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INDICE Introduzione pag. 2 1 Capitolo Primo La dottrina dell’esperienza di James Jerome Gibson 1.1 La relazione tra soggetto e oggetto e la nozione di Affordance pag. 4 1.2 Origini gestaltiche del concetto di Affordance pag. 6 1.3 La percezione come processo diretto pag. 8 1.4 Revisioni e approfondimenti pag. 11 1.5 Critica alla concezione di Gibson pag. 15 2 Capitolo Secondo L’apporto di Merleau-Ponty al problema del significato ontologico dell’esperienza corporea 2.1 L’esperienza corporea pag. 23 2.2 La nozione di comportamento pag. 26 2.3 La percezione come struttura gestaltica-corporea pag. 32 2.4 Strutture organiche e processi esperienziali pag. 35 2.5 La percezione esaminata dalla prospettiva soggettiva pag. 43 2.6 Una prospettiva egologica: La temporalità del Cogito pag. 48 3 Terzo Capitolo La riflessione neuro-fenomenologica e il problema dell’esperienza incarnata 3.1 Premesse storiche pag. 54 3.2.La neurofenomenologia secondo Varela. pag. 56 3.3.Problemi della neurofenomenologia di Varela pag. 61 Conclusioni pag. 66 Riferimenti bibliografici pag. 67 Introduzione Il lavoro intende analizzare la nozione di esperienza incarnata. Esso parte dalla teoria delle affordances di James Jerome Gibson, al fine di valutarne meriti e problemi. Discute poi i risultati così ottenuti alla luce del concetto di fenomenologia di Merleau-Ponty e si conclude con uno studio di alcuni sviluppi recenti di questo concetto nell’opera di Francisco Varela e della sua proposta di neuro-fenomenologia. La tesi è divisa in tre capitoli: il primo è dedicato all’opera di Gibson, il secondo analizza la filosofia di Merleau-Ponty e il terzo si occupa di Varela e del suo concetto di neuro-fenomenologia. Il primo capitolo delinea gli aspetti principali dell’opera di Gibson. Dopo una breve introduzione, si intende discutere la nozione di affordance, così come è elaborata dallo psicologo statunitense, al fine di esaminare il modo con cui egli tratta il classico tema filosofico della relazione tra soggetto e oggetto, e le soluzioni da lui adottate per superare i problemi posti da tale questione. Il capitolo rintraccia le origini della nozione gibsoniana di affordance nelle radici provenienti dalla psicologia della Gestalt e mostra poi in che senso si possa dire che Gibson radicalizza l’approccio gestaltico, considerando la percezione come modo diretto di accesso al mondo e non come forma di coscienza rappresentativa. Una volta chiarito questo punto, si prosegue in direzione della valutazione di alcuni problemi inerenti la teoria di Gibson, seguendo in ciò i suoi stessi sviluppi e le proprie auto-critiche. Questi problemi si può dire consistano nell’approccio sostanzialmente ancora realistico alla percezione, nella sotto-stima del ruolo della soggettività incarnata, e in una relativamente limitata concezione di cosa sia un fenomeno, che allora conviene rivedere e approfondire alla luce dell’approccio fenomenologico. Il secondo capitolo si occupa di tali questioni dalla prospettiva della fenomenologia della soggettività incarnata proposta da Merleau-Ponty. Egli a un tempo sviluppa, rivede e radicalizza il classico modo di trattare tali questioni adottato da Husserl. La discussione delle due opere principali di Merleau-Ponty, “La struttura del comportamento” e “La fenomenologia della percezione”, permette di inquadrare le questioni poste da Gibson in una diversa, e sperabilmente più adeguata, maniera. In particolare, questo capitolo discute la nozione di comportamento elaborata da Merleau-Ponty, che la concepisce in termini di una struttura complessa, implicante una relazionalità tra corpo e ambiente che è compresa in termini di Gestalt. Tale struttura è presente all’interno dell’intero regno vivente e non è propria soltanto degli esseri umani. È con ciò che Merleau-Ponty evita di restare all’interno di una prospettiva fondamentalmente ancora antropocentrica qual è quella di Gibson, e allo stesso tempo, offre un punto di vista da cui valutare il ruolo della soggettività in particolare nella sua articolazione temporale. Il terzo capitolo, infine, discute alcuni recenti sviluppi ricevuti dall’approccio di Merleau-Ponty, così come sono inseriti all’interno della teoria di Francisco Varela chiamata Neurofenomenologia. Varela punta a integrare l’approccio all’esperienza proprio del modello neuro-cognitivo con una prospettiva fenomenologica. Il suo scopo principale consiste nell’emendare l’approccio realistico, proprio di modelli più tradizionali basati sul cognitivismo, con una concezione diversa dei fenomeni, capace di tenere in conto il ruolo della coscienza evitando al contempo qualunque deriva possibile di stampo spiritualistico o idealistico. Il capitolo discute queste intenzioni alla luce di quanto effettivamente realizzato da Varela, sottolineando alcuni problemi ancora presenti nel modo stesso con cui i propri scopi sono perseguiti. Il capitolo si conclude con la rivendicazione dell’opportunità di elaborare una concezione della soggettività incarnata che sia più fenomenologicamente supportata, cioè che possa effettivamente dar conto dei legami naturali della percezione al contempo preservando la specificità della percezione stessa, intesa in termini di esperienza e non soltanto compresa secondo un modello di causalità materiale. Il corpo dovrebbe essere sì inteso come materiale, ma non come mera materia inerte. Questa tesi confida così di rappresentare un primo passo in direzione di un successivo approfondimento della problematica attraverso uno studio specificamente dedicato a tale questione. CAPITOLO PRIMO La dottrina dell’esperienza di James Jerome Gibson 1.1 La relazione tra soggetto e oggetto e la nozione di affordance Alla mia prima lezione di Filosofia della mente, corso che avrebbe successivamente segnato l’evoluzione dei miei studi e cambiato profondamente la mia attenzione alla vita e, soprattutto, alle “cose della vita”, il mio Professore sottopose l’intera classe ad un quesito ammiccante e seducente che insinuava una apparente e scontata verità : “Se fossimo nella condizione di poter salvare soltanto una funzione della nostra mente, tra la memoria l’attenzione il linguaggio , la vista o l’autocoscienza, cosa sceglieremmo? Non avremmo dubbi. Ci conserveremmo creature consapevoli di noi stessi e rinunceremmo alle altre capacità. E non a caso l’intera classe, timida e curiosa, si dichiarò incapace di immaginare di poter rinunciare alla vista. Quasi a voler implicitamente sminuire l’importanza degli altri sensi, timorosi di doversi privare del senso luminoso che accende il mondo che ci circonda. In effetti non vi è sorpresa che alla percezione visiva coincida l’attività conoscitiva consapevole. Il fine della visione è quello di renderci consapevoli dell’ambiente che ci circonda, delle cose che ci circondano, delle cose per mezzo delle quali proviamo le nostre abilità, sperimentiamo altri sensi, ma forniamo anche l’altro, declinato in tutte le sue forme, di informazioni; più formalmente facciamo esperienza: Facciamo esperienza di qualcosa. In effetti, attingendo alla tradizione filosofica, siamo soliti definire “soggetto” l’individuo che esperisce, e “oggetto” la cosa che viene esperita. Un reale progresso nella comprensione della percezione potrebbe essere fatto solo se evitassimo opposizioni filosofiche tra il percipiente e il percepito. E’ in tale direzione che intende muoversi la proposta teorica offertaci dallo psicologo della percezione James J. Gibson il cui scopo è contribuire al dibattito psicologico ed epistemologico sulla percezione attraverso il superamento del dualismo soggetto-oggetto. E’ attraverso l’analisi della visione di un soggetto immerso nel proprio ambiente naturale che trova maggiore spazio sperimentale la prova di quella che si delineerà come la teoria della percezione ecologica. Partendo dalla premessa che lo studio della percezione non può essere separato dallo studio del comportamento, Gibson tenta di contestare la riduzione della percezione alla sensazione passiva, dove per sensazione intendiamo il risultato di una relazione causale lineare tra specifiche cause esterne e particolari effetti neurali locali, suggerendo piuttosto l’idea che le relazioni tra l’organismo e l’ambiente debbano essere riformulate secondo un rapporto di causalità circolare. L’esistenza di un organismo dipende da fattori ambientali che sono in qualche misura indipendenti da esso ma strettamente connessi ed influenzati e , a loro volta, influenzano l’organismo stesso. Dunque, la posizione che si intende delineare consiste nella riformulazione della relazione tra il mondo fisico e il mondo mentale, senza cadere in riduzionismi o meccanicismi di sorta. Andando contro un’intera tradizione filosofica scientifica e psicologica, il mondo descritto da Gibson è un mondo vissuto, un mondo che non conosce divisioni dicotomiche, che non si divide tra fisico e mentale. Gli organismi sono dotati di apparati percettivi che si sono evoluti in un particolare ambiente, ma nel corso dell’evoluzione l’organismo ha avuto un impatto sull’ambiente. Ed infatti parlare di ambiente per Gibson è come parlare di mondo proprio, del particolare modo di rilevare caratteristiche fondamentali per l’organismo. L’idea di base è più o meno quella di un organismo primitivo destinato a maturare attraverso la relazione con il suo rispettivo ambiente, conseguentemente alle opportunità o, al contrario, ai pericoli che si presentano. E’ in questo quadro teorico che Gibson sviluppa la sua nozione di affordance. Derivato dal verbo inglese “to afford” (fornire, recare, presentare), il termine vuole indicare qualcosa che è proprio sia dell’ambiente che dell’organismo stesso, è una modalità di estrazione dell’informazione non filtrata, che non conosce processi inferenziali, né ricorre all’intervento di rappresentazioni mentali. E’ un concetto totalmente nuovo che mette in discussione le teorie già esistenti individuando nell’assetto ottico le informazioni che il soggetto acquisisce. Alcune affordances possono essere proprie di oggetti dalle caratteristiche comuni, di organismi dalle caratteristiche comuni, oppure possono essere propri di alcuni organismi di una determinata specie, oppure possono variare e differenziarsi tra individuo ed individuo, e ancora possono variare più volte nella vita di un individuo. Si delinea cosi una delle caratteristiche più interessanti del modo di intendere la percezione, cioè il modo in cui l’individuo relativizza ciò che viene percepito. Per Gibson, è evidente, la percezione è comprensibile solo in funzione dell’attività della vita. Nel pensare ad una nuova epistemologia, impegnata a prendere le distanze dagli assunti classici della “fisica ingenua” Si veda in particolare Fisica ingenua, Milano: Garzanti 1990. colpevole di aver erroneamente influenzato l’approccio allo studio della percezione, Gibson si impegna in una riformulazione non solo terminologica ma soprattutto concettuale degli elementi che costituiscono l’ambiente reale che “non è il mondo della fisica, ma il mondo considerato al livello ecologico” riorganizzando quel concetto di spazio fisico che “nulla ha a che fare con la percezione”. Al mondo descritto dalla fisica che distribuisce corpi nello spazio, Gibson contrappone l’ambiente reale come un sistema aperto che si descrive in termini di mezzo, sostanze e superfici. 1.2 Origini gestaltiche del concetto di affordance Il termine affordance fu coniato verso la fine degli anni ’70 da Gibson e si può considerare a buon diritto una delle sue intuizioni più fortunate. Il sostantivo pensato da Gibson affonda le sue radici, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, nella psicologia della Gestalt (Gibson fu influenzato dallo psicologo Kurt Koffka) che, insieme ad una solida formazione fenomenologica (fu allievo di Langfeld), influenzò inevitabilmente il suo pensiero. Il termine tedesco aufforderungscharakter fu coniato dal gestalista Kurt Lewin e fu letteralmente tradotto in un primo momento come “carattere di invito” per assumere successivamente l’accezione di “valenza”. Lewin, con il suo Aufforderungscharakter conia un concetto dinamico nella sua topologia psicologica che si occupa delle valenze positive e negative degli oggetti presenti nell’ambiente. Per Lewin ogni valenza corrispondeva ad un vettore, rappresentato da una freccia che poteva muovere l’osservatore verso l’oggetto (valenza positiva) o allontanarlo (valenza negativa). È opportuno ricordare che le ricerche di Lewin, che furono di determinante importanza per lo sviluppo della psicologia sociale, muovevano dalla nuova corrente diffusasi in Europa in opposizione allo strutturalismo che prende il nome di Psicologia della Gestalt. Il termine tedesco Gestalt significa “forma”, “figura”, forma complessivamente strutturata che costituisce la percezione nella sua interezza. Per i gestaltisti non si percepiscono singole parti, ma l’insieme di molteplici stimoli colti dal campo visivo. Sebbene l’intuizione di Lewin sia stata innovativa essa mostra di mantenere ancora l’eco di una opposizione dicotomica di base tra, da una parte la separazione tra oggetto percepito e soggetto percipiente e dall’altra la nozione di valenza che, non potendo essere spiegata in termini fisici, manifesta l’esigenza di ricorrere ad una spiegazione fenomenica, quella che Koffka avrebbe successivamente illustrato attraverso la nozione di “oggetto comportamentale”. Koffka, dunque, distingue tra oggetto comportamentale e oggetto geografico; questo perché per un verso la valenza deve essere attribuita all’oggetto dell’esperienza ma per altro verso è anche richiesta dal preciso bisogno dell’osservatore. Valenza, invito, richiesta costituiscono i concetti base dell’affordance gibsoniana e al contempo ne rappresentano anche la differenza sostanziale. Se questi variano dinamicamente dipendendo dalla relazione, dal contesto, e dai bisogni dell’osservatore, l’affordance mantiene la sua caratteristica di “invariante”. L’esperienza delle valenze dirette sostenuta dagli psicologi della gestalt trova la sua origine nella tensione relazionale dualistica tra l’oggetto fenomenico e l’io fenomenico, ma le affordances non sono né fisiche né fenomeniche. La loro rilevanza consiste nella loro definizione qualitativa relazionale e non qualitativa dell’oggetto stesso. Più semplicemente: le affordances non sono proprietà oggettive né soggettive, ma sono un insieme ambientale complesso ed integrato distribuito nello spazio e direttamente disponibile per essere raccolto dalla percezione dell’osservatore. Osservatore che per Gibson non è mai semplicemente un “soggetto-senza-mondo” ma un soggetto parte del mondo che lo costituisce e di cui insieme è costituito. L’informazione che parte dalla percezione visiva viene colta in una ambiente che viene visto con gli occhi presenti in una testa situata in un corpo appoggiato sul suolo. Gibson va ancora oltre l’interazione gestaltica abolendo ogni tipo di dicotomia, azzardando la sua idea di percezione diretta che cioè coglie direttamente l’informazione per come si presenta: “L’oggetto offre quel che offre perché vede quello che è”( Gibson, p.209). 1.3 La percezione come processo diretto Viviamo percependo e percependo viviamo. Potremmo definire la percezione come un processo sviluppato nel tempo e nello spazio. Nel percepire l’ambiente che ci circonda ne facciamo esperienza. Il filosofo Edwin Holt afferma che: «niente può rappresentare un’altra cosa se non la cosa stessa» (Holt 1914, p.142) identificando nell’esperienza percettiva la realtà. La percezione è sempre percezione diretta di aspetti reali dell’ambiente e quella che per Gibson è la “percezione ordinaria” capace di trattenere l’esperienza nella sua compiutezza e totalità nel suo ambiente circostante, altro non è che la percezione diretta, primaria, di un mondo immutabile che conserva la costanza delle sue informazioni. Ed in effetti è proprio nella stabilità del mondo in cui ci si muove che nasce il concetto di “mondo visivo” che per lo psicologo della percezione non solo si oppone all’intimità del “campo visivo”, ma costituisce la modalità visiva fondamentale per l’accesso alla percezione che attraversa e supera qualsiasi deformazione prospettica coniugandola nella raccolta e nella interazione relazionale. Entrando nel salone centrale del palazzo della ragione di Padova, magnifica costruzione del ‘300 che costituiva la sede principale dei tribunali della città veneta, l’attenzione viene subito rapita dalla varietà e magnificenza degli affreschi astrologici ,frutto degli studi di Pietro d’Abano. E’ necessario che trascorra qualche minuto per abituarsi non solo alla luce opaca e diffusa dell’ambiente, ma ci si deve anche muovere fisicamente prendendo confidenza con lo spazio immenso della sala, per poter cogliere dopo qualche minuto ,la presenza di un meraviglioso cavallo di Legno ,gigantesca e fedele riproduzione del monumento equestre al Gattamelata di Donatello. La scultura è là, non si muove, giace sull’estremità sinistra della sala. Eppure non si vede subito. Ci si accorge della sua maestosa presenza solo dopo un po’. Solo dopo aver girato la testa, aver diretto il nostro corpo verso quell’ala della sala, e, non per ultimo, aver abituato i nostri occhi a quelle particolari condizioni ottiche luminose. Quello che vediamo al primo impatto è quello che Gibson aveva definito agli inizi delle sue formulazioni “campo visivo”. Una modalità visiva non chiara, o meglio non completa, fortemente limitata dai contorni fisici del volto e dell’orbita oculare. Una modalità di accesso parziale che di conseguenza ci fornisce una informazione parziale dell’ambiente. Nel campo visivo Gibson individua presto una serie di fallacie epistemologiche più o meno evidenti. Non solo sottolinea l’insufficienza della prospettiva riduzionistica (dove per riduzionismo non intendo solo l’evidente riduzionismo fisiologico ma anche la relativa parzialità delle informazioni raccolte), ma contesta il conseguente richiamo alla sensazione che l’esperienza introspettiva aveva creato . Sensazione che richiamava automaticamente riferimenti mentali che, oltre ad essere illusori, concepivano l’esperienza visiva di tipo “picture”, considerata dallo psicologo una “percezione di seconda mano”. Da qui l’esigenza di porre le basi teoriche della sua riflessione nel “mondo visivo” capace di poter far coincidere con le esperienze percettive le caratteristiche del mondo reale, di quel mondo di cui si fa esperienza nel verificarsi tangibilmente i processi tra l’ambiente e l’organismo. Naturalmente è evidente nella sua formulazione, il voler prendere le distanze dalla lunga e consolidata convinzione che scinde la sensazione dalla percezione, rivendicando nella sensazione l’intima autonomia della produzione dei contenuti dell’esperienza indipendente dal mondo esterno, un processo interno all’organismo (probabilmente avente stimoli e cause esterne, ma comunque autonomo), e nella percezione la rappresentazione del mondo esterno. Questa critica teorica si tradusse in uno dei passaggi chiave degli studi gibsoniani (sebbene ancora non privi di posizioni critiche e contraddizioni): la rivisitazione del concetto di “immagine retinica”. Così come la storica concezione considerava la percezione una rappresentazione del mondo esterno, anche l’immagine retinica veniva considerata una proiezione che doveva essere osservata, come un quadro, una fotografia, una immagine, una scena artificiosa di un artificio in atto che vede duplici protagonisti, quelli rappresentati e quelli immaginari, i piccoli osservatori “seduti nel cervello”, piccoli occhi dietro l’occhio di appartenenza (Gibson,1950): “Ho già definito in passato questa teoria dell’immagine retinica teoria dell’homunculus nel cervello”: l’occhio è concepito alla stregua di una macchina fotografica posta al termine di un cavo nervoso che trasmette l’immagine al cervello. Deve allora esserci un omino, un homunculus, che risiede nel cervello e che osserva questa immagine fisiologica. Per vederla, l’omino dovrebbe essere a sua volta dotato di un piccolo occhio con una piccola immagine retinica, connessa a un piccolo cervello.” (Gibson 1950, pag 104-105) L’oggetto situato nel mondo esterno che forma la sua stessa immagine sulla parte posteriore dell’occhio ricorda la formazione dell’immagine nella camera oscura, ed in effetti la nozione accettata per secoli da fisici e filosofi affonda le sue radici proprio nella teoria di Johannes Kepler. La tesi di fondo della teoria sostiene che ogni punto di un oggetto visibile emana dei raggi in tutte le direzioni, si forma così un cono di raggi divergenti che penetrano nella pupilla e convergono sulla retina fino a costituire il pennello luminoso focalizzato di raggi, l’immagine retinica risulta quindi essere l’insieme dei punti a fuoco sulla retina, provocando una corrispondenza proiettiva uno-a uno. Sebbene la convinzione che l’immagine retinica fosse costituita da una serie di punti distinti di luce suscitasse grande successo nei campi applicativi di natura scientifica e matematica fu presto abbandonata (nel corso del diciannovesimo secolo) proprio a causa del suo limite interpretativo : la teoria risultava perfetta per spiegare la modalità in cui si osserva la proiezione di un qualsiasi tipo di immagine ma, nel campo della visione e della percezione visiva, creò il paradosso degli occhi negli occhi, tanti homunculi che guardano reciprocamente l’immagine proiettata fino a trasmetterla al cervello, all’homunculus residente nel cervello. Dal momento che l’idea fantasiosa dell’homunculus non poteva certamente essere accettata dallo psicologo ecologista in quanto l’immagine retinica non è trasmessa nella sua interezza, si poteva immaginare che fosse trasmessa attraverso i segnali nelle fibre del nervo ottico elemento per elemento tra l’immagine ed il cervello (Gibson 1950, p.105). Il cervello però dovrebbe costruire così un mondo fenomenico distinto da quello fisico, con il che si finirebbe per tornare concettualmente nuovamente alla presenza dell’homunculus nel cervello. “ […] L’occhio invia, il nervo trasmette e una mente o uno spirito ricevono: entrambe implicano una mente separata dal corpo” (Gibson 1950, pag.106).L’informazione colta dalla visione per Gibson. non solo non può basarsi sulla teoria della formazione di una immagine ma non può nemmeno essere compresa dalla teoria degli stimoli isolati. Ci avviciniamo così lentamente alla rivisitazione operata da Gibson. Alla luce di quanto detto l’immagine retinica, (più precisamente l’immagine ottica,) rappresenta il mezzo della percezione dell’oggetto e non l’oggetto stesso. Rappresenta una parte necessaria del sistema più ampio occhio-testa-cervello-corpo a loro volta necessari per ottenere la percezione diretta. Si apre così un lungo capitolo sperimentale delle ricerche di Gibson che conduce ad elaborare un’ipotesi ben più ampia dell’esclusiva “visione con gli occhi”. 1.4 Revisioni e approfondimenti Dopo i 16 anni, trascorsi alla Cornell University, impiegati nella verifica sperimentale delle sue teorie sostenute nelle prime tappe della sua ricerca, Gibson inizia a ritenere opportuno riformulare non solo il concetto di immagine retinica ,ma anche introdurre nuove formulazioni teoriche. Determinante fu la scoperta degli esiti degli esperimenti riguardanti i fenomeni di adattamento visivo condotti nella seconda metà degli anni ’30 da Erissan e Koler. Durante questi esperimenti l’osservatore era chiamato a portare per un tempo anche abbastanza prolungato, delle particolari lenti studiate appositamente per alterare fastidiosamente il campo visivo. Alla fine del lungo periodo, l’osservatore si adattava perfettamente alle lenti. Queste ricerche dimostrano che la percezione corrisponde sempre più alla realtà fisica e la conseguente modifica continua del campo visivo non fornisce spiegazioni al fenomeno di adattamento, non se si affida esclusivamente al campo retinico. Un sistema percettivo più ampio e complesso deve quindi essere coinvolto. In effetti l’adattività rappresentò un elemento importante per la formulazione delle ipotesi di Gibson, non soltanto per quanto concerne l’aspetto sperimentale ma anche quello puramente teorico. L’adattamento evolutivo del sistema visivo affascinò ed influenzò inevitabilmente la sua visione ecologista. In particolare il suggerimento dettato dall’evoluzionismo Darwiniano aveva insinuato la necessità dello studio comportamentale contestualizzato ed immerso nella propria natura che ha consentito lo sviluppo della complessa rete percettiva. Compito degli organi visivi è quello di innescare l’azione, di permettere all’animale di vedere gli oggetti disposti nell’ambiente e di poter accrescere le proprie abilità visive ma anche motorie. La consapevolezza del mondo che ci circonda si fonde inevitabilmente con la consapevolezza del posto che occupiamo nel mondo, la locomozione ci rende liberi nell’esplorazione spaziale ma ci rende soprattutto coscienti e vivi. Fu nel suo libro del 1966 The Senses Considered as Perceptual Systems, che Gibson espose la sua nuova teoria percettiva che delineava il suo più esteso disegno dell’approccio ecologico che fu ufficialmente battezzato in occasione della conferenza svoltasi alla Cornell University nel 1970. L’ottica Ecologica mirava a definire una nuova interpretazione delle influenze che i fenomeni fisici hanno sui fenomeni psicologici. Alla base della teoria vi era la promozione di una relazione interpretativa, seppur necessaria, rappresentata dalla sinergia tra l’animale e l’ambiente. La percezione si va quindi delineando come un aspetto determinante del problema più ampio e complesso dell’esperienza umana, e sebbene l’ideale metodologico tradizionale rimanesse fedele alla netta distinzione tra ciò che è esterno e ciò che è interno, studiando il soggetto dell’esperienza come un ente distinto dal suo ambiente circostante, la nuova ottica ecologica rappresentava una tappa importante della storia della percezione . La sua rilevanza va oltre il superamento delle varie dicotomie classiche, rappresenta una sintesi prospettica di una lunga tradizione filosofica e scientifica che non viene negata o corretta ma riformulata nella terminologia, nelle definizioni e nei presupposti teorici. Se l’animale esperiente beneficia della sua esperienza con e attraverso ciò che lo circonda realmente, realtà ed esperienza non possono essere analizzate separatamente. Evolutivamente l’organismo necessita del suo ambiente specifico non solo per soddisfare le sue esigenze primarie, rappresentate da forme fisiche semplici ed elementari (ciò che potremmo definire naturali), ma ha aspirazioni morali, etiche, frutto di stadi avanzati di apprendimento (ciò che potremmo definire culturali), l’organismo percepisce ed agisce, modifica lo stesso ambiente che lo modifica. La sinergia parte dunque dall’inevitabile fusione dei due elementi complementari imprescindibili nella loro identità. Ma per comprendere la natura dell’esperienza diventa necessario postulare una organizzazione sistematica e sistemica dell’ambiente significativo per l’organismo, composto non da singole unità ma da unità subordinate. La struttura del mondo si presenta dunque come un insieme di strutture connesse tra loro configurate dalla relazione delle diverse componenti che disegnano un rapporto di continuità tra l’organismo e l’ambiente. Gibson parte proprio dai concetti di necessità e bisogno, sinergia e relazione, per sviluppare il suo concetto di affordance. Per entrare in relazione con gli oggetti distribuiti nello spazio non è sufficiente vederli, non basta la sola attività sensoriale, ma è necessario comprenderli interagendo con tutto ciò che l’ambiente offre. Naturalmente l’attività sensoriale è il mezzo più evidente per poter accedere ed usufruire delle affordances. È importante sottolineare che le affordances sono potenzialmente offerte dall’ambiente e dipende dalla necessità dell’organismo accedervi o no. La rimodulazione della costante dicotomica assegna significati e rilevanze differenti all’organismo e all’ambiente, evidenziandone l’importante valenza adattiva dell’attività percettiva, elemento che risulterà determinante nello sviluppo della teoria della percezione ecologica. Nella prima fase delle sue ricerche Gibson si era concentrato sulla profondità ambientale partendo dagli elementi puramente fisici, ma presto spostò la sua attenzione verso quello che lui chiamò il “layout” degli oggetti ambientali. Dal momento che un animale ha necessità di muoversi nella sua “nicchia ecologica”, la domanda fondamentale diventa: come può muoversi liberamente percependo un ambiente ricco di oggetti ? Era chiaro per lo psicologo che l’osservatore percepisca l’intera disposizione ambientale, e questa risultava essere una valida esperienza visiva priva di alcuna sensazione, a conferma della convinzione di Gibson., ormai consolidata ,che ai fini dell’attività percettiva i dati di senso erano assolutamente irrilevanti. Dopo molteplici tentativi sperimentali, Gibson ritenne quindi opportuno abbandonare l’idea originaria che voleva una corrispondenza tra l’ambiente fisico e quello fenomenico (la relazione del tipo punto a punto), a favore di una corrispondenza in termini componente a componente, dovendo ricorrere all’antica nozione di “angolo solido visivo”. “Non abbiamo più punti e fasci di raggi, ma piuttosto angoli solidi provenienti ad un punto dalle facce degli oggetti. Così non definiamo più la luce ambiente come intensità differenti in direzioni diverse, ma come differenze di intensità in direzioni diverse, e perciò diciamo che un insieme di angoli solidi visivi costituisce un assetto ottico” (Gibson, 1970, p.101). L’angolo solido visivo rappresenta la base di quelli che Gibson definì bordi occludenti, ovvero bordi spaziali e temporali che rappresentano la maggiore informazione per l’individuazione di un oggetto dietro l’altro, permettendo all’osservatore la percezione di oggetti temporaneamente fuori dalla sua vista. Il naturale passaggio successivo all’individuazione dell’importanza dei bordi occlusivi, porta all’attenzione della locomozione dell’individuo. Per Gibson la presenza di un ostacolo non rappresenta necessariamente un ostacolo per la locomozione ma, piuttosto, una occlusione reversibile, una possibilità aperta verso il superamento dell’ostacolo e l’esperienza della porzione di ambiente che era stato solo percepito. La reversibilità ottica permette la percezione delle parti frontali, laterali e posteriori dell’oggetto che si offre nella sua interezza, la completezza dell’informazione dell’oggetto per Gibson è inesistente nella non reversibilità. Attraverso il principio dei bordi occludenti Gibson arriva così a spiegare ogni fatto percettivo, dalla percezione ambientale alla percezione del corpo stesso dell’osservatore. Immerso in uno spazio temporale occupato da complessi layout subordinati tra loro, l’osservatore muove gli occhi, la testa, il corpo, e percepisce un ambiente indiviso, unico, compatto, collocandosi percettivamente al centro di esso, capace , per mezzo della perdita o del guadagno di tessitura ai bordi occludenti , di percepire contemporaneamente il corpo e il controllo dei suoi movimenti, conservando il ricordo e insieme l’aspettativa dell’esperienza percettiva. “Nel bordo occludente il presente nasconde il passato ed anche il futuro. Durante la locomozione ciò che si sta nascondendo “ va nel passato” e ciò che si sta rivelando “ viene dal futuro”. Ma nella realtà naturalmente si apprende semplicemente l’intero ambiente.”(Gibson, 1975, p.393) Passato, presente e futuro rappresentano tappe ideologiche di un tempo inesistente. Un tempo che pare esistere solo in funzione dei cambiamenti processuali che si verificano nel loro continuo fluire. L’epoca rinascimentale ci consegna con la prospettiva artificiale una percezione ambientale che ha plasmato non solo il nostro sistema visivo, ma ha modificato la nostra modalità di approccio al mondo dall’alto del vasto panorama della nostra mentalità pittorica inevitabilmente impegnata all’educazione di una visione prospetticamente guidata dagli occhi, con gli occhi e attraverso gli occhi, con i loro limiti e le loro inevitabili parzialità. Ma l’ambientalismo di cui si vuole, forse inconsapevolmente, fare portavoce Gibson che cerca di concepire un sistema visivo integrato, si allontana dallo scopo classico della visione, ricollocandola in un sistema motorio per cui utile e necessario “guardare con la testa”. (Gibson, pag.188.). Nel continuo fluire e con-fluire dell’esperienza, del soggetto e dell’ambiente nella terra di mezzo che sembra costituire il corpo (e più precisamente il corpo immerso nel sistema ben più ampio che è l’ambiente), le tre diverse componenti del problema teorico ed ontologico che si prospetta sembrano trovare il loro punto di fusione in una visione unica della realtà che vuole prendere il posto del binomio soggetto-oggetto, riformulando la reciproca relazione instaurata dal soggetto nel suo ambiente, una relazione dinamica nel suo manifestarsi che nel riformularsi si presenta viva e presente e si fa carne, in un corpo che si fa soggetto esperiente ed oggetto esperito. Ripensare all’esperienza alla luce dell’ottica ecologica Gibsoniana, può evidenziare problematiche non solo teoriche; eppure è vero che “il progresso nella comprensione della percezione potrebbe essere fatto solo se evitassimo biforcazioni filosofiche tra il percipiente ed il percepito (tra il soggetto e l’oggetto). Ed è in questo senso che il contributo dello psicologo statunitense risulta essere rilevante, soprattutto se integrato ed argomentato con la prospettiva fenomenologica (dalla quale si muove originariamente il suo pensiero).facendo riferimento al filosofo della percezione per eccellenza: Maurice Merleau-Ponty. 1.5 Critica alla concezione di Gibson Si tratta ora di discutere criticamente il contributo di Gibson alla teoria della percezione per evidenziarne alcuni aspetti problematici. Al fine di raggiungere sinteticamente lo scopo prefisso si seguirà la discussione condotta dal filosofo Andrea Zhok nell’opera La realtà e i suoi sensi. Innanzi tutto pare importante segnalare quella che risulta essere la questione cruciale per un corretto approccio al problema della percezione. Come nota Zhok: “Gibson viene a proporre una visione realista e naturalista […]. Per Gibson la luce ambientale porta intrinsecamente informazione relativa alla superfici visive così come il suono della campana ci informa della campana e l’odore del formaggio del formaggio (187). […] L’idea portante per Gibson è che la luce ambientale (diversamente dalla pura luce radiante, in senso fisico) non va concepita come diffusa genericamente nello spazio visibile, ma va intesa come una serie di ordinamenti ottici (optic arrays) centrati nell’occhio del percipiente e soggetti a trasformazioni ottiche regolari” (Zhok 2012, p. 87) . In altri termini la motilità degli occhi, della testa e dell’intero corpo da parte del percipiente produce modifiche nell’articolazione di differenze ottiche ambientalmente disponibili; tali modifiche hanno un carattere affine alle trasformazioni topologiche studiate in geometria (202), per cui presi due punti arbitrariamente vicini in una figura è possibile associarli secondo una funzione a due punti arbitrariamente vicini in un’altra figura. Le trasformazioni topologiche, in particolare le trasformazioni cosiddette continue, presentano casi (di cui le trasformazioni prospettiche sono esempi) in cui è concepibile giungere ad una figura per deformazioni continue di un’altra figura. Ciò che identifica una trasformazione topologica è la funzione di associazione dei punti. Bisogna però subito notare che il riferimento alle trasformazioni topologiche non può essere preso troppo alla lettera per svariate ragioni. Innanzitutto, i gradi di libertà delle trasformazioni topologiche di per sé vanno ben al di là di ciò che noi considereremmo trasformazioni di un medesimo oggetto: si possono operare trasformazioni topologiche che portano con continuità dall’immagine di una pera a quella di un elefante, o da una ciambella ad una tazza, ma con tutta evidenza qui la continuità (e reversibilità) della trasformazione non coincide con la nostra intuizione di un oggetto spaziale dotato di identità. D’altro canto, non possiamo certo limitarci alle trasformazioni prospettiche, visto che siamo in grado di identificare come lo stesso oggetto non solo cose come solidi in rotazione, ma anche, ad esempio, un gatto in movimento. Anche Gibson è incerto circa quanto letteralmente il riferimento alle trasformazioni topologiche debba essere preso, ma ciò che a lui preme è segnalare come l’acquisizione di informazione visiva (e più in generale percettiva) sia rivolta all’identificazione di invarianti (che è ciò di cui la topologia si occupa). Quando, ad esempio in una trasformazione prospettica, noi scorgiamo come all’espandersi di una dimensione corrisponde il contrarsi di un’altra dimensione, l’invarianza è rappresentata dalla funzione che correla in modo proporzionale l’espandersi dell’una con il contrarsi dell’altra. Chiaramente sul piano percettivo noi non siamo riflessivamente consapevoli di tali funzioni, ma la nostra percezione di oggetti identici è essa stessa precisamente il darsi immediato di tali rilevazioni di invarianza. Che però all’idea di trasformazione geometrica non si possa dare più che una valenza metaforica, risulta chiaro anche dal fatto che le relazioni di co-variazione che ci consentono di identificare un oggetto come disposto spazialmente non sono soltanto geometriche, ma anche, ad esempio, cromatiche (es.: una faccia del cubo si espande ed illumina, mentre l’altra si riduce ed adombra). Questa posizione pone alcuni problemi rilevanti. Come nota ancora Zhok, “L’idea di Gibson è che le invarianti ottiche rappresentano informazione ambientale che ci dà notizia diretta della realtà esterna. Per sottolineare il valore di apprensione diretta del reale che caratterizzerebbe la percezione Gibson cerca di sostenere tre tesi ulteriori. Egli cerca: 1) di ridurre ai minimi termini il ruolo attribuito alla memoria nella percezione, 2) di togliere di mezzo ogni riferimento all’immaginazione nell’attività percettiva, 3) infine di concepire tutte le proprietà relazionali delle cose (affordances) come parti del mondo in sé.“ Quanto al primo punto Gibson si trova in una posizione difficile nel momento in cui, sulla scorta di quanto lui stesso sostiene, sembra di dover riammettere un ruolo fondamentale alla soggettività in quanto memoria. Infatti, se la percezione ha essenzialmente natura enattiva ed è dunque legata ad una campionatura sensomotoria diacronica, sembra inevitabile concepire la rilevazione di invarianza come qualcosa che avviene con l’ausilio di una funzione mnestica: per percepire qualcosa come invariante al mutare dei decorsi sensomotori sembra necessario affidarsi ad una memoria dove l’invarianza nel tempo si depositi. Gibson dapprima afferma che della memoria non c’è bisogno, per poi correggere subito il tiro ed asserire che è della memoria come deposito (storage) che non c’è bisogno, anche se una qualche forma di preservazione dell’esperienza passata è indispensabile (262 sgg.). Come questa memoria modificata sia da intendere non è chiaro, né è chiaro in che modo tale modello alternativo di memoria possa rendere trascurabile il ruolo del soggetto vivente nel riconoscimento percettivo. Questo è un punto in cui l’analisi husserliana relativa alla natura ritensivo-protensiva dell’esperienza potrebbe fornire precisamente un modello di memoria incarnata irriducibile ad immagazzinamento o ‘engramma’ (265), ma è evidente che tale prospettiva non va affatto nella direzione intesa da Gibson di una minimizzazione realista del ruolo della soggettività. Se veniamo al secondo punto, la questione del ruolo del soggetto diviene ancora più pressante. Gibson, come abbiamo detto, vuole evitare di attribuire funzioni di sintesi ad atti proiettivi di tipo immaginativo: noi non costruiamo immagini del mondo a partire dalle sensazioni (187). Tuttavia, se dobbiamo pervenire da campionature sensomotorie a strutture percettive non possiamo evitare di attribuire all’attività soggettiva un ruolo attivo. Ci sono buone ragioni per ritenere improprio dire che il soggetto ‘immagini’ la struttura a partire da un’informazione limitata, e possiamo anche evitar di dire che il soggetto ‘completa’ immaginativamente i dati sensibili, ma è difficile negare che un’attività ‘anticipativa’ sia indispensabile all’esplorazione sensomotoria. Che l’attività di anticipazione e ricerca che fonda la percezione non consti di proiezioni immaginative è cosa che Husserl stesso sostiene, ma ciò non toglie che il ruolo protensivo dell’azione percettiva resta inaggirabile. Gibson invece, pur parlando della percezione come di un’attività in cui il vivente si sforza di ottenere informazione dal mondo, poi oblitera questa dimensione ‘teleologica’ (propriamente, teleoclina) a favore di una sorta di intuizione pura di invarianti matematiche. Egli infatti scrive: “La campionatura del mondo attraverso la locomozione, la campionatura del campo intorno alla testa ruotando gli occhi e la dettagliata campionatura di parti di questo campo per esplorazione foveale sono tutte simili sotto un aspetto. L’insieme di campioni in sequenza è un’unità nel senso che comprende un gruppo matematico. La stessa struttura persiste attraverso l’intera serie”. Ora, dicendo che «l’insieme dei campioni in sequenza è un’unità nel senso che comprende un gruppo matematico», egli intende che l’unità reale del percetto dipende dall’invarianza della funzione matematica che, idealmente, potrebbe descrivere una certa trasformazione sensomotoria. Ora, però, è opportuno ricordare che tali funzioni matematiche non sono fenomeni, ma espedienti esplicativi, ipotesi per spiegare l’attività percettiva, la cui natura matematica non sembra poter essere più che una metafora. Sembra difficile che Gibson voglia sostenere la tesi platonizzante per cui la percezione sarebbe qualcosa come un’intuizione della natura matematica sottostante alla realtà di ciascun ente percepito. Tra l’altro, esistono infinite funzioni matematiche che potrebbero descrivere trasformazioni geometriche che nessuno riconoscerebbe come momenti di una stessa cosa; dunque il fatto di essere riconducibili ad una funzione trasformativa non è di per sé sufficiente a porre un’unità di senso percettivo. Ma se tali invarianti percettive non sono letteralmente ‘funzioni matematiche’ già sempre inscritte in ciascuna cosa, allora come dovremmo concepirle? Probabilmente come una sorta di ‘ipotesi percettive’ volte alla ricerca dei confini che identificano l’oggetto. Ma ciò ci riconduce ad un’attività anticipatoria di tipo ‘teleologico’, attività che possiamo anche non chiamare immaginativa, ma che certamente non è toto coelo difforme dall’immaginazione. Veniamo infine al terzo e ultimo punto, che concerne uno dei contributi teorici più originali da parte di Gibson, ovvero la sua teoria delle affordances. Per affordance Gibson intende l’opportunità o disponibilità ad essere percepite di proprietà oggettuali che si stagliano immediatamente come relazioni sensomotorie (Gibson 1983: 23; cfr. Gibson 1986: 127-145): il bastone è immediatamente percepito come afferrabile, il pavimento è immediatamente visto come calpestabile, ecc. Con ciò si vuol dire che noi non percepiamo prima le cose come insiemi di attributi obiettivi, per poi inferire in un secondo tempo la relazione tra quegli attributi e le nostre capacità sensomotorie: essendo la percezione già sempre un’esplorazione sensomotoria, tutti gli attributi sono costitutivamente relazionali e ci informano circa cosa ‘possiamo fare’ del percetto (cfr. Noë 2004: 105-106). L’immediatezza percettiva delle affordances è però immediatezza solo nel senso di non-inferenzialità, poiché esse chiaramente presuppongono un processo di apprendimento in cui il significato relazionale del percetto viene a costituirsi. E fin qui la nozione di affordance può rappresentare un utile strumento concettuale perfettamente compatibile con l’idea fenomenologica di costituzione del percetto. Il problema tuttavia è che Gibson insiste nell’interpretare le affordances come proprietà della cosa in sé, ovvero come informazione ambientale intrinsecamente disponibile nella cosa. Qui il terreno si fa scivoloso e la tesi ambigua. Da un lato è giusto rimarcare come tale ‘informazione ambientale’ non sia per così dire ‘inventata’ dal soggetto percipiente, ma appartenga alla cosa in quanto percepita. E tuttavia non si può forzare troppo in senso realista questa affermazione, minimizzando il ruolo costituente dell’attività soggettiva: le affordances non sono create arbitrariamente dal soggetto, ma non sono neppure inerenti alla cosa indipendentemente dall’apprensione sensomotoria da parte del soggetto incarnato (Gibson 1983: 274). Dire che le affordances non sono create da una riorganizzazione cerebrale (ibid.: 273) ma sono percepite immediatamente è giusto, purché non si scordi che la percezione è un processo vincolato ad una corporeità agente e che dunque i percetti hanno il senso che hanno solo relazionalmente. Se guardiamo al caso emblematico degli ordinamenti ottici (optical arrays) di cui Gibson parla, sembra chiaro che la sua intenzione sia quella di concepire la relazione stessa tra soggetto ed oggetto in termini oggettivi (cfr. Noë 2004:pag. 85). La cornice teorica in cui Gibson si muove è quella ordinaria di una biologia evoluzionista in cui non c’è propriamente spazio per relazioni soggetto-oggetto, ma solo per relazioni tra esseri viventi biologicamente intesi ed un mondo spaziotemporale fisicamente inteso. Si tratta cioè di una visione schiettamente in terza persona, naturalistica, che dà per scontata la descrizione scientifica del mondo. Questo però, per una teoria che voglia confrontarsi con la percezione in quanto nostro primo accesso alla realtà, è un postulato davvero pesante, capace di compromettere ogni valore ontologico eventualmente attribuibile alle tesi in questione. Per Gibson noi, in quanto entità biologiche, ci relazioniamo direttamente con la realtà ambientale, per così dire ‘saltando’ il problema di ciò di cui siamo sensibilmente coscienti: si tratta di un processo in cui l’organismo si sintonizza sulle condizioni ambientali, a prescindere dall’eventuale ruolo che la coscienza può avere. Il problema tuttavia, ineludibile in una prospettiva fenomenologica, è che tutti gli attributi delle dimensioni biologica e fisica sono il frutto di giudizi, il cui significato è inconcepibile senza riferimento ad atti di coscienza strutturati. C’è qualcosa di palesemente problematico nell’interpretare il nostro accesso primario, elementare al mondo (la percezione) premettendovi un ampio costrutto teorico dove un mondo spaziotemporale, con proprietà fisiche, fronteggia una natura vivente, frutto di evoluzione e dotata di proprietà biologiche. Si noti: il fatto che i saperi fisici e biologici siano prodotti di un’attività di coscienza radicata nella percezione non vieta di per sé di usarli in un’analisi della percezione. Soltanto, tali saperi non sono mai nella posizione di esprimersi sulla realtà sostituendo o aggirando l’analisi immanente della percezione. In quanto fondati essi non sono nella posizione di correggere o invalidare ciò che li fonda. (cfr. Zhok 2012, pp. 88-92) L’approccio fenomenologico consente di porre l’intera problematica su basi differenti e insieme coerenti con le esigenze teoriche di fondo dell’approccio gibsoniano. Come afferma Zhok, “Concretamente, in una prospettiva husserliana, i timori di Gibson che un abbandono del realismo naturalista apra la strada a porre il mondo percepito come una ‘grande illusione’ sono del tutto infondati. Husserl ha buon gioco nel mostrare che la percezione, proprio perché identificata come condizione genetica trascendentale per ogni sapere ulteriore, non può non essere considerata accesso primario a ciò che è reale (Hua XXXVI: 12; Hua VI: 127). Per sostenere tale tesi non c’è bisogno di passare, come fa Gibson, attraverso una elaborata teoria che argomenti come l’informazione ambientale importante per il vivente sia immediatamente colta dal percipiente senza la mediazione della coscienza sensibile.” (Zhok 2012, p. 92) Sembra così legittimo trarre alcune conclusioni che permettono di porre in connessione la posizione di Gibson con l’approccio fenomenologico al fine, ad un tempo, di preservare le intuizioni gibsoniane e di situarle in un contesto filosoficamente più solido. Seguendo Zhok, è possibile conservare, dell’analisi di Gibson, in vista della discussione successiva, due nozioni feconde: da un lato è importante tener fermo il ruolo specifico attribuito alla rilevazione di differenze nella percezione, dall’altro è opportuno far tesoro dello strumento concettuale rappresentato dalla nozione di affordance. Entrambe le idee ci torneranno utili nel prosieguo. L’approccio di Gibson, se affiancato a quello fenomenologico, si presenta come un’importante illustrazione psicologica della funzione delle cinestesi; tuttavia, alla luce di quanto detto esso manifesta anche alcune evidenti limitazioni, che con Zhok si possono riassumere in tre punti. In primo luogo, l’impianto naturalistico di Gibson non ha sufficiente radicalità per affrontare il tema della costituzione percettiva degli oggetti: il realismo di Gibson non è fondato nella sua teoria della percezione, ma vi è presupposto. Gibson assume senz’altro dalle scienze naturali le idee di spazio e tempo, così come l’idea di ambiente biologico. Per inciso, definire i rapporti tra la realtà designata da categorie fisiche e quella designata da categorie biologiche non è un problema di facile soluzione nelle visioni naturaliste; e questo problema si riproduce per intero nell’approccio gibsoniano. Per quanto egli si sforzi di separare nelle nozioni di luce, ottica, apparenza, informazione, ecc. un senso puramente fisico da un senso ambientale (‘ecologico’), come sia in ultima istanza da intendere il valore di realtà dell’uno e dell’altro rimane oscuro. Da quanto egli dice apprendiamo che l’informazione ambientale utile al vivente biologico è ciò che il vivente estrae dal mondo fisico attraverso la percezione, basandosi su un’attività sensomotoria. Questo sembrerebbe mettere in campo una distinzione tra realtà fisica e realtà biologica, dove solo la seconda rappresenta il mondo percepito: ciò che differenziamo nell’ambiente e ciò che identifichiamo in esso come invariante sarebbe ciò che viene incontro in qualche modo agli interessi biologici del vivente. Ma, se così stanno le cose rimane enigmatico il significato di ‘realtà’ ascrivibile al ‘realismo’ di Gibson: ci si sta dicendo, con Uexküll, che il mondo a noi cognitivamente accessibile è solo una nicchia evolutiva legata ai nostri interessi biologici? Se così fosse sembrerebbe un realismo ben strano, visto che il mondo in sé ci sarebbe cognitivamente precluso. Se invece Gibson non vuole accogliere questa tesi, dovrebbe sostenere e spiegare qual è il nesso tra la dimensione biologica degli impulsi rivolti all’ambiente e quella ‘oggettiva’ propria della realtà, per lui rappresentata dalla datità fisica. In questo quadro si presentano solo due alternative. O la dimensione impulsiva, istintuale, ‘teleologica’ del soggetto vivente è essenziale per il nostro accesso alla realtà del mondo, in forma percettiva, e allora bisogna porsi il problema di spiegare su questa base le idee di realtà spaziotemporale derivate dal retroterra fisico. In questo caso il soggetto vivente non può essere trattato come un mero corpo fisico e l’oggettività non si può dare se non nella forma di una speciale relazione al soggetto vivente (in prima persona). Oppure la dimensione impulsiva del vivente, sulla cui scorta esso seleziona stimoli e identifica invarianti, è in linea di principio riconducibile a categorie fisiche, secondo un classico canone riduzionista; ma questa prospettiva rende mere apparenze o epifenomeni tutte le categorie specificamente biologiche e intenzionali (esperienze, discriminazioni, esplorazioni, ecc.). Veniamo al secondo punto. Se ci addentriamo nella situazione aporetica appena tratteggiata, troviamo ben presto sue ripercussioni particolari in specifici punti della teoria gibsoniana della percezione. Infatti, in un quadro concettuale naturalista il reale è ordinariamente concepito come tutto ciò che è di volta in volta presente: né il passato né il futuro sono propriamente reali. La loro ‘realtà’ è soggettiva e perciò stesso ontologicamente sospetta. In quest’ottica è abbastanza chiaro come Gibson cerchi di minimizzare tanto il ruolo dell’apprensione stabile di esperienze, che egli discute sotto la voce ‘memoria’, quanto il ruolo delle anticipazioni ‘teleologiche’, che compaiono sotto la voce di ‘immagini proiettive’. Ma come abbiamo visto tale minimizzazione è inconsistente: l’identificazione di invarianti non può accadere senza il funzionamento di qualcosa come la funzione ritensiva della coscienza, e parimenti non ha alcun senso parlare di ottenimento dei percetti in un processo di ricerca di informazione senza far implicitamente riferimento a qualcosa come la dimensione protensiva della coscienza. Il ruolo strategico che l’approccio enattivo alla percezione attribuisce al processo sensomotorio rende ineludibile una chiarificazione delle componenti temporali e teleologiche di tale processo. Infine, l’approccio gibsoniano, assumendo implicitamente un’idea di realtà oggettiva in senso genericamente naturalistico (esistenza spaziotemporale), salta a piedi pari un problema fondamentale, ovvero il problema di come le varie modalità sensoriali contribuiscano alla costituzione della realtà percepita. Gibson in effetti afferma che, siccome la percezione dipende dall’ottenimento attivo di informazione sensomotoria, non c’è alcun problema specifico relativo alla realtà per una o per l’altra modalità sensoriale: la realtà è semplicemente ciò che compare come invariante al dispiegarsi del comportamento sensomotorio, a prescindere da quale sia la modalità coinvolta. Questa è una tesi interessante ed impegnativa, ma visto che, con tutta evidenza, non tutte le modalità sensoriali sono parimenti capaci di fornire informazione sensomotoria, ne segue che il problema della qualità sensibile della coscienza non può essere aggirato. Che qualcosa che si profila come invariante sul piano tattile possa integrarsi con ciò che si profila come invariante sul piano visivo non è un’ovvietà trascurabile. Inoltre, tali invarianti rappresentano, nel migliore dei casi, ciò che Husserl chiamava il ‘fantasma’ del percetto reale, ma il problema della sua posizione come trascendenza reale e non come mera immagine rimane intoccato.” (Zhok 2012,pp. 93-97) Tutti e tre questi fronti problematici, relativi rispettivamente alla complementarità tra coscienza e realtà percepita, al ruolo di ritenzioni (‘memoria’) e protensioni (‘immaginazione’) e alla costituzione trasmodale della realtà percettiva dovranno trovare una soluzione adeguata nei prossimi capitoli. Capitolo Secondo L’apporto di Merleau-Ponty al problema del significato ontologico dell’esperienza corporea 2.1 L’esperienza corporea Nelle conclusioni del primo capitolo sono state indicate alcune questioni problematiche emergenti dalla pur feconda e originale indagine condotta da Gibson, che si possono qui rapidamente ricordare: 1 Gibson adotta un presupposto realistico e naturalistico che non viene mai realmente discusso né giustificato ma che fa da guida a tutta la sua analisi, restando così sullo sfondo come un pregiudizio che non è auto-evidente. 2 Gibson tende a sottostimare, per motivi connessi al primo presupposto, il ruolo della soggettività esperiente, in particolare per ciò che concerne l’immaginazione, la virtualità, la temporalità. Si può al contrario sostenere che tali aspetti siano fondamentali per una teoria non idealistica né rappresentazionalistica dell’esperienza (due questioni che costituiscono altrettante tematiche problematiche sia per Gibson che per tanta parte della ricerca contemporanea relativamente alla naturalizzazione della coscienza) che tuttavia eviti anche di ricadere nell’aporia della posizione auto-contraddittoria del primato del presente. 3 Gibson non si interroga in modo approfondito sul concetto di fenomeno e tende quindi a interpretare tale nozione sulla scorta della filosofia moderna come apparizione infondata e illusoria. Questa lettura sorregge la sostanziale equazione operata da Gibson tra esperire e ottenere informazioni. Tale equazione non va tanto rifiutata quanto semmai di molto articolata e approfondita, per chiarire cosa possa voler dire esperire se il soggetto esperiente è un corpo e non una mente disincarnata o un calcolatore. Alla luce di queste considerazioni pare utile rivolgere ora l’attenzione alle ricerche condotte dal fenomenologo Maurice Merleau-Ponty soprattutto nell’opera capitale del 1945, la Fenomenologia della percezione, senza trascurare però il terreno preparatorio su cui tale opera si erge, vale a dire il libro di tre anni anteriore, La struttura del comportamento, che costituisce la pars destruens dell’indagine di Merleau-Ponty, rispetto a cui la Fenomenologia della percezione rappresenta la pars construens. Il primo punto problematico della concezione gibsoniana può essere opportunamente discusso alla luce delle indagini compiute da Merleau-Ponty, nella sua prima opera pubblicata con il titolo La struttura del comportamento, sul legame tra coscienza e natura. In sintesi si può dire che per Merleau-Ponty è questo legame il termine a cui porre attenzione. Ciò significa che la coscienza va vista come elemento della natura ma al contempo che la natura si dà solo a una coscienza. Tale coscienza non è necessariamente quella umana, anzi per Merleau-Ponty ogni forma di vita, dalla più semplice alla più complessa e infine all’umanità, possiede una propria peculiare forma di coscienza. Tale affermazione però è legittima soltanto a patto di non ricondurre la pluralità di forme di coscienza effettivamente presenti nel mondo vivente a quella umana intesa come norma. Al contrario, si tratta semmai di comprendere come la forma di coscienza propriamente umana sia potuta emergere all’interno della più ampia vitalità naturale e possedere prerogative proprie che la sottraggono, per molti aspetti, dal contesto schiettamente naturale, pur non separandola del tutto dalla natura, come invece tanta parte della tradizione intellettualistica e spiritualistica della filosofia occidentale ha per secoli ritenuto. Correlativamente però si tratta anche di comprendere il concetto di natura in termini diversi rispetto al materialismo meccanicistico e atomistico proprio sia della fisica ottocentesca (che adotta un modello superato nei fatti dalle scoperte rivoluzionarie del Novecento), sia soprattutto della biologia e della psicologia con cui Merleau-Ponty si trova a fare i conti nell’indagine del concetto di comportamento. In realtà la posizione di Merleau-Ponty è delineata sin da quando, nel 1934, egli presenta un progetto di ricerca dedicato al problema della “natura della percezione”. In questo titolo, apparentemente anonimo, si cela in effetti un ambizioso programma: quello di indagare la percezione nella sua valenza di struttura generale dell’esperienza per un soggetto umano che non sia separato dalla natura, senza tuttavia poter neppure essere identificato senza residui come un ente naturale. La questione è duplice: se da una parte si tratta di portare in luce quale sia la concezione della percezione più idonea a coglierne gli aspetti fondamentali, ossia appunto la sua natura, per altro verso la natura stessa è direttamente implicata nella percezione. In altre parole, la natura non è soltanto oggetto di indagine da parte di un soggetto percipiente estraneo ad essa, ma è anche il suolo o terreno su cui si installa ciò che si chiama generalmente percezione. Pertanto sia il concetto di percezione che quello di natura vanno riesaminati. La percezione va intesa come fenomeno “naturale”, e la natura deve poter essere compresa come ciò che consente o ammette la percezione. Né il soggetto né il mondo sono caratterizzati quindi, per Merleau-Ponty, in modo esclusivamente materialistico, e d’altro canto neppure in termini di idealismo spiritualistico. La percezione può essere vista come il terzo termine che consente di connettere gli altri due e di rappresentare perciò il terreno comune da cui un lato soggettivo e uno oggettivo possano essere colti nel loro emergere. In questo modo, come nota il filosofo Luca Vanzago: “la nozione merleau-pontyana eccede i limiti usuali che caratterizzano il concetto filosofico di percezione, per diventare la cifra del reale e insieme la chiave di accesso a esso. Merleau-Ponty ravvisa negli sviluppi (allora) recenti sia nelle scienze bio-psico-fisiche, sia nella filosofia tedesca, le ragioni fondamentali per un ritorno allo studio della percezione che sappia superare i limiti della filosofia francese dell’epoca. In particolare, egli sottolinea come siano essenzialmente quattro i filoni che motivano e giustificano il ritorno allo studio della percezione: la comparsa, soprattutto in Germania, di nuove filosofie che mettono in discussione le idee guida del criticismo neo-kantiano, a quel tempo dominanti nella psicologia come nella filosofia della percezione; lo sviluppo della fisiologia del sistema nervoso; lo sviluppo della patologia mentale e della psicologia del bambino; e soprattutto il progresso di una nuova psicologia della percezione in Germania (la Gestaltpsychologie)” (Vanzago 2012, pp. 11-12). Nella Struttura del comportamento Merleau-Ponty sviluppa una problematica fondamentale sia per lo sviluppo del proprio pensiero, sia in particolare, per ciò che interessa questo studio, le basi filosofiche di una rinnovata concezione della percezione come legame naturale. Merleau-Ponty dichiara che lo scopo perseguito nel libro consiste nel “comprendere i rapporti di coscienza e natura – organica, psicologica o anche sociale” (Merleau-Ponty 1963, p. 23), vale a dire l’idea che la coscienza emerga dalla e all’interno della natura, seguendo un processo dialettico non teleologico ma neppure deterministicamente necessitato, o all’opposto regolato dal caso delle variazioni genetiche e dal vaglio della selezione naturale intesa in senso più o meno schematicamente darwiniano. Tale processo dialettico porta la vita a strutturarsi in forme sempre più complesse, partendo da quelle più semplici sino a raggiungere la complessità del comportamento umano. Il problema sostanziale affrontato da Merleau-Ponty consiste nel delineare i criteri per comprendere l’emergere di una forma di vita molto particolare, quella umana, che se è ancora in gran parte una forma di vita naturale, d’altro canto evidentemente ne fuoriesce. La questione pertanto viene posta in termini di comprendere ogni forma di vita come superamento ma insieme conservazione di quelle precedenti. Nel caso della forma di vita umana, inoltre, questa stessa questione rappresenta un problema ulteriore, poiché l’essere umano è l’unico essere vivente per cui si pone questa stessa questione. L’uomo sa di essere un vivente sui generis. Come dar conto di questa sua capacità di “verità” senza farne una proprietà extra-naturale o “meta-fisica”? È in questo quadro che la percezione per Merleau-Ponty assume un significato ontologico decisivo. Per un verso è necessario studiare l’esperienza umana in quanto esempio peculiare, e certamente particolarmente complesso, ma non essenzialmente eterogeneo, di comportamento vitale; per altro verso si tratta di capire come l’esperienza, e in particolar l’esperienza percettiva, portino in luce la presenza di una processualità intrinseca della natura, che l’esperienza umana però non soltanto attua, ma anche disvela. Come osserva ancora Luca Vanzago: “l’esperienza percettiva umana non costituisce soltanto una variante all’interno di una linea di continuità (sia pure dotata di differenze e caratterizzata da una tendenza evolutiva il cui senso andrà indagato) che permea l’intero mondo vivente; essa inoltre ne produce la verità. L’uomo è quel particolare essere vivente che non soltanto esperisce, ma sa di esperire. Il problema è di chiarire come tale sapere, tale dimensione di svelamento della verità del reale, possa propriamente accadere, cioè essere a un tempo preparata ma non condizionata da ciò che la precede” (Vanzago 2012, p. 13). 2.2 La nozione di comportamento L’analisi condotta da Merleau-Ponty in questa opera si concentra innanzi tutto sulla nozione di comportamento. Tuttavia Merleau-Ponty non aderisce alle diverse correnti del comportamentismo a lui note e criticamente studiate. Utilizzando la nozione di comportamento egli intende piuttosto sbarazzarsi di due prospettive teoriche apparentemente opposte, ma in realtà alleate: l’oggettivismo realistico e il soggettivismo idealistico. In entrambi i casi, secondo Merleau-Ponty, non si può parlare realmente del comportamento, ma lo si risolve in un concetto astratto, inadatto ad esprimerne le specificità. Merleau-Ponty però non si limita a criticare delle posizioni filosofiche, ma conduce una ampia e dettagliata discussione delle ricerche scientifiche in ambito biologico, fisiologico, neurologico e psichiatrico più rilevanti dell’epoca, al fine di supportare empiricamente la propria critica. Il problema comune del realismo e dell’idealismo, sia come correnti filosofiche che come prospettive fondamentali che sorreggono le indagini scientifiche, è rappresentato dal dualismo che li sorregge, dualismo che rimane piuttosto latente al di sotto di un discorso scientifico che si vuole oggettivo. Il discorso di Merleau-Ponty, peraltro, non intende negare valore alla ricerca scientifica, ma all’opposto è semmai teso a delineare le basi di una diversa concezione della scienza. Da questo punto di vista, Merleau-Ponty ripropone in effetti una problematica che già Husserl aveva delineato sin dalle Ricerche logiche e poi riaffermato costantemente e fino nell’ultima opera, la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Semmai Merleau-Ponty riprende questa prospettiva husserliana collegandola con gli strumenti concettuali e metodologici della scuola della psicologia della forma, la Gestalt-Psychologie, che possiede delle parentele sia con Husserl stesso che con altri esponenti della cosiddetta “Scuola di Brentano”, il filosofo austriaco di cui anche Husserl fu discepolo. Come ricorda Luca Vanzago: “la nozione di Gestalt (che si può tradurre sia letteralmente con ‘forma’ sia anche, più correttamente dal punto di vista concettuale, con ‘struttura’) era stata delineata da filosofi come Carl Stumpf, Alexius Meinong, Christian von Ehrenfels, Ernst Mally, tutti allievi di Franz Brentano, e tutti convinti della necessità di trattare le qualità sensoriali e percettive diversamente che come unioni estrinseche di dati irrelati ed atomici.” (Vanzago 2012, p. 15). Quella di Gestalt è una nozione complessa e articolata, pensata per dar conto della tesi che le connessioni tra dati d’esperienza sono parte integrante del fenomeno, e non aggiunte posteriori, dovute a cause esterne (come vuole il realismo) o all’operazione di un soggetto autonomo (come sostiene l’idealismo). Poiché dunque la strutturazione di un fenomeno costituisce una dinamica intrinseca che connette da sé elementi che non esistono separatamente ma soltanto in grazia di tale connessione, che si può intendere come una totalità anche se non totalizzabile, in cui ogni parte è interconnessa (come Husserl sostiene nella terza Ricerca logica, dedicata alla relazioni tra parti e interi), allora diventa necessario interrogarsi sulla peculiarità di questo nesso strutturante e sulla sua natura. Questo è il passo essenziale che Merleau-Ponty compie nella Struttura del comportamento. Le modalità di comportamento che i vari organismi viventi, dal più semplice al più complesso, mostrano di possedere, non sono proprietà estrinseche, e però nemmeno essenze puramente concettuali, perché la caratteristica essenziale della struttura di un comportamento è precisamente di essere una forma che appare in quanto è radicata in un corpo che agisce, si muove, percepisce, vive: in una parola, si “comporta”, e, così facendo, mostra, cioè porta all’esterno, delle proprietà interne. Tali proprietà vanno intese come fenomeni e non come essenze ineffabili. Sono cioè determinazioni che si producono entro un mondo comune, rispetto a cui l’interazione tra un corpo vivente e il mondo stesso, inclusi gli altri corpi viventi, è un elemento fondante della stessa possibilità che si dia qualcosa come un comportamento. Se si accetta di intendere la natura vivente in questa prospettiva, descrivendola per come può essere effettivamente constatata e non categorizzandola in modo preventivo in un modello epistemologico derivante da dottrine come la fisica (ottocentesca), si potrà allora mostrare che è possibile comprendere la natura, almeno quella vivente, in modo comunque razionale, ma diversamente rispetto sia all’approccio atomistico, deterministico e oggettivistico della psicologia (sia essa di marca comportamentistica nel senso di Watson, o invece meccanicistica in linea con la riflessologia di Pavlov), sia rispetto al suo speculare e soltanto apparente avversario, la psicologia dell’interiorità della coscienza, comune alle varie scuole spiritualistiche sviluppatesi a cavallo tra Ottocento e Novecento. La strategia teorica impiegata da Merleau-Ponty consiste nel mostrare quali siano i pregiudizi teorici impiegati senza distanza critica dal comportamentismo. In questo mondo si può sperare di superare tali presupposti teorici in ragione delle effettive scoperte concrete. Il comportamento è una struttura che appare e mostra esteriormente una legge di organizzazione interna. Parlare di natura vivente in termini di concatenazione tra stimoli esterni e risposte dell’organismo è sbagliato, perché la struttura del comportamento che anche i più semplici esseri viventi possiedono è una struttura di correlazione, in cui è impossibile isolare eventi singoli che siano pure cause o puri effetti. Come osserva Luca Vanzago a tale proposito: “il modello meccanicistico di nesso causale lineare, che già la fisica dell’epoca aveva abbandonato in favore della nozione di correlazione funzionale, costituisce un residuo metafisico ingiustificato, quando viene riproposto in biologia e in psicologia senza che esso sia preventivamente indagato e criticamente discusso. Il comportamento è una struttura unitaria, che non va scissa in un interno inaccessibile e un esterno misurabile (Merleau-Ponty 1963, p. 197). Il comportamento è pertanto una nozione che abbisogna di nuove categorie, perché è un sistema senza essere una totalità risolta o risolubile in un concetto essenziale. È cioè una regione intermedia tra la mera materia e il puro spirito” (Vanzago 2012, p. 16). Per poter raggiungere tale dimensione intermedia si rende inevitabile innanzi tutto descrivere e criticare gli approcci prevalenti al comportamento che sono presenti all’epoca in cui Merleau-Ponty scrive. Innanzi tutto viene discusso il versante empiristico-oggettivistico, rappresentato in particolare, da una parte, dalla scuola fisiologica di Pavlov, e dall’altra, dal comportamentismo psicologico secondo gli scritti di Watson. Questa scelta si spiega col fatto che il comportamentismo è la dottrina psicologica più influente all’epoca in cui Merleau-Ponty scrive, per cui diventa fondamentale dimostrare che, attraverso una sua critica interna, diventa possibile raggiungere una comprensione radicalmente diversa del comportamento. Per fare questo Merleau-Ponty porta in luce il problema intrinseco dell’approccio comportamentistico: intendendo infatti il comportamento come risposta meccanica ad uno stimolo inteso in termini di impulso fisico, risulta incomprensibile il modo con cui l’organismo effettivamente reagisce. Se invece si vede, come ricorda Luca Vanzago, come tra stimolo e risposta non vi sia una causalità di tipo lineare ed estrinseca, ma un rapporto più complesso, “circolare” (Merleau-Ponty 1963, p. 39), per cui in qualche modo l’organismo predetermina, non certo il singolo stimolo, ma il campo di possibilità entro cui può poi realmente aver luogo un qualche determinato stimolo, allora si vede come la struttura del comportamento non sia una macchina che processa input secondo schemi prefissati e rigidi, ma una compagine di senso (cfr. Vanzago 2012, p. 17). Che genere di senso è però questo? Evidentemente non si può ancora parlare di intelletto, perché si tratta di relazioni naturali, che sono significanti senza essere concettuali. Le relazioni tra organismo e ambiente non sono idee, ma attività concrete. Si tratta di attività che disegnano un campo di interrelazioni e di rimandi, di interazioni e di feed-back. Queste conclusioni non sono addotte da Merleau-Ponty contro il comportamentismo e per così dire dal di fuori, ma attraverso una critica interna che segue le tesi da lui discusse passo dopo passo, fino a farne emergere limiti e aporie. In particolare, proprio per avere elaborato le proprie ricerche all’interno di una filosofia ingenua di tipo meccanicistico, il comportamentismo non ha poi potuto evitare di ricorrere a ipotesi “ausiliarie”, che sono in contrasto con essa (Merleau-Ponty 1963, p. 41). “Portato alle sue conseguenze, il comportamentismo deve negare le sue stesse premesse teoriche, oppure perdere la propria capacità descrittiva” (Vanzago 2012, p. 18). Se dunque si segue il comportamentismo nelle sue riflessioni senza adottare l’ideologia meccanicistica acritica che gli autori esaminati da Merleau-Ponty mostrano di aver sposato senza reali motivi scientifici, si deve concludere per l’abbandono del meccanicismo oppure trasformare il concetto di comportamento in qualche cosa di anomalo. Se effettivamente il comportamento umano fosse una somma di reazioni singole a stimoli estranei, esso assomiglierebbe molto a ciò che può essere osservato in certe forme di patologia. Paradossalmente, quindi, quello che per la psichiatria è patologico dovrebbe essere la norma secondo la concezione comportamentistica. Se ne deve concludere allora che il comportamento umano è qualcosa di diverso rispetto a ciò che emerge dalla prospettiva teorica comportamentistica. Il problema è epistemologico. Secondo Merleau-Ponty, lo sbaglio risiede nell’identificare metodologia scientifica e approccio atomistico e deterministico. Si produce una scollatura tra fenomeni osservati e teoria esplicativa. Restare fedeli ai fenomeni significa tentare di trovare una teoria diversa, non per abbandonare la scienza in nome di una verità che allora sarebbe inevitabilmente extra-scientifica (atteggiamento frequente all’epoca tra coloro che si opponevano allo scientismo positivistico prevalente), ma al contrario proprio per realizzare una scienza effettivamente capace di “salvare i fenomeni”. Il punto da cui partire viene indicato da Merleau-Ponty nel comprendere il comportamento come un sistema organizzato dipendente da una base (il sistema nervoso centrale) pensato in termini di campo globale, in cui ogni parte trova la propria espressione (Merleau-Ponty 1963, pp. 51-52). Per verificare la plausibilità di questa ipotesi, Merleau-Ponty approfondisce il tema della relazione organismo-ambiente, mostrando come essa non sia da vedere in termini di struttura puramente statica, quanto al contrario debba essere compresa come un flusso che è in atto costante, ossia un processo: un processo complesso fatto di reciproche interazioni e regolazioni, in cui si creano squilibri che inducono forme di riequilibrio sempre parziale e dinamico; in tale processo l’organismo è costantemente proteso in avanti verso l’anticipazione di ciò che sta per avvenire, e al contempo costantemente retroflesso verso le condizioni di provenienza, che vengono così mantenute non staticamente, ma dinamicamente. La permanenza non si ottiene con la stasi, ma al contrario attraverso la costante trasformazione. L’approccio critico utilizzato da Merleau-Ponty nei confronti del comportamentismo psicologico di Watson viene ribadito anche nel caso della riflessologia della scuola russa. Merleau-Ponty non intende minimamente negare i progressi compiuti da Pavlov, che ha avuto in particolare il merito di mostrare che vi sono nell’uomo reazioni organiche riflesse che si strutturano in base a condizionamenti. Il problema consiste nella generalizzazione indebita della nozione di condizionamento compiuta da Pavlov, in quanto soltanto nella situazione artificiale di un laboratorio è possibile separare e isolare singole reazioni riflesse. Animali sottoposti a questo genere di condizionamento mostrano anche, dopo un certo periodo di tempo, di sviluppare reazioni patologiche. Il motivo risiede nel fatto che essi vengono tolti dal proprio ambiente e artificialmente posti in condizioni sperimentali che sono finalizzate a portare in luce un determinato fenomeno separandolo analiticamente dal contesto complessivo. Il metodo di Pavlov isola cioè un solo aspetto all’interno della complessità del comportamento animale, e trascura di seguire il prosieguo degli effetti che tale operazione produce, perché arbitrariamente non ritenuto rilevante. Tutto ciò che non rientra nello schema stimolo-risposta è considerato insignificante e quindi espunto dalla ricerca. Non vi sono in effetti motivi teorici intrinseci per prediligere l’indagine di singoli rapporti stimolo-reazione. La nozione di arco riflesso era già stata criticata a fine Ottocento, ad esempio da William James. James aveva in particolare fatto notare come l’isolamento di un singolo processo di relazione stimolo-reazione riflessa produca una arbitraria e drastica semplificazione della struttura dello stesso sistema nervoso, che normalmente si trova a dover decidere tra stimoli diversi. Il punto probabilmente fondamentale su cui Merleau-Ponty insiste, nota Luca Vanzago, è quello per cui “i modelli di comportamento e le loro spiegazioni, così come emergono sia dal comportamentismo che dalla riflessologia, non sono quelli normali di tutti i giorni, però assomigliano molto a certi comportamenti patologici derivanti da disfunzioni organiche ereditarie o da traumi. In altre parole, è come se la scienza “ufficiale” fosse costretta a ritrarre un modello di comportamento che non è semplicemente astratto e inadeguato, quanto piuttosto terribilmente concreto, ma aberrante. Aberrante è cioè l’idea che ciò che normalmente è vissuto come problematico sia invece considerato dalla scienza come “adeguato”, cioè conforme ad uno schema concettuale. La patologia è perciò usata da Merleau-Ponty, qui come in altri casi, come strumento finalizzato a mostrare l’insufficienza di una determinata concezione. Si tratta di una strategia che mira a smascherare i presupposti teorici, ritenuti normali e persino ovvii, e invece del tutto arbitrari e lontani dall’esperienza concreta, con cui però ci si trova spesso a fare i conti. In questo senso si tratta di una strategia che opera effettivamente secondo la procedura della riduzione fenomenologica, cioè porta in luce, da una parte, come quella che si mostra nei termini di un’apparente evidenza sia in realtà il portato di una concettualizzazione effettivamente condizionata, e d’altra parte che queste dottrine operano con un determinato ideale di scientificità, apparentemente universale e puro, ma in realtà concretamente e storicamente situato, e che pertanto può anche essere abbandonato senza con ciò abbandonare l’idea di scienza e di verità. E anzi, in tal modo, si può sperare nella possibilità di porre su basi diverse e adeguate lo stesso problema di una scienza effettiva e concreta. La fenomenologia non sostiene in questo senso l’abbandono, ma semmai la forte e intransigente riproposizione del problema della verità” (Vanzago 2012, pp. 19-20). 2.3 La percezione come struttura gestaltica corporea Merleau-Ponty ritiene di poter trovare un diverso accesso alla comprensione del comportamento, che sia adeguato ai problemi teorici posti dai presupposti filosofici del comportamentismo atomistico, nelle ricerche delle diverse scuole che si ispirano alla prospettiva della psicologia della Gestalt. Non tutti gli autori a diverso titolo ascrivibili a tale orizzonte sono però ugualmente presenti nell’opera di Merleau-Ponty. Sicuramente l’autore più influente sia nella Struttura del comportamento che poi nella Fenomenologia della percezione è Kurt Goldstein. E tuttavia Merleau-Ponty non segue neppure Goldstein senza riserve, poiché nella Struttura del comportamento egli, dopo aver recuperato ciò che di positivo si può reperire negli scritti dello psicologo tedesco, passa a indicarne i problemi teorici. La nozione di Gestalt infatti si presta a due possibili, anche se opposti, travisamenti: da una parte se ne può fare un concetto astratto, e così diventa poi necessario spiegare come esso prenda parte nella concreta vita dell’organismo; d’altra parte, all’opposto, la si può vedere come una realtà fisica, in tal modo riconducendola ad un’idea oggettivistica e causalistica di realtà che la psicologia della Gestalt in effetti sta invece scardinando. Come si può vedere, dunque, Merleau-Ponty non si affida senza riserve alle risorse della psicologia della Gestalt e anzi i suoi rilievi critici sono fecondi anche per tornare poi al problema della esperienza incarnata così come è stata ripresa, in tempi molto più recenti, dai seguaci di Gibson. Per Merleau-Ponty la nozione di Gestalt rappresenta in primo luogo lo strumento teorico che consente di uscire dall’atomismo meccanicistico senza ricadere nello spiritualismo o nel vitalismo. I teorici che elaborano questo concetto lo derivano dall’esperienza comune, attraverso ricerche empiriche su soggetti sia sani che malati, cioè indagando le concrete modalità effettive con cui tali soggetti percepiscono, senza imporre a queste osservazioni degli schemi teorici preformati. Dalle ricerche degli gestaltisti emergono alcune caratteristiche fondamentali: innanzi tutto una forma percettiva è una struttura globale, in cui ogni elemento è tale perché riconducibile a una totalità, e non esisterebbe “in sé” indipendentemente da tale totalità. Questa totalità funge da sfondo globale rispetto al quale una determinata figura si staglia come dato percettivo posto in evidenza. Ad esempio, se si percepisce un albero, lo si coglie sempre sullo sfondo di un campo, con altri alberi intorno, in una prospettiva spaziale. Tale sfondo è fondamentale per cogliere la figura che spicca, in questo caso l’albero, anche se lo sfondo stesso non è propriamente oggetto della percezione, se non come cornice. Ma tale sfondo può anche, in parte, essere a sua volta portato in luce lasciando sfumare l’elemento percettivo prima illuminato, come se si trattasse davvero di una scena. La complessità della struttura percettiva portata in luce dall’analisi gestaltica non può essere correttamente compresa alla luce di una spiegazione causale. Essa va colta secondo una modalità diversa, una modalità basata sul comprendere (verstehen) invece che sul semplice osservare empirico (Merleau-Ponty 1963, p.117). Questa sottolineatura da parte di Merleau-Ponty non deve essere trascurata, in quanto implica un problema sia epistemologico che ontologico fondamentale. Quello di Gestalt non è solo un concetto operativo irriducibile al paradigma empiristico dei dati atomici di senso; ma inoltre l’aver portato in luce il ruolo fondativo di questa modalità percettiva richiede di rivedere i presupposti teorici della stessa indagine psicologica e percettiva. Questo è il problema che non è stato visto dai teorici gestaltisti. Essi infatti hanno teso, perlopiù, a ricondurre la genesi delle forme percettive ad eventi fisici misurabili, cioè rinvenibili a loro volta in uno spazio omogeneo e indifferente, comprensibile in termini di spazialità fisica. Ma l’equiparazione della spazialità vissuta percettiva a quella fisica non è giustificato entro le coordinate teoriche adottate. La comprensione della percezione in termini di Gestalt deve invece portare a delineare una scienza nuova della percezione, una scienza in cui l’osservatore non sia estromesso dal campo osservativo, ma colto come parte di esso. Tuttavia tale scienza non può allora evidentemente operare con i canoni della fisica meccanicistica, ma deve farsi carico di individuare un fondamento omogeneo alla propria problematica. È per questo motivo che la scienza della percezione deve essere la fenomenologia. Parlare di comprensione non è però privo di possibili equivoci., Il comprendere di cui parla Merleau-Ponty come ricorda Vanzago: “non è semplicemente identico alla nozione proposta da Wilhelm Dilthey, in opposizione allo ‘spiegare’ (erklären) in modo causale. La comprensione di cui parla Merleau-Ponty cioè è una modalità che, rispetto alla spiegazione fisica, non varia né soltanto in relazione al contenuto, né soltanto in relazione alla forma concettuale. Per Dilthey la comprensione dei fatti psicologici, sociali e storici differisce dalla spiegazione causale dei fatti fisici perché i primi sono per natura diversi dai secondi. Questo implica che ci sia un dualismo latente di ambiti. Merleau-Ponty non pensa che la forma percettiva sia per natura diversa dall’evento fisico, come l’oggetto spirituale studiato dalle Geisteswissenschaften sia diverso dall’oggetto fisico studiato dalle Naturwissenschaften. Più arditamente e più radicalmente, Merleau-Ponty ritiene che la nozione di Gestalt sia tale da portare ad una revisione della stessa nozione di natura, e pertanto anche ad una critica della distinzione stessa tra natura e spirito, che regge la distinzione proposta da Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito. Ma questo a sua volta non significa che Merleau-Ponty stia aderendo alla prospettiva neo-kantiana, ad esempio quella delineata da Windelband e pensata come critica della posizione di Dilthey. Per Windelband è necessario distinguere, non già tra scienze della natura e dello spirito in quanto scienze distinte in ragione del proprio contenuto, ma tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche, cioè scienze che pongono leggi (universali o almeno generali) e scienze che descrivono dati singolari irriducibili a qualsiasi sussunzione generalizzante. Per Windelband non è quindi il contenuto, ma la forma strutturale della disciplina, a consentire la distinzione. Windelband aveva criticato la proposta teorica di Dilthey alla luce di tale distinzione, negando che la psicologia potesse essere, come per il suo avversario, una scienza dello spirito, perché in realtà essa doveva essere scienza nomotetica, e quindi epistemologicamente affine alle scienze naturali. Merleau-Ponty invece ritiene che anche questa ipotesi teorica non sia soddisfacente” (Vanzago 2012, p 22). Se si vuole dunque parlare di comprensione, bisogna intendere questa modalità in modo diverso da tutte le prospettive qui rapidamente evocate. Si tratta di inserire la comprensione all’interno della natura vivente, facendone una modalità dell’esperienza corporea. La nozione di Gestalt è, per Merleau-Ponty, la via di accesso ad una nuova concezione del senso. Vista alla luce della psicologia gestaltica, l’esperienza percettiva non può essere ricondotta né a una prospettiva fisiologico-oggettiva né peraltro a una concezione mentale-soggettiva. Pertanto l’organismo vivente non è né materia né spirito, non è un automa ma neppure un attore libero e svincolato da qualunque contingenza. Il problema però è come dar conto di tale condizione intermedia senza farne una somma algebrica o una miscela concettuale incomprensibile. In altri termini, è necessario trovare un approccio positivo alla relazione strutturale tra organismo e ambiente. La singola Gestalt è una strutturazione temporanea, passeggera e destinata a essere subito sostituita da quella successiva. Inoltre il nesso organismo-ambiente è esso stesso a sua volta mutevole a seconda del tipo di organismo. Il che significa che anche l’ambiente non è lo stesso per tutti gli organismi. Merleau-Ponty fa riferimento anche alle ricerche del biologo teorico Jakob von Uexküll per chiarire come quando si parla di ambiente non si può credere che esso sia una sorta di invariante geometrica o fisica uguale per ogni tipo di organismo. Proprio perché è un ambiente e non uno spazio geometrico, esso dipende dal tipo di organismo che in esso si trova (per esempio la zecca esperisce il cane in termini diversi dall’uomo e dagli stessi cani). L’ambiente condiziona l’organismo, ma a sua volta ne è in qualche modo condizionato, come si vedrà meglio più avanti. Questa considerazione è molto importante per approfondire gli spunti presenti nelle analisi di Gibson relativamente alla nozione di affordance, per toglierla ad una comprensione realistica che già Gibson in parte ha cercato di evitare. 2.4 Strutture organiche e processi esperienziali È alla luce di queste considerazioni generali di natura epistemologica, ma sempre condotte in stretta connessione con le ricerche empiriche, che Merleau-Ponty può allora porre il problema che guida l’analisi condotta nella Struttura del comportamento, ossia l’esigenza di ricollocare la coscienza nella natura, in particolare nella natura vivente, cercando di cogliere come l’esperienza possa essere intesa non soltanto come una prestazione di tipo epistemico, ma piuttosto come modalità esistenziale. L’esistenzialità della percezione non deve però essere compresa come possibilità propria di una coscienza umana, ma al contrario, come si è detto, essa è già all’opera in ogni forma di vita, anche in quelle più semplici. È per questo motivo che Merleau-Ponty insiste sulle diverse tipologie di forme viventi al fine di dimostrare a un tempo che l’esperienza si dà in modi molteplici ma che tale pluralità non implica una discontinuità essenziale tra gli esseri umani e gli altri animali. Per dimostrare questa tesi Merleau-Ponty deve poter giustificare la pretesa per cui vi sia già a livello animale una certa capacità di strutturazione di un senso di tipo biologico che non può essere visto come omogeneo alla sfera del concetto ma non è neppure un puro meccanismo cieco. Come nota Vanzago: “la nozione di Gestalt conduce ad una nuova concezione della percezione e anche della realtà vivente. Questa realtà vivente a sua volta non è immobile nel tempo e non è omogenea nelle forme. Vi sono infinite forme animali più o meno complesse. Merleau-Ponty non fa intervenire un criterio di tipo evoluzionistico classico, ma distingue nondimeno gradi di articolazione dei comportamenti animali in una scala ascendente, che in linea di principio si compone di passaggi infiniti, ma che può concretamente essere articolata in tre livelli fondamentali: le forme sincretiche, le forme amovibili, le forme “simboliche”. Si tratta di capire in base a quali criteri sia possibile a Merleau-Ponty distinguere queste tre forme fondamentali, e quali implicazioni filosofiche possegga questa operazione di articolazione del regno delle forme viventi in prospettiva ascendente” (Vanzago 2012, pp. 23-24). È importante chiarire il senso della distinzione operata da Merleau-Ponty tra forme di comportamento animale. Le forme cosiddette sincretiche sono le più semplici, e sono proprie degli animali “inferiori” come ad esempio gli invertebrati. Il loro comportamento è legato: “sia a determinati aspetti astratti delle situazioni, sia a determinati complessi di stimoli del tutto particolari. In ogni modo, il comportamento si trova qui vincolato nel quadro delle sue condizioni naturali e non considera le situazioni nuove se non come allusioni alle situazioni vitali che gli vengono prescritte” (Merleau-Ponty 1963, p. 178). L’importanza di questa classificazione sta nel significato che essa possiede in connessione al problema di comprendere il nesso tra organismo e ambiente come elemento positivo e non mera relazione tra enti separati. In primo luogo va detto che per questo tipo di animali, gli “stimoli” vengono da un ambiente a un tempo molto vago e insieme molto rigido. Determinati stimoli appaiono come tali soltanto entro limiti molto stretti di variazione, e quindi se tali limiti vengono superati ciò che a uno sguardo esterno continua ad apparire come uno stimolo non è più tale per l’animale che lo dovrebbe percepire. Allo stesso tempo però tali stimoli sono molto generici e non prendono mai l’aspetto di condizioni uniformi al variare del momento o della situazione. Detto altrimenti, per un animale di questo genere non esiste qualcosa come “il cibo”, “la tana”, e così via. Se compaiono determinati stimoli l’animale si muove, senza poter distinguere il contesto e quindi senza poter capire se si tratti di stimoli prodotti da un oggetto effettivamente presente o simulato. Ad esempio un rospo cerca sempre di catturare un lombrico anche se questo è posto dietro uno schermo di vetro che impedisce al rospo, per quanti sforzi faccia, di raggiungerlo (cfr. Merleau-Ponty 1963, p. 179; Vanzago 2012, p. 24). Ciò significa che quanto appare a uno sguardo “oggettivo” (e cioè umano) come un ambiente diverso, modificato, in realtà non è neppure percepibile come tale per questo tipo di animali. In particolare, per questo tipo di comportamenti non esiste, propriamente parlando, “un” ambiente che possa essere modificato, ma soltanto un insieme di condizioni costantemente variabili e insieme molto semplificate e astratte rispetto alla complessità del “mondo” quale appare allo sguardo umano. Si tratta di impulsi che soltanto un essere umano vede come tali, mentre per l’animale “sincretico” si tratta di mere condizioni di azione o di inibizione. Sulla base di questa descrizione della forma sincretica di comportamento si può comprendere allora come intendere le forme ulteriori. Considerando ora il secondo livello di comportamento, cioè il tipo di forma detto “amovibile”, si assiste all’introduzione del concetto di segnale, ossia di un tipo di relazione che non è più una pura forma di impulso fisico (ottico, acustico) o chimico (olfattivo, gustativo) derivante dalle strutture delle sostanze con cui gli animali “sincretici” vengono in contatto, ma cominciano a manifestare un certo grado di indipendenza dal substrato materiale che li rende possibili. Questo è quindi il punto che consente a Merleau-Ponty di delineare la propria concezione: una forma di comportamento amovibile è in grado di “astrarre”, sia pure parzialmente, dal contesto materiale, cioè di percepire qualcosa non in forza e a causa della sua composizione materiale, ma per la sua funzione di indicatore di qualcos’altro. Perché ciò si renda possibile occorre che la relazione tra questo tipo di forma di vita e il proprio ambiente cambi. Si può dire che qui interviene un primo tipo, molto aurorale e grezzo, di virtualità, cioè di assenza. Il segnale non vale per ciò che è dal punto di vista di uno sguardo oggettivo di tipo meccanicistico, ma per il fatto di indicare qualcosa, anche se questa funzione non ha nulla di concettuale. La virtualità qui presente è ancora del tutto interna alla natura fisica. Correlativamente, l’ambiente proprio di questo genere di animali è insieme più stabile (segnali omogenei possono derivare da sostanza diverse, ossia diversi oggetti dal punto di vista materiale) e più libero (la variabilità dei supporti materiali che possono dare origine a stimoli omogenei permette all’animale di distaccarsi dai singoli contesti, almeno entro certi limiti). Pertanto, come nota Vanzago: “la differenza tra forme di comportamento sincretiche e forme di comportamento amovibili consiste in un aumento, a un tempo, dell’uniformità al variare delle condizioni concrete, e dell’indipendenza dai contesti. Sono due determinazioni che possono sembrare antitetiche, e quindi il problema che Merleau-Ponty si trova in effetti ad affrontare è quello di mostrare come invece esse si uniscano a configurare una peculiare “logica vivente”, di cui l’uomo rappresenta una variante notevole, ma non un’eccezione completa” (Vanzago 2012, p. 25). Ciò implica che il criterio fondamentale per operare delle distinzioni e delle classificazioni entro il regno vivente non è recuperabile da alcuna forma di “in sé” come potrebbe essere l’apparato nervoso dei diversi tipi di animali, la loro conformazione biologica, la dotazione genetica o altro. Per Merleau-Ponty la differenza può essere rilevata invece se si osservano le modalità con cui l’essere vivente si comporta, cioè mostra di istituire una relazione con il proprio ambiente, coi propri simili, con se stesso. Il concetto di differenza è fondamentale per lo sviluppo del pensiero di Merleau-Ponty, perché indica che per descrivere l’esperienza non si può far riferimento soltanto a ciò che “c’è” in senso realistico, ma anche a qualcosa che, propriamente, non può essere detto presente, e tuttavia conta tanto quanto, e forse di più, di ciò che è presente in senso proprio. La controprova di tale approccio viene offerta da Merleau-Ponty attraverso la lettura e l’interpretazione di un famoso esperimento, condotto da Wolfgang Köhler sugli scimpanzé. L’etologo e psicologo tedesco, di cui si è già parlato, concepì un esperimento atto a comprendere come queste scimmie si relazionino al proprio ambiente. La scimmia, posta di fronte al compito di raggiungere un frutto sospeso, giunge al proprio scopo, in seguito ad un ciclo di prove ed errori, utilizzando una cassa, posta nelle vicinanze e fino a quel momento usata solo come sedile, con cui riesce a raggiungere il cibo. Da un punto di vista “oggettivo” si dovrebbe dire che l’animale ha individuato un “uso” diverso per un oggetto che, prima di entrare nel “campo” esperienziale in cui è presente il compito, esisteva comunque come tale. Tuttavia se si considera l’esperienza concreta della scimmia non si può in realtà affermare che la “cassa-strumento” e la “cassa-sedia”, cioè utilizzata in altri momenti come sedile, siano “lo stesso” oggetto. Il “senso” della cassa dipende, per la scimmia, dal contesto pragmatico, tanto è vero che l’uso della cassa come strumento non permane e viene solitamente dimenticato presto. Pertanto si può anche dire che non si tratti dello stesso oggetto in due situazioni diverse, ma di due oggetti diversi. O meglio che la relazione soggetto (animale)-oggetto-mondo non è lo stesso per la scimmia e per un essere umano che guardi la scena dall’esterno. Senza un determinato contesto non si danno per la scimmia determinate modalità di esperienza di un certo oggetto, anche se certamente per il resto la capacità della scimmia di fare esperienze è estremamente complessa, senza parlare del corredo genetico quasi uguale a quello dell’uomo e considerazioni simili che si potrebbero fare. Quello che per la scimmia non si dà, è la permanenza dell’oggetto al continuo variare delle condizioni pragmatiche del campo d’esperienza. Invece questa permanenza è esattamente ciò che caratterizza il modo umano di esperire il mondo e quindi di comportarsi nei suoi confronti. Come si può dar conto di tale variazione senza far intervenire concetti inadatti o squalificati, come la diversa forma di razionalità negli animali e nell’uomo? Questa domanda equivale a chiedere come sia possibile pensare l’emergere della forma di vita propriamente umana all’interno del contesto naturale, non come compimento finalistico di un piano teleologico presente fin dall’inizio ma neppure come frutto del puro caso che, comunque, non spiega se non esteriormente la variazione. Che delle mutazioni genetiche possano dar luogo a forme di vita diverse è evidente, ma che tali forme di vita si distinguano per capacità mentali diverse e soprattutto per una diversa forma di organizzazione del proprio comportamento è precisamente ciò che rimane insoluto se considerato esclusivamente dall’esterno, cioè da una prospettiva che non prenda in considerazione l’esperienza dal punto di vista di chi la compie. Questa è perlomeno la sfida teorica posta dalla fenomenologia a qualunque tentativo di descrivere l’esperienza come se si trattasse di un fenomeno oggettivo in terza persona. Anche Gibson, come si è visto, ha dovuto fare i conti con tale problematica. Si può affermare allora che l’approccio di Merleau-Ponty integri e sviluppi i capisaldi posti da Gibson allargando la prospettiva ad una indagine ontologica. Dunque la questione che Merleau-Ponty pone in quest’opera consiste nel chiedersi come sia possibile render conto del fatto che la natura stessa possa produrre una sua parte che, a sua volta, coglie la natura stessa come un tutto. Il particolare essere vivente che è l’essere umano appare in grado di avere coscienza di sé in quanto, allo stesso tempo, è in grado di individuare gli oggetti del proprio ambiente come invarianti rispetto a trasformazioni spaziali e temporali da attribuire al contesto ambientale stesso e non soltanto a parti di esso. Pertanto, auto-identificazione e strutturazione di un mondo “stabile” sono, in questa prospettiva, le due facce della stessa medaglia. È come se l’uomo, scrive Vanzago: “fosse quell’essere che dice ‘io’ perché può concretamente anche riconoscere ciò che è ‘non-io’: cioè può constatare la permanenza al di sotto della variazione; ciò che invece neppure la scimmia, come si è visto, può fare. Si tratta indubbiamente di un salto, ma un salto che non accade dal nulla. Un salto che viene preparato dalle condizioni vitali che precedono l’ordine umano” (Vanzago 2012, p. 26). La questione cruciale è data dal fatto che secondo Merleau-Ponty l’insorgere di una forma di vita di tipo simbolico rappresenta una diversa articolazione di ciò che è già possibile in linea di principio alle forme cosiddette amovibili, senza distruggerle. Ciò significa in particolare che le prestazioni percettive degli esseri umani non variano per essenza o natura, ma soltanto per grado, rispetto agli altri animali. O meglio, si tratta di una trasformazione che non separa l’essere umano dal suo radicamento animale. Se l’uomo percepisce è perché possiede un corpo vivente. Se si deve descrivere la relazione tra soggetto e mondo si deve comunque tener conto di questa “incorporazione” dell’esperienza. Pertanto la forma simbolica rappresenta una discontinuità che senza portare in un mondo totalmente differente da quello animale ne opera però una significativa trasformazione. Merleau-Ponty scrive che «la natura fisica nell’uomo non è subordinata ad un principio vitale, l’organismo non aspira a realizzare un’idea, lo psichico non è “nel” corpo un principio motore» (Merleau-Ponty 1963, p. 296), perché fisico, vitale e umano non sono tre “potenze d’essere” ma tre “dialettiche”. Questa considerazione di natura dialettica si traduce nel fatto che i tre ordini vitali non rappresentano stadi o strati sostanziali o immutabili, quanto piuttosto vanno visti come livelli dinamici, che possono coesistere. L’uomo ad esempio è sempre anche cosa fisica e organismo vivente, e in generale ciascuno dei tre ordini può presentare regressioni e al contempo linee di tendenza verso un ordine superiore. Si possono trovare infatti a un livello inferiore delle prefigurazioni di quello superiore, e parallelamente in un livello superiore sono ancora presenti modi che avevano un ruolo più chiaro e marcato in quelli inferiori, senza con ciò essere stati puramente e semplicemente cancellati, ma eventualmente trasformati. In questo Merleau-Ponty prefigura anche il moderno concetto di “exaptation”, cioè di attribuzione di nuove funzioni a un organo che era stato portato in luce dall’evoluzione per altre relazioni funzionali. Peraltro Merleau-Ponty non si pone mai da un punto di vista evoluzionistico darwiniano e non si pone quindi neppure il problema di caratterizzare le funzioni in termini evoluzionistici. Tale diverso approccio è dovuto, come si è visto, alla differente prospettiva teorica adottata fin dall’inizio da Merleau-Ponty nella propria opera. Non tutto ciò che si trova in questa opera però si può dire compiuto. L’analisi della nozione di forma o struttura del comportamento permette a Merleau-Ponty di concepire un livello (quello umano) in termini di forma a un tempo svincolata da quelle inferiori e però comunque sempre fondata su di esse. Ma questa duplice relazione rimane oscura (cfr. Merleau-Ponty 1963, p. 297 e Vanzago 2012, p. 27) fintanto che non si siano risolti alcuni problemi. In primo luogo è necessario comprendere che cosa produca i dislivelli o discontinuità; in secondo luogo si deve capire come pensare il livello superiore in rapporto alla realtà ad esso connessa. Se un livello superiore realizza un grado maggiore di indipendenza dell’organismo dall’ambiente, diventa urgente riuscire a comprendere correttamente il senso di questa maggiore indipendenza. Essa è, in fondo, una maggiore libertà di azione. Scrive il filosofo Vanzago che: “se vi è una ‘ascensione’ nella successione delle forme di comportamento, essa è indubbiamente basata sul fatto che gli organismi inferiori sono esposti a una serie imprevedibile e incontrollabile di condizioni che agiscono direttamente, mentre quelli superiori possono in qualche modo aggregare e quindi prevedere gli eventi. Ma prevedere significa avere il senso del virtuale. Pertanto, in definitiva, l’ascensione delle forme di comportamento significa che il possibile entra nel reale, che il mondo naturale si dota, grazie all’evoluzione dialettica delle forme, di una struttura sempre maggiore e articolata di virtualità, e quindi, in definitiva, che il visibile è sempre più permeato di invisibile, di imminenza e di latenza. Tutto questo però non in virtù di un principio estraneo ed esterno alla natura, ma al contrario proprio in quanto, dall’interno, la natura mostra di possedere una virtualità propria, che però si sottrae alla concettualizzazione teorica ordinaria. […] Soltanto un pensiero dell’indeterminazione può quanto meno provare a far fronte a questa sfida, che è tale in quanto il pensiero concettuale umano sembra costituzionalmente costretto a pensare il flusso, la trasformazione e la metamorfosi con concetti che (anche in senso etimologico) operano in direzione della stabilità, del compimento, della realizzazione” (Vanzago 2012, pp. 27-28). In altri termini, si può dire che la concezione della percezione delineata in quest’opera richiede che si adottino concetti dinamici che permettano di intendere l’esperienza nel suo farsi, e non come già compiuti. Si può dire che questa prospettiva fonda e al contempo trascende i termini di quella elaborata da Gibson, perché giunge a sostenere che la dinamicità intrinseca dell’esperienza non dipende da fatti empirici ma è connessa a una precisa concezione della realtà come tale. Se ciò è vero allora diventa inevitabile affermare, seguendo ancora l’interpretazione offerta Vanzago, che “questa diversa nozione di verità è intimamente connessa alla percezione come modalità di relazione tra coscienza come corporeità senziente e mondo come ambiente altrettanto corporeo: la percezione non può essere compresa né, empiristicamente, come successione di stati di coscienza, né, idealisticamente, come pensiero. La percezione è in grado di delineare un senso autonomo, di contro alla prospettiva empiristica, ma, di contro all’idealismo, non è in grado di imporre tale senso alla realtà, la quale invece si presenta così come si presenta e in tal senso si dà alla percezione senza esserne creata (Merleau-Ponty 1963, p. 302). La percezione pertanto è una modalità intermedia, corrispondente alla natura come regione mediana, e da questo punto di vista può rappresentare la modalità di accesso effettivo a tale regione, in quanto non è estranea ad essa (come una pietra sulla spiaggia) ma al contempo non la risolve in un concetto a sua volta estraniato dalla concretezza del vivente. La percezione dà gli oggetti sempre in determinate prospettive, ma questo non è un difetto rispetto ad un accesso migliore e più esatto alle cose, quanto l’unico modo di accedere alle cose nella loro effettiva corporeità. Seguendo lo Husserl delle Idee, Merleau-Ponty insiste sul fatto che la coscienza percettiva è questo o non è. Ma ciò implica anche che la successione di profili, e le loro reciproche connessioni, fanno della coscienza un processo, indeterminato e però dotato di una sua propria coesione peculiare. La prospetticità intrinseca della coscienza come relazione per profili e adombramenti (come si esprime Husserl) non è un difetto, ma la modalità propria della percezione” (Vanzago 2012, p. 28). Per Merleau-Ponty si tratta di approfondire una filosofia dello “stato nascente”, in cui la mente “viene al mondo” cioè emerge, e in questo suo emergere continua un processo che la precede, e contribuisce ad estenderlo, ma non a completarlo. La Gestalt per Merleau-Ponty dunque non può essere intesa né come mera esteriorità amorfa né come pura interiorità ideale, ma come una esteriorità (e quindi un’opacità) che in qualche modo emana il suo proprio senso: una «unità dell’interno e dell’esterno, della natura e dell’idea» (Merleau-Ponty 1963, p 338). E correlativamente la coscienza per la quale la Gestalt esiste non è coscienza intellettuale, ma esperienza percettiva, cioè nesso di passività e attività, come anche Husserl aveva sostenuto, ad esempio in Logica formale e trascendentale, che Merleau-Ponty cita. Si tratta quindi di portare all’interno stesso della coscienza trascendentale il suo rovescio e il suo fondo oscuro, la sua passività (Merleau-Ponty 1963, p 347). Come nota Vanzago, questo è ciò che distingue il trascendentale husserliano, cui Merleau-Ponty aderisce, da quello kantiano (Vanzago 2012, p. 31): “La “cosa” naturale, l’organismo, il comportamento altrui e il mio esistono soltanto in base al loro senso, ma il senso che scaturisce in essi non è ancora un oggetto kantiano, la vita intenzionale che li costituisce non è ancora una rappresentazione, la “comprensione” che vi dà accesso non è ancora una intellezione” (Merleau-Ponty 1963, pag. 358). Queste analisi consentono di situare le indagini condotte da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione entro il loro contesto ontologico corretto. Con ciò si può dire che il primo punto critico sopra indicato in relazione alla posizione di Gibson sia stato affrontato e discusso. Ma per poter adeguatamente dar conto anche degli altri diventa necessario indagare più da vicino alcune delle tesi contenute nell’opus magnum di Merleau-Ponty, ossia quella Fenomenologia della percezione che rappresenta la pars construens del proprio pensiero. 2.5 La percezione esaminata dalla prospettiva soggettiva Nelle note introduttive di un agile libretto che discute la proficuità dell’approccio ecologico alle immagini (James J. Gibson, Dallo Scarabocchio al cinema, Cristiano Mautarelli), l’autore, evidenziando una serie di aspetti, a volte critici a volte favorevoli, del contributo ideologico di Gibson, afferma: “ Possiamo forse dire che i filosofi continentali, come le stelle così lontane dalle faccende umane, sono rimasti a guardare?” (Mautarelli 2011, p 18) Secondo l’autore, la colpa dei filosofi continentali e, nello specifico, dell’intera tradizione fenomenologica iniziata da Husserl, sarebbe quella di aver sottovalutato e, in alcuni casi, ignorato i numerosi suggerimenti di indagine e riflessione che le tesi gibsoniane hanno suggerito con il loro proliferare. Naturalmente, alla luce della ricostruzione dell’opera merleau-pontyana che ci conduce gradualmente ad una fenomenologia della percezione dinamica che prende corpo nella sua “interazione”, ora si intende individuare non una contaminazione, ma piuttosto una integrazione e un dialogo costante, cercando di colmare una possibile mancanza sostenuta da Mautarelli. Del resto, sia Merleau-Ponty che Gibson sono concordi nell’intenzione iniziale di superare il dualismo soggetto-oggetto. Entrambi vedono una relazione tra il mondo fisico e quello mentale, relazione che non può essere di riduzione né può al contempo ignorare l’esistenza di un soggetto incarnato, corporeo che, non solo vive in un mondo come suo correlato, ma è determinato (e determina) dalla percezione radicata nella natura e in grado di emergere dalla natura stessa. Se nella Struttura del Comportamento la volontà di disegnare un quadro complesso ma scrupoloso che avrebbe rappresentato le basi del suo pensiero, impegna il filosofo a non abbandonare mai una descrizione scientifica che, con le sue critiche, mette in luce le fallacie evidenti evidenziate da altre metodologie scientifiche, costituisce la solida base della ristrutturazione che avverrà nell’opera successiva, è nella Fenomenologia della Percezione che con il ritorno ai fenomeni (e anche alla fenomenologia di Husserl, evidente già dalle prime pagine) ritorniamo al mondo della vita, terreno originario della più alta forma di conoscenza: l’esperienza. Ed in particolare si creano una serie di diapositive che fermano gli istanti della percezione, vista come una creazione di un modello virtuale, che passa attraverso una elaborazione dell’immagine, estrapolata da un contesto e per questo immediatamente sovrapposta alle immagini delle visioni circostanti (ambiente in cui si trova l’elemento visionato), così come della componente esperienziale passata (costituente la soggettività pregressa) fino ad arrivare alla risultante di un processo cognitivo che trasforma la visione in una percezione soggettiva (soggettività in divenire) che a sua volta esula dall’attività prodotta dall’elemento in questione posto nell’universo. In questa modalità di percezione assoluta e nello stesso tempo relativa, viene meno il concetto di geometria degli elementi in gioco, ossia a prescindere dal fatto se siano in movimento o fissi, essi subiranno l’influenza dello scorrere del tempo e dello spazio circostante. Facendo sì che tempo e spazio, elementi visionati e contesto in cui si trovano, riproducano una verità autonoma non necessariamente ripetibile. E comunque non fissata ad un punto, per esempio, chiamato “zero”. Inoltre la prospettiva produce, né intralciando né fornendo una qualsiasi forma di difetto, un fattore di influenza determinante per l’esplicazione della percezione. In altre parole, la prospettiva fornisce due concetti agli antipodi tra loro, che non si annullano ma si completano: la manifestazione reale (che consente la visione) e l’essere celato/nascosto (per essere lontano, dietro l’oggetto attenzionato o per via di una mancata focalizzata attenzione). Per cui la reale visione non è determinata né dalla prospettiva singola, né tantomeno dalla sommatoria di tutte le prospettive possibili (in entrambi i casi c’è un difetto spaziale, che finisce per creare una illusione spaziale). Ruolo determinante è dato anche dal tempo che crea sostanzialmente a sua volta una illusione temporale. L’esempio più lampante è dato dal rivivere una apparente medesima situazione in due tempi diversi (ripetizione temporale). Il luogo ed il tempo della percezione di ora (tempo T), non sarà mai uguale a quello di un tempo precedente (T-1). Insomma una prospettiva “infinitistica” (fermare tempo e spazio) non consente una comprensione della percezione in valore assoluto. La percezione così descritta, diviene autonoma ed esclusivamente soggettiva, proprio derivante dal divenire dello spazio e del tempo contemporaneamente. A questo punto, la nostra attenzione punta sulla genesi e sulla variabilità del mondo oggettivo, rispetto alla corporeità (elemento soggettivo). La corporeità genera allora la convivenza di una tripla coppia di elementi apparentemente opposti che necessitano, per una migliore efficienza, la contemporanea presenza: libertà-schiavitù, mostrarsi-celarsi e psicologia-fisiologia. Ed anche per la corporeità entrano in gioco la dinamicità offerta dal divenire dello spazio e del tempo, dell’interiore e dell’esteriore, del pensiero e della fisiologia. Attenzione però: il divenire della corporeità non subisce l’evolversi dello spazio e/o del tempo, ma addirittura li fa propri, trasformandoli e facendoli apparentemente scomparire. Il corpo allora vive di movimento, produce movimento, tant’è che si trasforma in un “saper fare” determinato da una volontà precisa: “io posso”. Determinando una frattura concreta tra un movimento concreto (quello fisico e reale) ed uno astratto (prodotto dal pensiero, che viene comunque percepito). Risultato: percezione e movimento non possono essere considerati come elementi indistinti, ma ancora una volta come parte integrante di un unico sistema che finisce per costituire una struttura complessa, ma nello stesso tempo semplice. Allora cosa accade: corpo e mente, ovvero soma e psiche, hanno la capacità non soltanto di esprimere una generalità, ma nello stesso tempo costituiscono una particolarità. Il sistema in altre parole diviene una banale piazza d’incontro tra poli opposti che finiscono per essere un’opera d’insieme. L’uomo d’altra parte ha una sua identità specifica in quanto tale, per la contemporanea presenza dei sensi e del corpo. Solo l’intersecarsi di questi due elementi basilari, costituisce un insieme che determina un cumulo di pensieri ed esperienze, di percezioni soggettive e di una evoluzione che finisce col produrre una esperienza soggettiva. L’approccio che ne deriva è definito “genetico”, al fine di non incorrere nell’errore di un pensiero definibile come “preconfezionato” e quindi “predeterminato”. Allora viene spontaneo chiedersi: la coscienza, che determina attraverso l’analisi delle esperienze e delle visioni, l’originalità e la peculiarità di una esistenza soggettiva, fa un percorso lineare, oppure rischia di vedere questo percorso improvvisamente mutare per ragioni esterne o interne? La risposta è ovvia. La coscienza può ammalarsi. In realtà la coscienza ha senso quando corpo e movimento, interagendo, permettono di esplorare lo spazio (che chiaramente non è vuoto) lungo il corso del tempo (che non è fisso). Quindi la percezione del movimento e del relativo sfondo, non è altro che una rappresentazione artificiale di un unico universo. Pertanto ogni gesto (movimento) testimonia in maniera autonoma, l’originale intenzionalità. Consentendo al corpo di abitare nello spazio e nel tempo. Il corpo vive dunque di movimento, per una continua e necessaria scoperta e appartenenza allo spazio ed al tempo, altrimenti, per assurdo, se vivesse di ricordi, non necessiterebbe di movimento e non avrebbe senso neanche lo spazio ed il tempo, rimanendo appunto incollati al tempo e al luogo in cui è avvenuto il ricordo. Ecco allora sopraggiungere (per completare il quadro d’insieme) il concetto di malattia e di abitudine. Il soggetto ammalato è costretto a spiegarsi perfino ciò che il soggetto sano effettua con apparente irrazionalità e quindi senza pensare. Quindi attraverso la malattia, il corpo perde la “spazialità vissuta”. L’abitudine invece è un elemento essenziale che guida autonomamente il corpo nel divenire del moto dello spazio e del tempo, nei processi di routine. Il corpo consente pertanto dei movimenti senza una generica razionalità e prolunga in disposizioni stabili i nostri atti personali, lasciando conferire attraverso l’abitudine, un atteggiamento/un comportamento assimilabile a quello degli animali: di tipo “istintivo” (seppur non in maniera definita). L’abitudine, d’altra parte, ci consente perfino di decodificare alcuni movimenti e alcuni gesti che pur non essendo realmente percepiti dalla propria vista (per esempio l’andatura), finiscono col permettere di costruire l’idea della percezione rendendola reale. Sostanzialmente sarebbe possibile tradurre in ”io non vedo il mio corpo, ma sono il mio corpo”. Come dire, i dati sensoriali del movimento e della percezione, si mescolano col vissuto e col già percepito. E man mano che l’individuo in movimento esplica la propria esperienza, aggiorna il proprio status, immagazzinando i nuovi dati raccolti, riorganizzando la propria percezione e trovando un nuovo equilibrio. L’analisi però non è completa. Perché al correre della natura, si contrappone la necessità che il soggetto abbia l’esigenza di limitarsi al suo mondo. Quindi la natura esiste a prescindere in quanto tale, il soggetto crea un proprio status attorno al mondo affettivo, che non è quello reale, che è frutto dell’esperienza e che esiste solo per il soggetto stesso. L’affettività a sua volta esiste, in quanto correlata alla sessualità, non nella concezione che quest’ultima sia l’esplicazione dell’affettività stessa, ma bensì di un grado elevato di intenzionalità. Nonostante la sessualità sia stata lungamente interpretata come un atto del corpo automatico e non intenzionale, la fenomenologia di Merleau-Ponty ne offre una diagnosi molto differente. La sessualità nell’individuo sano (contrapposto a quello malato, nel quale si allenta) permette lo sviluppo della vitalità e della fecondità, eliminando tutto ciò che di meccanico e di istintivo possa attribuirsi all’azione sessuale, che diviene struttura portante dell’esistenza. Ridando quel giusto valore che la psicanalisi eccessivamente aveva dato in contrapposizione alla repressione della filosofia e della scienza. Il corpo a questo punto mostra di possedere la capacità di essere fautore di trasformazioni: dalle idee alle cose. A meno che non cada nella malattia, con la quale percepisce il rifiuto della temporalità (sia essa indipendentemente passato, presente o futuro).Ogni individualità fa parte del mondo, ma non è il mondo. Si sviluppano delle intenzioni che promuovono movimento e percezioni. Man mano che trascorre il tempo, la corporeità, l’esperienza, la vita vissuta , generano un atto autentico ed unico. «Il corpo esprime l’esistenza, (così come) [...] la parola esprime il pensiero». Il movimento è rappresentato effettivamente anche dall’uso della parola, come fosse un atto motorio che sospinge il corpo e determina il pensiero, nel senso che lo esplica all’esterno. In realtà la parola ed il pensiero solamente insieme (come fossero due parti complementari) riescono a produrre quel processo di comunicazione che si completa vicendevolmente. E la parola non è solo l’espressione esteriore del pensiero e di ciò che si prova, nonostante il mondo già esprima la propria forza e la propria riflessione, ma è la rottura di quel silenzio che è all’origine dell’uomo. La parola inoltre può esprimere un concetto così come un pensiero, mentre lo stesso pensiero potrà essere rappresentato con parole diverse. E la parola in se stessa è intrisa di emozioni, le quali a loro volta eliminano totalmente la possibilità che le convenzioni frutto di una determinata etichetta, possano rendere univoci i pensieri espressi con le medesime parole, ma frutto di una intonazione, di un accento o di un uso in un determinato contesto. Per cui la parola favorisce e genera attraverso gestualità ed intonazione (una sorta di “teatralità della comunicazione”) una sorta di comportamento che eventualmente può arrivare anche a differire dal corpo e dalla coscienza. Ma la parola non è solo portatore sano di una comunicazione diretta ed efficace. Produce anche sconcerto ed incomprensione. Tuttavia questo non è un dramma, anzi, è possibile generare nuovi sensi e nuove circostanze. Il problema è semmai come la stessa parola, pronunciata per esempio con un’intonazione diversa, produca significati assai difformi e diversamente comunicativi (ciò che mostra la non univocità della parola). La parola allora è soltanto un mezzo per traghettare, attraverso il mondo della comunicazione, il proprio pensiero. Ancora più è il corpo (la corporeità) fenomenologicamente più attivo a rappresentare il significato dell’esistenza e dell’evoluzione dell’individuo. Seppur dimostrando che qualunque individualità sarà sempre “implicita e confusa”, poiché il corpo non potrà altro che rappresentare un abbozzo del proprio “essere totale. Cosicché il ruolo principale rimane attribuibile alla corporeità quale componente intrinseca ed abilitata più di ogni altro alla trasmissione di un messaggio soggettivo, con gli effetti che si propagano più facilmente e più attivamente attraverso la percezione. 2.6 Una prospettiva EGologica : La temporalità del Cogito “Non c’è una divisione netta tra il presente e il passato, tra la percezione e la memoria” James J..Gibson Quanti nel tentativo di ritrovare il proprio tempo, perduto e impercepibile ma ugualmente presente e dalla presenza ingombrante, si sono rifugiati tra le pagine rarefatte di Marcel Proust, il narratore che forse più di tutti lasciò una traccia profonda nella letteratura eterna della prima metà del Novecento? Quanti hanno assaporato il dolce-amaro di un ricordo forse mai vissuto, attraverso il profumo della sua Madeline, che dalle sue pagine ci catapultava in un passato concretamente presente percepito attraverso la memoria? Il tempo, per Proust, plasma ogni cosa che ci circonda, ogni cosa vissuta, plasma noi stessi, dandoci un ricordo di ciò che non eravamo stati allontanandoci da ciò che siamo stati, ed è solo attraverso il ricorso alla memoria involontaria che possiamo rivivere un tempo perduto nel tempo, ri-vivendoci. Proust aveva assistito alle lezioni del filosofo Hanri Bergson assorbendone l’essenza concentrata in una concezione del tempo pensato come dimensione interiore e interiorizzata. Ma se l’analisi del filosofo nasceva da una critica alla spiegazione causale sostenuta dalla fisiologia (il tempo spazializzato visto come un insieme di istanti indipendenti dal contenuto del loro scorrere) ed era rivolta a sostenere l’idealizzazione di un tempo reale caratterizzato dalla qualità di un flusso dell’esperienza cosciente, dall’altra commetteva lo stesso errore causale quando identificava nella memoria e nel suo ritorno al passato dei ricordi memorizzati nell’inconscio. In altre parole: la percezione assume in Bergson i tratti di un processo unificato tra il flusso della durata reale (la memoria) e ciò che è rappresentato dalla realtà esterna; un evento reale al suo presentarsi suggerisce attimi ricordati, vissuti, passati, attraverso tracce psichiche che ricadono, comunque, nella concezione causale. Ma, il tempo, non è una successione oggettiva di eventi in sé, ma è strettamente connesso al rapporto inscenato e continuo con le cose: “nasce dal mio rapporto con le cose” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 528). Indubbiamente nella sua temporalità Merleau-Ponty ha presente non solo la critica husserliana alle analisi di Bergson, ma anche le profonde riflessioni proustiane che il fenomenologo francese terrà sempre in considerazione. “Il tempo non è una linea, ma una rete di intenzionalità” (op. cit., p. .534) Ed in questa citazione Husserliana che si cela l’essenza della temporalità sostenuta da Merleau-Ponty. Contrariamente al senso comune, il tempo non è una linea fluente che, come un fiume, investe e coinvolge tutto quello che trova nel proprio orizzonte, ma è sempre situato in qualcuno, verso qualcuno, attraverso qualcuno, mediante una concatenazione di eventi spazio- temporali rivolti sempre e dipendenti sempre da un soggetto vivente, operante, situato. Una esperienza temporale si caratterizza quindi dalla disponibilità di una soggettività aperta e protesa verso il passato, il presente e il futuro , ma sempre fedele al proprio campo di presenza che risulta essere mai totale ma sempre soggettivo. La rete di intenzionalità sostenuta prima da Husserl poi da Merleau-Ponty è sempre connessa a qualcosa, a qualcuno , ed è interconnessa nel proprio manifestarsi: attraverso uno scorrimento di protensione nell’anticipare ciò che avverrà e lo scorrimento ritenzionale in un continuum con ciò che è appena trascorso. Quello che sta per svelarsi è concesso da quello che è stato mostrato in una alternanza di Abschattungen precedentemente annunciati e dati al presente. E’ dunque un processo di conservazione quello attuato ed in atto dal tempo. Esso non scade, non passa, non cessa di essere: “…il nuovo essere era annunciato come imminente da quello precedente e per esso era la medesima cosa divenire presente ed essere destinato a passare” (op. cit., p. 538) L’esistenza viva ed infinita del presente-vivente-fluente ci conduce al concepimento di una concezione della coscienza ultima coincidente con la coscienza del presente. Un avere coscienza che si traduce con un “avere esistenza”. Una ri-flessione sul tempo, sul proprio tempo, che si incarna, facendosi corpo, perdendo la caratteristica di essere attributo della soggettività, ma che si fa parte integrante della soggettività stessa. Una temporalità corporea che non è né oggetto né soggetto, ma connessione profonda e continua tra il soggetto e il mondo, costituendo la soggettività, non solo come uno dei due poli componenti il mondo (l’altro polo è costituito dall’oggettività), ma come campo primario di indagine perché sempre connessa al mondo che abita e costruisce intenzionalmente fino a con-fondersi. Il mondo è inscindibile dal soggetto (e viceversa) perché il mondo è il soggetto che lo pensa. Così come sono inseparabili esteriorità ed interiorità che conducono il fenomenologo a ripensare al Cogito cartesiano, in una sintesi che non solo supera lo storico dualismo, ma declina la percezione come un riepilogo totalizzante espresso dall’essenza di ogni senso e di ogni atto intellettivo. La temporalità è infine possibilità. Non solo possibilità di aprirmi al mondo e a tutto ciò che è altro da me, ma possibilità di aprirmi alla realizzazione (e scoperta) del proprio sé. Per comprendere questa particolare relazione tra temporalità e soggettività bisogna tornare alla nozione di campo di presenza, considerandolo in termini temporali. Parlare di campo significa evitare di immaginare che la relazione, ad es., col passato si attivi attraverso passaggi discreti e insieme espliciti. Rievocare il passato significa piuttosto riaprire il campo temporale stesso con le sue dimensioni, che si danno in persona (op. cit., p. 533). La questione fondamentale qui è la nozione di dimensione, che Merleau-Ponty enfatizza in implicita polemica con una lettura restrittiva delle analisi husserliane sulla temporalità. La giornata appena trascorsa, e il suo essere appena trascorsa, non sono il risultato di atti discreti: essa: “grava su di me con tutto il suo peso, è ancora là, la tengo “ancora in pugno”. Allo stesso modo, io non penso alla sera che verrà e a ciò che seguirà, e tuttavia essa “è là” come il retro di una casa di cui vedo la facciata, o come lo sfondo sotto la figura. […] Al di là di ciò che vedo e di ciò che percepisco non c’è certo più nulla di visibile, ma il mio mondo continua grazie a linee intenzionali che delineano anticipatamente per lo meno lo stile di ciò che verrà […] Il presente stesso (in senso stretto) non è posto […] Husserl chiama protensioni e ritenzioni le intenzionalità che mi ancorano in un mondo circostante. Esse non partono da un Io centrale, ma in un certo qual modo dal mio stesso campo percettivo, che si trascina dietro il suo orizzonte di ritenzioni e fa presa sull’avvenire grazie alle sue protensioni. Io non passo attraverso una serie di adesso di cui conserverei l’immagine e che, giustapposti, formerebbero una linea. Per ogni momento che sopraggiunge il momento precedente subisce una modificazione: io lo tengo ancora in pungo, esso è ancora là, e tuttavia affonda già, discende al di sotto della linea dei presenti: per conservarlo, devo tendere la mano attraverso un sottile strato di tempo” (op. cit., p. 533). Le dimensioni del tempo promanano dal campo stesso più che da un’attività centrale di un Io. È il campo a strutturarsi secondo una modulazione temporale che lo riguarda nella sua interezza e non secondo segmenti discreti (Vanzago 2012, pp. 99-100). Con questa concezione della temporalità come essenza della soggettività, Merleau-Ponty conclude il senso di una indagine aperta nella Struttura del comportamento con il problema di comprendere i rapporti tra coscienza e natura (cfr. Fenomenologia della Percezione, p. 547). Questo si mostra essere il problema del superamento delle opposizioni classiche tra un primato dell’essere reale oggettivo e quello della coscienza costituente. Ora il problema è spostato, si tratta di trovare la comprensione di una realtà che è divisa tra senso e non senso, senza che tale divisione sia una opposizione irresolubile. È piuttosto un rapporto, che sta in noi come nel mondo. Come ancora Luca Vanzago sostiene che: “si supera così il costruzionismo dell’idealismo anche husserliano. Il senso non è soltanto effetto di una Sinngebung, una donazione di senso da parte di un soggetto idealisticamente inteso, perché al di sotto di essa sta una significazione più profonda. Il mondo sta già dentro l’anima del soggetto, perché il soggetto è un campo sensoriale in cui le cose si manifestano invitando il corpo a rispondere al loro appello. Il soggetto non è più da comprendere pertanto come attività sintetica, ma come “estasi” (nel senso di Heidegger) che si situa in un mondo già pregnante di senso nei suoi segni. Non esistono segni naturali, ma ogni segno è pregnante in quanto evoca risposte in un soggetto immerso nella natura” (Vanzago 2012, p. 104). Questa prospettiva apre a una ricomprensione della nozione di intenzionalità. Essa soggiace, supporta e fonda l’intenzionalità d’atto: vi è cioè un “logos del mondo estetico”, come dice Husserl in Logica formale e trascendentale, che Merleau-Ponty carica di significati ulteriori, perché questo “logos” è già nel e del mondo, e non solo nel soggetto, sia pure celato nella profondità della sua anima. Come tale vale anche come ripresa e rigorizzazione fenomenologica della nozione di Gestalt in quanto struttura pregnante. “Non abbiamo altro modo di sapere che cos’è un quadro o una cosa se non quello di guardarli, e il loro significato si rivela solo se li guardiamo da un certo punto di vista, da una certa distanza e in un certo senso, in breve se mettiamo al servizio dello spettacolo la nostra connivenza con il mondo. […] Non ci sarebbe movimento effettivo e io non avrei la nozione di movimento se, nella percezione, io non lasciassi la terra, come “suolo” di ogni quiete e di ogni movimento, al di qua del movimento e della quiete, giacché l’abito; parimenti non ci sarebbe direzione senza un essere che abiti il mondo e che, con il suo sguardo, vi tracci la prima direzione-riferimento. […] In qualsiasi accezione assumiamo la parola senso, ritroviamo la medesima nozione fondamentale di un essere orientato e polarizzato verso ciò che esso non è, e così siamo condotti a una concezione del soggetto come e-stasi e a un rapporto di trascendenza attiva tra il soggetto e il mondo.» «Il mondo è inseparabile dal soggetto, ma da un soggetto il quale non è altro che progetto del mondo; il soggetto è inseparabile dal mondo, ma da un mondo che egli stesso progetta. Il soggetto è essere-al-mondo e il mondo resta “soggettivo”, poiché la sua trama e le sue articolazioni sono delineate dal movimento di trascendenza del soggetto. Pertanto, con il mondo come culla dei significati, senso di tutti i sensi e terreno di tutti i pensieri, scoprivamo il mezzo per superare l’alternativa fra il realismo e l’idealismo, fra la contingenza e la ragione assoluta, fra il non senso e il senso. Il mondo, così come abbiamo tentato di mostrarlo, in quanto unità primordiale di tutte le nostre esperienze all’orizzonte della nostra vita e termine unico di tutti i nostri progetti, non è più il dispiegamento visibile di un Pensiero costituente, né un aggregato fortuito di parti, né ovviamente l’operazione di un Pensiero sovrano su una materia indifferente, ma la patria di ogni razionalità” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione 2013, pp. 548- 549). Il tempo così si mostra, alla lettera, il senso della vita, e può essere compreso soltanto da colui che è situato nel mondo e ne sposa la direzione. Soggetto e oggetto sono due momenti astratti di una struttura unica che è la presenza (nel senso di cui s’è detto sopra). Il che significa che ogni tentativo di risolvere la relazione tra anima e corpo permanendo nel pensiero oggettivo o nel suo ribaltamento idealistico speculare non arriverà mai ad alcun risultato. Il corpo va inteso alla luce della nozione di esistenza, e non viceversa. C’è di più: non si tratta semplicemente di avere un corpo, ma questo corpo. È l’esistenza effettiva e concreta di un determinato corpo con determinate relazioni a un determinato mondo a permettere di comprendere l’esperienza e la coscienza. Merleau-Ponty insiste qui molto sulla singolarità, e anche in questo caso tale sottolineatura non va assolutizzata ma connessa al suo “altro lato” che è la generalità corporea. Generalità e singolarità si sostituiscono così a universalità e particolarità come coppia non oppositiva. Si può così indicare una soluzione anche alle altre due obiezioni mosse sopra alla posizione di Gibson. L’analisi della temporalità condotta da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione mostra quanto la temporalità sia cruciale per la costituzione della realtà e non solo per la sua apprensione cognitiva. Certamente Merleau-Ponty intende la temporalità in senso ontologico, e su tale interpretazione si può dissentire. Ma i motivi per guardare alla temporalità in questo modo stanno nell’approfondimento della corporeità del soggetto esperiente, e quindi sono consustanziali all’ipotesi di partenza di indagare la realtà percepita per come essa “è” e non soltanto come effetto di una comprensione di tipo rappresentativo. Ciò a sua volta dà indicazioni sul problema relativo a come comprendere il concetto di fenomeno. La fenomenologia accetta l’idea moderna, già kantiana, per cui la realtà si dà in quanto si mostra, ma radicalizza tale prospettiva facendo della manifestazione la cifra stessa del reale. Ciò è lecito soltanto a patto di mostrare che il mostrarsi del mondo a un soggetto non implica una separazione originaria (tra materia e spirito, oggetto e soggetto) che poi andrebbe colmata, perché se si parte dalla separazione non si può più poi realmente far altro che giustapporre ciò che è stato fin dall’inizio separato. Soltanto trovando la radice comune, cioè il terreno da cui emerge un lato oggettivo e uno soggettivo, si può davvero sostenere di aver “superato” la divisione. Ma questo a sua volta è comprensibile soltanto alla luce di una revisione della nozione di fenomeno che la tolga da quell’alone di apparenza come illusione soggettiva che invece Gibson sembra mantenere. La fenomenologia della soggettività corporea di Merleau-Ponty sembra fornire sufficienti argomenti per suggerire tale approfondimento. Si tratta allora di verificarne gli esiti alla luce di quelle ricerche contemporanee che si sono ispirate ad essa. CAPITOLO TERZO La riflessione neuro-fenomenologica e il problema dell’esperienza incarnata 3.1 Premesse storiche Sul finire degli anni ’60 la scienza cognitiva classica individua i processi mentali come un fenomeno non tracciabile né visibile, una sorta di processo interno all’organismo, la cui elaborazione causa come effetto un comportamento osservabile, percepibile e visibile. Si crea in altre parole una linea di demarcazione, una sorta di confine tra il pensiero ed i sensi, tra la mente e le percezioni, tra l’elaborazione mentale e l’ambiente. Alla base del modello cognitivista si afferma dunque la convinzione che il possedere una mente significhi possedere un dispositivo di elaborazione dell’informazione. Il funzionalismo computazionale, che concepisce la mente come un software implementato su un hardware cerebrale, ha dovuto fronteggiare negli anni diverse critiche che hanno preso come oggetto sia l’idea di elaborazione dell’informazione, sia soprattutto quello di rappresentazione. Attraverso l’attività cerebrale, gli organismi dotati di mente non fanno altro che crearsi una rappresentazione “interna” della più estesa fonte “esterna”, necessaria per l’interazione con il mondo. Elaborazione, rappresentazione e interazione sembrano emergere come parole chiave che se ben coniugate riflettono, con reciproca collaborazione, la stretta relazione tra mente, corpo e ambiente. Ma con la “nuova” scienza cognitiva e l’aiuto attivo e aggiornato delle neuro-scienze, sembrano lontani i tempi in cui vigeva la convinzione che la mente è un mero sistema meccanico capace di emulare e simulare l’attività cognitiva. La ramificazione naturale della Scienza cognitiva, fedele alla sua definizione, trova nella sua evoluzione un ritorno alle origini. Riscopre le sue radici nel re-inserire la cognizione nella dimensione corporea, ben esemplificata dalla emergente Scienza cognitiva incorporata. La direzione esplorativa che si delinea tende dunque a dimostrare l’irriducibilità delle funzioni cognitive legate alla corporeità, sulla base dell’analisi della forza motrice del tutto : l’esperienza. E, come abbiamo visto, l’analisi di come la nostra esperienza sia plasmata dallo spazio incorporato e di come lo spazio subisca una ciclica trasformazione in base all’esperienza della nostra influenza, non può che inevitabilmente ricorrere all’aiuto di quella tradizione filosofica che più di tutte ha indagato la costruzione del mondo al di là di come ci è dato immediatamente: la fenomenologia. Ricollocare la soggettività in un corpo costituente il suo ambiente si presenta, come abbiamo visto, come la base della fenomenologia della corporeità operata da Merleau-Ponty. Superate le nozioni di corpo-oggetto prima e corpo-rappresentazione poi, il corpo diviene animato, vissuto: Il corpo non può costituirsi come elemento dell’ambiente semplicemente perché senza il corpo l’ambiente non esisterebbe. La percezione è integrata con l’azione, l’azione di un corpo che sta al mondo, è il mondo, appare e si muove nel mondo. La stretta connessione tra la percezione e l’azione (individuata già da Gibson, che però si era fermato all’aspetto passivo della percezione ecologica) è ormai sostenuta nelle tesi che intendono comprendere la natura dell’esperienza oltre i limiti del soggetto. Alva Noë afferma: “Il contenuto percettivo è soltanto in parte determinato da uno stato di cose. In parte dipendono dalla relazione tra il soggetto e quello stato di cose. Ogni spiegazione della percezione che trascura questa dipendenza non riuscirà a fornire una soddisfacente descrizione” (Noë 2003, p. 95) Il sistema vivente è quindi una rete di processi di produzione continua, un dialogo costante tra il nostro corpo e il mondo arbitrato da codici in continua evoluzione che contribuiscono alla formazione di nuove categorie in continua trasformazione e continua creazione di sé. È su questo principio che si sviluppa il concetto di autopoiesi elaborato dal biologo, filosofo, neuro-scienziato ed epistemologo Francisco Varela. Il sistema autopoietico fa riferimento alla capacità dei sistemi viventi di creare, mantenere, e ri-generare nel tempo una propria unità e autonomia rispetto alle variazioni dell’ambiente. Integrare l’esperienza soggettiva con le dinamiche del pensiero è dunque lo scopo della proposta metodologica avanzata da Varela, e in questo senso da lui denominata Neurofenomenologia. La Neurofenomenologia persegue un approccio incarnato e dinamico che consiste nel fare un uso rigoroso ed esteso dei dati in prima persona circa l’esperienza soggettiva, evidenziando l’importanza dei dati raccolti in prima persona, come “rimedio metodologico al problema difficile” posto da David Chalmers. Tra le motivazioni teoriche di maggiore rilievo addotte da Varela vi è la profonda convinzione che nella storia intellettuale e scientifica si presenti l’emergenza di dover fare un salto nel vuoto per arginare la fascinazione del problema della coscienza, che sia nella filosofia della mente che nella scienza cognitiva non sembra in grado di andare oltre il ciclico interesse-rifiuto: “La mia proposta implica che ogni bravo studente di scienza cognitiva, che sia anche interessato ai problemi a livello dell’esperienza mentale, deve ineluttabilmente raggiungere un alto grado di abilità nella ricerca fenomenologica, per poter lavorare seriamente con le analisi in prima persona” (Varela, Cappuccio 2006, Neurofenomenologia). 3.2 La neurofenomenologia secondo Varela. Integrare le descrizioni in prima persona e le analisi oggettive della coscienza corporea La nozione di coscienza è indiscutibilmente tra le più problematiche, variegate e discusse. Analizzando il problema da una prospettiva fenomenologica, riveste un ruolo determinante l’intenzionalità, strettamente connessa all’analisi della autocoscienza pre-riflessiva. Ogni esperienza è infatti caratterizzata sia dalla coscienza transitiva che si riferisce al suo oggetto intenzionale, sia alla coscienza intransitiva in quanto si costituisce come riflesso manifesto a se stessa. La consapevolezza di sé che si manifesta è una forma primitiva di autocoscienza che non richiede alcun successivo atto di riflessione o di introspezione, e nonostante il suo aspetto consapevole avviene involontariamente. L’esperienza coinvolge dunque non solo la consapevolezza del suo oggetto, il noema, ma la consapevolezza di sé come processo tacito, ossia la noesi: in altri termini, una forma di auto-consapevolezza corporea non oggettiva e riflessiva di un Leib, un corpo vissuto. Per la neurofenomenologia, ogni teoria convincente della coscienza deve tenere conto di questa esperienza pre-riflessiva della soggettività incarnata. È dibattuta la descrizione classica husserliana fondata sull’accesso fenomenico agli stati di coscienza con presupposti statici. La neurofenomenologia propone di riorientare il quadro teorico, sottolineando le dinamiche di tutta la struttura noetica-noematica della coscienza, tra cui le dinamiche strutturali e temporali del processo attraverso cui un soggetto può diventare riflessivo e raggiungere introspettivamente la conoscenza delle proprie esperienze . Nel tentativo di integrare i dati in prima persona nei protocolli sperimentali delle neuroscienze cognitive, si delineano tre sfide principali: i rapporti in prima persona possono essere imprecisi; gli atti introspettivi possono modificare l’esperienza, resta un gap esplicativo nella nostra comprensione di come mettere in relazione l’esperienza soggettiva dei processi fisiologici e comportamentali. Per far fronte alle prime due sfide, la neurofenomenologia utilizza metodi in prima persona al fine di aumentare la propria esperienza soggettiva e, quindi, di generare relazioni descrittive più raffinate che possono essere utilizzati per identificare e interpretare in terza persona i processi comportamentali rilevati per la coscienza. Anche se Varela ha proposto la neurofenomenologia come una metodologia auspicabile per risolvere il problema difficile, in realtà, come sostengono Lutz e Thompson, la neurofenomenologia non mira a risolvere il problema difficile della coscienza. Questo perché, a seguito delle analisi fenomenologiche, la stessa opposizione dicotomica cartesiana del mentale (coscienza soggettivistica) e del fisico (natura oggettivistica) è considerata come parte del problema e non come via d’accesso alla soluzione. Per quanto riguarda il gap esplicativo, la neurofenomenologia non mira a colmare il divario nel senso della riduzione ontologica, ma piuttosto a colmare il divario a livello epistemologico e metodologico, lavorando per stabilire forti vincoli reciproci tra resoconti fenomenologici e resoconti cognitivo-scientifici dei processi mentali. La neurofenomenologia in tal senso propone un programma chiaro di ricerca scientifica per progredire su tale compito. Mentre le neuroscienze si sono concentrate principalmente sulla terza persona, lasciando lo studio della prima persona alla psicologia e alla filosofia, la neurofenomenologia impiega i metodi specifici in prima persona per generare dati che possono poi essere utilizzati per guidare lo studio dei processi fisiologici. La proposta di Varela non è senza problemi, come si dirà più avanti, ma contiene alcune indicazioni che sono in ogni caso preziose e che vale la pena discutere. La neurofenomenologia si concentra sulle dinamiche temporali (la struttura noetico-noematica nel suo processo fluente), così lo studio proposto da Varela prende in esame la dinamica della relazione noetico-noematica tra il contesto soggettivo-esperienziale che porta alla percezione e l’evento percettivo stesso. Uno degli obiettivi principali di questo tipo di ricerca è quello di capire la causalità circolare per cui il contesto esperienziale (noesis) può modulare il modo in cui l’oggetto percettivo appare (noema) o è esperito (vissuto) durante il momento della percezione cosciente, e il contenuto di questo stato di coscienza momentaneo può reciprocamente influenzare il flusso di esperienza come processo noetico. I metodi in prima persona si costituiscono come pratiche fondamentali che disciplinati soggetti possono utilizzare per aumentare la loro sensibilità per la propria esperienza (Varela e Shear, 1999). La conseguenziale formazione sistematica di attenzione e di autoregolamentazione emotiva, disegnano i tratti di una pratica empirica determinante ai fini di una completa analisi che preveda aspetti neuro-dinamici e fenomenologici (Depraz, Mettere al lavoro il metodo fenomenologico nei protocolli sperimentali). Infatti la presenza di questi metodi si riscontra sia in fenomenologia che in psicoterapia, e nelle tradizioni meditative contemplative (Wallace, 1999). La rilevanza di queste pratiche per la neurofenomenologia deriva dalla capacità determinante di coltivare sistematicamente l’autoconsapevolezza; determinante, perché consente di portare gli aspetti pre-riflessivi dell'esperienza soggettiva tacita, (che altrimenti rimarrebbe semplicemente 'vissuto') a diventare soggettivamente descrivibili, e soprattutto accessibili per una caratterizzazione intersoggettiva e oggettiva. I metodi in prima persona variano a seconda del quadro fenomenologico, psicologico o contemplativo (Varela e Shear, 1999) . Può essere opportuno sottolineare alcune operazioni generiche comuni ai metodi in prima persona. In fenomenologia, la descrizione strutturale del processo che ha lo scopo di diventare soggetto riflessivo attento alla sperimentazione è noto come “epochè” (Depraz, 1999). L’epochè mobilita e intensifica la tacita consapevolezza dell’esperienza inducendo un atteggiamento esplicito di attenta consapevolezza di sé. Seguendo le analisi di N. Depraz si può dire che l'epoché si articola su tre fasi intrecciate che formano un ciclo dinamico (Depraz et al., 2000) : 1. Sospensione; 2. reindirizzamento; 3. ricettività. La prima fase induce una sospensione transitoria di credenze o pensieri abituali su ciò che è vissuto. L’obiettivo è quello di mettere tra parentesi il sistema di credenze – costrutti, al fine di adottare un atteggiamento descrittivo aperto e senza pregiudizi. Questo atteggiamento è un importante prerequisito per l'accesso all'esperienza vissuta pre-riflessivamente. La seconda fase si fonda su di un processo di reindirizzamento sulla base dei dati ottenuti. Dato un atteggiamento di sospensione, l'attenzione del soggetto può essere reindirizzato dalla sua abituale immersione nell'oggetto esperito (il noema) verso le qualità del vissuto, ossia il processo di esperienza (l'atto noetico e la sua fonte pre-personale o pre-noetica nel corpo vissuto). Durante l’epochè, un atteggiamento di ricettività o “lasciare andare” è inoltre incoraggiato, al fine di ampliare il campo di esperienza in direzione di nuovi orizzonti, verso cui l'attenzione può essere attivata. Le distinzioni di solito non sorgono immediatamente, ma richiedono più varianti. La ripetizione dello stesso compito, per esempio, consente ai nuovi contrasti di sorgere, e convalida categorie o invarianti emergenti. La formazione è quindi una componente necessaria per coltivare le tre fasi, e per consentire l’emersione e stabilizzazione di invarianti fenomenali. A valle di questo ciclo triplice è la fase di verbalizzazione o espressione. La comunicazione di invarianti fenomenali fornisce il passo cruciale per cui questo tipo di conoscenza in prima persona può essere condiviso e intersoggettivamente calibrato, e connesso relativamente a dati oggettivi Questa spiegazione delle fasi procedurali dell’epochè rappresenta un tentativo di colmare una lacuna in fenomenologia, che ha spesso sottolineato l’analisi teorica e la descrizione, a scapito della pragmatica della epoché come un agire situato e incarnato (Depraz, 1999). Per contro, la pragmatica della mindfulness-awareness (shamatha-vipashyana) nella tradizione buddista è molto più sviluppata. Questa è una ragione per la descrizione di cui sopra delle dinamiche strutturali della presa di coscienza, così come dei tentativi di sviluppare una fenomenologia più incarnata e pragmatica, procedure che sono tratte da tradizioni buddiste di coltivazione mentale (Varela 1991; Depraz 2000, 2003). Seguendo Thompson e Lutz, si può anche notare la recente convergenza di teorie e ricerche che coinvolgono l'introspezione (Vermersch, 1999), lo studio di competenze ed esperienze intuitive (Petitmengin-Peugeot, 1999), la fenomenologia (Depraz, 1999) e la coltivazione mentale meditativa (Wallace, 1999). Questa convergenza ha anche motivato e plasmato la descrizione di cui sopra delle caratteristiche generiche dei metodi in prima persona (si veda Depraz 2000, 2003). Questa insistenza sulla pragmatica rappresenta un tentativo di rendere giustizia alla difficoltà di descrivere o riportare le esperienze come vengono vissute direttamente, piuttosto che come si presume siano, sia sulla base di assunzioni a priori o sulla scorta di teorizzazioni estranee all’esperienza concreta. Secondo il modo di pensare fenomenologico, ordinariamente le nostre varie credenze, costrutti e teorie su sul mondo sono coinvolti nel modo di intendere il mondo stesso e i soggetti che vivono in esso. I fenomenologi chiamano questo atteggiamento irriflessivo “atteggiamento naturale”. L'epoché mira a mettere tra parentesi queste ipotesi e credenze, e quindi indurre un atteggiamento fenomenologico aperto verso l'esperienza diretta ('le cose stesse"). L'adozione di un atteggiamento propriamente fenomenologico è un’importante premessa metodologica per esplorare le strutture costitutive originali e categoriali dell’esperienza, come lo spazio egocentrico, la temporalità e la dualità soggetto-oggetto, o le caratteristiche associative affettive-spontanee del flusso temporale di esperienza radicata nel corpo vissuto. L'uso di metodi in prima persona in neuroscienze cognitive solleva chiaramente importanti questioni metodologiche. Bisogna evitare il rischio di falsare la categorizzazione fenomenologica, o all’opposto accettare acriticamente l’approccio sperimentale. Dennett (1991) ha introdotto il suo metodo detto della “etero-fenomenologia” (la fenomenologia da una prospettiva in terza persona neutrale), in parte come un modo per salvaguardarsi contro questi rischi. I suoi avvertimenti sono ben recepiti. La neurofenomenologia afferma che i metodi in prima persona sono necessari per raccogliere raffinati dati in prima persona, ma non che i soggetti sono infallibili rispetto alla propria vita mentale, né che lo sperimentatore può mantenere un atteggiamento di neutralità critica. I metodi in prima persona non conferiscono infallibilità su argomenti che fanno uso di tale approccio, ma essi consentono ai soggetti di tematizzare aspetti importanti ma usualmente taciti della loro esperienza. Dennett fino a oggi non ha affrontato la questione della portata e dei limiti dei metodi in prima persona in relazione a etero-fenomenomenologia, così non si sa con certezza dove situare la sua posizione su questo tema. Uno scambio completa su questo tema richiederebbe la discussione della diversità di sfondo epistemologico e della differenza metafisica che sussistono tra fenomenologia e etero-fenomenologia in relazione alla materia intenzionale e alla coscienza. Non c'è spazio per una tale discussione qui. Si è quindi costretti a limitarsi a commentare la etero-fenomenologia come un metodo per ottenere rapporti in prima persona. Si può ritenere che, nella misura in cui la etero-fenomenologia respinge i metodi in prima persona, il suo è un metodo troppo limitato per la scienza cognitiva della coscienza, perché non è in grado di generare raffinati dati in prima persona. D'altra parte, nella misura in cui la etero-fenomenologia riconosce l'utilità dei metodi in prima persona, allora è difficile vedere come potrebbe evitare di diventare nella pratica una forma di fenomenologia, tale che il prefisso 'Etero' diventerebbe inutile. Un altro problema metodologico riguarda la modifica di esperienza nella formazione fenomenologica. È prevedibile che la stabilizzazione delle categorie fenomeniche mediante metodi in prima persona sarà associata a specifiche a breve termine o cambiamenti a lungo termine nell'attività cerebrale. È stato dimostrato, ad esempio, che formazione di categorie durante l'apprendimento è accompagnata da cambiamenti nel corso della dinamica della rappresentazione dello stimolo corticale. Eppure il fatto che la formazione fenomenologica può modificare le dinamiche di esperienza e il cervello non è una limitazione, ma un vantaggio. Chiunque abbia acquisito una nuova abilità cognitiva (come la fusione stereoscopica, la degustazione di vini, o l’uso di una seconda lingua) può attestare che l’esperienza non è fissa, ma dinamica e plastica. I metodi in prima persona contribuiscono a stabilizzare aspetti fenomenici di questa plasticità in modo che possano essere tradotti in relazioni descrittive in prima persona. Come scrive Frith in un recente commento sull'introspezione e imaging cerebrale: “Un programma importante per la scienza del 21° secolo sarà di scoprire come un'esperienza può essere tradotta in un report, consentendo in tal modo di condividere le nostre esperienze” (Frith, 2002). I metodi in prima persona aiutano a cogliere la “melodia” dell'esperienza, in modo che tale processo di traduzione e di convalida intersoggettiva possa essere reso più preciso e rigoroso. La questione della generalità dei dati ottenuti da parte di soggetti qualificati rimane aperta, ma sembra meno critica in questa fase della nostra conoscenza rispetto al bisogno di ottenere nuovi dati relativi ai processi fenomenologici e fisiologici costitutivi della prospettiva in prima persona. Si deve infine anche notare che Frith sostiene anche che “la condivisione di esperienze richiede l'adozione di una prospettiva in seconda persona in cui un quadro di riferimento comune può essere negoziato” ( Frith , 2002) . 3.3 Problemi della neurofenomenologia di Varela Il progetto di naturalizzazione della fenomenologia sorge per iniziativa di alcuni centri di ricerca diversi tra loro ma accomunati dal proposito di affrontare quello che Joseph Levine chiamò, in un articolo diventato famoso e influente, il “gap esplicativo” (J. Levine, “Materialism and Qualia: The Explanatory Gap”, Pacific Philosophical Quarterly, 64, 1983, pp. 354-361.) Ad avviso di Levine questo gap può essere descritto così: sebbene la scienza cognitiva abbia avuto successo nel trovare una base scientifica con cui comprendere attività ed eventi mentali, ancora non riesce a descrivere, da tale prospettiva, i dati fenomenici o qualia, ossia gli aspetti qualitativi dell’esperienza stessa. Questo non è un problema secondario, perché anzi rappresenta uno scacco rispetto a ciò che dovrebbe costituire lo scopo fondamentale della scienza cognitiva della mente, ossia proprio la coscienza e i suoi fenomeni. Ovviamente molti scienziati cognitivi replicherebbero a tale obiezione ricordando che la mente fenomenica è da considerare soltanto in termini epifenomenici rispetto alla mente cognitiva. Questa è ad esempio la posizione dell’eliminativismo propugnato dai Churchland. Tuttavia per gli studiosi di fenomenologia tale problema appare al contrario come segno che qualcosa non funziona nell’approccio oggettivistico e basato sulle descrizioni in terza persona. Di qui il tentativo condotto da chi, come Varela, viene dalla biologia teoretica e dalla ricerca sul campo per trovare un linguaggio adeguato a dar conto dell’aspetto fenomenico dell’esperienza senza rinunciare ai presupposti fondamentali della scienza. Da questa prospettiva si può considerare l’approccio di Varela come particolarmente importante per chiarire il progetto della naturalizzazione della fenomenologia. Varela parla della necessità di connettere fenomenologia e scienze cognitive classiche in modo da far sì che ognuno dei due approcci produca dei condizionamenti per l’altro. In questo modo si otterrebbe allora un sistema di condizionamenti reciproci che dovrebbe condurre a realizzare una prospettiva tale da superare il gap esplicativo. Questa proposta teorica si pone perciò lo scopo fondamentale di integrare i dati provenienti dalle indagini in prima persona, ottenuti con le modalità discusse sopra, con l’approccio metodologico derivato dalle scienze naturali e dalla sua applicazione alle scienze della mente. Il progetto di naturalizzazione della fenomenologia accetta dunque in prima istanza l’idea che vi sia una reciprocità tra scienze cognitive e fenomenologia. Bisogna però chiarire che cosa si intenda con reciprocità in questo caso. L’approccio di Varela, in questo senso, sebbene si dichiari ispirato dalla fenomenologia, si fonda in realtà piuttosto su basi teoriche provenienti dalla biologia teorica, per quanto trasformate dal lavoro di ricerca condotto insieme a Humberto Maturana. Ciò che quindi si tratta di esaminare è se l’approccio di Varela sia effettivamente adeguato a integrare la prospettiva fenomenologica all’interno dell’universo teorico delle scienze cognitive. In altre parole, si tratta di capire se, nel sintagma neuro-fenomenologia, la fenomenologia abbia un ruolo effettivo, e in che misura, rispetto al tema generale relativo alle neuro-scienze. Si potrebbe anche dire che in questo dibattito ciò che è realmente in gioco è il concetto di natura che soggiace ai due approcci. Questo emerge chiaramente da una dichiarazione che Varela fa nell’introduzione all’opera collettiva Naturalizing Phenomenology. Vi si può leggere quanto segue: “La giustificazione per scegliere tale prospettiva, cioè la mutua fertilizzazione di scienze cognitive e fenomenologia, è chiara. Una delle preoccupazioni principali che stanno attualmente al fondo dell’indagine sui fenomeni cognitivi è la costruzione di una scienza della cognizione che sia contigua rispetto alle più basilari scienze della natura, e conseguentemente di comprendere come una res extensa possa diventare abbastanza complessa, attraverso l’evoluzione, da possedere gli attributi di una res cogitans” (Varela 1999). Da questa affermazione di principio si capisce che in realtà per Varela la mutua fertilizzazione si può ottenere innanzi tutto riconducendo la fenomenologia sul terreno delle scienze naturali, comprese in termini di ontologia della materia estesa. Quindi il problema vero consiste nel chiarire se in effetti si possa davvero ottenere una mutuai fertilizzazione se si continua a non considerare il problema da un punto di vista categoriale e ontologico, vale a dire se non si fanno fino in fondo i conti con il concetto di soggetto corporeo esperiente e ciò che tale concetto implica per la comprensione dell’esperienza percettiva. Varela da questo punto di vista insiste, forse per tutelarsi rispetto a possibili critiche provenienti dagli ambiti cognitivistici, sulla necessità di cercare una “soluzione materialistica”. Il problema è se tale prospettiva sia giustificata dalle premesse e se sia efficace. Si può cercare di rispondere a tali domande riflettendo innanzi tutto su ciò che Varela intende con scienza cognitiva e su come intenda il contributo della fenomenologia in quest’ottica. Egli sostiene ciò che segue: “La scienza cognitiva [nel senso di Varela] opera l’assunzione cruciale secondo cui i processi che sorreggono il comportamento cognitivo possono essere spiegati a livelli diversi e gradi variabili di astrazione, ognuno corrispondente a una disciplina specifica o a un insieme di discipline. Al livello più concreto la spiegazione è di tipo biologico, mentre al livello più astratto la spiegazione è soltanto funzionale, nel senso che i processi di “informazione” sono caratterizzati in termini di entità astratte, definite funzionalmente. Una definizione è funzionale se non dice del definiendum nulla di più di ciò che effettivamente dice, e conseguentemente non dice nulla della sua composizione. In questo senso, la scienza cognitiva differisce dall’eliminativismo stretto, che riconosce soltanto il livello bio-fisico di base come oggettivamente reale, bandendo tutti gli altri. Questo livello funzionale di spiegazione è inoltre assimilato ad un livello psicologico e mentale. In altre parole, la scienza cognitiva afferma che non vi sia differenza sostanziale tra il dare una spiegazione funzionale dell’attività di processamento delle informazioni, responsabile del comportamento cognitivo di un organismo, e lo spiegare tale comportamento in termini mentali. È solo attraverso tale ipotesi supplementare che la scienza cognitiva diventa una nuova forma di teoria della mente strictu sensu. Infine, attraverso l’interpretazione funzionale dei concetti cognitivi mentali, la scienza cognitiva sostiene di aver scoperto una soluzione incontrovertibilmente materialistica per il problema mente-corpo. Poiché sono puramente funzionali, le entità mentali postulate al livello superiore di spiegazione non devono essere considerate come ontologicamente diverse dalle entità biologiche postulate al livello inferiore. Esse sono esattamente le stesse, sebbene caratterizzate in termini del ruolo giocato nel processamento cognitivo. Una mente cognitiva è ciò che un cervello incorporato appare quando viene considerato attraverso una finestra funzionale” (Varela 1999, p. 5) Si può inoltre notare che Varela vede tale sviluppo della scienza cognitiva come il risultato di una evoluzione all’interno del cognitivismo, che da una prima fase di stampo computazionalistico sarebbe passata ad una seconda fase di natura connessionistica, di cui la terza fase, da lui propugnata, è insieme ulteriore sviluppo e radicalizzazione. Tale terza fase viene indicata con il termine “enattivismo”, a significare in particolare l’aumento del ruolo dell’analisi dell’esperienza corporea rispetto ai livelli precedenti, più incentrati sul problema delle rappresentazioni simboliche. In questo senso per Varela lo sviluppo della scienza cognitiva è segnato da un indebolimento del ruolo della conoscenza algoritmica come manipolazione di simboli, e da un rafforzamento del ruolo della cognizione come processualità incarnata. Per Varela quindi lo sviluppo della scienza cognitiva può essere descritto insieme come tendenza a muovere da ciò che è più astratto (la computazione) a ciò che è più concreto (azioni effettuate da un corpo), e come tendenza a passare dal semplice (la computazione intesa come insieme di operazioni su simboli semplici e seguendo regole semplici) al complesso (cognizione come interazione di reti complesse comprensibile soltanto attraverso strumenti matematici raffinati come la teoria delle catastrofi di R. Thom e J. Petitot, e altri simili concetti). Ciò che sembra evidente è che, da una parte, l’enfasi sull’incorporazione va incontro ai risultati della ricerca fenomenologica sulla conoscenza corporea, ma d’altra parte permangono dei presupposti teorici che intanto la fenomenologia dell’esperienza incarnata ha già cominciato a discutere criticamente. Si pone qui il problema di comprendere quanto più chiaramente possibile che cosa Varela intenda con corpo cognitivo o esperienza incarnata. Ora, da questo punto di vista, per quanto Varela abbia compiuto importanti progressi, non si può non notare che egli adotta una descrizione degli eventi cognitivi corporei che è ancora fondamentalmente ancorata ad una prospettiva in terza persona. Ciò vale in particolare per il tema cruciale del nesso movimento-percezione, che si è visto essere al centro dell’attenzione di Gibson e che già Merleau-Ponty aveva ampiamente discusso all’interno della propria indagine fenomenologica, come si è visto. Pertanto le analisi di Varela, nonostante quanto da lui affermato in sede programmatica, continuano a lasciare aperto il gap esplicativo che si voleva superare, poiché le descrizioni delle attività corporee sono comunque ottenute attraverso un approccio oggettivante che non capitalizza le importanti acquisizioni che intanto sia la fenomenologia di Merleau-Ponty che l’ecologia della percezione di Gibson avevano consentito di raggiungere. Varela vede, da biologo, il corpo in movimento come un oggetto fisico. Sostiene poi che sia possibile intendere tale livello come quello “inferiore” e biologico che ha un corrispettivo cognitivo funzionale a livello mentale cioè “superiore”. Rimane però da capire come vi sia qualche possibilità di intendere tale omologia strutturale, dal momento che il corpo è ancora pensato come res extensa e la mente sempre, cartesianamente, come res cogitans, laddove Merleau-Ponty aveva indicato nell’esigenza di superare proprio tale separazione la chiave per arrivare davvero a una scienza della corporeità. L’approccio di Varela dunque sembra essere ancora condizionato da quel presupposto ontologico inindagato dal cognitivismo che invece Gibson aveva a suo modo scardinato con le proprie analisi empiriche. Merleau-Ponty aveva a sua volta rilevato filosoficamente tale questione, proponendo una comprensione del tutto diversa dell’esperienza corporea, ottenuta attraverso un approccio fenomenologico a sua volta depurato dai propri presupposti coscienzialistici e spiritualistici, ancora presenti in Husserl nonostante i grandi progressi fatti dal fondatore della fenomenologia nell’arco della propria carriera. CONCLUSIONI Durante la stesura della tesi, ho cercato di mettere a frutto il senso dei miei anni universitari coniugando l’interdisciplinarietà dei diversi ambiti di ricerca incontrati nel mio percorso di studio. La ramificazione naturale della scienza cognitiva, fedele alla sua definizione, trova nella sua evoluzione un ritorno alle origini. Un riscoprire le sue radici nel reinserire la cognizione nella dimensione corporea ben esplicata nella emergente scienza cognitiva incorporata. Accostandomi all’embodied cognitive science, ho cercato di seguire questa direzione esplorativa sostenendone la sua fecondità per dimostrare l’irriducibilità delle funzioni cognitive legate alla corporeità, analizzando in particolare la forza motrice del tutto: l’esperienza. Partendo dall’analisi al contributo di J.J. Gibson ho discusso di come la nostra esperienza sia plasmata dallo spazio incorporato e di come lo spazio subisca una ciclica trasformazione in base all’esperienza della nostra influenza, seguendo la mia passione verso la fenomenologia, mi sono aiutata con il lavoro di Maurice-Merleau-Ponty e della sua attenzione alla costruzione del mondo al di là di come ci è dato. L’intuizione che attraverso l’esperienza si possa risalire ad una comprensione del corpo continua ad essere alimentata dall’impegno costante dei fenomenologi ma, secondo la mia analisi, non è sufficiente. La scienza cognitiva incarnata, in sinergia con l’approccio fenomenologico, mira a specificare quanto la cognizione sia fondata dalla natura corporea a fine di ridisegnare l’esperienza del sé, e quindi del mondo e degli altri, attraverso la corporeità. La convergenza dei due campi di ricerca complementari rappresenta una risorsa indispensabile per le indagini sempre più attuali riguardanti il tempo, la percezione, l’alterità, la mente incarnata, l’intenzionalità e, naturalmente, la coscienza e l’autocoscienza. In questo lavoro ho provato ad indagare l’esperienza corporea attraverso il contributo fondamentale dell’alterità fenomenologica, individuando nel rapporto intersoggettivo e nella comprensione della natura e nella modalità di svolgimento dell’interpersonalità, la chiave della costruzione complessiva (e complessa) del soggetto. Riferimenti Bibliografici Bonomi, A. 1967 Esistenza e Struttura. Saggio su Merleau-Ponty, IL Saggiatore, Milano. Cappuccio, M. (a cura di) 2006 Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, Milano. 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