli spiriti (o lwa), che nel complesso rituale e nelle norme di com
portamento offerte agli aderenti”.
“I lwa del vudù stabiliscono una rete di relazioni tra le attività umane (l’agricol
tura, la guerra, l’amore) ed i diversi aspetti del mondo naturale. Strutturano lo spa
zio e il tempo, prendono in carico l’esistenza dell’individuo dalla nascita alla mor
te, come se solamente l’ascolto assiduo dei loro messaggi potesse permettergli di co
noscere e di realizzare il suo destino. Offrono un modo per classificare i differenti
ambiti dell’intero universo, così come della vita sociale. L’ordine e il disordine, la
vita e la morte, il bene e il male, gli avvenimenti felici e dolorosi sono inseriti in un
ambito significante grazie ai lwa, che fanno sì che nulla possa apparire assurdo al
l’individuo”4.
4 Hurbon L , op. cit.
58
Mariella Moresco Fornasier
Culti religiosi nell’Occidente
cubano:la Regia de Ocha e le
società segrete Abakuà
I culti religiosi di ascendenza africana che si praticano a Cuba presentano una
diffusione territoriale non omogenea, diretta conseguenza delle differenti vicende
legate alla tratta degli schiavi ed alla loro differente destinazione nelle varie zone
della produzione agricola coloniale.
Si riteneva, infatti, che gli schiavi provenienti da determinate regioni africane,
per ragioni storiche legate alle vicende politiche dei paesi d ’origine, fossero più sot
tomessi ed adatti al lavoro servile di altri e quindi preferiti durante l’acquisto di ma
no d’opera da inviare nelle piantagioni.
Altri utilizzi della mano d ’opera schiava, come la cessione a giornata per le atti
vità portuali o comunque connessi alla vita di porti fiorenti come quelli dell’Avana
e di Matanzas, richiedevano qualità di intraprendenza ed autonomia ritenute più
sviluppate presso alcuni gruppi che provenivano da quelle zone che, fino agli anni
a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo, erano state interessate al commercio schia
vista in qualità di soci commerciali degli europei.
I culti più diffusi a livello nazionale sono attualmente presenti sia nell’Occiden
te che nell’Oriente del paese, ferma restando una loro diversa preminenza regiona
le, mentre i culti meno seguiti, maggiormenti localizzati in aree ristrette, al di fuori
di queste sono praticamente inesistenti.
Nell’Occidente dell’isola, ma con una forte presenza su tutto il territorio nazio
nale, il culto predominante è quello della Regia de Ocha, comunemente conosciu
ta come santeria, alla quale si affianca, nella fascia costiera che giunge fino a Ma
tanzas, la presenza delle società segrete Abakuà, i cui membri sono conosciuti an
che con l’appellativo popolare di nanigos.
Meno praticato della santeria a livello nazionale, il Palo Monte gode di una dif
fusione rilevante nella regione dell’Oriente, dove sono presenti anche differenti for
me di spiritismo e, in località circoscritte, il vudù, portato alla fine del ‘700 dai fug
gitivi dalla rivoluzione haitiana.
R egia de O cha
“La santeria costituisce la forma più radicata ed estesa dei sedimenti africani a Cuba ...
II culto dei santi si potrebbe definire come la fusione dei diversi elementi reli59
giosi derivati dai tipi della cultura africana che furono predominanti a Cuba, con
caratteristiche essenzialmente yoruba; la sua teologia è fondata sugli scambi realiz
zati tra le divinità yoruba ed i santi cattolici e qui il sincretismo ha preso la sua for
ma più definita. Cosicché si vede che tutte le divinità yoruba, portate in questo pae
se, sono perfettamente identificate con i santi cattolici, fino al punto di confonder
si le une con gli altri; da qui il nome di ‘santo’, parola che esprime la presenza ter
rena della divinità afrocubana durante l’estasi dei sacerdoti e che generalmente vie
ne identificata con questo nome generico di ‘il santo’.
Anche se nella pratica di questi culti ci poniamo di fronte a un gran numero di
elementi procedenti da altre culture, come la bantù, ewey, mandingo, la caratteri
stica fondamentale è espressa dagli elementi yoruba, ragion per cui siamo inclini a
considerare il culto ai santi come il sistema religioso yoruba afrocubano, il cui mo
do di presentarsi, il suo carattere teologico, le sue pratiche, costituiscono un tipo
ben differenziato che, nonostante i numerosi elementi presi dal cattolicesimo, le
danno la categoria di una religione.”1
La santeria, così come le altre espressioni religiose afrocubane, non costituisce
un sistema chiuso, rigidamente strutturato, bensì presenta differenze a seconda dei
culti praticati e perfino dei singoli officianti, presentandosi come un “ ... corpo teogonico ... (che) subisce modifiche secondo la linea di ogni casa-tempio, di ogni of
ficiante. ... Se, come abbiamo detto, questa è una religione basata su varianti, ogni
schema potrebbe essere suscettibile di una interpretazione personale.”12
Differenze non trascurabili esistono, inoltre, tra le regioni dell’Occidente e del
l’Oriente, dove alcuni orisha subiscono una diversa identificazione con i santi cat
tolici, alcuni dei quali a loro volta sono oggetto di maggiore o minore venerazione
nelle regioni orientali ed occidentali del paese.
Secondo testimonianze raccolte da Rómulo Lachataneré, la santeria fu intro
dotta nella regione di Santiago da un officiante di Matanzas solo nei primi anni
del nostro secolo e, entrando in contatto con i culti congo già radicati, dovette
stemperare i suoi tratti yoruba sia nel rituale che nell’identificazione tra orisha e
santi cattolici.
La convivenza di culti diversi ha inevitabilmente comportato ulteriori forme di
sincretismo, favorite dal fenomeno delle migrazioni interne, che diffusero in tutta
l’isola culti originariamente localizzati in aree geografiche distinte.
La Regia de Ocha, i cui fondamenti sono costituiti dall’originario culto yo
ruba alle entità spirituali (intermediarie tra l’Essere Supremo ed il genere uma
no, siano esse entità protettrici delle attività umane o espressioni delle forze
della natura, come anche antenati capostipiti divinizzati) si sviluppa a Cuba a
partire dalla fine del secolo scorso, costituendo il risultato del sincretismo del
le rappresentazioni dell’universo religioso di questa etnia con elementi prove-
1 Lachataneré R., El sistema religioso de los afrocubanos, ed. Ciencias Sociales, La Habana,
1992.
Il termine ‘divinità’ utilizzato da questo studioso non è unanim em ente condiviso, dato che gli
orisha non sono né creatori, né padroni delle forze o delle attività che invece ‘esprim ono’, oltre a
potere essere equiparati, in alcuni casi, alla figura mitica dell’eroe fondatore nella cultura greca.
2 Barnet M., La hora de Yemayà, in La Gaceta de Cuba, marzo-aprile 1996
60
nienti da altre culture africane e dal cattolicesimo (così com’era praticato nella
Cuba coloniale) che, a loro volta, avevano già subito un processo di sincretizzazione in Africa.
Nonostante il loro apparire assai tardo nel contesto religioso cubano, dovuto al
le vicende storiche che videro gli yoruba, da dominatori di altre etnie e procacciatori di schiavi per i mercanti europei, divenire essi stessi vittime della tratta negrie
ra alla fine del ‘700, furono i membri di questo gruppo “quelli che esercitarono l’in
fluenza maggiore nel processo di integrazione al sistema culturale e religioso dell’i
sola, e che riuscirono più velocemente a estendere le loro manifestazioni e marcare
una linea di influenza piuttosto rilevante nelle altre culture africane che esistevano
a Cuba, molto tempo prima di quella yoruba”.5
I motivi di questa maggiore influenza culturale vanno ricercati nel più elevato livello
concettuale del pensiero religioso yoruba e nella sua ricchezza mitologica e filosofica.
II fondamento di tale pensiero si fonda sulla percezione di estrema lontananza e
di incomunicabilità tra la divinità suprema (rappresentata dalla trilogia Olofì-Oloddumare-Olorun) ed il mondo creato.
L’uomo può rivolgere il proprio culto ed indirizzare le proprie preghiere solo a
degli intermediari, gli orisha, considerati come messaggeri della volontà divina ma
appartenenti a questo mondo, nelle cui vicende possono intervenire, esaudendo le
richieste dei fedeli o punendoli per le loro mancanze. E’ quindi esclusivamente ad
essi che verrà dedicato il culto, riservando all’Essere Supremo solo una formula ri
tuale usata in particoli occasioni.
Per capire la complessità simbolica che si cela dietro l’apparente semplicità con
cettuale della Regia de Ocha, è necessario tenere conto che il sistema religioso yo
ruba non si è evoluto per un processo di approfondimento endogeno, bensì per as
similazione progressiva di elementi appartenenti alle credenze dei gruppi limitrofi,
in particolare con l’annessione al proprio corpo mitologico delle figure dei capostipiti, gli eroi fondatori delle città e delle regioni confinanti.
• Nel 1910 Leo Frobenius scrisse che “la religione degli yoruba divenne omoge
nea, così come si presenta ora, gradualmente. La sua uniformità è il risultato di
adattamenti e amalgami progressivi di credenze venute da varie direzioni.”345.
Neppure sessantacinque anni più tardi era possibile riscontrare una uniformità
di culto, come è testimoniato da Pierre Verger: “Non c’è, in tutti i punti del terri
torio chiamato Yoruba, un panteon degli orisha ben gerarchizzato, unico e identi
co. Le varianti locali dimostrano che certi orisha, che occupano una posizione do
minante in alcuni luoghi, sono totalmente assenti in altri. Il culto a Changó, che oc
cupa il posto più importante a Oyò, è ufficialmente inesistente a Ifé, dove un dio
locale, Oramfò, lo sostituisce come padrone del tuono. Ochun, il cui culto è molto
praticato nella regione di Ijexà, è assente in quella di Egbà. Yemayà, sovrana nella
regione di Egbà, non è neppure conosciuta in quella di Ijexà. La posizione di tutti
questi orisha è profondamente dipendente dalla storia della città della quale figu
rano come protettori ...”5
3 Barnet M., Cultos afrocubanos , ed. Union, La Habana, 1995.
4cit. in Verger R, Orixàs, Circulo do livro de Sào Paulo , 1975.
5 Verger P. op.cit.
61
A Cuba tutti gli orisha oggetto in patria di culti locali, ma sconosciuti fuori del
proprio territorio, hanno trovato accoglienza in un unico sistema religioso, quello
santero, che li ha integrati in un panteon comune a tutti i credenti. Un panteon che
presenta però delle differenze talvolta rilevanti nell’identificazione tra i singoli ori
sha ed i santi cattolici, così come nell’insieme dei racconti sulla loro origine e le ri
spettive caratteristiche distintive. Differenze riscontrabili non solo tra località dif
ferenti ma anche tra diversi officianti ed i rispettivi gruppi di fedeli.
Così come nel passato africano il culto agli orisha si caratterizzava a livello locale, nel
la colonia ed ai giorni nostri si caratterizza per una spiccata frammentazione, non più
fondata sull’aggregazione familiare o sociale, bensì sul concetto di ‘famiglia religiosa’.
La mancanza di un rigido ordine gerarchico e di un conseguente accentramento
del sapere dottrinale e liturgico, ha permesso la sopravvivenza della Regia de Ocha
in condizioni storiche estremamente lontane da quelle che l’hanno originata, ma ne
ha amplificato la frammentazione non solo negli aspetti rituali esteriori, permeabi
li alla specificità delle condizioni esterne ed ai differenti influssi culturali con i qua
li entrava in contatto, ma anche al livello semantico del corpo dei racconti cosmo
gonici ed a quello interpretativo dei rapporti esistenti tra le diverse manifestazioni
degli orisha e, conseguentemente, della preminenza di una o di un’altra forza spiri
tuale nell’ordine naturale nel quale è inserita la vita dei fedeli.
E essenziale tenere presente il ruolo fondamentale del dualismo tradizione-in
novazione, motore della cultura africana, per capire le modalità di sopravvivenza e
di adeguamento alle nuove situazioni della Regia de Ocha.
Adeguamento che non si limita alla necessità di ritrovare, in una situazione tan
to peculiare ed estrema come quella della schiavitù, la possibilità di mantenere i
propri fondamenti culturali e la propria identità, ma costituisce un processo co
stante di ricerca di equilibri, che ha finora permesso la sopravvivenza di questa re
ligione in contesti fortemente avversi come la cultura ufficiale atea, che fino al 1991
ha precluso alle espressioni religiose la possibilità di manifestarsi e di confrontarsi
pubblicamente, e l’impatto con gli aspetti più destabilizzanti dell’apertura a modelli
di vita estremamente differenti dal proprio contesto originario.
E’ questa forse la sfida più pericolosa che la santeria sta affrontando, dopo il si
lenzio dei primi anni della rivoluzione ed il disprezzo che ai tempi della colonia ha
accompagnato tutte le espressioni culturali degli schiavi negri e che si è trasforma
to in un meno evidente ma più subdolo pregiudizio, che continua ad accompagna
re nel quotidiano le relazioni interpersonali.
Verso l’insieme dei complessi sistemi religiosi cubani, con le loro molteplici
espressioni, continua a permanere un giudizio sostanzialmente negativo, riassunto
nella definizione spregiativa di ‘credenze di negri’, condivisa anche da persone che
annoverano tra i propri antenati (non troppo lontani) proprio coloro che, salendo
sulle navi negriere, portarono con sé gli spiriti e le forze vitali della propria terra e
che ne seppero preservare il ricordo ed il culto in secoli di schiavitù.
Questi fattori hanno condizionato la percezione collettiva delle religioni afrocu
bane, relegandole al campo del folklore e non favorendo la corretta comprensione
dei loro valori e contenuti.
Nonostante'i fondamentali e pioneristici lavori di Fernando Ortiz e di Lydia
Cabrera, la santeria continua ad essere considerata, anche da alcuni studiosi, co
me un insieme di pratiche magiche e non religiose, tendenti cioè al dominio del62
le forze naturali al fine di volgerle a vantaggio delle necessità pratiche ed imme
diate dei fedeli.
Molti lavori di ricercatori, anche contemporanei, possono indurre in questo er
rore, dato che si limitano all’elenco delle entità spirituali venerate nella Regia de
Ocha, dei loro tratti costitutivi, del culto loro tributato ed alla descrizione delle ce
rimonie e degli altri aspetti immediatamente percepibili, senza soffermarsi né sul
l’analisi del significato profondo che queste religioni rivestono per gli aderenti, né
sulla loro capacità di rivestire di senso la quotidianità, rispetto alla quale non si pon
gono affatto come una espressione della ‘tradizione’, cioè di un fenomeno fissato
nel passato senza più incidenza nella vita attuale.
Si perde in tal modo la comprensione di una “pratica culturale specifica, viva,
interagente e in costante trasformazione, dentro l’universo culturale cubano” 678e si
riconferma il pregiudizio negativo a causa del quale “la santeria, come altre espres
sioni religiose di origine africana, fu relegata nella periferia della subalternità, ne
gandole la condizione di cultura”.'
Nella pratica quotidiana si è verificato un processo di semplificazione della sante
ria, sia nella struttura gerarchica che nelle sue forme divinatorie.Gli addetti alla ese
cuzione delle cerimonie, i santeros, hanno anche il compito di introdurre coloro che
vogliono iniziare il cammino religioso alle pratiche rituali ed alla conoscenza della mi
tologia riguardante gli orisha che reggono, con la loro volontà, le sorti dei praticanti.
Le comunicazioni dei ‘santos’ sulla salute, gli affari, la vita sentimentale e fami
liare dei fedeli, possono essere conosciute per mezzo della divinazione praticata,
nelle sue forme principali, con:
- il “tablero de Ifà”, il sistema più complesso, ereditato dalla cultura yoruba, il
cui esperto, il babalawo, è l’unico a conoscere il segreto ultimo della Divinità Su
prema; la divinazione prevede l’uso di particolari oggetti rituali dal significato sim
bolico, tra i quali l’Ekuele, una catenella che unisce otto grani (formati da pezzi di
cocco, semi secchi, ecc.), il cui modo di ricadere sull’ Até de Ifà, il legno rotondo
simbolo del mondo, sarà interpretato dal babalawo tra le migliaia di combinazioni
che prevede questo sistema, tanto complesso che in Africa l’addestramento di un
babalawo (una persona necessariamente dotata di grande intelligenza e memoria)
richiede ventuno anni di apprendimento s;
- il dilloggun, una forma divinatoria nata a Cuba, che si realizza tramite il lancio
e la successiva lettura della posizione delle conchiglie lanciate;
- la lettura dei quattro pezzi di una noce di cocco, la cui ricaduta dalla parte scu
ra piuttosto che da quella chiara, e tutte le svariate combinazioni che ne derivano,
indica gli elementi in base ai quali il santero potrà dare il suo responso.
La centralità della divinazione nel sistema santero è evidenziata dal fatto che l’oriaté, l’esperto nella lettura del diloggun, è colui che presiede alle cerimonie più im
portanti ed è la guida in tutte le iniziazioni ai più alti livelli religiosi.
E l’oriaté a dovere interpretare correttamente la volontà degli orisha, decidendo
chi dovrà proseguire il cammino iniziatico.
6 Menendez L , La santeria que yo conozco, Anales del Caribe, n. 14-15/1995.
7 Menei>kJez L , op.cit.
8 Bolivar Aróstegui N., Ifà: su historia en Cuba, ed. Union, La Habana, 1996.
63
Tutto, nella santeria, deve corrispondere alla volontà degli orisha, contro la qua
le non si può neppure celebrare il rito né permettere che alcuno si fregi dei segni
distintivi della sua affiliazione ad un particolare santo. Solo dopo la sua manifesta
zione di volontà, il fedele potrà improntare la sua vita al servizio del santo, che di
verrà uno dei membri della casa-tempio frequentata dal suo devoto e vi riceverà il
culto dovuto da parte di tutta la famiglia santera.
Non vi è concordanza di giudizio circa il numero degli orisha del panteon santero, data anche la non conformità della loro identificazione con i santi cattolici nel
le diverse regioni del paese e data anche la dimenticanza nella quale sono caduti al
cuni orisha un tempo venerati ed ora praticamente inesistenti.
Universalmente riconosciuti sono però i più importanti della tradizione yoruba9,
tra i quali Eshu-Elegguà, che apre e chiude il cammino e, per estensione, tutte le ce
rimonie. Ogni azione umana, al suo iniziare, è sottoposta al suo volere che occorre
conoscere, evocandolo. Anche il culto reso agli altri orisha deve necessariamente
comprendere un’offerta a Eshu-Elegguà, l’unico santo rappresentato in forma an
tropomorfa da una pietra con occhi e bocca realizzati con conchiglie.
Insieme a Oggun e Ochosi forma la trilogia dei santi guerrieri, i cui simboli so
no posti dai credenti dietro la porta della casa, di cui sono i custodi.
Rappresenta anche l’allegria e la capacità (aprendo il cammino) di superare gli ostacoli.
Argeliers Leon, citato da Miguel Barnet in ‘Cultos Afrocubanos’, ha scritto che:
“In Elebwa (come preferisce scrivere il suo nome) si è data l’immagine dove si ri
solvono le contraddizioni economiche e sociali dell’umile uomo del popolo, a par
tire dallo schiavo fino a coloro che, in momenti successivi della vita del paese, ade
rirono a queste forme religiose. Elebwa è abbastanza potente per aprire un cammi
no, cioè per superare gli ostacoli che la classe dominante di una società impone al
le classi dominate. Inoltre, Elebwa protegge e libera i credenti dal peso di altre di
vinità esigenti come Orula e Obbatalà. Elebwa rappresenta ... la liberazione delle
aspirazioni della classe dominata”.
Tra i più venerati a Cuba, Changó è un orisha molto forte, virile e violento. Sincretizzato con Santa Barbara, è il padrone del tuono e si caratterizza per la forma
con la quale, durante la possessione, entra nel corpo dei suoi fedeli, sottoposti a
movimenti e colpi violenti.
Racconta il mito yoruba che fu Changó a portare il fuoco agli uomini e che da
quel fuoco, uscito dalla sua bocca, nacquero i lampi.
E figlio e marito rispettivamente di Yemayà e di Ochun, due tra le figure più im
portanti della devozione cubana, sincretizzate con la Virgen de Regia, patrona del
l’Avana e la Virgen de la Caridad del Cobre, patrona di Cuba.
Yemayà rappresenta la maternità e gli aspetti più rassicuranti della femminilità.
Regina del mare (secondo alcune credenze solo delle rive del mare, secondo altre
anche delle acque profonde, nel qual caso si manifesta con il nome di Olokun),
ha un carattere conciliante e premuroso verso i suoi ‘figli’, dei quali si prende cu
ra come una madre.
9
Per la tipologia degli attributi degli orisha qui presentati, è stato fatto riferimento ai lavori di
Barnet M., Cultos afrocubanos, op.cit. e di Bolivar Aróstegui N., Los Orishas en Cuba, ed. Union,
La Habana, 1990.
64
Può essere però anche severa e intransigente, dato che è la divinità dell’intelli
genza e della razionalità. E’ una degli orisha più amati e rispettati da tutti i creden
ti ed intorno al quale sono nati un gran numero di miti e di leggende.
Altra manifestazione della femminilità è Ochun, che ne rappresenta il lato seduttivo e frivolo.
Molto sensuale, bella, amante della musica e del ballo, viene identificata con una
orisha mulatta, padrona dell’allegria, dell’amore sessuale, delle acque dolci, dell’o
ro e del miele.
Di lei Fernando Ortiz scrisse che: “nelle sue danze chiede:’oni! oni!, ossia ‘mie
le! miele!, l’afrodisiaco simbolo della dolcezza, del piacere, dell’essenza amorosa
della vita”. Le sue danze sono spiccatamente erotiche, come si addicono ad una
prostituta esperta (una delle sue rappresentazioni), che si prefigge di rubare gli uo
mini alle altre donne.
Il giallo, simbolo dell’oro e del miele, è il colore che la contraddistingue e che
devono avere i doni che le vengono offerti.
Severo e grave, Babalu Oyé è tra gli orisha più popolari. Sincretizzato con San
Lazaro, raffigurato coperto di pustole e di stracci, appoggiato alle stampelle ed ac
compagnato dai suoi cani, è il protettore dei malati, cui concede molti miracoli.
Il mito racconta che, avendo contratto la lebbra nei suoi incontri amorosi, si è
convertito in un predicatore dei costumi morigerati. Annuncia il suo arrivo con il
suono di un campanello, affinché si possa sfuggire al contagio, e si veste di tela di
sacco. La sua punizione colpisce con il contagio del vaiolo, della lebbra o con l’in
sorgere della cancrena.
Essendo il padrone dei cimiteri, per alcuni è anche lo spirito che riceve tute le
anime dei morti. Suoi messaggeri sono le mosche e le zanzare, portatrici di infezio
ni e malattie.
Ogni anno all’Avana, in occasione della ricorrenza di San Lazaro, centinaia di fe
deli si recano al suo santuario per compiere voti o per chiedere la grazia di una gua
rigione. I suoi devoti percorrono a volte centinaia di metri in ginocchio o striscian
do al suolo, aumentando le proprie sofferenze flagellandosi o attaccando pesi alle
gambe, in un desiderio parossistico di espiazione.
Direttamente collegato al mistero della morte è anche Oyà, guardiano dei cimi
teri e padrone del vento e delle saette, la cui rappresentazione più serena è l’arco
baleno, i cui sette colori simboleggiano questo spirito protettore dei morti e poco
incline a manifestarsi attraverso la possessione, richiamata da canti solenni, invo
canti la giustizia e la pace.
Particolare importanza nella liturgia santera è attribuita a Obatalà, rappresenta
zione della purezza, della giustizia, di ciò che spiritualmente è molto elevato. Rap
presenta anche la nascita, l’inizio.
In Nigeria esprime la dualità di inizio/fine e di terra/cielo con i nomi di Obbatalà (cielo) e Odua (centro, asse della terra).
Odua è un nome che, con altre manifestazioni dello steso orisha, permane nella
santeria cubana, dove uno dei suoi animali emblematici, la colomba bianca, è qui
attribuita a Obbatalà, il cui colore, il bianco, deve contraddistinguere tutto ciò che
gli appartiene e che gli viene offerto.
Divinità dell’inizio di ogni cosa, è considerato il creatore del mondo ed equipa
rato alla Vergine della Misericordia ed al Santissimo Sacramento.
65
Particolarmente austera e corretta deve essere la vita dei suoi devoti, ai quali non
è permesso bestemmiare, litigare, bere alcolici e tenere atteggiamenti sconvenienti.
Orula, o Ifa, si distingue dagli altri orisha ed occupa un ruolo preminente nel si
stema santero per essere il possessore dei segreti della divinazione, il padrone del
‘tablero de Ifa, l’oracolo supremo per conoscere il futuro e poterlo modificare.
Questa sua caratteristica lo fa considerare un benefattore degli uomini, che lo ri
cambiano con una devozione esclusiva. Quando Orula ‘chiama’, occorre abbando
nare il culto di qualunque altro orisha per dedicarsi interamente al suo servizio.
I sacerdoti di Ifa non necessariamente sono anche santeros (benché abitualmen
te lo siano) e possono diventare babalawo solo coloro che sono stati prescelti tra
mite la divinazione.
Benché le donne possano iniziarsi al culto di questo potente orisha, non posso
no mai giungere ai livelli più alti di iniziazione né apprendere tutti i segreti che so
lo pochi eletti conoscono.
Molto rispettato, è tra gli orisha più venerati per la sua saggezza ed i suoi gran
di poteri magici.
I suoi fedeli non entrano mai in crisi di posessione, perché con questo orisha, che
stabilisce solo relazioni di armonia con i propri sacerdoti, si può appena dialogare,
senza entrare in una più stretta relazione fisica, come accade invece con gli altri.
La mancanza di contatto diretto contraddistingue anche il rapporto con OlofiOloddumare-Olorun, le tre manifestazioni della divinità.
La ricorrenza della trinità sia nella concezione religiosa yoruba che in quella cri
stiana, ha indotto a parallelismi che non tutti gli studiosi della santeria condividono.
Secondo Natalia Bolivar Aróstegui, “ ... gli yoruba ebbero la necessità concet
tuale di un principio assoluto, superiore agli altri orisha, archetipi delle funzioni e
delle attività del mondo. Questo Essere Supremo, concepito nei suoi diversi rap
porti, fu proiettato in tre entità: il Creatore, che tratta direttamente con gli orisha e
gli uomini, sotto forma di Olofi; la subordinazione alle leggi della natura, la stessa
legge universale, individuata come Olordumare101e la forza vitale, l’energia univer
sale, identificata con il sole e personificata da Olorun. Non si tratta altro che di un
ulteriore esempio della difficoltà del pensiero primitivo di elaborare un concetto di
un alto livello di astrazione e della sua tendenza spontanea al concreto ed al parti
colare. La prodigiosa creazione religiosa degli yoruba non ha certamente bisogno
che le si attribuiscano intenzioni che le sono estranee”.11
Tutta la potenza creatrice e l’energia che dà e mantiene la vita nell’universo è at
tribuita ad una entità suprema, tanto astratta da risultare quasi inconcepibile, nella
sua estrema lontananza e nella sua incommensurabile potenza, dalla mente umana.
La cultura yoruba e la santeria, che ne eredita le concezioni religiose fondamen
tali, suddivide gli attributi di un divino concepito come ‘tremendum’ per renderli
più umanamente accessibili.
10 Nella trascrizione dei ricercatori, la grafia dei nomi degli orisha subisce variazioni corri
spondenti a quelle riscontrate nella ricerca sul campo. In questo caso si è preferito, citando uno
scritto, lasciare inalterata la grafia ‘O lordum are’, anziché sostituirla con quella già usata di ‘Oloddum are’.
11 Bolivar Aróstegui N., Los Orishas eri Cuba, op. cit.
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“Olofi è la personificazione della Divinità, la causa e la ragione d’essere di tutte
le cose. Nacque dal nulla autogenerandosi. Vive isolato e solo poche volte scende
nel mondo. Non intrattiene rapporti diretti con nessuno, ma senza il suo interven
to non si può ottenere nulla. Anche se tutte le cerimonie sono dirette ad un orisha
specifico, occorre avere molto chiaro che, in ultima istanza, sono tutte dirette a
Olofi e giungono a buon termine grazie alla sua volontà sovrana ...
Olofi ha creato il mondo, i ‘santos’, gli animali e gli uomini. Fu lui a distribuire
i poteri agli orisha. Perché tutte le cose fossero create ed è per questo che si dice
che è il possessore dei segreti della creazione.
Olofi ha fatto si che Orula facesse uscire dalla sua bocca i segreti della divina
zione ed è per questo che poterono arrivare agli uomini. Può utilizzare ed utilizza
tutti gli orisha come suoi messaggeri ...
Olordumare è l’universo con tutti i suoi elementi. È la manifestazione materiale
e spirituale di tutto ciò che esiste. E tanto grande che ci si consacra a lui, non gli si
offre né gli si chiede nulla direttamente. Ci si rivolge a lui attraverso Olofi. Implica
una comprensione tacita delle cose, la sottomissione alle leggi.
Tutte le volte che udiamo il suo nome, pensiamo all’indecifrabile.
Non ha una ricorrenza, devoti prescelti, miti, aneddoti, preghiere, colori, offer
te o punizioni per gli uomini. E superiore a tutti gli orisha, non ha un Otà 1213e non
si deve pronunciare il suo nome senza prima toccare la terra con la punta delle di
ta e baciare l’impronta nella polvere, come si fa con Yewà 1}.
È in ogni luogo, in tutte le nostre azioni, nella sapienza di Olofi, nella bontà di
tutti gli orisha e in Echu 14, perché anche il Bene e il Male formano un tutt’uno con
Olordumare ...
Olorun è il sole, la materializzazione perennemente visibile della divinità. E la
manifestazione più sensibile e materiale di Olofi e Olordumare, quella a cui si ri
volgono i religiosi, quando pensano a loro.
E la forza vitale dell’esistenza e, grazie al suo calore ed alla sua energia, fa cre
scere i raccolti, fa esistere il giorno e la notte, muovere le acque e i venti.
E segno di vita e di creazione vegetale, sostegno dell’esistenza sulla terra. Olorun
è il padrone della luce, dei colori, dell’aria, del respiro e del soffio della vita.
Lo è anche del vigore e dello sforzo”.15
Differenti tipi di cerimonie e di feste segnano la liturgia santera con caratteristi
che più o meno marcatamente religiose o profane. Durante queste ultime è fatto di
vieto di suonare i tamburi consacrati, i tre batà, le cui percussioni accompagnano i
riti di iniziazione e le ricorrenze dell’affiliazione a un santo.
L’importanza simbolica e cerimoniale di questi strumenti deriva dal segreto pos
seduto dallo spirito che li abita e che nessun costruttore o suonatore di batà ha fi
nora voluto rivelare.
La loro eccezionalità è evidenziata dall’offerta di cibo che viene fatta loro e dal
tabù che proibisce che vengano suonati da mani femminili. Un altro divieto rituale
12 L’otà è la pietra nella quale risiede la forza dell’orisha.
13 Yewà vive tra i morti, al cimitero, e porta i cadaveri a Oyà.
14 Con il nome di Echu (o Eshu) vengono indicate molte diverse manifestazioni di Elegguà.
15 Bolivar Aróstegui N., Los Orishas eri Cuba, op.cit.
67
riguarda il loro uso dopo il tramonto, quando vengono riposti in una apposita stan
za e li lasciati fino all’occasione successiva, quando verranno comunque suonati al
la luce del sole.
Una possibile spiegazione sul significato di questo imperativo liturgico ipotizza
un antico culto del sole, con cerimonie che prevedevano il suono dei tamburi sacri.
Questo suono, insieme ai canti dei fedeli, apre ed accompagna quasi tutte le ce
rimonie ed è l’invocazione che si eleva all’orisha affinché voglia manifestarsi ai suoi
fedeli ‘montando il suo cavallo’.
Il fenomeno della possessione, comune a tutti i riti afrocubani, è un momento re
ligioso fondamentale, il momento in cui si realizza l’unione dell’uomo con la realtà
trascendente. Attraverso la possessione, il fedele diviene il mezzo, lo strumento di
cui l’orisha fa uso per comunciare i suoi messaggi.
Essenziale è che appaia chiaro, senza possibilità di equivoci, l’identità dell’orisha
che si sta manifestando, ragione per cui il corpo del posseduto si atteggerà secon
do schemi che identificano con sicurezza lo spirito che è entrato in lui. Tutto ciò
che il fedele posseduto farà o dirà, non sarà mai volontario né cosciente e, al ritor
no dello stato di coscienza, non serberà memoria di quanto accaduto.
Tra le molte spiegazioni (o tentativi di spiegazione) date a questo fenomeno, Mi
guel Barnet propende per quella data da René Clouzout, secondo il quale durante
la possessione si produce una forma di riflesso condizionato originato dalle ceri
monie di iniziazione.
Se è indubitabile che gli stimoli esterni (i canti, il battere estenuante dei tambu
ri, l’eccitazione collettiva che aumenta con l’attesa della manifestazione degli spiri
ti) giocano un ruolo fondamentale affinché si verifichi la possessione, è altrettanto
vera e provata l’influenza sociale sul singolo. Lo dimostrerebbero, secondo Clou
zout, i rari casi di possessione di persone estranee a questo ambito religioso, dato
che in questo caso i posseduti attuerebbero in modo “grottesco, imitativo e con una
teatralità assolutamente prefabbricata. Il contatto preventivo è imprescindibile per
qualunque tipo di manifestazione di possessione. Chi viene posseduto da un santo
e riesce ad interpretare i suoi gesti, le sue caratteristiche fedelmente, acquista im
mediatamente una posizione di potere all’interno del nucleo sociale dove si prati
cano questi culti. Questo potere è religioso ma anche di gerarchia sociale e di rap
presentatività.
La possessione è caratterizzata anche da una volontà di rappresentare un arche
tipo. Questo archetipo è profondamente legato all’identità della persona che deli
beratamente desidera assumere i tratti e gli attributi della divinità. Credo, inoltre,
che la possessione riveli in molti casi una decisione di essere qualcosa di diverso, di
assumere una condotta che avvicini il posseduto con la sua cultura natale”.
Questa tensione profondamente radicata nell’anima del credente santero spiega
la permanenza e la vitalità di questa religione, come di altri culti afrocubani.
Nel periodo precedente al 1991, quando il quarto congresso del partito comu
nista cubano offrì ai credenti la possibilità di un inserimento attivo nella vita poli
tica e sociale del paese, la forza di resistenza della santeria consistette nella sua ca
pacità di offrire gli strumenti concettuali e psicologici per vivere con il maggiore
equilibrio possibile in un ambiente culturalmente ostile, ripercorrendo il tal modo
la secolare tradizione dei tempi della colonia, che non riconosceva la sua religiosità
né la sua specifica identità culturale.
68
La creazione, nel 1961, dell’Istituto di Etnologia e del Folklore e del gruppo di
danza Conjunto Folklorico, se da un lato testimonia l’interesse per le componenti
tradizionali della cultura afrocubana, dall’altro compie un’operazione di desacra
lizzazione di questa cultura, separando gli elementi formali esteriori della ritualità
dal loro senso profondo e dal loro ambito naturale di espressione, svuotandoli e re
legandoli al ruolo di testimonianze di un passato irrazionale, i cui bisogni spiritua
li e le cui aspirazioni di conoscenza della realtà del mondo sarebbero stati soddi
sfatti dal sapere scientifico.
Il credente santero si trovò interiormente conteso e diviso tra due mondi, dato
che quello ufficiale gli proponeva, con la forza del condizionamento sociale e del
rischio della marginalizzazione, una mentalità atea e scientifica, politicamente osti
le alla religiosità che continuava ad esprimere nella riservatezza del proprio am
biente familiare e religioso.
“In realtà l’ostilità favorì il rafforzarsi della pratica santera ... (che) estese il suo rag
gio d’azione, dato che è noto che fino al 1959 la pratica della santeria era una que
stione nazionale; a partire da questa data e in un processo graduale di consolidamen
to della Regia de Ocha-Ifà si contano comunità significative a Miami, nel New Jersey,
a Puerto Rico, in Venezuela e ci sono iniziati in quasi tutti i paesi del mondo”.1617
Il continuo adattamento della santeria alle mutevoli situazioni concrete, effetto
di una flessibilità che non ha fissato la propria conoscenza in dogmi immutabili, è
dovuta alla accettazione di un sapere profano, accolto ed integrato nel proprio cor
po tradizionale, che ne ha permesso l’attualizzazione. Nella santeria è infatti possi
bile l’individuazione di elementi appartenenti ad altri corpi culturali, siano essi re
ligiosi o aspetti della cultura materiale quotidiana.
E proprio questa capacità di incorporare nuovi elementi alla propria visione
del mondo e del suo rapporto con il trascendente (eredità della caratteristica cul
turale africana di non sacrificare nessuno dei due elementi del binomio tradizio
ne-innovazione, che regola la progressiva evoluzione sociale) che ha finora per
messo la sopravvivenza della santeria in una società che ha conosciuto, in meno
di un secolo, cambiamenti profondi che ne hanno sovvertito gli originali codici
culturali.
Le S o cietà S egrete Abakuà
Intorno alle società segrete maschili Abakuà 11 sono cresciuti timori e pregiu
dizi alimentati dal mistero che ha sempre avvolto le loro attività, i loro riti e le lo
ro credenze.
Pregiudizi negativi che, anche tra la popolazione nera, hanno fatto coincidere
nell’opinione corrente il termine Abakuà, o nanigo, come vengono denominati abi
tualmente i suoi membri, con quello di malavitoso, guappo.
16 Menendez L., op. cit.
17 Queste società sono strutturate in gruppi indipendenti, per cui “si è scelto di denom inare que
sta espressione religiosa al plurale ‘società segrete’, sotto uno stessodenominatore che le qualifi
ca ‘abakuà’ e non al singolare come è uso corrente” , v. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I.,
Los llamados cultos sincreticos y el espiritismo, ed. Academia, La Habana, 1991.
69
Fernando Ortiz, in ‘Los negros brujos’, risente di questo diffuso pregiudizio so
ciale, che tende ad attribuire al naniguismo, come particolare espressione sociocul
turale, e in generale a tutta la cultura negra, la colpa di molti mali che affliggevano
la società cubana nei primi anni del secolo:”... la stregoneria e il naniguismo, che
tanta parte hanno avuto nella malavita di Cuba”.
Le regole delle società Abakuà, che tra altri imperativi impongono il mutuo aiuto,
ed in particolare quelle relative all’obbligo di non violarne la segretezza e che hanno
sviluppato un forte senso di appartenenza, hanno sicuramente favorito un atteggia
mento di connivenza tra i suoi membri, anche a scapito del rispetto delle leggi ed han
no conseguentemente favorito la presenza di individui appartenenti a vario titolo alla
criminalità o, più semplicemente, di elementi turbolenti ed insofferenti di una autorità
che si esercitava in modo particolarmente vessatorio contro la popolazione nera.
La risposta delle autorità coloniali e repubblicane a questa forma di aggregazio
ne fu sempre improntata a criteri di intransigenza e durezza: la sola affiliazione ad
un gruppo Abakuà costituiva un elemento sufficiente per vedersi commutare pe
santi condanne e la deportazione all’Isla de Pinos, come testimoniano i verbali di
polizia dell’epoca.
La particolare persecuzione contro i membri di queste società segrete fu aggra
vata anche dal fatto che la lotta anticoloniale, alla quale fu associata la lotta anti
schiavista, vide la partecipazione di numerosi nanigos.
In epoca repubblicana, le difficili condizioni economiche dei ceti popolari favo
rirono l’accesso ai gruppi di mutuo sostegno anche di elementi bianchi, mulatti e
della nuova immigrazione orientale.
A Cuba si hanno notizie del primo gruppo di Abakuà, a quell’epoca integrato
esclusivamente da neri schiavi o liberi, solo nel 1836. Inizialmente formato da per
sone appartenenti allo stesso gruppo etnico carabalì e provenienti da una sola re
gione africana, nacque con finalità di reciproca protezione e soccorso.
• Le origini di queste associazioni sono però molto più antiche e risalgono alle so
cietà segrete africane di alcune sottotribù carabalì, depositarie di ‘misteri’ religiosi
che, con la loro struttura diffusa sul territorio, svolsero un importante ruolo socia
le di arricchimento e potenziamento di alcune famiglie, attraverso la cattura e la
vendita di schiavi ai commercianti europei.
Le rivalità tribali, cui il commercio negriero conferiva un nuovo contenuto, si
trasposero sul suolo americano, dove giunsero anche gli antichi dominatori, a loro
volta ridotti in schiavitù. Le prime associazioni, formate su base etnica, mantenne
ro questa divisione fino a quando le rivalità tribali si stemperarono e vennero di
menticate, con il passare delle generazioni, a favore del raggiungimento di scopi
comuni contro l’oppressione della società schiavista.
L’esempio più eloquente di questo processo di fusione interetnica, allargata a
mulatti e bianchi sulla base delle mutate esigenze sociali, è dato dalla nascita, verso
la metà del XIX secolo, del gruppo fondato da Andrés Facundo Cristo de los Do
lores, conosciuto come Petit, che diede vita ad una nuova forma di sincretismo re
ligioso, apportando elementi cattolici al corpo delle credenze degli Abakuà.
Per le loro caratteristiche di forte sostegno reciproco, le società segrete Abakuà si
radicarono fra il proletariato urbano, nelle aree industriali e portuali delle province
dell’Avana, Matanzas e Càrdenas, dove l’appartenenza a queste società arrivò a costi
tuire una garanzia di lavoro, grazie alla grande influenza esercitata dai suoi membri.
70
“E’ questo aspetto del naniguismo quello che contribuì maggiormente al suo ra
dicamento, nonostante i cambiamenti sociali e le persecuzioni ufficiali: una accetta
zione utilitaria, conveniente per i proprietari e gli amministratori di impresa fin dai
tempi coloniali del XIX secolo. In centri di lavoro come questi [aree portuali, gran
di fabbriche di tabacco, ecc. - n.d.r.] la pratica dimostrò la convenienza di contrat
tare gruppi di operai con un capo o un responsabile di fiducia per il padronato, e la
organizzazione naniga servì a questi scopi con gruppi di affiliati diretti dall’uno o
dall’altro dei suoi capi: si favorì il guadagno con patti tra obones e imprese”.18
Enrique Sosa Rodriguez così sintetizza l’organizzazione e il senso di queste so
cietà: “Abakuà, società segreta, esclusiva per uomini, autofinanziata mediante quo
te e collette raccolte fra i suoi membri, con una complessa organizzazione gerar
chica di dignitari (plazas) e assistenti, la presenza di esseri ultraterreni, un rituale
oscuro il cui segreto - gelosamente custodito - si materializza in un tamburo chia
mato ekwé, cerimonie di iniziazione, rinnovamento, purificazione e morte, benefi
ci temporali e perenni, leggi, castighi interni di obbligatoria esecuzione ed accetta
zione, un linguaggio ermetico, esoterico e un linguaggio grafico, corredato da fir
me, sigilli e segni sacri, costituisce, fino ai nostri giorni, un fenomeno culturale sen
za paragone a Cuba e in America, di grande importanza per la conoscenza della no
stra tradizione e delle nostre istituzioni culturali, del nostro folclore”.19
Molti studiosi non concordano neU’attribuire alle società Abakuà un carattere
religioso, considerandone principalmente le caratteristiche di reciproco soccorso
ed aiuto, ma questo carattere è presente e si esprime nella credenza in un nucleo
mitologico intorno ad un essere soprannaturale, con il quale gli Abakuà entrano in
contatto per mezzo di cerimonie svolte nel luogo sacro che ogni gruppo possiede.
L’essenza del loro sistema religioso si basa sulla leggenda del “pesce Tanze”, uno
spirito la cui voce si materializza nel suono del tamburo sacro.
La pratica religiosa prevede il contatto e la convocazione di altri spiriti (diablitos) e forme di culto verso gli antenati, sempre invocati all’inizio di ogni cerimonia.
Caratteristica della concezione religiosa degli Abakuà, che ne marca la differenza con
gli altri culti afrocubani, è la mancanza di un atteggiamento utilitaristico, di richiesta per
l’ottenimento di benefici per i credenti da parte degli spiriti evocati e che, secondo que
sto credo, ‘abitano’ qualunque essere, animato o inanimato, presente nella natura.
Il potere dell’officiante consiste nella potestà di spostarli a suo piacimento in
qualunque altra entità, anche immateriale.
Come accade in altri sistemi religiosi di origine africana, anche gli Abakuà uti
lizzano segni grafici, direttamente corrispondenti a singoli spiriti e che posseggono
proprietà magiche di protezione.
Nel panorama dei gruppi religiosi cubani, tutti improntati alla massima autono
mia, le società segrete Abakuà presentano il livello più alto di organizzazione, aven
do formato a Matanzas e a Cardenas delle strutture di coordinamento tra i gruppi
presenti all’interno dello stesso comune.
18 Sosa Rodriguez E., La leyenda naniga en Cuba. Su valor documentai, in Anales del Cari
be,n. 14-15/1995.
19 Sosa Rodriguez E., Los Nanigos, citato in Neira Betancourt L.A., Como suena un tambor
abakuà, ed. Pueblo y Educación, La Habana, 1991.
71
Diversi sono gli appellativi con i quali vengono denominate le varie società: ‘ter
ra’, ‘potenza’, ‘gioco’. “Il termine ‘terra’ riflette l’origine socioeconomica di gruppi
simili in Nigeria, anteriori a quelli creati a Cuba. Si ricordi che l’attività agricola de
gli africani del Calabar era fondamentale, per cui la terra acquistò carattere di sim
bolo religioso nella cultura di questi popoli ... per la forza interna, magica e di tutto
ciò che riguarda un Abakuà ... la ‘potenza’ è l’insieme degli oggetti sacri e di uomi
ni che hanno dato prova di essere credenti valorosi e virili. Solo chi è ‘potente’, ‘ma
schio’ può accedere ai suoi segreti... gruppi di ballerini e suonatori vennero chiamati
‘juego’ ... e per analogia i gruppi nanigos, che il giorno dell’Epifania e in altre occa
sioni uscivano con il diablito alla loro testa, ballando alla loro maniera ...”.20
Data la sua doppia identità, la gerarchia interna alle società Abakuà è duplice,
dovendo presiedere sia alle esigenze pratico-amministrative del mutuo soccorso che
a quelle religiose, cui fanno fronte diverse figure, ognuna con un ruolo specifico ed
un posto ben determinato nella scala gerarchica.
Questa doppia funzione, comportando l’esistenza di un corpo normativo basato
sulla necessità di celare gelosamente i segreti della società e di garantire ad ogni as
sociato l’effettivo sostegno di tutti gli altri membri, ha determinato un forte senso
di appartenenza al gruppo, rafforzando i legami tra gli aderenti e differenziando le
società segrete Abakuà da tutte le altre associazioni religiose cubane.
Rafael Enriquez,
offset, 1977, 45x63 cm.
20Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., op. cit.
72
Mariella Moresco Fornasier
Il Palo Monte e
lo spiritismo nell’Oriente cubano
Il Palo Monte
Maggiormente radicato nelle zone orientali del paese, il Palo Monte o Regia
Conga, si basa sulla credenza della forza spirituale che permea ed emana da ogni
elemento della natura, compresi quelli che altre culture considerano inanimati.
Questa manifestazione magico-religiosa è espressione di una cultura cui appar
tenevano alcuni gruppi etnici, i ngangà, vivi, fula, carabalì, olugo, iznama e congo,
tutti genericamente denominati “congo” nelle colonie americane e provenienti da
quell’area di cultura bantù che fu per secoli una riserva di schiavi per l’Africa ara
ba e per l’Europa, prima ancora che si aprissero le rotte verso il Nuovo Mondo.
Del contatto con il mondo arabo islamizzato restano tracce nell’attuale saluto ri
tuale usato dagli iniziati: ‘nsala maleko, maleko nsala’.1
Santiago de Cuba, attualmente la principale città dell’Oriente, fu la prima capi
tale dell’isola e, fino al XVIII secolo, il centro principale dei commerci oltreocea
no. La coltivazione del tabacco e, successivamente, della canna da zucchero, ne
cessitarono di una grande massa di lavoro schiavo, utilizzata anche in tutti i lavori
inerenti al funzionamento delle infrastrutture produttive e commerciali.
La grande maggioranza della popolazione nera era di provenienza bantù, i cui
caratteri culturali furono mantenuti e rafforzati dai cabildos de nación, congrega
zioni di neri schiavi e liberi, che si riunivano sulla base dell’appartenenza tribale per
celebrare feste e svolgere cerimonie religiose.
Un ulteriore fattore, che determinò la diffusione maggioritaria del Palo Monte in
tutta la regione orientale, fu la possibilità di svolgere le cerimonie ovunque, senza
la necessità di un luogo specificamente preposto alle funzioni sacre, permettendo
così ai sacerdoti, i Tata Nganga, di celebrare i culti e di andare incontro alle esi
genze spirituali non solo dei propri fedeli, favorendo indirettamente un’opera di di
vulgazione del Palo Monte e di graduale assimilazione di altri culti.12
1 Fuentes J., Gomez G., Cultos afrocubanos, un estudio etnolinguistico, ed. de Ciencias Sociales, La Habana, 1996.
2 Meneses R., La Regia de PalaMonte o Conga, in Del Caribe, n. 24/94. Santiago de Cuba
73
La preminenza della Regia Conga sugli altri culti religiosi rimase quasi assoluta
in tutta la zona orientale, dove contribuì alla nascita di altre espressioni religiose,
come le varianti cubane dello spiritismo, fino al nostro secolo quando, a seguito di
nuove situazioni economiche e politiche, si produsse uno scambio religioso tra
l’Occidente e l’Oriente cubani.
Secondo Miguel Barnet, la Regia Conga “E’ la concezione più globale che esista.
Riflette la presenza del palo del monte come elemento magico di scongiuro. E’ una
definizione che può inglobare altre tendenze delle sette congo di Cuba e che di fat
to assorbe quasi tutti i riti di stregoneria delle altre”.3
Il Palo Monte che, come altre forme religiose d’origine africana non possiede
una struttura concettuale e liturgica canonizzata ma che, al contrario, presenta una
spiccata permeabilità verso forme rituali inizialmente estranee, ma che hanno fini
to per essere inglobate da alcune delle sue varianti, ha presentato notevoli difficoltà
interpretative per i ricercatori non credenti, dati anche i meccanismi di difesa del
la propria intimità religiosa posti in atto dai credenti, celando ai non credenti, in
particolare ai bianchi, i significati occulti dei riti e delle credenze, la cui narrazione
si trasmette agli adepti in chiave esoterica.
Una sintesi del pensiero religioso bantù, così come attraverso mutazioni e sin
cretismi si esprime attualmente nella Regia Conga, è avanzata da Walterio Carbonell: “ ... il mondo è retto da una sostanza o spirito universale. Lo spirito universa
le ha la facoltà di materializzarsi, cioè di prendere forma animale, vegetale, minera
le o anche umana. Le cose assumono la loro forma a seconda dell’ispirazione di
Nsambi... Gli animali sono dotati di una carica elettrica, così come gli uom ini... “.4
Il Palo Monte si basa sul culto rivolto a Nsambi, supremo creatore di tutto ciò
che esiste ma lontano, indifferente alle sorti della sua creazione, che è la continua
manifestazione della sua potenza e della sua volontà.
“Nsambi è la creazione stessa; ciò che è stato creato e ciò che sta per creare, il pri
ma, l’adesso e il poi di tutte le cose; ciò che si nomina e Linnominabile; Nsambi è in
tutte le cose, poiché ogni cosa è parte del tutto ed ogni cosa è una manifestazione di
Nsambi. Sopra di tutto questo non esiste nulla e neppure sotto, poiché tutte le cose
sono la manifestazione stessa della creazione. Nsambi sopra! Nsambi sotto! Nsam
bi ai quattro venti! come si invoca all’inizio di ogni cerimonia del Palo.
Il tutto è in se stesso e per se stesso, in tutta la sua grandezza, potenza e sapien
za ... poiché è la manifestazione della coscienza universale. Nsambi non ha rappre
sentazione iconografica né fisica. E’, in una astrazione che solamente il suono della
parola può percepire, il principio e la fine di tutto ciò che esiste. Nsambi non si
adora né esiste un rito speciale per lui; egli è sempre presente, in qualunque rito,
con una piccola parte di se stesso, dato che il tutto può manifestarsi nel tutto. L’u
nico modo di stabilire un contatto con Nsambi è attraverso il suo culto, poiché l’i
dentità con il suo spirito sarà possibile solo nella dimensione di creazione che alcu
ni eletti siano capaci di riordinare in questo mondo incessante di vita, del quale
Nsambi si è dimenticato”. 5
3 Barnet M., Cultos Afrocubanos, ed. Union, La Habana, 1995.
4 Carbonell W., ‘Mayombe’ en Cuba, La Habana, 1967 citato in Barnet M., op. cit.
5 Meneses R., op. cit.
74
Il compito dell’uomo, atto conclusivo della creazione, è di provvedere alla con
tinuità del mondo. L’iniziato si addentrerà nei misteri religiosi gradualmente, attra
verso i sogni ed altre manifestazioni della realtà invisibile, fino a quando sarà in gra
do di scoprire le relazioni esistenti tra tutte le cose, relazioni sulle quali potrà in
tervenire per modificarne il corso.
Solo al suo inizio il percorso iniziatico potrà usufruire dell’insegnamento dei
principi religiosi fondamentali. Lo svelamento del proprio percorso spirituale av
verrà mediante una continua pratica individuale di interpretazione dei segni rivela
tori e delle manifestazioni che permetteranno la comprensione dell’essenza ultima
dell’esistente.
Ogni sacerdote è maestro di se stesso. Nulla è fissato e rigidamente regolamen
tato neppure nella liturgia, basata in gran parte sull’esperienza dell’officiante.
L’intervento del sacerdote sulla realtà creata può avvenire solo tramite “un cen
tro di forza, una dimensione del creato, una concentrazione di elementi che hanno
il potere di riordinare il corso apparente della vita”.6
Questo centro di forza, unico elemento indispensabile affinché ogni cerimonia ab
bia svolgimento ed il sacerdote possa operare a favore dei propri fedeli, è la nganga
che, materialmente, consiste in un recipiente contenente il maggior numero possibi
le di elementi naturali che esprimono l’energia vitale del creato. Il significato concet
tuale della nganga è quello di essere un tramite che permette al sacerdote la com
prensione dell’ordine stabilito da Nsambi e gli dà la possibilità di interagire con esso.
Ogni sacerdote possiede la propria nganga, la cui formazione deve procedere da
una nganga ‘madre’, della quale manterrà alcuni elementi, costituendo così un tra
mite ininterrotto nel tempo con le nganga del proprio gruppo rituale.
Alla forza di ogni singola nganga e del suo ‘padrone’ concorrono diversi fattori, qua
li il tipo e la qualità degli elementi contenuti, la cui ricerca può durare anche vari mesi.
A completamento della raccolta, che non viene mai considerata definitiva, giac
ché possono sempre essere aggiunti ulteriori elementi che ne aumenteranno il po
tere, si cercherà un resto umano (un teschio, meglio se accompagnato da un osso
dello stesso corpo), dato che i morti costituiscono l’elemento unificante tra i due
piani della realtà e tra la nganga e il sacerdote, la guida necessaria affinché le forze
degli elementi si dirigano nella direzione voluta.
La comunicazione tra il Tata ed il morto della nganga avviene per mezzo della
divinazione, effettuata con diverse modalità:
- l’intepretazione della disposizione, dopo il lancio, dei chamalongas, sette pezzi
di noce di cocco, che daranno risposte affermative o negative alle domande poste
dal sacerdote, che prevedono anche la richiesta di potere mutare positivamente si
tuazioni negative o di risolvere difficoltà e problemi che affliggono il questuante;
- la npaka, che utilizza un involto al cui interno vi sono parti degli elementi contenuti
nella nganga: la divinazione consiste nella lettura dei disegni tracciati dal fumo di una
candela su un piatto bianco, passando sopra lo specchio che chiude l’involucro.
Nel linguaggio corrente le nganga vengono definite judias o cristianas, a secon
da che, contenendo o meno acqua benedetta, siano utilizzate per provocare effetti
a favore del fedele o a danno di altre persone.
6 Meneses R., op. cit.
75
La differenza fondamentale esistente fra la cultura occidentale e quella bantù sul
concetto di Bene e di Male deve essere tenuta ben presente per evitare interpreta
zioni e giudizi fuorvianti.
Per la cultura bantù non esiste il concetto assoluto di Bene e di Male, come en
tità separate ed antagoniste. Al contrario, sono concepiti come parte indissolubile
di un’unica realtà, che li comprende entrambi. Ciò che è bene in una situazione o
per una particolare persona, può essere male per altri.
Solo il Tata Nganga, con la sua esperienza e capacità, può utilizzare i poteri del
la nganga, che non è né buona né cattiva ma semplicemente ‘è’, per fini che risulti
no positivi per la convivenza sociale.'
Il sacerdote, massima espressione di tutte le cose create, è ritenuto responsabile del
suo operato di fronte a Nsambi; ma non tutti gli studiosi concordano sulla respon
sabilità del palerò rispetto a quanto il suo operato può causare, ritenendolo un mero
manipolatore delle forze magiche, prive di qualsiasi valenza morale, la cui responsa
bilità va invece fatta ricadere sul questuante che sollecita l’intervento del Tata.
Il suono dei tamburi, di diverso tipo e differenti finalità rituali, ed il canto, più
semplice melodicamente e più ritmico di quello yoruba, sono elementi comuni a
tutte le varianti del Palo Monte, così come le danze collettive, durante le quali si
può verificare il fenomeno della possessione da parte dello spirito del morto o di
semidivinità meno definite degli orisha della Regia de Ocha78.
In una di queste danze rituali, denominata garabato o palo, si utilizza un basto
ne di legno, battuto ritmicamente sul suolo per sprigionare l’energia della terra. E’
evidente come in questa coreografia persiste il ricordo dei ‘palenques cimarrones’,
dei villaggi di schiavi fuggiti dalle piantagioni, nei quali i colpi avvisavano dell’arri
vo dei rancheadores, i cacciatori di schiavi.9
Altro elemento indispensabile per la celebrazione del rito è la ‘firma’, l’esecu
zione di un disegno ‘magico’, ricco di contenuti simbolici ed allusivo ad ognuno de
gli spiriti che conformano il mondo ultraterreno congo. La firma possiede una pro
pria forza dinamica ed ogni sacerdote si identifica con uno di questi disegni che
hanno il potere di evocare gli spiriti.
Nel corso delle generazioni, il culto del Palo Monte è stato oggetto di cambia
menti e si è arricchito di apporti inizialmente estranei al suo nucleo originario di
credenze e di rituali, di musiche e di danze.
Attualmente si contano tre varianti principali: la mayombe, la briyumba e la kimbisa, nata nel secolo scorso per opera di quello stesso Petit che apportò nuovi ele
menti anche al corpo concettuale abakuà.
Altre varianti si sono sviluppate intorno a singoli praticanti, spesso giovani sen
za solide basi, contando su uno scarso radicamento sociale e provocando un feno
meno di frammentazione che non intacca però la solidità dei rami più autorevoli del
Palo Monte, le cui differenze reciproche si basano sulla modalità di rapportarsi con
il ‘morto’, lo spirito della nganga. Su quest’ultimo aspetto, però, poco è dato sape
re, perché presenta “sigilli che la ricerca non può spezzare”.
7 Meneses R., op. cit.
8 Barnet M., op. cit.
9 Barnet M., op. cit.
76
Narra il mito bantù che Nsambi creò il mondo e l’uomo, però poi si allontanò
da questi, essendosi stancato del suo inesauribile desiderio di conoscere.
“ Nsambi, quando lo stimerà conveniente ed opportuno, permetterà di infran
gere questi sigilli; non tutto è dato conoscere e la conoscenza ha un prezzo che non
tutti sanno pagare: il giusto prezzo della conoscenza che è esclusivo patrimonio del
l’uomo e a beneficio dell’uomo; bisogna ricordarsi che è per questo che Nsambi si
dimenticò del creato.
Il che significa che non tutto è detto, né ciò che è detto può essere conside
rato come immutabile in questo mondo nel quale si muove incessantemente la
vita “.101
Le varianti cu b an e dello spiritism o
Diffuso in tutto il paese, lo spiritismo presenta molteplici varianti, alcune delle
quali autentiche espressioni della religiosità cubana, sviluppatesi e radicate nelle
province orientali e successivamente praticate, in misura minore, anche in altre par
ti dell’isola.
Non vi è concordanza di pareri sui tempi e le modalità di introduzione dello spi
ritismo a Cuba, ma è accertato che ciò avvenne a partire dalla seconda metà del se
colo scorso, quando lo spiritismo scientifico era già conosciuto e praticato negli Sta
ti Uniti ed in Europa.
Nel 1888, al Primo Congresso Internazionale degli Spiritisti celebrato a Barcel
lona, assistettero tre cubani. 11 A partire da quel momento è possibile seguire con
più esattezza lo sviluppo ed il diversificarsi delle pratiche spiritiche a Cuba dove,
secondo l’espressione usata dalla Sociedad Antropològica, si assistette ad una ‘epi
demia espiritual’.12
La particolare situazione della politica interna ed estera aveva già favorito nei de
cenni precedenti l’adesione degli indipendentisti cubani a questa forma di pensie
ro che non accettava di essere definita ‘religiosa’.
Nel corso della Guerra dei Dieci Anni (1868-1878) contro lo stato spagnolo, i
progressisti indipendentisti rifiutarono di considerarsi parte della chiesa cattolica,
alleata con la Spagna. Non era in discussione solo la posizione politica degli ade
renti al cattolicesimo, anche l’adesione ad altre religioni praticate sull’isola poteva
dare adito a fraintendimenti sulle opinioni politiche, equivalendo indirettamente ad
una ammissione di vicinanza ideologica.
Se per i creoli contrari al pensiero ed alle istituzioni coloniali schiaviste aderire
al cattolicesimo equivaleva dichiararsi favorevoli al dominio spagnolo, l’accettazionè del protestantesimo significava porsi al lato dei fautori dell’annessione di Cuba
agli Stati Uniti, mentre l’essere seguaci delle religioni a base africana comportava,
nel giudizio corrente dell’epoca, esprimersi a favore del permanere della schiavitù,
situazione della quale erano considerate conseguenza ed espressione.
10. Meneses R., op. cit.
11. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., Los llamados cultos sincreticos y el espiritismo,
ed. Academia, La Habana, 1991.
12. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., op. cit.
77
Agli occhi di persone desiderose di aprire l’isola alla modernità, liberandola dal
giogo coloniale e dalla vergogna del sistema schiavista, solo lo spiritismo poteva ap
parire come l’unica espressione spirituale capace di apportare elementi di progres
so e di libertà.
Il cattolicesimo cubano, fortemente inquinato da elementi di superstizione e dal
la tendenza all’esteriorità più ridondante, al barocchismo non solo formale a scapi
to di una pratica di culto più attenta ai suoi valori fondanti, facilitò l’attecchimen
to e la rapida espansione della nuova corrente di pensiero, che ne occupò ben pre
sto parte dello spazio religioso.
L’assenza di un clero istituzionalizzato e di un complesso apparato liturgico, ol
tre che la possibilità per chiunque di comunicare direttamente, o per il tramite di
medium, con i propri morti, costituirono ulteriori facilitazioni alla rapida espansio
ne dello spiritismo sia nelle città che nelle campagne, nelle quali assunse aspetti ri
tuali ed inglobò forme di pensiero che lo allontanarono dalle sue concezioni origi
narie.
Mentre nelle città veniva praticato da persone con un livello culturale che per
metteva loro di leggere e di seguire la guida della letteratura straniera, conforman
dosi ai concetti ed alle pratiche dello spiritismo scientifico, chiamato a Cuba anche
‘espiritismo de mesa’ 13, nelle campagne la mancanza di una corretta conoscenza dei
principi e della liturgia spiritici e la radicata abitudine all’utilizzo rituale di elemen
ti materiali, secondo le modalità delle religioni di origine africana, fecero sorgere al
tre forme di spiritismo, inglobanti credenze e pratiche già appartenenti alla religio
sità popolare.
Lo spiritismo ‘de mesa’ è attualmente praticato in tutto il paese ed i suoi aderenti
non lo considerano una religione, mantenendosi fedeli alle concezioni del fondato
re, Allan Kardec.
Secondo questo pensiero, che accetta l’esistenza di un Essere Supremo, creato
re del mondo, esistono anche altri esseri immortali, gli ‘spiriti’, la forma ultima cui
è destinato l’uomo dopo la morte. La felicità o l’infelicità degli spiriti dipenderà
dalla loro condotta durante la vita terrena.
La pratica spiritica consiste in una riunione, cui partecipano persone particolar
mente capaci di entrare in contatto con gli spiriti, che vengono evocati per riceve
re suggerimenti atti a risolvere i problemi dei partecipanti.
Il medium può cadere in trance nel corso della cerimonia, durante la quale ven
gono lette preghiere e, talvolta, eseguiti canti ma mai danze.
Nel corso della sua espansione dalle città alle zone rurali, lo spiritismo ha subi
to un processo di sincretizzazione con le espressioni culturali già presenti sul terri
torio, ed attualmente si manifesta in molteplici forme, particolarmente radicate nel
le regioni orientali, tra le più diffuse delle quali sono da annoverarsi lo spiritismo
‘de cordón’, lo spiritismo ‘cruzado’ ed il ‘bembé de sao’.14
Particolarmente coreografico per i suoi canti, i movimenti delle braccia durante
le danze ed il ritmico battere dei piedi, lo spiritismo de cordón prende il nome dal-
13 Spiritismo ‘da tavolo’, perché la cerimonia si svolge tra un gruppo di persone radunate intor
no ad un tavolo.
14 Millet J., El Espiritismo. Variantes cubanas, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1996.
78
la catena formata dai partecipanti con il medium ed è il risultato sincretico deriva
to dal cattolicesimo popolare con elementi delle religioni afrocubane.
E’ considerato una forma di spiritismo tipicamente cubana (“Ho avanzato l’opi
nione in più di una occasione che lo spiritismo di cordón nasce precisamente a Cuba
e non in altro luogo ... “) 15 da Joel James che, elencando gli elementi che avvalorano
questa sua opinione, cita anche la situazione di tragica insicurezza che colpì l’isola du
rante la Guerra dei Dieci Anni, quando le stragi dell’esercito spagnolo gettarono nel
terrore la popolazione che cercò di sfuggire a questa situazione angosciosa, trovando
sollievo psicologico nelle sedute spiritiche, dove “i bianchi si davano la mano sotto la
guida dei loro antichi servi congo, per invocare gli spiriti vicini e lontani e conoscere,
tramite loro, la sorte dei loro familiari o amici che erano al fronte o rifugiati sulle mon
tagne, o la sorte che a loro stessi poteva essere riservata a breve”. 16
In questa variante dello spiritismo è assolutamente evidente la centralità del
morto, dato che la divinità viene considerata, secondo la concezione religiosa afri
cana, distante e disinteressata delle sorti dell’uomo.
Le afflizioni e le necessità quotidiane non possono essere accolte e, se possibile,
risolte se non dagli spiriti, dai morti con i quali si instaura una relazione di vicen
devole aiuto.
Se gli uomini hanno bisogno degli spiriti, anche gli spiriti hanno bisogno degli
uomini.
Il culto è un atto efficace sia per i vivi che per i morti, tra i quali si instaura una
relazione di comunione, l’unica capace di impedire che le anime dei defunti, prive
della comunicazione con il mondo dei vivi, patiscano l’orrore del vuoto, del nulla.
La morte, infatti, libera l’uomo dai vincoli terreni e lo muta in uno spirito libe
ro, che raggiunge la piena autocoscienza e si scioglie dai lacci imposti dalla società.
Contropartita di quanto acquisito è una immensa solitudine, dalla quale solo i vivi
possono salvare i defunti, cui è negata la possibilità di una qualsiasi comunicazione
con la divinità e con gli altri spiriti.
I morti non evocati nelle cerimonie spiritiche e con i quali non si instaura un dia
logo costante sono quindi destinati ad uno stato tremendo di vuoto relazionale, do
loroso e tragico.
Scopo ultimo dello spiritismo di cordón è riunire le due parti dell’unico mondo,
i non più viventi e gli ancora viventi, in una situazione di tranquillità spirituale che
i vivi raggiungono con l’abitudine a ‘frequentare’ la morte, superandone quindi il
timore angoscioso, ed ottenuta per i morti scongiurando il pericolo di un vagare
senza fine nell’assoluta solitudine, perché “la solitudine senza fine può assomiglia
re al nulla. E il nulla è molto peggiore della morte”.17
Lo spiritismo cruzado, anch’esso originario della provincia di Santiago, dove è
molto diffuso, deriva dall’incontro con le credenze e le pratiche religiose di origine
africana, in particolare quelle della Regia Conga.
Sono frequenti in questa variante le offerte di frutta e di dolci e la presenza di
oggetti derivati dalla liturgia palerà, così come i sacrifici cruenti di animali.
15 James J., Sobre muertos y dioses, ed. Caserón, 1989, citato in Millet J., op. cit.
16 James J., op. cit.
17 James J., La vida y la muerte eri el espiritismo de cordón, in Del Caribe n. 20/93.
79
Il sincretismo di questa variante è doppio: si assiste all’utilizzo di elementi ap
partenenti ad una religione secondo modalità proprie di un’altra e vi è la possibi
lità, in situazioni di particolare complessità e difficoltà di soluzione, che l’officiante indirizzi la persona verso culti di maggiore ‘forza’: la santeria, il Palo Monte o il
vudù, praticato in alcune zone dell’Oriente come variante del vudù haitiano.
Un’espressione anteriore allo spiritismo cruzado è il bembé de sao, sorto dap
prima nelle campagne e successivamente praticato anche nelle città.
Citando la definizione di José Millet, esso “costituì una manifestazione di cimarronaje 18 culturale, in questo caso religioso, nel quale rimanevano nascoste forti com
ponenti africane che non erano accettate apertamente dalla cultura ufficiale”. 19
Nella liturgia del bembé trovano uno spazio considerevole gli elementi più ca
ratteristici dei culti afrocubani: la musica dei tamburi, i canti e le danze, che ne fan
no un momento di forte socializzazione ed un esempio della natura stessa della cul
tura cubana, della sua grande capacità di integrare elementi tra loro diversissimi.
Ne sono un esempio illuminante i canti di apertura, contenenti invocazioni in
creolo haitiano e parole in lingua yoruba e conga.
Espressione particolare del bembé è la devozione a Santa Barbara e a San Lazaro, santi la cui venerazione in tutta Cuba costituisce un fenomeno di omogeneizza
zione culturale religiosa di grande rilevanza a livello nazionale per la sua capacità di
sincretizzare ed esprimere tutte le più sentite manifestazioni della ‘cubanìa’.
“San Lazaro nella sua variante afrocubana ... sarebbe sia la rappresentazione in
dividuale del cubano per (la capacità di) sopportare, quanto la rappresentazione
della capacità collettiva della società cubana a resistere”. 20
Il carattere spiritista che informa le celebrazioni della festa di San Lazaro a San
tiago de Cuba è sottolineato da Rómulo Lachataneré, che rileva come: "... il ritua
le è mescolato con pratiche spiritiche, dato che si fanno implorazioni e si elevano
canti con l’idea di elevarlo maggiormente e di dare luce al suo spirito”. 21
Se a Santiago il culto a San Lazaro è praticato secondo valenze spiritiche, in tut
ta Cuba si onora questo santo con una venerazione che ne fa uno dei simboli reli
giosi con i quali il popolo cubano si identifica maggiormente.
La forza di attrazione del bembé de sao nei confronti dei credenti delle altre re
ligioni cubane è tale che José Millet giunge a pensare che: “Il futuro delle celebra
zioni del bembé de sao e di San Lazaro e Santa Barbara è quello di convertirsi nel
l’unica espressione della religiosità cubana. Non credo che con ciò scompariranno
la santeria, i culti congo, né il vudù, però diventeranno elementi di ritenzione di una
fase della cultura cubana. Non spariranno, ma entreranno in una fase di recessio
ne. Senza dubbio il bembé de sao e le celebrazioni di questi due santi - soprattutto
la festa di San Lazaro - sono il punto verso il quale confluiscono le religioni tradi-
18 II cimarrón era lo schiavo fuggitivo, che si rifugiava sui monti per evitare la cattura. Nel con
testo specifico di questo testo, ‘cimarronaje’ può essere tradotto come ‘resistenza’, ‘difesa della
propria identità’.
19 Millet J., op. cit.
20 Millet J., op. cit.
21 Millet J., op. cit. Per gli spiritisti i santi cattolici sono spiriti di ‘molta luce’, caratteristica que
sta che, in misura maggiore, è compartita dalla divinità.
80
zionali cubane e questo movimento - non c’è alcun dubbio - si concluderà con que
ste celebrazioni integrando al suo interno gli altri sistemi di pensiero del popolo cu
bano. Si può affermare con correttezza che queste sono espressioni dello spiritismo
cruzado - lo spiritismo che preferiamo definire integrato - al cui interno si inseri
scono tutte le rimanenti espressioni religiose, senza contraddizioni, senza conflitti,
come in un sistema, come un nuovo sistema religioso”. 22
Allora gli uomini si unirono alla luce sviscerarono
segreti conosciuti
e il mondo ebbe un nome.
(versi tratti da ‘Sagrados Testimonios’ di Ronel Gonzales,
pubblicata in Del Caribe, n. 24/94).
Giano
n. 26
pace ambiente problemi globali
Mine antipersona: l'utopia può vincere
Nicoletta Dentico, Gordon Poole
Aree di crisi
D Bendou Soupou, Congo in transizione
Anna Bozzo, Violenza e politica in Algeria
1917-1997
Rivoluzione, “ socialismo reale”
normalizzazione
incontro con Viktor P. Danilov
di Andrea Panaccione
d ir e tto r e L u ig i C o r te s i
Il fa sc ic o lo £ 20.000. Abbonam ento 1997 £ 54.000, (sost. £ 250.000).
Richiedere con vaglia postale a "Giano", v. Fregene 10, 00183 Roma.
22 Millet J., op. cit.
81
Rafael Enriquez,
offset, 1980, 43x73 cm.
GUATEMALA
82
Rosamaria Susanna Barbàra
/
Quando gli dei danzano
La danza e la musica nel candomblé di Bahia
melos: greco per “arto”, da cui “melodia”.
“C’era un tempo nel quale gli uomini vivevano in armonia con gli dei. L’unico
divieto che questi ultimi avevano imposto ai mortali era quello di non sporcare l’Orum.1 Oxalà, il padre di tutti gli dei, amava la pulizia e il bianco. Ma un giorno un
uomo macchiò inavvertitamente l’orum. Oxalà lo seppe e, arrabbiatosi, ruppe il
palo sacro che univa i due mondi, quello delle divinità e quello dei mortali, sepa
randoli definitivamente. Dopo un po’ di tempo però gli uomini cominciarono a
sentire nostalgia delle bellissime danze delle divinità e gli dei desideravano gusta
re nuovamente i cibi che i mortali preparavano per loro. Ecco allora che Oxalà de
cise di fare incontrare periodicamente gli orixà e i loro fedeli in grandi feste.”
Questo si racconta a Bahia*12: gli uomini hanno nostalgia degli dei e gli dei degli
uomini. E perciò gli afro-americani tramandano la memoria di quel tempo felice
quando non esistevano differenze.
A Bahia, chiamata dal sociologo francese Bastide, la “Roma Nera” a causa del
grandissimo numero di schiavi deportati nell’ultimo periodo della tratta3, nacque
il candomblé, la religione afro-americana che più si è mantenuta fedele alla matri
ce africana4 e che è una ri-creazione dell’antica religione e del modo di vita africa
no. Ri-creazione perchè, pur mantenendo gli elementi fondamentali, si è struttura
ta in maniera diversa. In Africa ogni città-stato venera una sola divinità, in Brasile
'R osam aria Susanna Barbàra è dottoranda in Sociologia presso la USP (Università dello Sta
to di Sào Paulo in Brasile) e Cultore delle materie per le Discipline Dem oetnoantropologiche pres
so la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Genova. Vive ormai da quattro an
ni a Salvador di Bahia, dove ha com piuto un Master in sociologia presso l’Università Federale e
dove compie le sue ricerche.
1 Orum: è il mondo degli spiriti, riflesso del mondo dei mortali, chiam ato aie
2 La città è Salvador di Bahia de Todos os Santos, ma gli abitanti la chiam ano affettuosam en
te solo Bahia.
3 Ancora oggi l’80% della popolazione discende dagli africani.
4 In questa zona del Brasile furono deportate principalmente etnie iorubà che provenivano dal
le città-stato della Nigeria e del Benin. La culla in Africa di queste civiltà fu Ifé.
83
ogni comunità religiosa è devota a tutto il pantheon divino, ricostituendo così una
piccola Africa.
In queste culture il contatto con il sacro è la base dell’esistenza umana, infatti
non è avvenuto come nelle società occidentali un allontanamento dalla sfera reli
giosa (vissuta solo in momenti specifici e determinati) a causa del processo di razio
nalizzazione della società. Per i fedeli del candomblé, a Bahia, il quotidiano con
vive tranquillamente con il mondo religioso in un continuo richiamo.
E non si creda che di questa religione facciano parte solo gli strati più poveri del
la popolazione, ancora attaccati a superstizioni ataviche, gran parte dell’élite intel
lettuale, George Amado, Carybè, Gilberto Gii, Sonia Braga, e politica bahiana e
brasiliana partecipa ai culti e fa parte della gerarchia religiosa. Molti sono i casi di
‘strani’ disturbi, avvertiti anche dai bianchi, che vengono curati nel terreirob Le
dolci e sagge sacerdotesse con sapienza profondissima e grande conoscenza delle
piante curano da millenni vari tipi di malattie psicosomatiche e di nevrosi e non è
raro vedere aggiungersi ai fedeli-danzanti, europei stressati e stanchi dell’incon
cludenza e della superficialità della nostra tecnologica cultura o per lo meno veder
li sorridere al suono travolgente degli atabaques, quando eseguono l’igexà567.
Aspetti religiosi
Dopo la fine della schiavitù', le donne discendenti degli iorubà fondarono i più
antichi e conosciuti terreiros, come Casa Branca da cui derivarono poi il Gantois e
l’Ilé Axé Opò Afonjà nel 1910 e il candomblé di Alaketo8.
Le Màes-de-santo, in iorubà Ialorixà,9 sono le leader incontrastate di queste co
munità religiose, basate su un forte senso gerarchico. L’ordine sacerdotale è diviso
fondamentalmente in due parti, coloro che possono ricevere la divinità e quindi en
trare in trance e coloro che non possono, ma che partecipano ai culti e sono mem
bri effettivi della comunità.
Il candomblé, religione fortemente ecologica, si fonda sul culto degli orixà,
energie della natura: acqua, terra, aria, fuoco e piante. La divinità creatrice del
cosmo e dell’universo è Olorum o Olodumaré, un Deus Otiosus, che vive lonta
no dai problemi dei mortali. Il collegamento fra la terra, aiyé, e il mondo sopran
naturale, orum, avviene durante le cerimonie religiose, grazie al lavoro instanca-
5 La parola “terreiro” indica il luogo fisico dove si svolgono i culti.
6 Gli atabaques sono i tamburi sacri, mentre l’igexà è il ritmo tipico di Oxum, la divinità del
l’acqua dolce.
7 Leggendo le cronache dell’epoca si può intuire che gli schiavi si organizzarono già da prima
della fine della schiavitù per poter continuare a onorare le proprie divinità e trasm ettere le proprie
tradizioni. In realtà le feste di cui parlano i cronisti, spesso alludendo al fracasso dei tamburi, altro
non erano che le musiche religiose che chiamavano le divinità.
8 È interessante notare che le fondatrici del primo candomblé, lyanaso e lyaluso, furono due
donne e che nel terreiro più antico, Casa Branca situato nell’Avenida Vasco da Gama, l’iniziazio
ne è permessa solo alle donne.
9 La parola “Mae-de-santo” significa Mamma-del-santo, la stessa cosa significa la parola io
rubà “Ialorixà”; sono le leader religiose delle comunità del candom blé che sono com unità basate
sulla solidarietà e l’auto aiuto.
84
bile di una divinità messaggera, Exu, che, simile ad un Mercurio africano, apre la
porta di comunicazione tra questi due mondi paralleli, specchio l’uno dell’altro.
Infatti lo scopo delle religioni africane e quindi afro-americane è di mantenere il
contatto fra il mondo degli dei e quello dei mortali che spesso per vari motivi vie
ne eliminato provocando problemi di varia natura: malattie, perdita di lavoro,
problemi psichici, etc.
Il pantheon delle divinità è molto numeroso, ma in Brasile se ne venerano solo
una ventina, poiché di molte se ne è persa la memoria.
Le divinità possiedono personalità che corrispondono a tipologie psicologiche
differenti e ben precise. Fra le divinità femminili troviamo: Nana (di etnia Gege101)
vicina ai misteri della morte, che rappresenta l’acqua stagnante; Iemanjà, la gran
de madre, consolatrice di tutti i mortali, che simbolizza il mare e gli oceani; Oxum,
vanitosa, furba, maga potente e conoscitrice del futuro è l’acqua dolce; Oià-Iansa,
forte guerriera, è il vento che tutto avvolge e tutto si lascia alle spalle. Fra le divi
nità maschili: Oxalà, ponderato e tranquillo, il padre di tutti gli dei, elemento aria;
Ogum, nervoso e caparbio, l’intelligente dio del ferro e abile fabbro; Oxossi, at
tento cacciatore, è il re della foresta e degli animali; Xangò è il vanitoso e magico
re del fuoco; Ossanha è l’equilibrato signore delle foglie e il grande conoscitore di
tutte le piante; Omolu, solitario e triste è 1’ orixà delle malattie e della guarigione,
infatti, secondo la leggenda nacque coperto di piaghe di vaiolo che Iemanjà gli
curò e Exù, il ‘trickster’11, incontrollabile e abile, che rappresenta l’energia vitale
in movimento e che deve essere sempre venerato prima di intraprendere qualsiasi
nuova iniziativa.
Durante le cerimonie religiose le sacerdotesse12, chiamate ‘filhas-de-santo’, figlie
di santo ‘ricevono’ le divinità che ‘scendono’ in mezzo ai fedeli per portare 1’ axé13
e per consolare i loro fedeli. I problemi quotidiani, la malattia producono infatti
una perdita di axé e una successiva carenza di energia spirituale. Eliade sottolinea
va che ogni minaccia alla salute e alla vita di un individuo che appartiene ad una
cultura tradizionale è affrontata con una: “ripetizione dell’atto cosmogonico e non
consiste tanto in una ripetizione dei processi vitali, ma in una vera e propria ricrea
zione degli stessi processi mediante la ripetizione rituale di queU’awenimento pri
mordiale, archetipico, che in ilio tempore ha generato la stessa vita. Esiste un tem
po mitico e primordiale in cui tutto è già successo, un tempo puro che si identifica
con il tempo della creazione” (1969:33).
? Infatti il rito oltre a mettere in contatto gli uomini con gli orixà funge da ricreato
re dell’ordine a livello di microcosmo (il fedele) e di macrocosmo (le energie della na
tura). Ogni cerimonia religiosa riporta i fedeli all’origine del mondo, al caos primor
diale, lo organizza e ridistribuisce le energie della natura nei luoghi a loro propri.
10 L’etnia Gege proviene dal Benin, antico Dahomey.
11 II trickster è il dio briccone, è la divinità a cui è permesso tiranneggiare tutti dagli uomini agli
dei, è la forza istintiva della natura, è energia pura in movimento.
12 Quando parlerò della gerarchia religiosa userò preferibilmente il genere femminile perchè
presso i terreiros dove ho condotto la ricerca di campo la maggioranza dei fedeli rodantes, che
possono entrare in trance sono donne.
13 L’axé è P energia magico-vitale presente in tutti gli esseri viventi e non che deve essere ridistribuita fra i fedeli durante il rito
85
Ogni individuo è filho di una divinità dalla quale ha ricevuto una serie di carat
teristiche psicologiche, caratteriali e fisiche che lo rendono immediatamente rico
noscibile agli esperti occhi delle sacerdotesse. Ma non tutti possono diventare
filhas-de-santo o filhos-de-santo, solo gli individui scelti direttamente dalle divinità,
attraverso vari segnali: sogni, malattie specifiche, fatti inspiegabili, sono chiamati
per essere iniziati ai segreti e alla magia del candomblé. Le sacerdotesse imparano
a entrare in contatto con il sacro e a decodificarne i messaggi con un lungo e profon
do cammino iniziatico, paragonabile al percorso di qualsiasi altra religione mistica
che preveda la ricerca spirituale in momenti, spesso lunghi, di solitudine completa.
L’iniziazione avviene con una lunga serie di cerimonie segrete che a tappe insegna
no all’inizianda ad entrare in contatto con se stessa e quindi con la divinità che è
fuori di lei e di cui lei fa parte. Con varie tecniche corporee le iniziate apprendono
a sintonizzarsi con l’energia della natura a cui appartengono, come dicono a Bahia,
a riceverne i messaggi e a fortificarsi spiritualmente nell’abbandono alla divinità.
“Conosci te stessa e abbi fiducia” è il motto che le ‘sagge’ signore del candomblé
suggeriscono alle loro filhas.
Il candomblé si fonda sul rispetto e sulla conoscenza della natura da cui trae una
vasta farmacopea naturale e sulla profonda intuizione dello psichismo e dell’animo
umano che, per avvicinarsi ed entrare in contatto con il sacro, deve armonizzarsi in
tutte le sue componenti. Il corpo è il mezzo e il simbolo di questo ricongiungimento
con il divino, ecco perché fulcro delle bellissime cerimonie pubbliche è il corpo nella
sua espressione artistica per eccellenza: la danza ed il canto. Alla musica è affidato il
ruolo di aprire il canale energetico che lega i due mondi, l’aiyé, il mondo degli uomi
ni e forum, il mondo dello spirito, e di evocarlo nelle bellissime percussioni.
Non è infatti con discorsi razionali che si arriva ad un contatto con la divinità,
ma attraverso emozioni e messaggi non verbali.
Spesso le religioni afro-americane sono state mal interpretate e il fenomeno del
la trance valutato come espressione di un malessere congenito di alcune personalità
o addirittura di popolazioni intere o ancora l’espressione di strane e spaventose for
ze occulte. Dietro a queste spiegazioni, dovute alla grande difficoltà di compren
sione di fenomeni estranei all’occidente o soprattutto mal conosciuti (come il ta
rantismo in Puglia), si cela una conoscenza e un simbolismo ricchissimo e in gran
parte inesplorato.
Arte e religione
Le civiltà africane infatti sono caratterizzate da una visione distica e simbolica
della vita. Ogni essere vivente e non è collegato ad un altro in una catena infinita
di significati in cui ogni singolo elemento esiste in funzione dell’altro, partecipando
così alla dinamica del cosmo, in un’eterna ricerca di armonia ed equilibrio. Ogni co
sa, ogni oggetto rimanda simbolicamente ad altro, ad un ‘altro’ che bisogna impa
rare a conoscere e a rispettare, perché essenza di vita.
E’ solo l’arte che ha il potere di rendere con le forme lo spirito, il divino. Come
suggerisce Marchiano:“La forma...., è l’unico mezzo “umano” che consenta il tra
scendimento del livello sensibile, la non identificazione con ciò che muta, la con
versione dell’ ‘estetico’ nel teoretico”. (1977:217)
In ambito tradizionale, il concetto di bello occidentale non esiste, ma, come rip86
porta Luz (1955:565), i Nago14 definiscono il bello con la parola “odara”, che si
gnifica buono, utile e bello. Esteticamente un individuo è bello perché è portatore
di una determinata qualità e quantità di axé ed anche perché la sua composizione
(forma, materia e colore) simbolizza aspetti della rappresentazione della visione del
mondo caratteristica della tradizione, realizzando così una comunicazione fra lui e
la comunità. Per questo il movimento e il suono sono axé, sono il fondamento vita
le di ogni essere e il mezzo con cui entrare in contatto con il divino.
Per suono non si intende solo tutto ciò che è percepibile attraverso l’orecchio,
ma l’onda vibratoria che, secondo la fisica quantica, si propaga attraverso tutti i cor
pi: gassosi, liquidi, etc. Onda vibratoria che si manifesta in tutti gli esseri e le cose
e che si esprime in tutta la sua bellezza nelle danze sacre, dove si materializza nel
corpo delle sacerdotesse e nella musica degli atabaques.
Questa onda vibratoria è il ritmo che, come sottolinea Senghor: “è l’architettu
ra dell’essere, la dinamica interna che lo costruisce....I ritmi si esprimono attraver
so i mezzi materiali: attraverso linee, colori, superfici e forme nella pittura, nella
plastica e nell’architettura... Attraverso gli accenti nella poesia e nella musica, at
traverso i movimenti nella danza. Con questi mezzi il ritmo conduce qualsiasi co
sa nel piano spirituale; poiché si incarna sensibilmente, il ritmo illumina lo spiri
to" (Senghor,1956:60).
Per questi motivi gli studiosi dell’arte e delle civilizzazioni africane, come Asan
te (1985:72) e Thompson (1974:30) riconoscono nel movimento l’aspetto più im
portante e profondo dell’estetica delle culture africane e quindi afro-americane dal
la danza, alla musica, a tutte le arti. La dinamica è uno dei concetti fondamentali
dell’ontologia africana per la quale esiste la possibilità del cambiamento e della tra
sformazione nella vita attraverso l’unione e lo scambio con il mondo spirituale.
Altro concetto base della filosofia dell’esistenza africana è l’importanza del grup
po, affinché la comunità viva ogni individuo deve partecipare seguendo il ruolo che
gli è stato affidato a livello spirituale e a livello terreno.
La storica Asante (1985) spiega i criteri estetici delle arti africane applicabili al
la danza e alla musica. Primo fra tutti la poliritmia: ogni parte del corpo si muove
con un ritmo diverso, i piedi seguono la base musicale, mentre le spalle e le brac
cia seguono le variazioni; il corpo è diviso in più parti che si armonizzano in un’u
nica sinfonia...
Un’altra caratteristica fondamentale è il policentrismo che indica l’esistenza nel
corpo e nella musica di più centri energetici, così come avviene nell’universo.
Altro aspetto è la forma curvilinea che si incontra in varie danze e che rimanda
a un chiaro significato esoterico. Le danze sacre infatti hanno spesso un andamen
to circolare, anti-orario che si ripropone anche nella posizione del corpo delle orixà
femminili dove è visibile la forma rotonda che rimanda, come dicono varie leggen
de, al cerchio, simbolo antichissimo del tempo e dello spazio del mito e della fissità
e stabilità della Grande Madre.
La dimensionalità ci racconta che la danza trasmette a tutti i sensi, e non solo a
quello visivo, così come la musica non colpisce solo quello uditivo. Il movimento
deve esprimere, vivendolo, il sentimento, l’emozione dell’energia della divinità che
14 Con la parola Nagò si definiscono tutte le etnie iorubà.
87
sta danzando attraverso tutti i sensi. Infine la coreografia e la frase musicale ripe
tuta all’infinito dà all’azione un carattere atemporale e di originalità e sottolinea la
continuità della vita. La ripetizione non è qualcosa di meccanico, ma ‘crea’ ogni
volta, Oià-Iansà non ripete il movimento della guerra freddamente, ma con senti
mento, con presenza, ogni volta è una nuova guerra, è qualcosa che prima non esi
steva e che nel futuro non esisterà. Per semplificare è lo stesso messaggio del man
dala. I sacerdoti disegnano meravigliose figure che il vento porterà via, è il momen
to che bisogna vivere seguendo il proprio ritmo-respiro interiore.
Il corpo divino
Il corpo è considerato divino perchè non esiste la dicotomia corpo-spirito che
dopo Cartesio ha influenzato tutto il pensiero occidentale, ma nelle civiltà tradizio
nali corpo e spirito comunicano e esistono uno nell’altro.
Ogni parte del corpo corrisponde a una divinità, la parte frontale del corpo si
relaziona al futuro; mentre la parte posteriore al passato. La testa è fondamentale
perchè sede dell’ori15, dove risiede l’odù, il destino personale. Secondo gli iorubà la
testa è la parte più vitale del corpo umano: contiene il cervello, sede della saggezza
e della ragione, gli occhi, che sono la luce dei passi dell’uomo, il naso che serve al
la ventilazione dell’anima, le orecchie con le quali l’uomo ascolta e reagisce ai suo
ni e la bocca con la quale si nutre e mantiene il corpo e l’anima uniti. (Babatunde
Lawal, 1983:41) È considerata tanto importante che prima di qualsiasi omaggio all’orixà è necessario alimentare la testa. Ori buruku, kossi orixà, ossia testa non
equilibrata non dà orixà.
Signora della testa è Iemanjà che armonizza le energie positive e negative,
per questo in una delle sue coreografie danza portando alternativamente le ma
ni davanti e dietro la testa. Iemanjà ha il compito di orientare i suoi filhos. Il
ventre sede degli organi sessuali è protetto da Oxum, mentre l’utero è consa
crato a Iemanjà, così come il seno, fonte di nutrimento e di vita. Ogum, o do
no dos caminos16, è il signore dei piedi, del movimento, della vita che continua.
Il piede destro è in relazione con l’ancestrale maschile e il piede sinistro con
l’ancestrale femminile, per questo motivo i piedi sono la base dell’uomo. La vo
ce dell’orixà è il ke o ila, un grido che è emesso solo durante la danza di tran
ce dalla posseduta. Questo grido è il simbolo dell’individualità, è l’energia di
quella persona, è il suono creatore e individuale che testimonia l’identità di
quella filha o filho.
Gli occhi sono importanti perché parlano della spiritualità del fedele. Durante
la ricerca, ho percepito lo sguardo differente delle Màe-de-santo in varie occasioni:
nella divinazione lo sguardo sembra sospeso, mentre, durante la trance, gli occhi so
no chiusi indicando che l’attenzione è rivolta all’interno del corpo, a un’altra di-
15 L’ori è una divinità, che come dice Prandi: “è estremamente importante nella vita di ognu
no, al punto di essere, fra tutti gli dei, il primo a cui deve essere offerto il sacrificio. Perchè sola
mente l’ori può accompagnare l’essere umano nel suo andare senza mai abbandonarlo: l’uomo e
la donna non esistono senza la loro individualità”. (1991).
16 II signore dei cammini.
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mensione, allo spirito. Gli orefizi del corpo sono protetti da Exu, guardiano di tut
te le porte che incarna il principio ‘dinamico dell’esistenza’, trasmette o annulla la
forza vitale sia sul piano metafisico che materiale. Exu accompagna i fedeli duran
te tutta la vita, ristabilendo i contatti fra i mortali e il mondo degli dei, ogni filhas o
filhos ha il suo o i suoi Exu particolari.
La colonna vertebrale,1' che unisce la testa con le gambe, simbolicamente colle
ga il pensiero, l’individualità, l’ori, con i piedi, il movimento e l’azione.
Le Màe-de-santo, guardando la forma del corpo e la fluidità del movimento, in
tuiscono immediatamente il dono da cabe^a e i problemi spirituali degli individui.
Il corpo rappresenta un centro di forze opposte che devono essere in equilibrio e in
relazione complementare. Allo stesso modo la persona può essere pensata come il
risultato dell’equilibrio delle diverse parti del corpo, simbolo della coerenza stabi
lita fra il mondo naturale e quello sovrannaturale.
Ma il corpo acquista significato anche nell’interazione con lo spazio e il tempo.
Spazio attraversato dalle energie della natura che creano campi energetici che pon
gono ogni elemento in relazione con l’altro, secondo il principio base dell’esistenza
africana che propone una visione del mondo legata alla comunicazione di tutti gli
esseri animati e non. Il tempo è il tempo danzato reversibile del mito, nel quale il
fedele in trance può danzare il proprio tempo, quello della sua origine.
Nel candomblé il tempo e lo spazio acquistano una valenza completamente dif
ferente da quella occidentale. Il tempo-pensiero smette di fluire poiché ogni azio
ne, ogni canto, ogni danza deve essere vissuta nel tempo in cui sta avvenendo, ri
chiama il fedele alla ‘presenza’. Il tempo è un tempo circolare che inizia e finisce
nello stesso punto, ciclicamente e ritmicamente. Il tempo diventa così la materializ
zazione del movimento, come dice Duplan (1987)1718: “per organizzare il tempo,
dobbiamo agire, percuotendo un tamburo con la mano o sul pavimento con i pie
di. Creando il tempo, creiamo il movimento”.
Vivendo il tempo e danzandolo con il corpo le filhas-de-santo entrano in con
tatto con il divino e lo vivono esprimendolo nella danza
La danza e la m u sica nel rito
Essendo il candomblé di tradizione orale, la visione del mondo è trasmessa at
traverso il corpo, con un lungo percorso di apprendimento e di incorporazione dei
fundamentos19 religiosi che propongono il corpo come strumento di memoria per
la comunità e di saggezza per il fedele.
“La danza racconta l’evocazione di episodi della storia degli dei, sono frammenti
di mito e il mito deve essere rappresentato allo stesso tempo che raccontato per ac
quistare tutto il potere evocatore”. (Bastide, 1961:22)
17 Non è un caso che nella colonna vertebrale siano collocati alcuni dei chacra indiani e non
a caso l’orixà , che può entrare da varie parti del corpo, si impossessa della materia com e se en
trasse attraverso la colonna vertebrale, come ho osservato in vari rituali .
18 Intervista al settimanale Arteterapia (1987).
19 Per fundamento si intende la forma e gli elementi con i quali sono eseguiti i rituali che fan
no parte dei segreti, “awo”, della religione.
89
Per questo la danza sacra e la musica associate al mito hanno la funzione di una let
teratura nelle società di tradizione orale e possiedono una pluralità di significati, la sto
ria dell’etnia, la visione di mondo e l’ethos del gruppo, l’organizzazione della società e
le credenze religiose, e varie funzioni come quella di fortificare il gruppo e la cono
scenza della comunità su se stessa oltre ad esprimere l’identità spirituale del ballerino.
Questa pluralità di significati è espressa attraverso il simbolo principale della
danza: il corpo della sacerdotessa-ballerina, un microcosmo, dove si incontrano tut
te le energie della natura in un equilibrio unico e particolare di ogni individuo spec
chio delle energie del macrocosmo.
La danza sacra contempla due aspetti: un lato esteriore e un lato interiore. Il
primo è trasmesso con i movimenti, i vestiti liturgici e gli oggetti sacri, il secondo è
la trasformazione in qualcos’altro, diverso dall’identità quotidiana, è il doppio spi
rituale, che si trova nell’orum.
I movimenti della danza trasmettono una profonda simbologia appresa duran
te gli anni trascorsi nel terreiro e costituiscono un codice simbolico compreso so
lo dagli iniziati.
II secondo aspetto esteriore sono gli abiti liturgici, i materiali con i quali sono
fatti ci raccontano quali sono le fonti di sussistenza (per esempio un vestito di con
chiglie mostra che la comunità vive di pesca) e indica chi è la persona che abbiamo
di fronte e qual’è la sua posizione nella gerarchia sociale (per esempio attraverso la
posizione di alcune parti del vestito si intuisce se sono iniziate o no e da quanto tem
po lo sono; se sono filhas o filhos di una divinità femminile o no, etc.)
Il terzo aspetto, quello degli oggetti simbolici, trasmette la storia degli orixà e dei
loro legami mitologici con le altre divinità e della loro funzione come energie nel
cosmo, per esempio gli oggetti di Iemanjà, che possiede sia una spada che l’abebé,
un tipo di ventaglio-specchio, indicano sia il lato guerriero della dea sia il suo lega
me con il mondo femminile esplicitato dalla forma rotonda dell’ abebé e dal colore
argenteo che ricorda la luna, elemento del femminile per eccellenza.
L’aspetto interiore della danza è la metamorfosi che avviene dentro la sacerdo
tessa durante la trance. Questo fenomeno, di cui molto si è scritto, fonde in un’u
nica sintesi mente e corpo; forma e contenuto si uniscono in un’unica totalità dif
ficilmente comprensibile in occidente, dove l’uomo è visto dicotomicamente. La
trance è una esperienza difficilmente esprimibile con parole, poiché è un fenomeno
interno, delicato e comprensibile solo attraverso immagini, simboli e sogni, e per
questo raramente le sacerdotesse e i sacerdoti ne parlano.
Durante la ricerca di campo è risultato evidente che gli atabaques, i tamburi sa
cri sono i custodi della tradizione orale. Già Chernoff sottolineava che: “i musicisti
sono frequentemente i guardiani della conoscenza esoterica... come i griots del Su
dan occidentale che sono una casta ereditaria di musicisti, il cui dovere politico è
quello di preservare e recitare la grande tradizione storica”. (Chernoff, 1980:71)
I sacerdoti-musicisti sono chiamati alabé e passano attraverso un rito di ini
ziazione, ma non vanno in trance. Devono conoscere tutto il repertorio musicale sa
cro: sono loro i detentori della memoria storica della comunità, per questo i ritmi
sono tramandati usualmente di padre in figlio.
Sono gli alabé che chiamano la comunità e le divinità per partecipare alla festa,
che preparano l’atmosfera culturale che permetterà la caduta in trance, acceleran
do la musica, che suonano il ritmo, e che pongono fine alla cerimonia.
90
Gli alabé devono comunicare fra loro per eseguire in armonia e equilibrio il
brano e per concluderlo all’unisono. La sacerdotessa-ballerina danza in sincroni
cità perfetta con la musica che è la voce della divinità, mentre il suo corpo è la for
ma dell’energia degli dei. La musica conduce l’energia spirituale e l’organizza,
mentre il corpo la esprime contenendola e con i suoi movimenti collega fra loro i
luoghi sacri del barracào20.
L’orchestra è composta da tre tamburi: il rum, che è il master-drum21 e quindi il
maggiore per dimensioni e suona i fundamentos religiosi, è suonato con le mani, è
il reggente e cioè è colui che dà l’attacco, che dà il segnale di fine e che interviene
se qualcuno sbaglia, conosce tutti brani. È l’unico che si permette delle variazioni.
Il rumpi è il tamburo di mezzo e il lé è il più piccolo. Il rumpi e il lé eseguono
la base ritmica e accompagnano il rum. Come suggerisce Verger: “I tamburi godo
no di alto rispetto perché non sono considerati semplici strumenti musicali, bensì
la voce stessa degli dei. E per mezzo di essi che questi vengono chiamati e che si in
viano loro delle risposte”. (Verger, 1981:157)
L’agogó è uno strumento di metallo a forma di doppia campana, percosso da
un’asta di metallo che origina un ritmo che si ripete uguale per tutta la durata
del brano.
Ogni atabaque possiede una frase ritmica propria che, unendosi alle altre, for
ma una poliritmia, propria della musica africana, dove ogni musicista esegue la
propria frase in armonia con gli altri. Ogni frase ritmica muove una parte del cor
po della filha-de-santo, come se il corpo fosse un’orchestra e ogni parte di esso
uno strumento.
Il pubblico-fedele accompagna il rito cantando e battendo le mani, introdu
cendo così un’altra frase ritmica nell’insieme musicale, in cui l’aspetto principa
le è la comunicazione del gruppo. In Africa non esiste, infatti la divisione fra
maestro e esecutori, ogni strumento e ogni musicista hanno una funzione speci
fica all’interno dell’orchestra. Ogni elemento deve comunicare con l’altro, il ma
ster-drum con i musicisti e con la sacerdotessa-ballerina e tutta l’orchestra con
il pubblico.
La musica africana è caratterizzata da una ciclicità della frase musicale che è ri
petuta all’infinito. La ripetizione ri-crea ogni volta la frase stessa, nel tentativo di
fermare il flusso del tempo e di incontrare un ‘centro’ unico, fisso e eterno.
La musica è divisa in unità di tempo che si organizzano in ‘frasi ritmiche’, ripe
tute ogni volta come una nuova creazione. Nel rito ogni percussione 22 esegue la sua
frase ritmica che si unisce a quella degli altri tamburi formando un ‘ensamble the
matic cycle’ in cui i vari strumenti iniziano e terminano di suonare all’unisono.
Tanto la musica che la danza esprimono il carattere dell’orixà, mentre i canti,
cantigas, raccontano gli avvenimenti storici, le leggende, le qualità e i difetti del
la divinità.
20 Lo spazio sacro pubblico, chiamato barracào, ha dei punti dove sono posti alcuni elementi
sacri fondamentali per la forza e l’equilibrio della comunità. Questi sono il centro, la porta di en
trata, lo spazio dei musicisti e quello dove siede la Màe-de-santo. Le filhas-de-santo danzando col
legano questi punti.
21 II master-drum è il tam buro più importante che coordina gli altri.
22 L’orchestra è formata da tre tamburi chiamati atabaques.
91
La musica di Oià-Iansà, la divinità del vento, per esempio è caratterizzata da grande
velocità, aggressività, è un ritmo incalzante che non lascia un momento di sosta, e tra
smette la sua variabilità essendo l’elemento aria in movimento. L’uso della sincope2
32425,
molto frequente nella musica africana, contribuisce alla sensazione di irruenza e di con
tinuità del ritmo, che non lascia un momento di pausa. La musica di Aà-Iansà “raccon
ta” che la dea è un bufalo, che percorre minacciosamente le savane. Ben diverso è il rit
mo di Iemanjà caratterizzato da frasi ritmiche lente e cadenzate che trasmettono la sen
sazione del movimento delle onde del mare o dell’incedere di una imponente matrona.
Pur essendo un ritmo binario, la sensazione è quella di un movimento circolare, espres
so dai tre colpi gravi, accentati sull’ultimo sedicesimo della terza terzina e sui primi due
dell’ultima che ritornano sempre per tutta la durata del brano. (Ciaudano, 1996)
Fra il rum e l’orixà esiste un eterno dialogo, la musica indica alla divinità i gesti
che deve compiere, mentre la coreografia e la ‘qualità’ del movimento mostra chi è
l’orixà e che qualità sia24. Non si tratta infatti di una semplice riproduzione di mo
vimenti, ma dell’esperienza diretta con il divino trasmessa attraverso le contrazioni
e le espansioni dei muscoli che vivono intensamente l’emozione di essere una parte
di una divinità maggiore.
Una festa pubblica di C andom blé
Per comprendere maggiormente la funzione e l’aspetto simbolico delle danze sa
cre seguirà un breve schema del rito pubblico.
Ogni divinità possiede danze, musiche, colori, cibo e simboli a lei propri. La musi
ca rappresenta il ritmo individuale di quell’energia, per esempio quella di Xangó ne
esprime tutta l’irruenza e la gaiezza, mentre il toque25 di Omolu, l’opanijé trasmette il
ritmo pesante del dio del vaiolo. La danza e la musica non ‘dipingono’ il movimento co
me nella danza occidentale, ma il corpo diventa quel ritmo, vivendo il proprio ritmo-respiro. Le divinità comunicano attraverso la musica che esprime il carattere dell’orixà e
attraverso la danza che trasmette gli avvenimenti e le caratteristiche della loro vita.
Le cantigas26, in momenti specifici del rituale, dirigono le danze, suggerendo attraverso
le parole avvenimenti storici o qualità della divinità che sono riproposte nel movimento.
Per ogni momento del rituale esistono musiche, cantiche e danze appropriate27.
A Bahia, quando si organizza una cerimonia religiosa del candomblé, si dice che
“questa sera ‘vai a tocar um candomblé ou vai bater um candomblé’28”, mostrando
23 Secondo Ciaudano: “la sincope è un effetto ritmico prodotto dal prolungam ento-spostam en
to di accento dal tempo debole al tempo forte” (1996).
24 Per qualità di movimento si intende secondo Laban la fluidità che la ballerina raggiunge duran
te la performance. Mentre per qualità di orixà si intende, “L’orixà in generale, Xangó, fra noi brasiliani
si divide in per lo meno 12 Xangó che sono qualità, o cammini e che sono parti o segmenti della sua
biografia mitica rappresentazioni di locali in cui è venerato in questa forma” Prandi (1991:123)
25 Toque significa ritmo.
26 Le cantigas, le canzoni sacre, intonate in iorubà, ma con l’introduzione di parole africane di
altre etnie, raccontano avvenimenti storici a cui le divinità hanno partecipato.27 La decifrazione totale necessita anni di studio, in quanto ogni casa di candom blé segue la
propria tradizione e le proprie variazioni.
28 Significa “si suonerà un candomblé” e rende evidente l’importanza della musica per la religione.
92
così chiaramente il potere simbolico-religioso della musica. La musica infatti è uno
degli elementi costitutivi del rito e dà forma insieme alla danza a contenuti inespri
mibili con le parole a causa della loro complessità e multivocalità.
Così come esiste un ritmo musicale e cantigas appropriate per ogni momento del
rituale, esistono anche danze diversificate. Per meglio comprendere il ruolo della
musica e della danza nel rituale coreutico-musicale293012(Carpitella, 1994) del candomblé, sarà descritta brevemente una cerimonia organizzata in onore di Oià-Iansà50 nel terreiro Ile Axé Opò Afonjà il 23 ottobre 1995.
Il primo ritmo è rapido e continuo e con questo si forma la ruota sacra che si
apre con la Màe-de-santo}1 seguita in ordine gerarchico dalle equede32, dalle ebòmi55, dalle iaó34 e per ultime le abià35 che chiudono la ruota.
Questa prima parte del rito è chiamata ‘xiré’ ed ha la funzione di evocare le di
vinità e di invitarle a partecipare alla festa36378religiosa. Si canta e si danza per ogni
orixà tre volte, iniziando con Ogum, il dio guerriero, si conclude con Oxalà, il pa
dre di tutti i mortali e di tutti gli dei, passando per tutte le divinità.5' Oxossi, dio
della caccia e della foresta, danza l’aguere; mentre Iemanjà, signora compassata e
maestosa il cadenzato bravum; l’ijexà, più tranquillo è di Oxum. Ogni ritmo è ac
compagnato da una danza specifica eseguita in uno stato normale di coscienza con
movimenti di piccola dimensione. Questa parte potrebbe essere paragonata ad una
cosmovisione, dove tutte le energie sono invitate a partecipare alla festa.
Esiste uno schema fisso nel rituale, ma la quantità delle danze e dei canti può va
riare dipendendo dall’orixà dono da festa’8 e da altri elementi come il legame fra il
dono-da-cabega39 della Màe-de-santo e l’orixà per cui è stata organizzata la cerimo-
29 Negli anni ‘50 l’etnomusicologo Carpitella e l’antropologo De Martino studiarono il taranti
smo in Puglia e la sua danza: la tarantella è una danza di trance ed è il fulcro, secondo questi stu
diosi, del rito coreutico-musicale. Coreutico viene dal verbo greco coreuo = danzare in circolo e
dalla parola texne = l’arte di, quindi è l’arte di danzare in cerchio ed indica l’importanza della mu
sica e della danza in questo tipo di rituali che possiamo definire di cura.
30 Oià-lansà è la divinità del vento e della tempesta, sposa preferita di Xangò, conosciuta per
i suoi amori, per la sua irruenza e per la sua trasgressione, è molto famosa a Bahia. Il 4 di di
cembre è organizzata una grande festa in suo onore. L’autrice del presente articolo ha organiz
zato la sua ricerca di campo soprattutto su questo orixà.
31 La Màe-de-santo o il Pàe-de-santo sono i leader della comunità religiosa che è fondata su
una forte gerarchia.
32 Le equede sono delle sacerdotesse che non cadono in trance, ma che devono passare at
travèrso un rito di reclusione e che hanno la funzione di aiutare coloro che ricevono la divinità.
33 Le ebómi sono le sacerdotesse iniziate da più di sette anni.
34 Le iaò sono le sacerdotesse recentemente iniziate.
35 Le abià sono coloro che pur non essendo state iniziate definitivamente, sono già state sot
toposte ad un rito di pre-iniziazione.
36 Si chiama festa del candomblé per evidenziare così l’aspetto gioioso della cerim onia .
37 Exu, la divinità messaggera che deve portare agli dei le richieste dei mortali, viene omag
giata con un altro rito non pubblico, chiamato Padè, che è celebrato nel pomeriggio.
38 L’orixà dono da festa è la divinità per cui è stata organizzata la cerimonia. Ogni anno nei terreiros tradizionali si segue un calendario che prevede per ogni festa la celebrazione di un orixà in
particolare o di un gruppo di orixà.
39 Significa il signore della testa, intendendo l’orixà principale della persona.
93
nia o la presenza di persone famose di altri terreiros40, etc. Tutte le danze e i canti
sono eseguiti solo dalle sacerdotesse e dai sacerdoti della comunità, ma la parte
cipazione del pubblico è molto vivace e dietro all’orchestra formata dagli alabé un
gruppo di bambini accompagna il rito cantando e danzando con grande precisione
ed enfasi.
A questo punto si suona un toque particolare chiamato adarrum che invita la di
vinità a scendere nei propri ‘cavalli’ e che a volte è seguito da cantigas particolari.
In questa prima parte l’adarrum ha la funzione di aprire il canale energetico che le
ga l’orum all’aiyè.
Avvengono così le prime incorporazioni, facilmente visibili, le sacerdotesse per
dono l’equilibrio, escono dalla ruota, si passano una mano sul volto ed alcune co
minciano a ruotare su se stesse, sbilanciandosi sul proprio asse fino ad assumere un
nuovo portamento e una nuova espressione del viso. Da questo momento le sacer
dotesse non sono più semplici donne, ma diventano la divinità stessa. Per esempio
le filhas di Oià-Iansà, la divinità del vento e della tempesta, assumono quasi un’a
ria di altezzosità. Poggiano le mani sui fianchi e camminano per lo spazio sacro co
me se ne prendessero possesso. Ben diverso è l’atteggiamento delle filhas di Oxum
che, civettuole, si richiudono nel proprio corpo seducendo tutti i presenti, con pic
coli movimenti delle braccia. Dopo le incorporazioni gli orixà emettono un suono,
chiamato ila o ke, che le identificherà per tutta la vita.
Il pubblico e gli atabaques salutano gli dei, mentre gli orixà esprimono attraver
so una serie di gesti codificati la gioia di essere in mezzo ai fedeli. Dopo una serie
di danze di ‘saluto’ chiamate primeira de dar rum, le divinità sono portate via per
essere vestite con gli abiti liturgici e con gli oggetti simbolici come per esempio
l’abebe (una specie di ventaglio-specchio) di Iemanjà o la spada di Oià-Iansa o l’ar
co di Oxossi. Mentre si aspetta che gli orixà siano vestiti con gli abiti liturgici, vie
ne offerto al pubblico un vero e proprio banchetto sacro41.
Nella seconda parte della cerimonia, gli orixà ritornano nel barracào4243,entrano
in fila seguendo l’ordine gerarchico, le persone iniziate da più tempo sono davanti,
seguite da quelle con minor tempo di iniziazione, mentre la iatebexé o il babatebexé45 intonano dei canti specifici per salutarli e i fedeli offrono fiori alle divinità.
Da questo momento ogni orixà danza le proprie coreografie che insieme agli abiti
sacri e agli oggetti simbolici raccontano le loro vite e le loro caratteristiche.
Per esempio Oià-Iansà ha sul suo abito due corna di bufalo che testimoniano il
fatto che lei è una donna-bufalo e che è della famiglia di Oxossi, il grande dio del
la foresta legato al mondo animale o, altro simbolo, la corona di Oxum che ci dice
che è una regina. Se un’orixà danza particolarmente bene gli saranno dedicate più
cantigas, in modo da lasciarlo in mezzo ai fedeli più tempo. A volte le canzoni sa40 Significa candomblé, esistono più nomi per chiamare una com unità di candomblé,
esempio terreiro o casa o roga.
per
41 La cucina del candomblé è famosa. I suoi ingredienti di base sono soprattutto: l’olio di dende (estratto da una palma tipica della regione), l’olio di cocco, gamberetti secchi e quiabo, un tipo
di verdura . Ogni divinità possiede un piatto tipico che le viene offerto in cam bio della sua prote
zione e che viene ton su m a to anche dai presenti.
42 Parola con cui si identifica lo spazio sacro utilizzato nel rito pubblico.
43 Sono le sacerdotesse o i sacerdoti più vecchi che conoscono il repertorio delie canzoni sacre.
94
ere suscitano aspetti così emozionanti che persino le figlie di altri orixa possono cair
no santo44. Di solito sono orixa che hanno relazioni specifiche tra di loro, per esem
pio sono mariti o figli della divinità in onore della quale si è organizzata la festa. In
questa parte della cerimonia l’energia è chiamata a manifestarsi in tutte le sue for
me possibili e insieme con le altre forze della natura. Così quando Oià, divinità del
vento, danza con Xangò, divinità del lampo, la loro coreografia è la manifestazione
del movimento dell’aria che genera il fuoco.
Dopo le danze sacre gli orixa sono portati via con una coreografia finale, di
solito uguale per tutti. Le divinità salutano il pubblico, la Màe-de-santo e gli atabaques, ristabilendo l’ordine iniziale, sia a livello macrocosmico che a livello mi
crocosmico.
C on clu sion e
La parola greca iniziale ‘melos’ può essere tradotta o come membra o come me
lodia, a sottolineare il legame fra le membra e la melodia. L’andare dell’uomo segue
il suo ritmo-respiro-passo, quando l’uomo si allontana dal suo ritmo-passo si allon
tana dalla divinità e dalla sua essenza. Per questo tutte le religioni del mondo spin
gono i propri fedeli al raccoglimento interiore periodico, per poter sentire e segui
re il proprio ritmo-respiro-passo.
Come si è cercato di dimostrare nelle società di tradizione orale, come il candomblé, la danza e la musica hanno la funzione di una letteratura e a queste arti è
affidato il compito di insegnare e trasmettere la storia, la visione del mondo e l’ethos
del gruppo.
Le caratteristiche intrinseche alla danza e alla musica africana: la poliritmia, il
policentrismo, la ripetizione o ri-ciclo, la dimensionalità fanno sì che all’intemo del
rito, per la comunità dei fedeli, si ricreino le situazioni spazio-temporali del mito in
un continuo riferimento fra macrocosmo e microcosmo.
Il sacro, che secondo gli iorubà è in tutti gli uomini, è il ritmo-respiro-passo di
ogni individuo che, opportunamente istruito in momenti culturalmente istituiti, im
para a ricevere, a vivere e a disperdere la propria divinità. Per questo motivo la tran
ce è la manifestazione di una profonda ricerca spirituale ottenuta con momenti di
esclusione dal mondo quotidiano a cui il fedele ritorna rinvigorito dall’incontro con
il sacro. Il candomblé, al pari di qualsiasi altra religione mistica, propone al fedele il
difficile incontro con se stesso simbolizzato nelle statue africane dagli occhi chiusi,
fatto che si verifica anche durante la trance a evidenziare che l’attenzione è rivolta al
mondo interiore. Come dicono le Maes-de-santo “tutte le risposte sono nell’uomo,
impara a guardare”. E’ un guardare fatto con tutti i sensi e non superficialmente.
La musica è il filo che lega tutte le varie componenti del rito, dal chiamare gli
dei in mezzo ai mortali, al preparare l’atmosfera per la trance delle filhas-de-santo,
all’esprimere le caratteristiche sensuali delle divinità, al concludere il rito e riporta
re un nuovo ordine e equilibrio. La musica inoltre collega tutti i componenti della
comunità e questi con il mondo spirituale, mentre la danza esprime questo legame
e trasmette l’energia divina.
44 Significa andare in trance.
95
Per capire il significato semantico della musica e della danza bisogna rifarsi al
contesto olistico e simbolico dove ogni elemento ha significato solo se inserito nel
suo contesto culturale. Le parole delle cantigas sono documenti che raccontano la
storia dell’etnia, le guerre, i fatti sociali importanti, per questo tutte le espressioni
artistiche vanno lette in unione una con l’altra.
La musica e la danza sono quindi le divinità, che sono divinità vive, partecipi
della vita dei mortali e in continua comunicazione con loro.
La comunicazione potrebbe essere proposta come la definizione per antonomasia
della filosofia dell’esistenza africana e quindi del candomblé che tende all’armonia di
tutti gli esseri con la natura attraverso un eterno e continuo ‘call and response’ che
collega il tutto mediante una vibrazione sonora che è energia di vita e ritmo-respiro.
E il ritmo che comunica con i fedeli e le filhas-do-santo e gli orixà nel candomblé.
Nella prima parte del rito, nello xiré, la musica e la danza possono essere inter
pretate come un linguaggio che trasmette la richiesta dei mortali alle divinità affin
ché partecipino alla festa.
Nella seconda parte del rituale, durante le danze di possessione, la musica e la
danza, sintesi di forma e contenuto, esprimono il divino. La musica sarebbe il re
spiro della divinità, mentre la danza la sua forma visibile. Il contenuto profondo del
rito, ‘il non detto’ è compreso solo dagli iniziati. È ‘un non detto’ perché le imma
gini, i ritmi, i canti comunicano sentimenti tanto profondi e emozionanti che non
sarebbe possibile trasmetterli con le parole. Per questo i messaggi che la musica, la
danza e le arti tutte trasmettono sono a un livello molto più profondo di quello
comprensibile ai non-iniziati. In questo legame semantico ogni aspetto artistico:
musica, canto, danza, disegni, letteratura, ricevono uno dall’altro, ogni espressione
artistica dà senso all’altra.
La musica e la danza in generale trasmettono simboli che si riferiscono sia al la
to cognitivo, sia al lato affettivo. Essendo la musica e la danza considerate come
un linguaggio non-verbale, il loro uso nel rituale suscita metaforicamente immagini
e sentimenti profondi ed è questo che dà loro potere. La musica ci parla del mon
do interiore e della sua possibilità di trasformazione, mentre la danza mostra que
sta possibilità di trasformazione.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare in Europa, questa religione è viva in
Brasile e, se non professata completamente, perché prevede percorsi lunghi e dif
ficoltosi, è vivamente cercata nei momenti di bisogno anche dalle classi alte e dal
l’élite, come a San Paolo, grande metropoli brasiliana, dove il candomblé, anche se
con modalità diverse, è sempre più in espansione.
96
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98
Nicoletta Manuzzato
Il sacerdote e il giaguaro
A c o llo q u io c o n l’a r c h e o lo g o m e s s ic a n o
R o m a n P in a C h a n
Roman Pina Chan è uno dei più grandi archeologi messicani. Ha lavorato per
decenni sul campo, unendo all’opera di scavo l’attenta analisi del materiale rac
colto. Ha compiuto ricerche in tutto il Messico, dallo Stato del Campeche, di cui
è originario, al Tabasco, al Chiapas, allo Yucatan, al Michoacàn, dove ha sco
perto il sito di Tingambato. E la passione per il suo lavoro non l’ha abbandona
to neanche quando, nel 1984, un infortunio l’ha costretto su una sedia a rotelle.
Ancora adesso continua a scrivere, a studiare, a insegnare ai futuri archeologi. In
questa intervista che ci ha concesso nella sua casa di Città del Messico, Pina
Chan traccia un panorama dello sviluppo delle culture mesoamericane, avan
zando ipotesi che rivoluzionano le ricostruzioni finora accreditate. “I miei primi
studi sono stati rivolti allo sviluppo delle culture preclassiche mesoamericane.
Grazie ai dati emersi dagli scavi abbiamo potuto suddividere l’orizzonte pre
classico in tre periodi fondamentali: inferiore, medio e superiore. Abbiamo poi
caratterizzato questi tre periodi dal punto di vista demografico, economico, re
ligioso. Così il preclassico inferiore e il preclassico medio sono ora inclusi nella
fase dei villaggi agricoli, società fondamentalmente autosufficienti; il preclassico
superiore segna il passaggio dal villaggio ai primi centri cerimoniali come
Cuicuilco, Tlapacoya e - in altre zone - Monte Alban, San Lorenzo, ecc. Si regi
stra qui un cambiamento di mentalità: se prima era chiamata in campo la magia,
in seguito è la religione a prevalere. Nella prima fase i maghi sono gii interme
diari fra la società e il sovrannaturale; nel preclassico superiore, invece, sono i sa
cerdoti che fanno da tramite fra la società e il divino. Con la religione, dunque,
la preghiera del fedele viene accolta se la divinità lo vuole, mentre in preceden
za spettava al mago e non al dio risolvere i problemi, grazie alla sua esperienza e
alle sue conoscenze”.
In seguito l’interesse di Pina Chan si volge agli Olmechi. “Si riteneva che il
centro da cui era partito il loro sviluppo fosse la Costa del Golfo: molti ricer
catori lo sostengono ancora. Ma nel 1964 iniziai a vedere la cultura olmeca co
me la risultante di gruppi mesoamericani che avevano ricevuto elementi cul
turali dalla regione del Pacifico, quanto meno dall’Ecuador. La Cultura Val
divia dell’Ecuador, fiorita intorno al 3.000-2.500 a.C., presenta una ceramica
simile a quella olmeca e realizzata con le stesse tecniche: decorazioni di cor99
da, tessuti, linee a zig zag tracciate con la conchiglia. Incisioni in profondità
e motivi in rilievo caratterizzano due grandi complessi: gli Olmechi e Chavin
in Perù. Partendo dall’Ecuador, le influenze passano alla Colombia, al Pana
ma, all’Honduras e, lungo la costa, al Salvador e al Guatemala. In Guatemala
abbiamo la Cultura Ocos, che aveva già contatti con le antiche culture mesoamericane. In Chiapas la fase Barra è collegata a una ceramica simile a quel
la colombiana ed ecuadoriana. Dunque le popolazioni del Chiapas, del Soconusco subiscono l’influenza di questi gruppi; da qui dovrebbero essere venu
ti il gioco della pelota, la decapitazione, il taglio della testa come trofeo, la n a
vigazione a bordo di zattere, alcuni aspetti magici, la decorazione del corpo,
le palizzate in tronchi, ecc. Tali elementi si mescolano con quelli della trad i
zione mesoamericana e in Chiapas, verso il 1.700 a.C., si comincia a formare
il gruppo proto mixe-zoque.
Sotto l’influsso esterno queste popolazioni si vanno trasformando, mentre
iniziano la penetrazione nella regione di Oaxaca e - attraverso l’istmo di
Tehuantepec - verso la Costa del Golfo. Troviamo quindi Olmechi nelle valli
centrali della zona zapoteca, Olmechi sulla costa (San Lorenzo, La Venta e mol
ti altri insediamenti). I Mixe-Zoque che penetrano nella regione di Oaxaca si
mescolano con Zapotechi dando vita a una popolazione olmeco-zapoteco-mixezoque. I gruppi che si sono diretti verso la costa si incontrano con gente di stir
pe maya e, penetrando come un cuneo nel centro della regione veracruzana, li
dividono in due: una parte si dirigerà verso nord (Huastechi), un’altra verso sud
(Maya yucatechi). La popolazione Mixe-Zoque, Olmechi e altri forma il nucleo
della costa, che svilupperà la scrittura, la numerazione, il sistema vigesimale e
l’annotazione calendarica. Stiamo parlando di 1.500 anni prima di Cristo: que
sto è il processo che si evidenzia studiando il periodo preclassico, le culture più
antiche. Alcuni archeologi nordamericani avanzano la stessa ipotesi, cambian
do semplicemente il nome: chiamano questi gruppi Mocaya, uomini del mais,
anziché Mixe-Zoque”.
Un altro filone di studio intrapreso da Pina Chan riguarda la simbologia del
le culture mesoamericane. “Ho lavorato due o tre anni su questo tema, cercan
do di capire il significato dei simboli che appaiono nella ceramica olmeca, le cro
ci, gli uncini, le macchie: tutti questi segni dovevano pur indicare qualcosa. Ed
ecco la mia interpretazione: per gli Olmechi la madre terra era come un gigan
tesco giaguaro, dire giaguaro per loro è dire terra. E come in quelle antiche tra
dizioni cinesi, dove il mondo si forma dal caos, dal gigante che muore escono i
corsi d’acqua, le montagne, i fiumi, le pietre, la vegetazione, così il giaguaro de
ve avere in sé gli elementi necessari per spiegare la terra. E alcune figurine ri
trovate nello Stato di Morelos rappresentano un sacerdote rivestito di pelle di
giaguaro. La pelle, decorata di simboli, significa la terra. Le righe raffigurano i
corsi d’acqua; i segni a forma di u con una linea sono appezzamenti di terreno;
il rombo è l’orma lasciata dal bastone utilizzato per seminare: la sua impronta
appare come una macchia; il cerchio è il grano di mais. Dunque la terra è un pia
no quadrato o rettangolare, ma se si disegna un cerchio all’interno di tale piano
si ottiene terra con grano di mais o seminata, cioè campo di granturco. La u è il
terreno, la riga l’acqua, con un rombo all’interno diventa terreno seminato vici
no al fiume, vicino all’acqua.
100
C’è un monolito a Tres Zapotes che porta incisa l’iscrizione considerata più
antica finora rinvenuta. Questa iscrizione viene tradotta come una data in nu
merali maya, con accanto la parola ic=vento. E ci si chiede: che cosa è successo
in quella data, perché è stata incisa? Mistero. Se però il nostro codice funziona,
l’iscrizione significa invece: grano di mais, acqua, terra, vento, acqua, cioè terre
no vicino all’acqua, vicino al fiume, con campi di mais percossi dal vento; è in
somma il toponimico del luogo. Il risultato ne risulta totalmente trasformato e
diventa persino poetico. Molti credono che la semplicità non sia possibile, cre
dono che la scienza debba essere complicata, incomprensibile. Io la penso di
versamente: l’iscrizione voleva dire semplicemente che quella era la città dai
campi di granturco, dove soffia il vento.
L’incidente, che sfortunatamente mi ha impedito di continuare a lavorare sul
campo, mi ha dato però più tempo per leggere e per scrivere. Attualmente, con
i miei studenti dell’Università, sto analizzando l’iconografia del Tajm, del Cerro
de las Mesas, di Comalcalco. Il nostro lavoro consiste nel decifrare, decodifica
re, cercare una chiave che, applicata esattamente, riveli sempre lo stesso signifi
cato. Stavo ora riguardando la Cronica Matichu, in cui Alfredo Barrera Vàsquez
ha riunito i testi storici dei Chilam Bàlam di Mani, Tizimin e Chumayel. Barrera
Vàsquez li ha posti a confronto, riorganizzati e disposti in parti, che ha chiama
to Ma-Ti-Chu. La prima parte parla degli Xiu, la seconda degli Itzà, la terza di
Xiu e Itzà e la quarta della conquista spagnola. Leggendo ho notato una con
traddizione: la prima parte non può essere collegata con la seconda perché le da
te sono posteriori. Secondo me, l’B Ahau di cui si parla nel testo si riferisce al
948-968: In tal modo le parti si intersecano perfettamente fra loro e la cronaca
ne esce modificata, perché presenta gli Xiu che si dirigono verso Chac Navitón.
Si pensava che questa località fosse nel Petén guatemalteco, invece Chac Navitón
è il luogo che sarebbe diventato Chichén Itzà per le popolazioni Itzà. Dunque
gli Xiu partono dalla regione del Tabasco-Campeche e vanno verso la penisola;
conquistano numerose località e infatti troviamo la loro impronta culturale in di
versi edifici; a Edzna lasciano traccia del loro passaggio sulle steli; passano at
traverso Labnà, Kabàh e altri siti; alla fine un primo gruppo si ferma a Uxmal,
mentre un secondo prosegue e l’anno dopo giunge a Chac Navitón.
Questa ricostruzione ci dà una nuova messa a fuoco: dobbiamo distinguere
bene quali edifici, quale architettura, quali concezioni fossero Xiu e quali Itzà.
Gli Xiu cominciano a governare Chichén e a trasformarla. Ma vent’anni dopo gli
Itzà giungono anch’essi a Chichén e dominano o si alleano con gli Xiu per do
minare la città. Per primi quindi sono arrivati gli Xiu e sono stati loro a edifica
re le costruzioni de “las Monjas”, la “Iglesia”, parte dell’Akabtzib, il gioco della
palla, l’osservatorio. Nel 1204 gli Itzà dichiarano guerra agli abitanti di Chichén.
E in questo periodo gli Xiu scompaiono, mentre gli Itzà iniziano a loro volta a
edificare: si nota infatti una trasformazione nell’architettura, che è stata definita
tolteca e che in realtà rappresenta un’evoluzione dal periodo Xiu. Per questo ri
tengo che non siano stati i Toltechi di Tuia a dirigersi verso Chichén, ma genti di
Chichén a dirigersi verso Tuia e a intraprendere la costruzione della grande Tu
ia, con il suo gioco della palla, il tempio simile a quello dei Guerrieri, ecc. In
realtà a stabilirsi alla frontiera fra il Tabasco e il Campeche furono Maya Chontal insieme a popolazioni nahuatlizzate, provenienti dall’Altopiano centrale o dal
101
centro della regione veracruzana: commercianti che si dirigevano verso la costa,
in cerca di cacao e piume esotiche da portare sull’altopiano, e spesso si ferma
vano in quella zona.
In tal modo si costituì una popolazione eterogenea, che mostra elementi del
centro di Veracruz, del Tajin, di Cacaxtla, di Xochicalco. Sono questi elementi
che gli Xiu prima, gli Itzà poi introducono, in modo diverso, ma tutti aH’interno
di tale simbiosi culturale. Quando venne costruita Mayapàn verso il 1185, dico
no le cronache che a edificarla fu Kukulcan. In seguito questi lasciò il governo e
ritornò da dove era venuto, si diresse cioè verso la costa e continuò - questo le
cronache non lo dicono - fino ad arrivare con il suo gruppo a Tuia. Essi porta
rono dunque le loro concezioni a Tula. E dicono le cronache che - poiché a Tu
ia non potevano sostentarsi, proseguirono il loro cammino e giunsero a Cholula
e lì regnò con essi Cezalcuati, che è Kukulcan nella versione dello Yucatan”.
V
Rafael Enriquez, offset, 1980, 49x74 cm.
102
Elina Patané
Donne, streghe, angeli, nella
marea ciclica di Arenas
L’intera opera letteraria del cubano Reinaldo Arenas appare sin dagli esordi or
ganizzata in «cicli» narrativi legati tra di loro da un filo conduttore che riflette nel
la finzione artistica il mondo reale. Ciclo più rappresentativo ed emblematico nello
svolgersi della poetica areniana è senz’altro la «pentalogia» (o meglio come la defi
nitiva lo stesso autore «pentagonia») costituita da cinque romanzi che, come ha no
tato il tedesco Ottmar Ette l, ripercorrono le vicende umane dello stesso Arenas.
I cinque romanzi di questo ciclo, Celestino antes del alba123, Elpalacio de las blaquìsimas mofetas J, Otra vez el mar 4, El color del cerano 5 e El asalto G, sono am-
1 Cfr. Ottmar Ette, «La memoria y la escritura. Acerca de los eidos narrativos de Reinaldo Arenas»
(trad, in spagnolo in possesso di Roberto Valero, non edita), pubblicato in Germania col titolo Gedàchtnis und Schifi Uber das Zyklische im Erzàkhlwerk Reinaldo Arenas, in «Latinoamerlcka Studien», Munchen, t. 23, pp. 279-324.
2 Reinaldo Arenas, Celestino antes deialba, Habana, Uneac, 1967. Altre edizioni: Buenos Aires, Edi
torial Brujula 1968; Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1972; Caracas, Monte Avila Editore,
1980; Barcelona, Argos Vergara, 1982 (edizione spagnola revisionata in cui Arenas per ragioni di diritti
d’autore cambia il titolo con Cantando en el pozo). Questo romanzo pur presentando molti dei futuri mo
tivi ricorrenti nell'opera areniana, sembra essere ambientato, secondo Valero, in un mondo di cartoni ani
mati disneyani in cui l’autore non tralascia di utilizzare un humor grafico linguistico che si evince nei gio
chi di parole. A tal proposito, lo scrittore cubano Severo Sarduy, raccontava come Arenas fosse anche
nella vita un «conversatore grafico», che utilizzava il timbro della voce per sottolineare alcune parole nei
suoi discorsi (cfr. S. Sarduy, Esento sobre Arenas, in «Revista de la Universidad de México», México,
1985, p. 16). Il romanzo Celestino antes del alba, che inaugura il ciclo, pur ambientandosi nell’infanzia
di Arenas, sembra entrare in una dimensione temporale primitiva e, al tempo stesso, astorica. Questo
romanzo, il primo e l’ultimo pubblicato a Cuba ha per protagonista un bambino di nome Celestino, il qua
le vive (come granparte dei protagonisti areniani) due vite parallele, turbate però dalla opprimente pre
senza di un tiranno, il nonno. Il piccolo, a differenza dei suoi familiari e dei suoi vicini di quartiere, scrive
poesie: «Stai scrivendo un’altra volta poesie ed io so che non smetterai mai [...] ormai tutti ti odiano» (R.
Arenas, Celestino..., cit. p. 65). [D’ora in avanti tutte le citazioni che appariranno in questo saggio sa
ranno tradotte in italiano dallo scrivente],
3 R. Arenas, Et palacio de las blanquisimas mofetas, Caracas, Monte Avila, 1980. Altra edizione: Bar
celona, Argos Vergara, 1983.
4 R. Arenas, Otra vez el mar, Barcelona, Argos Vergara, 1982, [questa edizione, come risulta nella
103
bientati a Cuba «in diverse epoche della recente storia cubana» ' ed hanno come
protagonista un «unico» personaggio che di volta in volta assume nomi ed età di
verse, morendo alla fine di ogni narrazione per poi rinascere nella successiva. Solo
l’ultimo romanzo della «pentagonia», El asalto, sarà capace di suggellare il trionfo
del protagonista e della società di cui questi fa parte. Entrambi ormai liberi da una
madre-tiranno, (personaggio archetipo che è presente non solo aH’interno di que
sto ciclo narrativo, ma nell’intera opera di Arenas), potranno godere rilassati del
mare e del sole cubano.
Celestino, Fortunato, Héctor, Gabriel (protagonisti rispettivamente di Celestino
antes del alba, El palacio de las blaquisimas mofetas, Otra vez el mar, El color del ce
rano), non sono personaggi felici: nella loro esistenza non c’è un istante di serenità
e non troveranno mai il compagno di cui sono alla ricerca. Tutti sembrano rivisita
re la stessa esistenza fisica di Arenas quasi, come scrive Humberto Senegai, in un
gioco di «dionisiaco dilettarsi con un passato ed un presente individuali, intimi, che
lo scrittore rievoca reiteratamente nella sua prosa» 5678 Questo frenetico alternarsi tra
gioco e realtà, tra sogno e fantasia, non tralascia di racchiudere in sé tradizione e
modelli archetipi che si presentano al lettore come personaggi ricorrenti: «la ma
dre», nobile e diabolica, tirannica e dispensatrice d’amore; «la luna» che influenza
gli stati d’animo, poiché come la madre dà la vita, e con la quale i protagonisti han
no un rapporto di amore ed odio; la «sposa-donna», capace di descrivere la realtà
in modo assai realistico, ma anche soggetta a stati di allucinazione e da improwise
gelosie; «l’adolescente», potenziale amico, simbolo della bellezza, del desiderio, del
la tentazione, ma al tempo stesso, temuto in quanto potenziale poliziotto; «il bam
bino di otto mesi», di cui l’autore descrive sempre con mirabile cura lo sguardo
d’attesa; ed infine «il mare», simbolo di libertà, di infinito, di inquietudine, di bar
riera e ostinato bordone alle angosce dei personaggi. Tutto questo è, secondo
Eduardo C. Bejar, un «gioco ripetuto» 9 labirintico della scrittura che vede la paro- bibliografia areniana presente in R. Valero, El desamparado humor de Reinaldo Arenas, cit., è pie
na di errata]. Il romanzo è ambientato durante il periodo rivoluzionario cubano dal 1958 al 1970. Otra
vez el marò stato definito da Roberto Valero, «il romanzo della lacerazione» (R. Valero, El desampara
do humor de Reinaldo Arenas, Miami, Ediciones Universal, 1991, p. 138), in cui i due personaggi cen
trali, Héctor ed il suo potenziale amante, appaiono come dei veri e propri archetipi, degli «Adamo ed
Èva», ed al tempo stesso come dei comuni cittadini.
5 R. Arenas, El color del verano, Miami, Ediciones Universal, 1991 Durante la stampa di questo ro
manzo (così come di El asalto), Arenas morì e la succitata edizione di El color fu revisionata da Carlos
Victoria. Il romanzo è ambientato alla fine del XX secolo durante un allucinante carnevale, in ciu l’auto
re percepisce la miseria di quella parte del popolo cubano costretta alla clandestinità. Nelle pagine di
quest'opera appaiono inoltre molti scrittori cubani, viventi e non.
6 R. Arenas, El asalto, Miami, Edicions Universal, 1991. Romanzo che completa il ciclo, lasciando un
barlume di speranza, visto che l’autorità, il «reprimerìsimo reprimerò» viene sconfitto, ed il protagonista dei
cinque romanzi può finalmente distendersi sulla spiaggia per godersi il meritato riposo. Questo è l’unico ro
manzo in cui, come sottolinea Roberto Valero, il personaggio principale non ha bisogno della madre.
7 Roberto Valero, op. at., p. 65.
8 Humberto Senegai, Reinaldo Arenas y Celestino antes del alba, in «Reflejos de Cultura de Baja
California», México, II, 4, gennaio-aprile, 1993, p. 37.
9 Cfr. Nedda Anhalt, Recuerdo a Reinaldo Arenas, in supplemento «Sàbato», n. 715, México, 15 giu
gno 1991, pp. 1,4-5.
104
la riflettersi su se stessa, conferendo al linguaggio una tale fluidità da far apparire la
scrittura come la rappresentazione dell’«ondeggiare del mare». In una intervista ri
lasciata a Nedda G. de Anhalt, Arena disse che il mare dava il giusto ritmo alla sua
scrittura rivelandosi come la grande promessa a cui la stessa scrittura anelava: «[...]
l’acqua è un elemento [che] comunica la sensazione di musica che ti culla [...] Per
esempio, in questo racconto che sto scrivendo e che si chiama Viaje a La Habana, il
personaggio decide dopo venti anni di tornare a La Habana, non perché gli manca
la sua famiglia ma perché sente la necessità di vedere quel mare» 1012.
Il mare, i personaggi ricorrenti, il matriarcato, la repressione (da quella familia
re, ambientata ad Agua Claras, luogo natio dello scrittore, a quella totalitaria di ti
po orwelliano di El asalto), l’aspra critica al colonialismo - presente anche in El
mundo alucinante 11 - e la sensazione di trovarsi ancora una volta di fronte a un «ci
clo», racchiuso questa volta in un «unico» romanzo, si ha proprio in Viaje a La Ha
bana n, simbolo dell’«[...] inevitabile disillusione del riicontrarsi con una terra che
nella lontananza si è mitificata» 1314.
Viaje a La Habana, è un romanzoo in «tre viaggi»: Que trine Èva, Mona e Viaje
a La Habana, pensato e progettato come l’ascesa spirituale di un «ritorno», in cui le
protagoniste femminili assumono - come Arenas aveva notato nella trilogia poetica
Leprosario 14 - un ruolo inscindibile da quello dei protagonisti maschili.
Ciascun viaggio prende spunto da una o più lettere. Nel primo, le lettere ven
gono inviate dalla madre di Èva, residente ormai negli Stati Uniti, alla figlia per cer
care di convincere lei ed il genero Ricardo a lasciare La Habana. Nel secondo rac
conto il viaggio ha, una vera e propria struttura epistolare, e inizia con la lettera di
Ramón Fernandez («marielito» esiliato a New York), giunta una settimana dopo la
sua misteriosa morte in carcere, a Daniele Sakuntala. Quest’ultimo, visti i numero
si rifiuti da parte degli editori, si rivolge al «frivolo» scrittore Reinaldo Arenas, per
fare pubblicare la lettera sulla rivista «Mariel» 15 Ma anche Arenas, personaggio del
la finzione, già gravemente malato di Aids, si rifiuta di pubblicare quanto accaduto
a Ramón Fernandez, definendo il fatto un racconto di tipo gotico. Infine la lettera
10 N. Anhalt, Reinaldo Arenas: Aquel mar, una vez mas, in: id. Rojo y naranjà sobre rajo, México,
Edit. Vuelta, 1991, p. 152.
11 R. Arenas,, El mundo alucinante, Caracas Monte Avila Editore, 1982. In questo romanzo (pubbli
cato per la prima volta nel 1968, in una traduzione francese, Editions Seuil, poi pubblicato in spagnolo
per la Monte Avila Editore, Caracas, 1982), come ricorda lo scrittore messicano Manuel Ulacia, Arenas
critica con sottile humour il colonialismo, il totalitarismo che sono perdurati a Cuba nonostante la Rivo
luzione. (Cfr. Manuel Ulacia, Encuentro con Reinaldo Arenas en este mundo alucinante, in «Cuadernos
Hispanoamericanos», n. 495, Madrid, settembre 1991, pp. 125-127).
12 R. Arenas, Viaje a La Habana, Madrid, Mondadori, 1990.
13 Cfr. Silvia Grijalba, Remaldo Arenas decidió su muerte, in «El mundo», Madrid dicembre 1990.
14 R. Arenas, Leprosorio (trilogia poètica), Madrid, Editorial Betania, 1990.
15 Nella autobiografia di Arenas, apparsa di recente in traduzione italiana, lo scrittore narra uno de
gli episodi tra i più drammatici, avvenuto negli anni Ottanta a Cuba (cfr. R. Arenas, Pnma che sia notte,
Parma, Guanda, 1992, pp. 285-293). Nell’aprile del 1980 un autista col proprio carico di passeggeri, si
lanciò contro il portone dell’Ambasciata del Perù a La Habana, chiedendo poi asilo politico. Lo stesso
fecero i passeggeri. L’Ambasciata fu dapprima posta sotto assedio, dopo qualche giorno, per cercare di
minimizzare lo scandalo venne aperto il porto di Mariel, e Fidel Castro decise che ogni indesiderato
105
che introduce al terzo viaggio (inviata da Elvia al protagonista Ismael), è accolta dal
destinatario non come un semplice foglio di carta, ma come una «specie di strano e
sinistro insetto, qualcosa di realmente malefico che scappando daU’infemo con le
sue piantagioni e con le sue umiliazioni e con i suoi carceri, era volato su quella tor
menta di neve che doveva proteggere proprio lui, Ismael e si era posato lì nella sua
stanza, con ’qualche intenzione sinistra e probabilmente mortifera» 16
Attraverso questi tre viaggi Arenas focalizza aspetti, spesso contraddittori di La
Habana. In Que trine Èva, la protagonista sembra contrapporre al progressivo de
pauperamento dell’isola fastosi ed eccentrici abiti da lei stessa tessuti. Èva, che tes
se ascoltando la musica e attendendo il ritorno dello sposo vincitore col «bottino di
guerra» - rappresentato in questo caso da fili e lane - ricorda sì il personaggio ome
rico di Penelope, ma soprattutto riporta alla mente del lettore la maga Circe, che
compie prodigi per stupire ed ammaliare. Quella stessa Circe che presso i celti pre
se il nome di Morgana, detta anche Spuma Marina. La Èva areniana è qui genera
trice di vita, non solo in relazione al personaggio biblico di cui porta il nome, ma
anche in relazione ai miti greci e celtici legati all’acqua e allo specchio. Sembra qua
si che Arenas intende simboleggiare con questo personaggio non solo un ritorno al
la madre-patria, al seno materno, a quel mare di Cuba che ha conferito ritmo alla
sua scrittura, ma anche un ritorno a se stesso, che si realizza attraverso il simbolo
dello specchio (Morgana), uno specchio che rimanda e sdoppia l’immagine dello
stesso autore. Occorre a tal proposito ricordare che quasi tutti i personaggi di Are
nas hanno sempre un doppio - che può essere sia maschile che femminile - con cui
confrontarsi ed opporsi. Questi alterego conservano anche in sé quella società ma
triarcale e rurale in cui lo scrittore è cresciuto. I personaggi areniani sono inoltre ca
ratterizzati da personalità angosciate e da un ritmo frenetico che li spinge a spa
smodiche ricerche. Così, Èva e Ricardo ricercano fili e lane e poi quell’unico, inesi
stente, personaggio di cui percepiscono la presenza e l’indifferenza. I due protago
nisti si disfanno a poco a poco di ogni bene superfluo, sino a spogliare del tutto la
loro casa, per ricoprirsi e camuffarsi con quegli eccentrici vestiti allo scopo di atti
rare l’attenzione di quell’unico «spettatore», il quale, peraltro è indifferente alle lo
ro esibizioni. Il totale disfacimento della loro mobilia sembra coincidere con la fu
ga della madre a Miami (città che secondo lo stesso Arenas ha ripreso solo gli aspet
ti peggiori di La Habana). La madre è l’unico personaggio che era stato capace di
«conservare» il focolare domestico e nel momento stesso in cui l’abbandona questo
si riduce in frantumi. Èva e sua madre sono i tipici personaggi femminili areniani.
- lasciasse immediatamente l’isola. Così furono imbarcati per gli Stati Uniti delinquenti comuni, cri
minali malati di mente, e qualche agente segreto. Anche molti omosessuali furono costretti ad abban
donare Cuba. In seguito a questo esodo, un gruppo di intellettuali cubani tra cui. Arenas, Juan Abreu,
Roberto Valero, Reinaldo Garcia e René Cifuentes, fondarono la rivista «Mariel». Quest’ultima era in un
certo senso la rinascita della rivista «Ah, la marea», che gli stessi intellettuali avevano clandestinamen
te stampato a La Habana. Scrive Arenas: «La rivista avrebbe dovuto soprendere gli esiliati cubani oltre
che Fidel Castro. Era irriverente, non andava d’accordo con nessuno; rendeva omaggio ai grandi scrit
tori, smascherava gli ipocriti e si lanciava contro la morale borghese [...] Uscì anche un numero dedica
to all’omosessualità a Cuba, con interviste a persone vittime dei pregiudizi di una società molto spesso
reazionaria» (Ibid., p. 307-308).
16 R. Arenas, Viaje a La Habana, cit., p. 132.
106
Come afferma infatti lo scrittore cubano nell’Introduzione alla raccolta di racconti
Termina el desfile 17, le donne, pur esercitando un ossessivo dominio in grado di
«far perdere la pace ai loro subalterni» 178 rappresentano comunque l’unico trami
te in grado di poter elevare e aiutare i protagonisti maschili a ritrovare se stessi.
Questo tipo di figura femminile risente indubbiamente di un’eco ancestrale dei po
teri distruttori della natura divina. La donna che Arenas descrive, appare «[...] co
me l’incarnazione terrena, in definitiva, di quel dio terribile e vendicativo dell’An
tico Testamento, amato sin dall’atavico sentimento di timore che causa il suo infinito'potere» 19. Ciò non toglie che lo scrittore si senta totalmente ammaliato - che
lo voglia o no - dal regime matriarcale in cui è cresciuto: «La questione della don
na e della famosa mela; la donna come un culto di perdizione [...] Sempre con una
grande ambivalenza [.,.] io provo una grande tenerezza per tutti questi tipi che ap
paiono a volte come streghe e a volte come angeli [...]. Ma io credo che questo sia
così. L’essere umano non appartiene ad una sola dimensione» 20. E così Èva, è a vol
te bellissima e affascinante ballerina, ma è anche, come si è già detto, una «strega»
capace di ammaliare con le sue arti magiche. Èva, così come Ismael - altro nome bi
blico - nel terzo viaggio, racchiude in sé anche la prospettiva simbolica del Vecchio
Testamento. A Èva cacciata dal Paradiso, Dio dice: «E il tuo desiderio sarà quello
di tuo marito ed egli comanderà sopra di te» 21. Questo sembra rispecchiare fedel
mente il comportamento del personaggio femminile areniano: Èva, sottomessa agli
umori e ai desideri del marito, che però crede di conoscere, «perché quasi sempre
avevamo pensato più o meno le stesse cose, perché quasi sempre eravamo stati la
stessa persona» 22, alla fine resterà sola, dal momento che Ricardo sparirà nel nulla
con quel personaggio invisibile e misterioso che era sempre rimasto indifferente al
le loro esibizioni. Ad Èva non resta che tessere per se stessa un vestito nero «degno
di una vedova illustre».
Il secondo viaggio, Mona, narra di un «marielito», accusato di aver cercato di
sfregiare con un coltello La Gioconda di Leonardo, trasferita, per concessione del
Louvre, al museo Metropolitan di New York. Interessanti appaiono i riferimenti al
la situazione politico culturale di cui parlano prima Daniel Sakuntala e poi il per-
17 R. Arenas, Termina el desfile, Barcelona, Plaza &Janés, 1986.
18 Rita Virginia Molinero, Entrevista con Reinaldo Arenas, in «Quimera», Barcelona n. 17,marzo
1982,p. 21.
19 La campagna da cui Arenas proviene e che rappresenta nei suoi libri del primo perido attraverso
personaggi quali Rosa la Vieja, o la madre di vari racconti (così come farà poi con il personaggio Èva,
la madre di lei, Mona ed Elvia di Viaje a La Habana) è impregnata da un forte matriarcato.
20 R.V. Molinero, Op. cit., p. 21.
21 In Linguaggio dimenticato, Erich Fromm, a tal proposito scrive: «Èva è nata dalla costola di Ada
mo (come Atena dalla testa di Zeus). Tuttavia, l’eliminazione di ogni ricordo della supremazia matriar
cale non è completa. Nella figura di Èva ravvisiamo la superiorità della donna sull’uomo. E’ lei a pren
dere l’iniziativa di mangiare il frutto proibito; ella non si consulta con Adamo [,..]È soltanto dopo la cac
ciata dal paradiso terrestre che si stabilisce il suo predominio» (E. Fromm II linguaggio dimenticato, Mi
lano, Bompiani, 1961, pp. 223). Si ricorda, inoltre, che il passo veterotestamentario suona in modo di
verso da come riportato da Fromm: «Avrai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso
tuo marito ed egli dominerà su di te» (Gen., 3,16).
22 R. Arenas, Viaje, cit., p. 39.
107
sonaggio Arenas. Mona si apre con la Presentazione di Daniel Sakuntala, il quale
narra come i giornali di tutto il mondo abbiano riportato gli eventi occorsi in quel
l’ottobre del 1986 al cubano Fernandez. Già in questa presentazione il lettore vie
ne introdotto in una situazione che si snoda tra il romanzo poliziesco e il racconto
del terrore. Alla presentazione segue una Nota degli editori che ricordano come si è
giunti alla pubblicazione della testimonianza di Ramón Fernandez, visto che, nono
stante i suoi sforzi Daniel Sakuntala non era riuscito a pubblicare questo docu
mento da vivo. Infatti, lo scritto era stato pubblicato solo nel novembre del 1999 nel
New Jersey, e alla pubblicazione era seguita la misteriosa scomparsa di Sakuntala e
dei due editori, quest’ultimi spariti presso il lago Ontario. La stessa sorte misterio
sa avevano avuto molte copie del libro, mai più ritrovate. In questa nota si fa riferi
mento anche a Reinaldo Arenas, «uno scrittore giustamente dimenticato che era co
nosciuto negli anni sessanta del secolo passato, in effetti, morì di Aids nell’estate del
1987 a New York» 2\ La nota si conclude con la firma degli editori e la data «Mon
terrey, CA. Maggio 2025» 2324 Subito dopo inizia il ritmo frenetico della narrazione con al margine note di Daniel Sakuntala e degli altri due editori, Lorenzo e Echurre - dello stesso protagonista Fernandez, perseguitato ed ormai condannato a mor
te. Gli eventi narrati dal marielito, pur essendo immersi in un’ambientazione da ro
manzo gotico, riverberano, a tratti, spunti umoristici misti a situazioni paradossali,
che secondo il critico Roberto Valero sottolineano: «[...] una strategia sovversiva
per desautorizzare il discorso sul potere, qualsiasi questo sia, ma la desolazione, l’as
surdo e il nichlismo che lo accompagnano danno ai testi una complessità ed una in
tensità umana unica» 25.
Com’era già nelle intenzioni di Arenas, sin dai tempi dell’intervista a Nedda
Anhalt, la terza parte di Viaje a La Habana, è dedicata alla «Condesa de Merlin».
Egli dice: «Mi piacerebbe fare un romanzo con tre donne della storia cubana. Lina
è Mercedes Santa Cruz, contessa di Merlin, che ritorna dopo 48 anni nel suo paese
e lo va scoprendo attraverso gli schiavi» 2627. Così Ismael al ritorno riscopre La H a
bana con l’aiuto di Carlos, cubano ormai «schiavo» di un futuristico regime milita
re. Carlos, a sua volta, non è altri che Ismaelito, il figlio di Ismael. Ancora una vol
ta l’identità dei personaggi areniani si sovrappone contrapponendosi.
Ismal2/ è in realtà lo stesso Arenas, che rivive, come il biblico Ismael, la cacciata
dalla propria terra, sottolineando la sua personale polemica con il regime. Anche Are
nas, come la sua creatura letteraria, subisce la calunnia, un processo e infine l’esilio
nel «deserto» di una metropoli, New York. Il fatto poi, che il figlio di Ismael, Ismae
lito, porti lo stesso nome del padre, e che sia la prima persona che il protagonista in
contra non appena arriva a La Habana, dimostra come, nonostante l’esilio, l’essenza
di Ismael continui a vivere a Cuba, ringiovanita e rinvigorita nella figura del figlio.
In quest’ultimo viaggio, inoltre, non solo «Ismaelito è Ismael», ma anche la mo
glie Elvia, rimasta a Cuba, rappresenta un ulteriore sdoppiamento del protagonista.
23 Ibid., p. 76.
24 Ibid., p. 76.
25Soren Triff, Transcendencia de Reinaldo Arenas, in «El Nuevo Herald», Madrid, 22 agosto 1991, p. 13a.
26 N. Anlaht, op. cit, p. 147.
27 Cfr., Gn. 16,1 ss.
108
Un’altra immagine che contempla se stessa nella figura di Ismael a New York men
tre questi attraverso i vetri, - così come un altro personaggio areniano, Reinaldo,
protagonista del racconto Los heridos 28 aveva osservato il mondo filtrato da vetri
protettivi - osserva la neve che cade e ricopre lo squallore e la solitudine di chi vive
in quella metropoli.
Ma esiste una differenza tra la solitudine di Ismael a New York e quella di Elvia
e di Carlos che invece non hanno mai abbandonato l’isola? Elvia, dopo l’umiliazio
ne del processo, in cui Ismael era stato condannato per aver adescato un minoren
ne, non si era più risposata, scegliendo di vivere da sola con il figlio. Anche Carlos,
pur essendosi in qualche modo inserito nella futuristica La Habana militarizzata (la
lettera di Elvia a Ismael porta la data del 3 novembre 1994, mentre il romanzo Viaje
a La Habana, è stato ultimato nel novembre del 1987), chiede ad Ismael eli portar
lo via mentre «galleggiano» nel mare di La Habana. La neve che galleggia nell’aria
cadendo su New York e il mare in cui galleggiano i due protagonisti-maschili del
terzo racconto, accompagnano i momenti eli solitudine dei due Ismael, e rappre
sentano un consolatore e anelato ritorno al seno materno. Il ritorno alla propria ter
ra, alle proprie origini. La neve che Ismael vede cadere da dietro i vetri del suo ap
partamento di New York, gli permette di rivedere galleggiare se stesso in un lonta
no ricordo. Così come, ormai a La Habana, Ismael galleggia nelle acque del mare
assieme a Carlos, e quest ultimo, eli cui non conosce ancora la vera identità, gli ri
porta alla mente il ricordo di se stesso giovane. La sensazione di «flotar» di diluir
si, di integrarsi, di fondersi è la stessa che Ismael proverà sin dal primo abbraccio
con Carlos/Ismaelito. E quest’ultimo, con cui si unirà, non rappresenta altri che se
lo stesso Ismael giovane rimasto a Cuba, perché come precisa lo stesso Arenas nel
l’intervista da lui rilasciata a Nedda Anhalt: «[...] ogni bellezza, come diceva Rilke,
è terribile, distruttiva [...] Una delle caratteristiche del mondo omosessuale è che
uno cerca se stesso. Quell’amico inesistente, il compagno che uno vorrebbe, e lo si
ricerca in se stessi attraverso una ricerca incessante; cerchiamo nel doppio della no
stra identità perduta» 29 Quest’ultimo viaggio appare come un continuo alternarsi
di parti in corsivo e parti in tondo, continui passaggi dalla prima alla terza persona
che si concludono nell’ultimo rigo in corsivo, dove il pensiero di Ismael espresso in
prima persona, si unifica ai pensieri e alle azioni degli altri personaggi: «Poi, in si
lenzio, noi tre cominciammo a mangiare» 30. Come osserva Alastair Reid31, in Are
nas il continuo alternarsi tra prima e terza persona sta ad indicare il passaggio da
una prosa narrativa a una vera e propria meditazione poetica. Le storie si interse
cano di continuo, facendo emergere motivi di protesta, denunce, fatti paradossali
28 L'immagine della realtà contemplata attraverso i vetri si trova anche in una lirica del 1970 dal tito
lo Morir eri junio y con la lengua afuera (ciudad): «[...] e attraverso i vetri / guarderemo il mondo giran
do. / Il mondo inondato / il mondo come una inquieta ruota verde / che colpisce con suoi rami / la nostra
casa fugace e di vetro [...] Attraverso il vetro leggermente affumicato del veicolo / la campagna è una
estensione quasi violenta / aggettivazione soggetta al nostro stato d’animo» (R. Arenas, Leprosorio, cit.,
p. 71, 79).
29 N. Anlaht, op. cit, p. 152.
30 R. Arenas, Viaje, cit., p. 181.
31 Alastair Red, Troublemaker in «The New York Review of Books», New York, 18 novembre 1993,
pp. 23-25.
109
che a volte rasentano il grottesco. Offrendo così una realtà fin troppo articolata e
fin troppo contraddittoria.
Viaje a La Habana si conclude, come altre opere areniane, il giorno di Natale.
«Natale festa ancestrale e unica, che si spargeva su quella regione schiavizzata, por
tando lo spirito, sebbene le leggi lo proibissero, di un avvenimento unico. La nasci
ta, di un bambino figlio di genitori non ben precisati e che lui, per questa ragione,
considerava dei, che venne ad immolarsi, a darsi a crocifiggersi, affinché il mito del
la vita, cioè dell’amore, non si estinguesse» 32, Il Natale, secondo Arenas, mette in
sieme gli opposti, ed accomuna tutti: «[...] come figlio unico io ero molto solitario.
Allora mi inventavo di tutto, un altro Reinaldo, nonne spaventose, a volte nobili.
L’unica allegria era quando arrivavano le feste di Natale. Si festeggiava in campa
gna, dove si riunivano tutti quei cugini e quelle zie ormai sposate, ed era il momen
to in cui io potevo giocare con gli altri bambini della mia età» 33. Il ritrovare se stes
si il giorno di Natale è l’annullarsi in una festa che rappresenta l’unico momento di
comunicasione con gli altri, con se stessi e con il proprio destino.
Rafael Enriquez
foto: Kampos,
offset, 1981, 51x76 cm.
32 R. Arenas, Viaje, cit., p. 168.
33 N. Anhalt, op. cit., p. 154.
110
Culture indigene
Le prospettive di liberazione indigena
...u n h o m b re q u e e s tà en el c o ra z ó n d e to d a
la ju v e n tu d d el m u n d o , q u e y a c a s i
no le p e rte n e c e a u s te d e s ...
e s tà ta n d e n tro d e n o s o tro s ta m b ié n ...
(V ic to r J a ra d u ra n te un c o n c e rto a La H a b a n a , 1 9 7 2 )
È vero che gli anniversari, le ricorrenze formali spesso non servono a niente, e
rischiano di produrre soltanto retorica e vuoti riconoscimenti. E vero anche, però,
che alcune figure che il pensiero corrente vorrebbe ormai inattuali e destinate al
l’oblio, o evocative solo come miti, continuano a destare interesse e, spesso, a co
stituire un esempio h D ’altra parte la figura di Ernesto Che Guevara è tale da non
permettere di perdersi in inutili celebrazioni, sempre che si voglia essere coerenti
con il suo insegnamento. In particolare, il trentesimo anniversario della sua morte
coincide con una congiuntura politica nuova per l’America latina, iniziata nel ’92
con le controcelebrazioni della conquista, proseguita poi con la formazione del mo
vimento indigeno nero e popolare, e ancora con l’insurrezione del Chiapas, con gli
accordi di pace in Salvador e Guatemala, fino a questo 1997 drammaticamente se
gnato dalla vergognosa strage dei Tupac Amaru nell’ambasciata giapponese.
Questi eventi, a volte accomunati semplicemente dal fatto di esprimere una net
ta contestazione del "nuovo ordine mondiale", a volte, invece, indissolubilmente le
gati, propongono ancora una possibilità: dichiarano apertamente che lo sviluppo
diseguale e il neoliberismo non sono l’unica via percorribile, anzi, al contrario, so
no la peggiore strada per l’umanità. Il pensiero ribelle di Che Guevara si ripresen
ta ancora attuale come atteggiamento di fronte all’ingiustizia e come dichiarazione
della necessità di lottare perché questa abbia termine. D ’altra parte, pur essendo
notevolmente cambiata la scena della politica internazionale, i conflitti da lui indi
viduati non sono stati ancora risolti, né l’imperialismo statunitense è receduto. C’è
però un elemento nuovo nel panorama politico latinoamericano, e cioè l’emergere
dei movimenti indigeni, che pur avendo lottato contro l’ordine costituito da quan
do si sono insediati gli spagnoli, in questi ultimi anni hanno raggiunto un livello di1*
1 È stato il caso di Mariàtegui: nel ’94 si è celebrato il centenario della nascita con un omaggio
internazionale ricco di studi e pubblicazioni. Tra le altre, «Latinoamerica» n. 54-55, aprile-settem
bre 1994.
111
organizzazione e una forza rivoluzionaria molto maggiori, tanto da costringere i
mass-media, spesso consapevolmente omertosi, a rivolgere loro attenzione. E il ca
so dell’Ezln, del Premio Nobel a Rigoberta Menchu, dei maya guatemaltechi impe
gnati nel processo di pace, dei mapuche in Chile, delle organizzazioni popolari bra
siliane.... Ebbene, con queste tematiche, con le prospettive di liberazione delle po
polazioni indigene, Ernesto Che Guevara si è confrontato?
La scoperta del mondo indigeno.
Il Che è un ladino, nasce e cresce in Argentina, paese in cui gli indigeni sono sta
ti quasi completamente sterminati, e come molti altri latinoamericani ha una cono
scenza vaga e confusa del mondo indigeno, che gli appare completamente estraneo
e altro da sé. Le letture negli anni della formazione gli parlano di un meraviglioso
mondo precolombiano, ormai scomparso, di furiose guerre tra i conquistatori spa
gnoli e le popolazioni indigene, di strategie belliche, di battaglie in cui si confron
tavano il potere militare delle armi da fuoco degli spagnoli e la conoscenza dei luo
ghi e le fortificazioni delle città incaiche. Il Che, come ci informa R. Massari23,trova
nella biblioteca paterna i libri di viaggi e di esplorazioni, le affascinanti cronache dei
primi spagnoli penetrati nel continente americano. Trova anche i libri di Bartolomé
de Las Casas, che però leggerà dopo aver lasciato l’Argentina. Altre letture di argo
mento indigeno, risalenti agli anni ’54-’55, sono i Comentarios reales dell’lnca Garcilaso e i romanzi di Ciro Alegria El mundo es ancho y ajeno e Perros hambrientos .
Ancora nel ’54 il Che conosce personalmente Jorge Icaza con il quale commenta
Huasipungo e discute sul destino dei contadini. Anche la lettura dei romanzi di Mi
guel Angel Asturias, esperto di cultura maya, ha rappresentato sicuramente una
spinta verso il mondo indigeno guatemalteco, anche se non è accertato che il Che
abbia letto Hombres de maiz, dedicato alle lotte dei contadini maya contro lo sfrut
tamento dei latifondisti, né la sua traduzione in spagnolo del Popol VuR}.
Il percorso del Che verso la conoscenza del mondo indoamericano non è però
intellettuale. Coerentemente con la sua idea di unità di teoria e prassi, il Che ri
cerca un contatto diretto con queste popolazioni, in particolare con gli indigeni
che vivono in condizioni estremamente difficili, come i lavoratori sfruttati nelle mi
niere, i braccianti agricoli dei latifondi, e quelli emarginati e sofferenti, i malati di
lebbra. Il mondo indigeno andino o quello maya di Messico e Guatemala, denun
cia le sue drammatiche condizioni di sfruttamento agli occhi attenti del giovane
Che Guevara, prima in viaggio con Granado lungo il continente latinoamericano
(1952), poi in viaggio da solo in Centroamerica (1954-56), preludio all’impresa cu
bana. Come emerge dalla progressione dei diversi spunti che offrono il diario del
viaggio e le lettere ai genitori, sono le esperienze vissute, gli incontri, il visto e il
vissuto a generare la riflessione politica e il desiderio di rivoluzionare lo stato at
tuale delle cose.
2 R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell’utopia, Erre Emme, Roma 1993, pp. 23-26.
3 II Popol Vuh è un testo anonimo, scritto in quiché e ritrovato da padre Xim énez alla fine del
’700 a Chichicastenango; non è dunque un’opera di Asturias, che ne ha sem plicem ente curato la
traduzione dalla versione francese di G. Raynaud.
112
La conoscenza del mondo indigeno è dunque progressiva. Pur essendo sempre in
trise di grande umanitarismo, alcune affermazioni del Che tratte dal diario del viag
gio con Alberto Granado sono ancora molto legate a luoghi comuni, come quello sul
fatalismo della popolazione indigena. Il Che parla di "spirito sofferto e fatalista del
l’indio delle montagne peruviane"4 capace di sopportare meglio dei bianchi i disagi
dei lebbrosari; racconta di quando si trovava su un camion che trasportava mucche e
Alberto aveva avvisato il ragazzino indio che le sorvegliava che il corno di una mucca
stava ferendo l’occhio di un’altra, ma il ragazzino
con un’alzata di spalle in cui c’era tutta la filosofia della sua stirpe, disse: “Tanto, per
la merda che gli resta da vedere”, e continuò tranquillamente ad annodare una corda. 5
Un altro incontro con gli indigeni risulta particolarmente interessante perché di
mostra in modo chiaro l’originaria estraneità del Che al mondo indigeno: una don
na e un ragazzo indigeni si avvicinano al Che e Alberto, tirando le briglie dei caval
li sui quali i due sono montati. Gli indigeni trasportano una grande quantità di ce
sti e non parlano castigliano, il Che racconta di essersi rivolto loro in questo modo:
“Io non volere comprare, io non volere” e avrei continuato a parlare in quel modo,
se Alberto non mi avesse fatto notare che i nostri interlocutori erano quechua e non pa
renti di Tarzan signore delle scimmie.67
Dopo aver percorso diversi chilometri seguiti dai due indigeni, finalmente spun
ta un uomo che parla castigliano e spiega loro che quei cavalli che un tenente gli
aveva “generosamente” prestato, erano in realtà della donna e del ragazzo e gli era
no stati requisiti dai militari; e così “per puro dovere umanitario”' il Che e Alberto
restituiscono i cavalli.
Il Che fa una sagace ironia sul suo punto di vista esclusivamente ladino, sulla
sua totale estraneità al mondo indigeno. Ma mostra anche di essere modesto, di
non voler mistificare i propri comportamenti, anzi, al contrario, di fare continuamente autocritica, ponendo sempre in risalto i propri atteggiamenti che gli sem
brano errati. Lo stesso episodio, infatti, è raccontato anche da Alberto Granado
nel suo diario: l’amico del Che sottolinea, contrariamente all’altro diario, il loro
sgomento nel capire che i due indigeni avevano camminato per tre ore in direzio
ne opposta alla loro casa nel tentativo di recuperare i cavalli. Non parla di “dove
re umanitario” ma di mortificazione, di rimorsi della coscienza, di rabbia: conti
nuammo il nostro tragitto a piedi, commentando quel modo vergognoso di com
portarsi da parte di coloro che, per il fatto di ricoprire una carica pubblica, si cre
dono padroni delle vite e dei beni della gente8
4 Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, Latinoamericana. Due diari per un viaggio in mo
tocicletta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 90.
5 Ibidem, p. 93. Mio il corsivo.
6 Ibidem, p. 89.
7 Ibidem, p. 89
8 Ibidem, p.’217
113
I piccoli episodi verificatisi durante il viaggio mostrano ai due "vagabondi" lo
sfruttamento della popolazione indigena di fronte al quale inizia a maturare nel Che
l’idea, ancora solamente teorica, della necessità della lotta armata9L’epopea della conquista e la tragedia dei “vinti”
II giovane Ernesto, Ftiser per l’amico Alberto Granado, quando attraversa gli
aspri territori del nord del Cile, può ancora entusiasmarsi per l’epopea della con
quista, in particolare per le imprese di Valdivia, perché il suo sguardo di allora
non coglie ancora il dramma delle popolazioni indigene, mentre ricorda bene le
straordinarie ed eroiche avventure dei conquistatori. Il suo punto di vista è anco
ra legato ad un modo di vedere parziale, che esalta il valore militare ed il corag
gio degli spagnoli, mentre preferisce ignorare od occultare gli altri protagonisti
del conflitto, gli indigeni, appunto. Per questo il Che, spirito avventuroso e "guer
riero", scrive:
fa una certa impressione pensare che da queste parti sia passato Valdivia col suo
pugno di uomini, attraversando cinquanta o sessanta chilometri senza trovare
una goccia d’acqua e neppure un arbusto per ripararsi nelle ore più calde. La co
noscenza dei luoghi in cui passarono i conquistatori eleva l’impresa di Valdivia
e dei suoi uomini all’altezza di quelle più insigni dell’intera colonizzazione spa
gnola. 101
Il Che considera “insigni” le imprese dei conquistatori perché ancora ne valuta
solamente l’aspetto militare, il coraggio. E nel corso del viaggio continuerà a consi
derarle tali, ma all’apprezzamento del valore militare degli spagnoli si affiancherà
sempre più frequentemente la constatazione della loro ignoranza e dell’avidità che
ha mosso tante delle loro imprese. Ma soprattutto emergono progressivamente gli
altri due esponenti del conflitto: gli Incas, con le loro fortificazioni e la loro splen
dida civiltà, ormai ridotta a reperto archeologico; e gli indigeni contemporanei, che
viaggiano insieme al Che e a Granado sui camion, che vengono trattati come bestie
e che quasi sempre non parlano il castigliano.
Quando arriva in Perù, il Che va a visitare Cuzco: l’ombelico del mondo gli mo
stra con chiarezza i molteplici significati della conquista. Rilevando le contraddi
zioni della realtà che gli si presenta, il Che scrive sul diario che
ci sono due o tre Cuzco, o meglio, due o tre forme di evocazione 11
La prima evocazione è quella della civiltà precolombiana, del grande Impero
dell’Inca, testimoniati dalle rovine della fortezza di Sacsahuamàn. A questo Cuzco
archeologico si contrappone il piccolo paese,
9 Cfr., ad es., Ibidem, p. 209. t ° Ibidem.
10 Ibidem, p. 60.
11 Ibidem, p. 75.
114
quello dai tetti di tegole colorate la cui dolce uniformità è interrotta dalla cupola di
una chiesa barocca, che scendendo ci mostra solo le sue stradine strette e i vestiti ti
pici dei suoi abitanti e i suoi colori da dipinto caratteristico; è quello che invita a fa
re il turista svogliato, a passare superficialmente [...]12.
L’indigeno contemporaneo, come si evince da questa citazione, appare ancora
come un elemento folklorico: per questo la seconda evocazione risulta essere la me
no interessante e coinvolgente. Su questo Cuzco turistico, di nuovo emerge con pre
potenza l’epopea della conquista; di fronte al valore delle gesta belliche dei con
quistatori spagnoli la drammatica realtà indigena svanisce:
c’è anche un Cuzco vibrante che mostra nei suoi monumenti il valore formidabile
dei guerrieri che conquistarono la regione, che si esprime nei musei e nelle biblio
teche, nelle decorazioni delle chiese e nei tratti chiari dei condottieri bianchi che
ancora oggi mostrano l’orgoglio della conquista; è quello che invita a impugnare
l’acciaio, e, in sella al cavallo dai fianchi larghi e dal poderoso galoppo, fendere la
carne indifesa della nuda moltitudine la cui muraglia umana si disperde e scompa
re sotto i quattro zoccoli della bestia. 13.
Con il progressivo emergere delle contraddizioni della conquista, il mondo in
digeno contemporaneo comincia ad interessare sempre di più il Che. Fùser non può
fare a meno di mettere in evidenza "la stupidità del conquistatore analfabeta” 14 di
fronte alla fortezza devastata, ai templi profanati e distrutti, ai palazzi saccheggiati,
alla razza abbruttita.
Il Che sottolinea l’avidità e la "furia cieca" degli spagnoli, il loro "piacere sadi
co" di sostituire i templi e le fortezze degli Incas con le chiese 15. L’incommensura
bile offesa provocata dalla devastazione dei conquistatori si esprime adesso attra
verso le pietre grigie di quelle costruzioni che ormai non sono altro che resti ar
cheologici che solo lasciano intuire una grande civiltà. Il pullulare di tante chiese
sulle antiche costruzioni incaiche non era una semplice scelta utilitaristica ma ri
spondeva alla precisa strategia di cancellare anche la sola possibilità di un fiero ri
cordo. Ma, immagina il giovane Che Guevara, sotto l’indifferenza di pietra grigia
delle mura incaiche scorre ancora un’ansia di liberazione e vendetta:
eppure, il cuore d’America, vibrando di indignazione, trasmette ogni tanto un tre
more nervoso nel fianco quieto delle Ande.16
provocando terremoti che più volte hanno distrutto le cupole delle chiese catto
liche. Queste note su Cuzco, pur mostrando un ridimensionamento della figura
eroica del conquistatore, ponendo l’accento sulla loro devastazione della civiltà
12 Ibidem,
13 Ibidem,
14 Ibidem
15 Ibidem,
16 Ibidem,
p.
p.
p.
p.
p.
76.
76
76.
77.
78
115
incaica, insistono ancora sul dualismo vincitori-vinti. Ed è proprio questo il pro
blema: agli occhi del giovane Che Guevara gli indigeni contemporanei più che i di
scendenti degli antichi e potenti incas, sembrano dei vinti. La sconfitta si è traman
data nei secoli, mentre il valore dell’antica civiltà sembra essere scomparso. Scrive
infatti il Che, dopo aver conosciuto alcuni aymarà:
questa che abbiamo davanti non è la stessa razza orgogliosa che si ribellava conti
nuamente all’autorità degli Incas e li costringeva a mantenere un contingente dell’e
sercito su queste frontiere: quella che ci guarda passare per le strade del paesino è
una razza vinta. I loro sguardi sono miti, quasi timorosi e completamente indifferenti
al mondo esterno. Alcuni danno l’impressione di vivere solo perché vivere è un’abi
tudine che non ci si può togliere di dosso. 11
Nell’antica città incaica, il Che sente di trovarsi "di fronte alla pura espressione
della civiltà indigena più possente d’America" che però non ha nulla a che vedere con
i suoi discendenti, "rappresentanti della tribù ormai degenerata", separati da un’infi
nita "distanza morale"1718 dai loro antenati. Gli indigeni che incontra sono costretti a
viaggiare nel vagone per il bestiame o sui camion, ammassati come animali, esposti al
sole o alla pioggia, in condizioni igieniche terribili:
il vagone per loro è di quelli che in Argentina vengono usati per il bestiame, solo che
è molto più gradevole l’odore di letame di vacca che quello di escrementi umani, e il
concetto, un tantino animale, che gli indigeni hanno del pudore e dell'igiene, fa si che
questi facciano i loro bisogni (senza distinzioni di sesso o di età) al margine della stra
da, si puliscano con le sottane le donne e con niente gli uomini, per poi proseguire
come se nulla fosse. I vestiti delle donne indie che hanno bambini sono veri ricetta
coli di sostanze escrementizie, perché li usano per pulire i piccoli ogni volta che van
no di corpo.19
Poi commenta:
Ovviamente, delle condizioni di vita di questi indios, i turisti che viaggiano sui loro
comodi veicoli, non avranno che una vaga idea, appena un’immagine captata pas
sando a tutta velocità accanto al nostro treno fermo.20
Ho voluto isolare la conclusione perché mi sembra molto significativa: dimostra
infatti l’importanza del viaggio di formazione di Che Guevara, l’importanza dell’e
sperienza vissuta e degli incontri per assumere una coscienza politica. È infatti un
altro incontro, quello con il responsabile del museo archeologico di Cuzco, che lo
fa riflettere sulle possibilità reali di riabilitare la popolazione indigena e gli mostra
il filo che lega l’antico splendore con l’attuale miseria:
17 Ibidem,
18 Ibidem,
19 Ibidem,
20 Ibidem,
116
p. 68.
p. XI.
pp. 85-86.
p. 86.
Ci parlava del passato splendore e dell’attuale miseria, dell’assoluto bisogno
di educare gli indigeni come primo passo verso una totale riabilitazione, della
necessità di elevare rapidamente il livello economico della sua stirpe, come uni
ca maniera di mitigare l’effetto soporifero della coca e dell’alcol, di favorire, in
fine, l’aperto riconoscimento dei quechua e far sì che gli individui appartenen
ti a questa etnia si sentissero orgogliosi, guardando al proprio passato, e non si
vergognassero, vedendo il presente, di essere parte della comunità indigena o
meticcia 21.
Il Che non solo condivide le parole del direttore del museo, ma sembra profon
damente colpito:
I tratti semi-indigeni del responsabile e i suoi occhi brillanti di entusiasmo e di fede
nel futuro si aggiungono agli altri pezzi del museo, ma di un museo vivo, che mostra
una razza ancora in lotta per la propria identità. 22
La potenzialità rivoluzionaria degli indigeni.
Precedentemente il Che aveva già colto l’orgoglio di quegli indigeni che sento
no di appartenere, nonostante tutto, all’antica civiltà incaica e non hanno rinnega
to le proprie origini. Nella processione dedicata al Signore dei Terremoti, il Che di
stingue gli indios che indossano i propri abiti e gli ornamenti tradizionali, "espres
sione di una cultura o di un modo di vivere che si basa su valori ancora ben radica
ti"23; e gli indios vestiti alla maniera europea:
i volti stanchi e sdolcinati rievocano l’immagine di coloro che non ascoltarono il ri
chiamo di Manco e si piegarono a Pizzarro, soffocando nella degradazione del vin
to l’orgoglio di una stirpe indipendente. 2425
E questa razza ancora viva che contiene la possibilità di riscatto. Riconoscere
questa vitalità è fondamentale nell’elaborazione del pensiero teorico del Che; come
diceva Mariàtegui, la realtà indigena è viva e in processo di trasformazione, e pro
prio a partire da questa constatazione può essere considerata una forza potenzial
mente rivoluzionaria. Perciò, quando il Che riconosce la realtà indigena come for
za sociale, l’interesse per i quechua o i maya, dapprima antropologico o archeolo
gico, si trasforma rapidamente in questione sociale, ossia in problema di lotta di
classe, questione rivoluzionaria.
Come dice giustamente Massari, il Che non si avvicina immediatamente agli in
digeni come marxista, non vede subito in loro un enorme potenziale proletario o di
21 Ibidem,
22 Ibidem,
23 Ibidem,
24 Ibidem,
p.
p.
p.
p.
86.
86.
82.
82.
25 R. Massari, El humanismo revolucionario del Che, in AA.VV., Guevara para hoy, Erre Emme,
Roma 1994, p. 18.
117
lavoratori sfruttati 25: questo accade solo dopo aver compreso che essi non sono sol
tanto dei vinti, ma dei possibili rivoluzionari.
Non si tratta, dunque, di stabilire se la visione del futuro delle popolazioni indi
gene sia ottimistica o meno, come fa Massari (54); piuttosto si tratta di capire se per
il Che gli indigeni costituiscono un soggetto politico distinto e peculiare o sempli
cemente ingrossino le file del proletariato; se ravvisi un contrasto tra lotta di classe
e affermazione etnica, se ritenga che l’emancipazione degli indigeni sia il primo pas
so verso la rivoluzione o una conquista della rivoluzione. Questi quesiti, estremamente complessi, non trovano risposte esplicite nell’opera scritta di Che Guevara.
Per questo qui si procederà avanzando delle ipotesi, che vogliono essere solo un sti
molo ad una riflessione sul tema del rapporto tra il guerrillero eroico e le popola
zioni indigene.
Il Che sa che sull’uomo agiscono le leggi del capitalismo senza che questi se ne
avveda26, ma sostiene, d ’altra parte, che le verità sociali del marxismo possono fa
cilmente entrare a far parte della cultura e della coscienza dei popoli, e quindi so
no facilmente accettabili2'. È lo stesso che accaduto con la matematica che prima
era indù, araba o cinese, poi ha valicato i confini per divenire universale, secondo il
noto processo di accumulazione del sapere28. Il problema non è dunque etnico: gli
indigeni hanno bisogno di riconoscere la propria condizione di sfruttati, di scoprir
si parte della società capitalista che li opprime. E proprio all’interno delle contrad
dizioni della società capitalista che si sviluppa il potenziale rivoluzionario degli in
digeni. Dice a questo proposito Mariàtegui:
“La tesi secondo cui il problema indigeno è un problema etnico, non merita
neppure di essere discussa [...] Le possibilità che l’indio si elevi dal punto di vista
materiale ed intellettuale dipendono dal cambiamento delle condizioni economico-sociali. Non sono determinate dalla razza ma dall’economia e dalla politica. La
razza da sola non si è svegliata, né potrebbe risvegliarsi, fino a comprendere un’i
dea emancipatrice. Soprattutto non acquisirebbe mai il potere di imporla e realiz
zarla. Ciò che assicura la sua emancipazione è il dinamismo di un’economia e di
una cultura che hanno nelle loro viscere il germe del socialismo [...]. Il dinamismo
di quest’economia [capitalista], di questo regime che rende instabile ogni rappor
to e che, oltre alle classi contrappone le ideologie, è senza dubbio ciò che rende
possibile la resurrezione indigena, un evento deciso dal gioco di forze economiche,
politiche, culturali, ideologiche, non di forze razziali. [...] 29
Il Che propone una riscoperta di sé come soggetto capace di un’autentica azio
ne che sia sociale ed eversiva allo stesso tempo: è, questo, il processo della “uma
nizzazione rivoluzionaria”. Perle popolazioni indigene questa riscoperta parte dal-
26 Ernesto Che Guevara, Opere, Feltrinelli, Milano 1968-69, voi. Ili, p. 12.
27 cfr. Che Guevara, Notas para el estudio de la ideologia de la Revolución cubana, in «Ver
de olivo», 8 ottobre 1960.
28 Ibidem.
29 J C. Mariàtegui, Il problema delle razze in America latina, in «Latinoamerica», n. 54-55, apri
le settembre 1994, pp. 88-89.
118
la riappropriazione della propria identità indigena e nello stesso tempo anche del
loro spirito ribelle. La rivalutazione della propria tradizione millenaria non va dun
que intesa in senso passatista, ma in senso rivoluzionario, secondo la nota distin
zione operata da Mariàtegui tra tradizione e tradizionalismo 5tì. Il recupero della
soggettività è infatti anche recupero della propria storia; e la storia indigena è in
tessuta di rivolte contro lo sfruttamento e l’oppressione del potere colonialista. Per
il peruviano la tradizione è in continua crescita e trasformazione ed un processo ri
voluzionario autentico non può ignorarla. E siccome la tradizione è composta so
prattutto dal patrimonio indigeno - ma anche da altre componenti, comprese le
colonia e la Repubblica -, la rivendicazione della partecipazione del soggetto indi
geno è opera dei rivoluzionari e non dei tradizionalisti.
Come è noto, Mariàtegui sosteneva l’importanza della partecipazione del mon
do indigeno ai processi rivoluzionari. Secondo lui, infatti, la condizione feudale del
l’economia rurale dell’America latina si fonda sullo sfruttamento dei nativi: il pre
giudizio dell’inferiorità della razza indigena permette al capitalismo il massimo
sfruttamento del lavoro, e quindi grandi profitti ai quali non è certamente disposto
a rinunciare. Non solo: la lotta degli indigeni è inscindibilmente legata all’interna
zionalismo rivoluzionario perché
per l’imperialismo yankee o inglese, il valore economico di queste terre sarebbe mol
to minore se oltre alla loro ricchezza naturale non possedessero una popolazione in
digena arretrata e miserabile che, con l’appoggio della borghesia locale, si può sfrut
tare al massimo 301
Sa che questo ruolo che riconosce alla popolazione indigena riguarda in parti
colare alcuni paesi latinoamericani:
Il problema delle razze non è comune a tutti i paesi dell’America latina, né pre
senta in tutti quelli che lo vivono le stesse proporzioni e gli stessi caratteri. [...]
Ma in paesi come il Perù e la Bolivia, e un po’ meno in Ecuador, dove la maggior
parte della popolazione è indigena, la rivendicazione dell’indio è la rivendicazio
ne popolare e sociale dominante. In questi paesi il fattore razza si complica con
il fattore classe in modo tale che una politica rivoluzionaria non può evitare di
prenderlo in considerazione. L’indio quechua e aymarà vede il suo oppressore nel
"misti", nel bianco. E nel meticcio, soltanto la coscienza di classe è capace di di
struggere l’abitudine al disprezzo, alla repulsione nei confronti dell’indio. [...] 32
Cuba, ovviamente, non è tra questi. Che Guevara, che conosce personalmen
te l’esperienza rivoluzionaria cubana, non affronta esplicitamente il problema. La
permanenza in Guatemala e in Messico gli aveva permesso di conoscere la realtà
30 cfr. A. Melis, Tradizione e modernità nel pensiero di Mariàtegui, in «Latinoamerica» n. 58,
maggio-agosto 1995, pp. 29-40.
31 J. C. Mariàtegui, Il problema delle razze in America Latina, cit., p. 86.
32 Ibidem, p. 89. Ai paesi citati vanno naturalmente aggiunti non solo quelli dell’area maya e del
l’area guarani.
119
indigena centroamericana e di coltivare la sua passione per l’archeologia 33, ma la
nuova attività politica con il Movimento 26 Luglio aveva definitivamente inter
rotto l’avvicinamento a questi due diversi piani della cultura indigena. L’inizio
dell’attività guerrigliera e il trionfo della rivoluzione cambiano definitivamente
l’oggetto della sua riflessione. A Cuba il Che conosce il mondo dei neri, con le sue
peculiarità, ma non entra più in contatto con gli indigeni che stava imparando a
conoscere. D’altra parte, proprio Cuba gli offre un esempio di avanzato processo
di mescolanza delle razze.
Molte delle posizioni espresse dal Che devono dunque essere considerate in
stretta relazione con la realtà e i problemi contingenti della Cuba rivoluzionaria.
Ad esempio, è apertamente contrario non solo ad una riforma agraria che preveda
la piccola proprietà terriera individuale, ma anche ad altre forme di proprietà di ti
po collettivista. Nella discussione sulla Riforma agraria da realizzare a Cuba, il Che
si contrappone nettamente alle posizioni di Humberto Sori Marin, allora ministro
dell’agricoltura, proponendo la totale nazionalizzazione delle terre espropriate at
traverso la costituzione di un grande settore di proprietà statale che non lasciava
alcun margine di esistenza alla proprietà individuale.34 Questa posizione è natu
ralmente in netto contrasto con le rivendicazioni delle lotte indigene, antiche e mo
derne, che reclamano innanzitutto il diritto alla proprietà collettiva della terra. Per
il contadino indigeno la terra ha un valore primordiale, è un fattore costitutivo del
l’identità. La presunta “estinzione” della classe contadina non è dunque assolutamente pensabile in un programma rivoluzionario autenticamente indigeno.
Indigeni e contadini.
Si può però ipotizzare che nelle sue analisi, fondate sul conflitto di classe, il Che
associ la realtà indigena alla realtà rurale. Nel diario di Bolivia, ad esempio, solo una
volta parla di “indiani” 35, in tutti gli altri casi parla sempre di “contadini”, non di
“indigeni”, come se la loro appartenenza etnica fosse un dato marginale rispetto al
la loro appartenenza alla più generale classe di sfruttati36. Lo stesso fa Fidel Castro
nella sua introduzione al Diario:
i suoi [del Chel contatti con i contadini boliviani furono numerosi. Il loro carattere,
assai diffidente e prudente, non poteva sorprendere il Che, che conosceva perfetta
mente la loro mentalità giacché li aveva conosciuti in altre occasioni e sapeva che, per
attirarli alla sua causa, era necessario un lavoro prolungato, irto di difficoltà e pa
ziente; ma non aveva il minimo dubbio che alla lunga vi sarebbe riuscito.37
33 cfr. Le lettere alla madre del '53-54.
34 Si rimanda a Michel Gutelman, La politica agraria della rivoluzione cubana 1959-1968, Tori
no 1969.
35 Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, Feltrinelli. Milano p. 101.
36cfr. i resoconti dei giorni 9-10 febbraio; 16, 17, 19, 22 aprile; 26, 31 maggio; 29 giugno; 5, 14,
20, 24 agosto; 3, 18, 22, 25, 26 settembre; e i riepiloghi di ciascun mese, in Ernesto Che G ueva
ra, Diario in Bolivia, cit.
37 Fidel Castro, Un’introduzione necessaria, in Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 14.
120
È chiaro che i “contadini boliviani” di cui parla Fidel comprendono (se non lo
sono tutti) gli indigeni. E che quindi il Che aveva una grande fiducia nella loro pos
sibilità di riscatto e adesione alla lotta guerrigliera.
Gli indigeni, per il Che, non costituiscono dunque una peculiarità ma un sog
getto sociale che può percorrere la propria strada verso la maturazione rivoluzio
naria. Se consideriamo la popolazione rurale e gli indigeni un tutt’uno nel pensiero
del Che, è interessante vedere cosa abbia scritto a proposito della classe contadina.
Secondo Che Guevara erano i contadini la classe che avrebbe fatto scoppiare la ri
voluzione, perché, influenzato dall’esperienza peronista, credeva che gli operai po
tessero essere facilmente vittime del burocratismo della società capitalistica 3S. Un’i
dea simile apparteneva a tanti altri teorici della rivoluzione, come Frantz Fanon,
Herbert Marcuse. La rivoluzione, però, si sarebbe dovuta estendere a tutte le altre
classi sfruttate per trasformarsi in lotta mondiale contro il capitalismo. Siccome nel
la visione internazionalista del Che (e di Mariàtegui) il capitalismo è un sistema
mondiale imperialista che opprime le masse, la lotta anticapitalista è inevitabilmen
te anche lotta antimperialista. La rivoluzione, dunque, pur avendo come forza mo
trice i contadini, deve essere pluralista e di massa. Questa idea coincide con alcune
proposte di Frantz Fanon:
Il ceto contadino è lasciato sistematicamente in disparte dalla propaganda della mag
gior parte dei partiti nazionalisti. Ora è chiaro che, nei paesi coloniali, soltanto il ce
to contadino è rivoluzionario. Non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Il
contadino, il declassato, l’affamato, è, degli sfruttati, quello che scopre più presto che
soltanto la violenza è rimuneratrice. Per lui non c’è compromesso, non c’è possibilità
di accomodamento. La colonizzazione o la decolonizzazione, è semplicemente un
rapporto di forze3839
Questa corrispondenza è interessante non tanto per una (scontata) consonanza
tra i due, ma perché nell’analisi della realtà africana di Fanon "contadini" ed "indi
geni" sono identificati. E la realtà coloniale descritta è, per molti aspetti, la stessa
realtà latinoamericana neo-colonizzata dall’imperialismo latinoamericano.
I contadini sono considerati la forza sociale più facilmente coinvolgibile nella lot
ta armata per le condizioni di miseria in cui vive e per il desiderio di terra che li pone
frontalmente e chiaramente contro il latifondista. Anche Sartre scrive:
in queste contrade in cui il colonialismo ha deliberatamente arrestato lo sviluppo, il
ceto contadino, quando si rivolta, appare prestissimo come la classe radicale. 40
In realtà la posizione del Che sulla popolazione contadina è più sfumata e quin
di difficilmente semplificabile. Nella sua analisi, infatti, i contadini pur sviluppan
do una certa coscienza di classe a partire dal conflitto con il grande proprietario ter
riero, non costituiscono un soggetto autonomo di trasformazione sociale, anche se,
38cfr. Almeyra e E. Santarelli, Che Guevara. Il pensiero ribelle, Datanews, Roma 1993, p. 25.
39 F. Fanon, / dannati della terra, Einaudi, Torino 1961, p. 25.
40 J. P. Sartre, Prefazione F. Fanon, / dannati della terra, cit., p. X.
121
naturalmente, sono ottimi alleati delle classe operaia e, come si è detto, base del re
clutamento militare e della mobilitazione. La direzione della rivoluzione deve ne
cessariamente essere operaia, secondo quanto afferma il Che:
Il contadino fa parte di una classe che, in seguito allo stato di incoltura in cui egli
è mantenuto e all’isolamento in cui vive, ha bisogno della direzione rivoluzionaria e
politica della classe operaia e degli intellettuali rivoluzionari, direzione senza la qua
le non potrà, da solo, lanciarsi nella lotta e conquistate la vittoria. 41
Questa idea del Che, d’altra parte, trova un preciso riscontro nello sviluppo dei
partiti di sinistra e nei movimenti politici della Bolivia che prepararono la rivolu
zione del ’52. Nel ’53 il Che è appunto in Bolivia e conosce le organizzazioni po
polari in rapida crescita sotto il governo di Paz Estenssoro, fondatore del MNR
(Movimiento Nacional Revolucionario). Questo è particolarmente interessante per
il nostro discorso perché il MNR aveva elaborato un progetto politico che mirava
all’integrazione di quechua e aymarà trasformando l’indio in contadino, mentre i
movimenti indigeni collaboravano con i sindacati urbani e minerari. Questa inte
grazione, che caratterizza ancora la lotta dei popoli quechua e aymara; pur susci
tando continuamente dibattiti e perplessità nella popolazione indigena, si basa su
un dato di fondamentale importanza: il movimento sindacale contadino ha da sem
pre assunto un simbiotico adattamento all’organizzazione sociale tradizionale an
dina. In molte comunità i leader sindacali sono infatti identificabili con le autorità
tradizionali4243.Nel processo rivoluzionario boliviano, sotto la guida di Juan Lechin,
i contadini e i minatori indigeni irrompono con fiducia nella vita politica e sociale
del paese, presentando contemporaneamente la forza esplosiva della lotta di clas
se e delle rivendicazioni indigene. Il Che aveva conosciuto questo progetto rivolu
zionario e ne aveva verificato la forza: l’integrazione delle istanze politiche dei con
tadini sfruttati con quelle etniche degli indigeni sfruttati diventa dunque un ele
mento fondante dell’azione rivoluzionaria.
Per il Che la lotta di liberazione in Bolivia era parte di un processo rivoluziona
rio antimperialista che si sarebbe dovuto estendere agli altri paesi latinoamericani,
e che avrebbe dovuto coinvolgere tutti coloro che volevano lottare contro lo sfrut
tamento capitalista. Tra questi, nella prima fase boliviana, trattandosi di un paese
andino, la popolazione indigena avrebbe dovuto costituire la maggioranza. Per que
sto il Che e i suoi compagni imparavano il quechua 4}.
Tra le critiche mosse al pensiero del Che e di altri dirigenti cubani c’è quella di non
aver approfondito l’analisi di realtà profondamente diverse da quella cubana, nelle
quali, ad esempio, i rapporti fossero ancora precapitalistici oppure avesse un’impor
tanza determinante il fattore etnico. Come dice G. Almeyra, gli esiti negativi delle espe
rienze in Congo e Bolivia trovano, tra le altre, una spiegazione in questa insufficiente
41
Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia: un metodo, in Idem, Opere, Feltrinelli, Milano
1968-69, voi. 1, p. 398.
42cfr. M. C. Barre, Ideologias indigenistas y movìmientos indios, Siglo XXI, 1983; D. Pacheco,
El indianismo y los indios e contemporaneos en Bolivia, Hisbol/Musef, La Paz 1992.
43cfr. Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 48.
122
conoscenza delle dinamiche storiche politiche di questi paesi 44. È lo stesso errore
commesso dalla prima fase della formazione guerrigliera guatemalteca, esclusivamen
te ladina. Con l’estensione del conflitto, la popolazione indigena maya è entrata pro
gressivamente a far parte della guerriglia, fino ad offrire il suo fondamentale contribu
to negli accordi di pace attraverso l’Assemblea della Società Civile. E il segno che for
se solo adesso la situazione indigena, giunta al culmine del conflitto, è diventata inter
locutrice imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario. L’esperienza rivolu
zionaria di Che Guevara, con la sua ricchezza umana ed etica, va dunque giudicata nel
contesto socio-politico del suo tempo. Ma l’insegnamento etico della sua vita, della sua
esperienza umanissima, restano come esempi vivi per tutte le lotte rivoluzionarie:
Pur rappresentandone il culmine, l’esperienza e la direttrice guerrigliera di impron
ta guevariana va vista e giudicata nel rapporto dinamico che si viene a stabilire fra la
rivoluzione cubana e l’America latina in generale, costituendo così un capitolo di no
tevole signilicato per la storia sociale del subcontinente 45.
Anche se il Che non ha dedicato un’attenzione privilegiata al mondo indigeno,
questo è stato sempre presente nelle sue prospettive di liberazione. Si può allora di
segnare una linea, non troppo immaginaria, che inizia con i grandi libertadores, co
me Bolivar, Marti e Sandino, culmina con il Che, ma non s’interrompe, perché at
traverso diverse forme di lotte, prosegue. Ad esempio, attraverso Victor Jara, che lo
ha conosciuto e ne ha condiviso gli ideali fino al sacrificio della vita; e si ricongiun
ge con la popolazione indigena mapuche, con la quale Victor Jara ha lavorato e che
adesso, con rinnovata forza, è impegnata in una dura lotta contro le multinazionali
che in nome del profitto e del progresso a senso unico devastano l’ambiente cileno.
Una linea, dunque, che ricongiunge l’esempio di Che Guevara con il mondo indi
geno, l’internazionalismo, la rivoluzione.
Emanuela Jossa
Autonomia indigena e diritti di cittadinanza
In te rv e n to p re s e n ta to a n o m e d e ll’A s s . C u lt. Im a g o M u n d i al F o ru m In te rn a
z io n a le di R ed - R o m a , 8 m a rz o 199 7
Il concetto di “autonomia”, così prepotentemente e talvolta drammaticamente
alla ribalta della scena politica europea, in America latina viene utilizzato per desi
gnare aspirazioni ed obiettivi differenti e solo apparentemente senza una reciproca
connessione concettuale e politica:
- l’autonomia delle realtà amministrative locali e
- l’autonomia rivendicata dai popoli indigeni.
44 G. Almeyra e E. Santarelli, op. cit., p. 33
45 E. Santarelli, Che Guevara, Il pensiero ribelle , cit., p. 50.
123
Un’autonomia, quest’ultima, dalle profonde implicazioni per la vita dell’intera
comunità statale e strettamente correlata con l’autonomia locale, nel cui processo di
formazione si inserisce con la propria specificità, contribuendo al cambiamento del
lo stato, al suo decentramento amministrativo e ad una maggiore possibilità di par
tecipazione democratica per tutti i cittadini.
Nel quadro delle connessioni tra l’affermazione dei diritti di cittadinanza, il de
centramento amministrativo 1 e la salvaguardia dell’identità culturale dei differenti
gruppi etnici e sociali, il tema dell’autonomia indigena non riveste un carattere poli
ticamente superato, residuale di situazioni ereditate dall’epoca coloniale e divenute
irrimediabilmente anacronistiche rispetto agli obiettivi gestionali degli stati moderni.
L’autonomia indigena è non solo un tema di grande attualità, ma è destinata a
diventare uno dei “nodi” politici più importanti del prossimo futuro, quello che
riassume ed evidenzia tutte le contraddizioni della società moderna, sempre meno
identificabile, nella sua espressione politica, con lo stato-nazione, omogeneo (ed
omogeneizzante) per cultura, razza e princìpi fondanti la sua progettualità politico
economica.
L’ambiguità con cui viene correntemente utilizzato il termine “cultura”, ha cau
sato una situazione paradossale in alcuni paesi latinoamericani, le cui costituzioni
riconoscono formalmente l’esistenza di una situazione di “multiculturalità”; ricono
scono, cioè, la legittimità dell’esistenza e la conseguente legittimità di espressione di
culture differenti, presenti all’interno del corpo nazionale.
Di fatto, però, viene riconosciuto il diritto all’espressione di una cultura dimez
zata, che si può esprimere solo nelle sue forme esteriori (J’uso della lingua, dell’ab
bigliamento tradizionale, della celebrazione del culto e delle feste comunitarie), ne
gando l’espressione e la realizzazione, nella concretezza quotidiana, dei suoi princì
pi e valori costitutivi, che informano le relazioni tra le persone, tra gli esseri umani
e l’ambiente, tra il contingente ed il trascendente.
Non vengono quindi riconosciuti né il diritto ad una gestione autonoma di un
proprio territorio, inteso come l’ambito indispensabile all’esistenza stessa degli ele
menti di identità, cultura, organizzazione sociale, né quello di una gestione delle ri
sorse economiche, che non corrisponda alle finalità della politica economica statale.
Le rivendicazioni indigene per una effettiva autonomia gestionale delle proprie
comunità e della loro economia incontrano attualmente ostacoli che, per la loro
natura oggettiva, si presentano ancora più difficili da superare che non quelli che
venivano frapposti dai pregiudizi culturali che segnarono, fin dalla loro nascita, gli
stati nazionali.
Pregiudizi che spiegavano le miserevoli condizioni di vita delle popolazioni in
digene, addossandone la responsabilità dapprima a presunti fattori genetici e suc
cessivamente, superata questa fase brutalmente razzista, al modello sociale ed alla
stessa cultura indigeni, colpevoli del mancato sviluppo (beninteso uno sviluppo
concepito secondo i canoni dei paesi dominanti) delle società latinoamericane.
1 II senso del decentramento amministrativo, così come viene inteso in questo scritto, è quello di
una relazione più democratica tra i cittadini e lo stato e non quello che si esprime, nella sua forma
degenerata, come un allentamento dei vincoli di solidarietà nazionale nei confronti delle situazioni lo
cali, che vivono una situazione economicamente arretrata rispetto al livello medio nazionale.
124
Da questa convinzione nasceva la necessità di “civilizzare” gli indigeni, trasmet
tendo loro la “vera” cultura (la cultura occidentale) e facendo in modo che perdes
sero la propria identità, concepita come un ostacolo insormontabile alla propria
“elevazione” ed alla loro partecipazione allo sviluppo dell’intero paese.
Era necessario, secondo la felice espressione di Guillermo Bonfil, che “gli indi
geni cessassero di essere indigeni”.
Le culture indigene, anche se molto faticosamente ed in ambiti ancora troppo ri
stretti, stanno ottenendo il riconoscimento della propria esistenza e della pari di
gnità rispetto a differenti percorsi evolutivi, ma continuano a costituire un ostacolo
per i progetti di modernizzazione, cioè di adeguamento alle esigenze sovranazionali, degli stati latinoamericani, le cui classi dirigenti considerano la diversità cultura
le che caratterizza i loro paesi come un pericoloso elemento di frantumazione ed ar
retratezza sociale.
Ne è logica conseguenza il fatto che, se da un lato si accetta la multiculturalità,
intesa riduttivamente come un insieme di manifestazioni culturali differenti da
quelle della società globale e ridotte a pure espressioni folkloriche, dall’altra viene
negata ai popoli indigeni una autonoma gestione sociale, che comprenda l’ammini
strazione della giustizia secondo le proprie consuetudini e l’elezione di propri rap
presentanti sia a livello di comunità che nelle istituzioni statali, con la recente, im
portantissima eccezione dell’Ecuador.
Il raggiungimento di una effetiva autonomia incontra ostacoli di obiettiva diffi
coltà, quali la necessità di integrare la propria economia in quella nazionale e l’at
tuale processo di perdita di autonomia decisionale da parte dei singoli stati, le cui
politiche economiche devono rispondere ad interessi e sottostare a direttive sovranazionali.
In un sistema politico ed economico largamente omogeneo a livello internazio
nale, non c’è attualmente spazio per esperienze discordanti, che si pongono come
radicalmente alternative e, conseguentemente, dirompenti nei confronti del sistema
dato, del quale costituirebbero, con la loro stessa realizzazione, una messa in di
scussione profonda.
Lo stretto intreccio tra le rivendicazioni di autonomia indigena e quelle per il
riconoscimento dei diritti di cittadinanza è evidenziato dall’esperienza di alcuni
paesi (in particolare il Messico e l’Ecuador), nei quali le organizzazioni indigene
hanno saputo esprimere anche le rivendicazioni e le aspirazioni politiche ed eco
nomiche dei ceti popolari, delle organizzazioni sindacali e dei movimenti non in
digeni, divenendo un interlocutore ed un alleato imprescindibile nelle lotte sociali
e politiche.
In questi casi, le lotte per il riconoscimento dei diritti indigeni si configurano og
gettivamente, a volte anche oltre le intenzioni e le finalità immediate degli stessi pro
tagonisti, come lotte per il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza, dei di
ritti politici di tutti i cittadini, a qualunque cultura ed a qualunque gruppo etnico
appartengano.
Diritti il cui godimento effettivo non può che basarsi sul riconoscimento e l’af
fermazione delle differenze coesistenti all’interno dello stato nazionale.
L’autonomia indigena rappresenta quindi un obiettivo, la cui valenza travalica
l’interesse particolare di specifici gruppi etnici, per investire l’insieme della comunià nazionale ed il sistema economico sovranazionale, dato che sia lo stato, nella sua
125
forma attuale, che il mercato internazionale sono intrinsecamente integrazionisti,
tendenti alla cancellazione e non all’accettazione delle differenze storiche, culturali
e di obiettivi economici.
L’Ezln chiapaneco ha ampiamento dimostrato di avere correttamente colto il
nesso importante tra la situazione economico-sociale dei popoli indigeni (non solo
quella attuale, ereditata dal passato, ma ancora di più quella che si prefigura per il
futuro) e l’applicazione delle direttive economiche internazionali.
La convocazione del 1° Incontro Intercontinentale contro il neoliberismo non
è stata l’espressione di una generosa utopia, venata da un pizzico di follia, ma il
risultato di un’analisi condotta con rigorosa coerenza, a partire dal diritto indige
no di esprimere e di vivere pienamente e liberamente la propria diversità, frutto
di differenti percorsi storici e culturali e della diversa concezione e progettazione
del proprio futuro collettivo; diversità che sono rimaste vive e capaci di trasmet
tersi attraverso le generazioni, nonostante i secoli di esclusione e negazione.
Non credo sia un caso che le trattative di pace in Guatemala ed i colloqui tra
Ezln e governo in Messico, abbiano subito delle lunghe battute di arresto pro
prio sul tema dei diritti e delle culture indigene. Non poteva certamente sfuggi
re ad entrambi i governi l’intrinseca pericolosità di queste rivendicazioni, poten
zialmente destabilizzanti i rapporti tra il potere statale centrale ed i cittadini, da
to il loro apporto fondamentale alla elaborazione di modelli alternativi di orga
nizzazione sociale e statale.
Il diritto a vivere armoniosamente una doppia identità, quella etnica e quella
di cittadino, deve essere garantito non solo come salvaguardia di un inalienabile
diritto individuale e collettivo ma, soprattutto, come fondamento indispensabile
allo sviluppo armonico di ogni società multirazziale. E’ auspicabile che gli appar
tenenti ai popoli indigeni si sentano pienamente partecipi della vita nazionale e
non rinuncino a rivendicare il proprio incondizionato godimento dei diritti di cit
tadinanza: non solo il diritto alla diversità, ma anche quello alla costruzione e par
tecipazione al progetto politico della società globale, dato che hanno dato una va
lida prova della loro capacità di interpretare le esigenze profonde della società nel
suo complesso, come si è verificato in Messico con la richiesta dell’Ezln di una
maggiore democratizzazione della vita politica del paese ed in Ecuador, dove il
Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakutik, partecipando al processo elet
torale, ha dimostrato di sapere coniugare la lotta etnico-culturale per i diritti in
digeni, la lotta sociale per la terra e la lotta politica per la partecipazione al go
verno dell’intera società.
Una partecipazione politica (nel senso più ampio e comprensivo del termine)
che non nasce da una strategia, ideologicamente predeterminata, di occupazione
del potere statale, bensì dalla concretezza dei bisogni specifici, soddisfabili da un
sistema di autonomie locali, che non sia solo il risultato di scelte di pura razio
nalizzazione amministrativa, ma l’espressione della volontà di rendere concreto
un progetto di convivenza, che permetta l’espressione delle diversità e delle po
tenzialità insite nelle differenti identità culturali: quella urbana, rurale, popola
re ed indigena.
Per la crescita dell’intera società civile in America latina è indispensabile l’ap
porto dei movimenti e delle organizzazioni indigene, che hanno saputo esprimere
le rivendicazioni, le aspirazioni e le speranze di tutti i settori emarginati, proponen126
do una differente concezione del diritto di cittadinanza e di reale autonomia, im
plicante il diritto all’autodeterminazione delle proprie forme di organizzazione so
ciale e del diritto di essere protagonisti in una società più basata sulla cooperazione
che sulla competitività conflittuale.
La difficile sfida posta dalla rivendicazione di una reale autonomia gestionale,
avanzata dai popoli indigeni latinoamericani, è quella di fare coesistere in modo com
plementare le due identità, di cittadini a pieno titolo di uno stato moderno e quella di
appartenenti a popoli che si differenziano dalla società globale per storia e cultura.
Il compito si presenta estremamente difficoltoso ma sicuramente affascinante e
la posta in gioco non è ristretta ai pur legittimi interessi dei popoli indigeni: con
cerne la possibilità stessa della sopravvivenza di un mondo, dove sia reso possibile
a tutti esprimere la propria identità nella differenza.
Il superamento del concetto di stato-nazione, garante dei diritti di cittadinanza
solo nei riguardi dei soggetti assimilati in una omogeneità razziale, linguistica e cul
turale, apre nuove possibilità di convivenza civile anche in paesi in cui le minoran
ze sono attualmente rappresentate dagli immigrati dai paesi più poveri.
In una fase storica che prevede il progressivo abbattimento delle barriere nazio
nali, le rivendicazioni dei popoli indigeni sollevano problematiche di stringente at
tualità non solo per l’America latina:
- una visione più “laica” dello stato, concepito come comunità di cittadini e non
come espressione di un gruppo definito per cultura e tradizioni storiche;
- conseguente redifinizione del ruolo dello stato e dei rapporti sociali;
- riequilibrio tra garanzia dei diritti individuali e dei diritti collettivi, compresi
quelli attinenti le diverse comunità esistenti all’interno dello stato.
Obiettivi sui quali sarebbe bene riflettere anche nel Vecchio Mondo.
Mariella Moresco Fornasier
127
V ldffir* <w la M art !
V ic to r y o r B ca th !
Rafael Morante, offset, 1971, 34x54 cm.
128
Recensioni e schede
Maria Rosaria Stabili,
Il sentim ento aristocratico: élites cilene
allo specchio (1860-1969), Lecce, C o n
g e d o E d ito re 1996, pp. 44 2.
Le élites cui fa riferimento il titolo
corrispondono sostanzialmente alle
oligarchie, che percepiscono storica
mente se stesse come apparentabili al
l’aristocrazia europea d ’età moderna
(altro elemento che compare già nel
frontespizio), cioè a quelle classi che
hanno dominato il quadro politico,
economico e sociale cileno sino a qua
si la metà del XX secolo.
Il volume dato alle stampe da Maria
Rosaria Stabili con l’intento di andar
andando - cioè di effettuare un vaga
bondaggio , ma fermandosi a riflettere
per poi raccontare - , rappresenta qua
si il coronamento di una preoccupa
zione intellettuale dell’autrice (anzi, di
un vero e proprio percorso di ricerca),
manifestatasi sin dalla metà degli anni
‘80. Le riflessioni sedimentatesi in
questo arco di tempo l’hanno spinta a
porre in discussione interpretazioni,
schematismi analitici e appiattimenti
della produzione storiografica affer
matasi negli anni ‘50 ed egemone per
oltre un trentennio. Essa proponeva
una lettura lineare ma stereotipata del
le vicende politiche di Ottocento e
Novecento e dipingeva l’oligarchia co
me classe priva di iniziativa e di articolazioni interne, “congelata nel tem
po, tradizionalista, conservatrice e, all’occorrenza, golpista, subalterna pri
ma al capitale inglese e poi a quello
americano” (p. 14), oziosa e spendacciona, rentière e sfruttatrice.
Tale insoddisfazione ha condotto
l’autrice a tracciare un quadro di mag
giore complessità, cercando di mettere
a nudo la mentalità e i sentimenti che,
a suo avviso, sono stati alla base delle
opzioni anche politiche dell 'élite cile
na. Per far questo, si è servita, oltre
che della storiografia stessa, di una ric
ca memorialistica, della letteratura ro
manzesca, di carte di famiglia, di ar
chivi parrocchiali e comunali, ma ha
soprattutto fatto ampio ricorso alla
storia orale, applicando a chi ha prati
camente detenuto il monopolio dell’i
struzione superiore, dell’informazione
e dell’editoria un metodo d ’indagine
che, in genere, serve a dare voce ai
soggetti che non hanno avuto stru
menti per narrare le proprie vicende e
le proprie ragioni, cioè le classi subal
terne. Al di là di questo, il volume si
presenta come un grande affresco di
ricostruzione storica attraverso il filo
conduttore delle interviste.
In questa indagine sulla gente corno
uno, sulla gente con apellido, entrano
in gioco quasi cento famiglie sulle po
co più di trecento che rappresentano il
gotha cileno. Il mondo descritto so
prattutto dalle protagoniste - dipinte
peraltro con grande immedesimazio
ne, se non con affetto, dalla intervista
trice - è un mondo in via di estinzione.
La ricerca si propone, con successo, di
far affiorare l’universo culturale delle
oligarchie, atteggiamenti, valori, stili
di vita, sensibilità, sentimenti. In que129
st’ottica viene privilegiata la ricerca
degli elementi costitutivi della visione
che le élites hanno di se stesse e l’au
trice lascia volontariamente in ombra i
dati '‘oggettivi” dell’esperienza storica
cilena e dei comportamenti oligarchi
ci, insistendo, invece, sulla percezione
soggettiva di tali vicende e cercando di
ricostruire, attraverso la descrizione
della scala di valori delle classi domi
nanti, i nessi tra la loro storia e quella
del paese.
Il libro è strutturato in quattro ca
pitoli (cui si affiancano 119 pagine di
appendici riguardanti quadri genealo
gici, guide biografiche e dizionario toponimico), che trattano appunto di ta
li tematiche, della struttura familiare,
dell’intreccio fra le dinamiche familia
ri e i comportamenti politici e sociali,
dell’atteggiamento nei confronti della
terra, delle fratture e frizioni interne,
acuite a metà degli anni ‘60 dalla pro
mulgazione della legge di riforma
agraria ad opera del democristiano
Eduardo Frei. Tener tierra rappresen
ta un elemento costitutivo della men
talità oligarchica ancora oggi, anche se
più come riferimento ideale che come
componente economica ed è interes
sante notare che, pur essendo tutte le
interviste percorse da un velo di no
stalgia per i tempi andati, tale caratte
ristica emerge con maggiore vigore
quando si parla del rapporto con la
proprietà fondiaria. Non a caso, Frei e
i democristiani attirano rancori mag
giori che la stessa sinistra e sono indi
viduati come i principali responsabili
“del crollo del loro universo di valori,
vissuti, sentimenti” (p.289).
Dalla ricerca emergono parecchi al
tri dati interessanti, fra cui mi permet
to di segnalare quantomeno l’alto tas
so di endogamia (pp.121-132), re
sponsabile della frequente confusione
in cui incorre l’oligarchia tra “fami
130
glia” e “parentela”. Un’endogamia,
questa, dettata da intense frequenta
zioni e strettissimi rapporti familiari,
da affinità di ambiente e di cultura, ma
anche dal desiderio di preservazione
del patrimonio, tanto da rendere even
tualmente più cospicua la dote in caso
di nozze tra esponenti della stessa
classe o addirittura tra parenti. Quan
do, dalla seconda metà del XIX seco
lo, altri elementi cominciano ad ascen
dere nella scala sociale grazie alle ric
chezze accumulate, non si esita ad ab
bandonare la prassi endogamica per
cooptarli attraverso strategie matrimo
niali. A tale tematica l’autrice dedica
alcune delle pagine più interessanti,
così come, più in generale, appaiono
illuminanti quelle riservate alle figure
femminili dell’oligarchia.
Volendo condensare in una sola
frase la fatica di Maria Rosaria Stabili,
si potrebbe utilmente ricorrere allo
slogan “dalla famiglia allo stato”, in
tendendo con ciò evidenziare il dise
gno elaborato dalle élites di trasporre
a livello nazionale l’organizzazione, i
modelli, i valori, i rapporti e le prati
che in vigore all’interno del nucleo fa
miliare e tra questo e il mondo ester
no, dimenticando tuttavia che l’orga
nizzazione sociale di un microcosmo è
totalmente diversa da quella di una
nazione. A tale proposito, l’eventuale
limite di questo volume è forse quello
di un’eccessiva timidezza dell’autrice,
che rischia di attribuire alla visione de
gli interessati valore di universalità.
Pur non facendo esplicitamente pro
prie le interpretazioni dei soggetti in
tervistati, infatti, Stabili rimane talvol
ta nell’ombra, negando al lettore visio
ni più personali e chiavi di lettura con
trapposte a quelle espresse dai mem
bri delVélite, ricorrendo alla storiogra
fia o alla stessa letteratura, cui pure si
serve non episodicamente per awalo-
rare quanto affermato dagli intervista
ti. Questo aspetto appare forse più
evidente in alcune tematiche (la terra,
i rapporti con gli inquilinos nelle pro
prietà agricole, le virtù del paternali
smo oligarchico) che in altre, ma, per
scelta dell’autrice, permea il lavoro nel
suo insieme.
Angelo Trento
F. Tarozzi-R. V ecchi
(a cu ra di),
Partenze - Ritorni: italiani in A m erica
Latina, n u m e ro m o n o g ra fic o di “S to ria e
P roblem i C o n te m p o ra n e i” IX, 18, 1996,
pp. 160, lire 2 5 .0 0 0 .
L’ultimo numero della rivista se
mestrale dell’Istituto Regionale per
la Storia del Movimento di Libera
zione nelle Marche affronta la tema
tica dell’emigrazione italiana in Ame
rica latina, sostanzialmente in Argen
tina e in Brasile anche se l’orizzonte
tende qua e là ad allargarsi, come ad
esempio nel saggio di Laura Ceccacci che affronta sul piano metodologi
co e nell’ambito delle discipline geo
grafiche vari aspetti del fenomeno
emigratorio. Se un appunto può es
sere mosso al risultato complessivo è
che si avverte una certa disorganicità
negli interventi, quasi un’assenza di
filo conduttore. In effetti, l’approc
cio interdisciplinare non riesce in
questo caso a camuffare un’eccessiva
diversità di tematiche, ma al tempo
stesso l’assenza di alcuni nodi di
grande rilevanza. Se, tuttavia, non si
cercano nella monografia quegli im
probabili confronti di idee a caratte
re organico come pretendono i cura
tori e ci si limita a leggere i contribu
ti come miscellanea il cui collante è
la comune matrice etnica, essa risulta
fruibilissima.
Il saggio di Silvia Piciulo offre un
interessante spaccato di un caso di
emigrazione in catena riguardante un
paese della Basilicata, i cui abitanti si
disperdono nelle Americhe ma con
centrandosi in alcune aree ben preci
se, soprattutto in Argentina e negli
Stati Uniti ma anche in Brasile, in Cile
e persino a Haiti. L’esodo mantiene al
cune caratteristiche di fondo indipen
dentemente dalle destinazioni e l’au
trice mostra, anche attraverso intervi
ste ai discendenti, quanto, nelle storie
personali e in quelle generazionali,
passato e presente si fondano e quan
to il primo sia in grado di condiziona
re il secondo. Integrazione e etnicità
sono elementi essenziali di altri due
contributi, quelli di Susana Bonaldi e
di Maria Adriana Bernardotti riguar
danti Argentina e argentini, che hanno
peraltro al centro tematiche assai di
verse tra loro. In entrambi si affaccia il
concetto di crizol de razes, la variante
argentina del melting pot, e la facilità
di integrazione (meglio sarebbe dire di
scambio tra culture) - legata anche al
la abnorme percentuale di stranieri
sulla popolazione totale - facilità che
porterà in seguito a ritenere argentini
alcuni piatti manifestamente italiani
come la fainà, la bagnacauda e gli
gnocchi. Se il fenomeno immigratorio
diventa parte costituente nella costru
zione dell’identità argentina, meno
convincente appare la tesi esposta dal
la Bonaldi circa le generalizzate pres
sioni dei genitori affinché i figli si “argentinarizzassero”, atteggiamento che
giungeva sino ad una rapidissima ado
zione della lingua spagnola come ca
nale di comunicazione all’interno del
le pareti domestiche. Gli alti tassi di
endogamia e la proliferazione di asso
ciazioni, scuole e giornali italiani stan
no a dimostrare come il fenomeno ri
sultasse, quantomeno, assai più com131
plesso di quanto mostri di dar conto la
breve indicazione appena riassunta.
Un certo spazio è dedicato alla te
matica emigrazione e movimento ope
raio, riferita soprattutto agli anarchici.
Essa è presente (così come le condi
zioni di lavoro urbane) nella stessa Bonaldi e nei due interventi di Francisco
Foot Hardman, il primo dei quali di
taglio comparativistico fra Brasile e
Argentina ed il secondo scritto in col
laborazione con Antonio Arnoni Pra
do riguardante solo il primo paese. A
voler essere eccessivamente critici, c’è
da lamentare come, all’interno della
tematica generale, non si accenni mai
alle rivalità etniche che pure attraver
sarono il movimento operaio, in parti
colare a Sào Paulo, rappresentando a
lungo un ostacolo nella conduzione
delle lotte e nella stessa organizzazio
ne sindacale. In tal senso appare forse
eccessiva l’affermazione dei due cura
tori quando parlano di un’emigrazio
ne di persone, idee e culture che con
sentì a “popoli geograficamente lonta
ni” di trovarsi ideologicamente vicini e
di combattere battaglie simili.
L’articolo a due mani sugli anarchi
ci in Brasile riprende precedenti lavo
ri di Hardman e di Prado e sviscera te
matiche sostanzialmente letterarie, ac
cennando anche alla diffusione di un
interessantissimo fenomeno quale
quello del teatro operaio, anche se gli
italiani rientrano solo marginalmente
in questo saggio (ma sono presenti co
me soggetti, vista la loro prevalenza
numerica all’interno del proletariato
paulista sino alla prima guerra mon
diale e anche oltre). Sempre sul piano
letterario, molto stimolante è il contri
buto di Roberto Vecchi su un autore
nazionalista brasiliano che scrive a ca
vallo fra i due secoli. In particolare,
Vecchi si sofferma su un suo romanzo
minore - Giovannina - che vede come
132
protagonista una famiglia di immigra
ti italiani, le cui vicende a Sào Paulo
vengono descritte da Afonso Celso in
forma assolutamente stereotipata e te
sa a mettere in buona luce il Brasile e
le sue classi dominanti.
La rivista ospita anche un articolo
sulle donne italiane in Argentina e sul
la loro condizione sia familiare che la
vorativa. Susana Bonaldi afferma che
tale condizione non può essere af
frontata separatamente dalla più gene
rale condizione femminile nella re
pubblica platense, pur riconoscendo
che le immigrate devono anche fare i
conti con lo sradicamento e la distru
zione del proprio passato. Tutto l’in
tervento rappresenta un buon contri
buto direi quasi all’avvio di una di
scussione su una tematica che è stata
sinora colpevolmente sottaciuta nella
letteratura sull’emigrazione in Ameri
ca latina.
Fiorenza Tarozzi, uno dei due cura
tori, analizza manuali e guide per l’e
migrante, anche se i testi presi in esa
me si riducono a poca cosa; prescin
dendo da quelli di carattere più gene
rale e dalle pubblicazioni del CGE, in
fatti, gli autori oggetto di studio sono
solo tre, il che evidentemente non con
sente quelle generalizzazioni che pure
vengono tentate. Appare poi singolare
l’assenza anche di un mero cenno in
nota ad un precedente lavoro di Ceci
lia Lupi, apparso neH’ormai lontano
1981 su “Movimento Operaio e Socia
lista”, che aveva la stessa tematica per
oggetto e sicuramente un maggior re
spiro, riportando nella bibliografia ol
tre 120 titoli, di cui quasi 50 relativi al
l’America latina. Tarozzi ingenera an
che un po’ di confusione come quan
do, parlando di queste guide, afferma
che esse circolarono largamente tra gli
immigrati tradotte anche in castigliano
(p. 21), senza specificare che tali tra-
duzioni, peraltro rarissime e quasi
sempre parziali, vennero fatte a distan
za di parecchi decenni e solo come do
cumentazione storica. Né, d’altronde,
si capisce quale utilità potessero avere
per l’emigrante manuali redatti in una
lingua diversa dalla propria.
Di grande interesse, infine, è il sag
gio di Maria Adriana Bernardotti dedi
cato agli argentini in Italia, “la prima
emigrazione economica di massa dal
l’Argentina [...] naturale correlato di
quella che è stata, dalla seconda metà
del XIX secolo agli anni ‘50 del nostro
secolo, la grande immigrazione italiana
nel paese sudamericano” (p.65). Dopo
aver esposto le cause che hanno deter
minato l’apprezzabile crescita del
fenomeno e, più in generale, che han
no spinto i discendenti a richiedere il
passaporto italiano anche quando non
intendevano lasciare il paese, l’autrice
mostra come tali richieste - in un pae
se come l’Argentina, che ha tradizio
nalmente avuto difficoltà ad accettare
la propria appartenenza all’America la
tina, almeno in termini culturali - pos
sano essere sintetizzate come “un mec
canismo di compensazione e autoaffer
mazione di una identità minacciata,
come un richiamo esplicito di apparte
nenza ad una generica cultura euro
pea” (pp. 73-74).
Angelo Trento
G ioconda Belli
W asiaia.-
M em oriale d a l futuro, tra d u z io n e di
M a rg h e rita D ’A m ic o , E d iz io n i e /o ,
R o m a 1 9 9 7 , pp. 3 1 6 , L. 2 5 .0 0 0 .
L’opera della nicaraguense Giocon
da Belli rappresenta, come ha afferma
to Mario Benedetti, «L’esaltazione del
l’istinto [...] capace di creare uno stra
no amalgama che lega amore, rivolu
zione, denuncia». Nata a Managua nel
1949, la Belli proviene da una famiglia
dell’altaborghesia nicaraguense. Tor
nata in Nicaragua, dopo gli studi in
Spagna e negli Stati Uniti, ha militato
nel Fronte di Liberazione Nazionale
Sandinista. Nel 1972 ha esordito pub
blicando la sua prima raccolta di liri
che. Nel 1989 ha visto la luce il suo pri
mo romanzo, La donna abitata (ed. it.:
Edizioni e/o, Roma 1996), che nella
sola Germania ha venduto quasi un
milione di copie. Sulla scia di questo
successo l’editrice romana ha deciso di
pubblicare anche questa volta nella
pregevole traduzione di Margherita
D’Amico, Waslala Memoriale dal futu
ro.
Waslala è il toponimo di uno degli
ultimi sogni tropicali, un luogo che vi
ve nel mito, nella lontana e irraggiun
gibile selva. Un posto di pace e di spe
ranza, in cui vive una comunità di
poeti e di uomini giusti. Melisandra,
giovane e ardimentosa protagonista
del romanzo, decide di intraprendere
un viaggio alla ricerca di questo luo
go, dove vent’anni prima erano scom
parsi i suoi genitori. Ma il viaggio ver
so Waslala si rivelerà pieno d ’insidie,
tra narcotrafficanti ed episodi di guer
riglia, che non impediscono però alla
Belli di parlarci di meraviglie e di
grandi passioni. Waslala è e resterà un
mistero; qualcosa che esiste solo in un
periodo di transizione, in una «fessu
ra nel tempo, in uno spazio indeter
minato». I personaggi vivono in una
perfetta simbiosi di realtà e immagi
nazione; ma l’immaginazione sovente
è anche realtà. L’episodio della conta
minazione nucleare nel deposito di ri
fiuti di Engracia - come ricorda l’au
trice - si basa su un fatto realmente ac
caduto: nel 1987, nella città brasiliana
di Gioiania, due uomini, rovistando
tra i rifiuti, trovano un tubo di metal133
lo che conteneva al suo interno una
polverina azzurra che brillava nell’o
scurità. Regalarono boccette piene di
questa polverina ai loro amici. Si trat
tava di Cesio 137. Fu il più grave inci
dente nucleare dell’America latina.
Accadde un anno dopo Cernobyl. Ma
come afferma Eduardo Galeano:
«Cernobyl risuona ogni giorno nelle
orecchie del mondo. Di Gioiania non
se ne seppe mai nulla». L’America la
tina è, come sempre, una «notizia
condannata all’oblio».
Elina Fatane
Alex Fleites - Aldo Garzia,
C uba C ultura. Viaggio n e ll’id e n tità di
u n ’isola, Teti E d ito re , 1 9 9 7 , pp. 2 2 1 ,
L. 2 8 .0 0 0 .
Nell’agile introduzione al libro, gli
autori avvertono il lettore di due cose:
che “non esiste in commercio -neppure
a livello intemazionale- un’altra guida
uguale” e che “i più avvertiti noteranno
qualche omissione o scelte arbitrarie
[...] Il rischio da evitare era però quello
di comporre il mosaico di una piccola
enciclopedia, forse esauriente, ma priva
di interpretazioni e proposte soggettive.
Questo libro è l’avvio di una ricerca che
dovrà continuare e che ci auguriamo
avrà nuove e aggiornate edizioni.” E
dunque al lettore non resta che tener
conto di questi avvertimenti e al recen
sore di rispettare la soggettività degli au
tori. L’idea di questa guida è eccellente
per più di un motivo: il primo, che è sta
to già indicato nella introduzione, è l’as
soluta novità di una guida culturale per
Cuba, un paese che è stato tradizional
mente afflitto da due sole misure inter
pretative: quella del paradiso turistico
tropicale e quella della sua anomalia po
litica nell’emisfero occidentale. Il secon
134
do è che dal punto di vista culturale,
Cuba è un paese di straordinario inte
resse; basti pensare alla sua musica, al
cinema, alle arti figurative e alla lettera
tura. Nel panorama latinoamericano,
nonostante le sue scarse dimensioni, è
un paese che sta a fianco -e talvolta su
pera- grandi nazioni come il Messico e
l’Argentina. E una terza ragione è che
negli anni della rivoluzione cubana in
quel paese è stato dato un grande im
pulso alla cultura sia con scuole ed ac
cademie aperte a tutti, sia con la crea
zione di laboratori artistici, anche nelle
provincie più sperdute, di case della cul
tura, di riviste, di compagnie teatrali, di
gallerie e sale di esposizione, fino alla ce
lebre Scuola di Cinema di San Antonio
de los Bahos. L’ultima ragione è l’inedi
to accoppiamento di un giornalista e
studioso delle cose cubane come è Aldo
Garzia, con un intellettuale cubano,
poeta oltre che giornalista, e soprattutto
rappresentante della generazione for
matasi all’interno della rivoluzione. L’u
scita di questa necessaria e originale gui
da va dunque salutata con entusiasmo.
Ma, come gli autori stessi hanno
avvertito, ha piuttosto l’aspetto di un
lavoro da completare, buttato giù con
eccessiva fretta e in cui troppa carne è
messa a cuocere. La prima sezione, ad
esempio, è una ripetizione sommaria
di quanto si trova in tutte le guide su
quel paese; è sommario il profilo sto
rico, che forse sarebbe stato meglio
sostituire con una breve storia della
cultura, e sono troppo parziali le de
scrizioni delle città dell’isola, ridotte a
quattro con un criterio forse troppo
soggettivo. Sono però molto utili gli
indirizzi e i numeri di telefono di mu
sei e altre istituzioni culturali La se
conda sezione risponde bene alle fina
lità della guida, con brevi e istruttive
sezioni su cinema, fotografia, musica,
santeria, sport, un agile panorama sui
viaggiatori illustri e un aggiornamento
sugli anni novanta. Decisamente godi
bili le ultime due sezioni, Profili e Ita
liani a Cuba. In quest’ultima parte
della guida gli autori hanno dato sfo
go ai loro gusti culturali e perfino ai
loro sentimenti, offrendo dei ritratti di
personalità dell’isola molto istruttivi e
piacevoli e lusingando il senso nazio
nale del viaggiatore italiano ricordan
do, fra le curiosità, molti connazionali
che a Cuba hanno vissuto o che la
hanno visitata lasciando un qualche
segno importante, da Meucci a Zavattini. Ma se, come mi auguro, vi saran
no altre edizioni di Cuba Cultura, vo
glio sperare che gli autori rivedano
con attenzione anche i numerosi erro
ri che vanno daH’omissione degli ac
centi all’uso di accenti sbagliati, fino
alla trascrizione errata di nomi. Po
trebbe sembrare una pignoleria, ma
poiché di una guida culturale si tratta,
esigere dagli autori una maggior cura
mi sembra doveroso; altrimenti do
vremmo continuare a rassegnarci a
leggere e a sentire, su tutti i giornali e
su tutte le televisioni, a proposito de
gli infelici contadini dell’America lati
na, che sono dei “campesinos”(!).
Alessandra Riccio
R ené V àzquez Diaz,
L ’isola dei
C undeam or, E rre e m m e e d iz io n i,
R o m a , 19 9 6 , pp. 3 1 7 , L. 2 4 .0 0 0 .
Questa piccola casa editrice, nota
soprattutto per il suo catalogo guevariano, ha attraversato recentemente
una seria crisi, inevitabile per chi in
tenda l’editoria come passione e badi
poco ai conti di cassa, adesso felice
mente in via di superamento. Tant’è
che per il 1998 si presenta con un
nuovo nome: Roberto Massari edito
re, e un nuovo indirizzo, essendosi
trasferita sul lago di Bolsena, lontano
dalla confusione metropolitana. Di
tutti questi trambusti ha forse sofferto
l’intrigante romanzo di Vàzquez Diaz,
un cubano amico di Cuba ma che da
anni vive in Svezia da dove tesse trame
di riavvicinamento fra gli intellettuali
dell’isola e quelli dell’esilio. E dico
che forse ne ha sofferto perché Cisoia
del Cundeamor , una sfacciata ed ec
cessiva ricostruzione della Miami dei
cubani, ricchi e poveri, onesti e depra
vati, arroganti e nostalgici, meritava, a
mio avviso, una migliore diffusione. Si
tratta di una narrazione dai ritmi in
calzanti non tanto nel dipanarsi della
trama, ma nella creazione di un clima
postmoderno e adorabilmente kitch
in cui si agitano personaggi esagerati,
degni di un fumetto pop e tuttavia
pieni di umanità e sentimenti. Anzi,
questi personaggi, quasi tutti critica
bili per la loro condotta etica -sono
trafficanti, spioni, prostitute, piccoli
mafiosi, corrotti d’ogni risma- affida
no la loro dignità all’assoluta priorità
che danno ai sentimenti, tanto che la
zia, il personaggio principale della sto
ria, che zia non è, riesce a costruire in
torno a sé un’improbabile famiglia
fatta di guardie del corpo e di adulte
re, di trovatelli e di loschi trafficanti,
uniti insieme dalla forza dei sentimen
ti (amore, gelosia, solitudine, affetto
ma soprattutto nostalgia) che sono
fonte di rispetto e di solidarietà negli
altri membri di quella strana comunità
che vive in una proprietà dal suggesti
vo nome di Isola del Cundeamor e da
quel fastoso pezzo di terra in cui la zia
ha avuto cura di piantare tutto il me
glio della vegetazione cubana, vivono
le loro vite agitate sognando sempre
ed ossessivamente la patria perduta,
ricreandone ostinatamente l’immagi
ne, dando le spalle a una Miami vizio135
sa di cui, però, sanno cavalcare a me
raviglia i difetti. Come pesci nell’ac
qua di una città quasi interamente do
minata dalla cubanità della maggior
parte dei suoi abitanti, la zia e suo ma
rito, lo scandinavo Hetkinen, dalla
roccaforte supersorvegliata della Isola
del Cundeamor, affrontano e mettono
in ginocchio le gang rivali, promuovo
no la carriera artistica del languido
scultore Nicotiano, tradito da Mireya,
adottano la matura e disperata Betty
Boop, ingaggiano, infine, un’epica
battaglia contro quelli della Transa
zione Cubano Americana. La conclu
sione è un trasferimento generale in
Spagna da dove sarà possibile investi
re capitali in joint venture con il go
verno cubano mentre i vari personag
gi si ricompattano intorno alla zia,
materna e protettrice come una pa
tria. (A.R.)
J o s é Pedro Diaz,
/ fu o c h i di
S ant'E lm o, G a lz e ra n o E d ito re , a c u ra
di R o s a M a ria G rillo , tra d u z io n e di
E lv ira F a liv e n e , C a s a lv e lin o , 1 9 9 7 , pp.
138, L. 1 8 .0 0 0 .
José Pedro Diaz è una affermata
personalità del mondo culturale uru
guaiano. Professore di Letteratura
Francese, diplomatico, perseguitato
dalla dittatura militare, è poeta, narra
tore e saggista. Il suo romanzo, I fuo
chi di Sant’Elmo (1964) ha ottenuto
un notevole successo ed è continuamente rieditato a Montevideo. Della
personalità dell’autore dà conto un
esaustivo saggio introduttivo di Rosa
Maria Grillo molto opportuno, a no
stro avviso, quando si introduce in
Italia uno scrittore del tutto scono
sciuto al lettore. E molto opportuna ci
pare l’iniziativa dell’editore Galzera
136
no che, dal suo rifugio nel lontano Ci
lento, presta una lodevole attenzione
ai temi dell’emigrazione che hanno se
gnato profondamente l’identità cultu
rale della sua regione. Il libro di José
Pedro è un omaggio, dichiarato e vo
luto, allo zio Domenico, fratello di sua
madre e nato fra le rupi e le sabbie di
Marina di Camerota. A questo zio
l’autore deve l’avergli acceso la fanta
sia e l’immaginazione, averlo fatto so
gnare, bambino, un incomparabile e
mitico paradiso, quello delle terre da
cui proviene la famiglia di sua madre,
Rosa D ’Onofrio. I racconti di pesca
con cui Domenico intrattiene il nipo
tino americano mentre intreccia le re
ti o prepara le esche in una cucina di
Montevideo trasformano la narrazio
ne in una epopea mitica, in cui il Me
diterraneo, con i suoi colori, i profumi
dei suoi frutti, i sapori dei suoi cibi,
emerge con tutta la sua carica leggen
daria. Una terra fantastica, abitata da
uomini eroici, da briganti misteriosi,
da pescecani mitici. La prima parte
del romanzo è costituita dalla rievoca
zione di quelle spiagge, dal risuonare
di quel mare così come lo zio lo rac
conta. Nella seconda parte l’autore,
ormai adulto e diplomatico in Belgio siamo negli anni cinquanta- intrapren
de il sospirato viaggio di conoscenza
verso la sognata Marina di Camarota
sul filo dei ricordi dei racconti dello
zio. E’ un viaggio arduo (lo è ancora ai
giorni nostri), un viaggio che allonta
na l’autore dalla civiltà e lo sprofonda
in un Sud distante e lontano dove,
però, la bellezza dei luoghi, gli squar
ci del mare fra gli olivi, l’eco dei rac
conti infantili, sostengono la tensione
dell’avvicinamento alla meta, del viag
gio tanto desiderato, fino all’arrivo al
le splendide sabbie di Marina di Ca
merota, al quieto daffare delle donne
che sciacquano le reti, all’incontro
con i paesani che lo condurranno dai
parenti superstiti. Arretratezza, vec
chiaia, miseria, piccoli rancori, la soli
tudine di chi è rimasto sognando l’A
merica che ha inghiottito fratelli e ma
riti: questo è il panorama umano che il
giovane diplomatico trova nella casa
dello zio Domenico e nel paese. Capi
re è difficile; adeguarsi, quasi impossi
bile. Ma c’è quella voce che non tace,
che continua a ripetere di gesta di bri
ganti, di imprese di pescatori corag
giosi, di un mare inenarrabile, della
perfezione della bellezza di quelle ter
re isolate e splendide. L’eredità dello
zio Domenico, un’eredità fatta di im
maginazione e nostalgia, di fantasia e
di bellezza, è restata intatta nella sen
sibilità dello scrittore ed è una eredità
di cui essere veramente grato a quel
l’emigrante che è riuscito a tramanda
re oltre oceano un patrimonio di epi
ca bellezza. Il libro è scritto come in
un sogno, a cavallo fra realtà, ricordo
e immaginazione; i piani narrativi si
sovrappongono con eleganti scivola
menti di tempo e di luogo e il linguag
gio ha la delicatezza che richiede il
maneggio dell’impalpabile tema della
nostalgia. Ed encomiabile ci pare il la
voro della traduttrice, Elvira Falivene,
che ha saputo lavorare con la stessa
delicatezza dell’autore sui rozzi dialo
ghi con i parenti come su pagine vera
mente epiche come quella della pesca
del pescecane.
(A.R.)
belle immagini della fotoreporter e
viaggiatrice Shobba, ci guidano con
decisione in un itinerario dell’isola al
femminile, tra passioni, cambiamenti,
condizioni difficili, amori e sogni.
Un mondo, il loro, dove si intrec
ciano strettamente la realtà storica di
Cuba, il suo divenire, la scoperta e la
conquista sofferta, ma sempre fatico
samente ed orgogliosamente confer
mata di dignità e valore.
In Donne a Cuba. Lettere creden
ziali, Alessandra Riccio e Soiedad
Cruz, presentano in poche, dense pa
gine, il vissuto di queste "vitalissime
donne", coraggiose e al tempo stesso
sognanti, forti dell’acquisizione defini
tiva della propria differenza.
Ognuna di loro si muove in una
realtà assai complessa, in una sorta di
continuo confronto, proprio perché
"questa donna è disposta a mettere
tutte le carte in tavola. Cuore, cervel
lo, passioni, ragioni, viscere ed estre
mità. A discutere tutto, a rivedere tut
to passo per passo. L’unica cosa che
non ammette, quale che sia il futuro
dell’isola, è l’assolutismo di coloro che
negano la meraviglia di aver toccato
l’impossibile”.
Assunta Mariottini
J o s é A ntonio Évora, Tom às
G u tié rre z A lea, C à te d ra /F ilm o te c a
E s p a n d a , M a d rid 1 9 9 6 , pp. 2 5 4 .
A lessand ra Riccio,
S o ie d a d C ru z
D onne a C uba. Lettere cre d e n zia li,
E d iz io n i d e lla B a tta g lia , P a le rm o ,
.1 9 9 7 , pp. 43 , L. 1 2 .0 0 0 .
E vero, non è facile raccontare Cuba.
Paquita, Norka, Estela, Soiedad e le
A quasi trent’anni dall’uscita del
film Memorias del subdesarrollo
(1968), sembra difficile credere che il
cineasta cubano Tomàs Gutiérrez
Alea (1928-1996) sia stato scoperto
solo di recente grazie al clamoroso
successo di Fragola e cioccolato e del
più recente Guantanamera. La sua
137
biografia, scritta da José Antonio
Évora, propone un dettagliato per
corso della vita e dell’opera del regi
sta cubano attraverso un collage di
suoi scritti e interviste: un viaggio
non solo nell’opera ma soprattutto
nel pensiero del “Titón” di Santiago
de Cuba. L’omaggio ad Alea rappre
senta un tentativo, come afferma lo
stesso Evora, di porre in discussione
il classico assioma secondo cui i ci
neasti esprimono «la loro visione del
mondo attraverso le immagini». In
realtà, la relazione che ebbe Alea con
queste, va ben oltre ciò che possono
suggerire termini quali drammaturgia
o linguaggio audiovisivo. Al centro
della sua creatività artistica sopravvi
ve sempre, anche se in forma latente,
una inquietudine che il regista espri
me verbalmente, ma che, per motivi
misteriosi, dev’essere espressa attra
verso mezzi audiovisivi, quasi come
se il suo cinema fosse espressione
simbolica di una incessante attività
intellettuale. Allo stesso tempo, la sua
costante pratica creatrice lo ha spinto
a una continua riflessione critica e au
tocritica che si è concretizzata nella
raccolta di saggi Dialéctica del espectador, pubblicata dall’lCAlC nel 1980
e tradotta in italiano in Teorie e prati
che del cinema cubano (Marsilio, Ve
nezia 1981). Un vero e proprio mani
festo del cinema latinoamericano. Il
‘narratore di film come Memorias del
subdesarrollo, il “cronista” di Hasta
cierto punto (1968), “L’amanuense”
di Cartas delparque (1988) - ammalia
ti da una affermazione di Zavattini
«usano la cinepresa come una stilografica».
Dopo cinque anni di lavoro, que
sto progetto, elaborato non solo da
Évora, ma anche da Ambrosio Fornet
e dallo stesso Alea, vede la luce. E ci
fa viaggiare nell’infanzia del regista a
138
Cuba, e poi in Italia con De Sica, Za
vattini, Rossellini e Visconti; raccon
tandoci quanto abbiano influito an
che registi francesi, quali Bunuel e
Godard.
Gli ultimi due capitoli, «Proyectos» e «Sobre la vida, la muerte y
otras boberias», costituiscono parte
integrante di una intervista che Alea
rilasciò ad Évora qualche anno fa. In
questa il cineasta cubano si racconta
sia come uomo che come artista ap
partenente ad una società socialista;
e dichiara che il suo è un cinema di
sintesi e di rivelazione più che di fin
zione, dal momento che, con la sola
finzione si possono raccontare enor
mi “bugie”.
Elina Patanè
Mario Paoletti,
E l a g u a fie s ta s .
M a rio B e n e d e tti la bio g ra fia ,
A lfa g u a ra , M a d rid 1 9 9 6 , p p . 2 6 6 .
«La fiesta no perdona el aguafie
stas» con questa epigrafe tratta dalla
raccolta di racconti di Mario Bene
detti Despistes y franquezas (1990),
l ’argentino Paoletti ci introduce in
questa monografia che, sebbene cor
redata di una esauriente bibliografia
e di utili strumenti di ricerca, assume
spesso i toni di una amena narrazio
ne. Corredata, altresì, di un vasto re
pertorio fotografico, coinvolge il let
tore non tralasciando però di esami
nare con rigore aspetti della produ
zione letteraria benedettiana e di da
re uno sguardo al suo impegno socia
le e politico. Il tutto al fine di traccia
re la figura di questo singolare scrit
tore, rivelandoci i lati più intimi che
l’hanno portato verso successi e in
successi, exilios e desexilios.
In quattordici capitoli Paoletti ri-
costruisce la vita di Benedetti percor
rendo la sua produzione letteraria sin
dagli esordi e ricercando nella vita
reale quel mondo letterario per poi ri
baltare il tutto nell’epilogo, allorché
riferisce la sua visita allo scrittore, av
venuta a Montevideo nel 1994. Pro
prio lì, in quella città che a fatto da
sfondo a tante opere di Benedetti,
Paoletti riconosce quelle strade, quei
palazzi e quei personaggi protagonisti
di tante pagine letterarie, che sembra
no continuare a vivere al di là dell’ar
te. Del resto, la produzione artistica
di questo giornalista, poeta e roman
ziere, ha sempre abituato i suoi lettori
a risalire, attraverso i personaggi e i
fatti della finzione, a una realtà occul
ta e al tempo stesso assai tangibile:
quella di un paese frustrato dai suoi
fallimenti, che riesce a sopravvivere in
attesa di un cambiamento. Un paese
che riesce a far sentire la sua voce at
traverso le pagine di Benedetti.
Elina Patanè
Amir Hamed,
Troya blanda,
M o n te v id e o , F in d e S ig lo , 1 9 9 6 , pp.
5 6 3 (col. D e le tra s ).
Si esita a definire romanzo questo
corposo lavoro dell’uruguaiano Amir
Hamed, dal titolo intrigante di Troya
blanda, Troia morbida. Lo sconcerto
del lettore tarda a dissiparsi alla lettura
di una prosa vulcanica, concentrata e al
tempo stesso dilatata in strutture narra
tive ampie e complesse, in un’orche
strazione laboriosa ma in definitiva ap
prezzabile di elementi diversi (a volte
disparati), che rivelano una solida ca
pacità creativa e, viene da dire, combi
natoria di questo vitalissimo scrittore.
«Era ese tiempo no tan lejano en
que el Cimerò languidecia sitiado por
dentro y por fuera de sus ciudades»:
fin dall’attacco, Hamed sorprende il
lettore, lo guida per percorsi incon
sueti ma reali della storia del XIX° se
colo, sostanzialmente dalla vigilia del
la grande conflagrazione europea del
1848 al crepuscolo del secolo, periodo
che corrisponde all’incirca con quello
che intercorre tra l’inizio dell’assedio
di Montevideo (1843-51) e l’assesta
mento degli equilibri nel bacino del
Piata dopo la guerra della Triplice Al
leanza (Argentina, Brasile e Uruguay)
contro il Paraguay (1865-70).
Il punto di vista prevalente è quello
di Alessandro Giuseppe Floreale Co
lonna, conte Waleski. La sua figura
riassume per Hamed le principali ca
ratteristiche del secolo: figlio di una
nobile polacca e di Napoleone Bona
parte, nipote di Cagliostro, nato ad
Alessandria d ’Egitto, compagno di
collegio del futuro Pio IX, inviato nel
conflitto platense per conto del re di
Francia Luigi Filippo prima, di suo
cugino Napoleone III in séguito, dota
to di una corte di spiriti e doppi che
gli consentono di avere notizie da luo
ghi lontani assai prima degli altri, in
contra e dialoga -nel corso della sua
lunga vita- con i protagonisti del seco
lo, che sono i deuteragonisti del ro
manzo (o i suoi personaggi, se si con
sidera Waleski il demiurgo: talvolta è
sua la voce narrante). Ecco allora
comparire Marx, Darwin, Thiers, Pio
IX, il cardinale Antonelli, Mary Shel
ley, Garibaldi, Florence Nightingale,
Mazzini, Napoleone III, Bismarck,
Nietzsche, Schliemann tra gli altri eu
ropei. Le vicende platensi, sempre in
crociate con quelle europee, vedono
agire in una quotidianità talvolta macchiettistica personaggi altrimenti con
sacrati dalla retorica come Juan Ma
nuel Rosas, Domingo Faustino Sarmiento, Bartolomé Mitre, Fructuoso
139
Rivera, Manuel Oribe, Melchor Pa
checo y Obes, Venancio Flores, José
Ascasubi, il presidente paraguaiano
Francisco Solano Lopez.
Menzione a parte meritano i france
si emigrati in Uruguay, tra i quali spic
ca l’incaricato di affari Ducasse, primo
daguerrotipista di Montevideo e padre
dello sfortunato poeta Isidore Ducasse
(in arte Comte de Lautréamont, autore
dei Chants de Maldoror). Con una ope
razione di velato recupero, Flamed ci
ta i nomi di altri miliziani francesi che
contribuirono alla difesa della città: in
particolare ecco distinguersi un tale
Laforgue e il banchiere Supervielle,
cioè antenati degli altri due celebri
poeti franco-uruguaiani, Jules Lafor
gue e Jules Supervielle.
A questo proposito va osservato l’a
spetto di “omaggio letterario e artisti
co” del libro, con la presenza di Victor
Flugo, di Zola (attraverso l’amante di
Waleski, che si chiama Nanà), le allu
sioni a Verdi e a Mascagni, ad Alexan
dre Dumas padre (autore del libro
Montévidéo ou la Nouvelle Troie, che
rese celebre in Europa le vicende del
l’assedio della capitale uruguaiana),
suo figlio omonimo, che presenta a Wa
leski una pallida signora sdraiata in un
letto di camelie... Quest’allusione, co
me altri riferimenti, ammiccamenti al
lettore, sono per lo più gratificanti,
creano una connivenza e contribuisco
no a precisare il contesto storico in cui
si muove la trama, ma talvolta risultano
insistenti, tanto da sminuirne lo smalto.
Ma alcune di queste digressioni suscita
no ilarità, come là dove si legge, a con
clusione del riassunto dei conflitti na
zionalisti del 1848, della sconfitta di
“dento cuatro capellanes rumanos que
-para combatir y pacificar a los vampiros con bombardas de ajo encadenadas
a crucifijos de hierro bendito- se inmolaron en la noche transilvana” (p. 409).
140
Troviamo peraltro una notevole ca
pacità di introdurre elementi parodi
stici in un discorso serio, in descrizioni
quasi “da manuale” di avvenimenti
storici, talvolta drammatici; caratteri
stica che ingegnosamente riduce in
burla quella che nei libri di storia sia
mo abituati a considerare “l’importan
te posta in gioco” in questo o quel con
flitto. Nel testo trovano spazio anche
numerosi elementi fantastici, sopran
naturali, come gli spiritelli che Waleski
si porta dietro, capricciosi ma simpati
ci, oppure il nipote stesso di Pio IX,
Gioacchino, che funge da ricevitore
radio delle emanazioni magnetiche
provenienti da Montevideo, molti anni
prima della nascita di Marconi.
L’autore manipola la lingua, tanto
da creare in certi passaggi un clima
plurilinguistico, specialmente con l’i
taliano, o meglio il cocoliche, la parla
ta degli immigrati italiani, che mesco
la elementi dei dialetti di origine con
la lingua del Paese‘ di accoglienza.
Questo fa parte del gusto di Hamed
di giocare, di giocare con tutto, con i
registri linguistici, con i dati della sto
ria facendo accostamenti che qualcu
no potrebbe anche giudicare irrive
renti, ma che in realtà, con le struttu
re narrative, rese in questo^libro ap
parentemente labirintiche ma forse in
realtà casuali.
In qualche modo, l’opera tende a
sottolineare l’importanza nodale del
conflitto rioplatense e in generale della
regione nell’evoluzione dei rapporti di
forza tra le potenze europee nel corso
dei decenni centrali del XIX° secolo.
Questo assunto viene dichiarato più di
un volta, ma alla fine poco rimane a di
mostrarlo, se non con le conversazioni
immaginarie di alcuni statisti. Nono
stante qualche lungaggine, il dipanarsi
delle vicende europee e platensi secon
do questo particolare punto di vista ri-
sulta attraente. Ci si può anche interro
gare su quanti riferimenti vengano col
ti da lettori che non abbiano nozioni
circa i fatti rivisitati, ma questa è una
questione sempre aperta nei romanzi
storici, che non ne ha mai impedito la
fruizione. Allo stesso modo, ha poca
importanza la discussione su quanto
siano manipolati i dati storici, dato che
non si tratta di un libro di storia: tutt’al
più (e questo è un pregio) un libro che
ridà vita e rilievo a un periodo abitual
mente ingessato nelle celebrazioni del
le gesta di eroi, un libro che invita a ri
considerare i busti e le statue equestri
come persone in carne e ossa. Le vicen
de si snodano attraverso l’occhio ironi
co di un narratore che oscilla da quello
onnisciente del romanzo realista, al
punto di vista disincantato di Waleski:
prospettive sempre pronte a registrare
le umane debolezze delle persone che
agiscono secondo la propria indole.
Un romanzo, quindi, o qualcosa di
analogo, una summa di dati, reali e
fantastici, su un periodo di grandi rivolgimenti europei e platensi, acco
munati qui dalla penna di un debitore
di Umberto Eco.
Diego Simini
D iego Rivera,
E c rits s u r I art.
s e le z io n e e tra d u z io n e d e i te s ti di
C a th e rin e B a lle s te ro , N e u c h à te l, Id e s
e t c a le n d e s , 19 96 .
Diego Rivera, Ecrits sur l’art (Neu
chàtel, Ides et calendes, 1996) fornisce
un considerevole contributo alla pres
soché inesistente documentazione sul
l’artista messicano. Se si escludono in
fatti i pochi cataloghi, resoconto di ma
nifestazioni che hanno avuto per tema
l’America latina, non esistono, in Euro
pa, molti studi specifici sul pittore
nonostante abbia lavorato per anni a
Parigi b Catherine Ballestero ha il me
rito di aver tradotto in lingua francese
ed esemplarmente riunito alcuni tra i
più significativi articoli pubblicati da
Rivera tra il 1916 ed il ‘49 in varie rivi
ste messicane e newyorkesi 123*.In poche
pagine l’autore, oltre a sintetizzare pro
getti ed ideologie, narra anche, tramite
questi, il vissuto del proprio paese.
L’arte a la storia sono infatti inscin
dibili in un’opera che è nata all’inter
no di un travagliato contesto sociale.
In merito a ciò, Rivera scrive nel 1933:
“...la funzione dell’artista nella rivolu
zione non è quella di un compagno di
viaggio, né di un simpatizzante, né di
un servitore, ma di un soldato. L’arte è
l’alimento della rivoluzione” 5.
Proprio l’equivalenza tra lo scopo
della pittura ed il ruolo politico da
questa intrapreso, rende lo stile degli
articoli contenuti nella raccolta entu
siasmante. Ovviamente occorre giudi
care le ricerche estetiche di Rivera in
una particolare prospettiva storica, en
tro i limiti che ad essa appartengono.
1 L’unico testo completo sull’artista è Rivera: cincuenta anos de su labor artistico, Mexico, In
stitute Nacional de Bellas Artes. 1951. Sugli anni parigini di Rivera si veda Ramon Favela, Diego
Rivera, the cubist years, Phoenix Art Museum, 1984. Per la letteratura italiana segnaliam o i con
tributi di Mario de Micheli, Diego Rivera, in / Maestri della Pittura, Milano-Barcellona, 1973 e del
lo stesso autore il saggio Siqueiros e il muralismo nel catalogo (Ediz. Guaraldi) dell’om onima mo
stra tenutasi a Firenze nel 1976-77.
2 Tra cui: “Azulejos”, “El arquitecto”, “Mexican folkways”, “Survey graphics”, “Arts”, “Creative art” .
3 In Para qué sirve el arte? conferenza tenuta da Rivera alla New W orker’s School e apparsa
sotto il titolo Art and workers, in “W orker’s age” , New York, 15 giugno 1933, tradotta in Diego Ri
vera: écrits s u ri ‘art, Neuchàtel, Ides et calendes, 1996, p. 151.
141
Tutto comincia quando nel 1910
un’insurrezione rovescia la dittatura
di Porfirio Diaz facendo emergere un
movimento, espressione delle classi
popolari, che non solo si propone di
cambiare la struttura sociale e politica
del Messico 4, puntando sull’indipen
denza economica e sull’industrializza
zione, ma avvia anche un profondo
rinnovamento culturale. Tale rinascita
si rivela attraverso una duplice strate
gia: il radicamento della creazione
artistica della terra, nella riscoperta
della tradizione popolare e precolom
biana, e la rottura dell’isolamento
provocato dalla pittura accademica,
con l’apertura a correnti universali.
Non si tratta quindi di un semplice
rinnovamento estetico ma di un’“agitazione” artistica in seno ad un cam
biamento radicale teso ad inglobare
l’intera società.
Di qui l’importanza della pittura
murale su edifici pubblici, un vero e
proprio escamotage per svincolare
l’arte dal circuito borghese della colle
zione privata, del museo e per invitar
la a partecipare alla vita.
Rivera, come Orozco e Siqueiros, è
uno dei maggiori esponenti di tale
movimento spontaneo e appassionan
te, per mezzo del quale artisti e spet
tatori si sono confrontati sul processo
storico in atto.
Tramite i frammenti biografici, che
qua e là si rintracciano nella raccolta
della Ballestero, si chiarisce il cammino
compiuto da Rivera in tale direzione.
Dopo un soggiorno a Parigi tra il
1912 ed il ‘21, durante il quale l’artista
si lega a Picasso, divenendone allievo5,
stanco del virtuosismo di cui era vitti
ma il tardo cubismo6, incomincia a de
dicarsi alla pittura figurativa ispiran
dosi piuttosto a Cézanne.
Grazie ad un viaggio in Italia, nel
1921 scopre quella antica solidità pla
stica e strutturale, così vicina alle pos
senti architetture corporee precolom
biane, e ritorna in Messico, nel luglio
dello stesso anno, con grandi proposi
ti di ricerca.
Solo il primo scritto contenuto in
Diego Rivera: écrits sur l’art è ancora
intriso di espressioni cubiste. Si tratta
di una lettera indirizzata all’amico Ma
rius de Zaya e risale al 1916. Qui, seb
bene Rivera si serva di alcuni stilemi
tipici dell’avanguardia parigina da lui
frequentata, vi si denotano già, seppur
in germe, i valori di un’estetica più
personale. Gli articoli successivi, re
datti in Messico, rivelano al contrario
un personaggio già maturo e deciso
nel suo percorso.
Fin dal 1921 Rivera è ben cosciente
della cosiddetta rinascita e si fa prota
gonista dell’affermazione della rivolu
zione spirituale messicana, comincian
do a collaborare alle manifestazioni e
alle pubblicazioni indette da E1 Stridentismo, un movimento teso alla sop-
4 Mi riferisco alla riforma agraria, all’affermazione dei diritti degli operai, alla nazionalizzazione
delle risorse del sottosuolo, delle ferrovie, del petrolio e dell’energia elettrica.
5 In Ramon Favela, Diego Rivera, the cubist years, op. cit., si trova un particolare studio sui
rapporti negativi che Rivera stabilisce, a partire dal 1917 con il gruppo cubista. In particolare è ri
portata una lettera inviata da Juan Gris a Rosemberg in cui l’artista spagnolo lamenta la slealtà
del pittore messicano che “nel ‘13 imita Le Fauconnier, nel ‘14 Metzinger, nel ‘16 Gris e Picasso
ed in ultimo Cézanne”.
6Diego Rivera: écrits sur l'art, p. 44, da From the note’s papers of mexicain painter in “Arts” ,
New York, voi. 7, n. 1, pp. 22-23.
142
pressione di ogni elemento straniero
non naturalizzato'.
Attento al pericolo della colonizza
zione europea ed in particolare dell’a
dattamento a fenomeni che l’artista in
dividua come Rodinismo e Sottoim
pressionismo78, soprattutto nei testi de
gli anni ‘20, invita allo studio dell’Art
popular, unica espressione vitale e in
contaminata della cultura indigena.
Caratterizzata da un’esplosione di for
ma e colore, quest’arte, pittura per lo
più anonima, “vera sopravvivenza del
genio originario attraverso la spessa
scorza delle corruzioni europee e nor
damericane”9, vive come corrente
spontanea parallela all’accademismo in
corso. Rimasta integra dalla consuma
zione e contaminazione borghese, l’Ar
te popular (in realtà produzione metic
cia, risultato originale di complesse in
fluenze stratificate) è, per Rivera, il ri
tratto fedele di un popolo “combattu
to, perseguitato sotto il peso terribile
di una classe borghese improduttiva,
parassita e xenofila”101. L’artista ne esal
ta la bellezza della plastica e l’essenza
della tematica, ovvero quella particola
re mescolanza fra tragedia e ironia,
quella sorta di stato dionisiaco avverti
bile in ciò che costituisce da sempre
l’emblema del Messico: la festa.
Purtroppo solo pochi esemplari
d ’Art Popular sono sopravvissuti alle
successive distruzioni e tra questi Ri
vera ricorda le pale e le pulcherias, de
corazioni di porte e facciate n .
Questo tipo di espressione, oltre a
quella precoloniale, deve servire agli
artisti della rivoluzione da ispirazione
per fondare le basi di una nuova este
tica indoamericana. Occorre costruire
l’opera, come sostiene Rivera, in ac
cordo con la costituzione fisica e spi
rituale della terra e della razza che la
produce.
Sotto il governo di Obregon, grazie
al sostegno di José Vasconcelos, dive
nuto nel ’21 ministro dell’Educazio
ne1213,nasce la pittura murale, una vera
e propria invenzione di una rappre
sentazione simbolica accessibile a tut
ti15. Nel ruolo di conciliatore tra la po
litica e l’evocazione di un passato glo
rioso e mitico, il muralismo ha avuto la
funzione di incontrare l’adesione del
popolo e sostenere la rivoluzione.
La prima commissione di Rivera so
no i murales nell’Anfiteatro de la
Escuela Preparatoria. Realizzata con
la tecnica dell’encausto, un procedi
mento duraturo adottato dall’artista
dopo anni di studio, l’opera rappre
senta la creazione ed il ciclo della vita
7 Vd. Luis Mario Schneider El stridentismo: una literatura de la strategia, Mexico, Ediciones de
Bellas Artes, 1970, oppure Serge Fachereau, Le stridentisme, in cat. Art d'Amerique Latine 191168, Parigi, Centre Georges Pompidou, 12 novembre 1992/11 gennaio 1993, pp. 70-74.
8 In Diego Rivera: écrits sur I ‘art, p. 14 da Esposició nacional de Bellas artes, in “Azulejos”,
Mexico, t.l, n. 3, ottobre 1921, pp. 22-25.
9 In Diego Rivera: écrits sur i'art, p. 59 da Los Retablos, “Mexican Folkways” , Mexico, t.l, n. 3,
ottobre/novembre 1925, pp. 7-12.
10 ibidem, p. 64.
11 In Diego Rivera: écrits sur I ‘art p. 66 da La pintura de pulquerias in “Mexican Folkways”,
Mexico, voi. Il, n. 7, giugno/luglio, 1926, pp. 6-15.
12 II Ministero dell’Educazione fu ristabilito proprio nel ‘21 dopo che era stato eliminato dalla Co
stituzione del ‘ 17.
13 La scelta della tecnica non è affatto casuale, infatti l’affresco è l’arte collettiva per eccellenza
ed è popolare perché praticata fin dall’antichità soprattutto in edifici pubblici.
143
e allude alle tre razze presenti in Mes
sico (autoctono, castigliano e metic
cio) e al processo storico.
Proprio per il loro scopo i murales
hanno sempre per tema il Messico, le
sue pratiche culturali, religiose e mai
esempi concettuali, come la filosofia o
altro tipo di astrazioni. Come avveniva
nell’antichità, tali pitture devono ave
re una carica simbolica, una policro
mia stilizzata e un disegno ben defini
to. In quest’ottica Rivera crea nel ‘25
gli affreschi della Escuela Nacional de
Agricultura de Chapingo, considerato
il suo capolavoro.
Gli scritti riuniti dalla Ballestero ol
tre a sottolineare l’interesse stilistico e
tematico della nuova espressione sve
lano la coerenza di un progetto che as
somma valori estetici e politici. Un’ul
teriore conferma è l’istituzione di un
Sindacato degli Artisti di cui Rivera si
fa promotore nel ‘22, al fine di dirige
re tutte le energie fino ad allora di
sperse, per eliminare l’individualismo
della pittura da cavalletto e cercare di
ricreare quella specie di cenacolo cul
turale che in altri tempi ha dato stimo
lo alla vitalità di alcuni popoli.
Tecnici, operai, pittori, scultori, mili
tanti del Partito comunista si devono
impegnare ad unire gli interessi artistici
a quelli del proletariato rivoluzionario.
All’interno del Sindacato, ognuno si
può esprimere liberamente, senza limiti
stilistici o tecnici, ma nell’obbedienza a
un disegno generale di stampo etico
Non sono certo mancati attacchi
reazionari alla produzione dei murales,
e lo scontro con l’ottusità borghese e
capitalista si fa più infuocato quando
Rivera realizza affreschi negli Stati
Uniti. Dopo aver, ricevuto varie com
missioni a Detroit, l’artista decide di
assumere gli ingaggi, sospinto dalla ne
cessità di sondare l’eventuale reazione
del proletariato di un paese industrializzato, ben diverso da quello presente
nel Messico sottosviluppato. In effetti
l’utilità ed il valore dei murales si con
ferma nel momento in cui, in seguito
alla reazione conservatrice del Rockfeller Center che attua la distruzione del
lavoro di Rivera, gli studenti e i piccoli
lavoratori si sollevano in una protesta
in difesa dell’operato di Rivera 14.
Gli articoli scelti dalla Ballestero
non pongono l’accento solo sull’atti
vità artista e politica dell’autore, ma
anche sull’importanza della tradizione
messicana, sullo scopo e sul significato
dei murales ed in generale su quello di
un’arte impegnata ideologicamente.
Oltre alla forza, alla chiarezza delle ri
flessioni ideologiche e all’accanita di
fesa di alcuni principi, tutti elementi
costitutivi del progetto estetico, gli ar
ticoli di Rivera mostrano, inoltre, una
particolare attenzione rivolta non solo
ad artisti del passato quali ad esempio
José Guadalupe Posada, ma anche al
l’originalità di opere a lui contempora
nee quali quelle di Edward Weston,
Tina Modotti e Frida Khalo della qua
le precisa l’autonomia creativa.
In conclusione gli scritti riuniti in
Diego Rivera: écrits sur l’art contribui
scono a tracciare un ritratto esaustivo
di un pittore amante della forma, del
la bellezza armonica del colore, di
un’arte rappresentativa della vita. La
politica editoriale di quest’edizione
che ha privato i testi del confronto con
gli originali e non ha previsto un’in
troduzione di carattere storico ha fini
to col penalizzare il risultato del volu
me. Sebbene non si possa fare a meno
di avvertire tali mancanze, il lavoro
14
In Diego Rivera: écrits sur l ’art, p. 144 da El caso del Rockfeller Center in “ Revista de revistas” , Mexico, X~ll, n. 1189, 28 febbraio 1933.
144
della Ballestero risulta pregevole an
che perché, oltre a facilitare i futuri
studi su Rivera, impone una riflessione
su una querelle di vecchia data, ma
pur sempre in auge: l ’arte deve essere
culto dell’egocentrismo individuale,
una moda, frutto di un gusto esclusivo
ed elitario? O deve soddisfare i biso
gni spirituali della collettività e, quin
di, farsi lungimirante interprete delle
necessità di un’epoca? Rivera rispon
derebbe che il fine dell’arte è quello di
manifestare l”’essenza umana” attra
verso un’espressione leale e libera.
Annalisa Rimmaudo
Daniel Pereyra,
D e l M o n ca d a a i
C hiapas - H isto ri a de la iu ch a a rm a d a
en A m é rica Latina, L o s L ib ro s d e la
C a ta ra ta , M a d rid 1 9 9 5 (s e c o n d a
E d iz io n e ), pp. 2 5 4 , E sp. 1 .6 1 5 .
A quattro anni dal primo di gen
naio del 1994, che impone all’atten
zione le lotte delle popolazioni del
Sud del Messico, supposte come un’a
nomalia anacronistica in un mondo
che si vorrebbe pacificato dal neolibe
rismo, il saggio dell’argentino Daniel
Pereyra individua al contrario un filo
rosso che permette di tracciare un
quadro sistematico ed una continuità
delle molteplici esperienze guerrigliere latinoamericane dall’indomani del
trionfo della Rivoluzione a Cuba.
L’evocativo titolo, Del Moncada al
Chiapas, non impedisce di partire dagli
antecedenti delle lotte armate contem
poranee, partendo da Tupac Amaru
per giungere alla rivoluzione boliviana
del 1952. Il saggio propone una tratta
zione schematica e sintetica che come
tale non può non avere i difetti della
stringatezza ma che allo stesso tempo fa
del saggio di Pereyra, un indubbio stru
mento di riferimento per il ricercatore
e di orientamento per il lettore. Il lavo
ro, strutturato in una parte introduttiva
e sei capitoli, si caratterizza infatti per
una serie di paragrafi brevi ognuno dei
quali focalizza un argomento specifico,
in genere un movimento o gruppo ar
mato, ben identificato dal titolo. Dedi
cato ai desaparecidos ed introdotto
non tanto da Lòwy quanto dai versi di
Si dulcemente di Juan Gelman (cada
compatterò tenia un pedazo de sol/ [...]/
que le iluminaha la cara/ [...]/y lo bacia
volar, volar, volar), il saggio si presenta
di una esemplare linearità e facilità di
utilizzo che fa passare oltre la maniera
a volte eccessivamente succinta di trat
tare questioni complesse e tanto diver
se tra quelle succedutesi in un intero
continente in quattro decadi pur nel
l’ambizioso progetto di centrare alme
no un’esaustività enunciativa.
L’Introduzione è dedicata ad una
breve analisi teorica, appena una quin
dicina di pagine, suddivisa anche que
sta in ben undici paragrafi, sulla logica
sociale e politica che ha portato allo
svilupparsi dei movimenti di liberazio
ne in America latina. E’ la parte nella
quale forse un postulato teorico più
solido sarebbe stato necessario e più si
risente della scelta schematica del sag
gio. Nonostante ciò anche questa par
te può essere buon riferimento ad un
pubblico non specialista.
Si giunge cosi al saggio vero e pro
prio. Si inizia con gli antecedenti che si
fanno risalire alla lotta armata prima del
la Rivoluzione Cubana riepilogando i
precedenti ed i modelli. Si tratteggiano
cosi la ribellione di Tupac Amaru della
fine del XVIII secolo, le guerre di Indi
pendenza, il movimento Sandinista, le
rivoluzioni messicana, salvadorena e bo
liviana nonché alcuni modelli esterni
quali quello yugoslavo, cinese, vietnami
ta, algerino per approdare allo spartiac145
que individuato nella rivoluzione cuba
na e nella figura di Ernesto Guevara, ri
percorrendo i percorsi principali che
hanno portato al trionfo della Rivoluzio
ne Cubana. Introduzione e primi due
capitoli occupano in tutto 60 pagine.
E solo a questo punto che si entra
nei vivo. La storia della lotta armata
in America latina viene suddivisa in
tre grandi sezioni; il Sudamerica dal
1950 al 1979, l’America Centrale nel
lo stesso periodo e le esperienze dal
l’indomani dell’ingresso sandinista a
Managua al rivelarsi dell’insurrezione
in Chiapas. In 180 pagine intense ven
gono analizzati oltre 100 gruppi
guerriglieri. Pereyra non si propone
di fornire un vero e proprio apparato
statistico, del tipo per intendersi di
quello fornito per l’Italia dal Progetto
Memoria di Sensibili alle foglie, ma si
ripropone di fornire i dati fondamen
tali su gruppi tanto diversi per collo
cazione storica, geografica, politica,
sociale, così come per durata tempo
rale, elementi coinvolti ed incidenza
sulla realtà nazionale nella quale agi
scono. L’autore argentino fornisce, ol
tre ad una serie di importanti riferi
menti a saggi e memorie che sarebbe
ro stati anche più utili se riuniti in una
146
organica bibliografia, una cataloga
zione ben organizzata dei vari movi
menti di liberazione, gruppi ma anche
gruppuscoli, sintomo di un notevole
frazionismo, in una successione di si
gle nella quale infine non è poi così
difficile orientarsi.
Tra movimenti conosciuti ed impor
tanti ma molto diversi tra loro, Tupamaros uruguayani, Montoneros argen
tini, FARC colombiane, URNG guate
malteche, Sendero Luminoso o il Mir
cileno trovano spazio gruppi minori dei
quali si ha notizia attraverso memorie
raccolte dallo stesso Pereyra. Nei soli
capitoli dal 1950 al 7 9 il saggio racco
glie notizia di 20 gruppi diversi in Ar
gentina, 18 in Brasile, 13 in Messico
laddove nei capitoli dedicati al Suda
merica l’autore si concentra sulle sole
organizzazioni mentre in quelli sulla
realtà centroamericana fornisce una se
rie di ulteriori dati sull’evoluzione poli
tica di quei paesi. Il saggio si conclude
con un breve capitolo dedicato al Chia
pas che per tempi e spazi nulla aggiun
ge ma che fa da chiosa e giustificazione
ideologica ad un lavoro del quali augu
rarsi che vada in porto la ventilata pub
blicazione in Italia.
Gennaro Carotenuto