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LATINOAMERICA_66_1998

INDICE: Garzia Aldo, Il Papa a Cuba, 3-9. Ramos Regidor José, Teologia della liberazione: una sfida per il Nord, 11-23. Ceci Lucia, La Chiesa in America latina negli ultimi trent'anni, 25-36. Manuzzato Nicoletta (a cura di), Massacro Acteal, 37-40. Símini Diego, Cuba: un sistema economico efficiente e umano. Intervista a Carlos Tablada Pérez, 41-45. Dossier / Gli spiriti dell'Africa nel Nuovo Mondo, a cura di Mariella Moresco Fornasier, Moresco Fornasier Mariella, La Grande Attraversata, 47-52. Hurton Laënnec, Moresco Fornasier Mariella, Uomini e spiriti ad Haiti, 53-58. Moresco Fornasier Mariella, Culti religiosi nell'Occidente cubano: la "Regla de Ocha" e le società segrete Abakuá, 59-72. Moresco Fornasier Mariella, Il Palo Monte e lo spiritismo nell'Oriente cubano, 73-81. Barbára Rosamaria Susanna, Quando gli déi danzano. La danza e la musica nel candomblé di Bahia, 83-98. Manuzzato Nicoletta, Il sacerdote e il giaguaro. A colloquio con Román Piña Chan, 99-102. Patané Elina, Donne, streghe, angeli, nella marea ciclica di Arenas, 103-110. Culture indigene Jossa Emanuela, Le prospettive di liberazione indigena, 111-123. Moresco Fornasier Mariella, Autonomia indigena e diritti di cittadinanza, 123-127. Recensioni e schede, 129-146. Il fascicolo è illustrato da poster tratti da Il manifesto dell'Ospaal, organizzazione nata nel 1996 per la solidarietà tra i popoli dell'Africa, Asia e America latina (edizioni Il Papiro, Milano, 1997). In copertina: Rolando Cordoba, offset, 1979.

LATINOAMERICA analisi testi dibattiti Quadrimestrale n. 66 Dossier: Gli spiriti dell’Africa nel Nuovo Mondo / a cura di Mariella Moresco Fornasier L Ceci / La Chiesa in America latina negli ultimi trent’anni A. Garzia / Il Papa a Cuba N. Manuzzato / Il sacerdote e il giaguaro Marcos / Massacro Acteal E. Patanè / Donne, streghe, angeli nella marea ciclica di Arenas J. Ramos Regidor / Teologia della liberazione: una sfida per il Nord D. Simini / Economia cubana. Intervista a Carlos Tablada Culture indigene / E. Jossa, M. Moresco Fornasier Anno XIX, n. 66 gennaio-aprile 1998 cp. 64091 00100 Roma Tel. 807.37.42 - 807.21.97 Comitato di direzione Mauro Castagnaro, Aldo Garzia, Bruna Gobbi, Nicoletta Manuzzato, Antonio Melis, Mariella Moresco Fornasier, Anonio Moscato, Manuel Pla­ na, Daniele Pompejano, José Rhi Sausi, Alessandra Riccio, Enzo Santarelli, Massimo Squillacciotti, Maria Rosaria Stabili, Angelo Trento. 3 11 José Ramos Regidor Teologia della liberazione: una sfida per il Nord 25 Lucia Ceci La chiesa in America latina negli ultimi trent’anni 37 Massacro Acteal a cura di Nicoletta Manuzzato 41 a cura di Mariella Moresco Fornasier 47 Mariella Moresco Fornasier La Grande Attraversata 53 Laennec Hurt on-Mariella Moresco Fornasier Uomini e spiriti ad Haiti Direttore responsabile Alessandra Riccio La rivista non assume la re­ sponsabilità delle opinioni espresse negli articoli firmati. In copertina: Rolando Cordoba, offset, 1979. Sped. abb. post. gr. IV, 70% Autorizz. del trib. di Roma n. 18142 del 6-6-1980 Stampa: Salemi Pro. Edit. Via Pianell, 26 Diego Sitnini Cuba: un sistema economico efficiente e umano Intervista a Carlos Tablada Pérez DOSSIER / GLI SPIRITI DELL’AFRICA NEL NUOVO M ONDO Redazione Bruna Gobbi, Enzo Santarel­ li, Massimo Squillacciotti, Maria Rosaria Stabili, Angelo Trento. Aldo Garzia II Papa a Cuba 59 73 Mariella Moresco Fornasier Culti religiosi nell’Occidente cubano: la Regia de Ocha e le società segrete Abakua Mariella Moresco Fornasier H Palo Monte e lo spiritismo nell’Oriente cubano 83 Rosamaria Susanna Barbara Quando gli dei danzano . 99 II sacerdote e il giaguaro Nicoletta Manuzzato Chiuso in tipografia il 21-2-1998 a colloquio con Roman Pina Chan 103 Elina Patané Donne, streghe, angeli, nella marea ciclica di Arenas CULTURE INDIGENE Emanuela Jossa 111 Le prospettive di liberazione indigena 124 Mariella Moresco Fornasier Autonomia indigena i diritti di cittadinanza 129 RECENSIONI E SCHEDE Stabili, Il sentimento aristocratico: élites cilene al­ lo specchio (1860-1969) (A. Trento) - TarozziVecchi (a cura di), Partenze-Ritorni: italiani in America latina (A. Trento) - Belli, Waslala. Me­ moriale dal futuro (E. Patané) - Fleites-Garzia, Cuba Cultura. Viaggio nell’identità di un’isola (A. Riccio) - Vàzquez Diaz, Lisola del Cundeamor (A. Riccio) - Diaz, I fuochi di Sant’Elmo, a cura di Rosa Maria Grillo (A. Riccio) - A. Riccio, S. Cruz, Donne a Cuba. Lettere credenziali (A. Mariottini) - Evora, Tomàs Gutiérrez Alea (E. Patané) - Paoletti, El aguafiestas. Mario Bene­ detti la biografia (E. Patané) - Amir Hamed, Troya blanda (D. Simini) - Rivera, Ecrits sur l’art (A. Rimmaudo) - Pereyra, Del Moncada al Chia­ pas - Historia de la lucha armada en América La­ tina (G. Carotenuto) Aldo Garzia Il Papa a Cuba Il ’98 è iniziato con i riflettori puntati su L’Avana. Per cinque giorni, dal 21 al 25 gennaio, Cuba è diventata il centro del mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha riacceso l’interesse internazionale sul destino dell’isola più grande dei Caraibi. Il viaggio del Papa poteva diventare una scommessa azzardata da parte del go­ verno dell’Avana che apriva le sue frontiere a decine di telecamere e accettava la sfi­ da del dialogo con la Chiesa di Roma. L’evento presentava il rischio di una destabi­ lizzazione politica, anche se potenzialmente recava con sé la chance di riproporre la "questione Cuba" sullo scenario internazionale: L’Avana, infatti, non si dà per vin­ ta nella sua lotta contro il blocco economico imposto dagli Stati Uniti fin dal ’62 (reso ancora più asfissiante con la Legge Torricelli del ’92 e con la Legge HelmsBurton del ’96) e chiede il pieno reinserimento nella comunità internazionale senza rinunciare alla peculiarità della propria storia politica iniziata con la rivoluzione del ’59. Dall’89 in poi - anno dell’avvio della dissoluzione dei Paesi del "socialismo rea­ le" - Cuba ha tentato di resistere rinnovando la sua organizzazione economica (tu­ rismo di massa, liberalizzazione del dollaro, economia mista e apertura agli investi­ menti di capitale straniero, quote di lavoro privato su scala familiare) pur facendo i conti con il blocco economico e con la timidezza degli aiuti della Comunità euro­ pea e degli altri Paesi latinoamericani. La strategia della resistenza ha avuto ragio­ ne, seppure al prezzo di una compressione dei livelli di vita degli abitanti dell’isola: Cuba non ha seguito il destino delle altre realtà del "socialismo reale". Di resisten­ za, però, non si può sopravvivere all’infinito e l’invito rivolto da Fidel Castro a Gio­ vanni Paolo II di visitare Cuba aveva alla vigilia il sapore di una rinnovata intenzio­ nalità politica. Come avviene spesso quando si parla di questo Paese, le oltre centocinquanta te­ levisioni e i duemilacinquecento giornalisti arrivati sull’isola per seguire l’avveni­ mento del viaggio papale avevano nella testa uno schema predefinito: a L’Avana sa­ rebbe successo quello che era puntualmente accaduto nei paesi dell’Est dopo i viag­ gi del Papa polacco; Wojtyla avrebbe contribuito alla spallata decisiva contro il so­ cialismo cubano, dove non avevano potuto né il pluritrentennale embargo degli Sta­ ti Uniti e i quasi dieci anni che separano il ’98 dalla caduta del Muro di Berlino e dall’avvio del "periodo especial" (la violenta crisi economica cubana seguita alla fi­ ne dei rapporti di favore con i Paesi del "socialismo reale"). 3 Non è accaduto nulla di tutto questo. La visita papale si è caratterizzata per uno svolgimento lineare e per un reciproco rispetto dei rapporti tra Stato e Chiesa. Wojtyla e Castro hanno dialogato tra diversi ed è apparso evidente che questa vol­ ta il Papa - a differenza di quanto accadde per esempio nella sua visita nel Nicara­ gua governato dai sandinisti - non era mosso da propositi destabilizzanti: anzi, in­ contrava più volte il leader cubano manifestandogli stima e facendo intendere di es­ sere convinto che solo quest’ultimo può avviare un’ulteriore trasformazione del Paese. Il puzzle Cuba si è così confermato ancora una volta di difficile interpreta­ zione e giorno dopo giorno sono cadute le facili previsioni di una débàcle: sul "ca­ so cubano" - la verifica è venuta anche in questa occasione - non reggono gli sche­ mi che assimilano la storia della rivoluzione di Castro alle vicende del "socialismo reale" dell’Est europeo. Con limiti, errori e con molti segnali di logoramento, la sto­ ria iniziata nel ’59 non è ancora arrivata al capolinea e dimostra di avere capacità di tenuta e di rinnovamento a cui contribuiscono tasselli diversi: la spiccata voglia di indipendenza nazionale, la miopia politica della Casa Bianca e della destra cubana che vive a Miami, l’assenza di credibili alternative, il pericolo che le ricette del ca­ pitalismo selvaggio fn vigore in altre realtà dell’America Latina finiscano per mette­ re la parola fine alle conquiste sociali della rivoluzione, la leadership di indubbia ge­ nialità politica di Castro. Anche quanto è avvenuto a Mosca e nelle altre capitali del­ l’Est dall’89 in poi spiega la resistenza cubana (la guerra civile nell’ex Jugoslavia e la dissoluzione dell’ex Unione Sovietica hanno fatto diventare molto prudenti an­ che coloro che alla fine del decennio Ottanta chiedevano che Cuba seguisse a pas­ so di galoppo la "perestroika" di Mikhail Gorbaciov). Nei mesi che hanno preceduto il viaggio di Giovanni Paolo II non sono man­ cati i tentativi di far salire la tensione a Cuba. In estate una serie di attentati dina­ mitardi colpivano alcuni luoghi turistici dell’Avana (gli hotel Nacional, Triton, Copacabana e il popolare ristorante La Bodeguita del Medio) con l’obiettivo di di­ mostrare all’opinione pubblica internazionale la vulnerabilità del Paese che avreb­ be ospitato il Papa (un giovane italiano veniva ucciso da una scheggia in seguito al­ l’esplosione di una parte della caffetteria dell’hotel Copacabana). Nel mese di ot­ tobre ambienti della destra vaticana facevano circolare la notizia che l’ala dura del Partito comunista cubano era intenzionata a far fallire l’appuntamento del viaggio papale e che per raggiungere questo obiettivo si sarebbero frapposte difficoltà or­ ganizzative alle richieste della Santa Sede sull’agibilità delle piazze di alcune città per le messe del Papa e sulla trasmissione in diretta televisiva di ogni iniziativa del Pontefice in terra cubana. Molte agenzie di stampa internazionali lanciavano suc­ cessivamente la notizia che lo Stato cubano aveva vietato l’affisione di immagini raffiguranti il Papa sui luoghi di lavoro, lungo le strade e all’ingresso delle case pri­ vate pena la minaccia di una capillare repressione. Nelle settimane immedia­ tamente precedenti l’arrivo di Giovanni Paolo II il quotidiano spagnolo "El Pais" rendeva pubblica la notizia di una microspia rinvenuta in un edificio del quartie­ re Siboney che si stava restaurando a tempo di record per renderlo agibile come residenza papale (il governo dell’Avana replicava con una visita lampo del ministro delle forze armate Raul Castro in Vaticano che serviva a scongiurare il vento di cri­ si tra Cuba e Santa Sede, facendo intuire che pure l’esercito dava via libera all’ar­ rivo del Papa che poi avrebbe alloggiato presso la Nunziatura dell’Avana e non nel­ l’edificio di Siboney). 4 Tutte queste congiure sono state superate: i nemici dell’incontro Wojtyla-Castro erano numerosissimi e quest’ultimo rispondeva celebrando a ottobre sia il V Con­ gresso del Partito comunista cubano all’insegna della continuità con la storia del­ l’indipendenza nazionale rappresentata dalla rivoluzione sia i funerali di Ernesto Che Guevara e di altri guerriglieri che erano morti con lui trent’anni prima in Boli­ via (i resti erano stati rinvenuti pochi mesi prima in quel Paese dopo lunghe ricer­ che). LT1 gennaio, inoltre, a pochi giorni dal viaggio papale, si celebravano a Cuba anche le elezioni che servivano a rinnovare il Parlamento: partecipava il 98 per cen­ to dei cittadini, le schede bianche e nulle superavano di poco il tre per cento. L’en­ fasi (e la buona dose di retorica) che Castro poneva su questi avvenimenti serviva a fare quadrato intorno alla rivoluzione e alle sue istituzioni, presentando Cuba il più possibile unita di fronte all’eccezionale avvenimento dell’arrivo di Giovanni Paolo II e convincendo anche gli scettici presenti nell’apparatodello Stato e del Partito co­ munista sull’opportunità di questa mossa azzardata da parte della leadership rivo­ luzionaria. Era come se di fronte a un evento storico bisognasse prima chiudere una pagina della rivoluzione che ne assicurasse la continuità per poterne aprire un’altra. Fidel accettava la sfida all’interno e nei confronti del mondo. Incontro fortissim am ente voluto Via via che la data della visita di Giovanni Paolo II a Cuba si avvicinava è ap­ parso evidente che quell’appuntamento era fortissimamente voluto sia dal Papa sia da Castro. Le precarie condizioni di salute del Pontefice (colto da un leggero ma­ lore una settimana prima della sua partenza) non mettevano in forse il viaggio nep­ pure per un momento. Il leader cubano, che aveva ripristinato la festività di Natale con un discorso che sottolineava l’importanza del viaggio papale di fronte all’As­ semblea nazionale del potere popolare (il Parlamento cubano), teneva una confe­ renza stampa di sei ore in televisione per tornare a battere il tasto della positività dell’arrivo di Giovanni Paolo II a Cuba e per invitare la popolazione a rendere omaggio all’illustre ospite. Castro, inoltre, dava semaforo verde a molte richieste di parte vaticana: accesso della Chiesa locale ai mezzi di informazione in occasione della visita papale (il cardinale cubano Jaime Ortega Alamino teneva per la prima volta un discorso in tv di mezz’ora), ampia disponibilità alle dirette televisive e fi­ nanche via libera all’arrivo di pellegrini organizzati da Miami (le navi che avrebbe­ ro dovuto condurli a L’Avana sono state successivamente soppresse a causa delle pressioni sul vescovo di Miami della comunità cubana che vive in Florida). In quella concitata vigilia - ma pure nel corso dei giorni trascorsi dal Papa a Cuba - è apparso evidente che Castro metteva in campo il proprio ruolo e prestigio per con­ vincere della bontà dell’iniziativa quanti erano dubbiosi nel governo e nel Partito co­ munista. E’ probabile che non sia stato facile per lui ottenere il pieno appoggio di quanti guardavano più ai rischi che ai vantaggi della presenza di Giovanni Paolo II sull’isola. Fidel insisteva soprattutto nel sottolineare il carattere "religioso" e non "po­ litico" del viaggio di Wojtyla, ricordando allo stesso tempo che sulla critica al capita­ lismo selvaggio e alla società del consumismo c’erano molti punti di contatto tra lui e il Pontefice (negli ultimi mesi - sottolineava Castro - la sintonia era aumentata con la scelta del Sinodo della Chiesa delle Americhe di battere il tasto dell’impagabilità del debito estero dei Paesi del Terzo mondo: questa ipotesi era stata fatta propria da Cu5 ba fin dal lontano ’85, quando si svolse a L’Avana il vertice del Movimento dei Paesi non allineati). Il presidente cubano, nello stesso discorso in tv, precisava di non di­ menticare certo che la prima fase del papato di Giovanni Paolo II si era caratterizza­ ta per la lotta al comuniSmo dei Paesi dell’Est ma ironizzava sull’ipotesi che la fine del "socialismo reale" fosse spiegabile solo per le spallate del Vaticano ("Quella crisi era più profonda e poi il Papa ha capito i limiti del capitalismo e del consumismo"). Castro, nel saluto di commiato all’aeroporto José Marti a un Wojtyla stanco ma felice per la sua visita, ricordava che il suo governo aveva messo a disposizione del­ l’illustre ospite le piazze di quattro città (Santa Clara, Camaguey, Santiago e L’Ava­ na), che tutte le messe del Pontefice erano state trasmesse in diretta dalla televisio­ ne e che migliaia di giornalisti avevano potuto svolgere il proprio lavoro senza al­ cuna limitazione di contatto con la realtà cubana ("Abbiamo dimostrato al mondo che sappiamo dialogare e essere rispettosi delle reciproche convinzioni"). Poi se­ guiva un duro riferimento alla politica di Washington, a cui Giovanni Paolo II re­ plicava con una frase a effetto: le misure di blocco economico contro una popola­ zione sono sempre "ingiuste e eticamente inaccettabili". "Cuba deve aprirsi al mondo e il mondo deve aprirsi a Cuba", aveva detto Wojtyla al suo arrivo a L’Avana esplicitando il senso del suo viaggio e invitando Ca­ stro ad avere il coraggio del confronto. Il Papa chiudeva la sua visita con parole di condanna della politica degli Stati Uniti, dopo aver insistito per cinque giorni sulla richiesta del superamento del monolitismo della società cubana. Castro replicava con una grande capacità di ascolto e di ossequio nei confronti dell’illustre ospite. Nel rinnovato rispetto verso la religione cattolica (di conseguenza verso i credenti di ogni fede religiosa e verso il pluralismo culturale) e nella condanna all’embargo ame­ ricano sono racchiusi i risultati di questo incontro tra Castro e Wojtyla che era stato preparato nei dettagli fin dal viaggio a Roma compiuto nel novembre ’96 dal leader cu­ bano in occasione del vertice della Fao sui problemi della fame nel mondo. I due per­ sonaggi che fanno ormai parte della storia di questo Novecento hanno trovato punti di incontro e di accordo. Il Papa chiedeva più spazio per la Chiesa cattolica (maggiore vi­ sibilità sociale, facilitazioni organizzative, accesso ai mezzi di informazione, fine di ogni discriminazione) e Castro rispondeva positivamente su quasi tutti i punti della trattati­ va tra Stato e Chiesa cercando nell’apertura di questo dialogo un modo efficace per reinserire Cuba nella realtà internazionale e per aprire una fase nuova della sua rivolu­ zione (i più ottimisti, dopo il viaggio papale, parlano addirittura di "seconda rivolu­ zione cubana"). Né Castro né Wojtyla hanno rinunciato ovviamente ai rispettivi prìn­ cipi: il "comandante en jefe" - fin dal discorso di benvenuto al Papa - ricordava la sto­ ria ingloriosa della "conquista delle Americhe" e del colonialismo spagnolo di cui la Chiesa non si può dire orgogliosa (facendo arrabbiare la diplomazia di Madrid che dal­ l’insediamento del governo di destra di José Maria Aznar non aveva un ambasciatore a L’Avana); Giovanni Paolo II ribadiva il messaggio di riconciliazione della Chiesa di Roma non risparmiando critiche all’eccesso di semplificazione della società cubana in­ dotto dall’esasperato marxismo leninismo dei decenni precedenti. Avvio di un positivo dialogo Il dialogo-confronto tra i due personaggi è continuato nella visita di Wojtyla al palazzo presidenziale, all’Università dell’Avana e nel corso della messa a Piazza del6 la Rivoluzione dove Castro sedeva in prima fila tra gli invitati sotto l’enorme palco bianco su cui c’era un grande crocifisso e oltre il quale - disegnato sulla facciata del­ la Biblioteca nazionale José Marti - dominava una grande immagine di Cristo che sembrava guardare quella di Ernesto Che Guevara che tanti anni domina uno degli angoli della piazza. Era la metafora più appropriata per descrivere il dialogo tra L’Avana e la Chiesa di Roma. Il Papa ha battuto il tasto dei diritti civili, della libertà religiosa, della fine di ogni ideologia totalitaria chiedendo ai cattolici cubani di ritornare protagonisti della sto­ ria della propria isola. Castro, ricordando di aver frequentato da studente le scuole gestite dai gesuiti, si è mostrato disponibile a correggere gli eccessi di intolleranza della rivoluzione. In questo modo il dialogo è apparso sincero e foriero di novità da una parte e dall’altra: in quella di una rivoluzione che vorrebbe rinnovarsi ma che fa fatica a superare vecchi schemi; in quella di una Chiesa cubana troppo a lungo com­ pressa in un ruolo marginale (l’ateismo di massa è stata una scelta del governo del­ l’Avana a metà degli anni Sessanta e non solo un incidente di percorso, come invece ha cercato di dire Castro ricordando che le incomprensioni erano venute soprattut­ to dalla Chiesa troppo schierata con la locale borghesia all’inizio della rivoluzione). C’è poi un altro dato destinato a lasciare un segno nella Cuba del prossimo fu­ turo. Per la prima volta dal ’59 le piazze cubane sono state teatro di manifestazioni non politiche e centinaia di migliaia di persone hanno potuto cantare e manifestare con slogan e cartelli i propri convincimenti religiosi. Faceva impressione vedere nel­ le strade dell’Avana, di Santa Clara, Camaguey e Santiago tanta gente che in modo liberatorio ritrovava il gusto della partecipazione oltre gli angusti confini o del par­ tito o delle manifestazioni ufficiali. E la sorpresa continuava con le immagini televi­ sive che in diretta davano conto di quasi tutte le iniziative pastorali del Papa, fa­ cendo entrare in ogni casa cubana il messaggio di un’attività religiosa finalmente li­ bera da ogni limitazione. La prima sorpresa si è avuta con il discorso del cardinale Jaime Ortega Alamino in televisione alla vigilia dell’arrivo del Papa, poi lo stesso cardinale teneva un’affol­ lata conferenza stampa nell’Hotel Habana libre. Il vertice della Chiesa cubana - so­ prattutto nelle parole con cui Maurice Estiu, vescovo di Santiago, presenteva Gio­ vanni Paolo II ai fedeli della seconda città per importanza dell’isola - non rispar­ miava aspre critiche verso la massificazione ideologica e sociale che hanno accom­ pagnato l’istituzionalizzazione della rivoluzione, ma il Papa e il clero dell’isola usa­ vano sapientemente acceleratore e freno. Anche la richiesta di un’amnistia per i de­ tenuti politici veniva condotta con discrezione e senza imporre ultimatum. L’obiettivo della Chiesa di Roma, per ora, è rafforzare gli spazi acquisiti a Cuba fin dal ’91 (caduta di ogni discriminazione sociale nei confronti dei credenti, fino a quella data per i cubani era meglio non dichiarare la pratica di una fede religiosa per non essere penalizzati nella loro vita pubblica) e incentivare un laicato cattoli­ co che potrebbe convogliare molte aspirazioni sociali compresse. Nel più lungo pe­ riodo, la Chiesa cubana (e quella di Roma) non nasconde troppo il suo desiderio di contribuire a dar vita a un partito di ispirazione cattolica che potrebbe diventare protagonista di una transizione verso il pluralismo politico sull’isola (per ora na­ scerà un nuovo seminario e nuovi preti e suore arriveranno a Cuba in attesa che le vocazioni rafforzino una gracile struttura organizzativa, mentre non ci sarà il via li­ bera a scuole private di orientamento religioso). A Pinar del Rio, nella parte più oc7 cidentale dell’isola, il quarantenne Dagoberto Valdes dirige un centro di formazio­ ne del laicato cattolico che ispira anche la rivista "Vitral" e che si candida ad af­ fiancare il lavoro direttamente ecclesiale della Chiesa cubana. Castro e i dirigenti della rivoluzione che hanno partecipato alle messe abbando­ nando le divise militari e indossando giacca e cravatta, che si incontrano con il Pon­ tefice, che sottolineano la positività di un confronto sono altrettanti segnali che qualcosa di profondo è cambiato sull’isola più grande dei Caraibi nel corso della vi­ sita di Wojtyla. Dopo il passaggio del Papa, nulla è più uguale a prima a Cuba. Nonostante lo scetticismo con cui la maggioranza dei cubani ha guardato all’esito del viaggio papale ("Con la sua partenza si tornerà alla routine di sempre e lo Sta­ to ripresenterà un volto autoritario"), gli spazi conquistati dal cardinale Ortega e dalla Chiesa cattolica sono un dato acquisito. Irreversibile è pure la fine dell’antico monolitismo rivoluzionario. Tornare indietro significherebbe rifar precipitare L’A­ vana nell’isolamento politico e economico; quelle centinaia di migliaia di persone che hanno accompagnato da vicino la vista del Papa difficilmente rinuncerebbero a manifestare con libertà le proprie convinzioni. Un passo falso del governo cubano in questa direzione potrebbe avere conseguenze imprevedibili, deludendo ancora una volta le aspettative di chi vorrebbe difendere la rivoluzione aggiornandola alla realtà di fine secolo. A Cuba non basta aver restitito alla dura prova del "periodo especial" e aver aperto le porte all’economia mista, al turismo di massa, ai primi ten­ tativi di superare gli eccessi di centralizzazione e pianificazione dell’economia, se tutto questo diventa solo una strategia di contenimento e non una capacità di rin­ novare idee e aspettative verso una rivoluzione che ha ormai quarantanni. Sarà Castro a premere sull’acceleratore, annunciando la separazione delle cari­ che al vertice dello Stato? Resterà segretario del Partito comunista, lasciando ad al­ tri l’incarico di primo ministro e avviando di fatto un cambiamento al vertice? Sul settantunenne Fidel, ritornato in in smagliante forma fisica dopo le voci preoccu­ pate sulla sua salute che erano circolate la scorsa estate, grava il peso politico e psicologico di preparare il futuro della Cuba del Duemila e il modo con cui questo Paese guarderà al ruolo di chi l’ha governata per quarant’anni. Di fronte all’inter­ rogativo se le iniziative di Castro nei confronti del Papa e della Chiesa cattolica fos­ sero dettate da una "crisi religiosa" o da un progetto politico, il buon senso vuole che la risposta sia la seconda: anche se è impossibile prevedere come prenderà for­ ma questo progetto nei prossimi mesi. Dopo la partenza di Wojtyla, Fidel è torna­ to a insistere sul leit motiv che il viaggio del Pontefice è stato "un fatto storico" e che con la Chiesa di Roma si può trovare un accordo sull’idea di "globalizzazione della solidarietà" come risposta alla globalizzazione dell’economia (cosa vorrà dire nel concreto è tutto da vedere). Le controm isure di W ashington Ogni volta che un avvenimento vede per protagonista Cuba non si può trala­ sciare di analizzare le reazioni politiche degli Stati Uniti. Per seguire la visita papa­ le sono giunti sull’isola oltre un migliaio di giornalisti di quel Paese (il 40 per cento del totale) e "Cnn", "Nbc" e "Abc" hanno sconfitto tutte le emittenti televisive concorrenti per qualità e quantità di informazioni relative al viaggio di Giovanni Paolo IL Una tale presenza di organi di informazione statunitensi non si registrava 8 sull’isola dai primi anni Sessanta: immagini, commenti, reportage relativi a Cuba so­ no entrati in milioni di case americane abituate a considerare quella realtà come un nemico da combattere. La potente lobby cubana che vive in Florida non se l’è sen­ tita di attaccare oltre un certo limite la scelta del Papa, anche se non ha mostrato nessun gesto di riconciliazione verso L’Avana: il mancato arrivo sull’isola delle navi di pellegrini provenienti da Miami ha reso amara la visita del Papa, dimostrando che neanche il suo magistero è in grado di far dialogare le due Cuba che si fronteg­ giano da un versante all’altro dello Stretto della Florida. Ma proprio in quei giorni di fine gennaio l’attenzione dell’opinione pubblica degli Stati Uniti era rivolta soprattutto alle vicende giudiziarie che hanno visto come impu­ tato il presidente Bill Clinton (la presunta relazione adultera con Monica Lewinsky). Solo dopo le nette dichiarazioni del Papa di condanna del blocco economico america­ no contro Cuba sono venute le prime reazioni della Casa Bianca e del Congresso (cin­ que senatori del Partido democratico erano presenti a L’Avana nei giorni della visita di Giovanni Paolo II). Democratici e repubblicani (anche il senatore Helms che è firma­ tario della legge che dal ’96 ha reso più inflessibile l’embargo contro L’Avana) si sono dichiarati disposti ad allentare le misure di blocco economico per quanto riguarda la possibilità di commerciare prodotti farmaceutici e alimentari. Il provvedimento - se­ condo le motivazioni dei proponenti - avrebbe finalità "umanitarie" e terrebbe conto delle raccomandazioni del Pontefice. Clinton si è limitato a esprimere parere favore­ vole, confermando ancora una volta l’impressione che la sua presidenza non si carat­ terizzerà (salvo imprevisti) per una nuova politica nei confronti di Cuba nonostante il secondo mandato lo renda Ubero da ricatti elettorali. Castro ha risposto a questa piccolissima inversione di marcia degh Stati Uniti ri­ badendo la richiesta che il blocco economico contro Cuba dev’essere ehminato nella sua totalità. In un lungo discorso tenuto appena una settimana dopo la partenza del Papa dall’isola, il leader cubano ha sostenuto che un’eventuale attenuazione del bloc­ co economico da parte statunitense sarebbe motivata solo dalla volontà di mitigare la condanna internazionale verso quella politica. Le parole di Giovanni Paolo II - secon­ do Fidel - avrebbero rafforzato l’isolamento di Washington, ma mitigare l’embargo non servirebbe a nulla perché Cuba ha bisogno di capitah stranieri che investano nel­ l’isola in piena libertà e senza pressioni contrarie, di commerciare Uberamente a livel­ lo mondiale e di accedere ai crediti economici deUe istituzioni internazionaU come un qualsiasi altro Paese. Proprio dopo la visita del Papa, L’Avana ha lanciato una nuova offensiva contro le penalizzazioni economiche che subisce a causa del blocco econo­ mico (le potenzialità di sviluppo deU’isola nel turismo e neU’economia mista a parte­ cipazione di capitale straniero sono gravemente limitate dalle continue pressioni nega­ tive che vengono daU’altra parte deUo Stretto deUa Florida). Il principale e più importante risultato dell’incontro Wojtyla-Castro è il ritorno pre­ potente suUa scena internazionale del "caso Cuba": chi vuole continuare con la politica deU’isolamento contro L’Avana deve fare i conti con i molti segnaU positivi che sono ve­ nuti daU’isola prima, durante e dopo la visita pastorale del Papa. L’Europa potrebbe fi­ nalmente diventare un partner indispensabile per l’economia deU’isola, mentre è pro­ babile che gU Stati Uniti facciano sempre maggiore fatica a mantenere la propria politi­ ca di accerchiamento nei confonti deU’Avana. Castro e la rivoluzione cubana escono rafforzati e pienamente legittimati dada sfida con Wojtyla e il Vaticano. La pagina nuo­ va deUa rivoluzione cubana che si è aperta a inizio del ’98 è sicuramente positiva. 9 Le illustrazioni di questo numero sono tratte da II manifesto dell’Ospaaal, Edizione Il Papiro, Milano, 1997. Il volume raccoglie la collezione del Catalogue o f Ospaaalposters, 1994, offerta dai suoi autori Lincoln, Cushing, Dan Walsh e Michael Rossman. L’Ospaaal, nata da un accordo della Prima Tricontinentale, nel 1996, ha come obiettivo la rea­ lizzazione della solidarietà tra i popoli dell’Africa, Asia e America latina. Asela Péerez, offset, 1973, 33x53 cm. 10 José Ramos Regidor Teologia della liberazione: una sfida per il Nord Nonostante allarmismi e dichiarazioni infondate, anche oggi, «la teologia della liberazione non è sepolta sotto il muro di Berlino, perché non si è mai alleata ad un progetto specifico o partitico, estrapolando la natura del suo discorso», come ha det­ to recentemente il teologo brasiliano della liberazione Frei Betto1. Infatti, è vero che «l’utopia cristiana si esprime in categorie umane, politiche e storiche». Proprio per questo il discorso teologico sulla società più giusta si incontra con due problemi dif­ ferenti: da una parte, mantenere le distanze tra l’utopia evangelica e le categorie in cui esprime i suoi progetti specifici, per evitare qualsiasi forma di confusione e di to­ talitarismo; d’altra parte, non lasciarsi trascinare da un progetto di giustizia spiritua­ lista, paternalista, assistenzialista, che non tiene conto delle radici profonde dell’in­ giustizia dominante nella nostra società e frena l’impegno dei credenti per una civiltà alternativa. Qui mi limiterò alla teologia latinoamericana della liberazione che ha avuto un notevole influsso reciproco con le esperienze vissute anche in Italia123*. 1. G en esi, storia, m aturazione La teologia latinoamericana della liberazione è nata e si è sviluppata all’inter­ no di un processo storico5, caratterizzato dall’intreccio tra due realtà significative 1 Frei Betto, Non è sepolta sotto il muro, in “Adista” , Roma, 28 giugno 1997. 2 Per una visione d’insieme, cfr. J. Ramos Regidor, Gesù e il risveglio degli oppressi. La sfida della teologia della liberazione, Mondadori, 1981. - Id., La teologia della liberazione, Datanews, 1996. - Id., Li­ berazione e alterità. 25 anni di teologia della liberazione, in ‘Testimonianze”, 11,1996, pp. 25-44. Cfr. an­ che B. D’Avanzo, Chiesa e liberazione in America Latina, Edizioni Dehoniane, 1988. Sul dibattito più re­ cente: I. Ellacuria e J. Sobrino (a cura), Mysterium liberationis. Concetti fondamentali della teologia del­ la liberazione, Boria e Cittadella ed., 1992. - J. Comblin, J. I. Gonzalez Faus e J. Sobrino (a cura), Cam­ bio social y pensamiento cristiano en América Latina, Editorial Trotta, Madrid, 1993. - S. Rodriguez, Pasado y futuro de la teologia de la liberación. De Medellin a Santo Domingo, Editorial Verbo Divino, Estella, 1992. - J. J. Tamayo, Presente y futuro de la teologia de la liberación, Ed. San Pablo, Madrid, 1994. 3) Cfr. E. Dussel, Storia della Chiesa in America Latina. Colonizzazione e liberazione, 14921992, Q ueriniana, 1992. - Id. (a cura), La Chiesa in America Latina, 1492-1992: il rovescio del­ la storia, Cittadella ed., 1992. 11 che fanno parte di questo stesso processo. Innanzitutto una realtà socio-politica, cioè il movimento popolare, il risveglio degli oppressi, la presa di coscienza dei po­ poli impoveriti ed esclusi e le loro organizzazioni che lottano contro la situazione ingiusta di esclusione e di impoverimento (sfruttamento, violenza, oppressione). Un fenomeno della seconda metà degli anni ‘50, che ha avuto i suoi momenti più forti nelle rivoluzioni cubana (1959) e sandinista (1979). Allo stesso tempo c’è sta­ ta una realtà cristiano-ecclesiale, presente aH’interno dei movimenti popolari dalla parte degli impoveriti e degli esclusi e impegnata nella loro prassi di liberazione. Ciò avvenne all’inizio, sopratutto nei gruppi e nelle associazioni operaie e studen­ tesche di ispirazione cristiana e nelle esperienze delle comunità ecclesiali di base. Anche in riferimento alla rivoluzione cubana, in alcuni congressi continentali di sindacati e di studenti, tra il 1959 e il 1961, questi cristiani rifiutarono il riformismo ispirato alla dottrina sociale della chiesa cattolica e fecero propria l’ipotesi rivoluzio­ naria e socialista, nel senso di una fuoriuscita dai meccanismi del sistema capitalista ri­ tenuto la radice della situazione di povertà delle grandi maggioranze latinoamericane. Ciò avvenne, per esempio, nella Confederation latinoamericana de sindicatos cristianos (Clasc) riunita a Quito nel 1959, e nell’incontro organizzato dalla ]uventud universitaria católica (Juc) del Brasile nel 1961. Anche nelle chiese evangeliche storiche e poi in quelle pentecostali, certi settori significativi hanno vissuto un’e­ sperienza simile a quella della chiesa cattolica. Fin dall’inizio, si collocarono nella stessa linea alcuni gruppi come quelli del Movimiento estudiantil cristiano (Mec) e, a partire dal 1961, quelli dell’Iglesia y sociedad en América Latina (Isal). In questi gruppi e nelle comunità di base, i cristiani hanno cominciato a ren­ dersi conto che l’interpretazione tradizionale del vangelo non era capace di rispon­ dere ai problemi vissuti nella loro nuova esperienza di fede. Perciò hanno comin­ ciato ad elaborare una nuova interpretazione della Bibbia e della storia del cristia­ nesimo dal punto di vista degli impoveriti e degli esclusi, cioè dal rovescio della sto­ ria, come ha detto Enrique Dussel. In questa realtà storica è quindi avvenuta la pri­ ma “gestazione” della teologia della liberazione, iniziata ancora prima del Concilio Vaticano II (ottobre 1962-dicembre 1965). Certamente, l’evento del Concilio ebbe un grande influsso sulla preparazione * ' della nascita e del consolidamento della teologia della liberazione. Nel Concilio, la chiesa cattolica ha cercato di “aprirsi al mondo”. Ma questo mondo aveva connota­ zioni diverse, a volte contrastanti. Infatti, il Nord del mondo poneva alle chiese i pro­ blemi della modernità, dello sviluppo, della scienza, della tecnologia, dell’indiffe­ renza religiosa, dell’ateismo. Invece, la chiesa cattolica latinoamericana si trovava di fronte ad un mondo che in parte aveva, in termini diversi, gli stessi problemi della modernità, vissuti dalle élite e dai settori dominanti, largamente minoritari e forte­ mente integrati nella cultura occidentale del Nord. Ma i vescovi latinoamericani sco­ prirono che i problemi che caratterizzavano questo mondo erano quelli legati alla si­ tuazione di ingiustizia e di povertà, di miseria e di esclusione delle grandi maggio­ ranze latinoamericane (80%) dalle quali «sta salendo verso il cielo un clamore sem­ pre più tumultuoso ed impressionante. E’ il grido di un popolo che soffre e che chie­ de giustizia, libertà, rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli»4. 4 ') Puebla. Documenti, Emi, 1979. 12 Nei tre anni dopo la fine del Concilio Vaticano II si andò organizzando, con­ solidando e approfondendo un grosso dibattito che è servito a “coscientizzare” e coinvolgere le chiese e i cristiani di base, in preparazione alla Conferenza dell’Epi­ scopato Latinoamericano che ebbe luogo a Medellin (Colombia, agosto-settembre 1968), con l’obiettivo di applicare il Concilio alla peculiare situazione dell’America latina e dei Caraibi. In quella importante conferenza, la chiesa cattolica latinoame­ ricana si è lasciata interpellare dal grido delle grandi maggioranze impoverite ed escluse ed ha fatto tre opzioni fondamentali: per i poveri, per le comunità ecclesia­ li di base e per la liberazione integrale. Nello stesso anno di Medellin, nel luglio 1968, il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez utilizzò per primo la formula «verso una teologia della liberazione», in una sua conferenza sul tema. Si può quindi dire che sono passati trent’anni dalla prima utilizzazione di questa formula. Dopo Medellin, questo movimento sociale ed eccle­ siale si è diffuso in tutto il continente, anche in dialogo e collaborazione con i movi­ menti popolari e della sinistra laica. Tra gli altri, si ebbe in quell’epoca una vittoria politica della teoria della dipendenza, assunta, criticamente e autonomamente anche dalla teologia della liberazione e che ne sottolineava le sue dimensioni culturali. Nel corso di questi movimenti storici si è progressivamente elaborata, nella prassi e nella teoria, la teologia della liberazione. Molti ritengono che il 1971 sia sta­ to l’anno della maturità delle formulazioni sistematiche e articolate di questa teolo­ gia. Infatti, come hanno detto Leonardo Boff e Clodovis Boff nel 1986, «nel di­ cembre del 1971, G. Gutiérrez pubblica il libro inaugurale di questa teologia con il suo Teologia de la liberación, perspectivas. Nel maggio dello stesso anno Hugo Assmann aveva già pubblicato il libro collettivo Opresión-liberación: desaflo de los cristianos e in dicembre Leonardo Boff terminava sotto forma di articoli il suo Jesus Cristo Libertador. Era così aperta la strada per una teologia fatta a partire dalla peri­ feria e articolata con i suoi problemi, che rappresentavano e continuano a rappre­ sentare ancor oggi una enorme sfida alla missione evangelizzatrice delle chiese»5. Gli stessi autori citano anche altri teologi della liberazione che, fin dagli inizi di que­ sto processo, hanno avuto un grosso impatto positivo sul movimento delle comu­ nità ecclesiali di base e sulla teologia della liberazione: Juan Luis Segundo, Hugo Assmann, Lucio Gera, Eduardo Pironio (vescovo segretario del Celam, poi cardi­ nale integrato nella Curia Vaticana), Segundo Galilea e altri. Tra i protestanti, Emi­ lio Castro, Julio de Santa Ana, Rubem Alves, José Miguez Bonino ed altri ancora6. 2. Caratteristiche principali e strutture ep iste m o lo g ic h e Nei suoi primi venticinque anni di storia, il movimento della teologia della li­ berazione ha acquisito alcune caratteristiche peculiari e alcune strutture epistemo­ logiche che costituiscono la sua identità e che ha mantenuto con continuità nella di­ versità dei contesti, a livello socio-economico, politico, culturale ed ecclesiale, nel­ le due fasi diverse della sua storia: cioè, nei primi quindici anni (1971-86) in cui era presente la vitalità della sinistra sociale e cristiano-ecclesiale, e nei dieci anni suc- 5) L. Boff e C. Boff, Come fare teologia della liberazione, Cittadella ed., 1986. 6) Id., pp. 107-108 13 cessivi (1986-96) in cui emerge la crisi della sinistra, la caduta delle ideologie tota­ lizzanti e l’appello etico e cristiano verso una civiltà alternativa. In queste due fasi storiche si trovano presenti alcune delle dimensioni più caratteristiche della teolo­ gia latinoamericana della liberazione. 1) Come si è detto fin dall’inizio, la caratteristica fondante di questa teologia è l’incontro tra due fattori storici: da una parte la realtà socio-politica dei movimen­ ti popolari, della loro coscienza e della loro organizzazione, delle loro lotte contro l’ingiustizia in cui vivono gli impoveriti e gli esclusi. Questa realtà ha avuto i suoi momenti culminanti nella rivoluzione cubana (1959) e in quella sandinista (1979). D’altra parte, la realtà storico-sociale dei cristiani che fanno la loro opzione per i poveri e si impegnano in queste lotte di liberazione. Con frequenza la parola pove­ ri è sostituita con le parole impoveriti ed esclusi, perché non si tratta del singolo iso­ lato bensì del suo intreccio con gli altri, con i dinamismi socio-economici e politici che sono la causa del loro impoverimento e della loro esclusione. Inoltre, i cristia­ ni riconoscono i poveri come soggetti e protagonisti delle loro lotte, come soggetti di diritti e di doveri, a livello sociale ed ecclesiale, nel rapporto dialettico tra la di­ mensione collettiva e la soggettività dell’individuo, per evitare i possibili equivoci dell’individualismo e del collettivismo. 2) In questa prospettiva la teologia della liberazione intende se stessa come ri­ flessione sull’esperienza di fede vissuta dai credenti nei processi storici di libera­ zione degli impoveriti e degli esclusi. Quindi non si parte dall’alto, da formule teo­ logiche e dogmatiche stabilite. Si parte invece dal basso, dall’esperienza storica, dal­ le lotte degli impoveriti e dall’esperienza dei cristiani presenti e coinvolti in quelle lotte. In quanto riflessione su quest’esperienza, la teologia della liberazione ricono­ sce se stessa come atto secondo, non neutrale, che viene dopo l’atto primo, che è quella speciale esperienza di fede e di spiritualità cristiana stimolata dall’opzione per gli impoveriti, considerati come soggetti e protagonisti della loro storia e della storia del mondo. 3) In quanto riflessione critica sull’esperienza di fede stimolata dall’opzione per i poveri, questa teologia utilizza la mediazione degli strumenti scientifici: in­ nanzitutto, le scienze umane e sociali per conoscere i meccanismi di impoverimen­ to, di esclusione e di sofferenza; inoltre, le scienze ermeneutiche, per interpretare la Bibbia e i testi del passato dall’attuale punto di vista dei poveri; e infine la media­ zione della pratica di liberazione, come criterio critico e costruttivo delle sue ela­ borazioni teologiche. 4) Nel contesto storico dei cinquecento anni di conquista e colonialismo, que­ sta teologia è la prima teologia della periferia, del Sud del mondo, perché parte da una esperienza di fede che cerca di interpretare il vangelo dando priorità ai pro­ blemi ed ai punti di vista del Sud, delle sue culture e delle sue religioni, che esiste­ vano prima della Conquista e anche oggi acquistano una nuova vitalità. Le altre teo­ logie occidentali, presenti in America latina, sono state importate, sono nate nel Nord e sono state imposte dall’evangelizzazione colonizzatrice. Esse esprimono l’e­ sperienza di fede, vissuta nel Nord, che ritiene prioritari i problemi, le culture, gli interessi e i punti di vista dei settori dominanti nei paesi del Nord e delle minoran­ ze dominanti nei paesi del Sud, sostenute dal sistema coloniale. 5) A partire dall’esperienza di fede e di spiritualità la teologia della liberazione esercita una funzione profetica con un duplice compito: analizzare e criticare i mecca14 nismi dell’ingiustizia socio-economica, politica, ecologica e culturale che emarginano i due terzi dell’umanità; servire da stimolo alla creazione di un nuovo tipo di civiltà, giu­ sta, libera e solidale, come base di quella speranza attiva che cerca di immaginare e co­ struire il futuro nella linea della liberazione dei poveri e della guarigione della terra. 6) Dalla descrizione di queste caratteristiche principali si è visto che la teolo­ gia della liberazione cerca di dare un senso al conflitto storico, più o meno grave, con i potenti della società e della chiesa. Nel contesto della guerra fredda, in nome della lotta al comuniSmo per la difesa della civiltà occidentale e cristiana, la repres­ sione del potere civile e militare ha fatto della chiesa dei poveri latinoamericana una chiesa dei martiri. AH’interno della chiesa cattolica, la teologia della liberazione è stata forte­ mente osteggiata soprattutto dal 1972, quando si organizzò un gruppo dedicato alla lotta contro questa teologia, coordinato fin dall’inizio dal cardinale Alfonso Lopez Trujillo allora arcivescovo di Medellm e appoggiato dai settori dominanti e conservatori del Vaticano, più o meno legati al potere oppressivo e politico do­ minante nel mondo. Questa opposizione ha avuto il momento più forte nei due documenti del cardinale Ratzinger (settembre 1984 e marzo 1986) e nello scon­ tro parallelo tra lo stesso Ratzinger e il teologo brasiliano Leonardo Boff. La chie­ sa dei poveri e le comunità cristiane di base non si sono riconosciute nella con­ cezione della teologia della liberazione utilizzata da quei documenti vaticani, in­ fluenzati dal clima della guerra fredda. Perciò le comunità di base rispondono cercando un dialogo con le istituzioni, eticamente dignitoso, e allo stesso tempo si impegnano nella ricerca di molteplici strade che possano portare alla reinven­ zione della chiesa dal basso9 3. Caduta delle id eo lo g ie totalizzanti, alterità e so c ie tà civile Questa teologia è nata e si è diffusa e consolidata in una prima fase storica (1971-1986) caratterizzata dalla vitalità dei movimenti popolari e dei movimenti ec­ clesiali, della sinistra socio-politica e della sinistra ecclesiale, per la liberazione dei popoli impoveriti. In questa situazione la chiesa dei poveri e la sua teologia hanno prestato particolare attenzione alle dimensioni socio-economica e politico-militare dell’oppressione. Con l’obiettivo di conoscere la perversità di questi meccanismi, i teologi della liberazione hanno utilizzato, criticamente, le scienze sociali e politiche, tra cui l’analisi marxista. Venticinque anni dopo e, più precisamente, negli ultimi dieci anni (19861996), la società attuale è profondamente cambiata a livello mondiale e si sta av­ viando verso una crisi epocale che spinge alla ricerca di una sua alternativa e con la quale devono fare i conti anche la chiesa dei poveri e la teologia della liberazione. In breve, questi cristiani ritengono che i profondi cambiamenti e il passaggio di ci­ viltà in cui siamo anche noi immersi intorno a due problematiche o dimensioni rea­ li, diverse fra loro ma anche profondamente intrecciate: 1) Nella fase culminante degli eventi globali, la caduta del muro di Berlino nel 7) Cfr. J. L. Segundo, Teologia de la liberación. Respuesta aI Cardinal Ratzinger, Ed. Cristianidad, 1985. - Il caso Boff, Emi, 1986. 15 dicembre 1989 ha messo in evidenza la fine della guerra fredda, il crollo del bipo­ larismo, la caduta delle ideologie totalizzanti e la crisi del socialismo reale come problemi che fanno riferimento alla crisi della civiltà attuale. Ma la caduta delle ideologie totalizzanti non si riferisce soltanto ai socialismi reali. E’ palese che la glo­ balizzazione e il neo-liberismo - che sono i modi di essere del capitalismo attuale aumentano la produzione sacrificando all’ideologia totalizzante del mercato l’impoverimento e l’esclusione degli altri, soprattutto nei rapporti Nord-Sud, nei due terzi dell’umanità. I meccanismi socio-economici e politici dell’idolatria del merca­ to impediscono all’attuale società la ricerca di una risposta adeguata alla crisi eco­ logica. Inoltre, entro questa sua prospettiva ideologica, in parte nascosta, la civiltà attuale si dimostra incapace di riconoscere le antiche e le nuove soggettività e alte­ rità, nella ricerca di una civiltà alternativa. 2) Altri eventi che caratterizzano questo passaggio di civiltà sono il diffonder­ si della società civile, i problemi - positivi e negativi - legati all’emergere di nuove alterità che pongono il problema dell’intreccio tra la liberazione degli impoveriti e il riconoscimento della loro alterità. Si tratta della capacità di reagire di fronte alla validità - sempre parziale - delle culture e dei movimenti emergenti che chiedono di essere liberati dalla negazione della loro identità e della loro dignità, dall’occul­ tamento delle loro soggettività e dal rifiuto della loro autodeterminazione, negata nelle donne con il al sistema patriarcale e negata ai popoli indigeni e neri durante cinquecento anni di colonialismo. Naturalmente i problemi, i soggetti e i movimenti che sono portatori della lo­ ro alterità, influiscono positivamente e/o negativamente ai livelli della politica e in genere della società e anche degli individui. Si tratta innanzitutto dei movimenti e dei soggetti classici, in particolare il movimento operaio e contadino. Ma si tratta anche di nuovi movimenti e soggetti, parziali e provvisori, che in gran parte fanno riferimento ai rapporti Nord-Sud e sono impegnati per la pace e per la giustizia, per la democrazia, per l’ambiente, per i diritti umani, per l’autodeterminazione dei po­ poli indigeni, degli afroamericani e in genere dai popoli del Sud, per il riconosci­ mento della differenza di genere delle donne e degli uomini, per il riconoscimento delle alterità e dei pluralismi culturali, per la solidarietà con gli esclusi, ecc. L’e­ mergere e il diffondersi di tali movimenti avviene nella società civile, sempre in­ trecciata con la politica, per un cambiamento radicale di questa società. Questa realtà e questi movimenti sono un indice di una certa ripresa della sinistra, contro i meccanismi perversi dei neoliberismi dilaganti nel pianeta e per la costruzione di una nuova umanità. 4. T eologia della liberazione: dalla crisi di civiltà all’inserim ento v erso il futuro Non è facile mantenere unite le caratteristiche della teologia della liberazione, specialmente nella situazione degli ultimi dieci anni. Tuttavia, restando fedeli alle dimensioni costruite nel passato, le comunità ecclesiali di base e la teologia della li­ berazione si lasciano interpretare dal nuovo, riconoscono alcuni limiti che ora ap­ paiono con maggior chiarezza e cercano di inserirsi criticamente nella creazione del futuro, in quello che ritengono il passaggio storico dell’umanità verso una nuova ci­ viltà. La teologia della liberazione vi appare come una realtà storica, soggetta al 16 cambiamento e alle crisi, mai arrivata a soluzioni complete, sempre aperta al plura­ lismo e ai problemi nuovi e coraggiosa nell’utilizzare nuovi strumenti di analisi e di intervento. Dalla metà degli anni ‘80, in occasione dei dibattiti sui cinquecento anni della Conquista e della colonizzazione dell’America, la teologia della liberazione ha sco­ perto che, oltre la dimensione socio-economica e politica della Conquista e della colonizzazione, c’era il problema del riconoscimento dell’altro. Ciò vuol dire il ri­ conoscimento delle alterità degli indios e dei neri, della loro identità sempre in di­ venire, della loro autodeterminazione e della validità della cultura e delle religioni tradizionali, negate dal colonialismo fino ad oggi8. In questo contesto la teologia della liberazione prende atto del significato po­ litico della società civile, considerata come «agente di trasformazione e di rinnova­ mento», come dice, tra gli altri, Pablo Richard9. Questi teologi rimangono forte­ mente impegnati con la sinistra politica e con il movimento operaio e contadino, contro i meccanismi economici e politici del neo-liberismo, per una nuova umanità. Ma allo stesso tempo questi cristiani e teologi della liberazione intrecciano il loro impegno politico con le realtà della società civile e vi collaborano criticamente. So­ prattutto sui temi riguardanti i problemi Nord-Sud, essi lavorano insieme con le Organizzazioni non governative (Ong), con i sindacati, le associazioni ecologiche ed ambientaliste e le organizzazioni culturali, religiose, civiche che lavorano dal basso in un processo molteplice di coscientizzazione, creando un tessuto civico, so­ ciale, ecologico, culturale, religioso e politico capace di lottare per un cambiamen­ to radicale della società attuale. Oggi, nelle chiese cristiane latinoamericane ci sono due impostazioni, diverse e in parte contrastanti: 1) a livello della chiesa gerarchica e istituzionale, tira un ven­ to di destra che intende normalizzare le comunità ecclesiali di base e la teologia del­ la liberazione; 2) ma allo stesso tempo crescono le comunità cristiane di base e al­ tre forme della chiesa dei poveri che lavorano con i soggetti classici e con quelli emergenti, anche di taglio laicale, impegnate nei cambiamenti radicali che tendono ad una società alternativa. Quindi, questa chiesa dei poveri partecipa alla costru­ zione di un tipo di cristianesimo pluriculturale che va nascendo dal basso, denun­ ciando e superando l’oppressione che accompagna la concezione tradizionale del cristianesimo monoculturale, cioè europeo ed occidentale. In questa prospettiva, lo stesso Frei Betto, nel dialogo e nella convivenza tra i due tipi di chiesa, chiede un’a- 8) Cfr. L. Boff e V. Elizondo (a cura), 1492-1992. La voce delle vittime, in “Concilium ” , 6, 1990. - L. Boff, Nuova evangelizzazione. Prospettiva degli oppressi, Cittadella 1990. - Id., 500 anni di evangelizzazione. Dalia conquista spirituale aita liberazione integrale, Cittadella ed., 1992. - Id., Con la libertà del vangelo, La Piccola Ed., 1992. - T. Todorov, La Conquista dell'America. Il pro­ blema dell’altro, Einaudi, 1984. - F. Mires, In nome della croce. Dibattito teologico-politico sull’olo­ causto degli indios nel periodo della Conquista, La Piccola Ed., 1991. - G. Gutiérrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, 1995. - E. Balducci, Montezuma scopre l ’Europa. Il senso di un centenario, Ed. Culture della Pace, 1992. - G. G i­ rardi, La conquista dell’A merica dalla parte dei vinti, Boria, 1992. J. Ramos Regidor, Conquista/in­ vasione/ resistenza. 500 anni di negazione dell’altro, in “ Bollettino della Cam pagna Nord-Sud”, Ro­ ma, 1, 1991, pp. 4-24. 9) P. Richard, La teologia de la liberación en la nueva conjuntura, in “Pasos”, 34, 1991, pp. 4-5. 17 nalisi teologica più profonda per quanto riguarda la teologia dei ministeri, tra cui il diritto canonico e il primato di Pietro10*. 5. La q u estio n e del so cia lism o e lo zap atism o in C hiapas La teologia della liberazione si è occupata molto del rapporto tra la fede cri­ stiana e la lotta per la giustizia sociale e politica degli impoveriti ed esclusi. Nel di­ battito circa la Conquista e la colonizzazione ha preso coscienza che quel tipo di li­ berazione poggiava realmente sul riconoscimento dell’alterità e della soggettività, come singoli e come popoli. Perché la loro cultura e la loro religione sono la base della loro identità e quindi della loro autodeterminazione in quanto capacità di es­ sere soggetti attivi nella storia propria e nella storia del mondo, assieme agli altri po­ poli e culture. In questa prospettiva, l’emergere di nuove alterità e di nuovi e anti­ chi soggetti storici, nella società politica e nella società civile, ha condotto a rico­ noscere il carattere relativo, parziale e provvisorio e orientato verso il futuro, come è proprio di ogni realtà storica. Oggi non esiste più un soggetto che possa essere portatore universale e unico della storia, con una cultura salvifica totale e totaliz­ zante, che conduce sempre a nuove forme di totalitarismo e di fondamentalismo. Quindi, anche il movimento operaio non è più un soggetto portatore e salvifico del­ la storia universale. E’ vero che esso può avere un ruolo importante nella storia at­ tuale. Ma questo ruolo non può essere totalizzante, non può avere una risposta esauriente per tutto, deve essere cosciente dei propri limiti. Il suo è un compito re­ lativo e provvisorio, in riferimento ai diversi contesti storici. Questo movimento è chiamato a dialogare e collaborare con altri movimenti e soggetti storici, per lotta­ re insieme contro i meccanismi escludenti del neoliberismo e per la ricerca demo­ cratica di una società alternativa. Entro la consapevolezza di queste nuove realtà, si può dire con Frei Betto che «la teologia della liberazione deve stare attenta a non restare imprigionata nei concetti di classi sociali. Ci sono realtà come le donne, i bambini, i neri e gli indigeni che esigono impostazioni diverse»11. Nella prospettiva della ricerca di una utopia alternativa, il sogno zapatista e l’insurrezione indigena e zapatista in Chiapas (1 gennaio 1994) sono piene di sim­ boli e di indicazioni culturali e politiche. Da una parte esse sono un appello ai tan­ ti popoli indigeni latinoamericani che si trovano in situazioni simili e dall’altra que­ sti interventi culturali e politici sono il loro contributo alla costruzione di una nuo­ va civiltà. Sempre più consapevolmente, essi intendono sfidare e dialogare con il mondo occidentale. Tra i temi centrali di questa sfida, essi hanno denunciato l’economicismo dei modelli occidentali del capitalismo e inquadrano e presentano la loro organizza­ zione dell’economia nella prospettiva etica e culturale delle loro tradizioni indige­ ne. Da questo punto di vista, la loro organizzazione dell’economia non è sotto­ messa ai poteri né agli interessi dei singoli, ma è centrata sugli uomini e sul benes­ sere della comunità nazionale e internazionale. Questa rivendicazione della loro dimensione etica e culturale include il riconoscimento della loro alterità e della lo- 10) Frei Betto, Non è sepolta..., op. cit., p. 15. " ) Frei Betto, Non è sepolta..., op. cit., p. 14. 18 ro identità che sono state negate nei cinquecento anni di colonialismo. Da questi accenni appare che il riconoscimento della loro alterità e della loro soggettività si­ gnifica anche la rivendicazione di essere soggetti e protagonisti della loro storia e della storia del mondo12. Alcuni teologi della liberazione prendono atto di questa realtà e cercano di ri­ proporre un cambiamento radicale della società e della chiesa, dai punti di vista delle culture e delle religioni dei popoli indigeni. In questa prospettiva, monsignor Samuel Ruiz Garda, arcivescovo della diocesi di San Cristóbal de Las Casas, parla di una strada da percorrere verso una chiesa autoctona, di cui si era parlato nel Concilio Vaticano II. Per monsignor Ruiz si tratta di una chiesa in cui i popoli in­ digeni sono riconosciuti come soggetti e protagonisti nella lettura del vangelo, nel­ l’organizzazione della chiesa e nella celebrazione dei sacramenti13. Di fatto, questo protagonismo è parallelo al loro impegno prima nell’insurrezione e poi nella orga­ nizzazione della società civile e della società in generale, come soggetti della resi­ stenza all’oppressione militare ed economica, nella lotta contro il neo-liberismo. Perciò ha un significato molto positivo la lettera (Città del Messico, 14 novembre 1996) in cui i provinciali dei gesuiti di tutta l’America Latina hanno condannato il neo-liberismo, in particolare nel Messico e nel Chiapas, mettendosi chiaramente dalla parte degli indigeni e degli zapatisti14. 6. Povertà, cultura, alterità: teologia della cultura nella linea della liberazione La presa di coscienza delle dimensioni culturali dei popoli indigeni e degli afroa­ mericani ha indotto molti teologi della liberazione a ripensare i concetti di povero e di povertà. Recentemente Frei Betto ha detto: «Povero è un termine biblico, che com­ prende tutti quelli che si trovano, in qualsiasi modo, privati dell’accesso ai beni ma­ teriali e simbolici imprescindibili dalla dignità umana, come diritto personale e co­ munitario a cercare la felicità». Nello stesso testo l’autore offre un’ulteriore precisa­ zione: «la povertà ha cause strutturali, il che significa che, a rigore, non vi sono po- 12) Cfr. Subcomandante Marcos. Dal Chiapas al mondo. Scritti, discorsi e lettere sulla rivolu­ zione zapatista, a cura di R. Bugliani, Erre Emme Edizioni, 1996. - Subcom andante Marcos con Y. Le Bot, Il sogno zapatista, Mondadori, 1997. - G. Almeyra e A. D’Angelo, Chiapas. La rivolta za­ patista in Messico, Datanews, 1994. - R Coppo e L. Pisani (a cura), Armi indiane. Rivoluzione e profezie maya nel Chiapas messicano, Edizione Colibrì, 1994. 13) Cfr. S. Ruiz Garcia, In quest’ora di grazia. Lettera pastorale del 6 agosto 1993, in “Adista” , 10, 1994, pp. 3-13. - Id., Perché s ’incontrino la giustizia e la pace. Lettera pastorale del 2 agosto 1996, in S. Ruiz, Giustizia e pace si baceranno, a cura di J. Santiago, Ed. Lavoro, 1997. - G. G i­ rardi, A. Grossi e A. Tosolini, Sui sentieri indigeni della chiesa in Chiapas, Ed. Alfazeta, 1996. - G. Girardi, La insurrección indigena y la construction de la esperanza. Tres aportes, CRIE, Mexico, 1996. - S. Ruiz Garci'a, AmericaLatina - Messico. Edificare le Chiese autoctone, intervista a cura di F. Strazzari, in “ Il regno-attualità” , 16, 1997, pp. 449-454. - G. Ituarte, Messico - Marcos, Ruiz e gli altri, intervista a cura di F. Strazzari, ibid., pp. 450-454. 14) Cfr. EI neoliberalismo en América Latina. Carta de los Provinciates Latinoamericanos de la Comparila de Jesus, Università Iberoamericana, Città del Messico, 1997. - F. Lopez, America La­ tina - Messico. Da Roma viene quel che a Roma va, in “ Il regno - attualità” , 16, 1997, pp. 455-458. 19 veri (poiché nessuno sceglie di esserlo, e quelli che lo sono vorrebbero vivere in con­ dizioni migliori), esistono persone impoverite, che i rapporti sociali di ingiustizia e di oppressione hanno privato dei diritti fondamentali»15. Ciò significa che gli impoveri­ ti non sono persone isolate ma in rapporto, personale e comunitario, con le strutture dominanti nella nostra società che producono le condizioni ingiuste dell’esclusione e dell’impoverimento, specialmente tra i popoli del Sud. Il riferimento di questo testo di Frei Betto ai beni materiali e simbolici rievoca il dibattito in cui si è utilizzato con frequenza il concetto di povertà antropologica e/o culturale. In realtà, si tratta di una proposta approfondita soprattutto dalla teologia africana, fin dai suoi inizi1617. Dall’antropologia la teologia della liberazione ha assunto anche la categoria dell’alterità intesa come diversità culturale: «essa non dice carenza ma differenza, non enuncia una negatività da colmare ma una positività da riconoscere. L’altro si erge qui di fronte a me come un già, dotato di un’identità che chiede di essere accolta come tale»!/. Oltre la solidarietà che l’indio evoca come povero, l’alterità è direttamente una richiesta del riconoscimento del suo essere soggetto e protagonista della sua vita nella storia del mondo. Sempre con la consapevolezza che qualsiasi realtà umana, an­ che la solidarietà, l’alterità e l’identità hanno aspetti positivi e negativi. Tra le diverse alterità oggi storicamente presenti, si può parlare dell’alterità culturale, etnica, raz­ ziale, di sesso o di genere, dell’alterità della natura e delle singole religioni, e di quel­ le prodotte dai vari tipi di esclusione e di emarginazione presenti nella società mo­ derna (immigrati, portatori di handicap, anziani, minori, disoccupati, tossicodipen­ denti, omosessuali e sieropositivi, ecc.). I meccanismi di esclusione propri del modo attuale di sviluppo raggiungono sia le dimensioni socio-economiche, per ostacolare le lotte per la liberazione dei poveri, sia le dimensioni culturali e antropologiche che rendono più difficile il riconoscimento dell’alterità. Per queste ragioni le molteplici dimensioni dell’oppressione rendono necessaria, per la teologia della liberazione, la mediazione analitica di tutte le scienze. L’intreccio tra povertà, cultura e alterità è servito ai teologi della liberazione per approfondire il significato della prima e della nuova evangelizzazione. Nel dibattito, che ha portato ad una nuova interpretazione della Conquista e della colonizzazione, è diventata una premessa necessaria l'elaborazione di una teologia critica della cultu­ ra nella linea della liberazione o, come dice Leonardo Boff, una teologia della cultu­ ra di segno liberatore18*20. Molti teologi hanno affermato che nella prima evangelizzazione non ci fu un 15) Frei Betto, La teologia de la Uberación, se vino abajo con el muro de Berlin?, in “ Exodo”, 38, 1997, pp. 32-38. 16) Cfr. J. Cone, Teologia nera della liberazione e Black Power, Queriniana, 1973. - A. Le M o­ ne (a cura), Teologie del Terzo mondo: teologia nera e teologia latinoamericana della Uberaziond', Queriniana, 1974. - R. Gibellini (a cura), Teologia nera , Queriniana, 1978. - J. Parratt (a cura), Cri­ sto in Africa. Teologi africani oggi, Claudiana, 1994. - M. Nkafu Nkemnkia, Il pensare africano co­ me vitalogia, Città Nuova Ed., 1995. 17) A. Rizzi, L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Ed. Paoline, 1991. - Id., L’oro del Perù: la solidarietà dei poveri. Dalla cultura indigena all’uomo nuovd’, Emi, 1984. 18) Cfr. L. Boff, 500 anni di evangelizzazione. Dalla conquista spirituale alla liberazione inte­ grale, Cittadella ed., 1992. - R. Almeida Cunha, La teologia de la Uberación a la luz de la nueva evangelización, Ed. San Pio X, Madrid, 1993. 20 vero annuncio del vangelo, ma l’imposizione della versione europea del vangelo. Oggi, tutti riconoscono che il vangelo di Gesù il Cristo ha avuto ed ha bisogno di culture in cui esprimersi. Ma nessuna cultura, nessuna religione e nessuna teologia può esaurire il mistero di Dio, il mistero di Gesù il Cristo, il mistero dell’uomo. Ciò rende possibile il passaggio dall’incarnazione del messaggio evangelico nella cultu­ ra europea ad una nuova incarnazione dello stesso vangelo nelle culture dei popo­ li indigeni e afroamericani, che potrà portare a costruire un nuovo tipo di cristia­ nesimo pluriculturale. Inculturazione è un termine teologico recente che si va approfondendo con la pratica e la riflessione missionaria. Si oppone ad acculturazione, adattamento o assi­ milazione, in cui la cultura dell’evangelizzazione era dominante e che perciò ha per­ messo l’occidentalizzazione del vangelo e l’imposizione del cristianesimo monocul­ turale. Invece l’inculturazione annuncia il vangelo dall’interno delle culture, come dialogo alla pari tra le culture e le religioni dei popoli evangelizzati e la cultura del­ l’evangelizzatore. In questo dialogo tutti agiscono come soggetti responsabili di un modo nuovo e diverso di parlare di Dio, in una efficace reciprocità: i popoli indige­ ni parlano di Dio a partire dal loro modo di essere e di agire, cioè a partire dalla lo­ ro cultura e dalle loro religioni ancestrali, mentre l’evangelizzatore parla di Dio e di Gesù il Cristo a partire dalla sua tradizione occidentale ed europea. Ma anche l’e­ vangelizzatore, superando il colonialismo imperante, deve essere aperto ad essere evangelizzato, ad essere soggetto di una nuova evangelizzazione, perché si trova di fronte ad una nuova forma indigena di parlare del Dio di Gesù il Cristo. Oltre che in rapportio con le dimensioni culturali dei popoli, l’inculturazione esiste necessa­ riamente in rapporto con i condizionamenti sociali e politici. Perciò, una evangeliz­ zazione inculturata sarà veramente liberatrice se richiede e pratica insieme la lotta per la liberazione socio-economica e politica, per l’autodeterminazione dei popoli19. Tutto ciò implica la presa di coscienza della relatività (non relativismo) di ogni cultura e di ogni religione. Il gesuita Azevedo la formula così: «Come gli esseri uma­ ni concreti, ogni cultura è caricata di elementi positivi e negativi. Proprio per que­ sto può migliorare e riorientarsi, correggersi e crescere, rapportare e trasformarsi. Nessuna cultura può essere assoluta. Nessuna è esaustiva dell’umano... Nessuna cultura può presentarsi, quindi, come l’unico o come il miglior cammino per arri­ vare alla fede»20. E ancora Azevedo sostiene che «nel livello attuale di presupposti antropologici e della coscienza teologico-missionaria non si può concepire e giusti­ ficare un cristianesimo monoculturale. Al contrario, il risultato universale di una adeguata evangelizzazione inculturata sarà un cristianesimo multiculturale, che co­ struirà l’unità profonda della fede nella diversità di concezioni ed espressioni cul­ turali». In questa prospettiva sta sorgendo un cristianesimo pluriculturale, nelle forme concrete di un cristianesimo azteca, maya, inca, quechua, aymara, guarani, ecc., e forse un cristianesimo latinoamericano192021. 19) Cfr. P. Suess, Inculturazione, nel volume di I. Ellacuri'a e J. Sobrino (a cura), Mysterium liberationis..., op. cit. - F. Castillo, Cristianesimo e inculturazione in America Latina, in “Concilium ” , 1, 1994, pp. 104-121. - P. Sues, Scarsa visibilità nello scenario della missione. Analisi critica di re­ centi documenti e tendenze della chiesa, ibidem, pp. 142-158. 20) M. Azevedo, Cristianesimo, esperienza multiculturale. Come vivere e annunciare la fede cri­ stiana nelle diverse culture, in “Sial”, 12, 1995, pp. 23-27. 21 Non accettare la logica del limite, della contingenza, della relatività e del plu­ ralismo storico può portare il cristianesimo monoculturale alTassolutizzazione dei dogmi e delle strutture religiose istituzionali, che sono alla base di ogni tipo di fon­ damentalismo, come è capitato nel regime di cristianità, dominante nei cinquecento anni di colonialismo. Ciò vale anche per le organizzazioni socio-culturali e politiche che abbiano la pretesa di presentarsi come una organizzazione monoculturale. Da notare ancora che la IV Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano (Santo Domingo, 12-28 ottobre 1992) ed anche papa Wojtyla sono stati attenti alle culture indigene, afroamericane e meticce. Tuttavia è mancata un’analisi seria delle radici economiche, politiche e culturali della povertà attuale e del loro intreccio con i meccanismi dominanti nei rapporti Nord-Sud, che escludono i due terzi dell’u­ manità dalla famiglia umana. Inoltre la nuova evangelizzazione di cui si è parlato ri­ mane sempre la presentazione della versione europea e monoculturale del cristia­ nesimo occidentale, con i grossi limiti e le grosse sfide di cui si è parlato sopra. 7. Molteplicità di te o lo g ie della liberazione Nel contesto del dibattito ancora in corso sul passaggio da un cristianesimo monoculturale ad un cristianesimo pluriculturale (azteca, maya, inca, quechua, aymara, guarani, ecc.), a partire degli anni ‘90 è apparsa e si è diffusa la teologia india della liberazione, come anche la teologia nera e/o afroamericana. Gli indios e i ne­ ri vengono riconosciuti come soggetti della riflessione sulla loro fede nella lotta per la loro liberazione. Si tratta di una ricerca molto complessa e si percepisce oggi la formazione di due indirizzi diversi: 1) La teologia india-india, che reinterpreta il mi­ stero di Dio dall’intemo e a partire dalle proprie tradizioni culturali e dalle proprie religioni originarie, indipendentemente dal cristianesimo; 2) La teologia india-cristiana, elaborata da indigeni cristiani teologi che amano la loro identità india e ama­ no anche le Chiese e sono convinti della possibilità e della fecondità di una sintesi tra la tradizione cristiana e le loro tradizioni originarie2122. Parallelamente, col diffondersi delle comunità cristiane afroamericane in ri­ ferimento alle lotte per la loro liberazione e all’evolversi dei movimenti religiosi afro, si è andata formando una teologia nera della liberazione. Per questa teologia Dio è nero. Dio è identificato con il popolo nero, e questo rende possibile l’intrec­ cio tra i culti religiosi di origine afro e l’impegno per la liberazione dalle conse- 21) Cfr. M. Azevedo, Cristianesimo..., op. cit., p. 25. Inoltre cfr. R. Fornet-Betancourt, Hacia una filosofia interculturale latinoamericana, ed. Dei, San José, Costa Rica, 1994. 22) Cfr. Teologia india. Primer Encuentro Taller Latinoamericano, Ed. Cenami e Ed. Abya Yala, 1991. - Teologia india. Segundo Encuentro Taller Latinoamericano, Ed. Abya Yala e Ed. Cenami, 1994. - Hacia una Teologia cristiana india del pluralismo religioso, Declaración de la Asociación de Teólogos Indios, Pueblo Kuna, Panama. - A. Wagua, Attuali conseguenze dell’invasione euro­ pea dell’America. Da! punto di vista indigend’, in “Concilium” , 6, 1990; pp. 55-65; “ Un prete indio si racconta. Due morti per una risurrezione” , in “Nigrizia Verona, n. 10, ottobre 1991, pp. 32-34. Id., Sacerdote indio e V Centenario: Per me il processo di morte cominciò con l ’entrata in semi­ nario, in “Adista” , 49, 1992, pp. 1-2. - Id., Prese di posizione indigene a 500 anni dall'invasione, in “ Latinoamerica” , 48, 1992, pp. 15-21. - R. Gibellini, Il Dio della vita nella notte di un popolo. Terzo Incontro di riflessione teologica per i popoli indios, in “ Il regno-attualità", 18, pp. 553-555. 22 guenze del razzismo come ideologia generata dalla schiavitù coloniale. In partico­ lare, la teologia nera partecipa molto alle riflessioni della teologia femminista, per­ ché la donna nera è il simbolo della maggiore sofferenza sopportata dalle popola­ zioni afroamericane. Si tratta di una teologia positiva, una teologia della grazia, del­ l’energia che deriva da una visione del cosmo in cui natura e persona umana sono integrate. Perciò la teologia nera è anche teologia ecologica. In ogni caso, quest’in­ sieme di riflessioni rivela la vitalità attuale della teologia della liberazione25.23* Spagna contemporanea Semestrale di storia e bibliografia. Ppromosso dall'Istituto di studi storici G aetano Salvemini di Torino, diretto da Alfonso Botti e C laudio Venza. Abbonam ento annuo per l'Italia L. 4 5 .0 0 0 ; Europa L. 6 0 .0 0 0 ; paesi extraeuropei $ 5 0 . Versamento su c.c.p. n. 1 0 0 9 6 1 5 4 intestato a "Edizioni dell'O rso sas", via Piacenza 6 6 , 1 5 1 0 0 Alessandria (Italia), o trasferimento ban­ cario intestato allo stesso 23) Cfr. A. Aparecido da Silva, Afroamericani e teologia nera, in “Sial” , 13, 1995, pp. 25-26. - H. Frisotti, Popolo nero e Bibbia. Una riconquista storica, in “Am anecer”, 3, 1996. 23 XXX A N I V t R S A R l O S O è m e A N N ! VERS AIR E 5 0 t h A N N I V E R S A R Y MSMMMMB ^ S O C IA L IS M O O M U E R T E m LE S O C IA L IS M E O U LA M O R T |MS S O C IA L IS M O R D E A T H j r Eladio Rivadulla Pérez, silk-screen, 1991, 51x70 cm. 24 Lucia Ceci La Chiesa in America latina negli ultimi tren tan n i1 Al termine dell’ultima sessione conciliare, il 23 novembre 1965, Paolo VI incon­ trò a Roma i cardinali e i vescovi latinoamericani presenti al Concilio, per celebra­ re il X anniversario della costituzione del Consejo episcopal latinoamericano1. Mo­ strando di aver ben presente la situazione del subcontinente, il pontefice sottolineò come la crescente conflittualità, che investiva settori sempre più ampi della popo­ lazione, fosse uno dei tratti caratterizzanti l’attuale momento. Con toni preoccupa­ ti egli riportò poi l’attenzione dei padri alla facilità con cui, tra deluse attese e non corrisposte speranze, si andassero diffondendo “forze operanti pericolose”, tra cui la più dannosa, per la sua carica di messianismo sociale e i suoi esiti di ateismo dot­ trinale e pratico, era “il marxismo ateo”. Ma il discorso non era incentrato sulla ri­ provazione o la condanna; esso era piuttosto un richiamo vigoroso a rinnovare le strutture pastorali, attraverso “un impegno straordinario” che valorizzasse il ruolo dei laici, a ricercare “soluzioni d ’insieme”, a promuovere una specifica azione so­ ciale: “della giustizia l’aspetto sociale è quello che più colpisce e interessa il mondo in generale e quello latinoamericano in particolare, ove intensi e profondi sono i contrasti”. Paolo VI toccò, anche se brevemente, un ultimo, significativo tema: nel­ l’adempimento dei suoi doveri sociali per la costruzione di un ordine di giustizia nei riguardi di tutti, la Chiesa doveva dare l’esempio “con la testimonianza della po­ vertà”. Il pontefice riprendeva dunque e rilanciava come sfide per la Chiesa lati­ noamericana alcune delle prospettive aperte dal Concilio: il rinnovamento dell’ec­ clesiologia e della pastorale, l’idea di una Chiesa a servizio del mondo, che, in Ame­ rica latina, diveniva soprattutto il mondo dei poveri e degli emarginati, l’esigenza di uno stile di vita più sobrio e solidale. Come avrebbe ricordato uno dei padri presenti quel giorno a Roma, mons. Mar­ cos Me Grath, l’intervento di Paolo VI ebbe l’effetto di infondere grande entusia­ smo nei vescovi e cardinali latinomericani, in procinto di tornare nei propri paesi:12 1 II presente contributo ha il carattere di una rapida sintesi sulla Chiesa latinoamericana, a par­ tire dalla conclusione del Concilio Vaticano II. Per le ragioni imposte da questa prospettiva non analitica è stato necessario limitarsi a prendere in esame gli aspetti e i momenti ritenuti più signi­ ficativi di tale percorso ecclesiale. 2 Cfr. Insegnamenti di Paolo VI, III (1965), Città del Vaticano 1966, pp. 653-669. 25 “una luz para nuestros caminos al irse, terminado el Concilio, proyectandolo hacia nuestro continente”3. In realtà l’intento di attualizzare le indicazioni conciliari nel­ la particolare situazione latinoamericana si era già andato definendo durante una riunione che il Celam aveva tenuto a Roma nello stesso mese di novembre. In que­ sta occasione i vescovi individuarono come strumento principale di tale “aggiorna­ mento” la II Assemblea generale dell’episcopato latinoamericano, da tenersi, di lì a tre anni, nella città colombiana di Medellin, avendo ufficialmente come tema “La Chiesa nella trasformazione dell’America latina alla luce del Concilio”4. Che si fosse in una fase di profonde trasformazioni, era una percezione abba­ stanza diffusa in America latina. Gli anni ‘60 rappresentarono infatti un mo­ mento denso di avvenimenti ed esperienze che sembravano essere decisivi nell’orientare il futuro del subcontinente: la rivoluzione cubana era entrata nella fa­ se di definitiva caratterizzazione in senso socialista e pareva indicare la direzio­ ne di un futuro possibile, i movimenti di liberazione e la lotta armata si erano diffusi in molti paesi, mentre, proprio nell’anno di chiusura del Vaticano II, il sa­ cerdote colombiano Camilo Torres decideva di entrare nella guerriglia. Inoltre il processo di urbanizzazione, avviato a partire dagli anni ‘40, non essendo stato accompagnato da un adeguato sviluppo dell’occupazione, aveva determinato un generale deterioramento delle condizioni di vita dei settori popolari urbani, che iniziavano in questi anni a manifestare un crescente scontento e a organizzarsi, oltre che nelle tradizionali strutture sindacali, in forme di mobilitazione indipendenti dai luoghi di lavoro, come i comitati di quartiere o i vari comitati di ba­ se5. In un continente a larghissima maggioranza cattolico, il rinnovamento ec­ clesiale e pastorale promosso dal Concilio si caratterizzò dunque, e per molti aspetti si radicalizzò, attraverso l’incontro con i movimenti e le esperienze poli­ tiche in atto in America latina. A questi anni risale anche l’elaborazione della “teoria della dipendenza”, teoria che nei suoi principali esponenti si dichiarava “neo-marxista” ed era proposta, nella for­ ma classica, da André Gunder Frank, insieme ad altri studiosi di scienze sociali latinomericani, per spiegare il fallimento dei progetti politici riformisti e delle politiche economiche da essi adottate6. Tale teoria, sulla base di analisi storico-economiche, di­ mostrava che il sottosviluppo dell’America latina non era un momento casuale e cro­ nologicamente anteriore del processo di modernizzazione, ma il sottoprodotto stori- 3 Me Grath, Unas notas sobre Paolo VI y la colegialidad episcopal en América Latina, in Pao­ lo VI e la collegialità episcopale. Colloquio internazionale di studio, Brescia, 25-26-27 settembre 1992, Brescia - Roma 1995, pp. 236-240. 4 Cfr. H. Parada, Crònica de Medellin, Bogota 1975, pp. 35 ss. 5 Cfr. M. Carmagnani-G. Casetta, America Latina: la grande trasformazione 1945-1985, Torino 1989, pp. 10-35. 6 Di Gunder Frank si vedano soprattutto Capitalismo e sottosviluppo in America Latina, trad, it., Torino 1969 [1967] e America Latina: sottosviluppo o rivoluzione, trad, it., Torino 1971 [1969], Tra gli apporti di studiosi latinoamericani sulla teoria della dipendenza cfr. F. H. Cardoso-E. Falet­ to, Dipendenza e sviluppo in America Latina, trad, it., Milano 1971 [1969], Th. Dos Santos, La nuova dipendenza, trad, it., Reggio Emilia 1971 [1968]; Celso Furtado, Gli Stati Uniti e il sottosvi­ luppo nellAmerica Latina, trad, it., Milano 1971 [1969]; Dipendenza e sottosviluppo in America La­ tina, a cura di Salvatore Sechi, Torino 1972. 26 co dell’espansione capitalistica di altri paesi, e asseriva che l’unica strada percorribile per uscire da tale situazione di dipendenza era la rivoluzione socialista'. Oltre a divenire uno dei presupposti teorici della sinistra latinoamericana78, la “teoria della dipendenza” venne fatta propria da alcuni settori del mondo cattolico impegnati nelle lotte di liberazione del continente, attraverso iniziative di singoli, di gruppi, di comunità e di esponenti dell’episcopato9. Già a partire dagli anni 19661967, gruppi di sacerdoti che si riunivano per studiare i documenti conciliari ave­ vano preso posizioni di denuncia nei confronti dei governi militari o oligarchici, del neocolonialismo nordamericano, richiamando la Chiesa a un impegno più efficace tra i poveri. Si formavano in questo modo i “Sacerdotespara el Tercer Mundo” in Ar­ gentina, “Golconda” in Colombia, la “Oficina Nacional de Investigation Social” (Onis) in Perù e gruppi simili in Cile, Guatemala, Ecuador, che prendevano parte direttamente alla lotta politica e si dichiaravano favorevoli al sistema economico so­ cialista, in molti casi con l’aperta disapprovazione dei vescovi locali101. In questo contesto, la comparsa, nel marzo del 1967, dell’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI sembrò legittimare e incoraggiare alcune direzioni assunte all’interno del mondo cattolico latinoamericano. Come è noto, in essa il papa for­ niva un orientamento cristiano sui problemi della giustizia e dello svluppo dei pae­ si del Terzo mondo, completando il Vaticano II e in particolare la Gaudium et Spes11. La denuncia dello “squilibrio crescente” tra paesi ricchi e paesi poveri, la condanna del “liberalismo senza freno” e dell’’’imperialismo internazionale del de­ naro”, si accompagnava, nella Popidorum Progressio, all’affermazione della neces­ sità di un superamento dei rapporti di dipendenza economica propri del “neocolo­ nialismo”, attraverso la ridefinizione delle relazioni internazionali e dei meccanismi di indebitamento dei paesi in via di sviluppo, e alla proclamazione del diritto di tut­ te le nazioni a uno “sviluppo integrale”, nozione centrale nell’enciclica12. Si affer7 Una bibliografia sulla teoria della dipendenza e sulle analisi critiche ad essa relative in J. Ga­ briel Palma, The Latin America Economies, 1950-1990, in The Cambridge History of Latin Ameri­ ca, voi. XI, Bibliographical Essays, ed. by L. Bethel!, Cambridge 1995, pp. 529-541. 8 Un quadro del carattere “militante” della teoria della dipendenza emerge chiaram ente in II nuovo marxismo latinoamericano, introduzione e cura di G. Santarelli, Milano 1970. Si tratta di una selezione degli Atti del Congresso internazionale sull’America Latina tenutosi a Nimega, in Olan­ da, nel 1968, cui sono aggiunti un’altra serie di “testi rappresentativi del rinnovamento attualm en­ te in corso in America Latina nel campo degli studi sociali” . (Cfr. l’Introduzione p. V). 9 Su questo cfr. anche A. Me Govern, Latin America and “Dependency” Theory, in Liberation Theology and the Liberal Society, ed. by M. Novak, American Enterprise for public Policy Re­ search, Washington 1992, pp. 106-132. 10 Cfr. Ch. Smith, The Emergence of Liberation Theology, Chicago-London 1991, pp. 136-139. 11 La mancanza di una chiara consapevolezza dei problemi del sottosviluppo è evidente anche in uno dei primi studi sulla costituzione pastorale, come quello di Th. Mulder, La vida econòmicosocial, Exposición de las ideas centrales del capitulo, in La Iglesia en el mundo de hoy. Estudios y comentarios a la constitution «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II (esquema XIII), diri­ gida por G. Barauna, Madrid 1967, pp. 483-517, soprattutto pp. 597-501. 12 Un’analisi della Populorum Progressio in P. Poupard, L'einsegnement social de Paul VI, in Paul VI et la modernité dans l’Église. Actes du colloque organisé par l’École fran gaise de Home (Home 2-4 juine 1983), Roma 1984, pp. 429-443, in particolare pp. 430-436 e in II magistero di Pao­ lo VI nell’enciclica «Populorum Progressio», Giornata di studio, Milano 16 marzo 1988, Roma 1989 27 mava quindi che tale sviluppo richiedeva “trasformazioni audaci, profondamente innovatrici”, ma veniva respinto il ricorso all’insurrezione rivoluzionaria, “fonte di nuove ingiustizie”, anche se si lasciava intendere che questa poteva costituire l’ulti­ mo rimedio “nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse grave­ mente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso al bene comune del paese” (n. 31). La questione della legittimità della lotta armata era un tema destinato ad avere immediate ripercussioni in America latina, e sul quale Pao­ lo VI tornò, per circoscriverlo, in più occasioni13. Esso fu anche uno dei problemi su cui prese posizione la II conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, che si tenne a Medellin dal 26 agosto al 7 settembre 1968. Nel tentare di rileggere il Concilio alla luce dei cambiamenti in atto nella società e nella Chiesa latinoamericane, i sedici documenti conclusivi della conferanza si ar­ ticolarono attorno ad alcuni nodi tematici fondamentali: l’analisi del sottosviluppo come conseguenza del neocolonialismo economico; il problema della violenza ri­ voluzionaria; il tema della liberazione dei poveri e degli oppressi; la povertà nella Chiesa; la scelta delle comunità ecclesiali di base (cebs)14. Tra le forme privilegiate di presenza della Chiesa negli ambienti poveri, le conclusioni di Medellin, soprat­ tutto a livello di “orientamenti pastorali”, indicarono infatti le cebs, menzionate nei vari documenti sulla pastorale, nel documento sulla catechesi, sulla liturgia, sulla formazione del clero15. “Aperte al mondo e in esso inserite”, secondo il Celam le comunità di base esprimevano la centralità che per il cristiano aveva “la forma co­ munitaria di vita come testimonianza di amore e di carità”, l’ambito in cui la cele­ brazione eucaristica poteva avere “una vera efficacia pastorale”, alla cui iniziazione e assistenza andavano preparati i futuri sacerdoti. Cosi, mentre nel documento sui movimenti di laici non si faceva alcun riferimento all’Azione Cattolica, il docu­ mento sulla pastorale d ’insieme poneva al primo punto degli orientamenti per il rinnovamento delle strutture pastorali le “comunità cristiane di base”, definite “cellula iniziale della struttura ecclesiale, fuoco di evangelizzazione e attualmente un fattore primordiale della promozione umana e dello sviluppo”. Il sorgere delle comunità di base si collocava all’interno di quel dinamismo che aveva visto da un lato la crisi delle strutture pastorali tradizionali della Chiesa, dal­ l’altro lato la spinta di rinnovamento di tutta l’azione pastorale prodotta dal Conci­ lio Vaticano II. Al tempo stesso, in un continente a maggioranza cattolica e in rapi­ da crescita demografica, la carenza di sacerdoti aveva costituito una forte sollecita­ zione a ‘inventare’ forme ecclesiali più autonome, animate e gestite sostanzialmen­ te da laici16. In molti paesi latinoamericani in cui, soprattutto negli anni ‘70, si af13 Si vedano soprattutto il discorso in occasione del primo anniversario della Populorum Progressio e i discorsi di Paolo VI a Bogota nell’agosto del 1968, rispettivamente in Osservatore Ro­ mano del 28 marzo 1968 e Insegnamenti di Paolo VI, VI (1968), Città del Vaticano 1969, pp. 355432. 14 Tra le edizioni italiane dei documenti di Medellin, si segue Medellin. Testi integrali delle con­ clusioni della II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, Roma 1974. Esiste anche una traduzione più recente nell 'Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, a cura di P. Vanzan, Bologna 1995, pp. 119-267. 15 Cfr. J. Mejia, Medellin y las comunidades de base, Criterio, XLI, 1558 (1968), pp. 804-807. ,6 La mancanza di sacerdoti era un problema molto sentito in America latina, definita da Càrde- 28 fermarono regimi autoritari, con la conseguente repressione nei confronti dei parti­ ti, dei sindacati, delle organizzazioni popolari, le cebs costituirono uno dei pochi luoghi di incontro e di riorganizzazione della base popolare. La presenza di queste comunità si collegò cosi, sin dall’inizio, con i movimenti di liberazione, e il contat­ to con la Bibbia, operato soprattutto a livello comunitario, tendeva ad essere un confronto tra la propria storia, segnata dalla povertà e dal sopruso, e la storia di sal­ vezza e di liberazione del popolo di Dio17. Nelle comunità di base i poveri affer­ mavano il loro diritto a “prendere la parola”, ovvero il diritto di essere soggetti so­ ciali ed ecclesiali. La presa della parola diveniva nella comunità “lettura militante”, appropriazione della Scrittura, sottratta al monopolio clericale degli specialisti e ri­ messa nella storia con una carica trasformatrice. Nell’ambito dell’esperienza delle comuntà di base si sviluppò anche un modo di­ verso di intendere la teologia e la figura del teologo: non più una riflessione acca­ demica, fatta a tavolino, ma riflessione critica, alla luce della fede, sulla prassi di li­ berazione, riflessione che ha per soggetto la comunità ecclesiale, al punto che si par­ lerà di potere teologizzante dei poveri e del teologo come di un intellettuale orga­ nico18. E non è certamente un caso il fatto che la maggior parte dei teologi della li­ berazione, da Gutiérrez, ai fratelli Boff, al cileno Munoz, fossero impegnati in pri­ ma persona nell’esperienza delle comunità di base. Presentata a grandi linee, per la prima volta, dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez in un incontro pastorale celebrato a Chimbote nel luglio del 196819, accennata, come prospettiva, nei docu- nas “un continente católico sin sacerdotes”. Cfr. E. Càrdenas, La Iglesia latinoamericana en la hora de la creacion del Celam, in Celam, Elementos para su historia. 1955-1980, Bogota 1980, pp. 2773. Tale carenza era particolarmente marcata in Brasile, dove, nel 1955, si trovavano circa 8 mila sacerdoti per una popolazione di più di 54 milioni di persone. Statistiche e proiezioni relative a que­ sto aspetto in F. Houtart - E. Pin, L’Église à l ’heure de Amérique Latine, Paris 1965, in particolare il capitolo “Explosion démographique et institutions religeuses”, pp. 141-154. Rispetto al ruolo dei lai­ ci nelle Ceb, L. Boff, sottolinea invece come queste, benché nella maggior parte dei casi debbano attribuire la propria origine a un sacerdote o a un religioso, siano poi, di fatto, un “movimento di lai­ ci” . Cfr. Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa, Roma 1978, p. 8. 17 Cfr. E. Bianchi, La centralità della Parola di Dio, in II Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. A l­ berigo e J. P. Jossua, Brescia 1985, pp. 159-187, in particolare pp. 182-186. Su questi aspetti si veda soprattutto M. de C. Azavedo, Comunidades eclesiales de base. Alcance y desafio de un modo nuevo de ser Iglesia, Madrid 1986. 18 Cfr. G. Gutiérrez, Comunidades cristianes de base. Perspectives eclesiológicas, in Servir. Teologia y pastoral, XVI, 90 (1980), pp. 709-746. 19 Cfr. Gutiérrez, Hacia una teologia de la liberación, Miec-Jeci, serie 1, doc. 16, M ontevideo 1969. Sull’incontro di Chimbote cfr. invece F. Montes, How the ‘ONIS’ Movement began and grew, in Ladoc, IV, 45 (1974), sección 24. 20 È soprattutto nel paragrafo del documento conclusivo sulla giustizia dedicato alla “giustifi­ cazione dottrinale”, che sembrava risuonare la prospettiva teologica della liberazione, laddove si diceva che “è lo stesso Dio che, nella pienezza dei tempi, invia il figlio suo perché, fatto carne, venga a liberare tutti gli uomini da tutte le schiavitù a cui li tiene soggetti il peccato, l’ignoranza, la fame, la miseria e l’oppressione, in una parola l’ingiustizia e l’odio che hanno origine nell’egoismo umano. (...) Nella Storia della Salvezza l’opera divina è un’azione di liberazione integrale e di pro­ mozione dell’uomo in tutta la sua dimensione, opera che ha come unico movente l’am ore”. 29 menti conclusivi della II conferenza generale dell’episcopato latinoamericano20, la teologia della liberazione si sviluppò negli anni successivi a Medellin, con il contri­ buto di diversi teologi latinoamericani, attraverso alcuni incontri collettivi, grazie soprattutto all’apporto dei cattolici Hugo Assmann, Segundo Galilea, Gustavo Gutiérrez, J. Luis Segundo, Enrique Dussel e dei protestanti Rubem Alves e José Miguez Bonino. In questi momenti di confronto e si andarono definendo con mag­ giore chiarezza alcune prospettive centrali della teologia della liberazione, ap­ profondite dagli stessi autori in diversi saggi21: la scelta del povero, visto anche nel­ l’aspetto strutturale di classi sfruttate e popoli oppressi; l’assunzione della media­ zione delle scienze sociali - con particolare riferimento alla teoria della dipendenza - per articolare una lettura della realtà a partire da tale scelta; l’orientamento verso trasformazioni radicali nella società e nella Chiesa; una visione della salvezza cri­ stiana, e quindi della missione della Chiesa nel mondo, come liberazione integrale; la lettura politica del tema biblico dell’Esodo2223*0. Per la Chiesa latinoamericana, gli anni 70 da un lato rappresentarono dunque un momento di forte sviluppo e creatività, dall’altro lato furono segnati da crescenti dif­ ficoltà dovute all’inasprirsi della repressione attuata dai regimi autoritari affermatisi in molti paesi del subcontinente e da un’accentuata politicizzazione che coinvolse molti settori del mondo cattolico, non solo a livello di singoli cristiani o di comunità di base, ma anche di parrocchie, organismi diocesani, e, in alcuni casi, anche a livello di conferenze episcopali regionali o nazionali, occupando queste strutture il vuoto creato dall’assenza di partiti e associazioni sindacali. La crescente politicizzazione che coinvolse a vari livelli il mondo cattolico, ma anche la volontà di evitare un ulteriore inasprimento del conflitto con le autorità militari, si ripercossero all’interno della Chiesa latinoamericana nella direzione di un irrigidimento delle tendenze moderate e conservatrici presenti nella gerarchia cattolica, che si manifestò soprattutto a partire dalla XIV assemblema ordinaria del Celam, che si tenne a Sucre nel novembre del 1972 e portò all’elezione, come segretario generale del Celam, di mons. Alfonso Lo­ pez Trujillo, vescovo ausiliare di Bogota, noto per le sue posizioni critiche nei con- 21 Nel 1972, in Canada, appariva una bibliografia sulla teologia della liberazione, che contava già più di 600 titoli. Cfr. F. P. Vanderdhoff, Bibliografy: Latin America Theology of Liberation, O t­ tawa 1972. 22 La bibliografia sulla teologia della liberazione, come è noto, è molto vasta, anche se spesso lontana da una prospettiva storica. Una rassegna bibliografica critica relativamente recente in B. Mondin, Teologia della liberazione: rassegna bibliografica, in Anuario de Historia de la Iglesia, III (1994), pp. 247-273. Per una ricostruzione che privilegia la prospettiva storica, mi permetto di rin­ viare al mio Per una storia della teologia della liberazione in America Latina, in Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXIII (1997), pp. 307-364. 23 Cfr. XVI Asamblea generai del Celam 1972. Informe del nuovo Secretano General, mon- sehor Alfonso Lopez Trujillo. Instrumento de comunión colegial entre los obispos de America La­ tina y la Iglesia Universal, in Documenta, voi. 5 (1972), pp. 295-299. Anche ad un’osservatore di­ staccato, come la studiosa M. E. Crahan la nomina di Trujillo a segretario generale del Celam ap­ pare, specie in rapporto a Medellin, come “una ritirata istituzionale sollecitata dai prelati più con­ servatori, che alla riunione di Sucre del 1972 riuscirono a nominare segretario generale della con­ ferenza un loro uorr>o”. Cfr. M. E. Crahan, Chiesa cattolica, in Storia dell'America Latina, a cura di M. Carmagnani, in II mondo contemporaneo, Firenze 1979, pp. 51-63, in particolare pp. 57-58. 30 fronti della teologia di autori come Assmann, Boff, Gutiérrez, Segundo23. Lo stesso mons. Trujillo, successivamente, avrebbe parlato del 1972 come di “uno de los varios anos duramente dificiles” per la Chiesa latinoamericana, soprattutto in riferimento a “las divisiones, la contestación, la crisis y los abandonos, la reducción del dogma a so­ ciologia y de la pastoral a politica”24. Fu in questa medesima circostanza che comin­ ciò a manifestarsi all’interno del Celam la tendenza a porre un freno a quel rinnova­ mento pastorale e teologico che si era inizialmente sviluppato proprio all’interno di tale organismo. A Sucre si decise infatti di porre termine alle attività degli istituti di catechesi e liturgia e deìì'Institi/lo Pastoral Latinoamericano (Ipla), in cui lavoravano i teologi della liberazione Galilea, Gutiérrez, Dussel, Comblin, Segundo, per riorga­ nizzarli in un unico istituto, per la cui direzione fu fatto il nome del gesuita belga R. Vekemans, dipendente direttamente dalla Segreteria Generale25. Benché fosse stato stabilito di concludere le attività dell’Ipla nel giro di un anno, nel marzo del 1973 l’i­ stituto aveva già terminato tutti i suoi corsi26. La distanza che sempre più andò separando i teologi della liberazione dai verti­ ci del Celam ebbe modo di manifestarsi, negli anni successivi, in incontri, docu­ menti e pubblicazioni che finirono per risolversi, non proprio in una condanna, quanto piuttosto nell’affermazione di una “ortodossia” in materia di teologia della liberazione, ovvero di una prospettiva teologica che ne accentuava il carattere spi­ rituale2', anche attraverso periodici come Tierra Nueva, di Vekemans28 e Medellin, rivista ufficiale dell’Istituto teologico-pastorale del Celam, diretto, dal 1976, dal francescano brasiliano B. Kloppenburg. Quando, nel gennaio del 1979, si riunì a Puebla la III conferenza generale del­ l’episcopato latinoamericano, tale separazione era ormai consumata, e nessuno dei principali teologi della liberazione venne invitato ufficialmente come esper­ to. Personalità come Gutiérrez, Comblin, Dussel, i fratelli Boff, Muhoz, Echegaray, Richard, Galilea, che in alcuni casi erano stati presenti a Medellin e rico­ privano ruoli prestigiosi in facoltà teologiche, istituti di pastorale, centri di stu­ di e azione sociale furono così esclusi dalla conferenza, anche se riuscirono co­ munque a far sentire la propria voce, giungendo a Puebla in qualità di consiglieri personali esterni di alcuni vescovi o della Conferencia latinoamericana de los re­ ligiosos (Clar). La diversità di orientamenti presenti nella Chiesa latinoamericana riunita a Pue­ bla si ripercosse chiaramente nei testi definitivi della conferenza, che ebbero un245678 24 Cfr. A. Lopez Trujillo, El Celam. Organismo episcopal, in Celam, Elementos para su historia, cit., pp. 119-132, in particolare p. 129. 25 Cfr. Vers une nouvelle orientation des épiscopats d'Amérique Latine, in Informations Catholiques Internationales, 428 (1973), pp. 12-13. 26 Cfr. Informations Catholiques Internationales, 430 (1973), p. 22. 27 Si vedano, in questa prospettiva, i due scritti di Trujillo Liberación marxista y liberación cri­ stiana, Madrid 1974 eTeologia liberadora en América Latina, Bogota 1974. Si vedano anche i m a­ teriali dell’incontro sulla teologia della liberazione, che si tenne, nel novembre del 1973, a Bogota, organizzata dall’équipe teologico-pastorale del Celam: Liberación: diàlogos en el Celam, 3 voli., Bogota 1974 (trad. it. Liberazione: dialogo nel Celam, 3 voli., Roma 1976). 28 Di Vekemans si veda, oltre ai vari articoli su Tierra Nueva, Teologia de la liberación y cristianos por el socialismo, Bogota 1976. 31 carattere piuttosto etorogeneo, aperto a una pluralità di letture, spesso in contra­ sto tra loro29. Nel documento finale e nelle singole parti finirono infatti per coesi­ stere ispirazioni diverse, più o meno orientate verso un impegno di liberazione so­ ciale e politica, distinto in ogni caso da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria e so­ cialista30. A livello pastorale, se in una sezione si dava rilievo all’esperienza delle comunità ecclesiali di base, si parlava di “evangelizzazione liberatrice”, e di “op­ zione preferenziale per i poveri”, in un’altra si insisteva sulla necessità di valoriz­ zare la “religiosità popolare”, intesa come “pietà popolare cattolica”31. Inoltre nei documenti non ci fu nessuna condanna della teologia della liberazione, mai nomi­ nata espressamente, ma affiorava chiaramente una posizione antimarxista e, quan­ do si parlava di liberazione, si utilizzavano espressioni molto caute, per evitare ogni possibile interpretazione in senso socialista. A poche settimane dalla fine del­ la Conferenza, l’elezione di mons. Trujillo quale presidente del Celam, del vesco­ vo argentino A. Quarracino, e altre nomine all’interno di questo stesso organismo, lasciarono comunque intendere abbastanza chiaramente in quale direzione si av­ viava il Celam nel periodo del post-Puebla323. Negli anni ‘80 la Chiesa latinoamericana è tornata a interpellare o, per lo meno a suscitare l’attenzione del mondo occidentale: l’esperienza del Nicaragua, con la partecipazione di numerosi cattolici alla rivoluzione e al governo sandinista53, l’as­ sassinio di mons. Romero34, le vicende della teologia della liberazione35, sono state 29 Secondo R. Jiménez, tale contrasto di interpretazioni era dovuto al fatto che i teologi della liberazione, passando dalla critica di Puebla al tentativo di recuperarne le conclusioni nel senso di una legittimazione delle proprie posizioni, pretendevano di leggere ’’entre h'neas lo que Puebla niega en el texto”. Cfr. Jiménez, Puebla, la teologia de la liberación y el Marxismo eri America Lati­ na, in Tierra Nueva, IX, 34 (1980), pp. 69-75. 30 Cfr. Puebla. Comunione e partecipazione, trad, it., a cura di P. Vanzan, Roma 1979, pp. 449744 e Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, cit., pp. 269-551. 31 Alla religiosità popolare, tema ricorrente in diverse parti del Documento finale, era espres­ samente dedicato il documento “ Evangelizzazione e religiosità popolare” . 32 Le due vicepresidenze furono affidate a mons. L. Cabral Duarte, noto per la sua ostilità alla teologia della liberazione, e a mons. R. Arrieta Villabos, della diocesi di Tilaràn (Costa Rica). Cfr. Un Celam piu omogeneo e piu conservatore, in II Regno/attualità, XXIV, 395 (1979), p. 171. 33 Tra gli studi sulla rivoluzione nicaraguense si vedano La revolución en Nicaragua. Liberación nacional, democracia popular y transformación econòmica, R. Harris-C.M. Villas eds., México 1985 e D. Pompejano, Nicaragua: storia di una economia dipendente e di una transizione, M ila­ no 1986. Sulla partecipazione di settori del mondo cattolico alla rivoluzione in Nicaragua si veda­ no Fe cristiana y revolución sandinista en Nicaragua, Managua 1979, G. Girardi, Sandinismo, marxismo e cristianesimo: la confluenza, Roma 1986; A. Bradstock, Saints and Sandinistas. The Catholic Church in Nicaragua and its Response to Revolution, London 1987. 34 Secondo Gutiérrez, per la Chiesa latinoamericana, l’assassinio di mons. Romero sarebbe stato “the most important event since the Puebla Conference” . Cfr. l’intervista rilasciata a J. Brock­ man, The Prophetic Role of the Church in Latin America: A Conversation with Gustavo Gutiérrez, in Christian Century, 19 ottobre 1983, pp. 931-935. Sulla figura e l’opera del vescovo salvadore­ gno, si vedano, in particolare, le due biografie: J. Delgado, Oscar A. Romero: Biografia, Madrid. 1986, J. R. Brockman, Romero: a Life, New York 1989 ed E. Masina, Oscar Romero, prefazione di L. Boff, San Domenico di Fiesole 1993. 35 Sui dibattiti sviluppatisi intorno alla teologia della liberazione si vedano Théologies de la libé- 32 solo il segno più evidente di un ininterrotto, anche se contrastato cammino. Al con­ tempo, la crisi dei movimenti e dei partiti popolari che ispiravano al marxismo, i problemi economici non solo irrisolti, ma aggravati dal crescente indebitamento, la continuità in molti paesi del subcontinente dei regimi autoritari, la repressione cruenta che aveva coinvolto e spesso continuava a coinvolgere, oltre alle organizza­ zioni politiche e sindacali, esponenti del mondo cattolico, contribuirono senz’altro, a partire dalla seconda metà degli anni 70 e per tutti gli anni ‘80, a ridimensionare gli entusiasmi rivoluzionari, rendendo sempre più evidente la necessità di una veri­ fica delle strategie politiche e degli assunti ideologici da parte di quei settori del mondo cattolico che si riconoscevano nella teologia della liberazione e, più in ge­ nerale, delle organizzazioni popolari*36. Abbandonati, nella maggior parte dei casi, progetti rivoluzionari totalizzanti, queste si sono andate via via orientando verso obiettivi più particolari, organizzandosi attorno a questioni come il diritto alla sa­ lute e all’istruzione, la difesa della donna e dei bambini, il diritto degli indios alla terra, la tutela dell’ambiente3'. Per quel che riguarda l’episcopato latinoamericano, nei documenti più recenti si è assistito a un rilancio dei temi della “nuova evangelizzazione” e della pastorale fa­ miliare, mentre con crescente preoccupazione si cerca di far fronte al diffondersi del­ le sètte religiose, soprattutto fondamentaliste38. Quelle iniziative pastorali che si ri­ conoscevano nella teologia della liberazione hanno invece incontrato non poche dif­ ficoltà. Nell’arcidiocesi di Olinda e Recife, dom Helder Camara è stato sostituito, nel 1985, da dom José Cardoso Sobrinho, che, nel giro di pochi anni, ha fatto chiudere il Seminario regionale Nordest 2 e l’Istituto teologico regionale, e ha rimosso diver­ si sacerdoti dalle rispettive parrocchie, perché troppo vicini alla teologia della liberation. Documents et Débats, B. Chenu-B. Laurei eds, Paris 1985; Teologìa de la liberación. Dos­ sier, Centro de Estudios Interdisciplinarios, Caracas 1985; R. Gibellini, Il dibattito sulla teologia del­ la liberazione, Brescia 1986 e Teologìa de la liberación, R. Vekemans-J. Cordero eds., Bogota 1988. Una raccolta di documenti su tali dibattiti anche in Liberation Theology. A Documentary Hi­ story, A. T. Hennelly ed., New York 1990, pp. 348-520. Mi permetto infine di rinviare anche al mio Per una storia della teologia della liberazione in America Latina, cit., pp. 355-364. 36 Sui caratteri dei movimenti sociali in America Latina negli ultimi venti anni, si vedano New So­ cial Movements and the State in Latin America, D. Slater ed., Amsterdam 1985; Power and Popular Protest: Latin America Social Movements, S. Eckstein ed., Berkeley 1989; Democrazia e partiti in America Latina, a cura di L. Moriino e A. Spreafico, Milano 1991 e Dalle armi alle urne: economia, società e politica nellAmerica Latina degli anni ‘90, a cura di G. Urbani e F. Ricciu, Bologna 1991. 37 Numerosi, ad esempio, i contributi di L. Boff sull’ecologia, alcuni dei quali raccolti nel volume Ecologia, Mondialità, Mistica. L’emergenza di un nuovo paradigma, Assisi 1993. In tal senso anche il numero della rivista Concilium dedicato a Ecologia e povertà: grido della terra, grido dei poveri. Cfr. Concilium, XXXI, 5 (1995), con editoriali di L. Boff e V. Elizondo. Una sintesi sulle tendenze più recenti della teologia della liberazione in F. L. Couto Teixeira, Teologia da Ubertagào. Novos desafios, Sào Paulo, Edigoes Paulinas 1991; J. J. Tamayo Acosta, Presente y futuro de la teologìa de la liberación, Madrid 1994 e J. Ramos Regidor, Ubertagào e alteridade. 25 anos de história da Teo­ logia da Ubertagào, in Revista Eclesiàstica Brasileira (Reb), LVII, 225 (1997), pp. 118-138. 38 Molti dei “documentos Celam”, negli anni ‘80, sono dedicati ai temi della famiglia. Se ne ri­ cordano qui solo alcuni: La familia a la luz de Puebla, Bogota 1980; Fiesta de Dios en hogar, Bo­ gota 1987; Jalones para una espiritualidad familiar y reflexiones del Seminario sobre la espiritualidad familiar celebrado en Ciudad de Panama, R. P, del 20 a! 25 de agosto de 1984, Bogota 1987. 33 razione39. Nell’ottobre del 1989 la Congregazione per la Dottrina della Fede è inter­ venuta per porre fine al progetto continentale “Palabra y Vida”, avviato dalla Clar l’anno precedente40. Il progetto, che doveva svilupparsi in cinque anni, era destina­ to ai religiosi dell’America latina e si proponeva l’obiettivo di “alimentare la vita re­ ligiosa con la Parola di Dio, letta con il cuore e nelle situazioni dei poveri”41. Accol­ to favorevolmente dagli episcopati di Cile, Brasile e Bolivia, esso è stato fortemente criticato dalla conferenza episcopale colombiana, presieduta dal card. Trujillo ed ha suscitato l’intervento del Celam, della Pontificia Commissione biblica e, infine, del­ la Congregazione per Dottrina della Fede. La Clar è stata accusata da questi organi­ smi di ideologizzare la Bibbia, di ignorare la Tradizione, di creare un Magistero pa­ rallelo, di diffondere quella teologia della liberazione condannata dalla S. Sede, at­ traverso l’istruzione Libertatis Nuntius. La vicenda si è conclusa, oltre che con la for­ zata interruzione del progetto “Palabra y Vida”, con la richiesta di dimissioni da par­ te dei rappresentanti del gruppo biblico e del gruppo formativo della Clar, cui è sta­ to altresì imposto un nuovo segretario. Dal 12 al 28 ottobre 1992, dopo ben cinque anni di preparazione, si è svolta quin­ di a Santo Domingo la IV Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. La Conferenza, aperta da Giovanni Paolo II, ha avuto come tema “Nuova evangelizza­ zione, promozione umana, cultura cristiana”. Celebrata nell’anno del Cinquecente­ nario della conquista dell’America, essa è stata accompagnata da non poche polemi­ che, relative sia al Documento di Consultazione offerto alle conferenze episcopali, considerato da molti un passo indietro rispetto a Medellin e Puebla, sia all’opportu­ nità di includere tra i momenti della conferenza una manifestazione penitenziale per le responsabilità della Chiesa nella colonizzazione del continente42. La proposta di un solenne atto penitenziale, presentata all’assemblea da 33 vescovi brasiliani, venne di fatto boicottata dai due presidenti, il card, segretario di Stato Angelo Sodano e il card. Nicolas Lopez Rodriguez, arcivescovo di Santo Domingo e presidente del Celam, che rifiutò la sua cattedrale per la celebrazione, opponendosi altresì, anche se senza suc­ cesso, all’invio da parte dell’Assemblea di un messaggio di felicitazioni per il Nobel a Rigoberta Menchu, proposto dal card. Paulo Evaristo Arns43. Infine tra i 361 parte­ cipanti, il regolamento ha escluso totalmente i teologi, che non sono potuti interveni­ re neanche in qualità di esperti convocati dalle conferenze episcopali44. Nei documenti conclusivi di Santo Domingo, alla fine, sono entrate comunque sug­ gestioni e motivi provenienti dalle diverse realtà pastorali presenti nel continente. In­ centrato sul tema della nuova evangelizzazione, il documento ha in primo luogo affer39 Cfr. Sial, XVIII, 11 (1995), p. 28. 40 Cfr. L. Kaufmann-N. Klein, Die Bibel den Armen wieder wegnehmen?, in Orientierung, LUI, 22 (1989), pp. 252-256, che ricostruisce dettagliatamente tutte le fasi della vicenda. 41 Cfr. G. Matti, Guerra sull’evangelizzazione, in Il Regno/attualità, XXXIV, 10 (1989), pp. 275-276 42 Cfr. C. Donegana, Le molte anime del continente cattolico, in II Regno/attualità, XXXVII, 2 (1992), pp. 49-60. 43 Cfr. F. Strazzari-A. Filippi, Santo Domingo. Una preparazione storica, una conclusione pa­ storale, in II Regno/attualità, XXXVII, 20 (1992), pp. 626-6364 44 Come sottolinea con perplessità il vescovo brasiliano L. D. Valentini, anche i teologi invitati dalla conferenza episcopale brasiliana, non ricevettero poi l’invito ufficiale del Celam. Cfr. Valenti­ ni, A Conferéncia de Santo Domingo, in Reb, LUI (1993), pp. 5-18. 34 mato che questa ha come finalità la formazione di uomini e comunità mature nella fe­ de e l’elaborazione di risposte alla nuova situazione dell’America latina, segnata dal ma­ terialismo, dalla cultura della morte, dall’invasione delle sètte e di proposte religiose di varia origine4’. Il crescente proselitismo delle sètte, denunziato anche da Giovanni Pao­ lo II nel discorso di apertura, è un problema su cui il documento torna a più riprese, per segnalarne le “proporzioni drammatiche”, e per esortare quanti sono impegnati nel­ la pastorale a rendere più efficace l’azione evangelizzatrice della Chiesa attraverso la promozione di quelle devozioni che le sono proprie, come la devozione all’Eucarestia, alla Madonna, alla Parola di Dio “letta nella Chiesa”, in comunione e obbedienza al Ro­ mano Pontefice e al proprio vescovo. Tra le nuove sfide colte dall’episcopato latinoa­ mericano a Santo Domingo c’è anche la questione ambientale. Il documento sulla “pro­ mozione umana”, considerato da alcuni il più avanzato4546, denunzia infatti i livelli inso­ stenibili di inquinamento presenti ormai in molte metropoli sudamericane, la continua spoliazione delle terre imposta alle popolazioni indigene e contadine, la distruzione del­ la foresta amazzonica. Allo stesso tempo, i vescovi hanno proposto un modello di svi­ luppo fondato su “un’etica ecologica”, in cui la crescita economica si coniughi con il ri­ spetto della natura, e in cui i principi della destinazione universale dei beni della crea­ zione, della giustizia e della solidarietà siano accettati come “valori indispensabili”. Ben­ ché si individuino, tra i “segni dei tempi”, le condizioni di estrema povertà dovute a “strutture economiche ingiuste”, si ribadisca l’opzione per i poveri e la scelta delle co­ munità ecclesiali di base, la sfida “di particolare urgenza” è rappresentata dalla famiglia, definita “santuario della vita”, e perciò, al tempo stesso, luogo da difendere “dai mol­ teplici attacchi che riceve da più parti nella società attuale”, attacchi descritti con toni molto forti: “terrorismo demografico”, “imperialismo contraccettivo”, “massacro del­ l’aborto”. Un ultimo impegno assunto dalla Chiesa latinoamericana a Santo Domingo è stato quello della “evangelizzazione inculturata”. Pur mostrandosi preoccupati di fronte all’avanzare del processo di secolarizzazione, i vescovi non hanno attribuito al­ l’espressione “cultura cristiana”, il significato di una imposizione intransigente della ve­ rità cattolica. A partire da un discernimento dei valori e dei controvalori della moder­ nità, l’episcopato latinoamericano riunito a Santo Domingo ha infatti proclamato la propria volontà di promuovere un “processo di inculturazione” che abbracci l’annun­ cio, l’assimilazione e la formulazione della fede, e dia particolare rilievo alla “incarna­ zione del Vangelo” nelle culture indigene e afroamericane. Resta il fatto che tale “evangelizzazione inculturata”, che contiene in sé l’idea di un pluralismo teologico e di una valorizzazione delle chiese locali, sia poi avversa­ ta dalla Chiesa di Roma, che negli anni ha rafforzato il controllo sulla Chiesa lati­ noamericana e sul Celam, soprattutto attraverso la Pontificia Comisión para América Latina (Cai). Come è stato sottolineato, “si algunos sectores de la Teologia de la Liberación ahora se retraen, no es debido a la calda del muro de Berlin (...); la razón radica en las presiones provenientes de sectores del centro del poder en la Iglesia católica que se empenan en la restauración de la hegemonia insistucional”47. 45 Cfr. Enchiridion. Documenti della Chiesa latinoamericana, cit., pp. 553-598. 46 Cfr. J. O. Beozzo, Inculturagào, Evangelizagào e libertagào em Santo Domingo, in Reb, LUI (1993), pp. 801-823. 47 Così S. Rodriguez, Pasado y futuro de la Teologia de la Liberación. De Medellin a Santo Do­ mingo, Estella 1992, p. 256. 35 Rispetto alla teologia della liberazione, quest’azione di controllo si è manifestata nell’invio di visitatori apostolici, nella chiusura di alcuni istituti teologici, nelle cre­ scenti difficoltà opposte dai vescovi a concedere Ximprimatur per le pubblicazioni, e ha conosciuto un momento di tensione particolarmente acuto quando, nel giugno del 1995, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha contestato alcune posi­ zioni della teologia femminista della liberazione dell’agostiniana brasiliana Ivone Gebara, docente da oltre dieci anni dell’Istituto teologico di Recife. La teologa è stata quindi invitata dal segretario della Congregazione per gli istituti di vita consa­ crata e le società di vita apostolica card. F. J. Erràzuriz, ad osservare una sorta di si­ lenzio per due anni, durante i quali non solo non avrebbe dovuto tenere conferen­ ze e fare pubblicazioni, ma allontanarsi dal Brasile e dedicarsi allo studio della teo­ logia, per correggere le proprie posizioni48. Dal 16 novembre al 12 dicembre 1997, si è infine celebrato a Roma il primo Sinodo americano, convocato da Giovanni Paolo II a Santo Domingo e concepito co­ me una delle tappe che preparano la Chiesa al Giubileo4950. Esso ha avuto come te­ ma “Encuentro con Jesucristo vivo, camino para la conversion, la comunión y la solidaridad”, ed ha visto riuniti, per la prima volta, rappresentanti degli episcopati dell’America meridionale, centrale e settentrionale, ovvero vescovi di Paesi del Sud e del Nord del mondo. Il Sinodo non ha deluso le aspettative di quanti avevano ma­ nifestato l’auspicio che si prendesse posizione sulla riduzione del debito estero’0. Tra i temi presi in esame dall’assemblea, oltre alle questioni pastorali legate al rin­ novamento della catechesi, alle comunità di base, all’avanzare delle sètte, hanno avuto infatti una particolare rilevanza i problemi relativi alla realtà economica e so­ ciale del continente, come la globalizzazione, lo stato sociale, le minoranze etniche, le migrazioni. La richiesta di riduzione del debito infine è stata fatta, individual­ mente, da molti dei 297 partecipanti, e ribadita con forza nella dichiarazione con­ clusiva, caratterizzandosi effettivamente, come aveva anticipato l’arcivescovo O. A. Rodriguez, presidente, dal 1995, del Celam51, quale “central theme” del sinodo52. Dopo aver denunciato i mali provocati dagli abusi della globalizzazione della cultura e dell’economia, dal narcotraffico, dal commercio delle armi e dalla corru­ zione, nel messaggio conclusivo i vescovi hanno rivolto un appello “per la riduzio­ ne o remissione dei debiti”, chiedendo ai capi di governo, economisti, operatori so­ ciali, teologi, di “camminare con loro e con i poveri” , alla ricerca di una via che ri­ spetti la dignità umana53. 48 Cfr. SIAL, XVIII, 3 (1995), pp. 27-28. 49 Sulla preparazione del Sinodo cfr. il numero monografico della rivista Medellin , XXIII, 90 (1997). 50 Cfr. Gutiérrez, Exigencias de comunión en un mundo dividido. Acerca del Sinodo america­ no, in Pàginas, XXII, 145 (1997), pp. 18-25. 51 II Celam aveva proceduto al rinnovo delle cariche nel maggio del 1995, in una direzione con­ siderata da alcuni di maggiore apertura rispetto al passato. Cfr. G. Zizola, Celam. Le nuove no­ mine, in II Regno/attualità, XL, 12 (1995), p. 348. 52 Cfr. Pope John Paul opens historic meeting of American bishops, in The Tablet, 22 novem ­ bre 1997, pp. 1512-1514. 53 Cfr. Il messaggio conclusivo del Sinodo per l ’A merica al popolo di Dio, in Fides, 3250, 19 di­ cembre 1997, pp. 789-791 36 Massacro Acteal “Se non puoi avere la ragione e la forza, scegli sempre la ragione e lascia che il nemico si tenga la forza...Ilpotente non potrà mai cavare la ragione dalla sua forza, noi potremo sempre ottenere la forza dalla ragione” Se Fukuyama ha decretato la fine della storia, molti dopo di lui si sono affret­ tati a decretare la fine della guerriglia. Del resto la democrazia non ha ormai trionfato in tutta l’America latina? Non più dittatori, non più golpes, non più mi­ litari al potere. Che senso avrebbe prendere ancora le armi, uscire dal gioco de­ mocratico? Ma l’uso (e l’abuso) di certi termini può talvolta trarre in inganno. Che significato possono dare, alla parola democrazia, i milioni di latinoamericani che non si recano alle urne perché troppo occupati a sopravvivere, rovistando fra i rifiuti delle discariche? Che significato possono dare i milioni di bambine e bam­ bini di strada, che forse non raggiungeranno mai l’età per votare perché destina­ ti a finire sotto i colpi di quanti vogliono “ripulire” le città? Che significato han­ no dato, a questa parola, quanti si sono visti imporre un presidente come De Lozada in Bolivia (un uomo cresciuto ed educato negli Stati Uniti, che al momento della sua elezione non conosceva neppure la lingua del paese che era chiamato a governare) o come Abdalà in Ecuador (che negli spot televisivi si presentava nei panni di Gesù Cristo e che in seguito venne allontanato dal potere per evidente squilibrio mentale)? Se questi sono i casi più eclatanti, in gran parte del conti­ nente latinoamericano (e non solo) i capi di Stato vengono praticamente costrui­ ti dai media, che li impongono alla stregua di qualsiasi altro prodotto. E intanto si allarga la forbice fra coloro che hanno tutto e i tanti, tantissimi che non hanno nulla. Finché questi ultimi non saranno veramente liberi dal bisogno, finché non avranno accesso a beni primari come la salute, l’alloggio, l’istruzione, che signifi­ cato dovremo dare alla parola democrazia? E dunque, finché la stragrande mag­ gioranza della popolazione non avrà gli strumenti per decidere liberamente, assi­ steremo al paradosso di paesi, come il Messico, dove la guerriglia nasce proprio per rivendicare la democrazia. Gli zapatisti allora non sono un richiamo per il tu ­ rismo politico nostrano, come qualcuno ha sostenuto. E i loro passamontagna non servono unicamente a fare colore locale. Lo ha dimostrato, risvegliando di37 37 soprassalto tante coscienze intorpidite, il recente massacro di Acteal. In Messico si uccide ancora per mantenere il controllo del potere politico ed economico. Che certi schemi e certe convinzioni, oggi tanto di moda, siano da rivedere? (ni.m.) Nella lettera che qui riproduciamo, inviata dall’Ezln alla Commissione Naziona­ le di Mediazione (Conai), il subcomandante Marcos analizza la situazione del Chia­ pas all’indomani degli scontri di Ocosingo. 14 gennaio 1998 Signore e signori membri della Conai: Abbiamo preso visione del documento che, con il titolo “Per una strategia di pa­ ce democratica”, avete indirizzato ai poteri dell’Unione, all’Ezln, alla società civile e ai popoli del mondo P ii gennaio 1998. Nella parte indirizzata all’Ezln ci chiede­ te di continuare a operare all’interno dei confini della legge dell’l l marzo 1995, mantenendo la nostra volontà di dialogo e di negoziato, di continuare a lottare per vie politiche, di approfondire i nostri sforzi di dialogo con altre comunità e or­ ganizzazioni indigene e non indigene del Chiapas, di incrementare il dialogo con organizzazioni della società civile e della società politica. Dal 12 gennaio 1994 (e non dall’incontro di San Miguel nell’aprile ’95, come se­ gnalate nella vostra lettera) l’Ezln ha insistito più di una volta nel cammino del dia­ logo per una soluzione pacifica della guerra. Non sono state poche né piccole le ini­ ziative civili che l’Ezln ha lanciato, insieme alla parte migliore della società civile na­ zionale e internazionale, per costruire le condizioni di una pace giusta e degna. Esempi di queste iniziative pacifiche sono il dialogo della Cattedrale e la Conven­ zione Nazionale Democratica nel ’94; il dialogo di San Andrés e la Consulta Na­ zionale e Internazionale per la Pace nel ’95; l’appello alla formazione del Fzln, la ce­ lebrazione del Foro Nazionale Indigeno, la firma dei primi accordi con il governo federale (che continuano a essere disattesi), il Primo Incontro Continentale, il Fo­ ro Nazionale per la Riforma dello Stato, il Primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo e le riunioni tripartite Cocopa-Ezln-Conai nel ’96; la marcia dei 1.111 al Distretto Federale nel ’97. La risposta governativa alla nostra manifesta volontà di dialogo e di negoziato è stata il mancato compimento dei primi accordi sottoscritti, l’attivazione di gruppi paramilitari, l’assassinio delle nostre basi d’appoggio, la persecuzione dei nostri di­ rigenti, l’attacco di soldati federali contro le comunità, la dislocazione massiccia di militari in tutto il territorio del Chiapas (anche se si tenta di minimizzare la geo­ grafia dell’ingiustizia con il termine “zona di conflitto”). Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Il governo ha fatto assassinare 45 indigeni ad Acteal come momento culminante di un’offensiva contro di noi. L’informazione della stampa e le confessioni di alcu­ ni degli implicati evidenziano come il massacro sia stato pianificato in anticipo e no­ to e diretto dalle autorità. Alcuni giorni fa, poliziotti della Sicurezza Pubblica del­ lo Stato sono stati arrestati (dal Dipartimento dell’Emigrazione e non dall’esercito, che in teoria dovrebbe applicare la “legge sulle armi e gli esplosivi”) mentre tra­ sportavano armi provenienti dal Guatemala. Il destinatario? I gruppi paramilitari. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. 38 Nel momento in cui venivamo a conoscenza del vostro documento, informa­ zioni giunte al Comando Generale dell’Ezln confermavano l’assassinio della nostra compagna Guadalupe Méndez Lopez, nel corso di un attacco della Sicurezza Pub­ blica dello Stato del Chiapas contro una manifestazione pacifica nel capoluogo municipale di Ocosingo, il 12 gennaio. Come risposta alle grandi mobilitazioni per una pace giusta e degna, che si sono tenute in diverse città del Messico e del mon­ do, le forze di polizia del governo hanno aperto il fuoco contro una manifestazio­ ne civile di indigeni. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Nella comunità di La Realidad, tanto per fare un esempio, l’esercito federale ha raddoppiato il numero di veicoli cingolati e di militari. Quattro volte al giorno, fi­ no a 38 unità motorizzate “transitano” attraverso la comunità indigena tojolabal. Aerei militari effettuano voli diurni e notturni in ore diverse e, di giorno, sopra le abitazioni indigene compiono manovre “in picchiata” (come si usa fare, nel corso dei combattimenti aerei, per mitragliare e bombardare postazioni fisse). Probabil­ mente si preparano per il futuro. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Il governo federale, per bocca e per mano del suo ministro degli Interni, de­ finisce la “nuova” strategia per il Chiapas: messa da parte degli interlocutori, persecuzione e isolamento degli zapatisti e grandi quantità di denaro per conti­ nuare ad alimentare la guerra fingendo di costruire la pace. È una strategia as­ surda: il signor Rabasa è nominato “coordinatore del dialogo” (non “della dele­ gazione governativa”, ma “del dialogo”). Dialogo con chi? Qual è la contropar­ te del dialogo che, insieme con il governo, lo nomina coordinatore? E il ruolo della mediazione? E quello della Cocopa? Il signor Rabasa si affretta a dichiara­ re che il suo obiettivo non è il dialogo con l’Ezln, ma “qualcosa di più vasto”, una “rivoluzione copernicana”!?). Si riferisce sicuramente a un dialogo con or­ ganizzazioni diverse dall’Ezln in molte “tavole ristrette” (come è stato già tenta­ to in precedenza), che distraggano l’opinione pubblica e tranquillizzino l’Unio­ ne Europea. La “nuova” strategia governativa è un dialogo senza la controparte, senza mediazione, senza collaborazione, insomma un monologo. La definizione appropriata per Rabasa Gamboa sarebbe quella di “coordinatore del monologo governativo sul Chiapas”. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Quando questa lettera giungerà a destinazione, i nostri compagni e le nostre compagne avranno già sepolto Guadalupe Méndez Lopez sulle montagne zapatiste. Guadalupe è morta lottando per vie politiche e la risposta che ha ottenuto è stata una pallottola calibro 5,56 millimetri nel “lato anteriore sinistro” della pancia. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Quando questa lettera giungerà nelle vostre mani, il governo federale avrà rega­ lato altre dichiarazioni di “pace”, presenterà una relazione dei suoi interlocutori con gli “attori del conflitto” e chiederà che gli si presti fede, insisterà sul fatto che tutto ciò che accade in Chiapas è un conflitto “fra poveri” e continuerà a puntare sul fat­ to che i bocconi amari di Acteal e di Ocosingo siano digeriti (e dimenticati) dall’o­ pinione pubblica. E l’esercito continuerà a perseguitarci e a provocare scontri. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Quale dialogo con organizzazioni indigene e non indigene, con la società civile 39 o politica possiamo approfondire o incrementare quando ci perseguitano come ani­ mali, coi cani da caccia e con tutto l’armamentario tecnologico della morte? Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Venite, parlate con i soldati (un silenzio sarà la loro invariabile risposta alle do­ mande sulla persecuzione), parlate con i poliziotti (“Io, se qualche figlio di puttana mi tira una pietra, gli sparo un colpo”, diranno con rabbia). Parlate loro di dialo­ go, di rispetto della legge, di diritti umani. “Obbedisco agli ordini”, risponderanno sempre. Di chi sono gli ordini? Sappiamo già che cosa comandano (trovateli e di­ struggeteli), ma non da dove vengono. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. L’esercito cerca affannosamente lo scontro con le nostre forze, lo si può consta­ tare dai suoi movimenti, dall’atteggiamento e dalla distribuzione. Lo fa obbedendo a ordini superiori? Se è così, allora dov’è la supposta volontà di pace del governo? Lo fa di propria iniziativa? Se è così, allora chi governa in realtà questo paese? Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. A quale legge dobbiamo obbedire se chi la promulga non esige che venga ri­ spettata e l’esecutivo la viola a seconda del suo interesse e della sua convenienza? Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Il governo federale non è disposto a negoziare con lealtà e responsabilità. De­ sidera e cerca disperatamente solo un po’ di respiro nella crisi in corso. Tutti i suoi sforzi attuali puntano a questo. Non cerca la pace, cerca tempo. Il suo obiet­ tivo è fingere una possibile soluzione al conflitto. In seguito, quando le acque sa­ ranno tornate tranquille, insisterà di nuovo nei colpi e nelle intimidazioni per co­ stringere alla resa. Ma il governo dice che non è vero, che non finge la pace per fare la guerra. Questo signore non vuole la pace. Ma ora si è tolto la maschera, ha eliminato quella parola da tutti i suoi discorsi sul Chiapas e su di noi. Forse è meglio così. Noi non siamo disposti ad arrenderci né a lasciarci colpire impunemente. Tutti i nostri sforzi ora sono diretti a resistere alla pressione cui siamo assoggettati e a non cade­ re nelle continue, e sempre più definitive, provocazioni guerrafondaie del governo. Fino a quando? Questa è la domanda scritta col sangue ad Acteal. Questa è la do­ manda che ci facciamo davanti alla tomba di Guadalupe. Questa è la domanda per voi, per loro, per tutti. Addio. Saluti e ricordate che la pace o è giusta e degna, o non è nient’altro che una guerra occulta. Dalle montagne del sud-est messicano per il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno - Comando Generale del­ l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale Subcomandante Marcos 40 Diego Si'mini Cuba: un sistema economico efficiente e umano /intervista a C arlos Tablada Pérez, eco n o m ista p r e ss o l’U niversità di A nversa e m em bro del C onsiglio e co n o m ic o cu b a n o Cuba è, da qualche anno a questa parte, al centro dell’attenzione, in quanto è forse l’unico paese al mondo che sfugga al credo neoliberista, al culto del dio mer­ cato, regolatore di tutti i conflitti e di tutte le differenze sociali, secondo i suoi se­ guaci. Anche chi nutre simpatia per la strenua resistenza cubana alla violenta e qua­ rantennale offensiva statunitense, ha spesso dimostrato scetticismo riguardo alla possibilità di successo, di sopravvivenza, di un modello di sviluppo socialista lega­ to si a parametri contabili, ma vincolato soprattutto al progresso e al benessere del­ l’intera società. Ciò che molti credono è che la difesa dei diritti individuali e collet­ tivi, la ricerca del benessere per tutti, siano ideali incompatibili con il progresso economico, con l’efficienza e la redditività dell’impresa e del mercato. La scom­ messa cubana, invece, sta proprio neH’abbinare l’interesse collettivo e l’eguaglianza sociale con la prosperità economica. Con Carlos Tablada Pérez, economista cuba­ no, abbiamo parlato di questo, per capire quali siano i meccanismi che consentono di ritenere che il “modello cubano” non sia fallito né sia frutto di sogni o illusioni. Cuba è la dimostrazione che il dogma neoliberista non è una verità assoluta. Ti pare che si possa pensare di esportare questo modello, di estendere il “siste­ ma cubano” nel mondo? Ma no, intanto perché quel che c’è a Cuba non è un “modello”. Si sono tentati diversi modelli; anche quello che c’è adesso lo vogliamo cambiare, perché ci sono aspetti che non vanno. Ciò che a Cuba non è cambiato, dalla Rivoluzione e anche da prima, sono i principi. Principi etici, che sono stati presenti praticamente in tut­ te le tappe. Negli anni 70 questi principi hanno avuto una crisi, quando fu copia­ to il modello sovietico (politico, culturale, economico), con un’incrinatura dei prin­ cipi etici della Rivoluzione. A differenza di altri Paesi, non ci possiamo permettere il lusso che vengano meno questi principi. Cuba non è isolata, non è un prodotto di laboratorio, si sviluppa in un contesto in cui noi apparteniamo agli Usa: la men­ talità attuale, quella degli anni ‘50 e che tuttora prevale, è quella delle “aree di in­ fluenza”, secondo la quale Cuba deve diventare una neo-colonia nordamericana. L’arma fondamentale per contenere l’avanzata ed evitare la guerra con gli Usa è pre­ cisamente la presenza di questi principi etici. Il giorno che si dovessero perdere 41 questi principi, tutto sarebbe finito. Nei diversi modelli economici adottati, questi principi sono sempre stati presenti. Anche quando era forte l’influenza, sovietica, non si trattava di una copia pura e semplice. Attualmente abbiamo un’economia di sopravvivenza e anche qui abbiamo applicato i principi etici. Non è che siamo antineoliberisti, ma il nostro progetto va contro il progetto neoliberista. Siamo anche compagni di viaggio dei capitalisti della scuola keynesiana, dello stato sociale. L’i­ deologia neoliberista è molto antidemocratica (parlo della democrazia rappresenta­ tiva e capitalista, che ha prevalso nel mondo occidentale sviluppato come modello nella seconda metà di questo secolo). Quello che notano i capitalisti meno dogma­ tici, meno neoliberisti, anche Soros, è che questa situazione crea il brodo di coltu­ ra di esplosioni sociali gravi, perché porta a livelli di diseguaglianza intollerabili e mina alla base anche alcuni principi di sussistenza del capitalismo. Il capitalismo si basa attualmente sulla speculazione finanziaria, sulla crescita del capitale parassitario con conseguente diminuzione dell’investimento nel capitale produttivo. Questo comporta, perché cresca il capitale finanziario-speculativo, che si tolga la ricchezza già creata a quanti la posseggono. L’accumulazione di capitale che si è verificata ne­ gli ultimi cinque secoli si sta spostando, c’è una depredazione molto maggiore di quella che si è avuta nella storia del capitalismo. Quel che il capitalismo fa in cin­ que secoli, il neoliberismo lo fa in dieci anni: è una situazione esplosiva. Cuba è un’isola in un oceano neoliberista. Come si può configurare una inevi­ tabile apertura economica nei confronti del resto del mondo? Come si può asso­ ciare questa apertura al rispetto dei principi etici di cui parlavi? Gli unici capitalisti che esigono un progetto neoliberista sono gli Usa. I capitali­ sti “soci” non hanno esigenze in questo senso. Noi faremmo a meno di loro se esi­ gessero da noi una politica diversa. Non c’è in realtà una pressione del resto del mondo affinché applichiamo una politica economica neoliberista. Solo il governo statunitense fa pressione; anche qualche imprenditore norda­ mericano non avrebbe problemi a investire a Cuba... Esattamente: agli investitori chiediamo solo di accettare le regole che abbiamo stabilito. La legalizzazione del dollaro non comporta rischi di “dollarizzazione” dell’eco­ nomia cubana? Non è stata una misura del governo, bensì una realtà. Prima della crisi economi­ ca, il cambio al mercato nero era di tre pesos cubani per dollaro. Pur essendoci più di un milione di cubani all’estero, a nessuno veniva in mente di mandare denaro ai parenti, in quanto i bisogni basilari erano soddisfatti. Quando i parenti venivano a Cuba, portavano un paio di jeans, un registratore, un televisore a colori... Non c’e­ ra il problema della sopravvivenza. Quando è venuta la crisi, con la perdita dell’85% del commercio estero a causa del crollo del blocco socialista, le famiglie, anche quelle ostili al governo, hanno cominciato a mandare denaro ai parenti, per­ ché si sono rese conto che la crisi non era dovuta al governo, ma alla perdita im42 prowisa del commercio con 25.000 ditte. A luglio ‘96, si stimava che due milioni di cubani (su una popolazione di circa 11 milioni) possedevano dollari. Che fare? Mettere in galera due milioni di persone, adibendo allo scopo un’intera provincia? Bisognava far uscire allo scoperto questo denaro, anche per trarne beneficio. I dol­ lari circolavano esclusivamente nel mercato nero e non “entravano” nell’economia cubana. Si è preso atto di una realtà, che ha portato vantaggio a tutti i cubani. D ’al­ tronde non c’è stata una svalutazione del peso cubano, che era svalutato prima del­ la legalizzazione. E successo il contrario: dal cambio a 760, si è arrivati a 26, con un’oscillazione, nel ‘96, tra 19 e 25. Anche i cambi hanno una base reale: lo Stato fissa i cambi seguendo il mercato nero. Cosi il mercato nero scompare. Certo. Ero all’Avana in dicembre. Il peso ha cominciato a svalutarsi in novem­ bre, al mercato nero. Lo Stato ha calato ancor di più e l’ondata speculativa è cessa­ ta. Stanno aprendo case di cambio, di proprietà statale, in tutto il Paese. Il merca­ to nero valutario ha perso significato e il peso si sta apprezzando. E stata una poli­ tica corretta. D’altronde è aumentata la quantità di lavoratori in possesso di pesos convertibili. La fonte di ingresso di dollari non è più solo dai lavoratori che ope­ rano nel turismo e dalle rimesse dall’estero, ma anche gli incentivi in altri settori, con pesos convertibili: circa metà dei lavoratori ricevono parte dello stipendio in valuta convertibile. Quindi in qualche modo c’è speculazione. Si, ma è una speculazione che protegge la popolazione: prima non c’era prote­ zione. Ora, con l’intervento dello Stato, c’è un riequilibrio che attutisce le tensioni speculative. Il riapprezzamento del peso dovrebbe essere segno di buona salute dell’eco­ nomia cubana. Si è applicato un pacchetto economico, discusso da tutta la popolazione nel cor­ so di quattro mesi, per applicare misure di tecnologia economica atte a risanare le finanze dello Stato e ciò ha dato buoni risultati. In questo momento il deficit di bi­ lancio del Paese è inferiore al 3%. Il ‘93 si era chiuso con il 37% di deficit fiscale, il ‘96 con il 2,9%. In linea con gli accordi di Maastricht! Possiamo entrare nell’Unione europea! Tutto questo per dare la possibilità all’e­ conomia (intendo l’economia produttiva, quella reale) dei differenti settori di ri­ prendersi. e per impedire che l’inflazione ostacolasse la crescita economica che crea ricchezza. Una scelta corretta: quasi tutti i settori industriali e agrari hanno comin­ ciato a crescere, non solo i principali come la canna da zucchero, il nichel, il tabac­ co, la pesca, ma anche l’industria meccanica, tessile, del cemento (la più importan­ te dell’America Latina). 43 La ripresa produttiva riguarda soprattutto i settori rivolti all’esportazione? Certo, ma quando sono state prese queste misure, tutte quelle industrie erano paralizzate. Sono anche cambiati i mercati. Nel caso dell’industria del cemento, in precedenza la una produzione era so­ stanzialmente destinata al mercato interno. Ma con il crollo degli investimenti, con una crisi cosi profonda, per chi si sarebbe dovuto produrre? La produzione di ce­ mento richiede un-grosso consumo di petrolio. Con l’esportazione si riesce a pro­ durre cemento anche per il mercato interno e cosi si è ricominciato a costruire abi­ tazioni. In scala minore, si prosegue la costruzione di immobili sociali. Un sistema in cammino, dunque. Nel ‘93 anche gli amici ci facevano le condoglianze. Sul finire del ‘94 la discus­ sione si è spostata sul “quanto dureranno”. Oggi, anche negli Usa, si discute su quanto tarderà il recupero completo: quattordici anni, dieci, otto, venti? Ma nes­ suno discute la validità, la compatibilità del modello economico. Ma allora, come dicevamo prima, il modello è valido e il dogma del neoliberi­ smo non è un assoluto... Questo dogma è cosi violento, cosi totalitario, che fa dimenticare alle persone che gli unici cinque paesi che si sono veramente sviluppati secondo i criteri capita­ listici negli ultimi trenta anni non avevano democrazia rappresentativa e avevano un grosso intervento statale: Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Malesia. In precedenza questo era avvenuto in Giappone, dove non c’era democrazia e c’e­ ra una pianificazione minuziosa dell’economia, più rigida forse che nell’Urss dei piani quinquennali. Se l’Urss avesse copiato il sistema di pianificazione giappone­ se, la storia sarebbe stata diversa. Non c’è economia più pianificata di quella giap­ ponese. Non c’è economia più pianificata per lo sviluppo di quella taiwanese e sud­ coreana. Buona parte dello sviluppo è dovuta però all’arrivo massiccio di capitali stranieri. Certo, capitali stranieri, sottoposti però alle regole dello Stato, tenendo conto della pianificazione, e soltanto nei settori che lo Stato individuava mano a mano co­ me interessanti, con proporzioni prestabilite. Il capitale là non è entrato come è en­ trato in Cile, come sta entrando in Argentina, per comprare industrie allo scopo di smantellarle. La differenza tra Taiwan e l’Argentina è che, sotto il capitale neolibe­ rista, semplicemente hanno comprato l’industria tessile argentina e dopo due mesi l’hanno chiusa. A Taiwan non hanno potuto fare questo: sono entrati capitalisti con provata esperienza nel settore e con garanzie che l’investimento era destinato alla produzione. Gli investimenti dovevano poi servire in qualche modo alle infrastrut­ ture, in particolare per la formazione. In Corea del Sud, negli anni ‘50, la maggior 44 parte della popolazione era analfabeta, gli ingegneri si contavano sulle dita di una mano. Oggi vi si produce tecnologia di punta. Klaus Burbenius, economista nor­ damericano, e Janis Simbalis, svedese, hanno confrontato lo sviluppo economico cubano e quello taiwanese dal ‘59 alT‘89, sulla base dei parametri internazionali di sviluppo. Cuba ha soddisfatto tutti questi parametri e in alcuni casi sono stati su­ perati quelli taiwanesi.L’economia cubana, nonostante le oscillazioni da un model­ lo all’altro e i tentennamenti, si è assestata su un ritmo di crescita annuale del 4,3%. Nessun altro, né in America Latina né nel Terzo Mondo, ha ottenuto questo tipo di risultato. Se mi domandi se possiamo essere un po’ più flessibili, ti rispondo di si, perché ancora ci rimane un po’ del modello sovietico, un po’ di lentezza... Ma una maggior flessibilità non può portare a un epilogo come quello nica­ raguegno? L’esperienza del Nicaragua è finita com’è finita in primo luogo perché in Nica­ ragua non si è fatto quel che si è fatto a Cuba. Un confronto del genere non ha sen­ so. Il livello di socializzazione raggiunto a Cuba non è mai stato raggiunto in Nica­ ragua. Sul piano della politica interna ed estera non abbiamo fatto compromessi, non abbiamo ceduto sui principi al capitale internazionale né al governo Usa, cosa invece purtroppo avvenuta in Nicaragua. Diceva il Che: aU’imperialismo non devi dare niente, perché se gli dai un dito ti prende un braccio, poi la testa. E questo a Cuba non è avvenuto. QUADERNI IBERO-AMERICANI Attualità Cultura della Penisola Iberica e deH’America latina Abbonamento annuo L. 50.000 /ccp. 15476104 intestato a Quaderni ibero americani, Via Montebello 21, 101124 Torino 45 Rafael Enriquez, offset, 1992, 46x65 cm. 46 Dossier / Gli spiriti dell’Africa nel Nuovo Mondo a cura di Mariella Moresco Fornasier Mariella Moresco Fornasier La Grande Attraversata Sulle navi negriere hanno viaggiato gli spiriti dell’Africa e sulle acque che la se­ parano dalla terra di schiavitù continuano a viaggiare per confortare e per farsi ono­ rare dai discendenti degli schiavi che li portarono con sé, lacerati negli affetti, spoliati della loro identità, ricchi solo della loro visione del mondo e memori delle en­ tità spirituali che lo reggono. Hanno accompagnato i loro fedeli nell’attraversata dolorosa della tratta schiavi­ sta e continuano ad attraversare le acque dell’oceano, chiamati dai tamburi dei fe­ deli, così come compiono la grande attraversata le anime dei defunti, che ritornano alla loro origine, alla terra degli antenati, ad un’Africa presente mitologicamente nelle narrazioni e nelle formule di culto con il nome di Guinée, il tragico crocevia del commercio schiavista. “Los negros creyentes en los orishas, cuando se hunden o se mueren en la tierra, van volando al Africa”. 1 La nascita delle religioni di origine africana sul suolo americano dipende strettamente dalla tratta schiavista, ma non solo e non in maniera determinante dal suo aspetto più immediatamente evidente, lo spostamento forzato delle grandi masse deportate in America. Le religioni afroamericane, fin dal loro primissimo conformarsi nei luoghi della schiavitù, non furono la semplice trasposizione delle credenze africane, bensì il risul­ tato di un complesso intreccio di fattori culturali ma anche (e forse soprattutto) so­ ciali. Furono lo strumento del ricordo, ma anche della costruzione di una nuova iden­ tità, senza la quale non sarebbe stato neppure possibile pensare il proprio futuro. “Queste culture e sottoculture africane, incastonate nel mosaico delle culture oc­ cidentali che determinano la civiltà del Nuovo Mondo, spezzano la loro forma di difesa sviluppando il loro processo evolutivo e disperdendosi in questa civiltà, ar­ ricchendo il folklore e le arti popolari fino a depurarsi in forme più elevate. Tra queste forme culturali, quelle che si sono conservate di più sono state le re­ ligioni, a causa della loro resistenza ad essere assorbite dalla religione cristiana, sia per il loro contenuto sociale, sia perché molti di questi sistemi religiosi hanno co- 1 Secondo la credenza degli schiavi che dovevano affrontare il grande viaggio nelle navi negriere: ‘I negri che credono negli orisha, quando affondano o muoiono sulla terra, ritornano volando in Africa”. 47 stituito un elemento di sovversione che, più di una volta, ha terrorizzato i padroni delle piantagioni, elemento sovversivo che portarono dall’Africa dove, senza alcun dubbio, costituirono un fattore di ribellione (è noto che i babalawos o sacerdoti yoruba, sfortunatamente consigliati dai mercanti di schiavi, combatterono l’inge­ renza inglese quando questa nazione cercò di assestare un colpo decisivo alla trat­ ta negriera).” 2 Esiste una relazione molto stretta tra le religioni afroamericane e la schiavitù, che ne costituisce l’ambito di formazione e verso la quale queste religioni si pongono come la prima forma di contestazione, di non accettazione del sistema schiavista. Un sistema con caratteristiche diverse da quello della schiavitù antica e che pre­ tendeva non solo di assoggettare il corpo e di arricchirsi con il lavoro dello schiavo, ma di togliergli la sua stessa identità. Battezzato prima dell’imbarco, lo schiavo verrà separato dalla famiglia e dal gruppo di provenienza ed unito ad altri schiavi di etnie diverse per spezzare meglio la sua resistenza. Ogni sua espressione culturale verrà proibita. È da questo isolamento profondo e doloroso che cercherà di uscire, costituendo un sistema simbolico comprendente la somma delle sue memorie e l’attualità della schiavitù, della quale costituiva una possibilità di evasione e di riaffermazione di un proprio mondo spirituale, gelosamente custodito ed occultato attraverso forme di mascheramento attuate con l’adozione dei rituali imposti dalla religione dei padroni. Seguendo la liturgia e le pratiche di devozione che gli venivano insegnate, riuscì a esprimere la propria religiosità e a mantenere viva la propria identità, ‘ricono­ scendo’ negli elementi iconografici dei santi cattolici, così come erano presentati dalla tradizione religiosa popolare spagnola del XVI e XVII secolo, i simboli iden­ tificativi degli spiriti tutelari ancestrali. Nell’affrontare il tema della transculturazione, come Fernando Ortiz preferì chiamare questo complesso fenomeno che portò alla nascita di una nuova cultura, differente sia da quelle africane che da quelle europee che concorsero alla sua for­ mazione, occorre avere presente che né l’Africa, né la Spagna e tantomeno l’Euro­ pa del tempo costituivano entità culturalmente e religiosamente omogenee. Le aree culturali yoruba e bantù, dalle quali proveniva la maggior parte degli schiavi, avevano già subito processi di assimilazione di elementi di varie religioni africane oltre che l’influenza dell’islam e del cristianesimo, apparso sulle coste del­ l’Africa occidentale con l’insediamento dei primi avanposti portoghesi. L’unico elemento di comunanza religiosa consisteva nella credenza in una divi­ nità creatrice, assolutamente lontana, irraggiungibile dalle preghiere degli uomini, alla cui sorte si dimostrava del tutto indifferente. Gli orisha, esseri spirituali identi­ ficabili con l’energia della natura o con le attività dell’uomo, colmavano l’incom­ mensurabile distanza tra la finitudine umana e la potenza di un Essere Supremo in­ disponibile ad una qualsiasi forma di relazione e di contatto. Uniti dalla condivisione di un sistema concettuale che riduceva il senso di ango­ scia e di spaventosa solitudine che attanagliava l’uomo, che si percepiva perduto nell’immensità indifferente dell’universo, erano divisi dalle forme religiose nelle quali si traduceva questo sistema e dalla frammentazione dei culti che venivano re- 2 Lachataneré R., Elsistema religioso de los afrocubanos, ed. Ciencias Sociales, La Habana, 1992 48 si ai numi protettori delle molteplici tribù e sottotribù nelle quali era organizzata la vita sociale africana. In Spagna, all’epoca della colonia, molti elementi pagani erano ancora presenti nelle manifestazioni religiose pubbliche, come dimostrato dai numerosi interventi della gerarchia cattolica, che nel corso dei secoli cercò di imporre una separazione tra elementi cristiani ed elementi pagani, che continuavano a persistere nella cultu­ ra popolare. I richiami della chiesa si protrassero fino al XVIII secolo, ma la vita delle colonie dipendeva in misura sempre minore dalle disposizioni che arrivavano dalla Spagna e sempre di più dalle condizioni contingenti locali, rendendo praticamente impossibile l’eliminazione degli elementi pagani dalla devozione popolare. La schiavitù comportò mutamenti nel corpo religioso africano ancora prima che questo evolvesse in una nuova religione ‘americana’. Trattandosi di religioni iniziatiche, nelle quali solo pochi individui erano ammes­ si ai ‘segreti’ ultimi e solo dopo un lungo percorso di apprendimento, non potevano essere conosciute, se non nei loro aspetti esteriori, più immediatamente recepibili e la cui memoria tendeva ad affievolirsi con il passare del tempo, da persone preva­ lentemente giovani, come erano gli schiavi deportati, e non facenti parte dei gruppi sacerdotali preposti alla conservazione e trasmissione del sapere religioso. Differenti da quelle delle comunità di origine erano anche le esigenze nella nuo­ va terra e differenti furono quindi gli orisha di cui invocare la protezione. La divisione dei gruppi familiari e tribali impedì l’identificazione dei nuovi grup­ pi in un unico spirito protettore, avviando un processo di assimilazione di tutti gli orisha tribali della nuova ‘famiglia religiosa’. Uno studio sulle reciproche influenze e confluenze di elementi tra il cattolicesi­ mo e le religioni yoruba e bantù è stato condotto, per quanto riguarda la realtà cu­ bana, da Joel James, direttore della Casa del Caribe di Santiago,3 che propone un’a­ nalisi interessante, distanziandosi dalle interpretazioni di studiosi precedenti, tra i quali Fernando Ortiz che, nell’ambito dell’apporto africano, consideravano quello yoruba come un elemento quasi esclusivo. Joel James rivaluta l’apporto bantù-congo, partendo dalla considerazione che, a suo parere, al momento della tratta negriera il panteon yoruba non era ancora strut­ turato gerarchicamente, ma giunse ad una maggiore elaborazione solo dopo essere entrato in contatto con il cattolicesimo e la sua sostanziale differenza concettuale fra divinità e santi. La cultura congo, con una minore articolazione di espressione religiosa, non è stata in grado di operare una corrispondenza con i modelli yoruba e cattolico, aven­ do come unica possibilità, in alternativa alla propria scomparsa, quella della so­ vrapposizione (non della sincretizzazione, data la mancanza di un assorbimento ar­ ticolato ed organico) di elementi delle altre due culture ai propri. E interessante notare però che, nonostante i loro maggiori sviluppo e comples­ sità, sono state prevalentemente la cultura cattolica e quella yoruba ad avere assun­ to elementi religiosi da quella congo, quali una percezione più emozionale della fe­ de ed un maggiore senso del mistero e del demoniaco, per quanto riguarda il cat­ tolicesimo, mentre i credenti yoruba assunsero da quest’ultimo la rappresentazione 3 James J., Eri las raices del arbol, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1988 49 antropomorfa e la gerarchizzazione del loro panteon e, dalla religione Congo, una concezione trascendente della natura. Quest’ultima acquisisce dai due modelli pre­ cedenti la concezione di una relazione utilitaristica, di contropartita immediata, nel rapporto tra l’uomo ed il mondo soprannaturale, mutuata dalle pratiche cattolica e yoruba di presentare ai santi offerte mirate all’ottenimento di particolari grazie. Nel processo di costruzione delle nuove religioni americane entrano anche ele­ menti indigeni, come dimostrato dall’esistenza degli orisha caboclo in Brasile, da al­ cuni elementi del vudù haitiano4 e della santeria cubana. Il processo di transculturazione opera trasversalmente nei contenuti e nelle espressioni esteriori della religiosità dei paesi dove vi è una presenza africana ed è riscontrabile sotto forma di sedimenti culturali anche nella ritualità di coloro che si professano cattolici praticanti senza l’adesione, neppure occasionale, ad altre pro­ fessioni religiose (come accade, per esempio, a Cuba dove parte degli aderenti a re­ ligioni afroamericane si professano anche cattolici). In tutti i paesi interessati a questo processo si è incrementato negli ultimi decenni l’interesse per le radici della propria cultura nazionale ed il conseguente fiorire di studi. Dopo il periodo pioneristico in cui videro la luce le opere, ancora oggi fondamentali, di grandi studiosi,5 che hanno spianato la strada ad una migliore com­ prensione del pensiero magico-religioso, persistente nonostante i processi di tenta­ ta omologazione alla cultura occidentale, si assiste ora ad una più diffusa presa di coscienza della importanza di questi elementi nella formazione della mentalità col­ lettiva dell’intera comunità nazionale e di come possano interagire, talvolta in ma­ niera determinante, con la vita sociale e politica. 6 Appare oggi evidente a quali insuccessi possano portare politiche sociali che non tengano nel debito conto la differente sensibilità di percezione rispetto ad impor­ tanti elementi costitutivi della cultura di origine africana, quali il senso del sacro, perennemente presente negli atti della quotidianità, piuttosto che il senso di relati­ vità nella definizione ed identificazione del Bene e del Male, sempre coesistenti e mai definitivamente separabili; la concezione olistica per mezzo della quale ogni singolo elemento acquista significato solo se inserito in una relazione di reciproca 4 Deren M., I cavalieri divini del vudù, ed. Est, Milano, 1997. 5 Ricordiamo tra gli altri, in una sintesi necessariamente lacunosa, stilata non in base alla qua­ lità della ricerca, per la quale molti altri nomi di eccellenti ricercatori vi dovrebbero comparire, ma del fatto di essere stati degli antesignani in questo specifico campo, i lavori di studiosi quali Fer­ nando Ortiz, Lydia Cabrera e Rómulo Lachataneré per Cuba; di Alfred Métraux, Louis Mars, Jean Price-Mars, tra i più noti nel folto gruppo di studiosi che pubblicarono numerosi ed importanti la­ vori a partire dai primi anni del nostro secolo sul vudù haitiano; di Roger Bastide e Pierre Verger, le cui opere furono scritte in un periodo più tardo rispetto a quello dei precedenti studiosi, ma che rappresentano un punto fermo, irrinunciabile, per gli studi sulla religiosità brasiliana. 6 Un solo esempio è sufficiente per chiarire la stretta correlazione che può assum ere la reli­ giosità popolare e l’azione politica di governanti che ne sappiano assumere i parametri concettuali. Il dittatore haitiano Francois Duvalier, etnologo e conoscitore delle credenze popolari, si autoproclamò difensore della cultura haitiana “autentica” e del vudù, riuscendo ad ottenere un entusiastico sostegno di numerosi fedeli, che servirono il regime come informatori o integrando le fam ige­ rate squadre dei Tontons-macoutes, ed aizzando il risentimento popolare contro la chiesa cattoli­ ca, accusata di essere alleata dell’élite mulatta. 50 complementarietà (materiale/spirituale, uomo/divinità, visibile/invisibile, emotività/razionalità, tradizione/innovazione, passato/presente). Nel mentre si iniziano a superare i pregiudizi negativi (ma il cammino si presenta ancora molto lungo e di difficile compimento) che attribuiscono alle espressioni reli­ giose afroamericane contenuti ed atteggiamenti irrazionali ed infantili7, si sta svilup­ pando anche un sentimento di comune appartenenza culturale, più che geografica e politica. Sono di questi ultimi decenni i primi congressi internazionali afroamericani (al cui ordine del giorno appaiono punti di grande importanza per la rappresentanza politica di specifici bisogni sociali) e gli scambi culturali (seminari e convegni di studio) tra studiosi di paesi appartenenti a quell’area di profondo meticciato cultu­ rale che è il Caribe. Questo dossier nasce dalla consapevolezza dell’importanza dei processi cultura­ li in atto, che investono l’attualità ed il futuro (anche se traggono la loro linfa dal passato) dell’America Latina e del Caribe. Sono state presentate tre situazioni nazionali, tra le più conosciute al lettore euro­ peo, con l’avvertenza di non considerarle come esaustive delle forme religiose a base africana dei paesi presentati né, tantomeno, dell’intero subcontinente, dove sono pre­ senti vecchie e nuove religioni in un continuo processo di amalgama e di genesi.8 Dati i fattori storici di sviluppo delle religioni americane, le modalità orali della loro trasmissione oltre alla mancanza di una gerarchia sacerdotale che abbia il ruo­ lo di conservazione dell’ortodossia, i vari culti presentano al loro interno una gran­ de diversificazione rituale e perfino interpretativa degli attributi e dei significati del­ le entità spirituali venerate, fino a giungere a “intepretazioni personali differenti ... fino ad una atomizzazione”9. Ciò non può non riflettersi sui risultati delle ricerche, che necessariamente pos­ sono proporre “schemi teogonici ... non definitivi ... approssimazioni suscettibili di cambiamento”.101 E ancora valida la considerazione di Fernando Ortiz sulla pratica religiosa cu­ bana (ma applicabile anche oltre i confini dell’isola): “Quando il cubano africano pratica una religione, qualunque essa sia, è solito ag­ giungere: alla mia maniera”.11 7 Queste opinioni risentono della superficialità di chi si limita a giudicare l’esteriorità di queste espressioni religiose e culturali senza conoscerne e capirne il sistema di pensiero che le informa, espresso attraverso un modello comunicativo che non corrisponde a quello filosofico-teologico occidentale, ma che si avvale di un insieme di racconti concernenti il mondo invisibile e le sue ma­ nifestazioni ed il cui senso, utilizzando un metodo didattico paragonabile a quello delle parabole evangeliche, serve ai credenti per interpretare i fatti quotidiani ed i responsi delle divinazioni. 8 Tra le più note, il rafastari giamaicano, l’umbanda brasiliano ed uruguayano, lo Shango Cult di Trinidad Tobago, i culti afroindigeni del Caribe di terraferma e degli chocoanos e di altre com u­ nità afrocolombiane, i rituali dei Bosch del Surinam e molti altri, presenti sia in terraferm a che nel Caribe insulare. 9 Barnet M., La hora de Yemaya in ‘La Gaceta de Cuba” , marzo-aprile 1996. 10 Barnet M., op. cit. 11 citato in Millet J., El espiritismo. Variantes afrocubanas, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1996 51 Mi è stato possibile approfondire gli argomenti trattati in questo dossier grazie agii insegnamenti e alla più affettuosa disponibilità dimostratami da molte persone che ho avuto la fortuna di frequentare sia durante un corso di specializzazione tenuto all’Avana, che in lunghi incontri in va­ rie località cubane. Desidero ringraziare il prof. Laènnec Hurbon (università della Sorbona di Parigi), la prof.sa Làzara Menéndez (università dell’Avana), la prof.sa Leyda Oquendo (Casa dellAfrica dell'Avana), il dottor Anibai Arguelles (dipartimento studi sociorelegiosi dell’università dell’Avana), il dottor Emilio Jorge Rodriguez (direttore del Centro Studi del Caribe della Casa de Las Americanas dell’A vana), il dottor Joel James e il dottor José Millet (rispettivamente direttore e responsabile del gruppo di ricerca della Casa del Caribe di Santiago), il dottor Julian Mateo, ricercatore della stessa istituzio­ ne nonché, con sua moglie Pepa, amabile ospite, lo scultore Pedro Spengler ed il santero Enrique Hernandez di Santiago, ed Emilio Lopez Creart. Un ringraziamento particolare a Estrella Dominguez, iyalocha di Matanzas, albabalocha del barrio di Atarès dell’Avana ed a Vicente Portuondo, oriaté di Santiago, che mi hanno accolto nel­ le loro case tempi, elargendomi molti consigli e permettendomi di assistere alle loro cerimonie. Un grazie di cuore a monsignor Carlos Manuel de Céspedes della curia vescovile dell'Avana, a don Joan Rovira, direttore del seminario di Santiago e alla comunità delle Piccole Sorelle di Ge­ sù dell’Avana, che hanno acconsentito a trasmettermi con grande disponibilità parte della loro pre­ ziosa esperienza. Il mio studio sarebbe stato molto meno proficuo senza l'aiuto, indispensabile ed affettuosissi­ mo, di Paquita Lamadrid, Sandra e Roger Avita. Noam Chomsky Heinz Dieterich Luis Javier Garrido LA SOCIETÀ’ GLOBALE Educazione Mercato Democrazia Le drammatiche conseguenze della globalizzazione per il lavoro, l’edu­ cazione, la democrazia e le culture nazionali alle soglie del XXI secolo. pp. 160 L 23.000 La Piccola Editrice Via Roma, 5 01020 Celle-no (VT) Tel/fax 0761-912591 52 Laènnec Hurbon - Mariella Moresco Fornasier Uomini e spiriti ad Haiti Testo redatto da Mariella Moresco Fornasier su appunti tratti dalle lezioni svol­ te dal prof. Laènnec Hurbon durante un seminario svoltosi presso la Casa de Las Américas dell’Avana nell’agosto 1997. * “Vodun” è il termine che esprime “ciò che è sacro”, lo “spirituale”. Uno dei due mondi di cui è composta la realtà naturale e quella dell’uomo, che ne fa parte. Il vudù è un sistema simbolico, nel quale l’individuo deve entrare per potere rea­ lizzare il suo destino nel mondo, un destino conosciuto attraverso la divinazione. Da questa definizione emerge il carattere profondo, il senso del vudù: una reli­ gione mistica, che permette un contatto, una unione con il mondo spirituale per mezzo della fisicità dei simboli, delle musiche, del corpo stesso del credente trami­ te la possessione. Per il praticante vuduista il mondo spirituale non è ‘altro’ dal mondo fisico, non esistono due realtà estranee l’una all’altra, tra le quali trovare un collegamento, provvisoriamente stabilito dal rito; il mondo invisibile ed il mondo visibile sono due aspetti complementari della stessa realtà e, come tali, si deve necessariamente po­ tere passare dall’uno all’altro, entrando in contatto con il mondo spirituale tramite la fisicità della persona, concepita non come la semplice somma di corpo e di spi­ rito, tra loro separati, ma come la fusione inscindibile dell’elemento materiale e di quello spirituale. Il mondo spirituale è vincolato al presente dei credenti comprendendo, tra le al­ tre entità, anche gli spiriti dei morti, entrati a fare parte della relazione tra forze vi­ tali, spiriti protettori della natura ed antenati, tutti accomunati dal termine ‘lwa’, con il quale gli haitiani definiscono tutto ciò che appartiene al mondo invisibile. In Africa, il culto dei morti mette in relazione i defunti più recenti di ogni grup­ po familiare con gli antenati comuni al villaggio ed all’etnia, tra i quali compaiono figure divinizzate, corrispondenti ai capostipiti tribali. E’ interessante notare come nel vudù haitiano compaiano alcuni lwa, che rap­ presentano gruppi o etnie africani ormai estinti, dei quali viene ricordata (e quindi mantenuta viva) l’esistenza sotto forma di spiriti appartenenti alla famiglia dei lwa della morte, compiendo in tal modo una operazione di ricupero della tradizione, rivitalizzata dall’adeguamento alle nuove situazioni. Originariamente, nella situazione religiosa che corrispondeva alla organizzazio­ ne sociale africana, vi erano tre livelli di pratica cultuale, corrispondenti alla fami­ glia, intesa come asse di ascendenza (hennu-vudu), al villaggio (to-vudu) ed all’et­ nia (ako-vudu). Oltre ai lwa collettivi, ogni individuo ereditava (ed eredita tutt’og53 gi) dalla propria famiglia un lwa-rasin (secondo la terminologia haitiana), una en­ tità spirituale personale, che ne avrebbe accompagnato l’esistenza. La rottura dei vincoli familiari e le condizioni di schiavitù modificarono i rap­ porti interni alla sequenza simbolica che formava l’universo religioso africano. Per­ dettero importanza, scomparvero o si trasformarono gli spiriti connessi al lignaggio ed agli antenati, come quelli preposti alla protezione ed alla fecondità dei campi e del bestiame, dato che lo schiavo sviluppò necessità diverse, non avendo alcun in­ teresse alla fertilità di una natura dalla quale non poteva trarre alcun beneficio. Ac­ quisirono invece maggiore importanza i lwa della guerra, esprimenti la virilità ag­ gressiva, più adatti a rispondere al bisogno di ribellione degli schiavi. La concezione fondamentale della visione cosmogonica africana permase però inalterata, nonostante i profondi cambiamenti imposti da una organizzazione socia­ le, che rispondeva al bisogno dei proprietari delle piantagioni americane di impedi­ re ogni forma di relazione tra gli schiavi che ne permettesse l’organizzazione e ne fa­ cilitasse le fughe e le ribellioni. Nonostante venissero separati i nuclei familiari e tri­ bali e si tendesse ad affiancare schiavi provenienti da etnie differenti e nonostante le severe proibizioni, ufficializzate dai Codici Neri, di praticare ogni forma di religione che non fosse quella cattolica, di celebrare feste o di organizzare riunioni, gli schia­ vi seppero ricostruirsi una identità, il cui fondamento era la concezione simbolica unitaria, specifica del sostrato comune alle culture africane di appartenenza. Gli spiriti del m on do In un rapporto dialettico tra il mantenimento della tradizione e l’adattamento al­ la nuova situazione, anche i nuovi lwa, nati in terra d ’America, vennero inseriti in quella rete di relazioni, al di fuori della quale ogni singola entità spirituale perde il proprio signficato più autentico. “Ogni lwa, preso in se stesso, ha un significato ri­ stretto, ciò che importa veramente è l’insieme delle famiglie dei lwa, nella loro op­ posizione e nella loro complementarietà, che formano il panteon del vudù”.1 Solo la relazione tra visibile ed invisibile, di cui i lwa sono gli strumenti di unio­ ne, dà vita all’universo, dà senso all’esistenza dell’uomo che, inserito in questa cate­ na simbolica, trova la propria umanità, il proprio posto nel mosaico dell’universo. La sincretizzazione con le figure dei santi cattolici rimase al puro livello figurati­ vo, limitandosi all’assunzione dei simboli esteriori che li contraddistinguevano nel­ l’iconografia tradizionale ed operando un’azione di sintesi formale, che non inve­ stiva il significato simbolico né del lwa né del santo cattolico. Il rito collettivo, che si svolge all’interno dell’hounfó 12, ha lo scopo di realizzare il passaggio dall’invisibile al visibile, attraverso una serie di gesti, di musiche, di ora­ zioni il cui ordine cerimoniale corrisponde a precise esigenze, volte a rendere il con­ tatto con il mondo degli spiriti non solo possibile ma anche sicuro, privo degli ele­ menti di pericolo che l’inosservanza delle regole conosciute dagli specialisti può in­ trodurre. La valenza potenzialmente negativa, pericolosamente oscura dell’irruzione delle 1 Hurbon L , Les mystères du vaudou, Découvertes Gallimard, Parigi, 1993 2 II tempio, dove i lwa dispongono di propri spazi ed altari. 54 forze invisibili nella vita dei fedeli è sottolineata dalla necessità che la cerimonia, con la quale vengono evocate, debba non solo essere guidata da un houngàn o da una manbó3, ma debba anche avvenire all’interno di uno spazio preposto e svolta seguendo precise regole cerimoniali. Ogni tempio vudù comprende uno spazio aperto, destinato alle cerimonie, al cui centro si innalza il potó-mitàn, il palo che rappresenta il punto d ’unione, il passag­ gio tra i due mondi, la via percorsa dai lwa per congiungersi ai fedeli. Intorno a que­ sto palo vengono deposte le offerte e disegnati i vévé, i disegni di una simbologia talvolta molto complessa, indicativi di ogni lwa e che, insieme al suono dei tambu­ ri, ‘chiamano’ gli spiriti. Intorno al concetto di transizione dall’invisibile al visibile si è costruito un siste­ ma simbolico comprendente diversi elementi, ognuno dei quali assume il significa­ to di ‘porta d’accesso’, di passaggio necessario ed obbligato, affinché avvenga rin ­ contro tra le due differenti forme di manifestazione dell’unica realtà. Chiamati dal rullo dei tamburi, i cui suoni, anch’essi codificati, corrispondono ognuno ad uno spirito particolare, ed evocati dai vévé tracciati intorno al potómitàn, i lwa sono sempre preceduti da uno di loro, Legba, che ha il compito di apri­ re la barriera che separa il visibile dall’invisibile. Detto anche Papa Legba, è sempre il primo lwa a venire invocato, affinché la ce­ rimonia possa avere inizio, dato il suo ruolo di protettore di tutto ciò che inizia, di guardiano dei crocevia, delle abitazioni e dei templi, l’intermediario indispensabile tra le entità spirituali e gli uomini. Questa sua caratteristica di ‘aprire il cammino’ e di essere il custode delle case, lo ha fatto assimilare alla figura di San Pietro, detentore delle chiavi del Paradiso. Gli altri lwa, che presiedono agli aspetti della natura o alle attività umane, rive­ stono un’importanza differente a seconda dei panteon corrispondenti ai tre riti principali seguiti ad Haiti: Rada, Congo e Petro. Frutto di un processo di sincretismo interno alle molteplici mitologie africane, i riti haitiani attualmente praticati non corrispondono in toto alle diverse etnie origi­ narie, se non nell’immaginario dei loro seguaci, che designano i rispettivi gruppi di lwa con il nome di nanchón (nazioni), ed ai quali fanno corrispondere vari riti (ol­ tre ai tre maggioritari, ve ne sono altri secondari), ognuno con propri canti, musi­ che, cerimoniali ed animali sacrificali. Il rito Rada occupa un posto preminente, tanto da essere l’unico utilizzato per tutte le cerimonie di iniziazione. Onora i lwa originari del Dahomey, i ‘buoni lwa’, caratterizzati da atteggiamenti di bontà e dolcezza, da attitudini protettive nei con­ fronti dei propri fedeli. I riti Congo onorano i lwa d’origine bantù, che amano cerimonie più esuberan­ ti e vivaci, mentre i riti Petro sono riservati ai lwa ‘creoli’, prevalentemente origina­ ri di Santo Domingo, che rappresentano il lato terrificante dell’occulto. Violenti e vendicativi, sono invocati nelle pratiche di magia ed includono talvolta anche i lwa Rada, quando vengono evocati nei loro aspetti violenti. Nella visione vuduista, estranea ad una concezione rigidamente dualista, ogni 3 Rispettivamente il sacerdote e la sacerdotessa del vudù. 55 Kva presenta caratteristiche ‘buone’ e caratteristiche ‘cattive’. Il Male ed il Bene non costituiscono concetti assoluti e tra loro escludentisi, ma assumono valenze relative all’obbiettivo immediato del praticante. Anche i lwa Petro e Congo, considerati fondamentalmente pericolosi, possono dispensare benefici ai propri fedeli, a condizione di venire onorati e serviti secon­ do precise regole cerimoniali. La severa osservanza degli obblighi nei confronti dei lwa è imposta particolar­ mente nei confronti dei lwa-achté, entità cui ci si rivolge quando i lwa-rasin, ere­ ditati dalla propria famiglia, si dimostrano poco efficaci. Il rivolgersi a spiriti ‘estranei’, non vincolati da alcun compromesso con il gruppo di appartenenza, è un atto da compiersi con grande cautela, dato il rischio che comporta la non cor­ retta osservanza degli obblighi, talvolta molto onerosi, che è necessario assumer­ si nei loro confronti e la cui inosservanza può attirare l’ira del lwa sull’intera fa­ miglia del fedele. Particolarmente esigenti nel reclamare i servigi loro dovuti, presenti in tutti i ri­ ti e più potenti degli altri lwa, i lwa Marassa sono raffigurati iconograficamente co­ me due gemelli e sincretizzati con i santi Cosma e Damiano. La loro potenza deriva dall’unità primordiale che rappresentano, quell’unità ori­ ginaria la cui rottura generò il mondo. Una unità rievocata, nelle cerimonie in loro onore, dalla forma dei recipienti che raccolgono il cibo offerto e composti da più elementi (zucche, caraffe) legati tra loro o direttamente realizzati con una forma molteplice. Solo se soddisfatti dal culto reso, i marassa possono rendere preziosi servigi, qua­ le il dare indicazioni sulle erbe e le piante medicinali utili a guarire i malati. Il culto dei morti L’importanza attribuita al servizio delle anime dei defunti risulta evidente sia in occasione di una morte, che durante le cerimonie che si svolgono in tutto il paese in concomitanza con la ricorrenza cristiana dei defunti. In questa occasione si possono incontrare, anche nei luoghi pubblici e per le strade, persone possedute dai Gédé, gli spiriti della morte. I simboli e gli attributi dei Gédé sono esplicitamente finalizzati ad esorcizzare la morte con le espressioni più vitali, quali lo scherzo e l’unione sessuale. La presenza della morte sembra diventare uno spunto per facezie, burle dispet­ tose e danze lascive. La sua ineluttabilità è vinta solo dall’altrettanto forte scorrere della vita, che va riaffermata proprio là dove il pensiero della morte si fa più pre­ sente: le veglie funebri e le celebrazioni in onore dei defunti. La nascita stessa dei Gédé è connessa ad una ‘morte’: il loro nome, infatti, è quel­ lo di una etnia africana sconfitta militarmente dai suoi vicini e deportata a Santo Domingo, dove ha cessato di esistere come gruppo distinto per rinascere ad Haiti come un ‘popolo’ di spiriti della morte, capeggiati da Baron Samedi, la cui maca­ bra rappresentazione iconografica (uno scheletro vestito con abito scuro e cappel­ lo a cilindro) si accompagna a danze raffiguranti l’accoppiamento. L’aspetto terrorifico e la gravità di Baron Samedi ben si accordano alle pratiche di magia che vengono svolte sotto la sua particolare protezione agli incroci delle strade e nei cimiteri, le cui croci innalzate non richiamano, per i vuduisti, la fede 56 cristiana, ma costituiscono il simbolo dei crocevia (il passaggio dalla vita alla mor­ te) e dei loro spiriti. La compresenza della morte e dell’allegria è parte integrante delle veglie fune­ bri, dove ai lamenti si succedono momenti di divertimento collettivo, con giochi e racconti che prendono spunto da episodi della vita del defunto. Tra i comportamenti codificati vi è ‘l’interrogatorio’ del morto, una sorta di con­ versazione, che ha lo scopo di dargli una serie di messaggi, da portare con sé nel suo viaggio ultraterreno. Questa usanza è giustificata dalla credenza che l’anima non abbandoni imme­ diatamente il corpo, ma gli resti vicino, all’interno della sua stessa casa, costituen­ do un pericolo per i vivi, che potrebbe trascinare con sé. I riti connessi alla morte hanno lo scopo di allontanare definitivamente dal ca­ davere tutte quelle entità spirituali che ne avevano fatto un uomo e che, fino alla lo­ ro completa dispersione, continuano a rappresentare un pericolo per la comunità. Per gli adepti al vudù, i riti funebri contemplano l’ulteriore necessità di staccare dal loro corpo lo spirito al quale si erano votati. Solo attraverso l’intervento di un houngàn, il lwa del defunto ne abbandonerà il cadavere per entrare nel corpo di un parente, che lo erediterà. Gli spiriti dei morti recenti riceveranno attenzioni e periodiche offerte di cibo, venendo assimilati alle altre entità spirituali del mondo invisibile, e come le altre en­ tità potranno manifestare attenzione e protezione verso la propria famiglia o risul­ tare minacciosi, causare malattie e disgrazie, se privati del tributo dovuto. La p o s s e s s io n e II morto recente è il primo anello, quello più vicino al mondo dei vivi, della ca­ tena che, passando per gli antenati e gli spiriti della natura, unisce l’uomo al miste­ ro della trascendenza. Un mistero che cerca il contatto con il nostro mondo tramite i lwa, che a volte amano manifestarsi, entrando nel corpo di un praticante durante le cerimonie in lo­ ro onore. Il fenomeno della possessione è stato indagato con la metodologia propria di di­ verse discipline, non esclusa la psichiatria. Di volta in volta definito, da studiosi con una formazione esclusivamente scien­ tifica, come espressione di isteria collettiva, suggestione, plagio di menti deboli o si­ mulazione, rappresenta per il vudù un momento fondamentale: il momento esclu­ sivo dell’unione completa del credente con un lwa e, suo tramite, con la realtà ul­ trasensibile. Nella concezione vuduista, in ogni essere umano agiscono due forze spirituali, la cui compresenza lo caratterizza come essere vivente e che lo abbandoneranno al momento della morte. Senza l’azione di queste forze, che attraverso l’energia vitale danno l’esistenza reale, l’identità umana al corpo materiale, l’uomo si ridurrebbe a un kó kadàn (corpo cadavere). Il fenomeno della possessione è spiegato con l’uscita dal corpo del credente di uno dei due elementi spirituali e l’entrata, al suo posto, di un lwa che, passando per la testa del posseduto, compie un itinerario attraverso l’intero corpo per adeguarlo all’immagine del lwa stesso, tramite posture, atteggiamenti, espressioni del volto ed 57 emissioni di suoni, grida o frasi di senso compiuto, talvolta in lingue sconosciute al fedele, ma che appartengono all’identità del lwa. Lo spirito che desidera ‘cavalcare il suo cavallo’ (secondo l’espressione usata per designare il momento della possessione), deve trovare una buona disposizione ad accoglierlo, pena l’insorgere di malattie dovute ad una inadeguata posizione dello spirito nel corpo del praticante che, al contrario, se si dimostra acquiescente e lo ac­ coglie senza opporre resistenza, manifestandogli in tal modo la sua buona disposi­ zione, ne riceverà in cambio una serie di benefici e sarà aiutato a trovare il senso della propria esistenza nella complessità della realtà universale. Questo risultato esistenziale è lo scopo più importante del sistema religioso vuduista, un risultato ottenuto tramite il complesso culto reso alle forze spirituali che agiscono nella vita individuale e sociale. Il rapporto con i lwa, che seppure invisibili appartengono allo stesso mondo dei loro fedeli, permette al credente di vivere una relazione molteplice, che compren­ de i rapporti tra l’individuo e la comunità, l’individuo e il cosmo, tra l’intero mon­ do visibile e la realtà invisibile, conosciuta attraverso una concezione intuitiva (e non razionalmente descrittiva) delle entità che la conformano. Nella complessa realtà religiosa vuduista, ogni manifestazione apparente (ogget­ to, rito, ecc.) è la forma simbolica che esprime il mondo invisibile e le relazioni esi­ stenti tra le sue parti. La materializzazione di questo mondo simbolico è rappre­ sentata dall’hounfó, il luogo di culto dove la comunità dei credenti si riunisce per rinforzare il proprio legame con i lwa e trovare, per loro tramite, il senso della pro­ pria esistenza. “Per chi lo vive dall’interno, il vudù è un sistema simbolico che funziona a par­ tire da princìpi e regole e che si può scoprire, sia attraverso la ‘mitologia’ che rac­ conta la storia degli spiriti (o lwa), che nel complesso rituale e nelle norme di com­ portamento offerte agli aderenti”. “I lwa del vudù stabiliscono una rete di relazioni tra le attività umane (l’agricol­ tura, la guerra, l’amore) ed i diversi aspetti del mondo naturale. Strutturano lo spa­ zio e il tempo, prendono in carico l’esistenza dell’individuo dalla nascita alla mor­ te, come se solamente l’ascolto assiduo dei loro messaggi potesse permettergli di co­ noscere e di realizzare il suo destino. Offrono un modo per classificare i differenti ambiti dell’intero universo, così come della vita sociale. L’ordine e il disordine, la vita e la morte, il bene e il male, gli avvenimenti felici e dolorosi sono inseriti in un ambito significante grazie ai lwa, che fanno sì che nulla possa apparire assurdo al­ l’individuo”4. 4 Hurbon L , op. cit. 58 Mariella Moresco Fornasier Culti religiosi nell’Occidente cubano:la Regia de Ocha e le società segrete Abakuà I culti religiosi di ascendenza africana che si praticano a Cuba presentano una diffusione territoriale non omogenea, diretta conseguenza delle differenti vicende legate alla tratta degli schiavi ed alla loro differente destinazione nelle varie zone della produzione agricola coloniale. Si riteneva, infatti, che gli schiavi provenienti da determinate regioni africane, per ragioni storiche legate alle vicende politiche dei paesi d ’origine, fossero più sot­ tomessi ed adatti al lavoro servile di altri e quindi preferiti durante l’acquisto di ma­ no d’opera da inviare nelle piantagioni. Altri utilizzi della mano d ’opera schiava, come la cessione a giornata per le atti­ vità portuali o comunque connessi alla vita di porti fiorenti come quelli dell’Avana e di Matanzas, richiedevano qualità di intraprendenza ed autonomia ritenute più sviluppate presso alcuni gruppi che provenivano da quelle zone che, fino agli anni a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo, erano state interessate al commercio schia­ vista in qualità di soci commerciali degli europei. I culti più diffusi a livello nazionale sono attualmente presenti sia nell’Occiden­ te che nell’Oriente del paese, ferma restando una loro diversa preminenza regiona­ le, mentre i culti meno seguiti, maggiormenti localizzati in aree ristrette, al di fuori di queste sono praticamente inesistenti. Nell’Occidente dell’isola, ma con una forte presenza su tutto il territorio nazio­ nale, il culto predominante è quello della Regia de Ocha, comunemente conosciu­ ta come santeria, alla quale si affianca, nella fascia costiera che giunge fino a Ma­ tanzas, la presenza delle società segrete Abakuà, i cui membri sono conosciuti an­ che con l’appellativo popolare di nanigos. Meno praticato della santeria a livello nazionale, il Palo Monte gode di una dif­ fusione rilevante nella regione dell’Oriente, dove sono presenti anche differenti for­ me di spiritismo e, in località circoscritte, il vudù, portato alla fine del ‘700 dai fug­ gitivi dalla rivoluzione haitiana. R egia de O cha “La santeria costituisce la forma più radicata ed estesa dei sedimenti africani a Cuba ... II culto dei santi si potrebbe definire come la fusione dei diversi elementi reli59 giosi derivati dai tipi della cultura africana che furono predominanti a Cuba, con caratteristiche essenzialmente yoruba; la sua teologia è fondata sugli scambi realiz­ zati tra le divinità yoruba ed i santi cattolici e qui il sincretismo ha preso la sua for­ ma più definita. Cosicché si vede che tutte le divinità yoruba, portate in questo pae­ se, sono perfettamente identificate con i santi cattolici, fino al punto di confonder­ si le une con gli altri; da qui il nome di ‘santo’, parola che esprime la presenza ter­ rena della divinità afrocubana durante l’estasi dei sacerdoti e che generalmente vie­ ne identificata con questo nome generico di ‘il santo’. Anche se nella pratica di questi culti ci poniamo di fronte a un gran numero di elementi procedenti da altre culture, come la bantù, ewey, mandingo, la caratteri­ stica fondamentale è espressa dagli elementi yoruba, ragion per cui siamo inclini a considerare il culto ai santi come il sistema religioso yoruba afrocubano, il cui mo­ do di presentarsi, il suo carattere teologico, le sue pratiche, costituiscono un tipo ben differenziato che, nonostante i numerosi elementi presi dal cattolicesimo, le danno la categoria di una religione.”1 La santeria, così come le altre espressioni religiose afrocubane, non costituisce un sistema chiuso, rigidamente strutturato, bensì presenta differenze a seconda dei culti praticati e perfino dei singoli officianti, presentandosi come un “ ... corpo teogonico ... (che) subisce modifiche secondo la linea di ogni casa-tempio, di ogni of­ ficiante. ... Se, come abbiamo detto, questa è una religione basata su varianti, ogni schema potrebbe essere suscettibile di una interpretazione personale.”12 Differenze non trascurabili esistono, inoltre, tra le regioni dell’Occidente e del­ l’Oriente, dove alcuni orisha subiscono una diversa identificazione con i santi cat­ tolici, alcuni dei quali a loro volta sono oggetto di maggiore o minore venerazione nelle regioni orientali ed occidentali del paese. Secondo testimonianze raccolte da Rómulo Lachataneré, la santeria fu intro­ dotta nella regione di Santiago da un officiante di Matanzas solo nei primi anni del nostro secolo e, entrando in contatto con i culti congo già radicati, dovette stemperare i suoi tratti yoruba sia nel rituale che nell’identificazione tra orisha e santi cattolici. La convivenza di culti diversi ha inevitabilmente comportato ulteriori forme di sincretismo, favorite dal fenomeno delle migrazioni interne, che diffusero in tutta l’isola culti originariamente localizzati in aree geografiche distinte. La Regia de Ocha, i cui fondamenti sono costituiti dall’originario culto yo­ ruba alle entità spirituali (intermediarie tra l’Essere Supremo ed il genere uma­ no, siano esse entità protettrici delle attività umane o espressioni delle forze della natura, come anche antenati capostipiti divinizzati) si sviluppa a Cuba a partire dalla fine del secolo scorso, costituendo il risultato del sincretismo del­ le rappresentazioni dell’universo religioso di questa etnia con elementi prove- 1 Lachataneré R., El sistema religioso de los afrocubanos, ed. Ciencias Sociales, La Habana, 1992. Il termine ‘divinità’ utilizzato da questo studioso non è unanim em ente condiviso, dato che gli orisha non sono né creatori, né padroni delle forze o delle attività che invece ‘esprim ono’, oltre a potere essere equiparati, in alcuni casi, alla figura mitica dell’eroe fondatore nella cultura greca. 2 Barnet M., La hora de Yemayà, in La Gaceta de Cuba, marzo-aprile 1996 60 nienti da altre culture africane e dal cattolicesimo (così com’era praticato nella Cuba coloniale) che, a loro volta, avevano già subito un processo di sincretizzazione in Africa. Nonostante il loro apparire assai tardo nel contesto religioso cubano, dovuto al­ le vicende storiche che videro gli yoruba, da dominatori di altre etnie e procacciatori di schiavi per i mercanti europei, divenire essi stessi vittime della tratta negrie­ ra alla fine del ‘700, furono i membri di questo gruppo “quelli che esercitarono l’in­ fluenza maggiore nel processo di integrazione al sistema culturale e religioso dell’i­ sola, e che riuscirono più velocemente a estendere le loro manifestazioni e marcare una linea di influenza piuttosto rilevante nelle altre culture africane che esistevano a Cuba, molto tempo prima di quella yoruba”.5 I motivi di questa maggiore influenza culturale vanno ricercati nel più elevato livello concettuale del pensiero religioso yoruba e nella sua ricchezza mitologica e filosofica. II fondamento di tale pensiero si fonda sulla percezione di estrema lontananza e di incomunicabilità tra la divinità suprema (rappresentata dalla trilogia Olofì-Oloddumare-Olorun) ed il mondo creato. L’uomo può rivolgere il proprio culto ed indirizzare le proprie preghiere solo a degli intermediari, gli orisha, considerati come messaggeri della volontà divina ma appartenenti a questo mondo, nelle cui vicende possono intervenire, esaudendo le richieste dei fedeli o punendoli per le loro mancanze. E’ quindi esclusivamente ad essi che verrà dedicato il culto, riservando all’Essere Supremo solo una formula ri­ tuale usata in particoli occasioni. Per capire la complessità simbolica che si cela dietro l’apparente semplicità con­ cettuale della Regia de Ocha, è necessario tenere conto che il sistema religioso yo­ ruba non si è evoluto per un processo di approfondimento endogeno, bensì per as­ similazione progressiva di elementi appartenenti alle credenze dei gruppi limitrofi, in particolare con l’annessione al proprio corpo mitologico delle figure dei capostipiti, gli eroi fondatori delle città e delle regioni confinanti. • Nel 1910 Leo Frobenius scrisse che “la religione degli yoruba divenne omoge­ nea, così come si presenta ora, gradualmente. La sua uniformità è il risultato di adattamenti e amalgami progressivi di credenze venute da varie direzioni.”345. Neppure sessantacinque anni più tardi era possibile riscontrare una uniformità di culto, come è testimoniato da Pierre Verger: “Non c’è, in tutti i punti del terri­ torio chiamato Yoruba, un panteon degli orisha ben gerarchizzato, unico e identi­ co. Le varianti locali dimostrano che certi orisha, che occupano una posizione do­ minante in alcuni luoghi, sono totalmente assenti in altri. Il culto a Changó, che oc­ cupa il posto più importante a Oyò, è ufficialmente inesistente a Ifé, dove un dio locale, Oramfò, lo sostituisce come padrone del tuono. Ochun, il cui culto è molto praticato nella regione di Ijexà, è assente in quella di Egbà. Yemayà, sovrana nella regione di Egbà, non è neppure conosciuta in quella di Ijexà. La posizione di tutti questi orisha è profondamente dipendente dalla storia della città della quale figu­ rano come protettori ...”5 3 Barnet M., Cultos afrocubanos , ed. Union, La Habana, 1995. 4cit. in Verger R, Orixàs, Circulo do livro de Sào Paulo , 1975. 5 Verger P. op.cit. 61 A Cuba tutti gli orisha oggetto in patria di culti locali, ma sconosciuti fuori del proprio territorio, hanno trovato accoglienza in un unico sistema religioso, quello santero, che li ha integrati in un panteon comune a tutti i credenti. Un panteon che presenta però delle differenze talvolta rilevanti nell’identificazione tra i singoli ori­ sha ed i santi cattolici, così come nell’insieme dei racconti sulla loro origine e le ri­ spettive caratteristiche distintive. Differenze riscontrabili non solo tra località dif­ ferenti ma anche tra diversi officianti ed i rispettivi gruppi di fedeli. Così come nel passato africano il culto agli orisha si caratterizzava a livello locale, nel­ la colonia ed ai giorni nostri si caratterizza per una spiccata frammentazione, non più fondata sull’aggregazione familiare o sociale, bensì sul concetto di ‘famiglia religiosa’. La mancanza di un rigido ordine gerarchico e di un conseguente accentramento del sapere dottrinale e liturgico, ha permesso la sopravvivenza della Regia de Ocha in condizioni storiche estremamente lontane da quelle che l’hanno originata, ma ne ha amplificato la frammentazione non solo negli aspetti rituali esteriori, permeabi­ li alla specificità delle condizioni esterne ed ai differenti influssi culturali con i qua­ li entrava in contatto, ma anche al livello semantico del corpo dei racconti cosmo­ gonici ed a quello interpretativo dei rapporti esistenti tra le diverse manifestazioni degli orisha e, conseguentemente, della preminenza di una o di un’altra forza spiri­ tuale nell’ordine naturale nel quale è inserita la vita dei fedeli. E essenziale tenere presente il ruolo fondamentale del dualismo tradizione-in­ novazione, motore della cultura africana, per capire le modalità di sopravvivenza e di adeguamento alle nuove situazioni della Regia de Ocha. Adeguamento che non si limita alla necessità di ritrovare, in una situazione tan­ to peculiare ed estrema come quella della schiavitù, la possibilità di mantenere i propri fondamenti culturali e la propria identità, ma costituisce un processo co­ stante di ricerca di equilibri, che ha finora permesso la sopravvivenza di questa re­ ligione in contesti fortemente avversi come la cultura ufficiale atea, che fino al 1991 ha precluso alle espressioni religiose la possibilità di manifestarsi e di confrontarsi pubblicamente, e l’impatto con gli aspetti più destabilizzanti dell’apertura a modelli di vita estremamente differenti dal proprio contesto originario. E’ questa forse la sfida più pericolosa che la santeria sta affrontando, dopo il si­ lenzio dei primi anni della rivoluzione ed il disprezzo che ai tempi della colonia ha accompagnato tutte le espressioni culturali degli schiavi negri e che si è trasforma­ to in un meno evidente ma più subdolo pregiudizio, che continua ad accompagna­ re nel quotidiano le relazioni interpersonali. Verso l’insieme dei complessi sistemi religiosi cubani, con le loro molteplici espressioni, continua a permanere un giudizio sostanzialmente negativo, riassunto nella definizione spregiativa di ‘credenze di negri’, condivisa anche da persone che annoverano tra i propri antenati (non troppo lontani) proprio coloro che, salendo sulle navi negriere, portarono con sé gli spiriti e le forze vitali della propria terra e che ne seppero preservare il ricordo ed il culto in secoli di schiavitù. Questi fattori hanno condizionato la percezione collettiva delle religioni afrocu­ bane, relegandole al campo del folklore e non favorendo la corretta comprensione dei loro valori e contenuti. Nonostante'i fondamentali e pioneristici lavori di Fernando Ortiz e di Lydia Cabrera, la santeria continua ad essere considerata, anche da alcuni studiosi, co­ me un insieme di pratiche magiche e non religiose, tendenti cioè al dominio del62 le forze naturali al fine di volgerle a vantaggio delle necessità pratiche ed imme­ diate dei fedeli. Molti lavori di ricercatori, anche contemporanei, possono indurre in questo er­ rore, dato che si limitano all’elenco delle entità spirituali venerate nella Regia de Ocha, dei loro tratti costitutivi, del culto loro tributato ed alla descrizione delle ce­ rimonie e degli altri aspetti immediatamente percepibili, senza soffermarsi né sul­ l’analisi del significato profondo che queste religioni rivestono per gli aderenti, né sulla loro capacità di rivestire di senso la quotidianità, rispetto alla quale non si pon­ gono affatto come una espressione della ‘tradizione’, cioè di un fenomeno fissato nel passato senza più incidenza nella vita attuale. Si perde in tal modo la comprensione di una “pratica culturale specifica, viva, interagente e in costante trasformazione, dentro l’universo culturale cubano” 678e si riconferma il pregiudizio negativo a causa del quale “la santeria, come altre espres­ sioni religiose di origine africana, fu relegata nella periferia della subalternità, ne­ gandole la condizione di cultura”.' Nella pratica quotidiana si è verificato un processo di semplificazione della sante­ ria, sia nella struttura gerarchica che nelle sue forme divinatorie.Gli addetti alla ese­ cuzione delle cerimonie, i santeros, hanno anche il compito di introdurre coloro che vogliono iniziare il cammino religioso alle pratiche rituali ed alla conoscenza della mi­ tologia riguardante gli orisha che reggono, con la loro volontà, le sorti dei praticanti. Le comunicazioni dei ‘santos’ sulla salute, gli affari, la vita sentimentale e fami­ liare dei fedeli, possono essere conosciute per mezzo della divinazione praticata, nelle sue forme principali, con: - il “tablero de Ifà”, il sistema più complesso, ereditato dalla cultura yoruba, il cui esperto, il babalawo, è l’unico a conoscere il segreto ultimo della Divinità Su­ prema; la divinazione prevede l’uso di particolari oggetti rituali dal significato sim­ bolico, tra i quali l’Ekuele, una catenella che unisce otto grani (formati da pezzi di cocco, semi secchi, ecc.), il cui modo di ricadere sull’ Até de Ifà, il legno rotondo simbolo del mondo, sarà interpretato dal babalawo tra le migliaia di combinazioni che prevede questo sistema, tanto complesso che in Africa l’addestramento di un babalawo (una persona necessariamente dotata di grande intelligenza e memoria) richiede ventuno anni di apprendimento s; - il dilloggun, una forma divinatoria nata a Cuba, che si realizza tramite il lancio e la successiva lettura della posizione delle conchiglie lanciate; - la lettura dei quattro pezzi di una noce di cocco, la cui ricaduta dalla parte scu­ ra piuttosto che da quella chiara, e tutte le svariate combinazioni che ne derivano, indica gli elementi in base ai quali il santero potrà dare il suo responso. La centralità della divinazione nel sistema santero è evidenziata dal fatto che l’oriaté, l’esperto nella lettura del diloggun, è colui che presiede alle cerimonie più im­ portanti ed è la guida in tutte le iniziazioni ai più alti livelli religiosi. E l’oriaté a dovere interpretare correttamente la volontà degli orisha, decidendo chi dovrà proseguire il cammino iniziatico. 6 Menendez L , La santeria que yo conozco, Anales del Caribe, n. 14-15/1995. 7 Menei>kJez L , op.cit. 8 Bolivar Aróstegui N., Ifà: su historia en Cuba, ed. Union, La Habana, 1996. 63 Tutto, nella santeria, deve corrispondere alla volontà degli orisha, contro la qua­ le non si può neppure celebrare il rito né permettere che alcuno si fregi dei segni distintivi della sua affiliazione ad un particolare santo. Solo dopo la sua manifesta­ zione di volontà, il fedele potrà improntare la sua vita al servizio del santo, che di­ verrà uno dei membri della casa-tempio frequentata dal suo devoto e vi riceverà il culto dovuto da parte di tutta la famiglia santera. Non vi è concordanza di giudizio circa il numero degli orisha del panteon santero, data anche la non conformità della loro identificazione con i santi cattolici nel­ le diverse regioni del paese e data anche la dimenticanza nella quale sono caduti al­ cuni orisha un tempo venerati ed ora praticamente inesistenti. Universalmente riconosciuti sono però i più importanti della tradizione yoruba9, tra i quali Eshu-Elegguà, che apre e chiude il cammino e, per estensione, tutte le ce­ rimonie. Ogni azione umana, al suo iniziare, è sottoposta al suo volere che occorre conoscere, evocandolo. Anche il culto reso agli altri orisha deve necessariamente comprendere un’offerta a Eshu-Elegguà, l’unico santo rappresentato in forma an­ tropomorfa da una pietra con occhi e bocca realizzati con conchiglie. Insieme a Oggun e Ochosi forma la trilogia dei santi guerrieri, i cui simboli so­ no posti dai credenti dietro la porta della casa, di cui sono i custodi. Rappresenta anche l’allegria e la capacità (aprendo il cammino) di superare gli ostacoli. Argeliers Leon, citato da Miguel Barnet in ‘Cultos Afrocubanos’, ha scritto che: “In Elebwa (come preferisce scrivere il suo nome) si è data l’immagine dove si ri­ solvono le contraddizioni economiche e sociali dell’umile uomo del popolo, a par­ tire dallo schiavo fino a coloro che, in momenti successivi della vita del paese, ade­ rirono a queste forme religiose. Elebwa è abbastanza potente per aprire un cammi­ no, cioè per superare gli ostacoli che la classe dominante di una società impone al­ le classi dominate. Inoltre, Elebwa protegge e libera i credenti dal peso di altre di­ vinità esigenti come Orula e Obbatalà. Elebwa rappresenta ... la liberazione delle aspirazioni della classe dominata”. Tra i più venerati a Cuba, Changó è un orisha molto forte, virile e violento. Sincretizzato con Santa Barbara, è il padrone del tuono e si caratterizza per la forma con la quale, durante la possessione, entra nel corpo dei suoi fedeli, sottoposti a movimenti e colpi violenti. Racconta il mito yoruba che fu Changó a portare il fuoco agli uomini e che da quel fuoco, uscito dalla sua bocca, nacquero i lampi. E figlio e marito rispettivamente di Yemayà e di Ochun, due tra le figure più im­ portanti della devozione cubana, sincretizzate con la Virgen de Regia, patrona del­ l’Avana e la Virgen de la Caridad del Cobre, patrona di Cuba. Yemayà rappresenta la maternità e gli aspetti più rassicuranti della femminilità. Regina del mare (secondo alcune credenze solo delle rive del mare, secondo altre anche delle acque profonde, nel qual caso si manifesta con il nome di Olokun), ha un carattere conciliante e premuroso verso i suoi ‘figli’, dei quali si prende cu­ ra come una madre. 9 Per la tipologia degli attributi degli orisha qui presentati, è stato fatto riferimento ai lavori di Barnet M., Cultos afrocubanos, op.cit. e di Bolivar Aróstegui N., Los Orishas en Cuba, ed. Union, La Habana, 1990. 64 Può essere però anche severa e intransigente, dato che è la divinità dell’intelli­ genza e della razionalità. E’ una degli orisha più amati e rispettati da tutti i creden­ ti ed intorno al quale sono nati un gran numero di miti e di leggende. Altra manifestazione della femminilità è Ochun, che ne rappresenta il lato seduttivo e frivolo. Molto sensuale, bella, amante della musica e del ballo, viene identificata con una orisha mulatta, padrona dell’allegria, dell’amore sessuale, delle acque dolci, dell’o­ ro e del miele. Di lei Fernando Ortiz scrisse che: “nelle sue danze chiede:’oni! oni!, ossia ‘mie­ le! miele!, l’afrodisiaco simbolo della dolcezza, del piacere, dell’essenza amorosa della vita”. Le sue danze sono spiccatamente erotiche, come si addicono ad una prostituta esperta (una delle sue rappresentazioni), che si prefigge di rubare gli uo­ mini alle altre donne. Il giallo, simbolo dell’oro e del miele, è il colore che la contraddistingue e che devono avere i doni che le vengono offerti. Severo e grave, Babalu Oyé è tra gli orisha più popolari. Sincretizzato con San Lazaro, raffigurato coperto di pustole e di stracci, appoggiato alle stampelle ed ac­ compagnato dai suoi cani, è il protettore dei malati, cui concede molti miracoli. Il mito racconta che, avendo contratto la lebbra nei suoi incontri amorosi, si è convertito in un predicatore dei costumi morigerati. Annuncia il suo arrivo con il suono di un campanello, affinché si possa sfuggire al contagio, e si veste di tela di sacco. La sua punizione colpisce con il contagio del vaiolo, della lebbra o con l’in­ sorgere della cancrena. Essendo il padrone dei cimiteri, per alcuni è anche lo spirito che riceve tute le anime dei morti. Suoi messaggeri sono le mosche e le zanzare, portatrici di infezio­ ni e malattie. Ogni anno all’Avana, in occasione della ricorrenza di San Lazaro, centinaia di fe­ deli si recano al suo santuario per compiere voti o per chiedere la grazia di una gua­ rigione. I suoi devoti percorrono a volte centinaia di metri in ginocchio o striscian­ do al suolo, aumentando le proprie sofferenze flagellandosi o attaccando pesi alle gambe, in un desiderio parossistico di espiazione. Direttamente collegato al mistero della morte è anche Oyà, guardiano dei cimi­ teri e padrone del vento e delle saette, la cui rappresentazione più serena è l’arco­ baleno, i cui sette colori simboleggiano questo spirito protettore dei morti e poco incline a manifestarsi attraverso la possessione, richiamata da canti solenni, invo­ canti la giustizia e la pace. Particolare importanza nella liturgia santera è attribuita a Obatalà, rappresenta­ zione della purezza, della giustizia, di ciò che spiritualmente è molto elevato. Rap­ presenta anche la nascita, l’inizio. In Nigeria esprime la dualità di inizio/fine e di terra/cielo con i nomi di Obbatalà (cielo) e Odua (centro, asse della terra). Odua è un nome che, con altre manifestazioni dello steso orisha, permane nella santeria cubana, dove uno dei suoi animali emblematici, la colomba bianca, è qui attribuita a Obbatalà, il cui colore, il bianco, deve contraddistinguere tutto ciò che gli appartiene e che gli viene offerto. Divinità dell’inizio di ogni cosa, è considerato il creatore del mondo ed equipa­ rato alla Vergine della Misericordia ed al Santissimo Sacramento. 65 Particolarmente austera e corretta deve essere la vita dei suoi devoti, ai quali non è permesso bestemmiare, litigare, bere alcolici e tenere atteggiamenti sconvenienti. Orula, o Ifa, si distingue dagli altri orisha ed occupa un ruolo preminente nel si­ stema santero per essere il possessore dei segreti della divinazione, il padrone del ‘tablero de Ifa, l’oracolo supremo per conoscere il futuro e poterlo modificare. Questa sua caratteristica lo fa considerare un benefattore degli uomini, che lo ri­ cambiano con una devozione esclusiva. Quando Orula ‘chiama’, occorre abbando­ nare il culto di qualunque altro orisha per dedicarsi interamente al suo servizio. I sacerdoti di Ifa non necessariamente sono anche santeros (benché abitualmen­ te lo siano) e possono diventare babalawo solo coloro che sono stati prescelti tra­ mite la divinazione. Benché le donne possano iniziarsi al culto di questo potente orisha, non posso­ no mai giungere ai livelli più alti di iniziazione né apprendere tutti i segreti che so­ lo pochi eletti conoscono. Molto rispettato, è tra gli orisha più venerati per la sua saggezza ed i suoi gran­ di poteri magici. I suoi fedeli non entrano mai in crisi di posessione, perché con questo orisha, che stabilisce solo relazioni di armonia con i propri sacerdoti, si può appena dialogare, senza entrare in una più stretta relazione fisica, come accade invece con gli altri. La mancanza di contatto diretto contraddistingue anche il rapporto con OlofiOloddumare-Olorun, le tre manifestazioni della divinità. La ricorrenza della trinità sia nella concezione religiosa yoruba che in quella cri­ stiana, ha indotto a parallelismi che non tutti gli studiosi della santeria condividono. Secondo Natalia Bolivar Aróstegui, “ ... gli yoruba ebbero la necessità concet­ tuale di un principio assoluto, superiore agli altri orisha, archetipi delle funzioni e delle attività del mondo. Questo Essere Supremo, concepito nei suoi diversi rap­ porti, fu proiettato in tre entità: il Creatore, che tratta direttamente con gli orisha e gli uomini, sotto forma di Olofi; la subordinazione alle leggi della natura, la stessa legge universale, individuata come Olordumare101e la forza vitale, l’energia univer­ sale, identificata con il sole e personificata da Olorun. Non si tratta altro che di un ulteriore esempio della difficoltà del pensiero primitivo di elaborare un concetto di un alto livello di astrazione e della sua tendenza spontanea al concreto ed al parti­ colare. La prodigiosa creazione religiosa degli yoruba non ha certamente bisogno che le si attribuiscano intenzioni che le sono estranee”.11 Tutta la potenza creatrice e l’energia che dà e mantiene la vita nell’universo è at­ tribuita ad una entità suprema, tanto astratta da risultare quasi inconcepibile, nella sua estrema lontananza e nella sua incommensurabile potenza, dalla mente umana. La cultura yoruba e la santeria, che ne eredita le concezioni religiose fondamen­ tali, suddivide gli attributi di un divino concepito come ‘tremendum’ per renderli più umanamente accessibili. 10 Nella trascrizione dei ricercatori, la grafia dei nomi degli orisha subisce variazioni corri­ spondenti a quelle riscontrate nella ricerca sul campo. In questo caso si è preferito, citando uno scritto, lasciare inalterata la grafia ‘O lordum are’, anziché sostituirla con quella già usata di ‘Oloddum are’. 11 Bolivar Aróstegui N., Los Orishas eri Cuba, op. cit. 66 “Olofi è la personificazione della Divinità, la causa e la ragione d’essere di tutte le cose. Nacque dal nulla autogenerandosi. Vive isolato e solo poche volte scende nel mondo. Non intrattiene rapporti diretti con nessuno, ma senza il suo interven­ to non si può ottenere nulla. Anche se tutte le cerimonie sono dirette ad un orisha specifico, occorre avere molto chiaro che, in ultima istanza, sono tutte dirette a Olofi e giungono a buon termine grazie alla sua volontà sovrana ... Olofi ha creato il mondo, i ‘santos’, gli animali e gli uomini. Fu lui a distribuire i poteri agli orisha. Perché tutte le cose fossero create ed è per questo che si dice che è il possessore dei segreti della creazione. Olofi ha fatto si che Orula facesse uscire dalla sua bocca i segreti della divina­ zione ed è per questo che poterono arrivare agli uomini. Può utilizzare ed utilizza tutti gli orisha come suoi messaggeri ... Olordumare è l’universo con tutti i suoi elementi. È la manifestazione materiale e spirituale di tutto ciò che esiste. E tanto grande che ci si consacra a lui, non gli si offre né gli si chiede nulla direttamente. Ci si rivolge a lui attraverso Olofi. Implica una comprensione tacita delle cose, la sottomissione alle leggi. Tutte le volte che udiamo il suo nome, pensiamo all’indecifrabile. Non ha una ricorrenza, devoti prescelti, miti, aneddoti, preghiere, colori, offer­ te o punizioni per gli uomini. E superiore a tutti gli orisha, non ha un Otà 1213e non si deve pronunciare il suo nome senza prima toccare la terra con la punta delle di­ ta e baciare l’impronta nella polvere, come si fa con Yewà 1}. È in ogni luogo, in tutte le nostre azioni, nella sapienza di Olofi, nella bontà di tutti gli orisha e in Echu 14, perché anche il Bene e il Male formano un tutt’uno con Olordumare ... Olorun è il sole, la materializzazione perennemente visibile della divinità. E la manifestazione più sensibile e materiale di Olofi e Olordumare, quella a cui si ri­ volgono i religiosi, quando pensano a loro. E la forza vitale dell’esistenza e, grazie al suo calore ed alla sua energia, fa cre­ scere i raccolti, fa esistere il giorno e la notte, muovere le acque e i venti. E segno di vita e di creazione vegetale, sostegno dell’esistenza sulla terra. Olorun è il padrone della luce, dei colori, dell’aria, del respiro e del soffio della vita. Lo è anche del vigore e dello sforzo”.15 Differenti tipi di cerimonie e di feste segnano la liturgia santera con caratteristi­ che più o meno marcatamente religiose o profane. Durante queste ultime è fatto di­ vieto di suonare i tamburi consacrati, i tre batà, le cui percussioni accompagnano i riti di iniziazione e le ricorrenze dell’affiliazione a un santo. L’importanza simbolica e cerimoniale di questi strumenti deriva dal segreto pos­ seduto dallo spirito che li abita e che nessun costruttore o suonatore di batà ha fi­ nora voluto rivelare. La loro eccezionalità è evidenziata dall’offerta di cibo che viene fatta loro e dal tabù che proibisce che vengano suonati da mani femminili. Un altro divieto rituale 12 L’otà è la pietra nella quale risiede la forza dell’orisha. 13 Yewà vive tra i morti, al cimitero, e porta i cadaveri a Oyà. 14 Con il nome di Echu (o Eshu) vengono indicate molte diverse manifestazioni di Elegguà. 15 Bolivar Aróstegui N., Los Orishas eri Cuba, op.cit. 67 riguarda il loro uso dopo il tramonto, quando vengono riposti in una apposita stan­ za e li lasciati fino all’occasione successiva, quando verranno comunque suonati al­ la luce del sole. Una possibile spiegazione sul significato di questo imperativo liturgico ipotizza un antico culto del sole, con cerimonie che prevedevano il suono dei tamburi sacri. Questo suono, insieme ai canti dei fedeli, apre ed accompagna quasi tutte le ce­ rimonie ed è l’invocazione che si eleva all’orisha affinché voglia manifestarsi ai suoi fedeli ‘montando il suo cavallo’. Il fenomeno della possessione, comune a tutti i riti afrocubani, è un momento re­ ligioso fondamentale, il momento in cui si realizza l’unione dell’uomo con la realtà trascendente. Attraverso la possessione, il fedele diviene il mezzo, lo strumento di cui l’orisha fa uso per comunciare i suoi messaggi. Essenziale è che appaia chiaro, senza possibilità di equivoci, l’identità dell’orisha che si sta manifestando, ragione per cui il corpo del posseduto si atteggerà secon­ do schemi che identificano con sicurezza lo spirito che è entrato in lui. Tutto ciò che il fedele posseduto farà o dirà, non sarà mai volontario né cosciente e, al ritor­ no dello stato di coscienza, non serberà memoria di quanto accaduto. Tra le molte spiegazioni (o tentativi di spiegazione) date a questo fenomeno, Mi­ guel Barnet propende per quella data da René Clouzout, secondo il quale durante la possessione si produce una forma di riflesso condizionato originato dalle ceri­ monie di iniziazione. Se è indubitabile che gli stimoli esterni (i canti, il battere estenuante dei tambu­ ri, l’eccitazione collettiva che aumenta con l’attesa della manifestazione degli spiri­ ti) giocano un ruolo fondamentale affinché si verifichi la possessione, è altrettanto vera e provata l’influenza sociale sul singolo. Lo dimostrerebbero, secondo Clou­ zout, i rari casi di possessione di persone estranee a questo ambito religioso, dato che in questo caso i posseduti attuerebbero in modo “grottesco, imitativo e con una teatralità assolutamente prefabbricata. Il contatto preventivo è imprescindibile per qualunque tipo di manifestazione di possessione. Chi viene posseduto da un santo e riesce ad interpretare i suoi gesti, le sue caratteristiche fedelmente, acquista im­ mediatamente una posizione di potere all’interno del nucleo sociale dove si prati­ cano questi culti. Questo potere è religioso ma anche di gerarchia sociale e di rap­ presentatività. La possessione è caratterizzata anche da una volontà di rappresentare un arche­ tipo. Questo archetipo è profondamente legato all’identità della persona che deli­ beratamente desidera assumere i tratti e gli attributi della divinità. Credo, inoltre, che la possessione riveli in molti casi una decisione di essere qualcosa di diverso, di assumere una condotta che avvicini il posseduto con la sua cultura natale”. Questa tensione profondamente radicata nell’anima del credente santero spiega la permanenza e la vitalità di questa religione, come di altri culti afrocubani. Nel periodo precedente al 1991, quando il quarto congresso del partito comu­ nista cubano offrì ai credenti la possibilità di un inserimento attivo nella vita poli­ tica e sociale del paese, la forza di resistenza della santeria consistette nella sua ca­ pacità di offrire gli strumenti concettuali e psicologici per vivere con il maggiore equilibrio possibile in un ambiente culturalmente ostile, ripercorrendo il tal modo la secolare tradizione dei tempi della colonia, che non riconosceva la sua religiosità né la sua specifica identità culturale. 68 La creazione, nel 1961, dell’Istituto di Etnologia e del Folklore e del gruppo di danza Conjunto Folklorico, se da un lato testimonia l’interesse per le componenti tradizionali della cultura afrocubana, dall’altro compie un’operazione di desacra­ lizzazione di questa cultura, separando gli elementi formali esteriori della ritualità dal loro senso profondo e dal loro ambito naturale di espressione, svuotandoli e re­ legandoli al ruolo di testimonianze di un passato irrazionale, i cui bisogni spiritua­ li e le cui aspirazioni di conoscenza della realtà del mondo sarebbero stati soddi­ sfatti dal sapere scientifico. Il credente santero si trovò interiormente conteso e diviso tra due mondi, dato che quello ufficiale gli proponeva, con la forza del condizionamento sociale e del rischio della marginalizzazione, una mentalità atea e scientifica, politicamente osti­ le alla religiosità che continuava ad esprimere nella riservatezza del proprio am­ biente familiare e religioso. “In realtà l’ostilità favorì il rafforzarsi della pratica santera ... (che) estese il suo rag­ gio d’azione, dato che è noto che fino al 1959 la pratica della santeria era una que­ stione nazionale; a partire da questa data e in un processo graduale di consolidamen­ to della Regia de Ocha-Ifà si contano comunità significative a Miami, nel New Jersey, a Puerto Rico, in Venezuela e ci sono iniziati in quasi tutti i paesi del mondo”.1617 Il continuo adattamento della santeria alle mutevoli situazioni concrete, effetto di una flessibilità che non ha fissato la propria conoscenza in dogmi immutabili, è dovuta alla accettazione di un sapere profano, accolto ed integrato nel proprio cor­ po tradizionale, che ne ha permesso l’attualizzazione. Nella santeria è infatti possi­ bile l’individuazione di elementi appartenenti ad altri corpi culturali, siano essi re­ ligiosi o aspetti della cultura materiale quotidiana. E proprio questa capacità di incorporare nuovi elementi alla propria visione del mondo e del suo rapporto con il trascendente (eredità della caratteristica cul­ turale africana di non sacrificare nessuno dei due elementi del binomio tradizio­ ne-innovazione, che regola la progressiva evoluzione sociale) che ha finora per­ messo la sopravvivenza della santeria in una società che ha conosciuto, in meno di un secolo, cambiamenti profondi che ne hanno sovvertito gli originali codici culturali. Le S o cietà S egrete Abakuà Intorno alle società segrete maschili Abakuà 11 sono cresciuti timori e pregiu­ dizi alimentati dal mistero che ha sempre avvolto le loro attività, i loro riti e le lo­ ro credenze. Pregiudizi negativi che, anche tra la popolazione nera, hanno fatto coincidere nell’opinione corrente il termine Abakuà, o nanigo, come vengono denominati abi­ tualmente i suoi membri, con quello di malavitoso, guappo. 16 Menendez L., op. cit. 17 Queste società sono strutturate in gruppi indipendenti, per cui “si è scelto di denom inare que­ sta espressione religiosa al plurale ‘società segrete’, sotto uno stessodenominatore che le qualifi­ ca ‘abakuà’ e non al singolare come è uso corrente” , v. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., Los llamados cultos sincreticos y el espiritismo, ed. Academia, La Habana, 1991. 69 Fernando Ortiz, in ‘Los negros brujos’, risente di questo diffuso pregiudizio so­ ciale, che tende ad attribuire al naniguismo, come particolare espressione sociocul­ turale, e in generale a tutta la cultura negra, la colpa di molti mali che affliggevano la società cubana nei primi anni del secolo:”... la stregoneria e il naniguismo, che tanta parte hanno avuto nella malavita di Cuba”. Le regole delle società Abakuà, che tra altri imperativi impongono il mutuo aiuto, ed in particolare quelle relative all’obbligo di non violarne la segretezza e che hanno sviluppato un forte senso di appartenenza, hanno sicuramente favorito un atteggia­ mento di connivenza tra i suoi membri, anche a scapito del rispetto delle leggi ed han­ no conseguentemente favorito la presenza di individui appartenenti a vario titolo alla criminalità o, più semplicemente, di elementi turbolenti ed insofferenti di una autorità che si esercitava in modo particolarmente vessatorio contro la popolazione nera. La risposta delle autorità coloniali e repubblicane a questa forma di aggregazio­ ne fu sempre improntata a criteri di intransigenza e durezza: la sola affiliazione ad un gruppo Abakuà costituiva un elemento sufficiente per vedersi commutare pe­ santi condanne e la deportazione all’Isla de Pinos, come testimoniano i verbali di polizia dell’epoca. La particolare persecuzione contro i membri di queste società segrete fu aggra­ vata anche dal fatto che la lotta anticoloniale, alla quale fu associata la lotta anti­ schiavista, vide la partecipazione di numerosi nanigos. In epoca repubblicana, le difficili condizioni economiche dei ceti popolari favo­ rirono l’accesso ai gruppi di mutuo sostegno anche di elementi bianchi, mulatti e della nuova immigrazione orientale. A Cuba si hanno notizie del primo gruppo di Abakuà, a quell’epoca integrato esclusivamente da neri schiavi o liberi, solo nel 1836. Inizialmente formato da per­ sone appartenenti allo stesso gruppo etnico carabalì e provenienti da una sola re­ gione africana, nacque con finalità di reciproca protezione e soccorso. • Le origini di queste associazioni sono però molto più antiche e risalgono alle so­ cietà segrete africane di alcune sottotribù carabalì, depositarie di ‘misteri’ religiosi che, con la loro struttura diffusa sul territorio, svolsero un importante ruolo socia­ le di arricchimento e potenziamento di alcune famiglie, attraverso la cattura e la vendita di schiavi ai commercianti europei. Le rivalità tribali, cui il commercio negriero conferiva un nuovo contenuto, si trasposero sul suolo americano, dove giunsero anche gli antichi dominatori, a loro volta ridotti in schiavitù. Le prime associazioni, formate su base etnica, mantenne­ ro questa divisione fino a quando le rivalità tribali si stemperarono e vennero di­ menticate, con il passare delle generazioni, a favore del raggiungimento di scopi comuni contro l’oppressione della società schiavista. L’esempio più eloquente di questo processo di fusione interetnica, allargata a mulatti e bianchi sulla base delle mutate esigenze sociali, è dato dalla nascita, verso la metà del XIX secolo, del gruppo fondato da Andrés Facundo Cristo de los Do­ lores, conosciuto come Petit, che diede vita ad una nuova forma di sincretismo re­ ligioso, apportando elementi cattolici al corpo delle credenze degli Abakuà. Per le loro caratteristiche di forte sostegno reciproco, le società segrete Abakuà si radicarono fra il proletariato urbano, nelle aree industriali e portuali delle province dell’Avana, Matanzas e Càrdenas, dove l’appartenenza a queste società arrivò a costi­ tuire una garanzia di lavoro, grazie alla grande influenza esercitata dai suoi membri. 70 “E’ questo aspetto del naniguismo quello che contribuì maggiormente al suo ra­ dicamento, nonostante i cambiamenti sociali e le persecuzioni ufficiali: una accetta­ zione utilitaria, conveniente per i proprietari e gli amministratori di impresa fin dai tempi coloniali del XIX secolo. In centri di lavoro come questi [aree portuali, gran­ di fabbriche di tabacco, ecc. - n.d.r.] la pratica dimostrò la convenienza di contrat­ tare gruppi di operai con un capo o un responsabile di fiducia per il padronato, e la organizzazione naniga servì a questi scopi con gruppi di affiliati diretti dall’uno o dall’altro dei suoi capi: si favorì il guadagno con patti tra obones e imprese”.18 Enrique Sosa Rodriguez così sintetizza l’organizzazione e il senso di queste so­ cietà: “Abakuà, società segreta, esclusiva per uomini, autofinanziata mediante quo­ te e collette raccolte fra i suoi membri, con una complessa organizzazione gerar­ chica di dignitari (plazas) e assistenti, la presenza di esseri ultraterreni, un rituale oscuro il cui segreto - gelosamente custodito - si materializza in un tamburo chia­ mato ekwé, cerimonie di iniziazione, rinnovamento, purificazione e morte, benefi­ ci temporali e perenni, leggi, castighi interni di obbligatoria esecuzione ed accetta­ zione, un linguaggio ermetico, esoterico e un linguaggio grafico, corredato da fir­ me, sigilli e segni sacri, costituisce, fino ai nostri giorni, un fenomeno culturale sen­ za paragone a Cuba e in America, di grande importanza per la conoscenza della no­ stra tradizione e delle nostre istituzioni culturali, del nostro folclore”.19 Molti studiosi non concordano neU’attribuire alle società Abakuà un carattere religioso, considerandone principalmente le caratteristiche di reciproco soccorso ed aiuto, ma questo carattere è presente e si esprime nella credenza in un nucleo mitologico intorno ad un essere soprannaturale, con il quale gli Abakuà entrano in contatto per mezzo di cerimonie svolte nel luogo sacro che ogni gruppo possiede. L’essenza del loro sistema religioso si basa sulla leggenda del “pesce Tanze”, uno spirito la cui voce si materializza nel suono del tamburo sacro. La pratica religiosa prevede il contatto e la convocazione di altri spiriti (diablitos) e forme di culto verso gli antenati, sempre invocati all’inizio di ogni cerimonia. Caratteristica della concezione religiosa degli Abakuà, che ne marca la differenza con gli altri culti afrocubani, è la mancanza di un atteggiamento utilitaristico, di richiesta per l’ottenimento di benefici per i credenti da parte degli spiriti evocati e che, secondo que­ sto credo, ‘abitano’ qualunque essere, animato o inanimato, presente nella natura. Il potere dell’officiante consiste nella potestà di spostarli a suo piacimento in qualunque altra entità, anche immateriale. Come accade in altri sistemi religiosi di origine africana, anche gli Abakuà uti­ lizzano segni grafici, direttamente corrispondenti a singoli spiriti e che posseggono proprietà magiche di protezione. Nel panorama dei gruppi religiosi cubani, tutti improntati alla massima autono­ mia, le società segrete Abakuà presentano il livello più alto di organizzazione, aven­ do formato a Matanzas e a Cardenas delle strutture di coordinamento tra i gruppi presenti all’interno dello stesso comune. 18 Sosa Rodriguez E., La leyenda naniga en Cuba. Su valor documentai, in Anales del Cari­ be,n. 14-15/1995. 19 Sosa Rodriguez E., Los Nanigos, citato in Neira Betancourt L.A., Como suena un tambor abakuà, ed. Pueblo y Educación, La Habana, 1991. 71 Diversi sono gli appellativi con i quali vengono denominate le varie società: ‘ter­ ra’, ‘potenza’, ‘gioco’. “Il termine ‘terra’ riflette l’origine socioeconomica di gruppi simili in Nigeria, anteriori a quelli creati a Cuba. Si ricordi che l’attività agricola de­ gli africani del Calabar era fondamentale, per cui la terra acquistò carattere di sim­ bolo religioso nella cultura di questi popoli ... per la forza interna, magica e di tutto ciò che riguarda un Abakuà ... la ‘potenza’ è l’insieme degli oggetti sacri e di uomi­ ni che hanno dato prova di essere credenti valorosi e virili. Solo chi è ‘potente’, ‘ma­ schio’ può accedere ai suoi segreti... gruppi di ballerini e suonatori vennero chiamati ‘juego’ ... e per analogia i gruppi nanigos, che il giorno dell’Epifania e in altre occa­ sioni uscivano con il diablito alla loro testa, ballando alla loro maniera ...”.20 Data la sua doppia identità, la gerarchia interna alle società Abakuà è duplice, dovendo presiedere sia alle esigenze pratico-amministrative del mutuo soccorso che a quelle religiose, cui fanno fronte diverse figure, ognuna con un ruolo specifico ed un posto ben determinato nella scala gerarchica. Questa doppia funzione, comportando l’esistenza di un corpo normativo basato sulla necessità di celare gelosamente i segreti della società e di garantire ad ogni as­ sociato l’effettivo sostegno di tutti gli altri membri, ha determinato un forte senso di appartenenza al gruppo, rafforzando i legami tra gli aderenti e differenziando le società segrete Abakuà da tutte le altre associazioni religiose cubane. Rafael Enriquez, offset, 1977, 45x63 cm. 20Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., op. cit. 72 Mariella Moresco Fornasier Il Palo Monte e lo spiritismo nell’Oriente cubano Il Palo Monte Maggiormente radicato nelle zone orientali del paese, il Palo Monte o Regia Conga, si basa sulla credenza della forza spirituale che permea ed emana da ogni elemento della natura, compresi quelli che altre culture considerano inanimati. Questa manifestazione magico-religiosa è espressione di una cultura cui appar­ tenevano alcuni gruppi etnici, i ngangà, vivi, fula, carabalì, olugo, iznama e congo, tutti genericamente denominati “congo” nelle colonie americane e provenienti da quell’area di cultura bantù che fu per secoli una riserva di schiavi per l’Africa ara­ ba e per l’Europa, prima ancora che si aprissero le rotte verso il Nuovo Mondo. Del contatto con il mondo arabo islamizzato restano tracce nell’attuale saluto ri­ tuale usato dagli iniziati: ‘nsala maleko, maleko nsala’.1 Santiago de Cuba, attualmente la principale città dell’Oriente, fu la prima capi­ tale dell’isola e, fino al XVIII secolo, il centro principale dei commerci oltreocea­ no. La coltivazione del tabacco e, successivamente, della canna da zucchero, ne­ cessitarono di una grande massa di lavoro schiavo, utilizzata anche in tutti i lavori inerenti al funzionamento delle infrastrutture produttive e commerciali. La grande maggioranza della popolazione nera era di provenienza bantù, i cui caratteri culturali furono mantenuti e rafforzati dai cabildos de nación, congrega­ zioni di neri schiavi e liberi, che si riunivano sulla base dell’appartenenza tribale per celebrare feste e svolgere cerimonie religiose. Un ulteriore fattore, che determinò la diffusione maggioritaria del Palo Monte in tutta la regione orientale, fu la possibilità di svolgere le cerimonie ovunque, senza la necessità di un luogo specificamente preposto alle funzioni sacre, permettendo così ai sacerdoti, i Tata Nganga, di celebrare i culti e di andare incontro alle esi­ genze spirituali non solo dei propri fedeli, favorendo indirettamente un’opera di di­ vulgazione del Palo Monte e di graduale assimilazione di altri culti.12 1 Fuentes J., Gomez G., Cultos afrocubanos, un estudio etnolinguistico, ed. de Ciencias Sociales, La Habana, 1996. 2 Meneses R., La Regia de PalaMonte o Conga, in Del Caribe, n. 24/94. Santiago de Cuba 73 La preminenza della Regia Conga sugli altri culti religiosi rimase quasi assoluta in tutta la zona orientale, dove contribuì alla nascita di altre espressioni religiose, come le varianti cubane dello spiritismo, fino al nostro secolo quando, a seguito di nuove situazioni economiche e politiche, si produsse uno scambio religioso tra l’Occidente e l’Oriente cubani. Secondo Miguel Barnet, la Regia Conga “E’ la concezione più globale che esista. Riflette la presenza del palo del monte come elemento magico di scongiuro. E’ una definizione che può inglobare altre tendenze delle sette congo di Cuba e che di fat­ to assorbe quasi tutti i riti di stregoneria delle altre”.3 Il Palo Monte che, come altre forme religiose d’origine africana non possiede una struttura concettuale e liturgica canonizzata ma che, al contrario, presenta una spiccata permeabilità verso forme rituali inizialmente estranee, ma che hanno fini­ to per essere inglobate da alcune delle sue varianti, ha presentato notevoli difficoltà interpretative per i ricercatori non credenti, dati anche i meccanismi di difesa del­ la propria intimità religiosa posti in atto dai credenti, celando ai non credenti, in particolare ai bianchi, i significati occulti dei riti e delle credenze, la cui narrazione si trasmette agli adepti in chiave esoterica. Una sintesi del pensiero religioso bantù, così come attraverso mutazioni e sin­ cretismi si esprime attualmente nella Regia Conga, è avanzata da Walterio Carbonell: “ ... il mondo è retto da una sostanza o spirito universale. Lo spirito universa­ le ha la facoltà di materializzarsi, cioè di prendere forma animale, vegetale, minera­ le o anche umana. Le cose assumono la loro forma a seconda dell’ispirazione di Nsambi... Gli animali sono dotati di una carica elettrica, così come gli uom ini... “.4 Il Palo Monte si basa sul culto rivolto a Nsambi, supremo creatore di tutto ciò che esiste ma lontano, indifferente alle sorti della sua creazione, che è la continua manifestazione della sua potenza e della sua volontà. “Nsambi è la creazione stessa; ciò che è stato creato e ciò che sta per creare, il pri­ ma, l’adesso e il poi di tutte le cose; ciò che si nomina e Linnominabile; Nsambi è in tutte le cose, poiché ogni cosa è parte del tutto ed ogni cosa è una manifestazione di Nsambi. Sopra di tutto questo non esiste nulla e neppure sotto, poiché tutte le cose sono la manifestazione stessa della creazione. Nsambi sopra! Nsambi sotto! Nsam­ bi ai quattro venti! come si invoca all’inizio di ogni cerimonia del Palo. Il tutto è in se stesso e per se stesso, in tutta la sua grandezza, potenza e sapien­ za ... poiché è la manifestazione della coscienza universale. Nsambi non ha rappre­ sentazione iconografica né fisica. E’, in una astrazione che solamente il suono della parola può percepire, il principio e la fine di tutto ciò che esiste. Nsambi non si adora né esiste un rito speciale per lui; egli è sempre presente, in qualunque rito, con una piccola parte di se stesso, dato che il tutto può manifestarsi nel tutto. L’u­ nico modo di stabilire un contatto con Nsambi è attraverso il suo culto, poiché l’i­ dentità con il suo spirito sarà possibile solo nella dimensione di creazione che alcu­ ni eletti siano capaci di riordinare in questo mondo incessante di vita, del quale Nsambi si è dimenticato”. 5 3 Barnet M., Cultos Afrocubanos, ed. Union, La Habana, 1995. 4 Carbonell W., ‘Mayombe’ en Cuba, La Habana, 1967 citato in Barnet M., op. cit. 5 Meneses R., op. cit. 74 Il compito dell’uomo, atto conclusivo della creazione, è di provvedere alla con­ tinuità del mondo. L’iniziato si addentrerà nei misteri religiosi gradualmente, attra­ verso i sogni ed altre manifestazioni della realtà invisibile, fino a quando sarà in gra­ do di scoprire le relazioni esistenti tra tutte le cose, relazioni sulle quali potrà in­ tervenire per modificarne il corso. Solo al suo inizio il percorso iniziatico potrà usufruire dell’insegnamento dei principi religiosi fondamentali. Lo svelamento del proprio percorso spirituale av­ verrà mediante una continua pratica individuale di interpretazione dei segni rivela­ tori e delle manifestazioni che permetteranno la comprensione dell’essenza ultima dell’esistente. Ogni sacerdote è maestro di se stesso. Nulla è fissato e rigidamente regolamen­ tato neppure nella liturgia, basata in gran parte sull’esperienza dell’officiante. L’intervento del sacerdote sulla realtà creata può avvenire solo tramite “un cen­ tro di forza, una dimensione del creato, una concentrazione di elementi che hanno il potere di riordinare il corso apparente della vita”.6 Questo centro di forza, unico elemento indispensabile affinché ogni cerimonia ab­ bia svolgimento ed il sacerdote possa operare a favore dei propri fedeli, è la nganga che, materialmente, consiste in un recipiente contenente il maggior numero possibi­ le di elementi naturali che esprimono l’energia vitale del creato. Il significato concet­ tuale della nganga è quello di essere un tramite che permette al sacerdote la com­ prensione dell’ordine stabilito da Nsambi e gli dà la possibilità di interagire con esso. Ogni sacerdote possiede la propria nganga, la cui formazione deve procedere da una nganga ‘madre’, della quale manterrà alcuni elementi, costituendo così un tra­ mite ininterrotto nel tempo con le nganga del proprio gruppo rituale. Alla forza di ogni singola nganga e del suo ‘padrone’ concorrono diversi fattori, qua­ li il tipo e la qualità degli elementi contenuti, la cui ricerca può durare anche vari mesi. A completamento della raccolta, che non viene mai considerata definitiva, giac­ ché possono sempre essere aggiunti ulteriori elementi che ne aumenteranno il po­ tere, si cercherà un resto umano (un teschio, meglio se accompagnato da un osso dello stesso corpo), dato che i morti costituiscono l’elemento unificante tra i due piani della realtà e tra la nganga e il sacerdote, la guida necessaria affinché le forze degli elementi si dirigano nella direzione voluta. La comunicazione tra il Tata ed il morto della nganga avviene per mezzo della divinazione, effettuata con diverse modalità: - l’intepretazione della disposizione, dopo il lancio, dei chamalongas, sette pezzi di noce di cocco, che daranno risposte affermative o negative alle domande poste dal sacerdote, che prevedono anche la richiesta di potere mutare positivamente si­ tuazioni negative o di risolvere difficoltà e problemi che affliggono il questuante; - la npaka, che utilizza un involto al cui interno vi sono parti degli elementi contenuti nella nganga: la divinazione consiste nella lettura dei disegni tracciati dal fumo di una candela su un piatto bianco, passando sopra lo specchio che chiude l’involucro. Nel linguaggio corrente le nganga vengono definite judias o cristianas, a secon­ da che, contenendo o meno acqua benedetta, siano utilizzate per provocare effetti a favore del fedele o a danno di altre persone. 6 Meneses R., op. cit. 75 La differenza fondamentale esistente fra la cultura occidentale e quella bantù sul concetto di Bene e di Male deve essere tenuta ben presente per evitare interpreta­ zioni e giudizi fuorvianti. Per la cultura bantù non esiste il concetto assoluto di Bene e di Male, come en­ tità separate ed antagoniste. Al contrario, sono concepiti come parte indissolubile di un’unica realtà, che li comprende entrambi. Ciò che è bene in una situazione o per una particolare persona, può essere male per altri. Solo il Tata Nganga, con la sua esperienza e capacità, può utilizzare i poteri del­ la nganga, che non è né buona né cattiva ma semplicemente ‘è’, per fini che risulti­ no positivi per la convivenza sociale.' Il sacerdote, massima espressione di tutte le cose create, è ritenuto responsabile del suo operato di fronte a Nsambi; ma non tutti gli studiosi concordano sulla respon­ sabilità del palerò rispetto a quanto il suo operato può causare, ritenendolo un mero manipolatore delle forze magiche, prive di qualsiasi valenza morale, la cui responsa­ bilità va invece fatta ricadere sul questuante che sollecita l’intervento del Tata. Il suono dei tamburi, di diverso tipo e differenti finalità rituali, ed il canto, più semplice melodicamente e più ritmico di quello yoruba, sono elementi comuni a tutte le varianti del Palo Monte, così come le danze collettive, durante le quali si può verificare il fenomeno della possessione da parte dello spirito del morto o di semidivinità meno definite degli orisha della Regia de Ocha78. In una di queste danze rituali, denominata garabato o palo, si utilizza un basto­ ne di legno, battuto ritmicamente sul suolo per sprigionare l’energia della terra. E’ evidente come in questa coreografia persiste il ricordo dei ‘palenques cimarrones’, dei villaggi di schiavi fuggiti dalle piantagioni, nei quali i colpi avvisavano dell’arri­ vo dei rancheadores, i cacciatori di schiavi.9 Altro elemento indispensabile per la celebrazione del rito è la ‘firma’, l’esecu­ zione di un disegno ‘magico’, ricco di contenuti simbolici ed allusivo ad ognuno de­ gli spiriti che conformano il mondo ultraterreno congo. La firma possiede una pro­ pria forza dinamica ed ogni sacerdote si identifica con uno di questi disegni che hanno il potere di evocare gli spiriti. Nel corso delle generazioni, il culto del Palo Monte è stato oggetto di cambia­ menti e si è arricchito di apporti inizialmente estranei al suo nucleo originario di credenze e di rituali, di musiche e di danze. Attualmente si contano tre varianti principali: la mayombe, la briyumba e la kimbisa, nata nel secolo scorso per opera di quello stesso Petit che apportò nuovi ele­ menti anche al corpo concettuale abakuà. Altre varianti si sono sviluppate intorno a singoli praticanti, spesso giovani sen­ za solide basi, contando su uno scarso radicamento sociale e provocando un feno­ meno di frammentazione che non intacca però la solidità dei rami più autorevoli del Palo Monte, le cui differenze reciproche si basano sulla modalità di rapportarsi con il ‘morto’, lo spirito della nganga. Su quest’ultimo aspetto, però, poco è dato sape­ re, perché presenta “sigilli che la ricerca non può spezzare”. 7 Meneses R., op. cit. 8 Barnet M., op. cit. 9 Barnet M., op. cit. 76 Narra il mito bantù che Nsambi creò il mondo e l’uomo, però poi si allontanò da questi, essendosi stancato del suo inesauribile desiderio di conoscere. “ Nsambi, quando lo stimerà conveniente ed opportuno, permetterà di infran­ gere questi sigilli; non tutto è dato conoscere e la conoscenza ha un prezzo che non tutti sanno pagare: il giusto prezzo della conoscenza che è esclusivo patrimonio del­ l’uomo e a beneficio dell’uomo; bisogna ricordarsi che è per questo che Nsambi si dimenticò del creato. Il che significa che non tutto è detto, né ciò che è detto può essere conside­ rato come immutabile in questo mondo nel quale si muove incessantemente la vita “.101 Le varianti cu b an e dello spiritism o Diffuso in tutto il paese, lo spiritismo presenta molteplici varianti, alcune delle quali autentiche espressioni della religiosità cubana, sviluppatesi e radicate nelle province orientali e successivamente praticate, in misura minore, anche in altre par­ ti dell’isola. Non vi è concordanza di pareri sui tempi e le modalità di introduzione dello spi­ ritismo a Cuba, ma è accertato che ciò avvenne a partire dalla seconda metà del se­ colo scorso, quando lo spiritismo scientifico era già conosciuto e praticato negli Sta­ ti Uniti ed in Europa. Nel 1888, al Primo Congresso Internazionale degli Spiritisti celebrato a Barcel­ lona, assistettero tre cubani. 11 A partire da quel momento è possibile seguire con più esattezza lo sviluppo ed il diversificarsi delle pratiche spiritiche a Cuba dove, secondo l’espressione usata dalla Sociedad Antropològica, si assistette ad una ‘epi­ demia espiritual’.12 La particolare situazione della politica interna ed estera aveva già favorito nei de­ cenni precedenti l’adesione degli indipendentisti cubani a questa forma di pensie­ ro che non accettava di essere definita ‘religiosa’. Nel corso della Guerra dei Dieci Anni (1868-1878) contro lo stato spagnolo, i progressisti indipendentisti rifiutarono di considerarsi parte della chiesa cattolica, alleata con la Spagna. Non era in discussione solo la posizione politica degli ade­ renti al cattolicesimo, anche l’adesione ad altre religioni praticate sull’isola poteva dare adito a fraintendimenti sulle opinioni politiche, equivalendo indirettamente ad una ammissione di vicinanza ideologica. Se per i creoli contrari al pensiero ed alle istituzioni coloniali schiaviste aderire al cattolicesimo equivaleva dichiararsi favorevoli al dominio spagnolo, l’accettazionè del protestantesimo significava porsi al lato dei fautori dell’annessione di Cuba agli Stati Uniti, mentre l’essere seguaci delle religioni a base africana comportava, nel giudizio corrente dell’epoca, esprimersi a favore del permanere della schiavitù, situazione della quale erano considerate conseguenza ed espressione. 10. Meneses R., op. cit. 11. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., Los llamados cultos sincreticos y el espiritismo, ed. Academia, La Habana, 1991. 12. Arguelles Mederos A., Hodge Limonta I., op. cit. 77 Agli occhi di persone desiderose di aprire l’isola alla modernità, liberandola dal giogo coloniale e dalla vergogna del sistema schiavista, solo lo spiritismo poteva ap­ parire come l’unica espressione spirituale capace di apportare elementi di progres­ so e di libertà. Il cattolicesimo cubano, fortemente inquinato da elementi di superstizione e dal­ la tendenza all’esteriorità più ridondante, al barocchismo non solo formale a scapi­ to di una pratica di culto più attenta ai suoi valori fondanti, facilitò l’attecchimen­ to e la rapida espansione della nuova corrente di pensiero, che ne occupò ben pre­ sto parte dello spazio religioso. L’assenza di un clero istituzionalizzato e di un complesso apparato liturgico, ol­ tre che la possibilità per chiunque di comunicare direttamente, o per il tramite di medium, con i propri morti, costituirono ulteriori facilitazioni alla rapida espansio­ ne dello spiritismo sia nelle città che nelle campagne, nelle quali assunse aspetti ri­ tuali ed inglobò forme di pensiero che lo allontanarono dalle sue concezioni origi­ narie. Mentre nelle città veniva praticato da persone con un livello culturale che per­ metteva loro di leggere e di seguire la guida della letteratura straniera, conforman­ dosi ai concetti ed alle pratiche dello spiritismo scientifico, chiamato a Cuba anche ‘espiritismo de mesa’ 13, nelle campagne la mancanza di una corretta conoscenza dei principi e della liturgia spiritici e la radicata abitudine all’utilizzo rituale di elemen­ ti materiali, secondo le modalità delle religioni di origine africana, fecero sorgere al­ tre forme di spiritismo, inglobanti credenze e pratiche già appartenenti alla religio­ sità popolare. Lo spiritismo ‘de mesa’ è attualmente praticato in tutto il paese ed i suoi aderenti non lo considerano una religione, mantenendosi fedeli alle concezioni del fondato­ re, Allan Kardec. Secondo questo pensiero, che accetta l’esistenza di un Essere Supremo, creato­ re del mondo, esistono anche altri esseri immortali, gli ‘spiriti’, la forma ultima cui è destinato l’uomo dopo la morte. La felicità o l’infelicità degli spiriti dipenderà dalla loro condotta durante la vita terrena. La pratica spiritica consiste in una riunione, cui partecipano persone particolar­ mente capaci di entrare in contatto con gli spiriti, che vengono evocati per riceve­ re suggerimenti atti a risolvere i problemi dei partecipanti. Il medium può cadere in trance nel corso della cerimonia, durante la quale ven­ gono lette preghiere e, talvolta, eseguiti canti ma mai danze. Nel corso della sua espansione dalle città alle zone rurali, lo spiritismo ha subi­ to un processo di sincretizzazione con le espressioni culturali già presenti sul terri­ torio, ed attualmente si manifesta in molteplici forme, particolarmente radicate nel­ le regioni orientali, tra le più diffuse delle quali sono da annoverarsi lo spiritismo ‘de cordón’, lo spiritismo ‘cruzado’ ed il ‘bembé de sao’.14 Particolarmente coreografico per i suoi canti, i movimenti delle braccia durante le danze ed il ritmico battere dei piedi, lo spiritismo de cordón prende il nome dal- 13 Spiritismo ‘da tavolo’, perché la cerimonia si svolge tra un gruppo di persone radunate intor­ no ad un tavolo. 14 Millet J., El Espiritismo. Variantes cubanas, ed. Oriente, Santiago de Cuba, 1996. 78 la catena formata dai partecipanti con il medium ed è il risultato sincretico deriva­ to dal cattolicesimo popolare con elementi delle religioni afrocubane. E’ considerato una forma di spiritismo tipicamente cubana (“Ho avanzato l’opi­ nione in più di una occasione che lo spiritismo di cordón nasce precisamente a Cuba e non in altro luogo ... “) 15 da Joel James che, elencando gli elementi che avvalorano questa sua opinione, cita anche la situazione di tragica insicurezza che colpì l’isola du­ rante la Guerra dei Dieci Anni, quando le stragi dell’esercito spagnolo gettarono nel terrore la popolazione che cercò di sfuggire a questa situazione angosciosa, trovando sollievo psicologico nelle sedute spiritiche, dove “i bianchi si davano la mano sotto la guida dei loro antichi servi congo, per invocare gli spiriti vicini e lontani e conoscere, tramite loro, la sorte dei loro familiari o amici che erano al fronte o rifugiati sulle mon­ tagne, o la sorte che a loro stessi poteva essere riservata a breve”. 16 In questa variante dello spiritismo è assolutamente evidente la centralità del morto, dato che la divinità viene considerata, secondo la concezione religiosa afri­ cana, distante e disinteressata delle sorti dell’uomo. Le afflizioni e le necessità quotidiane non possono essere accolte e, se possibile, risolte se non dagli spiriti, dai morti con i quali si instaura una relazione di vicen­ devole aiuto. Se gli uomini hanno bisogno degli spiriti, anche gli spiriti hanno bisogno degli uomini. Il culto è un atto efficace sia per i vivi che per i morti, tra i quali si instaura una relazione di comunione, l’unica capace di impedire che le anime dei defunti, prive della comunicazione con il mondo dei vivi, patiscano l’orrore del vuoto, del nulla. La morte, infatti, libera l’uomo dai vincoli terreni e lo muta in uno spirito libe­ ro, che raggiunge la piena autocoscienza e si scioglie dai lacci imposti dalla società. Contropartita di quanto acquisito è una immensa solitudine, dalla quale solo i vivi possono salvare i defunti, cui è negata la possibilità di una qualsiasi comunicazione con la divinità e con gli altri spiriti. I morti non evocati nelle cerimonie spiritiche e con i quali non si instaura un dia­ logo costante sono quindi destinati ad uno stato tremendo di vuoto relazionale, do­ loroso e tragico. Scopo ultimo dello spiritismo di cordón è riunire le due parti dell’unico mondo, i non più viventi e gli ancora viventi, in una situazione di tranquillità spirituale che i vivi raggiungono con l’abitudine a ‘frequentare’ la morte, superandone quindi il timore angoscioso, ed ottenuta per i morti scongiurando il pericolo di un vagare senza fine nell’assoluta solitudine, perché “la solitudine senza fine può assomiglia­ re al nulla. E il nulla è molto peggiore della morte”.17 Lo spiritismo cruzado, anch’esso originario della provincia di Santiago, dove è molto diffuso, deriva dall’incontro con le credenze e le pratiche religiose di origine africana, in particolare quelle della Regia Conga. Sono frequenti in questa variante le offerte di frutta e di dolci e la presenza di oggetti derivati dalla liturgia palerà, così come i sacrifici cruenti di animali. 15 James J., Sobre muertos y dioses, ed. Caserón, 1989, citato in Millet J., op. cit. 16 James J., op. cit. 17 James J., La vida y la muerte eri el espiritismo de cordón, in Del Caribe n. 20/93. 79 Il sincretismo di questa variante è doppio: si assiste all’utilizzo di elementi ap­ partenenti ad una religione secondo modalità proprie di un’altra e vi è la possibi­ lità, in situazioni di particolare complessità e difficoltà di soluzione, che l’officiante indirizzi la persona verso culti di maggiore ‘forza’: la santeria, il Palo Monte o il vudù, praticato in alcune zone dell’Oriente come variante del vudù haitiano. Un’espressione anteriore allo spiritismo cruzado è il bembé de sao, sorto dap­ prima nelle campagne e successivamente praticato anche nelle città. Citando la definizione di José Millet, esso “costituì una manifestazione di cimarronaje 18 culturale, in questo caso religioso, nel quale rimanevano nascoste forti com­ ponenti africane che non erano accettate apertamente dalla cultura ufficiale”. 19 Nella liturgia del bembé trovano uno spazio considerevole gli elementi più ca­ ratteristici dei culti afrocubani: la musica dei tamburi, i canti e le danze, che ne fan­ no un momento di forte socializzazione ed un esempio della natura stessa della cul­ tura cubana, della sua grande capacità di integrare elementi tra loro diversissimi. Ne sono un esempio illuminante i canti di apertura, contenenti invocazioni in creolo haitiano e parole in lingua yoruba e conga. Espressione particolare del bembé è la devozione a Santa Barbara e a San Lazaro, santi la cui venerazione in tutta Cuba costituisce un fenomeno di omogeneizza­ zione culturale religiosa di grande rilevanza a livello nazionale per la sua capacità di sincretizzare ed esprimere tutte le più sentite manifestazioni della ‘cubanìa’. “San Lazaro nella sua variante afrocubana ... sarebbe sia la rappresentazione in­ dividuale del cubano per (la capacità di) sopportare, quanto la rappresentazione della capacità collettiva della società cubana a resistere”. 20 Il carattere spiritista che informa le celebrazioni della festa di San Lazaro a San­ tiago de Cuba è sottolineato da Rómulo Lachataneré, che rileva come: "... il ritua­ le è mescolato con pratiche spiritiche, dato che si fanno implorazioni e si elevano canti con l’idea di elevarlo maggiormente e di dare luce al suo spirito”. 21 Se a Santiago il culto a San Lazaro è praticato secondo valenze spiritiche, in tut­ ta Cuba si onora questo santo con una venerazione che ne fa uno dei simboli reli­ giosi con i quali il popolo cubano si identifica maggiormente. La forza di attrazione del bembé de sao nei confronti dei credenti delle altre re­ ligioni cubane è tale che José Millet giunge a pensare che: “Il futuro delle celebra­ zioni del bembé de sao e di San Lazaro e Santa Barbara è quello di convertirsi nel­ l’unica espressione della religiosità cubana. Non credo che con ciò scompariranno la santeria, i culti congo, né il vudù, però diventeranno elementi di ritenzione di una fase della cultura cubana. Non spariranno, ma entreranno in una fase di recessio­ ne. Senza dubbio il bembé de sao e le celebrazioni di questi due santi - soprattutto la festa di San Lazaro - sono il punto verso il quale confluiscono le religioni tradi- 18 II cimarrón era lo schiavo fuggitivo, che si rifugiava sui monti per evitare la cattura. Nel con­ testo specifico di questo testo, ‘cimarronaje’ può essere tradotto come ‘resistenza’, ‘difesa della propria identità’. 19 Millet J., op. cit. 20 Millet J., op. cit. 21 Millet J., op. cit. Per gli spiritisti i santi cattolici sono spiriti di ‘molta luce’, caratteristica que­ sta che, in misura maggiore, è compartita dalla divinità. 80 zionali cubane e questo movimento - non c’è alcun dubbio - si concluderà con que­ ste celebrazioni integrando al suo interno gli altri sistemi di pensiero del popolo cu­ bano. Si può affermare con correttezza che queste sono espressioni dello spiritismo cruzado - lo spiritismo che preferiamo definire integrato - al cui interno si inseri­ scono tutte le rimanenti espressioni religiose, senza contraddizioni, senza conflitti, come in un sistema, come un nuovo sistema religioso”. 22 Allora gli uomini si unirono alla luce sviscerarono segreti conosciuti e il mondo ebbe un nome. (versi tratti da ‘Sagrados Testimonios’ di Ronel Gonzales, pubblicata in Del Caribe, n. 24/94). Giano n. 26 pace ambiente problemi globali Mine antipersona: l'utopia può vincere Nicoletta Dentico, Gordon Poole Aree di crisi D Bendou Soupou, Congo in transizione Anna Bozzo, Violenza e politica in Algeria 1917-1997 Rivoluzione, “ socialismo reale” normalizzazione incontro con Viktor P. Danilov di Andrea Panaccione d ir e tto r e L u ig i C o r te s i Il fa sc ic o lo £ 20.000. Abbonam ento 1997 £ 54.000, (sost. £ 250.000). Richiedere con vaglia postale a "Giano", v. Fregene 10, 00183 Roma. 22 Millet J., op. cit. 81 Rafael Enriquez, offset, 1980, 43x73 cm. GUATEMALA 82 Rosamaria Susanna Barbàra / Quando gli dei danzano La danza e la musica nel candomblé di Bahia melos: greco per “arto”, da cui “melodia”. “C’era un tempo nel quale gli uomini vivevano in armonia con gli dei. L’unico divieto che questi ultimi avevano imposto ai mortali era quello di non sporcare l’Orum.1 Oxalà, il padre di tutti gli dei, amava la pulizia e il bianco. Ma un giorno un uomo macchiò inavvertitamente l’orum. Oxalà lo seppe e, arrabbiatosi, ruppe il palo sacro che univa i due mondi, quello delle divinità e quello dei mortali, sepa­ randoli definitivamente. Dopo un po’ di tempo però gli uomini cominciarono a sentire nostalgia delle bellissime danze delle divinità e gli dei desideravano gusta­ re nuovamente i cibi che i mortali preparavano per loro. Ecco allora che Oxalà de­ cise di fare incontrare periodicamente gli orixà e i loro fedeli in grandi feste.” Questo si racconta a Bahia*12: gli uomini hanno nostalgia degli dei e gli dei degli uomini. E perciò gli afro-americani tramandano la memoria di quel tempo felice quando non esistevano differenze. A Bahia, chiamata dal sociologo francese Bastide, la “Roma Nera” a causa del grandissimo numero di schiavi deportati nell’ultimo periodo della tratta3, nacque il candomblé, la religione afro-americana che più si è mantenuta fedele alla matri­ ce africana4 e che è una ri-creazione dell’antica religione e del modo di vita africa­ no. Ri-creazione perchè, pur mantenendo gli elementi fondamentali, si è struttura­ ta in maniera diversa. In Africa ogni città-stato venera una sola divinità, in Brasile 'R osam aria Susanna Barbàra è dottoranda in Sociologia presso la USP (Università dello Sta­ to di Sào Paulo in Brasile) e Cultore delle materie per le Discipline Dem oetnoantropologiche pres­ so la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Genova. Vive ormai da quattro an­ ni a Salvador di Bahia, dove ha com piuto un Master in sociologia presso l’Università Federale e dove compie le sue ricerche. 1 Orum: è il mondo degli spiriti, riflesso del mondo dei mortali, chiam ato aie 2 La città è Salvador di Bahia de Todos os Santos, ma gli abitanti la chiam ano affettuosam en­ te solo Bahia. 3 Ancora oggi l’80% della popolazione discende dagli africani. 4 In questa zona del Brasile furono deportate principalmente etnie iorubà che provenivano dal­ le città-stato della Nigeria e del Benin. La culla in Africa di queste civiltà fu Ifé. 83 ogni comunità religiosa è devota a tutto il pantheon divino, ricostituendo così una piccola Africa. In queste culture il contatto con il sacro è la base dell’esistenza umana, infatti non è avvenuto come nelle società occidentali un allontanamento dalla sfera reli­ giosa (vissuta solo in momenti specifici e determinati) a causa del processo di razio­ nalizzazione della società. Per i fedeli del candomblé, a Bahia, il quotidiano con­ vive tranquillamente con il mondo religioso in un continuo richiamo. E non si creda che di questa religione facciano parte solo gli strati più poveri del­ la popolazione, ancora attaccati a superstizioni ataviche, gran parte dell’élite intel­ lettuale, George Amado, Carybè, Gilberto Gii, Sonia Braga, e politica bahiana e brasiliana partecipa ai culti e fa parte della gerarchia religiosa. Molti sono i casi di ‘strani’ disturbi, avvertiti anche dai bianchi, che vengono curati nel terreirob Le dolci e sagge sacerdotesse con sapienza profondissima e grande conoscenza delle piante curano da millenni vari tipi di malattie psicosomatiche e di nevrosi e non è raro vedere aggiungersi ai fedeli-danzanti, europei stressati e stanchi dell’incon­ cludenza e della superficialità della nostra tecnologica cultura o per lo meno veder­ li sorridere al suono travolgente degli atabaques, quando eseguono l’igexà567. Aspetti religiosi Dopo la fine della schiavitù', le donne discendenti degli iorubà fondarono i più antichi e conosciuti terreiros, come Casa Branca da cui derivarono poi il Gantois e l’Ilé Axé Opò Afonjà nel 1910 e il candomblé di Alaketo8. Le Màes-de-santo, in iorubà Ialorixà,9 sono le leader incontrastate di queste co­ munità religiose, basate su un forte senso gerarchico. L’ordine sacerdotale è diviso fondamentalmente in due parti, coloro che possono ricevere la divinità e quindi en­ trare in trance e coloro che non possono, ma che partecipano ai culti e sono mem­ bri effettivi della comunità. Il candomblé, religione fortemente ecologica, si fonda sul culto degli orixà, energie della natura: acqua, terra, aria, fuoco e piante. La divinità creatrice del cosmo e dell’universo è Olorum o Olodumaré, un Deus Otiosus, che vive lonta­ no dai problemi dei mortali. Il collegamento fra la terra, aiyé, e il mondo sopran­ naturale, orum, avviene durante le cerimonie religiose, grazie al lavoro instanca- 5 La parola “terreiro” indica il luogo fisico dove si svolgono i culti. 6 Gli atabaques sono i tamburi sacri, mentre l’igexà è il ritmo tipico di Oxum, la divinità del­ l’acqua dolce. 7 Leggendo le cronache dell’epoca si può intuire che gli schiavi si organizzarono già da prima della fine della schiavitù per poter continuare a onorare le proprie divinità e trasm ettere le proprie tradizioni. In realtà le feste di cui parlano i cronisti, spesso alludendo al fracasso dei tamburi, altro non erano che le musiche religiose che chiamavano le divinità. 8 È interessante notare che le fondatrici del primo candomblé, lyanaso e lyaluso, furono due donne e che nel terreiro più antico, Casa Branca situato nell’Avenida Vasco da Gama, l’iniziazio­ ne è permessa solo alle donne. 9 La parola “Mae-de-santo” significa Mamma-del-santo, la stessa cosa significa la parola io­ rubà “Ialorixà”; sono le leader religiose delle comunità del candom blé che sono com unità basate sulla solidarietà e l’auto aiuto. 84 bile di una divinità messaggera, Exu, che, simile ad un Mercurio africano, apre la porta di comunicazione tra questi due mondi paralleli, specchio l’uno dell’altro. Infatti lo scopo delle religioni africane e quindi afro-americane è di mantenere il contatto fra il mondo degli dei e quello dei mortali che spesso per vari motivi vie­ ne eliminato provocando problemi di varia natura: malattie, perdita di lavoro, problemi psichici, etc. Il pantheon delle divinità è molto numeroso, ma in Brasile se ne venerano solo una ventina, poiché di molte se ne è persa la memoria. Le divinità possiedono personalità che corrispondono a tipologie psicologiche differenti e ben precise. Fra le divinità femminili troviamo: Nana (di etnia Gege101) vicina ai misteri della morte, che rappresenta l’acqua stagnante; Iemanjà, la gran­ de madre, consolatrice di tutti i mortali, che simbolizza il mare e gli oceani; Oxum, vanitosa, furba, maga potente e conoscitrice del futuro è l’acqua dolce; Oià-Iansa, forte guerriera, è il vento che tutto avvolge e tutto si lascia alle spalle. Fra le divi­ nità maschili: Oxalà, ponderato e tranquillo, il padre di tutti gli dei, elemento aria; Ogum, nervoso e caparbio, l’intelligente dio del ferro e abile fabbro; Oxossi, at­ tento cacciatore, è il re della foresta e degli animali; Xangò è il vanitoso e magico re del fuoco; Ossanha è l’equilibrato signore delle foglie e il grande conoscitore di tutte le piante; Omolu, solitario e triste è 1’ orixà delle malattie e della guarigione, infatti, secondo la leggenda nacque coperto di piaghe di vaiolo che Iemanjà gli curò e Exù, il ‘trickster’11, incontrollabile e abile, che rappresenta l’energia vitale in movimento e che deve essere sempre venerato prima di intraprendere qualsiasi nuova iniziativa. Durante le cerimonie religiose le sacerdotesse12, chiamate ‘filhas-de-santo’, figlie di santo ‘ricevono’ le divinità che ‘scendono’ in mezzo ai fedeli per portare 1’ axé13 e per consolare i loro fedeli. I problemi quotidiani, la malattia producono infatti una perdita di axé e una successiva carenza di energia spirituale. Eliade sottolinea­ va che ogni minaccia alla salute e alla vita di un individuo che appartiene ad una cultura tradizionale è affrontata con una: “ripetizione dell’atto cosmogonico e non consiste tanto in una ripetizione dei processi vitali, ma in una vera e propria ricrea­ zione degli stessi processi mediante la ripetizione rituale di queU’awenimento pri­ mordiale, archetipico, che in ilio tempore ha generato la stessa vita. Esiste un tem­ po mitico e primordiale in cui tutto è già successo, un tempo puro che si identifica con il tempo della creazione” (1969:33). ? Infatti il rito oltre a mettere in contatto gli uomini con gli orixà funge da ricreato­ re dell’ordine a livello di microcosmo (il fedele) e di macrocosmo (le energie della na­ tura). Ogni cerimonia religiosa riporta i fedeli all’origine del mondo, al caos primor­ diale, lo organizza e ridistribuisce le energie della natura nei luoghi a loro propri. 10 L’etnia Gege proviene dal Benin, antico Dahomey. 11 II trickster è il dio briccone, è la divinità a cui è permesso tiranneggiare tutti dagli uomini agli dei, è la forza istintiva della natura, è energia pura in movimento. 12 Quando parlerò della gerarchia religiosa userò preferibilmente il genere femminile perchè presso i terreiros dove ho condotto la ricerca di campo la maggioranza dei fedeli rodantes, che possono entrare in trance sono donne. 13 L’axé è P energia magico-vitale presente in tutti gli esseri viventi e non che deve essere ridistribuita fra i fedeli durante il rito 85 Ogni individuo è filho di una divinità dalla quale ha ricevuto una serie di carat­ teristiche psicologiche, caratteriali e fisiche che lo rendono immediatamente rico­ noscibile agli esperti occhi delle sacerdotesse. Ma non tutti possono diventare filhas-de-santo o filhos-de-santo, solo gli individui scelti direttamente dalle divinità, attraverso vari segnali: sogni, malattie specifiche, fatti inspiegabili, sono chiamati per essere iniziati ai segreti e alla magia del candomblé. Le sacerdotesse imparano a entrare in contatto con il sacro e a decodificarne i messaggi con un lungo e profon­ do cammino iniziatico, paragonabile al percorso di qualsiasi altra religione mistica che preveda la ricerca spirituale in momenti, spesso lunghi, di solitudine completa. L’iniziazione avviene con una lunga serie di cerimonie segrete che a tappe insegna­ no all’inizianda ad entrare in contatto con se stessa e quindi con la divinità che è fuori di lei e di cui lei fa parte. Con varie tecniche corporee le iniziate apprendono a sintonizzarsi con l’energia della natura a cui appartengono, come dicono a Bahia, a riceverne i messaggi e a fortificarsi spiritualmente nell’abbandono alla divinità. “Conosci te stessa e abbi fiducia” è il motto che le ‘sagge’ signore del candomblé suggeriscono alle loro filhas. Il candomblé si fonda sul rispetto e sulla conoscenza della natura da cui trae una vasta farmacopea naturale e sulla profonda intuizione dello psichismo e dell’animo umano che, per avvicinarsi ed entrare in contatto con il sacro, deve armonizzarsi in tutte le sue componenti. Il corpo è il mezzo e il simbolo di questo ricongiungimento con il divino, ecco perché fulcro delle bellissime cerimonie pubbliche è il corpo nella sua espressione artistica per eccellenza: la danza ed il canto. Alla musica è affidato il ruolo di aprire il canale energetico che lega i due mondi, l’aiyé, il mondo degli uomi­ ni e forum, il mondo dello spirito, e di evocarlo nelle bellissime percussioni. Non è infatti con discorsi razionali che si arriva ad un contatto con la divinità, ma attraverso emozioni e messaggi non verbali. Spesso le religioni afro-americane sono state mal interpretate e il fenomeno del­ la trance valutato come espressione di un malessere congenito di alcune personalità o addirittura di popolazioni intere o ancora l’espressione di strane e spaventose for­ ze occulte. Dietro a queste spiegazioni, dovute alla grande difficoltà di compren­ sione di fenomeni estranei all’occidente o soprattutto mal conosciuti (come il ta­ rantismo in Puglia), si cela una conoscenza e un simbolismo ricchissimo e in gran parte inesplorato. Arte e religione Le civiltà africane infatti sono caratterizzate da una visione distica e simbolica della vita. Ogni essere vivente e non è collegato ad un altro in una catena infinita di significati in cui ogni singolo elemento esiste in funzione dell’altro, partecipando così alla dinamica del cosmo, in un’eterna ricerca di armonia ed equilibrio. Ogni co­ sa, ogni oggetto rimanda simbolicamente ad altro, ad un ‘altro’ che bisogna impa­ rare a conoscere e a rispettare, perché essenza di vita. E’ solo l’arte che ha il potere di rendere con le forme lo spirito, il divino. Come suggerisce Marchiano:“La forma...., è l’unico mezzo “umano” che consenta il tra­ scendimento del livello sensibile, la non identificazione con ciò che muta, la con­ versione dell’ ‘estetico’ nel teoretico”. (1977:217) In ambito tradizionale, il concetto di bello occidentale non esiste, ma, come rip86 porta Luz (1955:565), i Nago14 definiscono il bello con la parola “odara”, che si­ gnifica buono, utile e bello. Esteticamente un individuo è bello perché è portatore di una determinata qualità e quantità di axé ed anche perché la sua composizione (forma, materia e colore) simbolizza aspetti della rappresentazione della visione del mondo caratteristica della tradizione, realizzando così una comunicazione fra lui e la comunità. Per questo il movimento e il suono sono axé, sono il fondamento vita­ le di ogni essere e il mezzo con cui entrare in contatto con il divino. Per suono non si intende solo tutto ciò che è percepibile attraverso l’orecchio, ma l’onda vibratoria che, secondo la fisica quantica, si propaga attraverso tutti i cor­ pi: gassosi, liquidi, etc. Onda vibratoria che si manifesta in tutti gli esseri e le cose e che si esprime in tutta la sua bellezza nelle danze sacre, dove si materializza nel corpo delle sacerdotesse e nella musica degli atabaques. Questa onda vibratoria è il ritmo che, come sottolinea Senghor: “è l’architettu­ ra dell’essere, la dinamica interna che lo costruisce....I ritmi si esprimono attraver­ so i mezzi materiali: attraverso linee, colori, superfici e forme nella pittura, nella plastica e nell’architettura... Attraverso gli accenti nella poesia e nella musica, at­ traverso i movimenti nella danza. Con questi mezzi il ritmo conduce qualsiasi co­ sa nel piano spirituale; poiché si incarna sensibilmente, il ritmo illumina lo spiri­ to" (Senghor,1956:60). Per questi motivi gli studiosi dell’arte e delle civilizzazioni africane, come Asan­ te (1985:72) e Thompson (1974:30) riconoscono nel movimento l’aspetto più im­ portante e profondo dell’estetica delle culture africane e quindi afro-americane dal­ la danza, alla musica, a tutte le arti. La dinamica è uno dei concetti fondamentali dell’ontologia africana per la quale esiste la possibilità del cambiamento e della tra­ sformazione nella vita attraverso l’unione e lo scambio con il mondo spirituale. Altro concetto base della filosofia dell’esistenza africana è l’importanza del grup­ po, affinché la comunità viva ogni individuo deve partecipare seguendo il ruolo che gli è stato affidato a livello spirituale e a livello terreno. La storica Asante (1985) spiega i criteri estetici delle arti africane applicabili al­ la danza e alla musica. Primo fra tutti la poliritmia: ogni parte del corpo si muove con un ritmo diverso, i piedi seguono la base musicale, mentre le spalle e le brac­ cia seguono le variazioni; il corpo è diviso in più parti che si armonizzano in un’u­ nica sinfonia... Un’altra caratteristica fondamentale è il policentrismo che indica l’esistenza nel corpo e nella musica di più centri energetici, così come avviene nell’universo. Altro aspetto è la forma curvilinea che si incontra in varie danze e che rimanda a un chiaro significato esoterico. Le danze sacre infatti hanno spesso un andamen­ to circolare, anti-orario che si ripropone anche nella posizione del corpo delle orixà femminili dove è visibile la forma rotonda che rimanda, come dicono varie leggen­ de, al cerchio, simbolo antichissimo del tempo e dello spazio del mito e della fissità e stabilità della Grande Madre. La dimensionalità ci racconta che la danza trasmette a tutti i sensi, e non solo a quello visivo, così come la musica non colpisce solo quello uditivo. Il movimento deve esprimere, vivendolo, il sentimento, l’emozione dell’energia della divinità che 14 Con la parola Nagò si definiscono tutte le etnie iorubà. 87 sta danzando attraverso tutti i sensi. Infine la coreografia e la frase musicale ripe­ tuta all’infinito dà all’azione un carattere atemporale e di originalità e sottolinea la continuità della vita. La ripetizione non è qualcosa di meccanico, ma ‘crea’ ogni volta, Oià-Iansà non ripete il movimento della guerra freddamente, ma con senti­ mento, con presenza, ogni volta è una nuova guerra, è qualcosa che prima non esi­ steva e che nel futuro non esisterà. Per semplificare è lo stesso messaggio del man­ dala. I sacerdoti disegnano meravigliose figure che il vento porterà via, è il momen­ to che bisogna vivere seguendo il proprio ritmo-respiro interiore. Il corpo divino Il corpo è considerato divino perchè non esiste la dicotomia corpo-spirito che dopo Cartesio ha influenzato tutto il pensiero occidentale, ma nelle civiltà tradizio­ nali corpo e spirito comunicano e esistono uno nell’altro. Ogni parte del corpo corrisponde a una divinità, la parte frontale del corpo si relaziona al futuro; mentre la parte posteriore al passato. La testa è fondamentale perchè sede dell’ori15, dove risiede l’odù, il destino personale. Secondo gli iorubà la testa è la parte più vitale del corpo umano: contiene il cervello, sede della saggezza e della ragione, gli occhi, che sono la luce dei passi dell’uomo, il naso che serve al­ la ventilazione dell’anima, le orecchie con le quali l’uomo ascolta e reagisce ai suo­ ni e la bocca con la quale si nutre e mantiene il corpo e l’anima uniti. (Babatunde Lawal, 1983:41) È considerata tanto importante che prima di qualsiasi omaggio all’orixà è necessario alimentare la testa. Ori buruku, kossi orixà, ossia testa non equilibrata non dà orixà. Signora della testa è Iemanjà che armonizza le energie positive e negative, per questo in una delle sue coreografie danza portando alternativamente le ma­ ni davanti e dietro la testa. Iemanjà ha il compito di orientare i suoi filhos. Il ventre sede degli organi sessuali è protetto da Oxum, mentre l’utero è consa­ crato a Iemanjà, così come il seno, fonte di nutrimento e di vita. Ogum, o do­ no dos caminos16, è il signore dei piedi, del movimento, della vita che continua. Il piede destro è in relazione con l’ancestrale maschile e il piede sinistro con l’ancestrale femminile, per questo motivo i piedi sono la base dell’uomo. La vo­ ce dell’orixà è il ke o ila, un grido che è emesso solo durante la danza di tran­ ce dalla posseduta. Questo grido è il simbolo dell’individualità, è l’energia di quella persona, è il suono creatore e individuale che testimonia l’identità di quella filha o filho. Gli occhi sono importanti perché parlano della spiritualità del fedele. Durante la ricerca, ho percepito lo sguardo differente delle Màe-de-santo in varie occasioni: nella divinazione lo sguardo sembra sospeso, mentre, durante la trance, gli occhi so­ no chiusi indicando che l’attenzione è rivolta all’interno del corpo, a un’altra di- 15 L’ori è una divinità, che come dice Prandi: “è estremamente importante nella vita di ognu­ no, al punto di essere, fra tutti gli dei, il primo a cui deve essere offerto il sacrificio. Perchè sola­ mente l’ori può accompagnare l’essere umano nel suo andare senza mai abbandonarlo: l’uomo e la donna non esistono senza la loro individualità”. (1991). 16 II signore dei cammini. 88 mensione, allo spirito. Gli orefizi del corpo sono protetti da Exu, guardiano di tut­ te le porte che incarna il principio ‘dinamico dell’esistenza’, trasmette o annulla la forza vitale sia sul piano metafisico che materiale. Exu accompagna i fedeli duran­ te tutta la vita, ristabilendo i contatti fra i mortali e il mondo degli dei, ogni filhas o filhos ha il suo o i suoi Exu particolari. La colonna vertebrale,1' che unisce la testa con le gambe, simbolicamente colle­ ga il pensiero, l’individualità, l’ori, con i piedi, il movimento e l’azione. Le Màe-de-santo, guardando la forma del corpo e la fluidità del movimento, in­ tuiscono immediatamente il dono da cabe^a e i problemi spirituali degli individui. Il corpo rappresenta un centro di forze opposte che devono essere in equilibrio e in relazione complementare. Allo stesso modo la persona può essere pensata come il risultato dell’equilibrio delle diverse parti del corpo, simbolo della coerenza stabi­ lita fra il mondo naturale e quello sovrannaturale. Ma il corpo acquista significato anche nell’interazione con lo spazio e il tempo. Spazio attraversato dalle energie della natura che creano campi energetici che pon­ gono ogni elemento in relazione con l’altro, secondo il principio base dell’esistenza africana che propone una visione del mondo legata alla comunicazione di tutti gli esseri animati e non. Il tempo è il tempo danzato reversibile del mito, nel quale il fedele in trance può danzare il proprio tempo, quello della sua origine. Nel candomblé il tempo e lo spazio acquistano una valenza completamente dif­ ferente da quella occidentale. Il tempo-pensiero smette di fluire poiché ogni azio­ ne, ogni canto, ogni danza deve essere vissuta nel tempo in cui sta avvenendo, ri­ chiama il fedele alla ‘presenza’. Il tempo è un tempo circolare che inizia e finisce nello stesso punto, ciclicamente e ritmicamente. Il tempo diventa così la materializ­ zazione del movimento, come dice Duplan (1987)1718: “per organizzare il tempo, dobbiamo agire, percuotendo un tamburo con la mano o sul pavimento con i pie­ di. Creando il tempo, creiamo il movimento”. Vivendo il tempo e danzandolo con il corpo le filhas-de-santo entrano in con­ tatto con il divino e lo vivono esprimendolo nella danza La danza e la m u sica nel rito Essendo il candomblé di tradizione orale, la visione del mondo è trasmessa at­ traverso il corpo, con un lungo percorso di apprendimento e di incorporazione dei fundamentos19 religiosi che propongono il corpo come strumento di memoria per la comunità e di saggezza per il fedele. “La danza racconta l’evocazione di episodi della storia degli dei, sono frammenti di mito e il mito deve essere rappresentato allo stesso tempo che raccontato per ac­ quistare tutto il potere evocatore”. (Bastide, 1961:22) 17 Non è un caso che nella colonna vertebrale siano collocati alcuni dei chacra indiani e non a caso l’orixà , che può entrare da varie parti del corpo, si impossessa della materia com e se en­ trasse attraverso la colonna vertebrale, come ho osservato in vari rituali . 18 Intervista al settimanale Arteterapia (1987). 19 Per fundamento si intende la forma e gli elementi con i quali sono eseguiti i rituali che fan­ no parte dei segreti, “awo”, della religione. 89 Per questo la danza sacra e la musica associate al mito hanno la funzione di una let­ teratura nelle società di tradizione orale e possiedono una pluralità di significati, la sto­ ria dell’etnia, la visione di mondo e l’ethos del gruppo, l’organizzazione della società e le credenze religiose, e varie funzioni come quella di fortificare il gruppo e la cono­ scenza della comunità su se stessa oltre ad esprimere l’identità spirituale del ballerino. Questa pluralità di significati è espressa attraverso il simbolo principale della danza: il corpo della sacerdotessa-ballerina, un microcosmo, dove si incontrano tut­ te le energie della natura in un equilibrio unico e particolare di ogni individuo spec­ chio delle energie del macrocosmo. La danza sacra contempla due aspetti: un lato esteriore e un lato interiore. Il primo è trasmesso con i movimenti, i vestiti liturgici e gli oggetti sacri, il secondo è la trasformazione in qualcos’altro, diverso dall’identità quotidiana, è il doppio spi­ rituale, che si trova nell’orum. I movimenti della danza trasmettono una profonda simbologia appresa duran­ te gli anni trascorsi nel terreiro e costituiscono un codice simbolico compreso so­ lo dagli iniziati. II secondo aspetto esteriore sono gli abiti liturgici, i materiali con i quali sono fatti ci raccontano quali sono le fonti di sussistenza (per esempio un vestito di con­ chiglie mostra che la comunità vive di pesca) e indica chi è la persona che abbiamo di fronte e qual’è la sua posizione nella gerarchia sociale (per esempio attraverso la posizione di alcune parti del vestito si intuisce se sono iniziate o no e da quanto tem­ po lo sono; se sono filhas o filhos di una divinità femminile o no, etc.) Il terzo aspetto, quello degli oggetti simbolici, trasmette la storia degli orixà e dei loro legami mitologici con le altre divinità e della loro funzione come energie nel cosmo, per esempio gli oggetti di Iemanjà, che possiede sia una spada che l’abebé, un tipo di ventaglio-specchio, indicano sia il lato guerriero della dea sia il suo lega­ me con il mondo femminile esplicitato dalla forma rotonda dell’ abebé e dal colore argenteo che ricorda la luna, elemento del femminile per eccellenza. L’aspetto interiore della danza è la metamorfosi che avviene dentro la sacerdo­ tessa durante la trance. Questo fenomeno, di cui molto si è scritto, fonde in un’u­ nica sintesi mente e corpo; forma e contenuto si uniscono in un’unica totalità dif­ ficilmente comprensibile in occidente, dove l’uomo è visto dicotomicamente. La trance è una esperienza difficilmente esprimibile con parole, poiché è un fenomeno interno, delicato e comprensibile solo attraverso immagini, simboli e sogni, e per questo raramente le sacerdotesse e i sacerdoti ne parlano. Durante la ricerca di campo è risultato evidente che gli atabaques, i tamburi sa­ cri sono i custodi della tradizione orale. Già Chernoff sottolineava che: “i musicisti sono frequentemente i guardiani della conoscenza esoterica... come i griots del Su­ dan occidentale che sono una casta ereditaria di musicisti, il cui dovere politico è quello di preservare e recitare la grande tradizione storica”. (Chernoff, 1980:71) I sacerdoti-musicisti sono chiamati alabé e passano attraverso un rito di ini­ ziazione, ma non vanno in trance. Devono conoscere tutto il repertorio musicale sa­ cro: sono loro i detentori della memoria storica della comunità, per questo i ritmi sono tramandati usualmente di padre in figlio. Sono gli alabé che chiamano la comunità e le divinità per partecipare alla festa, che preparano l’atmosfera culturale che permetterà la caduta in trance, acceleran­ do la musica, che suonano il ritmo, e che pongono fine alla cerimonia. 90 Gli alabé devono comunicare fra loro per eseguire in armonia e equilibrio il brano e per concluderlo all’unisono. La sacerdotessa-ballerina danza in sincroni­ cità perfetta con la musica che è la voce della divinità, mentre il suo corpo è la for­ ma dell’energia degli dei. La musica conduce l’energia spirituale e l’organizza, mentre il corpo la esprime contenendola e con i suoi movimenti collega fra loro i luoghi sacri del barracào20. L’orchestra è composta da tre tamburi: il rum, che è il master-drum21 e quindi il maggiore per dimensioni e suona i fundamentos religiosi, è suonato con le mani, è il reggente e cioè è colui che dà l’attacco, che dà il segnale di fine e che interviene se qualcuno sbaglia, conosce tutti brani. È l’unico che si permette delle variazioni. Il rumpi è il tamburo di mezzo e il lé è il più piccolo. Il rumpi e il lé eseguono la base ritmica e accompagnano il rum. Come suggerisce Verger: “I tamburi godo­ no di alto rispetto perché non sono considerati semplici strumenti musicali, bensì la voce stessa degli dei. E per mezzo di essi che questi vengono chiamati e che si in­ viano loro delle risposte”. (Verger, 1981:157) L’agogó è uno strumento di metallo a forma di doppia campana, percosso da un’asta di metallo che origina un ritmo che si ripete uguale per tutta la durata del brano. Ogni atabaque possiede una frase ritmica propria che, unendosi alle altre, for­ ma una poliritmia, propria della musica africana, dove ogni musicista esegue la propria frase in armonia con gli altri. Ogni frase ritmica muove una parte del cor­ po della filha-de-santo, come se il corpo fosse un’orchestra e ogni parte di esso uno strumento. Il pubblico-fedele accompagna il rito cantando e battendo le mani, introdu­ cendo così un’altra frase ritmica nell’insieme musicale, in cui l’aspetto principa­ le è la comunicazione del gruppo. In Africa non esiste, infatti la divisione fra maestro e esecutori, ogni strumento e ogni musicista hanno una funzione speci­ fica all’interno dell’orchestra. Ogni elemento deve comunicare con l’altro, il ma­ ster-drum con i musicisti e con la sacerdotessa-ballerina e tutta l’orchestra con il pubblico. La musica africana è caratterizzata da una ciclicità della frase musicale che è ri­ petuta all’infinito. La ripetizione ri-crea ogni volta la frase stessa, nel tentativo di fermare il flusso del tempo e di incontrare un ‘centro’ unico, fisso e eterno. La musica è divisa in unità di tempo che si organizzano in ‘frasi ritmiche’, ripe­ tute ogni volta come una nuova creazione. Nel rito ogni percussione 22 esegue la sua frase ritmica che si unisce a quella degli altri tamburi formando un ‘ensamble the­ matic cycle’ in cui i vari strumenti iniziano e terminano di suonare all’unisono. Tanto la musica che la danza esprimono il carattere dell’orixà, mentre i canti, cantigas, raccontano gli avvenimenti storici, le leggende, le qualità e i difetti del­ la divinità. 20 Lo spazio sacro pubblico, chiamato barracào, ha dei punti dove sono posti alcuni elementi sacri fondamentali per la forza e l’equilibrio della comunità. Questi sono il centro, la porta di en­ trata, lo spazio dei musicisti e quello dove siede la Màe-de-santo. Le filhas-de-santo danzando col­ legano questi punti. 21 II master-drum è il tam buro più importante che coordina gli altri. 22 L’orchestra è formata da tre tamburi chiamati atabaques. 91 La musica di Oià-Iansà, la divinità del vento, per esempio è caratterizzata da grande velocità, aggressività, è un ritmo incalzante che non lascia un momento di sosta, e tra­ smette la sua variabilità essendo l’elemento aria in movimento. L’uso della sincope2 32425, molto frequente nella musica africana, contribuisce alla sensazione di irruenza e di con­ tinuità del ritmo, che non lascia un momento di pausa. La musica di Aà-Iansà “raccon­ ta” che la dea è un bufalo, che percorre minacciosamente le savane. Ben diverso è il rit­ mo di Iemanjà caratterizzato da frasi ritmiche lente e cadenzate che trasmettono la sen­ sazione del movimento delle onde del mare o dell’incedere di una imponente matrona. Pur essendo un ritmo binario, la sensazione è quella di un movimento circolare, espres­ so dai tre colpi gravi, accentati sull’ultimo sedicesimo della terza terzina e sui primi due dell’ultima che ritornano sempre per tutta la durata del brano. (Ciaudano, 1996) Fra il rum e l’orixà esiste un eterno dialogo, la musica indica alla divinità i gesti che deve compiere, mentre la coreografia e la ‘qualità’ del movimento mostra chi è l’orixà e che qualità sia24. Non si tratta infatti di una semplice riproduzione di mo­ vimenti, ma dell’esperienza diretta con il divino trasmessa attraverso le contrazioni e le espansioni dei muscoli che vivono intensamente l’emozione di essere una parte di una divinità maggiore. Una festa pubblica di C andom blé Per comprendere maggiormente la funzione e l’aspetto simbolico delle danze sa­ cre seguirà un breve schema del rito pubblico. Ogni divinità possiede danze, musiche, colori, cibo e simboli a lei propri. La musi­ ca rappresenta il ritmo individuale di quell’energia, per esempio quella di Xangó ne esprime tutta l’irruenza e la gaiezza, mentre il toque25 di Omolu, l’opanijé trasmette il ritmo pesante del dio del vaiolo. La danza e la musica non ‘dipingono’ il movimento co­ me nella danza occidentale, ma il corpo diventa quel ritmo, vivendo il proprio ritmo-respiro. Le divinità comunicano attraverso la musica che esprime il carattere dell’orixà e attraverso la danza che trasmette gli avvenimenti e le caratteristiche della loro vita. Le cantigas26, in momenti specifici del rituale, dirigono le danze, suggerendo attraverso le parole avvenimenti storici o qualità della divinità che sono riproposte nel movimento. Per ogni momento del rituale esistono musiche, cantiche e danze appropriate27. A Bahia, quando si organizza una cerimonia religiosa del candomblé, si dice che “questa sera ‘vai a tocar um candomblé ou vai bater um candomblé’28”, mostrando 23 Secondo Ciaudano: “la sincope è un effetto ritmico prodotto dal prolungam ento-spostam en­ to di accento dal tempo debole al tempo forte” (1996). 24 Per qualità di movimento si intende secondo Laban la fluidità che la ballerina raggiunge duran­ te la performance. Mentre per qualità di orixà si intende, “L’orixà in generale, Xangó, fra noi brasiliani si divide in per lo meno 12 Xangó che sono qualità, o cammini e che sono parti o segmenti della sua biografia mitica rappresentazioni di locali in cui è venerato in questa forma” Prandi (1991:123) 25 Toque significa ritmo. 26 Le cantigas, le canzoni sacre, intonate in iorubà, ma con l’introduzione di parole africane di altre etnie, raccontano avvenimenti storici a cui le divinità hanno partecipato.27 La decifrazione totale necessita anni di studio, in quanto ogni casa di candom blé segue la propria tradizione e le proprie variazioni. 28 Significa “si suonerà un candomblé” e rende evidente l’importanza della musica per la religione. 92 così chiaramente il potere simbolico-religioso della musica. La musica infatti è uno degli elementi costitutivi del rito e dà forma insieme alla danza a contenuti inespri­ mibili con le parole a causa della loro complessità e multivocalità. Così come esiste un ritmo musicale e cantigas appropriate per ogni momento del rituale, esistono anche danze diversificate. Per meglio comprendere il ruolo della musica e della danza nel rituale coreutico-musicale293012(Carpitella, 1994) del candomblé, sarà descritta brevemente una cerimonia organizzata in onore di Oià-Iansà50 nel terreiro Ile Axé Opò Afonjà il 23 ottobre 1995. Il primo ritmo è rapido e continuo e con questo si forma la ruota sacra che si apre con la Màe-de-santo}1 seguita in ordine gerarchico dalle equede32, dalle ebòmi55, dalle iaó34 e per ultime le abià35 che chiudono la ruota. Questa prima parte del rito è chiamata ‘xiré’ ed ha la funzione di evocare le di­ vinità e di invitarle a partecipare alla festa36378religiosa. Si canta e si danza per ogni orixà tre volte, iniziando con Ogum, il dio guerriero, si conclude con Oxalà, il pa­ dre di tutti i mortali e di tutti gli dei, passando per tutte le divinità.5' Oxossi, dio della caccia e della foresta, danza l’aguere; mentre Iemanjà, signora compassata e maestosa il cadenzato bravum; l’ijexà, più tranquillo è di Oxum. Ogni ritmo è ac­ compagnato da una danza specifica eseguita in uno stato normale di coscienza con movimenti di piccola dimensione. Questa parte potrebbe essere paragonata ad una cosmovisione, dove tutte le energie sono invitate a partecipare alla festa. Esiste uno schema fisso nel rituale, ma la quantità delle danze e dei canti può va­ riare dipendendo dall’orixà dono da festa’8 e da altri elementi come il legame fra il dono-da-cabega39 della Màe-de-santo e l’orixà per cui è stata organizzata la cerimo- 29 Negli anni ‘50 l’etnomusicologo Carpitella e l’antropologo De Martino studiarono il taranti­ smo in Puglia e la sua danza: la tarantella è una danza di trance ed è il fulcro, secondo questi stu­ diosi, del rito coreutico-musicale. Coreutico viene dal verbo greco coreuo = danzare in circolo e dalla parola texne = l’arte di, quindi è l’arte di danzare in cerchio ed indica l’importanza della mu­ sica e della danza in questo tipo di rituali che possiamo definire di cura. 30 Oià-lansà è la divinità del vento e della tempesta, sposa preferita di Xangò, conosciuta per i suoi amori, per la sua irruenza e per la sua trasgressione, è molto famosa a Bahia. Il 4 di di­ cembre è organizzata una grande festa in suo onore. L’autrice del presente articolo ha organiz­ zato la sua ricerca di campo soprattutto su questo orixà. 31 La Màe-de-santo o il Pàe-de-santo sono i leader della comunità religiosa che è fondata su una forte gerarchia. 32 Le equede sono delle sacerdotesse che non cadono in trance, ma che devono passare at­ travèrso un rito di reclusione e che hanno la funzione di aiutare coloro che ricevono la divinità. 33 Le ebómi sono le sacerdotesse iniziate da più di sette anni. 34 Le iaò sono le sacerdotesse recentemente iniziate. 35 Le abià sono coloro che pur non essendo state iniziate definitivamente, sono già state sot­ toposte ad un rito di pre-iniziazione. 36 Si chiama festa del candomblé per evidenziare così l’aspetto gioioso della cerim onia . 37 Exu, la divinità messaggera che deve portare agli dei le richieste dei mortali, viene omag­ giata con un altro rito non pubblico, chiamato Padè, che è celebrato nel pomeriggio. 38 L’orixà dono da festa è la divinità per cui è stata organizzata la cerimonia. Ogni anno nei terreiros tradizionali si segue un calendario che prevede per ogni festa la celebrazione di un orixà in particolare o di un gruppo di orixà. 39 Significa il signore della testa, intendendo l’orixà principale della persona. 93 nia o la presenza di persone famose di altri terreiros40, etc. Tutte le danze e i canti sono eseguiti solo dalle sacerdotesse e dai sacerdoti della comunità, ma la parte­ cipazione del pubblico è molto vivace e dietro all’orchestra formata dagli alabé un gruppo di bambini accompagna il rito cantando e danzando con grande precisione ed enfasi. A questo punto si suona un toque particolare chiamato adarrum che invita la di­ vinità a scendere nei propri ‘cavalli’ e che a volte è seguito da cantigas particolari. In questa prima parte l’adarrum ha la funzione di aprire il canale energetico che le­ ga l’orum all’aiyè. Avvengono così le prime incorporazioni, facilmente visibili, le sacerdotesse per­ dono l’equilibrio, escono dalla ruota, si passano una mano sul volto ed alcune co­ minciano a ruotare su se stesse, sbilanciandosi sul proprio asse fino ad assumere un nuovo portamento e una nuova espressione del viso. Da questo momento le sacer­ dotesse non sono più semplici donne, ma diventano la divinità stessa. Per esempio le filhas di Oià-Iansà, la divinità del vento e della tempesta, assumono quasi un’a­ ria di altezzosità. Poggiano le mani sui fianchi e camminano per lo spazio sacro co­ me se ne prendessero possesso. Ben diverso è l’atteggiamento delle filhas di Oxum che, civettuole, si richiudono nel proprio corpo seducendo tutti i presenti, con pic­ coli movimenti delle braccia. Dopo le incorporazioni gli orixà emettono un suono, chiamato ila o ke, che le identificherà per tutta la vita. Il pubblico e gli atabaques salutano gli dei, mentre gli orixà esprimono attraver­ so una serie di gesti codificati la gioia di essere in mezzo ai fedeli. Dopo una serie di danze di ‘saluto’ chiamate primeira de dar rum, le divinità sono portate via per essere vestite con gli abiti liturgici e con gli oggetti simbolici come per esempio l’abebe (una specie di ventaglio-specchio) di Iemanjà o la spada di Oià-Iansa o l’ar­ co di Oxossi. Mentre si aspetta che gli orixà siano vestiti con gli abiti liturgici, vie­ ne offerto al pubblico un vero e proprio banchetto sacro41. Nella seconda parte della cerimonia, gli orixà ritornano nel barracào4243,entrano in fila seguendo l’ordine gerarchico, le persone iniziate da più tempo sono davanti, seguite da quelle con minor tempo di iniziazione, mentre la iatebexé o il babatebexé45 intonano dei canti specifici per salutarli e i fedeli offrono fiori alle divinità. Da questo momento ogni orixà danza le proprie coreografie che insieme agli abiti sacri e agli oggetti simbolici raccontano le loro vite e le loro caratteristiche. Per esempio Oià-Iansà ha sul suo abito due corna di bufalo che testimoniano il fatto che lei è una donna-bufalo e che è della famiglia di Oxossi, il grande dio del­ la foresta legato al mondo animale o, altro simbolo, la corona di Oxum che ci dice che è una regina. Se un’orixà danza particolarmente bene gli saranno dedicate più cantigas, in modo da lasciarlo in mezzo ai fedeli più tempo. A volte le canzoni sa40 Significa candomblé, esistono più nomi per chiamare una com unità di candomblé, esempio terreiro o casa o roga. per 41 La cucina del candomblé è famosa. I suoi ingredienti di base sono soprattutto: l’olio di dende (estratto da una palma tipica della regione), l’olio di cocco, gamberetti secchi e quiabo, un tipo di verdura . Ogni divinità possiede un piatto tipico che le viene offerto in cam bio della sua prote­ zione e che viene ton su m a to anche dai presenti. 42 Parola con cui si identifica lo spazio sacro utilizzato nel rito pubblico. 43 Sono le sacerdotesse o i sacerdoti più vecchi che conoscono il repertorio delie canzoni sacre. 94 ere suscitano aspetti così emozionanti che persino le figlie di altri orixa possono cair no santo44. Di solito sono orixa che hanno relazioni specifiche tra di loro, per esem­ pio sono mariti o figli della divinità in onore della quale si è organizzata la festa. In questa parte della cerimonia l’energia è chiamata a manifestarsi in tutte le sue for­ me possibili e insieme con le altre forze della natura. Così quando Oià, divinità del vento, danza con Xangò, divinità del lampo, la loro coreografia è la manifestazione del movimento dell’aria che genera il fuoco. Dopo le danze sacre gli orixa sono portati via con una coreografia finale, di solito uguale per tutti. Le divinità salutano il pubblico, la Màe-de-santo e gli atabaques, ristabilendo l’ordine iniziale, sia a livello macrocosmico che a livello mi­ crocosmico. C on clu sion e La parola greca iniziale ‘melos’ può essere tradotta o come membra o come me­ lodia, a sottolineare il legame fra le membra e la melodia. L’andare dell’uomo segue il suo ritmo-respiro-passo, quando l’uomo si allontana dal suo ritmo-passo si allon­ tana dalla divinità e dalla sua essenza. Per questo tutte le religioni del mondo spin­ gono i propri fedeli al raccoglimento interiore periodico, per poter sentire e segui­ re il proprio ritmo-respiro-passo. Come si è cercato di dimostrare nelle società di tradizione orale, come il candomblé, la danza e la musica hanno la funzione di una letteratura e a queste arti è affidato il compito di insegnare e trasmettere la storia, la visione del mondo e l’ethos del gruppo. Le caratteristiche intrinseche alla danza e alla musica africana: la poliritmia, il policentrismo, la ripetizione o ri-ciclo, la dimensionalità fanno sì che all’intemo del rito, per la comunità dei fedeli, si ricreino le situazioni spazio-temporali del mito in un continuo riferimento fra macrocosmo e microcosmo. Il sacro, che secondo gli iorubà è in tutti gli uomini, è il ritmo-respiro-passo di ogni individuo che, opportunamente istruito in momenti culturalmente istituiti, im­ para a ricevere, a vivere e a disperdere la propria divinità. Per questo motivo la tran­ ce è la manifestazione di una profonda ricerca spirituale ottenuta con momenti di esclusione dal mondo quotidiano a cui il fedele ritorna rinvigorito dall’incontro con il sacro. Il candomblé, al pari di qualsiasi altra religione mistica, propone al fedele il difficile incontro con se stesso simbolizzato nelle statue africane dagli occhi chiusi, fatto che si verifica anche durante la trance a evidenziare che l’attenzione è rivolta al mondo interiore. Come dicono le Maes-de-santo “tutte le risposte sono nell’uomo, impara a guardare”. E’ un guardare fatto con tutti i sensi e non superficialmente. La musica è il filo che lega tutte le varie componenti del rito, dal chiamare gli dei in mezzo ai mortali, al preparare l’atmosfera per la trance delle filhas-de-santo, all’esprimere le caratteristiche sensuali delle divinità, al concludere il rito e riporta­ re un nuovo ordine e equilibrio. La musica inoltre collega tutti i componenti della comunità e questi con il mondo spirituale, mentre la danza esprime questo legame e trasmette l’energia divina. 44 Significa andare in trance. 95 Per capire il significato semantico della musica e della danza bisogna rifarsi al contesto olistico e simbolico dove ogni elemento ha significato solo se inserito nel suo contesto culturale. Le parole delle cantigas sono documenti che raccontano la storia dell’etnia, le guerre, i fatti sociali importanti, per questo tutte le espressioni artistiche vanno lette in unione una con l’altra. La musica e la danza sono quindi le divinità, che sono divinità vive, partecipi della vita dei mortali e in continua comunicazione con loro. La comunicazione potrebbe essere proposta come la definizione per antonomasia della filosofia dell’esistenza africana e quindi del candomblé che tende all’armonia di tutti gli esseri con la natura attraverso un eterno e continuo ‘call and response’ che collega il tutto mediante una vibrazione sonora che è energia di vita e ritmo-respiro. E il ritmo che comunica con i fedeli e le filhas-do-santo e gli orixà nel candomblé. Nella prima parte del rito, nello xiré, la musica e la danza possono essere inter­ pretate come un linguaggio che trasmette la richiesta dei mortali alle divinità affin­ ché partecipino alla festa. Nella seconda parte del rituale, durante le danze di possessione, la musica e la danza, sintesi di forma e contenuto, esprimono il divino. La musica sarebbe il re­ spiro della divinità, mentre la danza la sua forma visibile. Il contenuto profondo del rito, ‘il non detto’ è compreso solo dagli iniziati. È ‘un non detto’ perché le imma­ gini, i ritmi, i canti comunicano sentimenti tanto profondi e emozionanti che non sarebbe possibile trasmetterli con le parole. Per questo i messaggi che la musica, la danza e le arti tutte trasmettono sono a un livello molto più profondo di quello comprensibile ai non-iniziati. In questo legame semantico ogni aspetto artistico: musica, canto, danza, disegni, letteratura, ricevono uno dall’altro, ogni espressione artistica dà senso all’altra. La musica e la danza in generale trasmettono simboli che si riferiscono sia al la­ to cognitivo, sia al lato affettivo. Essendo la musica e la danza considerate come un linguaggio non-verbale, il loro uso nel rituale suscita metaforicamente immagini e sentimenti profondi ed è questo che dà loro potere. La musica ci parla del mon­ do interiore e della sua possibilità di trasformazione, mentre la danza mostra que­ sta possibilità di trasformazione. Al contrario di quanto si potrebbe pensare in Europa, questa religione è viva in Brasile e, se non professata completamente, perché prevede percorsi lunghi e dif­ ficoltosi, è vivamente cercata nei momenti di bisogno anche dalle classi alte e dal­ l’élite, come a San Paolo, grande metropoli brasiliana, dove il candomblé, anche se con modalità diverse, è sempre più in espansione. 96 Bibliografia ASANTE, K. Welsh Commonalities in African Dance: an aesthetic foundation. Rithms of unity, Westort, Connecticut, Greenwood Press, 1985 BARBARA, R. A danga do vento e da tempestade, Dissertazione di Master, Università Federale di Bahia, Salvador, 1996 La letteratura orale iorubà: gli orikl, in Religione e Magia, a cura di Faldini, Torino, Utet, 1997 BARROS, E TEIXIRA.O codigo do corpo, inscribes dos orixàs imMoura C.E., Meu si­ nai està no seu corpo, Sào Paulo, Edicon/Edusi, 1992, pp. 36-61 BASTIDE, R. O candomblé da Balda (Rito nagó), Sào Paulo, Nacional, 1978 BELINGA, S.M.ENO. 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As senhoras do pàssaros da noite, Sào Paulo, USP, 1994. 98 Nicoletta Manuzzato Il sacerdote e il giaguaro A c o llo q u io c o n l’a r c h e o lo g o m e s s ic a n o R o m a n P in a C h a n Roman Pina Chan è uno dei più grandi archeologi messicani. Ha lavorato per decenni sul campo, unendo all’opera di scavo l’attenta analisi del materiale rac­ colto. Ha compiuto ricerche in tutto il Messico, dallo Stato del Campeche, di cui è originario, al Tabasco, al Chiapas, allo Yucatan, al Michoacàn, dove ha sco­ perto il sito di Tingambato. E la passione per il suo lavoro non l’ha abbandona­ to neanche quando, nel 1984, un infortunio l’ha costretto su una sedia a rotelle. Ancora adesso continua a scrivere, a studiare, a insegnare ai futuri archeologi. In questa intervista che ci ha concesso nella sua casa di Città del Messico, Pina Chan traccia un panorama dello sviluppo delle culture mesoamericane, avan­ zando ipotesi che rivoluzionano le ricostruzioni finora accreditate. “I miei primi studi sono stati rivolti allo sviluppo delle culture preclassiche mesoamericane. Grazie ai dati emersi dagli scavi abbiamo potuto suddividere l’orizzonte pre­ classico in tre periodi fondamentali: inferiore, medio e superiore. Abbiamo poi caratterizzato questi tre periodi dal punto di vista demografico, economico, re­ ligioso. Così il preclassico inferiore e il preclassico medio sono ora inclusi nella fase dei villaggi agricoli, società fondamentalmente autosufficienti; il preclassico superiore segna il passaggio dal villaggio ai primi centri cerimoniali come Cuicuilco, Tlapacoya e - in altre zone - Monte Alban, San Lorenzo, ecc. Si regi­ stra qui un cambiamento di mentalità: se prima era chiamata in campo la magia, in seguito è la religione a prevalere. Nella prima fase i maghi sono gii interme­ diari fra la società e il sovrannaturale; nel preclassico superiore, invece, sono i sa­ cerdoti che fanno da tramite fra la società e il divino. Con la religione, dunque, la preghiera del fedele viene accolta se la divinità lo vuole, mentre in preceden­ za spettava al mago e non al dio risolvere i problemi, grazie alla sua esperienza e alle sue conoscenze”. In seguito l’interesse di Pina Chan si volge agli Olmechi. “Si riteneva che il centro da cui era partito il loro sviluppo fosse la Costa del Golfo: molti ricer­ catori lo sostengono ancora. Ma nel 1964 iniziai a vedere la cultura olmeca co­ me la risultante di gruppi mesoamericani che avevano ricevuto elementi cul­ turali dalla regione del Pacifico, quanto meno dall’Ecuador. La Cultura Val­ divia dell’Ecuador, fiorita intorno al 3.000-2.500 a.C., presenta una ceramica simile a quella olmeca e realizzata con le stesse tecniche: decorazioni di cor99 da, tessuti, linee a zig zag tracciate con la conchiglia. Incisioni in profondità e motivi in rilievo caratterizzano due grandi complessi: gli Olmechi e Chavin in Perù. Partendo dall’Ecuador, le influenze passano alla Colombia, al Pana­ ma, all’Honduras e, lungo la costa, al Salvador e al Guatemala. In Guatemala abbiamo la Cultura Ocos, che aveva già contatti con le antiche culture mesoamericane. In Chiapas la fase Barra è collegata a una ceramica simile a quel­ la colombiana ed ecuadoriana. Dunque le popolazioni del Chiapas, del Soconusco subiscono l’influenza di questi gruppi; da qui dovrebbero essere venu­ ti il gioco della pelota, la decapitazione, il taglio della testa come trofeo, la n a­ vigazione a bordo di zattere, alcuni aspetti magici, la decorazione del corpo, le palizzate in tronchi, ecc. Tali elementi si mescolano con quelli della trad i­ zione mesoamericana e in Chiapas, verso il 1.700 a.C., si comincia a formare il gruppo proto mixe-zoque. Sotto l’influsso esterno queste popolazioni si vanno trasformando, mentre iniziano la penetrazione nella regione di Oaxaca e - attraverso l’istmo di Tehuantepec - verso la Costa del Golfo. Troviamo quindi Olmechi nelle valli centrali della zona zapoteca, Olmechi sulla costa (San Lorenzo, La Venta e mol­ ti altri insediamenti). I Mixe-Zoque che penetrano nella regione di Oaxaca si mescolano con Zapotechi dando vita a una popolazione olmeco-zapoteco-mixezoque. I gruppi che si sono diretti verso la costa si incontrano con gente di stir­ pe maya e, penetrando come un cuneo nel centro della regione veracruzana, li dividono in due: una parte si dirigerà verso nord (Huastechi), un’altra verso sud (Maya yucatechi). La popolazione Mixe-Zoque, Olmechi e altri forma il nucleo della costa, che svilupperà la scrittura, la numerazione, il sistema vigesimale e l’annotazione calendarica. Stiamo parlando di 1.500 anni prima di Cristo: que­ sto è il processo che si evidenzia studiando il periodo preclassico, le culture più antiche. Alcuni archeologi nordamericani avanzano la stessa ipotesi, cambian­ do semplicemente il nome: chiamano questi gruppi Mocaya, uomini del mais, anziché Mixe-Zoque”. Un altro filone di studio intrapreso da Pina Chan riguarda la simbologia del­ le culture mesoamericane. “Ho lavorato due o tre anni su questo tema, cercan­ do di capire il significato dei simboli che appaiono nella ceramica olmeca, le cro­ ci, gli uncini, le macchie: tutti questi segni dovevano pur indicare qualcosa. Ed ecco la mia interpretazione: per gli Olmechi la madre terra era come un gigan­ tesco giaguaro, dire giaguaro per loro è dire terra. E come in quelle antiche tra­ dizioni cinesi, dove il mondo si forma dal caos, dal gigante che muore escono i corsi d’acqua, le montagne, i fiumi, le pietre, la vegetazione, così il giaguaro de­ ve avere in sé gli elementi necessari per spiegare la terra. E alcune figurine ri­ trovate nello Stato di Morelos rappresentano un sacerdote rivestito di pelle di giaguaro. La pelle, decorata di simboli, significa la terra. Le righe raffigurano i corsi d’acqua; i segni a forma di u con una linea sono appezzamenti di terreno; il rombo è l’orma lasciata dal bastone utilizzato per seminare: la sua impronta appare come una macchia; il cerchio è il grano di mais. Dunque la terra è un pia­ no quadrato o rettangolare, ma se si disegna un cerchio all’interno di tale piano si ottiene terra con grano di mais o seminata, cioè campo di granturco. La u è il terreno, la riga l’acqua, con un rombo all’interno diventa terreno seminato vici­ no al fiume, vicino all’acqua. 100 C’è un monolito a Tres Zapotes che porta incisa l’iscrizione considerata più antica finora rinvenuta. Questa iscrizione viene tradotta come una data in nu­ merali maya, con accanto la parola ic=vento. E ci si chiede: che cosa è successo in quella data, perché è stata incisa? Mistero. Se però il nostro codice funziona, l’iscrizione significa invece: grano di mais, acqua, terra, vento, acqua, cioè terre­ no vicino all’acqua, vicino al fiume, con campi di mais percossi dal vento; è in­ somma il toponimico del luogo. Il risultato ne risulta totalmente trasformato e diventa persino poetico. Molti credono che la semplicità non sia possibile, cre­ dono che la scienza debba essere complicata, incomprensibile. Io la penso di­ versamente: l’iscrizione voleva dire semplicemente che quella era la città dai campi di granturco, dove soffia il vento. L’incidente, che sfortunatamente mi ha impedito di continuare a lavorare sul campo, mi ha dato però più tempo per leggere e per scrivere. Attualmente, con i miei studenti dell’Università, sto analizzando l’iconografia del Tajm, del Cerro de las Mesas, di Comalcalco. Il nostro lavoro consiste nel decifrare, decodifica­ re, cercare una chiave che, applicata esattamente, riveli sempre lo stesso signifi­ cato. Stavo ora riguardando la Cronica Matichu, in cui Alfredo Barrera Vàsquez ha riunito i testi storici dei Chilam Bàlam di Mani, Tizimin e Chumayel. Barrera Vàsquez li ha posti a confronto, riorganizzati e disposti in parti, che ha chiama­ to Ma-Ti-Chu. La prima parte parla degli Xiu, la seconda degli Itzà, la terza di Xiu e Itzà e la quarta della conquista spagnola. Leggendo ho notato una con­ traddizione: la prima parte non può essere collegata con la seconda perché le da­ te sono posteriori. Secondo me, l’B Ahau di cui si parla nel testo si riferisce al 948-968: In tal modo le parti si intersecano perfettamente fra loro e la cronaca ne esce modificata, perché presenta gli Xiu che si dirigono verso Chac Navitón. Si pensava che questa località fosse nel Petén guatemalteco, invece Chac Navitón è il luogo che sarebbe diventato Chichén Itzà per le popolazioni Itzà. Dunque gli Xiu partono dalla regione del Tabasco-Campeche e vanno verso la penisola; conquistano numerose località e infatti troviamo la loro impronta culturale in di­ versi edifici; a Edzna lasciano traccia del loro passaggio sulle steli; passano at­ traverso Labnà, Kabàh e altri siti; alla fine un primo gruppo si ferma a Uxmal, mentre un secondo prosegue e l’anno dopo giunge a Chac Navitón. Questa ricostruzione ci dà una nuova messa a fuoco: dobbiamo distinguere bene quali edifici, quale architettura, quali concezioni fossero Xiu e quali Itzà. Gli Xiu cominciano a governare Chichén e a trasformarla. Ma vent’anni dopo gli Itzà giungono anch’essi a Chichén e dominano o si alleano con gli Xiu per do­ minare la città. Per primi quindi sono arrivati gli Xiu e sono stati loro a edifica­ re le costruzioni de “las Monjas”, la “Iglesia”, parte dell’Akabtzib, il gioco della palla, l’osservatorio. Nel 1204 gli Itzà dichiarano guerra agli abitanti di Chichén. E in questo periodo gli Xiu scompaiono, mentre gli Itzà iniziano a loro volta a edificare: si nota infatti una trasformazione nell’architettura, che è stata definita tolteca e che in realtà rappresenta un’evoluzione dal periodo Xiu. Per questo ri­ tengo che non siano stati i Toltechi di Tuia a dirigersi verso Chichén, ma genti di Chichén a dirigersi verso Tuia e a intraprendere la costruzione della grande Tu­ ia, con il suo gioco della palla, il tempio simile a quello dei Guerrieri, ecc. In realtà a stabilirsi alla frontiera fra il Tabasco e il Campeche furono Maya Chontal insieme a popolazioni nahuatlizzate, provenienti dall’Altopiano centrale o dal 101 centro della regione veracruzana: commercianti che si dirigevano verso la costa, in cerca di cacao e piume esotiche da portare sull’altopiano, e spesso si ferma­ vano in quella zona. In tal modo si costituì una popolazione eterogenea, che mostra elementi del centro di Veracruz, del Tajin, di Cacaxtla, di Xochicalco. Sono questi elementi che gli Xiu prima, gli Itzà poi introducono, in modo diverso, ma tutti aH’interno di tale simbiosi culturale. Quando venne costruita Mayapàn verso il 1185, dico­ no le cronache che a edificarla fu Kukulcan. In seguito questi lasciò il governo e ritornò da dove era venuto, si diresse cioè verso la costa e continuò - questo le cronache non lo dicono - fino ad arrivare con il suo gruppo a Tuia. Essi porta­ rono dunque le loro concezioni a Tula. E dicono le cronache che - poiché a Tu­ ia non potevano sostentarsi, proseguirono il loro cammino e giunsero a Cholula e lì regnò con essi Cezalcuati, che è Kukulcan nella versione dello Yucatan”. V Rafael Enriquez, offset, 1980, 49x74 cm. 102 Elina Patané Donne, streghe, angeli, nella marea ciclica di Arenas L’intera opera letteraria del cubano Reinaldo Arenas appare sin dagli esordi or­ ganizzata in «cicli» narrativi legati tra di loro da un filo conduttore che riflette nel­ la finzione artistica il mondo reale. Ciclo più rappresentativo ed emblematico nello svolgersi della poetica areniana è senz’altro la «pentalogia» (o meglio come la defi­ nitiva lo stesso autore «pentagonia») costituita da cinque romanzi che, come ha no­ tato il tedesco Ottmar Ette l, ripercorrono le vicende umane dello stesso Arenas. I cinque romanzi di questo ciclo, Celestino antes del alba123, Elpalacio de las blaquìsimas mofetas J, Otra vez el mar 4, El color del cerano 5 e El asalto G, sono am- 1 Cfr. Ottmar Ette, «La memoria y la escritura. Acerca de los eidos narrativos de Reinaldo Arenas» (trad, in spagnolo in possesso di Roberto Valero, non edita), pubblicato in Germania col titolo Gedàchtnis und Schifi Uber das Zyklische im Erzàkhlwerk Reinaldo Arenas, in «Latinoamerlcka Studien», Munchen, t. 23, pp. 279-324. 2 Reinaldo Arenas, Celestino antes deialba, Habana, Uneac, 1967. Altre edizioni: Buenos Aires, Edi­ torial Brujula 1968; Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1972; Caracas, Monte Avila Editore, 1980; Barcelona, Argos Vergara, 1982 (edizione spagnola revisionata in cui Arenas per ragioni di diritti d’autore cambia il titolo con Cantando en el pozo). Questo romanzo pur presentando molti dei futuri mo­ tivi ricorrenti nell'opera areniana, sembra essere ambientato, secondo Valero, in un mondo di cartoni ani­ mati disneyani in cui l’autore non tralascia di utilizzare un humor grafico linguistico che si evince nei gio­ chi di parole. A tal proposito, lo scrittore cubano Severo Sarduy, raccontava come Arenas fosse anche nella vita un «conversatore grafico», che utilizzava il timbro della voce per sottolineare alcune parole nei suoi discorsi (cfr. S. Sarduy, Esento sobre Arenas, in «Revista de la Universidad de México», México, 1985, p. 16). Il romanzo Celestino antes del alba, che inaugura il ciclo, pur ambientandosi nell’infanzia di Arenas, sembra entrare in una dimensione temporale primitiva e, al tempo stesso, astorica. Questo romanzo, il primo e l’ultimo pubblicato a Cuba ha per protagonista un bambino di nome Celestino, il qua­ le vive (come granparte dei protagonisti areniani) due vite parallele, turbate però dalla opprimente pre­ senza di un tiranno, il nonno. Il piccolo, a differenza dei suoi familiari e dei suoi vicini di quartiere, scrive poesie: «Stai scrivendo un’altra volta poesie ed io so che non smetterai mai [...] ormai tutti ti odiano» (R. Arenas, Celestino..., cit. p. 65). [D’ora in avanti tutte le citazioni che appariranno in questo saggio sa­ ranno tradotte in italiano dallo scrivente], 3 R. Arenas, Et palacio de las blanquisimas mofetas, Caracas, Monte Avila, 1980. Altra edizione: Bar­ celona, Argos Vergara, 1983. 4 R. Arenas, Otra vez el mar, Barcelona, Argos Vergara, 1982, [questa edizione, come risulta nella 103 bientati a Cuba «in diverse epoche della recente storia cubana» ' ed hanno come protagonista un «unico» personaggio che di volta in volta assume nomi ed età di­ verse, morendo alla fine di ogni narrazione per poi rinascere nella successiva. Solo l’ultimo romanzo della «pentagonia», El asalto, sarà capace di suggellare il trionfo del protagonista e della società di cui questi fa parte. Entrambi ormai liberi da una madre-tiranno, (personaggio archetipo che è presente non solo aH’interno di que­ sto ciclo narrativo, ma nell’intera opera di Arenas), potranno godere rilassati del mare e del sole cubano. Celestino, Fortunato, Héctor, Gabriel (protagonisti rispettivamente di Celestino antes del alba, El palacio de las blaquisimas mofetas, Otra vez el mar, El color del ce­ rano), non sono personaggi felici: nella loro esistenza non c’è un istante di serenità e non troveranno mai il compagno di cui sono alla ricerca. Tutti sembrano rivisita­ re la stessa esistenza fisica di Arenas quasi, come scrive Humberto Senegai, in un gioco di «dionisiaco dilettarsi con un passato ed un presente individuali, intimi, che lo scrittore rievoca reiteratamente nella sua prosa» 5678 Questo frenetico alternarsi tra gioco e realtà, tra sogno e fantasia, non tralascia di racchiudere in sé tradizione e modelli archetipi che si presentano al lettore come personaggi ricorrenti: «la ma­ dre», nobile e diabolica, tirannica e dispensatrice d’amore; «la luna» che influenza gli stati d’animo, poiché come la madre dà la vita, e con la quale i protagonisti han­ no un rapporto di amore ed odio; la «sposa-donna», capace di descrivere la realtà in modo assai realistico, ma anche soggetta a stati di allucinazione e da improwise gelosie; «l’adolescente», potenziale amico, simbolo della bellezza, del desiderio, del­ la tentazione, ma al tempo stesso, temuto in quanto potenziale poliziotto; «il bam­ bino di otto mesi», di cui l’autore descrive sempre con mirabile cura lo sguardo d’attesa; ed infine «il mare», simbolo di libertà, di infinito, di inquietudine, di bar­ riera e ostinato bordone alle angosce dei personaggi. Tutto questo è, secondo Eduardo C. Bejar, un «gioco ripetuto» 9 labirintico della scrittura che vede la paro- bibliografia areniana presente in R. Valero, El desamparado humor de Reinaldo Arenas, cit., è pie­ na di errata]. Il romanzo è ambientato durante il periodo rivoluzionario cubano dal 1958 al 1970. Otra vez el marò stato definito da Roberto Valero, «il romanzo della lacerazione» (R. Valero, El desampara­ do humor de Reinaldo Arenas, Miami, Ediciones Universal, 1991, p. 138), in cui i due personaggi cen­ trali, Héctor ed il suo potenziale amante, appaiono come dei veri e propri archetipi, degli «Adamo ed Èva», ed al tempo stesso come dei comuni cittadini. 5 R. Arenas, El color del verano, Miami, Ediciones Universal, 1991 Durante la stampa di questo ro­ manzo (così come di El asalto), Arenas morì e la succitata edizione di El color fu revisionata da Carlos Victoria. Il romanzo è ambientato alla fine del XX secolo durante un allucinante carnevale, in ciu l’auto­ re percepisce la miseria di quella parte del popolo cubano costretta alla clandestinità. Nelle pagine di quest'opera appaiono inoltre molti scrittori cubani, viventi e non. 6 R. Arenas, El asalto, Miami, Edicions Universal, 1991. Romanzo che completa il ciclo, lasciando un barlume di speranza, visto che l’autorità, il «reprimerìsimo reprimerò» viene sconfitto, ed il protagonista dei cinque romanzi può finalmente distendersi sulla spiaggia per godersi il meritato riposo. Questo è l’unico ro­ manzo in cui, come sottolinea Roberto Valero, il personaggio principale non ha bisogno della madre. 7 Roberto Valero, op. at., p. 65. 8 Humberto Senegai, Reinaldo Arenas y Celestino antes del alba, in «Reflejos de Cultura de Baja California», México, II, 4, gennaio-aprile, 1993, p. 37. 9 Cfr. Nedda Anhalt, Recuerdo a Reinaldo Arenas, in supplemento «Sàbato», n. 715, México, 15 giu­ gno 1991, pp. 1,4-5. 104 la riflettersi su se stessa, conferendo al linguaggio una tale fluidità da far apparire la scrittura come la rappresentazione dell’«ondeggiare del mare». In una intervista ri­ lasciata a Nedda G. de Anhalt, Arena disse che il mare dava il giusto ritmo alla sua scrittura rivelandosi come la grande promessa a cui la stessa scrittura anelava: «[...] l’acqua è un elemento [che] comunica la sensazione di musica che ti culla [...] Per esempio, in questo racconto che sto scrivendo e che si chiama Viaje a La Habana, il personaggio decide dopo venti anni di tornare a La Habana, non perché gli manca la sua famiglia ma perché sente la necessità di vedere quel mare» 1012. Il mare, i personaggi ricorrenti, il matriarcato, la repressione (da quella familia­ re, ambientata ad Agua Claras, luogo natio dello scrittore, a quella totalitaria di ti­ po orwelliano di El asalto), l’aspra critica al colonialismo - presente anche in El mundo alucinante 11 - e la sensazione di trovarsi ancora una volta di fronte a un «ci­ clo», racchiuso questa volta in un «unico» romanzo, si ha proprio in Viaje a La Ha­ bana n, simbolo dell’«[...] inevitabile disillusione del riicontrarsi con una terra che nella lontananza si è mitificata» 1314. Viaje a La Habana, è un romanzoo in «tre viaggi»: Que trine Èva, Mona e Viaje a La Habana, pensato e progettato come l’ascesa spirituale di un «ritorno», in cui le protagoniste femminili assumono - come Arenas aveva notato nella trilogia poetica Leprosario 14 - un ruolo inscindibile da quello dei protagonisti maschili. Ciascun viaggio prende spunto da una o più lettere. Nel primo, le lettere ven­ gono inviate dalla madre di Èva, residente ormai negli Stati Uniti, alla figlia per cer­ care di convincere lei ed il genero Ricardo a lasciare La Habana. Nel secondo rac­ conto il viaggio ha, una vera e propria struttura epistolare, e inizia con la lettera di Ramón Fernandez («marielito» esiliato a New York), giunta una settimana dopo la sua misteriosa morte in carcere, a Daniele Sakuntala. Quest’ultimo, visti i numero­ si rifiuti da parte degli editori, si rivolge al «frivolo» scrittore Reinaldo Arenas, per fare pubblicare la lettera sulla rivista «Mariel» 15 Ma anche Arenas, personaggio del­ la finzione, già gravemente malato di Aids, si rifiuta di pubblicare quanto accaduto a Ramón Fernandez, definendo il fatto un racconto di tipo gotico. Infine la lettera 10 N. Anhalt, Reinaldo Arenas: Aquel mar, una vez mas, in: id. Rojo y naranjà sobre rajo, México, Edit. Vuelta, 1991, p. 152. 11 R. Arenas,, El mundo alucinante, Caracas Monte Avila Editore, 1982. In questo romanzo (pubbli­ cato per la prima volta nel 1968, in una traduzione francese, Editions Seuil, poi pubblicato in spagnolo per la Monte Avila Editore, Caracas, 1982), come ricorda lo scrittore messicano Manuel Ulacia, Arenas critica con sottile humour il colonialismo, il totalitarismo che sono perdurati a Cuba nonostante la Rivo­ luzione. (Cfr. Manuel Ulacia, Encuentro con Reinaldo Arenas en este mundo alucinante, in «Cuadernos Hispanoamericanos», n. 495, Madrid, settembre 1991, pp. 125-127). 12 R. Arenas, Viaje a La Habana, Madrid, Mondadori, 1990. 13 Cfr. Silvia Grijalba, Remaldo Arenas decidió su muerte, in «El mundo», Madrid dicembre 1990. 14 R. Arenas, Leprosorio (trilogia poètica), Madrid, Editorial Betania, 1990. 15 Nella autobiografia di Arenas, apparsa di recente in traduzione italiana, lo scrittore narra uno de­ gli episodi tra i più drammatici, avvenuto negli anni Ottanta a Cuba (cfr. R. Arenas, Pnma che sia notte, Parma, Guanda, 1992, pp. 285-293). Nell’aprile del 1980 un autista col proprio carico di passeggeri, si lanciò contro il portone dell’Ambasciata del Perù a La Habana, chiedendo poi asilo politico. Lo stesso fecero i passeggeri. L’Ambasciata fu dapprima posta sotto assedio, dopo qualche giorno, per cercare di minimizzare lo scandalo venne aperto il porto di Mariel, e Fidel Castro decise che ogni indesiderato 105 che introduce al terzo viaggio (inviata da Elvia al protagonista Ismael), è accolta dal destinatario non come un semplice foglio di carta, ma come una «specie di strano e sinistro insetto, qualcosa di realmente malefico che scappando daU’infemo con le sue piantagioni e con le sue umiliazioni e con i suoi carceri, era volato su quella tor­ menta di neve che doveva proteggere proprio lui, Ismael e si era posato lì nella sua stanza, con ’qualche intenzione sinistra e probabilmente mortifera» 16 Attraverso questi tre viaggi Arenas focalizza aspetti, spesso contraddittori di La Habana. In Que trine Èva, la protagonista sembra contrapporre al progressivo de­ pauperamento dell’isola fastosi ed eccentrici abiti da lei stessa tessuti. Èva, che tes­ se ascoltando la musica e attendendo il ritorno dello sposo vincitore col «bottino di guerra» - rappresentato in questo caso da fili e lane - ricorda sì il personaggio ome­ rico di Penelope, ma soprattutto riporta alla mente del lettore la maga Circe, che compie prodigi per stupire ed ammaliare. Quella stessa Circe che presso i celti pre­ se il nome di Morgana, detta anche Spuma Marina. La Èva areniana è qui genera­ trice di vita, non solo in relazione al personaggio biblico di cui porta il nome, ma anche in relazione ai miti greci e celtici legati all’acqua e allo specchio. Sembra qua­ si che Arenas intende simboleggiare con questo personaggio non solo un ritorno al­ la madre-patria, al seno materno, a quel mare di Cuba che ha conferito ritmo alla sua scrittura, ma anche un ritorno a se stesso, che si realizza attraverso il simbolo dello specchio (Morgana), uno specchio che rimanda e sdoppia l’immagine dello stesso autore. Occorre a tal proposito ricordare che quasi tutti i personaggi di Are­ nas hanno sempre un doppio - che può essere sia maschile che femminile - con cui confrontarsi ed opporsi. Questi alterego conservano anche in sé quella società ma­ triarcale e rurale in cui lo scrittore è cresciuto. I personaggi areniani sono inoltre ca­ ratterizzati da personalità angosciate e da un ritmo frenetico che li spinge a spa­ smodiche ricerche. Così, Èva e Ricardo ricercano fili e lane e poi quell’unico, inesi­ stente, personaggio di cui percepiscono la presenza e l’indifferenza. I due protago­ nisti si disfanno a poco a poco di ogni bene superfluo, sino a spogliare del tutto la loro casa, per ricoprirsi e camuffarsi con quegli eccentrici vestiti allo scopo di atti­ rare l’attenzione di quell’unico «spettatore», il quale, peraltro è indifferente alle lo­ ro esibizioni. Il totale disfacimento della loro mobilia sembra coincidere con la fu­ ga della madre a Miami (città che secondo lo stesso Arenas ha ripreso solo gli aspet­ ti peggiori di La Habana). La madre è l’unico personaggio che era stato capace di «conservare» il focolare domestico e nel momento stesso in cui l’abbandona questo si riduce in frantumi. Èva e sua madre sono i tipici personaggi femminili areniani. - lasciasse immediatamente l’isola. Così furono imbarcati per gli Stati Uniti delinquenti comuni, cri­ minali malati di mente, e qualche agente segreto. Anche molti omosessuali furono costretti ad abban­ donare Cuba. In seguito a questo esodo, un gruppo di intellettuali cubani tra cui. Arenas, Juan Abreu, Roberto Valero, Reinaldo Garcia e René Cifuentes, fondarono la rivista «Mariel». Quest’ultima era in un certo senso la rinascita della rivista «Ah, la marea», che gli stessi intellettuali avevano clandestinamen­ te stampato a La Habana. Scrive Arenas: «La rivista avrebbe dovuto soprendere gli esiliati cubani oltre che Fidel Castro. Era irriverente, non andava d’accordo con nessuno; rendeva omaggio ai grandi scrit­ tori, smascherava gli ipocriti e si lanciava contro la morale borghese [...] Uscì anche un numero dedica­ to all’omosessualità a Cuba, con interviste a persone vittime dei pregiudizi di una società molto spesso reazionaria» (Ibid., p. 307-308). 16 R. Arenas, Viaje a La Habana, cit., p. 132. 106 Come afferma infatti lo scrittore cubano nell’Introduzione alla raccolta di racconti Termina el desfile 17, le donne, pur esercitando un ossessivo dominio in grado di «far perdere la pace ai loro subalterni» 178 rappresentano comunque l’unico trami­ te in grado di poter elevare e aiutare i protagonisti maschili a ritrovare se stessi. Questo tipo di figura femminile risente indubbiamente di un’eco ancestrale dei po­ teri distruttori della natura divina. La donna che Arenas descrive, appare «[...] co­ me l’incarnazione terrena, in definitiva, di quel dio terribile e vendicativo dell’An­ tico Testamento, amato sin dall’atavico sentimento di timore che causa il suo infinito'potere» 19. Ciò non toglie che lo scrittore si senta totalmente ammaliato - che lo voglia o no - dal regime matriarcale in cui è cresciuto: «La questione della don­ na e della famosa mela; la donna come un culto di perdizione [...] Sempre con una grande ambivalenza [.,.] io provo una grande tenerezza per tutti questi tipi che ap­ paiono a volte come streghe e a volte come angeli [...]. Ma io credo che questo sia così. L’essere umano non appartiene ad una sola dimensione» 20. E così Èva, è a vol­ te bellissima e affascinante ballerina, ma è anche, come si è già detto, una «strega» capace di ammaliare con le sue arti magiche. Èva, così come Ismael - altro nome bi­ blico - nel terzo viaggio, racchiude in sé anche la prospettiva simbolica del Vecchio Testamento. A Èva cacciata dal Paradiso, Dio dice: «E il tuo desiderio sarà quello di tuo marito ed egli comanderà sopra di te» 21. Questo sembra rispecchiare fedel­ mente il comportamento del personaggio femminile areniano: Èva, sottomessa agli umori e ai desideri del marito, che però crede di conoscere, «perché quasi sempre avevamo pensato più o meno le stesse cose, perché quasi sempre eravamo stati la stessa persona» 22, alla fine resterà sola, dal momento che Ricardo sparirà nel nulla con quel personaggio invisibile e misterioso che era sempre rimasto indifferente al­ le loro esibizioni. Ad Èva non resta che tessere per se stessa un vestito nero «degno di una vedova illustre». Il secondo viaggio, Mona, narra di un «marielito», accusato di aver cercato di sfregiare con un coltello La Gioconda di Leonardo, trasferita, per concessione del Louvre, al museo Metropolitan di New York. Interessanti appaiono i riferimenti al­ la situazione politico culturale di cui parlano prima Daniel Sakuntala e poi il per- 17 R. Arenas, Termina el desfile, Barcelona, Plaza &Janés, 1986. 18 Rita Virginia Molinero, Entrevista con Reinaldo Arenas, in «Quimera», Barcelona n. 17,marzo 1982,p. 21. 19 La campagna da cui Arenas proviene e che rappresenta nei suoi libri del primo perido attraverso personaggi quali Rosa la Vieja, o la madre di vari racconti (così come farà poi con il personaggio Èva, la madre di lei, Mona ed Elvia di Viaje a La Habana) è impregnata da un forte matriarcato. 20 R.V. Molinero, Op. cit., p. 21. 21 In Linguaggio dimenticato, Erich Fromm, a tal proposito scrive: «Èva è nata dalla costola di Ada­ mo (come Atena dalla testa di Zeus). Tuttavia, l’eliminazione di ogni ricordo della supremazia matriar­ cale non è completa. Nella figura di Èva ravvisiamo la superiorità della donna sull’uomo. E’ lei a pren­ dere l’iniziativa di mangiare il frutto proibito; ella non si consulta con Adamo [,..]È soltanto dopo la cac­ ciata dal paradiso terrestre che si stabilisce il suo predominio» (E. Fromm II linguaggio dimenticato, Mi­ lano, Bompiani, 1961, pp. 223). Si ricorda, inoltre, che il passo veterotestamentario suona in modo di­ verso da come riportato da Fromm: «Avrai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito ed egli dominerà su di te» (Gen., 3,16). 22 R. Arenas, Viaje, cit., p. 39. 107 sonaggio Arenas. Mona si apre con la Presentazione di Daniel Sakuntala, il quale narra come i giornali di tutto il mondo abbiano riportato gli eventi occorsi in quel­ l’ottobre del 1986 al cubano Fernandez. Già in questa presentazione il lettore vie­ ne introdotto in una situazione che si snoda tra il romanzo poliziesco e il racconto del terrore. Alla presentazione segue una Nota degli editori che ricordano come si è giunti alla pubblicazione della testimonianza di Ramón Fernandez, visto che, nono­ stante i suoi sforzi Daniel Sakuntala non era riuscito a pubblicare questo docu­ mento da vivo. Infatti, lo scritto era stato pubblicato solo nel novembre del 1999 nel New Jersey, e alla pubblicazione era seguita la misteriosa scomparsa di Sakuntala e dei due editori, quest’ultimi spariti presso il lago Ontario. La stessa sorte misterio­ sa avevano avuto molte copie del libro, mai più ritrovate. In questa nota si fa riferi­ mento anche a Reinaldo Arenas, «uno scrittore giustamente dimenticato che era co­ nosciuto negli anni sessanta del secolo passato, in effetti, morì di Aids nell’estate del 1987 a New York» 2\ La nota si conclude con la firma degli editori e la data «Mon­ terrey, CA. Maggio 2025» 2324 Subito dopo inizia il ritmo frenetico della narrazione con al margine note di Daniel Sakuntala e degli altri due editori, Lorenzo e Echurre - dello stesso protagonista Fernandez, perseguitato ed ormai condannato a mor­ te. Gli eventi narrati dal marielito, pur essendo immersi in un’ambientazione da ro­ manzo gotico, riverberano, a tratti, spunti umoristici misti a situazioni paradossali, che secondo il critico Roberto Valero sottolineano: «[...] una strategia sovversiva per desautorizzare il discorso sul potere, qualsiasi questo sia, ma la desolazione, l’as­ surdo e il nichlismo che lo accompagnano danno ai testi una complessità ed una in­ tensità umana unica» 25. Com’era già nelle intenzioni di Arenas, sin dai tempi dell’intervista a Nedda Anhalt, la terza parte di Viaje a La Habana, è dedicata alla «Condesa de Merlin». Egli dice: «Mi piacerebbe fare un romanzo con tre donne della storia cubana. Lina è Mercedes Santa Cruz, contessa di Merlin, che ritorna dopo 48 anni nel suo paese e lo va scoprendo attraverso gli schiavi» 2627. Così Ismael al ritorno riscopre La H a­ bana con l’aiuto di Carlos, cubano ormai «schiavo» di un futuristico regime milita­ re. Carlos, a sua volta, non è altri che Ismaelito, il figlio di Ismael. Ancora una vol­ ta l’identità dei personaggi areniani si sovrappone contrapponendosi. Ismal2/ è in realtà lo stesso Arenas, che rivive, come il biblico Ismael, la cacciata dalla propria terra, sottolineando la sua personale polemica con il regime. Anche Are­ nas, come la sua creatura letteraria, subisce la calunnia, un processo e infine l’esilio nel «deserto» di una metropoli, New York. Il fatto poi, che il figlio di Ismael, Ismae­ lito, porti lo stesso nome del padre, e che sia la prima persona che il protagonista in­ contra non appena arriva a La Habana, dimostra come, nonostante l’esilio, l’essenza di Ismael continui a vivere a Cuba, ringiovanita e rinvigorita nella figura del figlio. In quest’ultimo viaggio, inoltre, non solo «Ismaelito è Ismael», ma anche la mo­ glie Elvia, rimasta a Cuba, rappresenta un ulteriore sdoppiamento del protagonista. 23 Ibid., p. 76. 24 Ibid., p. 76. 25Soren Triff, Transcendencia de Reinaldo Arenas, in «El Nuevo Herald», Madrid, 22 agosto 1991, p. 13a. 26 N. Anlaht, op. cit, p. 147. 27 Cfr., Gn. 16,1 ss. 108 Un’altra immagine che contempla se stessa nella figura di Ismael a New York men­ tre questi attraverso i vetri, - così come un altro personaggio areniano, Reinaldo, protagonista del racconto Los heridos 28 aveva osservato il mondo filtrato da vetri protettivi - osserva la neve che cade e ricopre lo squallore e la solitudine di chi vive in quella metropoli. Ma esiste una differenza tra la solitudine di Ismael a New York e quella di Elvia e di Carlos che invece non hanno mai abbandonato l’isola? Elvia, dopo l’umiliazio­ ne del processo, in cui Ismael era stato condannato per aver adescato un minoren­ ne, non si era più risposata, scegliendo di vivere da sola con il figlio. Anche Carlos, pur essendosi in qualche modo inserito nella futuristica La Habana militarizzata (la lettera di Elvia a Ismael porta la data del 3 novembre 1994, mentre il romanzo Viaje a La Habana, è stato ultimato nel novembre del 1987), chiede ad Ismael eli portar­ lo via mentre «galleggiano» nel mare di La Habana. La neve che galleggia nell’aria cadendo su New York e il mare in cui galleggiano i due protagonisti-maschili del terzo racconto, accompagnano i momenti eli solitudine dei due Ismael, e rappre­ sentano un consolatore e anelato ritorno al seno materno. Il ritorno alla propria ter­ ra, alle proprie origini. La neve che Ismael vede cadere da dietro i vetri del suo ap­ partamento di New York, gli permette di rivedere galleggiare se stesso in un lonta­ no ricordo. Così come, ormai a La Habana, Ismael galleggia nelle acque del mare assieme a Carlos, e quest ultimo, eli cui non conosce ancora la vera identità, gli ri­ porta alla mente il ricordo di se stesso giovane. La sensazione di «flotar» di diluir­ si, di integrarsi, di fondersi è la stessa che Ismael proverà sin dal primo abbraccio con Carlos/Ismaelito. E quest’ultimo, con cui si unirà, non rappresenta altri che se lo stesso Ismael giovane rimasto a Cuba, perché come precisa lo stesso Arenas nel­ l’intervista da lui rilasciata a Nedda Anhalt: «[...] ogni bellezza, come diceva Rilke, è terribile, distruttiva [...] Una delle caratteristiche del mondo omosessuale è che uno cerca se stesso. Quell’amico inesistente, il compagno che uno vorrebbe, e lo si ricerca in se stessi attraverso una ricerca incessante; cerchiamo nel doppio della no­ stra identità perduta» 29 Quest’ultimo viaggio appare come un continuo alternarsi di parti in corsivo e parti in tondo, continui passaggi dalla prima alla terza persona che si concludono nell’ultimo rigo in corsivo, dove il pensiero di Ismael espresso in prima persona, si unifica ai pensieri e alle azioni degli altri personaggi: «Poi, in si­ lenzio, noi tre cominciammo a mangiare» 30. Come osserva Alastair Reid31, in Are­ nas il continuo alternarsi tra prima e terza persona sta ad indicare il passaggio da una prosa narrativa a una vera e propria meditazione poetica. Le storie si interse­ cano di continuo, facendo emergere motivi di protesta, denunce, fatti paradossali 28 L'immagine della realtà contemplata attraverso i vetri si trova anche in una lirica del 1970 dal tito­ lo Morir eri junio y con la lengua afuera (ciudad): «[...] e attraverso i vetri / guarderemo il mondo giran­ do. / Il mondo inondato / il mondo come una inquieta ruota verde / che colpisce con suoi rami / la nostra casa fugace e di vetro [...] Attraverso il vetro leggermente affumicato del veicolo / la campagna è una estensione quasi violenta / aggettivazione soggetta al nostro stato d’animo» (R. Arenas, Leprosorio, cit., p. 71, 79). 29 N. Anlaht, op. cit, p. 152. 30 R. Arenas, Viaje, cit., p. 181. 31 Alastair Red, Troublemaker in «The New York Review of Books», New York, 18 novembre 1993, pp. 23-25. 109 che a volte rasentano il grottesco. Offrendo così una realtà fin troppo articolata e fin troppo contraddittoria. Viaje a La Habana si conclude, come altre opere areniane, il giorno di Natale. «Natale festa ancestrale e unica, che si spargeva su quella regione schiavizzata, por­ tando lo spirito, sebbene le leggi lo proibissero, di un avvenimento unico. La nasci­ ta, di un bambino figlio di genitori non ben precisati e che lui, per questa ragione, considerava dei, che venne ad immolarsi, a darsi a crocifiggersi, affinché il mito del­ la vita, cioè dell’amore, non si estinguesse» 32, Il Natale, secondo Arenas, mette in­ sieme gli opposti, ed accomuna tutti: «[...] come figlio unico io ero molto solitario. Allora mi inventavo di tutto, un altro Reinaldo, nonne spaventose, a volte nobili. L’unica allegria era quando arrivavano le feste di Natale. Si festeggiava in campa­ gna, dove si riunivano tutti quei cugini e quelle zie ormai sposate, ed era il momen­ to in cui io potevo giocare con gli altri bambini della mia età» 33. Il ritrovare se stes­ si il giorno di Natale è l’annullarsi in una festa che rappresenta l’unico momento di comunicasione con gli altri, con se stessi e con il proprio destino. Rafael Enriquez foto: Kampos, offset, 1981, 51x76 cm. 32 R. Arenas, Viaje, cit., p. 168. 33 N. Anhalt, op. cit., p. 154. 110 Culture indigene Le prospettive di liberazione indigena ...u n h o m b re q u e e s tà en el c o ra z ó n d e to d a la ju v e n tu d d el m u n d o , q u e y a c a s i no le p e rte n e c e a u s te d e s ... e s tà ta n d e n tro d e n o s o tro s ta m b ié n ... (V ic to r J a ra d u ra n te un c o n c e rto a La H a b a n a , 1 9 7 2 ) È vero che gli anniversari, le ricorrenze formali spesso non servono a niente, e rischiano di produrre soltanto retorica e vuoti riconoscimenti. E vero anche, però, che alcune figure che il pensiero corrente vorrebbe ormai inattuali e destinate al­ l’oblio, o evocative solo come miti, continuano a destare interesse e, spesso, a co­ stituire un esempio h D ’altra parte la figura di Ernesto Che Guevara è tale da non permettere di perdersi in inutili celebrazioni, sempre che si voglia essere coerenti con il suo insegnamento. In particolare, il trentesimo anniversario della sua morte coincide con una congiuntura politica nuova per l’America latina, iniziata nel ’92 con le controcelebrazioni della conquista, proseguita poi con la formazione del mo­ vimento indigeno nero e popolare, e ancora con l’insurrezione del Chiapas, con gli accordi di pace in Salvador e Guatemala, fino a questo 1997 drammaticamente se­ gnato dalla vergognosa strage dei Tupac Amaru nell’ambasciata giapponese. Questi eventi, a volte accomunati semplicemente dal fatto di esprimere una net­ ta contestazione del "nuovo ordine mondiale", a volte, invece, indissolubilmente le­ gati, propongono ancora una possibilità: dichiarano apertamente che lo sviluppo diseguale e il neoliberismo non sono l’unica via percorribile, anzi, al contrario, so­ no la peggiore strada per l’umanità. Il pensiero ribelle di Che Guevara si ripresen­ ta ancora attuale come atteggiamento di fronte all’ingiustizia e come dichiarazione della necessità di lottare perché questa abbia termine. D ’altra parte, pur essendo notevolmente cambiata la scena della politica internazionale, i conflitti da lui indi­ viduati non sono stati ancora risolti, né l’imperialismo statunitense è receduto. C’è però un elemento nuovo nel panorama politico latinoamericano, e cioè l’emergere dei movimenti indigeni, che pur avendo lottato contro l’ordine costituito da quan­ do si sono insediati gli spagnoli, in questi ultimi anni hanno raggiunto un livello di1* 1 È stato il caso di Mariàtegui: nel ’94 si è celebrato il centenario della nascita con un omaggio internazionale ricco di studi e pubblicazioni. Tra le altre, «Latinoamerica» n. 54-55, aprile-settem ­ bre 1994. 111 organizzazione e una forza rivoluzionaria molto maggiori, tanto da costringere i mass-media, spesso consapevolmente omertosi, a rivolgere loro attenzione. E il ca­ so dell’Ezln, del Premio Nobel a Rigoberta Menchu, dei maya guatemaltechi impe­ gnati nel processo di pace, dei mapuche in Chile, delle organizzazioni popolari bra­ siliane.... Ebbene, con queste tematiche, con le prospettive di liberazione delle po­ polazioni indigene, Ernesto Che Guevara si è confrontato? La scoperta del mondo indigeno. Il Che è un ladino, nasce e cresce in Argentina, paese in cui gli indigeni sono sta­ ti quasi completamente sterminati, e come molti altri latinoamericani ha una cono­ scenza vaga e confusa del mondo indigeno, che gli appare completamente estraneo e altro da sé. Le letture negli anni della formazione gli parlano di un meraviglioso mondo precolombiano, ormai scomparso, di furiose guerre tra i conquistatori spa­ gnoli e le popolazioni indigene, di strategie belliche, di battaglie in cui si confron­ tavano il potere militare delle armi da fuoco degli spagnoli e la conoscenza dei luo­ ghi e le fortificazioni delle città incaiche. Il Che, come ci informa R. Massari23,trova nella biblioteca paterna i libri di viaggi e di esplorazioni, le affascinanti cronache dei primi spagnoli penetrati nel continente americano. Trova anche i libri di Bartolomé de Las Casas, che però leggerà dopo aver lasciato l’Argentina. Altre letture di argo­ mento indigeno, risalenti agli anni ’54-’55, sono i Comentarios reales dell’lnca Garcilaso e i romanzi di Ciro Alegria El mundo es ancho y ajeno e Perros hambrientos . Ancora nel ’54 il Che conosce personalmente Jorge Icaza con il quale commenta Huasipungo e discute sul destino dei contadini. Anche la lettura dei romanzi di Mi­ guel Angel Asturias, esperto di cultura maya, ha rappresentato sicuramente una spinta verso il mondo indigeno guatemalteco, anche se non è accertato che il Che abbia letto Hombres de maiz, dedicato alle lotte dei contadini maya contro lo sfrut­ tamento dei latifondisti, né la sua traduzione in spagnolo del Popol VuR}. Il percorso del Che verso la conoscenza del mondo indoamericano non è però intellettuale. Coerentemente con la sua idea di unità di teoria e prassi, il Che ri­ cerca un contatto diretto con queste popolazioni, in particolare con gli indigeni che vivono in condizioni estremamente difficili, come i lavoratori sfruttati nelle mi­ niere, i braccianti agricoli dei latifondi, e quelli emarginati e sofferenti, i malati di lebbra. Il mondo indigeno andino o quello maya di Messico e Guatemala, denun­ cia le sue drammatiche condizioni di sfruttamento agli occhi attenti del giovane Che Guevara, prima in viaggio con Granado lungo il continente latinoamericano (1952), poi in viaggio da solo in Centroamerica (1954-56), preludio all’impresa cu­ bana. Come emerge dalla progressione dei diversi spunti che offrono il diario del viaggio e le lettere ai genitori, sono le esperienze vissute, gli incontri, il visto e il vissuto a generare la riflessione politica e il desiderio di rivoluzionare lo stato at­ tuale delle cose. 2 R. Massari, Che Guevara. Pensiero e politica dell’utopia, Erre Emme, Roma 1993, pp. 23-26. 3 II Popol Vuh è un testo anonimo, scritto in quiché e ritrovato da padre Xim énez alla fine del ’700 a Chichicastenango; non è dunque un’opera di Asturias, che ne ha sem plicem ente curato la traduzione dalla versione francese di G. Raynaud. 112 La conoscenza del mondo indigeno è dunque progressiva. Pur essendo sempre in­ trise di grande umanitarismo, alcune affermazioni del Che tratte dal diario del viag­ gio con Alberto Granado sono ancora molto legate a luoghi comuni, come quello sul fatalismo della popolazione indigena. Il Che parla di "spirito sofferto e fatalista del­ l’indio delle montagne peruviane"4 capace di sopportare meglio dei bianchi i disagi dei lebbrosari; racconta di quando si trovava su un camion che trasportava mucche e Alberto aveva avvisato il ragazzino indio che le sorvegliava che il corno di una mucca stava ferendo l’occhio di un’altra, ma il ragazzino con un’alzata di spalle in cui c’era tutta la filosofia della sua stirpe, disse: “Tanto, per la merda che gli resta da vedere”, e continuò tranquillamente ad annodare una corda. 5 Un altro incontro con gli indigeni risulta particolarmente interessante perché di­ mostra in modo chiaro l’originaria estraneità del Che al mondo indigeno: una don­ na e un ragazzo indigeni si avvicinano al Che e Alberto, tirando le briglie dei caval­ li sui quali i due sono montati. Gli indigeni trasportano una grande quantità di ce­ sti e non parlano castigliano, il Che racconta di essersi rivolto loro in questo modo: “Io non volere comprare, io non volere” e avrei continuato a parlare in quel modo, se Alberto non mi avesse fatto notare che i nostri interlocutori erano quechua e non pa­ renti di Tarzan signore delle scimmie.67 Dopo aver percorso diversi chilometri seguiti dai due indigeni, finalmente spun­ ta un uomo che parla castigliano e spiega loro che quei cavalli che un tenente gli aveva “generosamente” prestato, erano in realtà della donna e del ragazzo e gli era­ no stati requisiti dai militari; e così “per puro dovere umanitario”' il Che e Alberto restituiscono i cavalli. Il Che fa una sagace ironia sul suo punto di vista esclusivamente ladino, sulla sua totale estraneità al mondo indigeno. Ma mostra anche di essere modesto, di non voler mistificare i propri comportamenti, anzi, al contrario, di fare continuamente autocritica, ponendo sempre in risalto i propri atteggiamenti che gli sem­ brano errati. Lo stesso episodio, infatti, è raccontato anche da Alberto Granado nel suo diario: l’amico del Che sottolinea, contrariamente all’altro diario, il loro sgomento nel capire che i due indigeni avevano camminato per tre ore in direzio­ ne opposta alla loro casa nel tentativo di recuperare i cavalli. Non parla di “dove­ re umanitario” ma di mortificazione, di rimorsi della coscienza, di rabbia: conti­ nuammo il nostro tragitto a piedi, commentando quel modo vergognoso di com­ portarsi da parte di coloro che, per il fatto di ricoprire una carica pubblica, si cre­ dono padroni delle vite e dei beni della gente8 4 Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, Latinoamericana. Due diari per un viaggio in mo­ tocicletta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 90. 5 Ibidem, p. 93. Mio il corsivo. 6 Ibidem, p. 89. 7 Ibidem, p. 89 8 Ibidem, p.’217 113 I piccoli episodi verificatisi durante il viaggio mostrano ai due "vagabondi" lo sfruttamento della popolazione indigena di fronte al quale inizia a maturare nel Che l’idea, ancora solamente teorica, della necessità della lotta armata9L’epopea della conquista e la tragedia dei “vinti” II giovane Ernesto, Ftiser per l’amico Alberto Granado, quando attraversa gli aspri territori del nord del Cile, può ancora entusiasmarsi per l’epopea della con­ quista, in particolare per le imprese di Valdivia, perché il suo sguardo di allora non coglie ancora il dramma delle popolazioni indigene, mentre ricorda bene le straordinarie ed eroiche avventure dei conquistatori. Il suo punto di vista è anco­ ra legato ad un modo di vedere parziale, che esalta il valore militare ed il corag­ gio degli spagnoli, mentre preferisce ignorare od occultare gli altri protagonisti del conflitto, gli indigeni, appunto. Per questo il Che, spirito avventuroso e "guer­ riero", scrive: fa una certa impressione pensare che da queste parti sia passato Valdivia col suo pugno di uomini, attraversando cinquanta o sessanta chilometri senza trovare una goccia d’acqua e neppure un arbusto per ripararsi nelle ore più calde. La co­ noscenza dei luoghi in cui passarono i conquistatori eleva l’impresa di Valdivia e dei suoi uomini all’altezza di quelle più insigni dell’intera colonizzazione spa­ gnola. 101 Il Che considera “insigni” le imprese dei conquistatori perché ancora ne valuta solamente l’aspetto militare, il coraggio. E nel corso del viaggio continuerà a consi­ derarle tali, ma all’apprezzamento del valore militare degli spagnoli si affiancherà sempre più frequentemente la constatazione della loro ignoranza e dell’avidità che ha mosso tante delle loro imprese. Ma soprattutto emergono progressivamente gli altri due esponenti del conflitto: gli Incas, con le loro fortificazioni e la loro splen­ dida civiltà, ormai ridotta a reperto archeologico; e gli indigeni contemporanei, che viaggiano insieme al Che e a Granado sui camion, che vengono trattati come bestie e che quasi sempre non parlano il castigliano. Quando arriva in Perù, il Che va a visitare Cuzco: l’ombelico del mondo gli mo­ stra con chiarezza i molteplici significati della conquista. Rilevando le contraddi­ zioni della realtà che gli si presenta, il Che scrive sul diario che ci sono due o tre Cuzco, o meglio, due o tre forme di evocazione 11 La prima evocazione è quella della civiltà precolombiana, del grande Impero dell’Inca, testimoniati dalle rovine della fortezza di Sacsahuamàn. A questo Cuzco archeologico si contrappone il piccolo paese, 9 Cfr., ad es., Ibidem, p. 209. t ° Ibidem. 10 Ibidem, p. 60. 11 Ibidem, p. 75. 114 quello dai tetti di tegole colorate la cui dolce uniformità è interrotta dalla cupola di una chiesa barocca, che scendendo ci mostra solo le sue stradine strette e i vestiti ti­ pici dei suoi abitanti e i suoi colori da dipinto caratteristico; è quello che invita a fa­ re il turista svogliato, a passare superficialmente [...]12. L’indigeno contemporaneo, come si evince da questa citazione, appare ancora come un elemento folklorico: per questo la seconda evocazione risulta essere la me­ no interessante e coinvolgente. Su questo Cuzco turistico, di nuovo emerge con pre­ potenza l’epopea della conquista; di fronte al valore delle gesta belliche dei con­ quistatori spagnoli la drammatica realtà indigena svanisce: c’è anche un Cuzco vibrante che mostra nei suoi monumenti il valore formidabile dei guerrieri che conquistarono la regione, che si esprime nei musei e nelle biblio­ teche, nelle decorazioni delle chiese e nei tratti chiari dei condottieri bianchi che ancora oggi mostrano l’orgoglio della conquista; è quello che invita a impugnare l’acciaio, e, in sella al cavallo dai fianchi larghi e dal poderoso galoppo, fendere la carne indifesa della nuda moltitudine la cui muraglia umana si disperde e scompa­ re sotto i quattro zoccoli della bestia. 13. Con il progressivo emergere delle contraddizioni della conquista, il mondo in­ digeno contemporaneo comincia ad interessare sempre di più il Che. Fùser non può fare a meno di mettere in evidenza "la stupidità del conquistatore analfabeta” 14 di fronte alla fortezza devastata, ai templi profanati e distrutti, ai palazzi saccheggiati, alla razza abbruttita. Il Che sottolinea l’avidità e la "furia cieca" degli spagnoli, il loro "piacere sadi­ co" di sostituire i templi e le fortezze degli Incas con le chiese 15. L’incommensura­ bile offesa provocata dalla devastazione dei conquistatori si esprime adesso attra­ verso le pietre grigie di quelle costruzioni che ormai non sono altro che resti ar­ cheologici che solo lasciano intuire una grande civiltà. Il pullulare di tante chiese sulle antiche costruzioni incaiche non era una semplice scelta utilitaristica ma ri­ spondeva alla precisa strategia di cancellare anche la sola possibilità di un fiero ri­ cordo. Ma, immagina il giovane Che Guevara, sotto l’indifferenza di pietra grigia delle mura incaiche scorre ancora un’ansia di liberazione e vendetta: eppure, il cuore d’America, vibrando di indignazione, trasmette ogni tanto un tre­ more nervoso nel fianco quieto delle Ande.16 provocando terremoti che più volte hanno distrutto le cupole delle chiese catto­ liche. Queste note su Cuzco, pur mostrando un ridimensionamento della figura eroica del conquistatore, ponendo l’accento sulla loro devastazione della civiltà 12 Ibidem, 13 Ibidem, 14 Ibidem 15 Ibidem, 16 Ibidem, p. p. p. p. p. 76. 76 76. 77. 78 115 incaica, insistono ancora sul dualismo vincitori-vinti. Ed è proprio questo il pro­ blema: agli occhi del giovane Che Guevara gli indigeni contemporanei più che i di­ scendenti degli antichi e potenti incas, sembrano dei vinti. La sconfitta si è traman­ data nei secoli, mentre il valore dell’antica civiltà sembra essere scomparso. Scrive infatti il Che, dopo aver conosciuto alcuni aymarà: questa che abbiamo davanti non è la stessa razza orgogliosa che si ribellava conti­ nuamente all’autorità degli Incas e li costringeva a mantenere un contingente dell’e­ sercito su queste frontiere: quella che ci guarda passare per le strade del paesino è una razza vinta. I loro sguardi sono miti, quasi timorosi e completamente indifferenti al mondo esterno. Alcuni danno l’impressione di vivere solo perché vivere è un’abi­ tudine che non ci si può togliere di dosso. 11 Nell’antica città incaica, il Che sente di trovarsi "di fronte alla pura espressione della civiltà indigena più possente d’America" che però non ha nulla a che vedere con i suoi discendenti, "rappresentanti della tribù ormai degenerata", separati da un’infi­ nita "distanza morale"1718 dai loro antenati. Gli indigeni che incontra sono costretti a viaggiare nel vagone per il bestiame o sui camion, ammassati come animali, esposti al sole o alla pioggia, in condizioni igieniche terribili: il vagone per loro è di quelli che in Argentina vengono usati per il bestiame, solo che è molto più gradevole l’odore di letame di vacca che quello di escrementi umani, e il concetto, un tantino animale, che gli indigeni hanno del pudore e dell'igiene, fa si che questi facciano i loro bisogni (senza distinzioni di sesso o di età) al margine della stra­ da, si puliscano con le sottane le donne e con niente gli uomini, per poi proseguire come se nulla fosse. I vestiti delle donne indie che hanno bambini sono veri ricetta­ coli di sostanze escrementizie, perché li usano per pulire i piccoli ogni volta che van­ no di corpo.19 Poi commenta: Ovviamente, delle condizioni di vita di questi indios, i turisti che viaggiano sui loro comodi veicoli, non avranno che una vaga idea, appena un’immagine captata pas­ sando a tutta velocità accanto al nostro treno fermo.20 Ho voluto isolare la conclusione perché mi sembra molto significativa: dimostra infatti l’importanza del viaggio di formazione di Che Guevara, l’importanza dell’e­ sperienza vissuta e degli incontri per assumere una coscienza politica. È infatti un altro incontro, quello con il responsabile del museo archeologico di Cuzco, che lo fa riflettere sulle possibilità reali di riabilitare la popolazione indigena e gli mostra il filo che lega l’antico splendore con l’attuale miseria: 17 Ibidem, 18 Ibidem, 19 Ibidem, 20 Ibidem, 116 p. 68. p. XI. pp. 85-86. p. 86. Ci parlava del passato splendore e dell’attuale miseria, dell’assoluto bisogno di educare gli indigeni come primo passo verso una totale riabilitazione, della necessità di elevare rapidamente il livello economico della sua stirpe, come uni­ ca maniera di mitigare l’effetto soporifero della coca e dell’alcol, di favorire, in­ fine, l’aperto riconoscimento dei quechua e far sì che gli individui appartenen­ ti a questa etnia si sentissero orgogliosi, guardando al proprio passato, e non si vergognassero, vedendo il presente, di essere parte della comunità indigena o meticcia 21. Il Che non solo condivide le parole del direttore del museo, ma sembra profon­ damente colpito: I tratti semi-indigeni del responsabile e i suoi occhi brillanti di entusiasmo e di fede nel futuro si aggiungono agli altri pezzi del museo, ma di un museo vivo, che mostra una razza ancora in lotta per la propria identità. 22 La potenzialità rivoluzionaria degli indigeni. Precedentemente il Che aveva già colto l’orgoglio di quegli indigeni che sento­ no di appartenere, nonostante tutto, all’antica civiltà incaica e non hanno rinnega­ to le proprie origini. Nella processione dedicata al Signore dei Terremoti, il Che di­ stingue gli indios che indossano i propri abiti e gli ornamenti tradizionali, "espres­ sione di una cultura o di un modo di vivere che si basa su valori ancora ben radica­ ti"23; e gli indios vestiti alla maniera europea: i volti stanchi e sdolcinati rievocano l’immagine di coloro che non ascoltarono il ri­ chiamo di Manco e si piegarono a Pizzarro, soffocando nella degradazione del vin­ to l’orgoglio di una stirpe indipendente. 2425 E questa razza ancora viva che contiene la possibilità di riscatto. Riconoscere questa vitalità è fondamentale nell’elaborazione del pensiero teorico del Che; come diceva Mariàtegui, la realtà indigena è viva e in processo di trasformazione, e pro­ prio a partire da questa constatazione può essere considerata una forza potenzial­ mente rivoluzionaria. Perciò, quando il Che riconosce la realtà indigena come for­ za sociale, l’interesse per i quechua o i maya, dapprima antropologico o archeolo­ gico, si trasforma rapidamente in questione sociale, ossia in problema di lotta di classe, questione rivoluzionaria. Come dice giustamente Massari, il Che non si avvicina immediatamente agli in­ digeni come marxista, non vede subito in loro un enorme potenziale proletario o di 21 Ibidem, 22 Ibidem, 23 Ibidem, 24 Ibidem, p. p. p. p. 86. 86. 82. 82. 25 R. Massari, El humanismo revolucionario del Che, in AA.VV., Guevara para hoy, Erre Emme, Roma 1994, p. 18. 117 lavoratori sfruttati 25: questo accade solo dopo aver compreso che essi non sono sol­ tanto dei vinti, ma dei possibili rivoluzionari. Non si tratta, dunque, di stabilire se la visione del futuro delle popolazioni indi­ gene sia ottimistica o meno, come fa Massari (54); piuttosto si tratta di capire se per il Che gli indigeni costituiscono un soggetto politico distinto e peculiare o sempli­ cemente ingrossino le file del proletariato; se ravvisi un contrasto tra lotta di classe e affermazione etnica, se ritenga che l’emancipazione degli indigeni sia il primo pas­ so verso la rivoluzione o una conquista della rivoluzione. Questi quesiti, estremamente complessi, non trovano risposte esplicite nell’opera scritta di Che Guevara. Per questo qui si procederà avanzando delle ipotesi, che vogliono essere solo un sti­ molo ad una riflessione sul tema del rapporto tra il guerrillero eroico e le popola­ zioni indigene. Il Che sa che sull’uomo agiscono le leggi del capitalismo senza che questi se ne avveda26, ma sostiene, d ’altra parte, che le verità sociali del marxismo possono fa­ cilmente entrare a far parte della cultura e della coscienza dei popoli, e quindi so­ no facilmente accettabili2'. È lo stesso che accaduto con la matematica che prima era indù, araba o cinese, poi ha valicato i confini per divenire universale, secondo il noto processo di accumulazione del sapere28. Il problema non è dunque etnico: gli indigeni hanno bisogno di riconoscere la propria condizione di sfruttati, di scoprir­ si parte della società capitalista che li opprime. E proprio all’interno delle contrad­ dizioni della società capitalista che si sviluppa il potenziale rivoluzionario degli in­ digeni. Dice a questo proposito Mariàtegui: “La tesi secondo cui il problema indigeno è un problema etnico, non merita neppure di essere discussa [...] Le possibilità che l’indio si elevi dal punto di vista materiale ed intellettuale dipendono dal cambiamento delle condizioni economico-sociali. Non sono determinate dalla razza ma dall’economia e dalla politica. La razza da sola non si è svegliata, né potrebbe risvegliarsi, fino a comprendere un’i­ dea emancipatrice. Soprattutto non acquisirebbe mai il potere di imporla e realiz­ zarla. Ciò che assicura la sua emancipazione è il dinamismo di un’economia e di una cultura che hanno nelle loro viscere il germe del socialismo [...]. Il dinamismo di quest’economia [capitalista], di questo regime che rende instabile ogni rappor­ to e che, oltre alle classi contrappone le ideologie, è senza dubbio ciò che rende possibile la resurrezione indigena, un evento deciso dal gioco di forze economiche, politiche, culturali, ideologiche, non di forze razziali. [...] 29 Il Che propone una riscoperta di sé come soggetto capace di un’autentica azio­ ne che sia sociale ed eversiva allo stesso tempo: è, questo, il processo della “uma­ nizzazione rivoluzionaria”. Perle popolazioni indigene questa riscoperta parte dal- 26 Ernesto Che Guevara, Opere, Feltrinelli, Milano 1968-69, voi. Ili, p. 12. 27 cfr. Che Guevara, Notas para el estudio de la ideologia de la Revolución cubana, in «Ver­ de olivo», 8 ottobre 1960. 28 Ibidem. 29 J C. Mariàtegui, Il problema delle razze in America latina, in «Latinoamerica», n. 54-55, apri­ le settembre 1994, pp. 88-89. 118 la riappropriazione della propria identità indigena e nello stesso tempo anche del loro spirito ribelle. La rivalutazione della propria tradizione millenaria non va dun­ que intesa in senso passatista, ma in senso rivoluzionario, secondo la nota distin­ zione operata da Mariàtegui tra tradizione e tradizionalismo 5tì. Il recupero della soggettività è infatti anche recupero della propria storia; e la storia indigena è in­ tessuta di rivolte contro lo sfruttamento e l’oppressione del potere colonialista. Per il peruviano la tradizione è in continua crescita e trasformazione ed un processo ri­ voluzionario autentico non può ignorarla. E siccome la tradizione è composta so­ prattutto dal patrimonio indigeno - ma anche da altre componenti, comprese le colonia e la Repubblica -, la rivendicazione della partecipazione del soggetto indi­ geno è opera dei rivoluzionari e non dei tradizionalisti. Come è noto, Mariàtegui sosteneva l’importanza della partecipazione del mon­ do indigeno ai processi rivoluzionari. Secondo lui, infatti, la condizione feudale del­ l’economia rurale dell’America latina si fonda sullo sfruttamento dei nativi: il pre­ giudizio dell’inferiorità della razza indigena permette al capitalismo il massimo sfruttamento del lavoro, e quindi grandi profitti ai quali non è certamente disposto a rinunciare. Non solo: la lotta degli indigeni è inscindibilmente legata all’interna­ zionalismo rivoluzionario perché per l’imperialismo yankee o inglese, il valore economico di queste terre sarebbe mol­ to minore se oltre alla loro ricchezza naturale non possedessero una popolazione in­ digena arretrata e miserabile che, con l’appoggio della borghesia locale, si può sfrut­ tare al massimo 301 Sa che questo ruolo che riconosce alla popolazione indigena riguarda in parti­ colare alcuni paesi latinoamericani: Il problema delle razze non è comune a tutti i paesi dell’America latina, né pre­ senta in tutti quelli che lo vivono le stesse proporzioni e gli stessi caratteri. [...] Ma in paesi come il Perù e la Bolivia, e un po’ meno in Ecuador, dove la maggior parte della popolazione è indigena, la rivendicazione dell’indio è la rivendicazio­ ne popolare e sociale dominante. In questi paesi il fattore razza si complica con il fattore classe in modo tale che una politica rivoluzionaria non può evitare di prenderlo in considerazione. L’indio quechua e aymarà vede il suo oppressore nel "misti", nel bianco. E nel meticcio, soltanto la coscienza di classe è capace di di­ struggere l’abitudine al disprezzo, alla repulsione nei confronti dell’indio. [...] 32 Cuba, ovviamente, non è tra questi. Che Guevara, che conosce personalmen­ te l’esperienza rivoluzionaria cubana, non affronta esplicitamente il problema. La permanenza in Guatemala e in Messico gli aveva permesso di conoscere la realtà 30 cfr. A. Melis, Tradizione e modernità nel pensiero di Mariàtegui, in «Latinoamerica» n. 58, maggio-agosto 1995, pp. 29-40. 31 J. C. Mariàtegui, Il problema delle razze in America Latina, cit., p. 86. 32 Ibidem, p. 89. Ai paesi citati vanno naturalmente aggiunti non solo quelli dell’area maya e del­ l’area guarani. 119 indigena centroamericana e di coltivare la sua passione per l’archeologia 33, ma la nuova attività politica con il Movimento 26 Luglio aveva definitivamente inter­ rotto l’avvicinamento a questi due diversi piani della cultura indigena. L’inizio dell’attività guerrigliera e il trionfo della rivoluzione cambiano definitivamente l’oggetto della sua riflessione. A Cuba il Che conosce il mondo dei neri, con le sue peculiarità, ma non entra più in contatto con gli indigeni che stava imparando a conoscere. D’altra parte, proprio Cuba gli offre un esempio di avanzato processo di mescolanza delle razze. Molte delle posizioni espresse dal Che devono dunque essere considerate in stretta relazione con la realtà e i problemi contingenti della Cuba rivoluzionaria. Ad esempio, è apertamente contrario non solo ad una riforma agraria che preveda la piccola proprietà terriera individuale, ma anche ad altre forme di proprietà di ti­ po collettivista. Nella discussione sulla Riforma agraria da realizzare a Cuba, il Che si contrappone nettamente alle posizioni di Humberto Sori Marin, allora ministro dell’agricoltura, proponendo la totale nazionalizzazione delle terre espropriate at­ traverso la costituzione di un grande settore di proprietà statale che non lasciava alcun margine di esistenza alla proprietà individuale.34 Questa posizione è natu­ ralmente in netto contrasto con le rivendicazioni delle lotte indigene, antiche e mo­ derne, che reclamano innanzitutto il diritto alla proprietà collettiva della terra. Per il contadino indigeno la terra ha un valore primordiale, è un fattore costitutivo del­ l’identità. La presunta “estinzione” della classe contadina non è dunque assolutamente pensabile in un programma rivoluzionario autenticamente indigeno. Indigeni e contadini. Si può però ipotizzare che nelle sue analisi, fondate sul conflitto di classe, il Che associ la realtà indigena alla realtà rurale. Nel diario di Bolivia, ad esempio, solo una volta parla di “indiani” 35, in tutti gli altri casi parla sempre di “contadini”, non di “indigeni”, come se la loro appartenenza etnica fosse un dato marginale rispetto al­ la loro appartenenza alla più generale classe di sfruttati36. Lo stesso fa Fidel Castro nella sua introduzione al Diario: i suoi [del Chel contatti con i contadini boliviani furono numerosi. Il loro carattere, assai diffidente e prudente, non poteva sorprendere il Che, che conosceva perfetta­ mente la loro mentalità giacché li aveva conosciuti in altre occasioni e sapeva che, per attirarli alla sua causa, era necessario un lavoro prolungato, irto di difficoltà e pa­ ziente; ma non aveva il minimo dubbio che alla lunga vi sarebbe riuscito.37 33 cfr. Le lettere alla madre del '53-54. 34 Si rimanda a Michel Gutelman, La politica agraria della rivoluzione cubana 1959-1968, Tori­ no 1969. 35 Ernesto Che Guevara, Diario in Bolivia, Feltrinelli. Milano p. 101. 36cfr. i resoconti dei giorni 9-10 febbraio; 16, 17, 19, 22 aprile; 26, 31 maggio; 29 giugno; 5, 14, 20, 24 agosto; 3, 18, 22, 25, 26 settembre; e i riepiloghi di ciascun mese, in Ernesto Che G ueva­ ra, Diario in Bolivia, cit. 37 Fidel Castro, Un’introduzione necessaria, in Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 14. 120 È chiaro che i “contadini boliviani” di cui parla Fidel comprendono (se non lo sono tutti) gli indigeni. E che quindi il Che aveva una grande fiducia nella loro pos­ sibilità di riscatto e adesione alla lotta guerrigliera. Gli indigeni, per il Che, non costituiscono dunque una peculiarità ma un sog­ getto sociale che può percorrere la propria strada verso la maturazione rivoluzio­ naria. Se consideriamo la popolazione rurale e gli indigeni un tutt’uno nel pensiero del Che, è interessante vedere cosa abbia scritto a proposito della classe contadina. Secondo Che Guevara erano i contadini la classe che avrebbe fatto scoppiare la ri­ voluzione, perché, influenzato dall’esperienza peronista, credeva che gli operai po­ tessero essere facilmente vittime del burocratismo della società capitalistica 3S. Un’i­ dea simile apparteneva a tanti altri teorici della rivoluzione, come Frantz Fanon, Herbert Marcuse. La rivoluzione, però, si sarebbe dovuta estendere a tutte le altre classi sfruttate per trasformarsi in lotta mondiale contro il capitalismo. Siccome nel­ la visione internazionalista del Che (e di Mariàtegui) il capitalismo è un sistema mondiale imperialista che opprime le masse, la lotta anticapitalista è inevitabilmen­ te anche lotta antimperialista. La rivoluzione, dunque, pur avendo come forza mo­ trice i contadini, deve essere pluralista e di massa. Questa idea coincide con alcune proposte di Frantz Fanon: Il ceto contadino è lasciato sistematicamente in disparte dalla propaganda della mag­ gior parte dei partiti nazionalisti. Ora è chiaro che, nei paesi coloniali, soltanto il ce­ to contadino è rivoluzionario. Non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Il contadino, il declassato, l’affamato, è, degli sfruttati, quello che scopre più presto che soltanto la violenza è rimuneratrice. Per lui non c’è compromesso, non c’è possibilità di accomodamento. La colonizzazione o la decolonizzazione, è semplicemente un rapporto di forze3839 Questa corrispondenza è interessante non tanto per una (scontata) consonanza tra i due, ma perché nell’analisi della realtà africana di Fanon "contadini" ed "indi­ geni" sono identificati. E la realtà coloniale descritta è, per molti aspetti, la stessa realtà latinoamericana neo-colonizzata dall’imperialismo latinoamericano. I contadini sono considerati la forza sociale più facilmente coinvolgibile nella lot­ ta armata per le condizioni di miseria in cui vive e per il desiderio di terra che li pone frontalmente e chiaramente contro il latifondista. Anche Sartre scrive: in queste contrade in cui il colonialismo ha deliberatamente arrestato lo sviluppo, il ceto contadino, quando si rivolta, appare prestissimo come la classe radicale. 40 In realtà la posizione del Che sulla popolazione contadina è più sfumata e quin­ di difficilmente semplificabile. Nella sua analisi, infatti, i contadini pur sviluppan­ do una certa coscienza di classe a partire dal conflitto con il grande proprietario ter­ riero, non costituiscono un soggetto autonomo di trasformazione sociale, anche se, 38cfr. Almeyra e E. Santarelli, Che Guevara. Il pensiero ribelle, Datanews, Roma 1993, p. 25. 39 F. Fanon, / dannati della terra, Einaudi, Torino 1961, p. 25. 40 J. P. Sartre, Prefazione F. Fanon, / dannati della terra, cit., p. X. 121 naturalmente, sono ottimi alleati delle classe operaia e, come si è detto, base del re­ clutamento militare e della mobilitazione. La direzione della rivoluzione deve ne­ cessariamente essere operaia, secondo quanto afferma il Che: Il contadino fa parte di una classe che, in seguito allo stato di incoltura in cui egli è mantenuto e all’isolamento in cui vive, ha bisogno della direzione rivoluzionaria e politica della classe operaia e degli intellettuali rivoluzionari, direzione senza la qua­ le non potrà, da solo, lanciarsi nella lotta e conquistate la vittoria. 41 Questa idea del Che, d’altra parte, trova un preciso riscontro nello sviluppo dei partiti di sinistra e nei movimenti politici della Bolivia che prepararono la rivolu­ zione del ’52. Nel ’53 il Che è appunto in Bolivia e conosce le organizzazioni po­ polari in rapida crescita sotto il governo di Paz Estenssoro, fondatore del MNR (Movimiento Nacional Revolucionario). Questo è particolarmente interessante per il nostro discorso perché il MNR aveva elaborato un progetto politico che mirava all’integrazione di quechua e aymarà trasformando l’indio in contadino, mentre i movimenti indigeni collaboravano con i sindacati urbani e minerari. Questa inte­ grazione, che caratterizza ancora la lotta dei popoli quechua e aymara; pur susci­ tando continuamente dibattiti e perplessità nella popolazione indigena, si basa su un dato di fondamentale importanza: il movimento sindacale contadino ha da sem­ pre assunto un simbiotico adattamento all’organizzazione sociale tradizionale an­ dina. In molte comunità i leader sindacali sono infatti identificabili con le autorità tradizionali4243.Nel processo rivoluzionario boliviano, sotto la guida di Juan Lechin, i contadini e i minatori indigeni irrompono con fiducia nella vita politica e sociale del paese, presentando contemporaneamente la forza esplosiva della lotta di clas­ se e delle rivendicazioni indigene. Il Che aveva conosciuto questo progetto rivolu­ zionario e ne aveva verificato la forza: l’integrazione delle istanze politiche dei con­ tadini sfruttati con quelle etniche degli indigeni sfruttati diventa dunque un ele­ mento fondante dell’azione rivoluzionaria. Per il Che la lotta di liberazione in Bolivia era parte di un processo rivoluziona­ rio antimperialista che si sarebbe dovuto estendere agli altri paesi latinoamericani, e che avrebbe dovuto coinvolgere tutti coloro che volevano lottare contro lo sfrut­ tamento capitalista. Tra questi, nella prima fase boliviana, trattandosi di un paese andino, la popolazione indigena avrebbe dovuto costituire la maggioranza. Per que­ sto il Che e i suoi compagni imparavano il quechua 4}. Tra le critiche mosse al pensiero del Che e di altri dirigenti cubani c’è quella di non aver approfondito l’analisi di realtà profondamente diverse da quella cubana, nelle quali, ad esempio, i rapporti fossero ancora precapitalistici oppure avesse un’impor­ tanza determinante il fattore etnico. Come dice G. Almeyra, gli esiti negativi delle espe­ rienze in Congo e Bolivia trovano, tra le altre, una spiegazione in questa insufficiente 41 Ernesto Che Guevara, La guerra di guerriglia: un metodo, in Idem, Opere, Feltrinelli, Milano 1968-69, voi. 1, p. 398. 42cfr. M. C. Barre, Ideologias indigenistas y movìmientos indios, Siglo XXI, 1983; D. Pacheco, El indianismo y los indios e contemporaneos en Bolivia, Hisbol/Musef, La Paz 1992. 43cfr. Che Guevara, Diario in Bolivia, cit., p. 48. 122 conoscenza delle dinamiche storiche politiche di questi paesi 44. È lo stesso errore commesso dalla prima fase della formazione guerrigliera guatemalteca, esclusivamen­ te ladina. Con l’estensione del conflitto, la popolazione indigena maya è entrata pro­ gressivamente a far parte della guerriglia, fino ad offrire il suo fondamentale contribu­ to negli accordi di pace attraverso l’Assemblea della Società Civile. E il segno che for­ se solo adesso la situazione indigena, giunta al culmine del conflitto, è diventata inter­ locutrice imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario. L’esperienza rivolu­ zionaria di Che Guevara, con la sua ricchezza umana ed etica, va dunque giudicata nel contesto socio-politico del suo tempo. Ma l’insegnamento etico della sua vita, della sua esperienza umanissima, restano come esempi vivi per tutte le lotte rivoluzionarie: Pur rappresentandone il culmine, l’esperienza e la direttrice guerrigliera di impron­ ta guevariana va vista e giudicata nel rapporto dinamico che si viene a stabilire fra la rivoluzione cubana e l’America latina in generale, costituendo così un capitolo di no­ tevole signilicato per la storia sociale del subcontinente 45. Anche se il Che non ha dedicato un’attenzione privilegiata al mondo indigeno, questo è stato sempre presente nelle sue prospettive di liberazione. Si può allora di­ segnare una linea, non troppo immaginaria, che inizia con i grandi libertadores, co­ me Bolivar, Marti e Sandino, culmina con il Che, ma non s’interrompe, perché at­ traverso diverse forme di lotte, prosegue. Ad esempio, attraverso Victor Jara, che lo ha conosciuto e ne ha condiviso gli ideali fino al sacrificio della vita; e si ricongiun­ ge con la popolazione indigena mapuche, con la quale Victor Jara ha lavorato e che adesso, con rinnovata forza, è impegnata in una dura lotta contro le multinazionali che in nome del profitto e del progresso a senso unico devastano l’ambiente cileno. Una linea, dunque, che ricongiunge l’esempio di Che Guevara con il mondo indi­ geno, l’internazionalismo, la rivoluzione. Emanuela Jossa Autonomia indigena e diritti di cittadinanza In te rv e n to p re s e n ta to a n o m e d e ll’A s s . C u lt. Im a g o M u n d i al F o ru m In te rn a ­ z io n a le di R ed - R o m a , 8 m a rz o 199 7 Il concetto di “autonomia”, così prepotentemente e talvolta drammaticamente alla ribalta della scena politica europea, in America latina viene utilizzato per desi­ gnare aspirazioni ed obiettivi differenti e solo apparentemente senza una reciproca connessione concettuale e politica: - l’autonomia delle realtà amministrative locali e - l’autonomia rivendicata dai popoli indigeni. 44 G. Almeyra e E. Santarelli, op. cit., p. 33 45 E. Santarelli, Che Guevara, Il pensiero ribelle , cit., p. 50. 123 Un’autonomia, quest’ultima, dalle profonde implicazioni per la vita dell’intera comunità statale e strettamente correlata con l’autonomia locale, nel cui processo di formazione si inserisce con la propria specificità, contribuendo al cambiamento del­ lo stato, al suo decentramento amministrativo e ad una maggiore possibilità di par­ tecipazione democratica per tutti i cittadini. Nel quadro delle connessioni tra l’affermazione dei diritti di cittadinanza, il de­ centramento amministrativo 1 e la salvaguardia dell’identità culturale dei differenti gruppi etnici e sociali, il tema dell’autonomia indigena non riveste un carattere poli­ ticamente superato, residuale di situazioni ereditate dall’epoca coloniale e divenute irrimediabilmente anacronistiche rispetto agli obiettivi gestionali degli stati moderni. L’autonomia indigena è non solo un tema di grande attualità, ma è destinata a diventare uno dei “nodi” politici più importanti del prossimo futuro, quello che riassume ed evidenzia tutte le contraddizioni della società moderna, sempre meno identificabile, nella sua espressione politica, con lo stato-nazione, omogeneo (ed omogeneizzante) per cultura, razza e princìpi fondanti la sua progettualità politico­ economica. L’ambiguità con cui viene correntemente utilizzato il termine “cultura”, ha cau­ sato una situazione paradossale in alcuni paesi latinoamericani, le cui costituzioni riconoscono formalmente l’esistenza di una situazione di “multiculturalità”; ricono­ scono, cioè, la legittimità dell’esistenza e la conseguente legittimità di espressione di culture differenti, presenti all’interno del corpo nazionale. Di fatto, però, viene riconosciuto il diritto all’espressione di una cultura dimez­ zata, che si può esprimere solo nelle sue forme esteriori (J’uso della lingua, dell’ab­ bigliamento tradizionale, della celebrazione del culto e delle feste comunitarie), ne­ gando l’espressione e la realizzazione, nella concretezza quotidiana, dei suoi princì­ pi e valori costitutivi, che informano le relazioni tra le persone, tra gli esseri umani e l’ambiente, tra il contingente ed il trascendente. Non vengono quindi riconosciuti né il diritto ad una gestione autonoma di un proprio territorio, inteso come l’ambito indispensabile all’esistenza stessa degli ele­ menti di identità, cultura, organizzazione sociale, né quello di una gestione delle ri­ sorse economiche, che non corrisponda alle finalità della politica economica statale. Le rivendicazioni indigene per una effettiva autonomia gestionale delle proprie comunità e della loro economia incontrano attualmente ostacoli che, per la loro natura oggettiva, si presentano ancora più difficili da superare che non quelli che venivano frapposti dai pregiudizi culturali che segnarono, fin dalla loro nascita, gli stati nazionali. Pregiudizi che spiegavano le miserevoli condizioni di vita delle popolazioni in­ digene, addossandone la responsabilità dapprima a presunti fattori genetici e suc­ cessivamente, superata questa fase brutalmente razzista, al modello sociale ed alla stessa cultura indigeni, colpevoli del mancato sviluppo (beninteso uno sviluppo concepito secondo i canoni dei paesi dominanti) delle società latinoamericane. 1 II senso del decentramento amministrativo, così come viene inteso in questo scritto, è quello di una relazione più democratica tra i cittadini e lo stato e non quello che si esprime, nella sua forma degenerata, come un allentamento dei vincoli di solidarietà nazionale nei confronti delle situazioni lo­ cali, che vivono una situazione economicamente arretrata rispetto al livello medio nazionale. 124 Da questa convinzione nasceva la necessità di “civilizzare” gli indigeni, trasmet­ tendo loro la “vera” cultura (la cultura occidentale) e facendo in modo che perdes­ sero la propria identità, concepita come un ostacolo insormontabile alla propria “elevazione” ed alla loro partecipazione allo sviluppo dell’intero paese. Era necessario, secondo la felice espressione di Guillermo Bonfil, che “gli indi­ geni cessassero di essere indigeni”. Le culture indigene, anche se molto faticosamente ed in ambiti ancora troppo ri­ stretti, stanno ottenendo il riconoscimento della propria esistenza e della pari di­ gnità rispetto a differenti percorsi evolutivi, ma continuano a costituire un ostacolo per i progetti di modernizzazione, cioè di adeguamento alle esigenze sovranazionali, degli stati latinoamericani, le cui classi dirigenti considerano la diversità cultura­ le che caratterizza i loro paesi come un pericoloso elemento di frantumazione ed ar­ retratezza sociale. Ne è logica conseguenza il fatto che, se da un lato si accetta la multiculturalità, intesa riduttivamente come un insieme di manifestazioni culturali differenti da quelle della società globale e ridotte a pure espressioni folkloriche, dall’altra viene negata ai popoli indigeni una autonoma gestione sociale, che comprenda l’ammini­ strazione della giustizia secondo le proprie consuetudini e l’elezione di propri rap­ presentanti sia a livello di comunità che nelle istituzioni statali, con la recente, im­ portantissima eccezione dell’Ecuador. Il raggiungimento di una effetiva autonomia incontra ostacoli di obiettiva diffi­ coltà, quali la necessità di integrare la propria economia in quella nazionale e l’at­ tuale processo di perdita di autonomia decisionale da parte dei singoli stati, le cui politiche economiche devono rispondere ad interessi e sottostare a direttive sovranazionali. In un sistema politico ed economico largamente omogeneo a livello internazio­ nale, non c’è attualmente spazio per esperienze discordanti, che si pongono come radicalmente alternative e, conseguentemente, dirompenti nei confronti del sistema dato, del quale costituirebbero, con la loro stessa realizzazione, una messa in di­ scussione profonda. Lo stretto intreccio tra le rivendicazioni di autonomia indigena e quelle per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza è evidenziato dall’esperienza di alcuni paesi (in particolare il Messico e l’Ecuador), nei quali le organizzazioni indigene hanno saputo esprimere anche le rivendicazioni e le aspirazioni politiche ed eco­ nomiche dei ceti popolari, delle organizzazioni sindacali e dei movimenti non in­ digeni, divenendo un interlocutore ed un alleato imprescindibile nelle lotte sociali e politiche. In questi casi, le lotte per il riconoscimento dei diritti indigeni si configurano og­ gettivamente, a volte anche oltre le intenzioni e le finalità immediate degli stessi pro­ tagonisti, come lotte per il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza, dei di­ ritti politici di tutti i cittadini, a qualunque cultura ed a qualunque gruppo etnico appartengano. Diritti il cui godimento effettivo non può che basarsi sul riconoscimento e l’af­ fermazione delle differenze coesistenti all’interno dello stato nazionale. L’autonomia indigena rappresenta quindi un obiettivo, la cui valenza travalica l’interesse particolare di specifici gruppi etnici, per investire l’insieme della comunià nazionale ed il sistema economico sovranazionale, dato che sia lo stato, nella sua 125 forma attuale, che il mercato internazionale sono intrinsecamente integrazionisti, tendenti alla cancellazione e non all’accettazione delle differenze storiche, culturali e di obiettivi economici. L’Ezln chiapaneco ha ampiamento dimostrato di avere correttamente colto il nesso importante tra la situazione economico-sociale dei popoli indigeni (non solo quella attuale, ereditata dal passato, ma ancora di più quella che si prefigura per il futuro) e l’applicazione delle direttive economiche internazionali. La convocazione del 1° Incontro Intercontinentale contro il neoliberismo non è stata l’espressione di una generosa utopia, venata da un pizzico di follia, ma il risultato di un’analisi condotta con rigorosa coerenza, a partire dal diritto indige­ no di esprimere e di vivere pienamente e liberamente la propria diversità, frutto di differenti percorsi storici e culturali e della diversa concezione e progettazione del proprio futuro collettivo; diversità che sono rimaste vive e capaci di trasmet­ tersi attraverso le generazioni, nonostante i secoli di esclusione e negazione. Non credo sia un caso che le trattative di pace in Guatemala ed i colloqui tra Ezln e governo in Messico, abbiano subito delle lunghe battute di arresto pro­ prio sul tema dei diritti e delle culture indigene. Non poteva certamente sfuggi­ re ad entrambi i governi l’intrinseca pericolosità di queste rivendicazioni, poten­ zialmente destabilizzanti i rapporti tra il potere statale centrale ed i cittadini, da­ to il loro apporto fondamentale alla elaborazione di modelli alternativi di orga­ nizzazione sociale e statale. Il diritto a vivere armoniosamente una doppia identità, quella etnica e quella di cittadino, deve essere garantito non solo come salvaguardia di un inalienabile diritto individuale e collettivo ma, soprattutto, come fondamento indispensabile allo sviluppo armonico di ogni società multirazziale. E’ auspicabile che gli appar­ tenenti ai popoli indigeni si sentano pienamente partecipi della vita nazionale e non rinuncino a rivendicare il proprio incondizionato godimento dei diritti di cit­ tadinanza: non solo il diritto alla diversità, ma anche quello alla costruzione e par­ tecipazione al progetto politico della società globale, dato che hanno dato una va­ lida prova della loro capacità di interpretare le esigenze profonde della società nel suo complesso, come si è verificato in Messico con la richiesta dell’Ezln di una maggiore democratizzazione della vita politica del paese ed in Ecuador, dove il Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakutik, partecipando al processo elet­ torale, ha dimostrato di sapere coniugare la lotta etnico-culturale per i diritti in­ digeni, la lotta sociale per la terra e la lotta politica per la partecipazione al go­ verno dell’intera società. Una partecipazione politica (nel senso più ampio e comprensivo del termine) che non nasce da una strategia, ideologicamente predeterminata, di occupazione del potere statale, bensì dalla concretezza dei bisogni specifici, soddisfabili da un sistema di autonomie locali, che non sia solo il risultato di scelte di pura razio­ nalizzazione amministrativa, ma l’espressione della volontà di rendere concreto un progetto di convivenza, che permetta l’espressione delle diversità e delle po­ tenzialità insite nelle differenti identità culturali: quella urbana, rurale, popola­ re ed indigena. Per la crescita dell’intera società civile in America latina è indispensabile l’ap­ porto dei movimenti e delle organizzazioni indigene, che hanno saputo esprimere le rivendicazioni, le aspirazioni e le speranze di tutti i settori emarginati, proponen126 do una differente concezione del diritto di cittadinanza e di reale autonomia, im­ plicante il diritto all’autodeterminazione delle proprie forme di organizzazione so­ ciale e del diritto di essere protagonisti in una società più basata sulla cooperazione che sulla competitività conflittuale. La difficile sfida posta dalla rivendicazione di una reale autonomia gestionale, avanzata dai popoli indigeni latinoamericani, è quella di fare coesistere in modo com­ plementare le due identità, di cittadini a pieno titolo di uno stato moderno e quella di appartenenti a popoli che si differenziano dalla società globale per storia e cultura. Il compito si presenta estremamente difficoltoso ma sicuramente affascinante e la posta in gioco non è ristretta ai pur legittimi interessi dei popoli indigeni: con­ cerne la possibilità stessa della sopravvivenza di un mondo, dove sia reso possibile a tutti esprimere la propria identità nella differenza. Il superamento del concetto di stato-nazione, garante dei diritti di cittadinanza solo nei riguardi dei soggetti assimilati in una omogeneità razziale, linguistica e cul­ turale, apre nuove possibilità di convivenza civile anche in paesi in cui le minoran­ ze sono attualmente rappresentate dagli immigrati dai paesi più poveri. In una fase storica che prevede il progressivo abbattimento delle barriere nazio­ nali, le rivendicazioni dei popoli indigeni sollevano problematiche di stringente at­ tualità non solo per l’America latina: - una visione più “laica” dello stato, concepito come comunità di cittadini e non come espressione di un gruppo definito per cultura e tradizioni storiche; - conseguente redifinizione del ruolo dello stato e dei rapporti sociali; - riequilibrio tra garanzia dei diritti individuali e dei diritti collettivi, compresi quelli attinenti le diverse comunità esistenti all’interno dello stato. Obiettivi sui quali sarebbe bene riflettere anche nel Vecchio Mondo. Mariella Moresco Fornasier 127 V ldffir* <w la M art ! V ic to r y o r B ca th ! Rafael Morante, offset, 1971, 34x54 cm. 128 Recensioni e schede Maria Rosaria Stabili, Il sentim ento aristocratico: élites cilene allo specchio (1860-1969), Lecce, C o n ­ g e d o E d ito re 1996, pp. 44 2. Le élites cui fa riferimento il titolo corrispondono sostanzialmente alle oligarchie, che percepiscono storica­ mente se stesse come apparentabili al­ l’aristocrazia europea d ’età moderna (altro elemento che compare già nel frontespizio), cioè a quelle classi che hanno dominato il quadro politico, economico e sociale cileno sino a qua­ si la metà del XX secolo. Il volume dato alle stampe da Maria Rosaria Stabili con l’intento di andar andando - cioè di effettuare un vaga­ bondaggio , ma fermandosi a riflettere per poi raccontare - , rappresenta qua­ si il coronamento di una preoccupa­ zione intellettuale dell’autrice (anzi, di un vero e proprio percorso di ricerca), manifestatasi sin dalla metà degli anni ‘80. Le riflessioni sedimentatesi in questo arco di tempo l’hanno spinta a porre in discussione interpretazioni, schematismi analitici e appiattimenti della produzione storiografica affer­ matasi negli anni ‘50 ed egemone per oltre un trentennio. Essa proponeva una lettura lineare ma stereotipata del­ le vicende politiche di Ottocento e Novecento e dipingeva l’oligarchia co­ me classe priva di iniziativa e di articolazioni interne, “congelata nel tem­ po, tradizionalista, conservatrice e, all’occorrenza, golpista, subalterna pri­ ma al capitale inglese e poi a quello americano” (p. 14), oziosa e spendacciona, rentière e sfruttatrice. Tale insoddisfazione ha condotto l’autrice a tracciare un quadro di mag­ giore complessità, cercando di mettere a nudo la mentalità e i sentimenti che, a suo avviso, sono stati alla base delle opzioni anche politiche dell 'élite cile­ na. Per far questo, si è servita, oltre che della storiografia stessa, di una ric­ ca memorialistica, della letteratura ro­ manzesca, di carte di famiglia, di ar­ chivi parrocchiali e comunali, ma ha soprattutto fatto ampio ricorso alla storia orale, applicando a chi ha prati­ camente detenuto il monopolio dell’i­ struzione superiore, dell’informazione e dell’editoria un metodo d ’indagine che, in genere, serve a dare voce ai soggetti che non hanno avuto stru­ menti per narrare le proprie vicende e le proprie ragioni, cioè le classi subal­ terne. Al di là di questo, il volume si presenta come un grande affresco di ricostruzione storica attraverso il filo conduttore delle interviste. In questa indagine sulla gente corno uno, sulla gente con apellido, entrano in gioco quasi cento famiglie sulle po­ co più di trecento che rappresentano il gotha cileno. Il mondo descritto so­ prattutto dalle protagoniste - dipinte peraltro con grande immedesimazio­ ne, se non con affetto, dalla intervista­ trice - è un mondo in via di estinzione. La ricerca si propone, con successo, di far affiorare l’universo culturale delle oligarchie, atteggiamenti, valori, stili di vita, sensibilità, sentimenti. In que129 st’ottica viene privilegiata la ricerca degli elementi costitutivi della visione che le élites hanno di se stesse e l’au­ trice lascia volontariamente in ombra i dati '‘oggettivi” dell’esperienza storica cilena e dei comportamenti oligarchi­ ci, insistendo, invece, sulla percezione soggettiva di tali vicende e cercando di ricostruire, attraverso la descrizione della scala di valori delle classi domi­ nanti, i nessi tra la loro storia e quella del paese. Il libro è strutturato in quattro ca­ pitoli (cui si affiancano 119 pagine di appendici riguardanti quadri genealo­ gici, guide biografiche e dizionario toponimico), che trattano appunto di ta­ li tematiche, della struttura familiare, dell’intreccio fra le dinamiche familia­ ri e i comportamenti politici e sociali, dell’atteggiamento nei confronti della terra, delle fratture e frizioni interne, acuite a metà degli anni ‘60 dalla pro­ mulgazione della legge di riforma agraria ad opera del democristiano Eduardo Frei. Tener tierra rappresen­ ta un elemento costitutivo della men­ talità oligarchica ancora oggi, anche se più come riferimento ideale che come componente economica ed è interes­ sante notare che, pur essendo tutte le interviste percorse da un velo di no­ stalgia per i tempi andati, tale caratte­ ristica emerge con maggiore vigore quando si parla del rapporto con la proprietà fondiaria. Non a caso, Frei e i democristiani attirano rancori mag­ giori che la stessa sinistra e sono indi­ viduati come i principali responsabili “del crollo del loro universo di valori, vissuti, sentimenti” (p.289). Dalla ricerca emergono parecchi al­ tri dati interessanti, fra cui mi permet­ to di segnalare quantomeno l’alto tas­ so di endogamia (pp.121-132), re­ sponsabile della frequente confusione in cui incorre l’oligarchia tra “fami­ 130 glia” e “parentela”. Un’endogamia, questa, dettata da intense frequenta­ zioni e strettissimi rapporti familiari, da affinità di ambiente e di cultura, ma anche dal desiderio di preservazione del patrimonio, tanto da rendere even­ tualmente più cospicua la dote in caso di nozze tra esponenti della stessa classe o addirittura tra parenti. Quan­ do, dalla seconda metà del XIX seco­ lo, altri elementi cominciano ad ascen­ dere nella scala sociale grazie alle ric­ chezze accumulate, non si esita ad ab­ bandonare la prassi endogamica per cooptarli attraverso strategie matrimo­ niali. A tale tematica l’autrice dedica alcune delle pagine più interessanti, così come, più in generale, appaiono illuminanti quelle riservate alle figure femminili dell’oligarchia. Volendo condensare in una sola frase la fatica di Maria Rosaria Stabili, si potrebbe utilmente ricorrere allo slogan “dalla famiglia allo stato”, in­ tendendo con ciò evidenziare il dise­ gno elaborato dalle élites di trasporre a livello nazionale l’organizzazione, i modelli, i valori, i rapporti e le prati­ che in vigore all’interno del nucleo fa­ miliare e tra questo e il mondo ester­ no, dimenticando tuttavia che l’orga­ nizzazione sociale di un microcosmo è totalmente diversa da quella di una nazione. A tale proposito, l’eventuale limite di questo volume è forse quello di un’eccessiva timidezza dell’autrice, che rischia di attribuire alla visione de­ gli interessati valore di universalità. Pur non facendo esplicitamente pro­ prie le interpretazioni dei soggetti in­ tervistati, infatti, Stabili rimane talvol­ ta nell’ombra, negando al lettore visio­ ni più personali e chiavi di lettura con­ trapposte a quelle espresse dai mem­ bri delVélite, ricorrendo alla storiogra­ fia o alla stessa letteratura, cui pure si serve non episodicamente per awalo- rare quanto affermato dagli intervista­ ti. Questo aspetto appare forse più evidente in alcune tematiche (la terra, i rapporti con gli inquilinos nelle pro­ prietà agricole, le virtù del paternali­ smo oligarchico) che in altre, ma, per scelta dell’autrice, permea il lavoro nel suo insieme. Angelo Trento F. Tarozzi-R. V ecchi (a cu ra di), Partenze - Ritorni: italiani in A m erica Latina, n u m e ro m o n o g ra fic o di “S to ria e P roblem i C o n te m p o ra n e i” IX, 18, 1996, pp. 160, lire 2 5 .0 0 0 . L’ultimo numero della rivista se­ mestrale dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Libera­ zione nelle Marche affronta la tema­ tica dell’emigrazione italiana in Ame­ rica latina, sostanzialmente in Argen­ tina e in Brasile anche se l’orizzonte tende qua e là ad allargarsi, come ad esempio nel saggio di Laura Ceccacci che affronta sul piano metodologi­ co e nell’ambito delle discipline geo­ grafiche vari aspetti del fenomeno emigratorio. Se un appunto può es­ sere mosso al risultato complessivo è che si avverte una certa disorganicità negli interventi, quasi un’assenza di filo conduttore. In effetti, l’approc­ cio interdisciplinare non riesce in questo caso a camuffare un’eccessiva diversità di tematiche, ma al tempo stesso l’assenza di alcuni nodi di grande rilevanza. Se, tuttavia, non si cercano nella monografia quegli im­ probabili confronti di idee a caratte­ re organico come pretendono i cura­ tori e ci si limita a leggere i contribu­ ti come miscellanea il cui collante è la comune matrice etnica, essa risulta fruibilissima. Il saggio di Silvia Piciulo offre un interessante spaccato di un caso di emigrazione in catena riguardante un paese della Basilicata, i cui abitanti si disperdono nelle Americhe ma con­ centrandosi in alcune aree ben preci­ se, soprattutto in Argentina e negli Stati Uniti ma anche in Brasile, in Cile e persino a Haiti. L’esodo mantiene al­ cune caratteristiche di fondo indipen­ dentemente dalle destinazioni e l’au­ trice mostra, anche attraverso intervi­ ste ai discendenti, quanto, nelle storie personali e in quelle generazionali, passato e presente si fondano e quan­ to il primo sia in grado di condiziona­ re il secondo. Integrazione e etnicità sono elementi essenziali di altri due contributi, quelli di Susana Bonaldi e di Maria Adriana Bernardotti riguar­ danti Argentina e argentini, che hanno peraltro al centro tematiche assai di­ verse tra loro. In entrambi si affaccia il concetto di crizol de razes, la variante argentina del melting pot, e la facilità di integrazione (meglio sarebbe dire di scambio tra culture) - legata anche al­ la abnorme percentuale di stranieri sulla popolazione totale - facilità che porterà in seguito a ritenere argentini alcuni piatti manifestamente italiani come la fainà, la bagnacauda e gli gnocchi. Se il fenomeno immigratorio diventa parte costituente nella costru­ zione dell’identità argentina, meno convincente appare la tesi esposta dal­ la Bonaldi circa le generalizzate pres­ sioni dei genitori affinché i figli si “argentinarizzassero”, atteggiamento che giungeva sino ad una rapidissima ado­ zione della lingua spagnola come ca­ nale di comunicazione all’interno del­ le pareti domestiche. Gli alti tassi di endogamia e la proliferazione di asso­ ciazioni, scuole e giornali italiani stan­ no a dimostrare come il fenomeno ri­ sultasse, quantomeno, assai più com131 plesso di quanto mostri di dar conto la breve indicazione appena riassunta. Un certo spazio è dedicato alla te­ matica emigrazione e movimento ope­ raio, riferita soprattutto agli anarchici. Essa è presente (così come le condi­ zioni di lavoro urbane) nella stessa Bonaldi e nei due interventi di Francisco Foot Hardman, il primo dei quali di taglio comparativistico fra Brasile e Argentina ed il secondo scritto in col­ laborazione con Antonio Arnoni Pra­ do riguardante solo il primo paese. A voler essere eccessivamente critici, c’è da lamentare come, all’interno della tematica generale, non si accenni mai alle rivalità etniche che pure attraver­ sarono il movimento operaio, in parti­ colare a Sào Paulo, rappresentando a lungo un ostacolo nella conduzione delle lotte e nella stessa organizzazio­ ne sindacale. In tal senso appare forse eccessiva l’affermazione dei due cura­ tori quando parlano di un’emigrazio­ ne di persone, idee e culture che con­ sentì a “popoli geograficamente lonta­ ni” di trovarsi ideologicamente vicini e di combattere battaglie simili. L’articolo a due mani sugli anarchi­ ci in Brasile riprende precedenti lavo­ ri di Hardman e di Prado e sviscera te­ matiche sostanzialmente letterarie, ac­ cennando anche alla diffusione di un interessantissimo fenomeno quale quello del teatro operaio, anche se gli italiani rientrano solo marginalmente in questo saggio (ma sono presenti co­ me soggetti, vista la loro prevalenza numerica all’interno del proletariato paulista sino alla prima guerra mon­ diale e anche oltre). Sempre sul piano letterario, molto stimolante è il contri­ buto di Roberto Vecchi su un autore nazionalista brasiliano che scrive a ca­ vallo fra i due secoli. In particolare, Vecchi si sofferma su un suo romanzo minore - Giovannina - che vede come 132 protagonista una famiglia di immigra­ ti italiani, le cui vicende a Sào Paulo vengono descritte da Afonso Celso in forma assolutamente stereotipata e te­ sa a mettere in buona luce il Brasile e le sue classi dominanti. La rivista ospita anche un articolo sulle donne italiane in Argentina e sul­ la loro condizione sia familiare che la­ vorativa. Susana Bonaldi afferma che tale condizione non può essere af­ frontata separatamente dalla più gene­ rale condizione femminile nella re­ pubblica platense, pur riconoscendo che le immigrate devono anche fare i conti con lo sradicamento e la distru­ zione del proprio passato. Tutto l’in­ tervento rappresenta un buon contri­ buto direi quasi all’avvio di una di­ scussione su una tematica che è stata sinora colpevolmente sottaciuta nella letteratura sull’emigrazione in Ameri­ ca latina. Fiorenza Tarozzi, uno dei due cura­ tori, analizza manuali e guide per l’e­ migrante, anche se i testi presi in esa­ me si riducono a poca cosa; prescin­ dendo da quelli di carattere più gene­ rale e dalle pubblicazioni del CGE, in­ fatti, gli autori oggetto di studio sono solo tre, il che evidentemente non con­ sente quelle generalizzazioni che pure vengono tentate. Appare poi singolare l’assenza anche di un mero cenno in nota ad un precedente lavoro di Ceci­ lia Lupi, apparso neH’ormai lontano 1981 su “Movimento Operaio e Socia­ lista”, che aveva la stessa tematica per oggetto e sicuramente un maggior re­ spiro, riportando nella bibliografia ol­ tre 120 titoli, di cui quasi 50 relativi al­ l’America latina. Tarozzi ingenera an­ che un po’ di confusione come quan­ do, parlando di queste guide, afferma che esse circolarono largamente tra gli immigrati tradotte anche in castigliano (p. 21), senza specificare che tali tra- duzioni, peraltro rarissime e quasi sempre parziali, vennero fatte a distan­ za di parecchi decenni e solo come do­ cumentazione storica. Né, d’altronde, si capisce quale utilità potessero avere per l’emigrante manuali redatti in una lingua diversa dalla propria. Di grande interesse, infine, è il sag­ gio di Maria Adriana Bernardotti dedi­ cato agli argentini in Italia, “la prima emigrazione economica di massa dal­ l’Argentina [...] naturale correlato di quella che è stata, dalla seconda metà del XIX secolo agli anni ‘50 del nostro secolo, la grande immigrazione italiana nel paese sudamericano” (p.65). Dopo aver esposto le cause che hanno deter­ minato l’apprezzabile crescita del fenomeno e, più in generale, che han­ no spinto i discendenti a richiedere il passaporto italiano anche quando non intendevano lasciare il paese, l’autrice mostra come tali richieste - in un pae­ se come l’Argentina, che ha tradizio­ nalmente avuto difficoltà ad accettare la propria appartenenza all’America la­ tina, almeno in termini culturali - pos­ sano essere sintetizzate come “un mec­ canismo di compensazione e autoaffer­ mazione di una identità minacciata, come un richiamo esplicito di apparte­ nenza ad una generica cultura euro­ pea” (pp. 73-74). Angelo Trento G ioconda Belli W asiaia.- M em oriale d a l futuro, tra d u z io n e di M a rg h e rita D ’A m ic o , E d iz io n i e /o , R o m a 1 9 9 7 , pp. 3 1 6 , L. 2 5 .0 0 0 . L’opera della nicaraguense Giocon­ da Belli rappresenta, come ha afferma­ to Mario Benedetti, «L’esaltazione del­ l’istinto [...] capace di creare uno stra­ no amalgama che lega amore, rivolu­ zione, denuncia». Nata a Managua nel 1949, la Belli proviene da una famiglia dell’altaborghesia nicaraguense. Tor­ nata in Nicaragua, dopo gli studi in Spagna e negli Stati Uniti, ha militato nel Fronte di Liberazione Nazionale Sandinista. Nel 1972 ha esordito pub­ blicando la sua prima raccolta di liri­ che. Nel 1989 ha visto la luce il suo pri­ mo romanzo, La donna abitata (ed. it.: Edizioni e/o, Roma 1996), che nella sola Germania ha venduto quasi un milione di copie. Sulla scia di questo successo l’editrice romana ha deciso di pubblicare anche questa volta nella pregevole traduzione di Margherita D’Amico, Waslala Memoriale dal futu­ ro. Waslala è il toponimo di uno degli ultimi sogni tropicali, un luogo che vi­ ve nel mito, nella lontana e irraggiun­ gibile selva. Un posto di pace e di spe­ ranza, in cui vive una comunità di poeti e di uomini giusti. Melisandra, giovane e ardimentosa protagonista del romanzo, decide di intraprendere un viaggio alla ricerca di questo luo­ go, dove vent’anni prima erano scom­ parsi i suoi genitori. Ma il viaggio ver­ so Waslala si rivelerà pieno d ’insidie, tra narcotrafficanti ed episodi di guer­ riglia, che non impediscono però alla Belli di parlarci di meraviglie e di grandi passioni. Waslala è e resterà un mistero; qualcosa che esiste solo in un periodo di transizione, in una «fessu­ ra nel tempo, in uno spazio indeter­ minato». I personaggi vivono in una perfetta simbiosi di realtà e immagi­ nazione; ma l’immaginazione sovente è anche realtà. L’episodio della conta­ minazione nucleare nel deposito di ri­ fiuti di Engracia - come ricorda l’au­ trice - si basa su un fatto realmente ac­ caduto: nel 1987, nella città brasiliana di Gioiania, due uomini, rovistando tra i rifiuti, trovano un tubo di metal133 lo che conteneva al suo interno una polverina azzurra che brillava nell’o­ scurità. Regalarono boccette piene di questa polverina ai loro amici. Si trat­ tava di Cesio 137. Fu il più grave inci­ dente nucleare dell’America latina. Accadde un anno dopo Cernobyl. Ma come afferma Eduardo Galeano: «Cernobyl risuona ogni giorno nelle orecchie del mondo. Di Gioiania non se ne seppe mai nulla». L’America la­ tina è, come sempre, una «notizia condannata all’oblio». Elina Fatane Alex Fleites - Aldo Garzia, C uba C ultura. Viaggio n e ll’id e n tità di u n ’isola, Teti E d ito re , 1 9 9 7 , pp. 2 2 1 , L. 2 8 .0 0 0 . Nell’agile introduzione al libro, gli autori avvertono il lettore di due cose: che “non esiste in commercio -neppure a livello intemazionale- un’altra guida uguale” e che “i più avvertiti noteranno qualche omissione o scelte arbitrarie [...] Il rischio da evitare era però quello di comporre il mosaico di una piccola enciclopedia, forse esauriente, ma priva di interpretazioni e proposte soggettive. Questo libro è l’avvio di una ricerca che dovrà continuare e che ci auguriamo avrà nuove e aggiornate edizioni.” E dunque al lettore non resta che tener conto di questi avvertimenti e al recen­ sore di rispettare la soggettività degli au­ tori. L’idea di questa guida è eccellente per più di un motivo: il primo, che è sta­ to già indicato nella introduzione, è l’as­ soluta novità di una guida culturale per Cuba, un paese che è stato tradizional­ mente afflitto da due sole misure inter­ pretative: quella del paradiso turistico tropicale e quella della sua anomalia po­ litica nell’emisfero occidentale. Il secon­ 134 do è che dal punto di vista culturale, Cuba è un paese di straordinario inte­ resse; basti pensare alla sua musica, al cinema, alle arti figurative e alla lettera­ tura. Nel panorama latinoamericano, nonostante le sue scarse dimensioni, è un paese che sta a fianco -e talvolta su­ pera- grandi nazioni come il Messico e l’Argentina. E una terza ragione è che negli anni della rivoluzione cubana in quel paese è stato dato un grande im­ pulso alla cultura sia con scuole ed ac­ cademie aperte a tutti, sia con la crea­ zione di laboratori artistici, anche nelle provincie più sperdute, di case della cul­ tura, di riviste, di compagnie teatrali, di gallerie e sale di esposizione, fino alla ce­ lebre Scuola di Cinema di San Antonio de los Bahos. L’ultima ragione è l’inedi­ to accoppiamento di un giornalista e studioso delle cose cubane come è Aldo Garzia, con un intellettuale cubano, poeta oltre che giornalista, e soprattutto rappresentante della generazione for­ matasi all’interno della rivoluzione. L’u­ scita di questa necessaria e originale gui­ da va dunque salutata con entusiasmo. Ma, come gli autori stessi hanno avvertito, ha piuttosto l’aspetto di un lavoro da completare, buttato giù con eccessiva fretta e in cui troppa carne è messa a cuocere. La prima sezione, ad esempio, è una ripetizione sommaria di quanto si trova in tutte le guide su quel paese; è sommario il profilo sto­ rico, che forse sarebbe stato meglio sostituire con una breve storia della cultura, e sono troppo parziali le de­ scrizioni delle città dell’isola, ridotte a quattro con un criterio forse troppo soggettivo. Sono però molto utili gli indirizzi e i numeri di telefono di mu­ sei e altre istituzioni culturali La se­ conda sezione risponde bene alle fina­ lità della guida, con brevi e istruttive sezioni su cinema, fotografia, musica, santeria, sport, un agile panorama sui viaggiatori illustri e un aggiornamento sugli anni novanta. Decisamente godi­ bili le ultime due sezioni, Profili e Ita­ liani a Cuba. In quest’ultima parte della guida gli autori hanno dato sfo­ go ai loro gusti culturali e perfino ai loro sentimenti, offrendo dei ritratti di personalità dell’isola molto istruttivi e piacevoli e lusingando il senso nazio­ nale del viaggiatore italiano ricordan­ do, fra le curiosità, molti connazionali che a Cuba hanno vissuto o che la hanno visitata lasciando un qualche segno importante, da Meucci a Zavattini. Ma se, come mi auguro, vi saran­ no altre edizioni di Cuba Cultura, vo­ glio sperare che gli autori rivedano con attenzione anche i numerosi erro­ ri che vanno daH’omissione degli ac­ centi all’uso di accenti sbagliati, fino alla trascrizione errata di nomi. Po­ trebbe sembrare una pignoleria, ma poiché di una guida culturale si tratta, esigere dagli autori una maggior cura mi sembra doveroso; altrimenti do­ vremmo continuare a rassegnarci a leggere e a sentire, su tutti i giornali e su tutte le televisioni, a proposito de­ gli infelici contadini dell’America lati­ na, che sono dei “campesinos”(!). Alessandra Riccio R ené V àzquez Diaz, L ’isola dei C undeam or, E rre e m m e e d iz io n i, R o m a , 19 9 6 , pp. 3 1 7 , L. 2 4 .0 0 0 . Questa piccola casa editrice, nota soprattutto per il suo catalogo guevariano, ha attraversato recentemente una seria crisi, inevitabile per chi in­ tenda l’editoria come passione e badi poco ai conti di cassa, adesso felice­ mente in via di superamento. Tant’è che per il 1998 si presenta con un nuovo nome: Roberto Massari edito­ re, e un nuovo indirizzo, essendosi trasferita sul lago di Bolsena, lontano dalla confusione metropolitana. Di tutti questi trambusti ha forse sofferto l’intrigante romanzo di Vàzquez Diaz, un cubano amico di Cuba ma che da anni vive in Svezia da dove tesse trame di riavvicinamento fra gli intellettuali dell’isola e quelli dell’esilio. E dico che forse ne ha sofferto perché Cisoia del Cundeamor , una sfacciata ed ec­ cessiva ricostruzione della Miami dei cubani, ricchi e poveri, onesti e depra­ vati, arroganti e nostalgici, meritava, a mio avviso, una migliore diffusione. Si tratta di una narrazione dai ritmi in­ calzanti non tanto nel dipanarsi della trama, ma nella creazione di un clima postmoderno e adorabilmente kitch in cui si agitano personaggi esagerati, degni di un fumetto pop e tuttavia pieni di umanità e sentimenti. Anzi, questi personaggi, quasi tutti critica­ bili per la loro condotta etica -sono trafficanti, spioni, prostitute, piccoli mafiosi, corrotti d’ogni risma- affida­ no la loro dignità all’assoluta priorità che danno ai sentimenti, tanto che la zia, il personaggio principale della sto­ ria, che zia non è, riesce a costruire in­ torno a sé un’improbabile famiglia fatta di guardie del corpo e di adulte­ re, di trovatelli e di loschi trafficanti, uniti insieme dalla forza dei sentimen­ ti (amore, gelosia, solitudine, affetto ma soprattutto nostalgia) che sono fonte di rispetto e di solidarietà negli altri membri di quella strana comunità che vive in una proprietà dal suggesti­ vo nome di Isola del Cundeamor e da quel fastoso pezzo di terra in cui la zia ha avuto cura di piantare tutto il me­ glio della vegetazione cubana, vivono le loro vite agitate sognando sempre ed ossessivamente la patria perduta, ricreandone ostinatamente l’immagi­ ne, dando le spalle a una Miami vizio135 sa di cui, però, sanno cavalcare a me­ raviglia i difetti. Come pesci nell’ac­ qua di una città quasi interamente do­ minata dalla cubanità della maggior parte dei suoi abitanti, la zia e suo ma­ rito, lo scandinavo Hetkinen, dalla roccaforte supersorvegliata della Isola del Cundeamor, affrontano e mettono in ginocchio le gang rivali, promuovo­ no la carriera artistica del languido scultore Nicotiano, tradito da Mireya, adottano la matura e disperata Betty Boop, ingaggiano, infine, un’epica battaglia contro quelli della Transa­ zione Cubano Americana. La conclu­ sione è un trasferimento generale in Spagna da dove sarà possibile investi­ re capitali in joint venture con il go­ verno cubano mentre i vari personag­ gi si ricompattano intorno alla zia, materna e protettrice come una pa­ tria. (A.R.) J o s é Pedro Diaz, / fu o c h i di S ant'E lm o, G a lz e ra n o E d ito re , a c u ra di R o s a M a ria G rillo , tra d u z io n e di E lv ira F a liv e n e , C a s a lv e lin o , 1 9 9 7 , pp. 138, L. 1 8 .0 0 0 . José Pedro Diaz è una affermata personalità del mondo culturale uru­ guaiano. Professore di Letteratura Francese, diplomatico, perseguitato dalla dittatura militare, è poeta, narra­ tore e saggista. Il suo romanzo, I fuo­ chi di Sant’Elmo (1964) ha ottenuto un notevole successo ed è continuamente rieditato a Montevideo. Della personalità dell’autore dà conto un esaustivo saggio introduttivo di Rosa Maria Grillo molto opportuno, a no­ stro avviso, quando si introduce in Italia uno scrittore del tutto scono­ sciuto al lettore. E molto opportuna ci pare l’iniziativa dell’editore Galzera­ 136 no che, dal suo rifugio nel lontano Ci­ lento, presta una lodevole attenzione ai temi dell’emigrazione che hanno se­ gnato profondamente l’identità cultu­ rale della sua regione. Il libro di José Pedro è un omaggio, dichiarato e vo­ luto, allo zio Domenico, fratello di sua madre e nato fra le rupi e le sabbie di Marina di Camerota. A questo zio l’autore deve l’avergli acceso la fanta­ sia e l’immaginazione, averlo fatto so­ gnare, bambino, un incomparabile e mitico paradiso, quello delle terre da cui proviene la famiglia di sua madre, Rosa D ’Onofrio. I racconti di pesca con cui Domenico intrattiene il nipo­ tino americano mentre intreccia le re­ ti o prepara le esche in una cucina di Montevideo trasformano la narrazio­ ne in una epopea mitica, in cui il Me­ diterraneo, con i suoi colori, i profumi dei suoi frutti, i sapori dei suoi cibi, emerge con tutta la sua carica leggen­ daria. Una terra fantastica, abitata da uomini eroici, da briganti misteriosi, da pescecani mitici. La prima parte del romanzo è costituita dalla rievoca­ zione di quelle spiagge, dal risuonare di quel mare così come lo zio lo rac­ conta. Nella seconda parte l’autore, ormai adulto e diplomatico in Belgio siamo negli anni cinquanta- intrapren­ de il sospirato viaggio di conoscenza verso la sognata Marina di Camarota sul filo dei ricordi dei racconti dello zio. E’ un viaggio arduo (lo è ancora ai giorni nostri), un viaggio che allonta­ na l’autore dalla civiltà e lo sprofonda in un Sud distante e lontano dove, però, la bellezza dei luoghi, gli squar­ ci del mare fra gli olivi, l’eco dei rac­ conti infantili, sostengono la tensione dell’avvicinamento alla meta, del viag­ gio tanto desiderato, fino all’arrivo al­ le splendide sabbie di Marina di Ca­ merota, al quieto daffare delle donne che sciacquano le reti, all’incontro con i paesani che lo condurranno dai parenti superstiti. Arretratezza, vec­ chiaia, miseria, piccoli rancori, la soli­ tudine di chi è rimasto sognando l’A­ merica che ha inghiottito fratelli e ma­ riti: questo è il panorama umano che il giovane diplomatico trova nella casa dello zio Domenico e nel paese. Capi­ re è difficile; adeguarsi, quasi impossi­ bile. Ma c’è quella voce che non tace, che continua a ripetere di gesta di bri­ ganti, di imprese di pescatori corag­ giosi, di un mare inenarrabile, della perfezione della bellezza di quelle ter­ re isolate e splendide. L’eredità dello zio Domenico, un’eredità fatta di im­ maginazione e nostalgia, di fantasia e di bellezza, è restata intatta nella sen­ sibilità dello scrittore ed è una eredità di cui essere veramente grato a quel­ l’emigrante che è riuscito a tramanda­ re oltre oceano un patrimonio di epi­ ca bellezza. Il libro è scritto come in un sogno, a cavallo fra realtà, ricordo e immaginazione; i piani narrativi si sovrappongono con eleganti scivola­ menti di tempo e di luogo e il linguag­ gio ha la delicatezza che richiede il maneggio dell’impalpabile tema della nostalgia. Ed encomiabile ci pare il la­ voro della traduttrice, Elvira Falivene, che ha saputo lavorare con la stessa delicatezza dell’autore sui rozzi dialo­ ghi con i parenti come su pagine vera­ mente epiche come quella della pesca del pescecane. (A.R.) belle immagini della fotoreporter e viaggiatrice Shobba, ci guidano con decisione in un itinerario dell’isola al femminile, tra passioni, cambiamenti, condizioni difficili, amori e sogni. Un mondo, il loro, dove si intrec­ ciano strettamente la realtà storica di Cuba, il suo divenire, la scoperta e la conquista sofferta, ma sempre fatico­ samente ed orgogliosamente confer­ mata di dignità e valore. In Donne a Cuba. Lettere creden­ ziali, Alessandra Riccio e Soiedad Cruz, presentano in poche, dense pa­ gine, il vissuto di queste "vitalissime donne", coraggiose e al tempo stesso sognanti, forti dell’acquisizione defini­ tiva della propria differenza. Ognuna di loro si muove in una realtà assai complessa, in una sorta di continuo confronto, proprio perché "questa donna è disposta a mettere tutte le carte in tavola. Cuore, cervel­ lo, passioni, ragioni, viscere ed estre­ mità. A discutere tutto, a rivedere tut­ to passo per passo. L’unica cosa che non ammette, quale che sia il futuro dell’isola, è l’assolutismo di coloro che negano la meraviglia di aver toccato l’impossibile”. Assunta Mariottini J o s é A ntonio Évora, Tom às G u tié rre z A lea, C à te d ra /F ilm o te c a E s p a n d a , M a d rid 1 9 9 6 , pp. 2 5 4 . A lessand ra Riccio, S o ie d a d C ru z D onne a C uba. Lettere cre d e n zia li, E d iz io n i d e lla B a tta g lia , P a le rm o , .1 9 9 7 , pp. 43 , L. 1 2 .0 0 0 . E vero, non è facile raccontare Cuba. Paquita, Norka, Estela, Soiedad e le A quasi trent’anni dall’uscita del film Memorias del subdesarrollo (1968), sembra difficile credere che il cineasta cubano Tomàs Gutiérrez Alea (1928-1996) sia stato scoperto solo di recente grazie al clamoroso successo di Fragola e cioccolato e del più recente Guantanamera. La sua 137 biografia, scritta da José Antonio Évora, propone un dettagliato per­ corso della vita e dell’opera del regi­ sta cubano attraverso un collage di suoi scritti e interviste: un viaggio non solo nell’opera ma soprattutto nel pensiero del “Titón” di Santiago de Cuba. L’omaggio ad Alea rappre­ senta un tentativo, come afferma lo stesso Evora, di porre in discussione il classico assioma secondo cui i ci­ neasti esprimono «la loro visione del mondo attraverso le immagini». In realtà, la relazione che ebbe Alea con queste, va ben oltre ciò che possono suggerire termini quali drammaturgia o linguaggio audiovisivo. Al centro della sua creatività artistica sopravvi­ ve sempre, anche se in forma latente, una inquietudine che il regista espri­ me verbalmente, ma che, per motivi misteriosi, dev’essere espressa attra­ verso mezzi audiovisivi, quasi come se il suo cinema fosse espressione simbolica di una incessante attività intellettuale. Allo stesso tempo, la sua costante pratica creatrice lo ha spinto a una continua riflessione critica e au­ tocritica che si è concretizzata nella raccolta di saggi Dialéctica del espectador, pubblicata dall’lCAlC nel 1980 e tradotta in italiano in Teorie e prati­ che del cinema cubano (Marsilio, Ve­ nezia 1981). Un vero e proprio mani­ festo del cinema latinoamericano. Il ‘narratore di film come Memorias del subdesarrollo, il “cronista” di Hasta cierto punto (1968), “L’amanuense” di Cartas delparque (1988) - ammalia­ ti da una affermazione di Zavattini «usano la cinepresa come una stilografica». Dopo cinque anni di lavoro, que­ sto progetto, elaborato non solo da Évora, ma anche da Ambrosio Fornet e dallo stesso Alea, vede la luce. E ci fa viaggiare nell’infanzia del regista a 138 Cuba, e poi in Italia con De Sica, Za­ vattini, Rossellini e Visconti; raccon­ tandoci quanto abbiano influito an­ che registi francesi, quali Bunuel e Godard. Gli ultimi due capitoli, «Proyectos» e «Sobre la vida, la muerte y otras boberias», costituiscono parte integrante di una intervista che Alea rilasciò ad Évora qualche anno fa. In questa il cineasta cubano si racconta sia come uomo che come artista ap­ partenente ad una società socialista; e dichiara che il suo è un cinema di sintesi e di rivelazione più che di fin­ zione, dal momento che, con la sola finzione si possono raccontare enor­ mi “bugie”. Elina Patanè Mario Paoletti, E l a g u a fie s ta s . M a rio B e n e d e tti la bio g ra fia , A lfa g u a ra , M a d rid 1 9 9 6 , p p . 2 6 6 . «La fiesta no perdona el aguafie­ stas» con questa epigrafe tratta dalla raccolta di racconti di Mario Bene­ detti Despistes y franquezas (1990), l ’argentino Paoletti ci introduce in questa monografia che, sebbene cor­ redata di una esauriente bibliografia e di utili strumenti di ricerca, assume spesso i toni di una amena narrazio­ ne. Corredata, altresì, di un vasto re­ pertorio fotografico, coinvolge il let­ tore non tralasciando però di esami­ nare con rigore aspetti della produ­ zione letteraria benedettiana e di da­ re uno sguardo al suo impegno socia­ le e politico. Il tutto al fine di traccia­ re la figura di questo singolare scrit­ tore, rivelandoci i lati più intimi che l’hanno portato verso successi e in­ successi, exilios e desexilios. In quattordici capitoli Paoletti ri- costruisce la vita di Benedetti percor­ rendo la sua produzione letteraria sin dagli esordi e ricercando nella vita reale quel mondo letterario per poi ri­ baltare il tutto nell’epilogo, allorché riferisce la sua visita allo scrittore, av­ venuta a Montevideo nel 1994. Pro­ prio lì, in quella città che a fatto da sfondo a tante opere di Benedetti, Paoletti riconosce quelle strade, quei palazzi e quei personaggi protagonisti di tante pagine letterarie, che sembra­ no continuare a vivere al di là dell’ar­ te. Del resto, la produzione artistica di questo giornalista, poeta e roman­ ziere, ha sempre abituato i suoi lettori a risalire, attraverso i personaggi e i fatti della finzione, a una realtà occul­ ta e al tempo stesso assai tangibile: quella di un paese frustrato dai suoi fallimenti, che riesce a sopravvivere in attesa di un cambiamento. Un paese che riesce a far sentire la sua voce at­ traverso le pagine di Benedetti. Elina Patanè Amir Hamed, Troya blanda, M o n te v id e o , F in d e S ig lo , 1 9 9 6 , pp. 5 6 3 (col. D e le tra s ). Si esita a definire romanzo questo corposo lavoro dell’uruguaiano Amir Hamed, dal titolo intrigante di Troya blanda, Troia morbida. Lo sconcerto del lettore tarda a dissiparsi alla lettura di una prosa vulcanica, concentrata e al tempo stesso dilatata in strutture narra­ tive ampie e complesse, in un’orche­ strazione laboriosa ma in definitiva ap­ prezzabile di elementi diversi (a volte disparati), che rivelano una solida ca­ pacità creativa e, viene da dire, combi­ natoria di questo vitalissimo scrittore. «Era ese tiempo no tan lejano en que el Cimerò languidecia sitiado por dentro y por fuera de sus ciudades»: fin dall’attacco, Hamed sorprende il lettore, lo guida per percorsi incon­ sueti ma reali della storia del XIX° se­ colo, sostanzialmente dalla vigilia del­ la grande conflagrazione europea del 1848 al crepuscolo del secolo, periodo che corrisponde all’incirca con quello che intercorre tra l’inizio dell’assedio di Montevideo (1843-51) e l’assesta­ mento degli equilibri nel bacino del Piata dopo la guerra della Triplice Al­ leanza (Argentina, Brasile e Uruguay) contro il Paraguay (1865-70). Il punto di vista prevalente è quello di Alessandro Giuseppe Floreale Co­ lonna, conte Waleski. La sua figura riassume per Hamed le principali ca­ ratteristiche del secolo: figlio di una nobile polacca e di Napoleone Bona­ parte, nipote di Cagliostro, nato ad Alessandria d ’Egitto, compagno di collegio del futuro Pio IX, inviato nel conflitto platense per conto del re di Francia Luigi Filippo prima, di suo cugino Napoleone III in séguito, dota­ to di una corte di spiriti e doppi che gli consentono di avere notizie da luo­ ghi lontani assai prima degli altri, in­ contra e dialoga -nel corso della sua lunga vita- con i protagonisti del seco­ lo, che sono i deuteragonisti del ro­ manzo (o i suoi personaggi, se si con­ sidera Waleski il demiurgo: talvolta è sua la voce narrante). Ecco allora comparire Marx, Darwin, Thiers, Pio IX, il cardinale Antonelli, Mary Shel­ ley, Garibaldi, Florence Nightingale, Mazzini, Napoleone III, Bismarck, Nietzsche, Schliemann tra gli altri eu­ ropei. Le vicende platensi, sempre in­ crociate con quelle europee, vedono agire in una quotidianità talvolta macchiettistica personaggi altrimenti con­ sacrati dalla retorica come Juan Ma­ nuel Rosas, Domingo Faustino Sarmiento, Bartolomé Mitre, Fructuoso 139 Rivera, Manuel Oribe, Melchor Pa­ checo y Obes, Venancio Flores, José Ascasubi, il presidente paraguaiano Francisco Solano Lopez. Menzione a parte meritano i france­ si emigrati in Uruguay, tra i quali spic­ ca l’incaricato di affari Ducasse, primo daguerrotipista di Montevideo e padre dello sfortunato poeta Isidore Ducasse (in arte Comte de Lautréamont, autore dei Chants de Maldoror). Con una ope­ razione di velato recupero, Flamed ci­ ta i nomi di altri miliziani francesi che contribuirono alla difesa della città: in particolare ecco distinguersi un tale Laforgue e il banchiere Supervielle, cioè antenati degli altri due celebri poeti franco-uruguaiani, Jules Lafor­ gue e Jules Supervielle. A questo proposito va osservato l’a­ spetto di “omaggio letterario e artisti­ co” del libro, con la presenza di Victor Flugo, di Zola (attraverso l’amante di Waleski, che si chiama Nanà), le allu­ sioni a Verdi e a Mascagni, ad Alexan­ dre Dumas padre (autore del libro Montévidéo ou la Nouvelle Troie, che rese celebre in Europa le vicende del­ l’assedio della capitale uruguaiana), suo figlio omonimo, che presenta a Wa­ leski una pallida signora sdraiata in un letto di camelie... Quest’allusione, co­ me altri riferimenti, ammiccamenti al lettore, sono per lo più gratificanti, creano una connivenza e contribuisco­ no a precisare il contesto storico in cui si muove la trama, ma talvolta risultano insistenti, tanto da sminuirne lo smalto. Ma alcune di queste digressioni suscita­ no ilarità, come là dove si legge, a con­ clusione del riassunto dei conflitti na­ zionalisti del 1848, della sconfitta di “dento cuatro capellanes rumanos que -para combatir y pacificar a los vampiros con bombardas de ajo encadenadas a crucifijos de hierro bendito- se inmolaron en la noche transilvana” (p. 409). 140 Troviamo peraltro una notevole ca­ pacità di introdurre elementi parodi­ stici in un discorso serio, in descrizioni quasi “da manuale” di avvenimenti storici, talvolta drammatici; caratteri­ stica che ingegnosamente riduce in burla quella che nei libri di storia sia­ mo abituati a considerare “l’importan­ te posta in gioco” in questo o quel con­ flitto. Nel testo trovano spazio anche numerosi elementi fantastici, sopran­ naturali, come gli spiritelli che Waleski si porta dietro, capricciosi ma simpati­ ci, oppure il nipote stesso di Pio IX, Gioacchino, che funge da ricevitore radio delle emanazioni magnetiche provenienti da Montevideo, molti anni prima della nascita di Marconi. L’autore manipola la lingua, tanto da creare in certi passaggi un clima plurilinguistico, specialmente con l’i­ taliano, o meglio il cocoliche, la parla­ ta degli immigrati italiani, che mesco­ la elementi dei dialetti di origine con la lingua del Paese‘ di accoglienza. Questo fa parte del gusto di Hamed di giocare, di giocare con tutto, con i registri linguistici, con i dati della sto­ ria facendo accostamenti che qualcu­ no potrebbe anche giudicare irrive­ renti, ma che in realtà, con le struttu­ re narrative, rese in questo^libro ap­ parentemente labirintiche ma forse in realtà casuali. In qualche modo, l’opera tende a sottolineare l’importanza nodale del conflitto rioplatense e in generale della regione nell’evoluzione dei rapporti di forza tra le potenze europee nel corso dei decenni centrali del XIX° secolo. Questo assunto viene dichiarato più di un volta, ma alla fine poco rimane a di­ mostrarlo, se non con le conversazioni immaginarie di alcuni statisti. Nono­ stante qualche lungaggine, il dipanarsi delle vicende europee e platensi secon­ do questo particolare punto di vista ri- sulta attraente. Ci si può anche interro­ gare su quanti riferimenti vengano col­ ti da lettori che non abbiano nozioni circa i fatti rivisitati, ma questa è una questione sempre aperta nei romanzi storici, che non ne ha mai impedito la fruizione. Allo stesso modo, ha poca importanza la discussione su quanto siano manipolati i dati storici, dato che non si tratta di un libro di storia: tutt’al più (e questo è un pregio) un libro che ridà vita e rilievo a un periodo abitual­ mente ingessato nelle celebrazioni del­ le gesta di eroi, un libro che invita a ri­ considerare i busti e le statue equestri come persone in carne e ossa. Le vicen­ de si snodano attraverso l’occhio ironi­ co di un narratore che oscilla da quello onnisciente del romanzo realista, al punto di vista disincantato di Waleski: prospettive sempre pronte a registrare le umane debolezze delle persone che agiscono secondo la propria indole. Un romanzo, quindi, o qualcosa di analogo, una summa di dati, reali e fantastici, su un periodo di grandi rivolgimenti europei e platensi, acco­ munati qui dalla penna di un debitore di Umberto Eco. Diego Simini D iego Rivera, E c rits s u r I art. s e le z io n e e tra d u z io n e d e i te s ti di C a th e rin e B a lle s te ro , N e u c h à te l, Id e s e t c a le n d e s , 19 96 . Diego Rivera, Ecrits sur l’art (Neu­ chàtel, Ides et calendes, 1996) fornisce un considerevole contributo alla pres­ soché inesistente documentazione sul­ l’artista messicano. Se si escludono in­ fatti i pochi cataloghi, resoconto di ma­ nifestazioni che hanno avuto per tema l’America latina, non esistono, in Euro­ pa, molti studi specifici sul pittore nonostante abbia lavorato per anni a Parigi b Catherine Ballestero ha il me­ rito di aver tradotto in lingua francese ed esemplarmente riunito alcuni tra i più significativi articoli pubblicati da Rivera tra il 1916 ed il ‘49 in varie rivi­ ste messicane e newyorkesi 123*.In poche pagine l’autore, oltre a sintetizzare pro­ getti ed ideologie, narra anche, tramite questi, il vissuto del proprio paese. L’arte a la storia sono infatti inscin­ dibili in un’opera che è nata all’inter­ no di un travagliato contesto sociale. In merito a ciò, Rivera scrive nel 1933: “...la funzione dell’artista nella rivolu­ zione non è quella di un compagno di viaggio, né di un simpatizzante, né di un servitore, ma di un soldato. L’arte è l’alimento della rivoluzione” 5. Proprio l’equivalenza tra lo scopo della pittura ed il ruolo politico da questa intrapreso, rende lo stile degli articoli contenuti nella raccolta entu­ siasmante. Ovviamente occorre giudi­ care le ricerche estetiche di Rivera in una particolare prospettiva storica, en­ tro i limiti che ad essa appartengono. 1 L’unico testo completo sull’artista è Rivera: cincuenta anos de su labor artistico, Mexico, In­ stitute Nacional de Bellas Artes. 1951. Sugli anni parigini di Rivera si veda Ramon Favela, Diego Rivera, the cubist years, Phoenix Art Museum, 1984. Per la letteratura italiana segnaliam o i con­ tributi di Mario de Micheli, Diego Rivera, in / Maestri della Pittura, Milano-Barcellona, 1973 e del­ lo stesso autore il saggio Siqueiros e il muralismo nel catalogo (Ediz. Guaraldi) dell’om onima mo­ stra tenutasi a Firenze nel 1976-77. 2 Tra cui: “Azulejos”, “El arquitecto”, “Mexican folkways”, “Survey graphics”, “Arts”, “Creative art” . 3 In Para qué sirve el arte? conferenza tenuta da Rivera alla New W orker’s School e apparsa sotto il titolo Art and workers, in “W orker’s age” , New York, 15 giugno 1933, tradotta in Diego Ri­ vera: écrits s u ri ‘art, Neuchàtel, Ides et calendes, 1996, p. 151. 141 Tutto comincia quando nel 1910 un’insurrezione rovescia la dittatura di Porfirio Diaz facendo emergere un movimento, espressione delle classi popolari, che non solo si propone di cambiare la struttura sociale e politica del Messico 4, puntando sull’indipen­ denza economica e sull’industrializza­ zione, ma avvia anche un profondo rinnovamento culturale. Tale rinascita si rivela attraverso una duplice strate­ gia: il radicamento della creazione artistica della terra, nella riscoperta della tradizione popolare e precolom­ biana, e la rottura dell’isolamento provocato dalla pittura accademica, con l’apertura a correnti universali. Non si tratta quindi di un semplice rinnovamento estetico ma di un’“agitazione” artistica in seno ad un cam­ biamento radicale teso ad inglobare l’intera società. Di qui l’importanza della pittura murale su edifici pubblici, un vero e proprio escamotage per svincolare l’arte dal circuito borghese della colle­ zione privata, del museo e per invitar­ la a partecipare alla vita. Rivera, come Orozco e Siqueiros, è uno dei maggiori esponenti di tale movimento spontaneo e appassionan­ te, per mezzo del quale artisti e spet­ tatori si sono confrontati sul processo storico in atto. Tramite i frammenti biografici, che qua e là si rintracciano nella raccolta della Ballestero, si chiarisce il cammino compiuto da Rivera in tale direzione. Dopo un soggiorno a Parigi tra il 1912 ed il ‘21, durante il quale l’artista si lega a Picasso, divenendone allievo5, stanco del virtuosismo di cui era vitti­ ma il tardo cubismo6, incomincia a de­ dicarsi alla pittura figurativa ispiran­ dosi piuttosto a Cézanne. Grazie ad un viaggio in Italia, nel 1921 scopre quella antica solidità pla­ stica e strutturale, così vicina alle pos­ senti architetture corporee precolom­ biane, e ritorna in Messico, nel luglio dello stesso anno, con grandi proposi­ ti di ricerca. Solo il primo scritto contenuto in Diego Rivera: écrits sur l’art è ancora intriso di espressioni cubiste. Si tratta di una lettera indirizzata all’amico Ma­ rius de Zaya e risale al 1916. Qui, seb­ bene Rivera si serva di alcuni stilemi tipici dell’avanguardia parigina da lui frequentata, vi si denotano già, seppur in germe, i valori di un’estetica più personale. Gli articoli successivi, re­ datti in Messico, rivelano al contrario un personaggio già maturo e deciso nel suo percorso. Fin dal 1921 Rivera è ben cosciente della cosiddetta rinascita e si fa prota­ gonista dell’affermazione della rivolu­ zione spirituale messicana, comincian­ do a collaborare alle manifestazioni e alle pubblicazioni indette da E1 Stridentismo, un movimento teso alla sop- 4 Mi riferisco alla riforma agraria, all’affermazione dei diritti degli operai, alla nazionalizzazione delle risorse del sottosuolo, delle ferrovie, del petrolio e dell’energia elettrica. 5 In Ramon Favela, Diego Rivera, the cubist years, op. cit., si trova un particolare studio sui rapporti negativi che Rivera stabilisce, a partire dal 1917 con il gruppo cubista. In particolare è ri­ portata una lettera inviata da Juan Gris a Rosemberg in cui l’artista spagnolo lamenta la slealtà del pittore messicano che “nel ‘13 imita Le Fauconnier, nel ‘14 Metzinger, nel ‘16 Gris e Picasso ed in ultimo Cézanne”. 6Diego Rivera: écrits sur l'art, p. 44, da From the note’s papers of mexicain painter in “Arts” , New York, voi. 7, n. 1, pp. 22-23. 142 pressione di ogni elemento straniero non naturalizzato'. Attento al pericolo della colonizza­ zione europea ed in particolare dell’a­ dattamento a fenomeni che l’artista in­ dividua come Rodinismo e Sottoim­ pressionismo78, soprattutto nei testi de­ gli anni ‘20, invita allo studio dell’Art popular, unica espressione vitale e in­ contaminata della cultura indigena. Caratterizzata da un’esplosione di for­ ma e colore, quest’arte, pittura per lo più anonima, “vera sopravvivenza del genio originario attraverso la spessa scorza delle corruzioni europee e nor­ damericane”9, vive come corrente spontanea parallela all’accademismo in corso. Rimasta integra dalla consuma­ zione e contaminazione borghese, l’Ar­ te popular (in realtà produzione metic­ cia, risultato originale di complesse in­ fluenze stratificate) è, per Rivera, il ri­ tratto fedele di un popolo “combattu­ to, perseguitato sotto il peso terribile di una classe borghese improduttiva, parassita e xenofila”101. L’artista ne esal­ ta la bellezza della plastica e l’essenza della tematica, ovvero quella particola­ re mescolanza fra tragedia e ironia, quella sorta di stato dionisiaco avverti­ bile in ciò che costituisce da sempre l’emblema del Messico: la festa. Purtroppo solo pochi esemplari d ’Art Popular sono sopravvissuti alle successive distruzioni e tra questi Ri­ vera ricorda le pale e le pulcherias, de­ corazioni di porte e facciate n . Questo tipo di espressione, oltre a quella precoloniale, deve servire agli artisti della rivoluzione da ispirazione per fondare le basi di una nuova este­ tica indoamericana. Occorre costruire l’opera, come sostiene Rivera, in ac­ cordo con la costituzione fisica e spi­ rituale della terra e della razza che la produce. Sotto il governo di Obregon, grazie al sostegno di José Vasconcelos, dive­ nuto nel ’21 ministro dell’Educazio­ ne1213,nasce la pittura murale, una vera e propria invenzione di una rappre­ sentazione simbolica accessibile a tut­ ti15. Nel ruolo di conciliatore tra la po­ litica e l’evocazione di un passato glo­ rioso e mitico, il muralismo ha avuto la funzione di incontrare l’adesione del popolo e sostenere la rivoluzione. La prima commissione di Rivera so­ no i murales nell’Anfiteatro de la Escuela Preparatoria. Realizzata con la tecnica dell’encausto, un procedi­ mento duraturo adottato dall’artista dopo anni di studio, l’opera rappre­ senta la creazione ed il ciclo della vita 7 Vd. Luis Mario Schneider El stridentismo: una literatura de la strategia, Mexico, Ediciones de Bellas Artes, 1970, oppure Serge Fachereau, Le stridentisme, in cat. Art d'Amerique Latine 191168, Parigi, Centre Georges Pompidou, 12 novembre 1992/11 gennaio 1993, pp. 70-74. 8 In Diego Rivera: écrits sur I ‘art, p. 14 da Esposició nacional de Bellas artes, in “Azulejos”, Mexico, t.l, n. 3, ottobre 1921, pp. 22-25. 9 In Diego Rivera: écrits sur i'art, p. 59 da Los Retablos, “Mexican Folkways” , Mexico, t.l, n. 3, ottobre/novembre 1925, pp. 7-12. 10 ibidem, p. 64. 11 In Diego Rivera: écrits sur I ‘art p. 66 da La pintura de pulquerias in “Mexican Folkways”, Mexico, voi. Il, n. 7, giugno/luglio, 1926, pp. 6-15. 12 II Ministero dell’Educazione fu ristabilito proprio nel ‘21 dopo che era stato eliminato dalla Co­ stituzione del ‘ 17. 13 La scelta della tecnica non è affatto casuale, infatti l’affresco è l’arte collettiva per eccellenza ed è popolare perché praticata fin dall’antichità soprattutto in edifici pubblici. 143 e allude alle tre razze presenti in Mes­ sico (autoctono, castigliano e metic­ cio) e al processo storico. Proprio per il loro scopo i murales hanno sempre per tema il Messico, le sue pratiche culturali, religiose e mai esempi concettuali, come la filosofia o altro tipo di astrazioni. Come avveniva nell’antichità, tali pitture devono ave­ re una carica simbolica, una policro­ mia stilizzata e un disegno ben defini­ to. In quest’ottica Rivera crea nel ‘25 gli affreschi della Escuela Nacional de Agricultura de Chapingo, considerato il suo capolavoro. Gli scritti riuniti dalla Ballestero ol­ tre a sottolineare l’interesse stilistico e tematico della nuova espressione sve­ lano la coerenza di un progetto che as­ somma valori estetici e politici. Un’ul­ teriore conferma è l’istituzione di un Sindacato degli Artisti di cui Rivera si fa promotore nel ‘22, al fine di dirige­ re tutte le energie fino ad allora di­ sperse, per eliminare l’individualismo della pittura da cavalletto e cercare di ricreare quella specie di cenacolo cul­ turale che in altri tempi ha dato stimo­ lo alla vitalità di alcuni popoli. Tecnici, operai, pittori, scultori, mili­ tanti del Partito comunista si devono impegnare ad unire gli interessi artistici a quelli del proletariato rivoluzionario. All’interno del Sindacato, ognuno si può esprimere liberamente, senza limiti stilistici o tecnici, ma nell’obbedienza a un disegno generale di stampo etico Non sono certo mancati attacchi reazionari alla produzione dei murales, e lo scontro con l’ottusità borghese e capitalista si fa più infuocato quando Rivera realizza affreschi negli Stati Uniti. Dopo aver, ricevuto varie com­ missioni a Detroit, l’artista decide di assumere gli ingaggi, sospinto dalla ne­ cessità di sondare l’eventuale reazione del proletariato di un paese industrializzato, ben diverso da quello presente nel Messico sottosviluppato. In effetti l’utilità ed il valore dei murales si con­ ferma nel momento in cui, in seguito alla reazione conservatrice del Rockfeller Center che attua la distruzione del lavoro di Rivera, gli studenti e i piccoli lavoratori si sollevano in una protesta in difesa dell’operato di Rivera 14. Gli articoli scelti dalla Ballestero non pongono l’accento solo sull’atti­ vità artista e politica dell’autore, ma anche sull’importanza della tradizione messicana, sullo scopo e sul significato dei murales ed in generale su quello di un’arte impegnata ideologicamente. Oltre alla forza, alla chiarezza delle ri­ flessioni ideologiche e all’accanita di­ fesa di alcuni principi, tutti elementi costitutivi del progetto estetico, gli ar­ ticoli di Rivera mostrano, inoltre, una particolare attenzione rivolta non solo ad artisti del passato quali ad esempio José Guadalupe Posada, ma anche al­ l’originalità di opere a lui contempora­ nee quali quelle di Edward Weston, Tina Modotti e Frida Khalo della qua­ le precisa l’autonomia creativa. In conclusione gli scritti riuniti in Diego Rivera: écrits sur l’art contribui­ scono a tracciare un ritratto esaustivo di un pittore amante della forma, del­ la bellezza armonica del colore, di un’arte rappresentativa della vita. La politica editoriale di quest’edizione che ha privato i testi del confronto con gli originali e non ha previsto un’in­ troduzione di carattere storico ha fini­ to col penalizzare il risultato del volu­ me. Sebbene non si possa fare a meno di avvertire tali mancanze, il lavoro 14 In Diego Rivera: écrits sur l ’art, p. 144 da El caso del Rockfeller Center in “ Revista de revistas” , Mexico, X~ll, n. 1189, 28 febbraio 1933. 144 della Ballestero risulta pregevole an­ che perché, oltre a facilitare i futuri studi su Rivera, impone una riflessione su una querelle di vecchia data, ma pur sempre in auge: l ’arte deve essere culto dell’egocentrismo individuale, una moda, frutto di un gusto esclusivo ed elitario? O deve soddisfare i biso­ gni spirituali della collettività e, quin­ di, farsi lungimirante interprete delle necessità di un’epoca? Rivera rispon­ derebbe che il fine dell’arte è quello di manifestare l”’essenza umana” attra­ verso un’espressione leale e libera. Annalisa Rimmaudo Daniel Pereyra, D e l M o n ca d a a i C hiapas - H isto ri a de la iu ch a a rm a d a en A m é rica Latina, L o s L ib ro s d e la C a ta ra ta , M a d rid 1 9 9 5 (s e c o n d a E d iz io n e ), pp. 2 5 4 , E sp. 1 .6 1 5 . A quattro anni dal primo di gen­ naio del 1994, che impone all’atten­ zione le lotte delle popolazioni del Sud del Messico, supposte come un’a­ nomalia anacronistica in un mondo che si vorrebbe pacificato dal neolibe­ rismo, il saggio dell’argentino Daniel Pereyra individua al contrario un filo rosso che permette di tracciare un quadro sistematico ed una continuità delle molteplici esperienze guerrigliere latinoamericane dall’indomani del trionfo della Rivoluzione a Cuba. L’evocativo titolo, Del Moncada al Chiapas, non impedisce di partire dagli antecedenti delle lotte armate contem­ poranee, partendo da Tupac Amaru per giungere alla rivoluzione boliviana del 1952. Il saggio propone una tratta­ zione schematica e sintetica che come tale non può non avere i difetti della stringatezza ma che allo stesso tempo fa del saggio di Pereyra, un indubbio stru­ mento di riferimento per il ricercatore e di orientamento per il lettore. Il lavo­ ro, strutturato in una parte introduttiva e sei capitoli, si caratterizza infatti per una serie di paragrafi brevi ognuno dei quali focalizza un argomento specifico, in genere un movimento o gruppo ar­ mato, ben identificato dal titolo. Dedi­ cato ai desaparecidos ed introdotto non tanto da Lòwy quanto dai versi di Si dulcemente di Juan Gelman (cada compatterò tenia un pedazo de sol/ [...]/ que le iluminaha la cara/ [...]/y lo bacia volar, volar, volar), il saggio si presenta di una esemplare linearità e facilità di utilizzo che fa passare oltre la maniera a volte eccessivamente succinta di trat­ tare questioni complesse e tanto diver­ se tra quelle succedutesi in un intero continente in quattro decadi pur nel­ l’ambizioso progetto di centrare alme­ no un’esaustività enunciativa. L’Introduzione è dedicata ad una breve analisi teorica, appena una quin­ dicina di pagine, suddivisa anche que­ sta in ben undici paragrafi, sulla logica sociale e politica che ha portato allo svilupparsi dei movimenti di liberazio­ ne in America latina. E’ la parte nella quale forse un postulato teorico più solido sarebbe stato necessario e più si risente della scelta schematica del sag­ gio. Nonostante ciò anche questa par­ te può essere buon riferimento ad un pubblico non specialista. Si giunge cosi al saggio vero e pro­ prio. Si inizia con gli antecedenti che si fanno risalire alla lotta armata prima del­ la Rivoluzione Cubana riepilogando i precedenti ed i modelli. Si tratteggiano cosi la ribellione di Tupac Amaru della fine del XVIII secolo, le guerre di Indi­ pendenza, il movimento Sandinista, le rivoluzioni messicana, salvadorena e bo­ liviana nonché alcuni modelli esterni quali quello yugoslavo, cinese, vietnami­ ta, algerino per approdare allo spartiac145 que individuato nella rivoluzione cuba­ na e nella figura di Ernesto Guevara, ri­ percorrendo i percorsi principali che hanno portato al trionfo della Rivoluzio­ ne Cubana. Introduzione e primi due capitoli occupano in tutto 60 pagine. E solo a questo punto che si entra nei vivo. La storia della lotta armata in America latina viene suddivisa in tre grandi sezioni; il Sudamerica dal 1950 al 1979, l’America Centrale nel­ lo stesso periodo e le esperienze dal­ l’indomani dell’ingresso sandinista a Managua al rivelarsi dell’insurrezione in Chiapas. In 180 pagine intense ven­ gono analizzati oltre 100 gruppi guerriglieri. Pereyra non si propone di fornire un vero e proprio apparato statistico, del tipo per intendersi di quello fornito per l’Italia dal Progetto Memoria di Sensibili alle foglie, ma si ripropone di fornire i dati fondamen­ tali su gruppi tanto diversi per collo­ cazione storica, geografica, politica, sociale, così come per durata tempo­ rale, elementi coinvolti ed incidenza sulla realtà nazionale nella quale agi­ scono. L’autore argentino fornisce, ol­ tre ad una serie di importanti riferi­ menti a saggi e memorie che sarebbe­ ro stati anche più utili se riuniti in una 146 organica bibliografia, una cataloga­ zione ben organizzata dei vari movi­ menti di liberazione, gruppi ma anche gruppuscoli, sintomo di un notevole frazionismo, in una successione di si­ gle nella quale infine non è poi così difficile orientarsi. Tra movimenti conosciuti ed impor­ tanti ma molto diversi tra loro, Tupamaros uruguayani, Montoneros argen­ tini, FARC colombiane, URNG guate­ malteche, Sendero Luminoso o il Mir cileno trovano spazio gruppi minori dei quali si ha notizia attraverso memorie raccolte dallo stesso Pereyra. Nei soli capitoli dal 1950 al 7 9 il saggio racco­ glie notizia di 20 gruppi diversi in Ar­ gentina, 18 in Brasile, 13 in Messico laddove nei capitoli dedicati al Suda­ merica l’autore si concentra sulle sole organizzazioni mentre in quelli sulla realtà centroamericana fornisce una se­ rie di ulteriori dati sull’evoluzione poli­ tica di quei paesi. Il saggio si conclude con un breve capitolo dedicato al Chia­ pas che per tempi e spazi nulla aggiun­ ge ma che fa da chiosa e giustificazione ideologica ad un lavoro del quali augu­ rarsi che vada in porto la ventilata pub­ blicazione in Italia. Gennaro Carotenuto