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Itinera · 8
collana diretta
da Aldo Trione
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Stampato con il contributo del
PRIN 2008 del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”
dell’Università di Napoli “Federico II”
e con un contributo del
Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione - DISUFF dell’Università di Salerno
Copyright © 2011, il nuovo melangolo s.r.l.
Genova - Via di Porta Soprana, 3-1
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iSBn 978-88-7018-826-4
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Anna Pia Ruoppo
L’attimo della decisione
Su possibilità e limiti di un’etica
in Essere e Tempo
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PreSenTAzione
nel libro che qui presento, Anna Pia ruoppo prosegue la ricerca,
iniziata in Vita e metodo nelle prime lezioni friburghesi di Martin Heidegger (Firenze 2008). L´attimo della decisione. Su possibilità e limiti di
un’etica in essere e Tempo si propone di fare una genealogia dei concetti
dell´analitica esistenziale in modo da poterne ricavare, se non un’etica
vera e propria, almeno una problematica di rilevanza etica, malgrado che
Heidegger escluda esplicitamente questa possibilità e malgrado il carattere “formale” dell’ontologia fenomenologica lì sviluppata. Poiché un
tentativo di interpretazione in questo senso fu fatto anche dai primi lettori di Essere e Tempo, ruoppo si collega a questa discussione e ne sviluppa le sollecitazioni. ella ritiene di potere ulteriormente individuare,
rispetto a queste interpretazioni, un elemento genetico determinante nella formazione del giovane Heidegger, vale a dire il confronto con lutero e con il suo modo di intendere la salvezza, dove è centrale la decisione come messa in gioco dell’intero dell’esistenza nella dialettica di salvezza e dannazione. Questo punto della teologia di lutero andrebbe a incidere fortemente sulle interpretazioni che Heidegger dà sia del cristianesimo primitivo (Paolo e Agostino) che di Aristotele e, di conseguenza,
sulla formazione dei concetti di Essere e Tempo.
nella genesi del pensiero di Heidegger si stabilisce così una inaspettata connessione tra Aristotele e lutero, malgrado la posizione esplicita di rigetto verso il primo da parte del secondo, rigetto che riguarderebbe piuttosto il modo in cui la Scolastica aveva interpretato l’esistenza
cristiana e il modo in cui, a questo scopo, aveva usato la filosofia di Aristotele. invece proprio nella messa in gioco dell’”intero” si manifesta
una “co-appartenenza” tra due pensieri a prima vista così lontani, vale a
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dire tra la decisone di fede luterana e la phrónesis aristotelica, entrambe
legate all’urgenza e alla motilità della vita.
Ma qui ruoppo fa un passaggio ulteriore: non sarebbe solo questa
connessione tra Aristotele e lutero a dare elementi per radicare le categorie nell’effettività dell’esistenza e quindi aprire a una possibile problematica di carattere etico. Ci sarebbe in Heidegger addirittura una precedenza sia biografica che logica del confronto con lutero, poiché sarebbe stato il tema luterano della decisione di fede che gli avrebbe permesso di liberare il pensiero di Aristotele dalla mediazione della Scolastica e di cogliere, così, il senso dell’operazione di ancorare le categorie
alla motilità della vita, benché nella determinazione dell’ente come produzione Aristotele abbia esteso una regione d’essere particolare alla
comprensione dell’essere in generale condividendo la svolta metafisica
del pensiero occidentale.
le categorie dell’analitica esistenziale di Essere e Tempo sarebbero
fortemente impregnate di questa appropriazione e rielaborazione della
concezione greco-cristiana della vita, cosicché “dovrebbe risultare più
chiara l’origine della tensione etico-pratica che in essa ravvisarono i suoi
primi lettori. l´intenzione heideggeriana di utilizzare concetti tratti dalla tradizione in una funzione meramente indicativo-formale, infatti, non
trova riscontro in Essere e Tempo e, quanto più Heidegger, nei punti nodali del suo ragionamento, invita a non interpretare la sua analisi dell´esistenza in senso etico tanto più sembra confermare in essa la presenza di
una dimensione valutativa, per quanto programmaticamente non intenzionata” (infra, p. 223).
Questo libro dà un’ulteriore prova della competenza e del valore
scientifico di Anna Pia ruoppo e della sua capacità di lavoro nelle avverse condizioni in cui oggi la società capitalistica costringe ormai tutte
le generazioni o impedendo di trovare un’attività minimamente stabile o,
per chi la trova, costringendo a svolgere un’attività che non permette di
esprimere adeguatamente le proprie capacità e competenze oggettivamente maturate o espellendo semplicemente dal processo lavorativo. il
campo del sapere, così rilevante nella produzione contemporanea, è
quello dove si esercita particolarmente questa azione distruttrice e dilapidatrice da parte del capitale - dilapidatrice date la quantità abnorme e
la qualità eccellente di energie e talenti intellettuali, di saperi comuni
ecc., che vengono letteralmente gettate via. esempio tipico sono le politiche scolastiche e universitarie, come nel caso emblematico della legge
italiana di riforma n. 240. Con la crisi odierna si mostra sempre più che
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è lo stesso rapporto di produzione capitalistico nel suo insieme, e non
questo o quell’aspetto di esso, a rappresentare un ostacolo allo sviluppo
della società e, di conseguenza, alla manifestazione delle capacità e alla
soddisfazione dei bisogni degli individui. e’ una consapevolezza che in
questi giorni, scendendo nelle piazze e nelle strade e dirigendosi sotto le
banche, le borse e i parlamenti - dal Cile, agli Usa, alla Spagna, alla Grecia, all’italia, al Giappone - tante persone mostrano immediatamente, a
partire dalle loro condizioni di vita reali e non deducendola da una teoria astratta. dicendo questo, so di stare in una posizione opposta a quella di Heidegger perché egli, nell’orizzonte della tecnica come compimento della metafisica, quindi in quello che chiama il destino mondiale
della spaesatezza, pone non solo il capitalismo ma anche la “trasformazione del mondo”, di cui parla la marxiana Tesi Xi su Feuerbach, neutralizzandola in modo mistificatorio proprio nel momento in cui nella
Lettera sull’umanismo dà atto a Marx di avere colto questo destino in
modo “essenziale”, superiore a ogni “storiografia”, per usare la sua terminologia. in tal modo l’operazione di Heidegger rifletteva nell’ideologia la tendenza del capitale, nella fase imperialistica della prima metà
del novecento, a integrare e neutralizzare nel suo apparato di dominio la
classe operaia (come avvenne in forme diverse nel nazismo nel new
deal). Ma così a mio avviso, si manca proprio l’essenziale del discorso
di Marx che consiste nella trasformazione, nella soppressione dello stato di cose presenti, sulla base delle condizioni storicamente determinate
che ne creano la possibilità reale. in questa possibilità reale, ossia materiale, non nella possibilità come l’essere stesso, sta il movimento veramente “storico”.
la discussione circa il rapporto di Heidegger con il problema etico,
che ha impegnato molti interpreti da quando è apparso Essere e Tempo
fino ad oggi, si inserisce nel più ampio contesto della definizione del soggetto e della soggettività, che caratterizza le più varie correnti filosofiche
contemporanee (decostruzionismo, filosofie della differenza, ermeneutica, filosofia pratica ecc.). Perciò mi sembra che questo libro di ruoppo
abbia uno spazio, una collocazione molto significativa per il problema
che pone, quale che sia la posizione che se ne possa avere circa le conclusioni.
naturalmente, il problema se nell’analisi esistenziale di Heidegger
sia o meno implicita un’etica, o se da essa la si possa o meno ricavare e,
in caso affermativo, quale sia questa etica, presuppone una condivisione dell’impostazione e del metodo di Heidegger, una “internità” al suo
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discorso, per così dire, e una determinata impostazione dei problemi filosofici A mio modo di vedere, il problema non è se dall’analisi heideggeriana dell’esistenza venga fuori o meno una prassi e, se sì, quale prassi, ma piuttosto di quale prassi storicamente determinata è espressione
teorica quell’analisi. in altri termini: sulla base di quali condizioni materiali, storicamente determinate, in cui gli uomini producono socialmente
le loro condizioni di vita, dunque sulla base di quali condizioni pratiche,
è sorta una filosofia - ossia una delle forme in cui gli uomini traducono
nel loro cervello, in rappresentazione, queste loro condizioni materiali di
esistenza - secondo la quale l’essere è ciò di cui sempre si tratta, consapevolmente o inconsapevolmente, quando parliamo di quell’ente che noi
stessi sempre siamo e che per questo è chiamato Dasein, esserci?
Questa domanda, però, porta a una discussione che avremo modo
di proseguire con Anna Pia in altre occasioni del nostro lavoro comune,
soprattutto se, come spero, vorrà continuare a studiare questo orizzonte
di problemi, relativi al “soggetto”, così centrali nella filosofia contemporanea.
napoli, novembre 2011
Giuseppe Antonio Di Marco
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noTA inTrodUTTiVA
Chi mi conosce sa che la questione “Heidegger e l’etica” mi accompagna da lungo tempo. Mi sono accostata al pensiero di Heidegger
già dai primissimi anni di studio presso l’Università “Federico ii” di
napoli. nelle aule del dipartimento “Aliotta” si sentiva parlare spesso
di differenza ontologica, di dimenticanza dell’essere, di epoca della tecnica, di esser-nel-mondo, del mondeggiare del mondo e del coseggiare
delle cose.
da subito mi sono chiesta quali fossero le ricadute ontiche di questo discorso e se fosse possibile dedurre dal piano ontologico dell’analisi di Heidegger indicazioni pratiche, criteri utili per l’orientamento
nella vita quotidiana. dopo essermi imbattuta nel sistematico rifiuto da
parte di Heidegger di formulare un’etica come disciplina, nonostante la
riconosciuta crescente esigenza di norme vincolanti quanto più aumenta il disorientamento dell’uomo, sono partita per un soggiorno di studio
presso l’Università di Heidelberg, decisa a lasciarmi alle spalle “la questione Heidegger” e desiderosa di cercare un’altra strada per affrontare
il problema dei criteri di orientamento dell’azione. il caso volle però che
nel semestre estivo del 1996 si tenesse ad Heidelberg proprio un seminario su “etica e Éthos in Heidegger”. Vi partecipai attivamente tenendo una relazione sul Detto di Anassimandro e soprattutto acquisii tutti
gli elementi che avrei poi rielaborato nel mio primo lavoro scientifico
dedicato ad una riflessione sul concetto di éthos a partire dalle conferenze heideggeriane Sguardo in ciò che è. l’individuazione di una riflessione sull’éthos, sul soggiornare in questo mondo nell’ambito del
pensiero di Heidegger non aveva però ancora soddisfatto la mia ricerca
di criteri per l’azione. decisa ad andare a fondo, iniziai a concentrarmi
sulla genealogia del pensiero di Heidegger, convinta di poter trovare lì
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una risposta, quantomeno alla domanda circa il rapporto fra l’analisi ontologica dell’esistenza e la dimensione pratica. A guidarmi fu una suggestione: l’interesse che Heidegger mostrava fin dalla primissima formulazione del suo pensiero per l’Etica Nicomachea e più in generale
per la filosofia pratica di Aristotele. Stimolata dagli scritti di Franco
Volpi e guidata, all’Università di Tübingen, dal prof. Günter Figal, presso il cui gruppo di ricerca avevo nel frattempo iniziato a lavorare, iniziai uno studio dei primi corsi tenuti all’Università di Friburgo dal giovane docente Martin Heidegger, comportandomi per lungo tempo con
la medesima “ingenuità” di quanti assumevano “l’esposizione heideggeriana di Aristotele come la sua filosofia”. Solo grazie alle lunghe e
proficue discussioni con il prof. Giuseppe Antonio di Marco, che ormai
da un quindicennio ha la pazienza di seguire e guidare la mia ricerca, sono riuscita ad ampliare l’orizzonte del lavoro in direzione delle radici
teologiche del pensiero di Heidegger. È stato il prof. Vitiello ad avermi
messo sui passi dell’interpretazione heideggeriana di lutero e il prof.
Maurizio Cambi ad avermi fornito gli strumenti per la comprensione del
pensiero del riformatore e ad avermi aiutato nel reperimento della bibliografia luterana.
ed è così, che in seguito a progressivi passi indietro nella genealogia del pensiero di Heidegger, mi sembra di poter affermare che prima
ancora che l’interpretazione di Aristotele e prima ancora del confronto
con Paolo e Agostino, sia lutero ad aver ispirato la comprensione heideggeriana dell’esistenza e ad aver fornito al suo pensiero una dimensione pratica, costituendo allo stesso tempo il limite verso una esplicita
formulazione di criteri e norme per l’azione. Questa tesi verrà esposta e
argomentata nel lavoro che qui affido all’attento giudizio del lettore.
Mi sia permesso ancora di ringraziare anche in questa sede Simona Giacometti con la quale è stato discusso ogni snodo fondamentale del
lavoro. ragionare con lei mi è stato molto utile per vedere con maggior
chiarezza quanto venivo elaborando. Mi hanno aiutato molto in questo
senso anche le chiacchierate con roberta Gimigliano e irene Viparelli.
Agli incoraggiamenti attenti di Gianni Sgrò devo l’esser riuscita ad oltrepassare la pagina quarantadue nella scrittura del libro. ringrazio il
prof. Vincenzo Vitiello per avermi dato la possibilità di confrontarmi
con lui sulle tesi fondamentali del lavoro, il prof. Maurizio Cambi per
avermi saputo guidare e incoraggiare e per avermi aiutato nel reperimento di una parte dei fondi per coprire i costi di stampa, il prof. enrico nuzzo che per aver seguito con interesse e curiosità lo svolgimento
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della mia ricerca, il prof. Giuseppe Antonio di Marco per aver seguito
e stimolato questo lavoro in ogni sua fase senza mai perdere la speranza che giungesse a buon fine. ringrazio inoltre il prof. Trione per averlo accolto nella collana da lui diretta e il prof. Tessitore perché segue
sempre con attenzione i miei studi, incoraggiandoli.
Un grazie particolare va ad Andreas leclerque che ha, così a lungo, sopportato l’ingombrante presenza di un tal bizzarro individuo e di
una ancor più bizzarra questione nella nostra comune casa e ai miei genitori che ancora si chiedono cosa stia facendo, ma nonostante ciò, con
grande fiducia, mi sostengono e mi incoraggiano.
Questo libro è dedicato a mia nipote Chiara, la quale, con saggezza di bimba, ha incoraggiato il mio lavoro nelle fasi più critiche, comprendendone l’importanza e sopportando la lontananza e l’assenza. So
di non essere riuscita a raggiungere la precisione di cui lei è capace, ma
le assicuro che ce l’ho messa tutta.
roma, giugno 2011
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inTrodUzione
Con la pubblicazione di Essere e Tempo nel 1927 Heidegger si poneva l’obiettivo di riproporre la questione del senso dell’essere passando per l’esposizione preliminare delle strutture d’essere di un ente particolare, l’esserci, la cui essenza veniva individuata nella capacità di autocomprendersi. egli assumeva come filo conduttore dell’analisi una
definizione formale di tale esserci espressa nei termini che seguono:
l’esserci è un ente che, comprendendosi nel suo essere si rapporta a questo essere[…] l’esserci è inoltre l’ente che io stesso sempre sono. l’essere-sempremio appartiene all’esserci esistente come condizione della possibilità dell’autenticità e dell’inautenticità. l’esserci esiste sempre in uno di questi modi o
nell’indifferenza modale rispetto ad essi1.
esplicitamente, nei paragrafi metodologici posti all’inizio di Essere e Tempo, Heidegger individuava il compito dell’analitica dell’esistenza in una “comprensione esistenziale”2, ovverosia in una comprensione dell’esistenzialità dell’esistenza, e cioè di ciò che costituisce l’esistenza ontologicamente nella sua struttura. nello stesso contesto egli
distingueva, altrettanto esplicitamente, tale comprensione da “una comprensione esistentiva”3, intesa come “la comprensione di se stesso che
fa da guida all’esistenza”4. Solo quest’ultima riguarda “il problema del-
1. M. HeideGGer, Sein und Zeit, Tübingen, niemeyer, 199333, pp. 52-53; trad. it.,
a cura di P. Chiodi, Milano, longanesi, 1976, p. 76. d’ora in poi: eeT.
2. eeT, p. 13; trad. it., p. 29.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
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l’esistenza”5, che è da intendersi come “un ‘affare’ ontico dell’esserci”6
il quale “non richiede la trasparenza teoretica della struttura ontologica
dell’esistenza”7. il tema dell’analitica esistenziale invece era la comprensione esistenziale e non esistentiva, quindi l’ontologia e non l’etica.
nonostante le sue dichiarazioni programmatiche, però, l’attenzione da Heidegger dedicata alla dimensione concreta dell’esistenza e i toni con cui tale esistenza veniva descritta fecero subito pensare ai suoi
lettori ad un’opera dai forti connotati pratici. Tant’è che già nel 1928,
eberhard Grisebach, nel suo testo Gegenwart. Eine Kritische Ethik8, assumeva l’analitica esistenziale come modello di una filosofia morale e,
nello stesso anno, Herbert Marcuse, dopo essersi allontanato da Friburgo per lavorare in una libreria di Berlino, vi ritornò per studiare e lavorare fianco a fianco con Heidegger9, avendo colto in Essere e Tempo un
vero e proprio ritorno della filosofia al concreto e alla prassi. Anche il
primo interprete francese10, Georges Gurtvitch – presentando in un corso sulle tendenze attuali della filosofia tedesca, tenuto alla Sorbonne nel
1928, Heidegger come “il filosofo più ascoltato al giorno d’oggi”11 –
metteva in evidenza la forte preoccupazione etica del suo pensiero, in
grado di “deformarne l’ontologia generale”12. ed è per la saggezza, l’eroismo, addirittura, per una sorta di santità che permetteva di resistere
agli eventi intravisti in questa filosofia che Sartre si era interessato ad
essa, comportandosi – secondo quanto egli stesso, nel 1940, annota nei
Cahier de la drôle de guerre – “come gli Ateniesi, i quali, dopo la mor-
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. Cfr. GriSeBACH [2005]. la tensione etico-pratica veniva messa in luce anche in
una delle prime recensioni di Essere e Tempo cfr. BeCk [1928].
9. Cfr. MArCUSe [1981], CAlloni [1989], [1992]. Per una discussione di questo
scambio epistolare cfr. Wolin [1991]. Sul rapporto fra Marcuse e Heidegger un’interessante prospettiva è offerta in BerCiAno [1980].
10. la recezione di Heidegger in Francia è molto importante per la questione dell’etica; cfr. JAniCAUd [2001], renAUT [1992], roCkMore [1995].
11. GUrViTCH [1930], p. 207.
12. Sul legame fra esistenzialismo ed etica si veda anche: BollnoW [1949], FAHrenBACH [1969], GenT [1950/1951]. l’attenzione di Heidegger a temi religiosi viene invece rilevata in SCHerWATzky [1931], de BerrAnGer [1993]. Piú in generale su esistenzialismo e teologia protestante si veda: PeTerSon [1995].
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te di Alessandro, si allontanavano dalla dottrina di Aristotele per avvicinarsi alle dottrine ‘più brutali’, ma ‘più totalitarie’ degli Stoici o degli
epicurei dai quali apprendere l’arte del vivere”13. Heidegger stesso racconta come, dopo la pubblicazione di Essere e Tempo, un giovane studioso gli avesse chiesto quando avrebbe pubblicato un’etica14. non solo l’immediata recezione di Heidegger, ma anche l’impatto esercitato
dal suo pensiero sul più lungo periodo forniscono la prova della tensione pratica in esso presente: alla filosofia di Heidegger si fa anche risalire quella riabilitazione della filosofia pratica che ha giocato un ruolo
fondamentale nel panorama filosofico tedesco negli anni Sessanta e Settanta del novecento15.
Perché, nonostante Heidegger intendesse realizzare un’analisi della struttura ontologica dell’esistenza, in essa venne colta una dimensione pratica fino a suscitare nei suoi lettori il desiderio di un completamento dell’analisi esistenziale con la formulazione di un’etica? Quale
aspetto della sua filosofia ha innescato quel processo di riabilitazione
della filosofia pratica? Siamo di fronte ad un sistematico fraintendimento dell’opera di Heidegger e della sua intenzione di formulare
un’ontologia fondamentale partendo dall’analisi dell’esistenza? e ammesso che di fraintendimento si tratti, quali sono le motivazioni intrinseche che ne sono alla base? Cosa spinse i primi lettori di Heidegger a
considerare Essere e Tempo come una vera e propria opera di filosofia
morale o a desiderare l’integrazione dell’analitica dell’esistenza con
un’etica? e perché i suoi ascoltatori declinarono il suo pensiero in chiave decisamente pratica?16
Basta solo sfogliare l’indice di Essere e Tempo per notare come
Heidegger dedichi ampio spazio a fenomeni come la coscienza, la risolutezza, la decisione, la colpa, fenomeni che generalmente rientrano in
13. J-P. SArTre [1995].
14. Cfr. M. HeideGGer, Brief über den Humanismus, Frankfurt a.M., klostermann,
19919, p. 43; trad. it., a cura di F. Volpi, Lettera sull’Umanismo, Milano, Adelphi, 1995,
p. 88.
15. Cfr. CAlloni [1989], VolPi [1995].
16. il rapporto di Heidegger con l’etica e più in generale con la Filosofia pratica è
stato molto dibattuto. A tale proposito cfr. la bibliografia in fondo al volume.
17. Cfr. a tale proposito B. reCki [2004]. nel tentativo di istituire un parallelo fra
le implicazioni etiche del pensiero di Heidegger (o meglio la mancanza di tali implicazioni) e quelle del pensiero di Cassirer, l’autrice afferma: “Al lettore privo di pregiudizi
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ambito pratico17. non solo. Ad un’analisi più approfondita risulta subito evidente che l’analisi dell’esistenza non è neutra, ma, anzi, è attraversata da una dimensione valutativa che si impone con forza, nonostante l’esplicita intenzione di Heidegger a muoversi su un piano meramente ontologico.
Questa dimensione valutativa – questa l’ipotesi che qui di seguito
si intende verificare – è strettamente connessa con la concettualità attraverso cui avviene la comprensione e la descrizione dell’esistenza e
con il modo in cui Heidegger perviene alla formulazione di tale concettualità.
la filosofia di Heidegger si radica nella crisi del Positivismo e nasce con l’obiettivo di comprendere la vita come un intero nella sua motilità e nella sua storicità18. Per realizzare il suo programma filosofico
Heidegger parte dalla particolare situazione della filosofia a lui contemporanea che egli così descrive:
la filosofia della situazione attuale si muove ancora nella posizione dell’idea
dell’uomo, dell’ideale di vita, delle rappresentazioni ontologiche, della vita
umana, nelle diramazioni delle esperienze fondamentali che si sono temporalizzate nell’etica greca e, soprattutto, nell’idea cristiana dell’uomo e dell’esserci umano19.
data questa situazione, egli vede la “necessità di un confronto con
la filosofia greca e la deformazione dell’esistenza cristiana attraverso di
appare chiaramente che sono i concetti fondamentali sistematici dell’analitica esistenziale in Essere e Tempo – Zuhandenheit, cura, coscienza, colpa, afferramento di possibilità,
progetto risolutezza – a far trasparire la colorazione pratica dell’intera esistenza umana”
(Ivi, p. 193). Questi concetti devono essere compresi al di là della distinzione di pratico e
teoretico. Un autore tanto attento a questioni del linguaggio, avrebbe potuto scegliere secondo l’ autrice, espressioni meno ambigue.
18. A tale proposito mi permetto di rimandare al mio lavoro: rUoPPo [2008].
19. M. HeideGGer, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles: Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät (1922), in Gesamtausgabe, vol. 62, a cura di G. neumann, Frankfurt a.M., klostermann, 2004, p. 368; trad. it., a
cura di A.P. ruoppo, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele: elaborazione per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga (1922), con un saggio di G. Figal, napoli, Guida ed., 2005, p. 36; d’ora in poi: nB.
20. id., Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks: Theorie der philosophischen Begriffsbildung, Frankfurt a. M., klostermann, 1993, Gesamtausgabe, vol.
59, p. 91; d’ora in poi: HGA 59.
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essa”20, riproponendosi di trovare in questo modo “la reale idea della filosofia cristiana”, ovverosia “la strada verso una teologia cristiana originaria – libera dalla grecità”21. È per dar voce a tale esigenza che Heidegger intraprenderà quell’opera congiunta di distruzione della tradizione filosofica greca e cristiana e di ripetizione critica di modelli esemplari in essa presenti le cui tracce sono riscontrabili nella formulazione
dell’analitica esistenziale.
ora, è noto che Heidegger arrivò ad una formulazione della sua
concettualità attraverso un confronto con il proto-cristianesimo22 di
Paolo23 e di Agostino24, da un lato, e con la filosofia pratica di Aristotele dall’altro. Qui di seguito intendo compiere un ulteriore passo indietro nella genealogia concettuale di Essere e Tempo, interrogandomi sul
ruolo che nell’analitica esistenziale assume colui che, secondo quanto
Heidegger riferisce, fu un compagno nella sua ricerca: Martin lutero25.
ripercorrendo i punti di contatto fra l’opera del giovane Heidegger con
quella di lutero, intendo mettere in evidenza come il rapporto di Heidegger con l’etica, ovverosia con la presenza di una chiara dimensione
valutativa coniugata con un radicale e sistematico rifiuto di qualsiasi dimensione normativa, debba essere ricondotto all’origine teologica26 del
pensiero di Heidegger e soprattutto al suo fertile dialogo con l’opera del
giovane lutero.
È a partire dal confronto con le fonti filosofiche e neotestamentarie27 in cui si radica l’analitica esistenziale che si proverà a contestualizzare sia la dimensione pratica dell’analitica esistenziale sia i suoi limiti.
nonostante, infatti, i concetti utilizzati come base per la compren-
21. Ibidem.
22. Sul rapporto fra Heidegger e la teologia si veda la bibliografia in fondo al volume.
23. Sull’interpretazione heideggeriana di Paolo cfr. la bibliografia in fondo al volume.
24. Sull’interpretazione heideggeriana di Agostino cfr. la bibliografia in fondo al
volume.
25. Sull’interpretazione heideggeriana di lutero cfr. la bibliografia in fondo al volume.
26. Sin dalle sue origini il pensiero di Heidegger è stato messo in relazione alla teologia. Per una ricostruzione delle diverse linee interpretative ed un’ampia bibliografia cfr.
BrkiC [1994].
27. Si veda a tale proposito SoMMer [2005] e rUoPPo [2007].
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sione dell’esistenza siano privati del loro contenuto e siano assunti nella loro struttura come indicazioni formali, essi, al di là delle intenzioni
dell’autore, conservano – per usare un’espressione dello stesso, “una
traccia della loro provenienza”28.
impostando il suo discorso intorno all’esistenza, Heidegger dichiara di voler evitare che “l’interpretazione ontologica” dell’esserci
sia dedotta da “una possibile idea concreta di esistenza”29. Ciò nonostante si trova ad affermare in conclusione della sua analisi che il fatto
che l’interpretazione dell’esistenza trovi il proprio filo conduttore in
“un’idea dell’esistenza in generale ‘presupposta’ come tale”30 o che “a
base dell’interpretazione ontologica dell’esistenza dell’esserci” ci sia
“un ideale concreto dell’esserci” “non solo non deve né essere negato
né ammesso a denti stretti, ma deve essere compreso ed elaborato nella
sua necessità positiva a partire dall’oggetto tematico della ricerca stessa”31. Heidegger precisa tale questione in questi termini:
dove mai l’interpretazione torva il proprio filo conduttore se non in un’idea
dell’esistenza in generale ‘presupposta’ come tale? Come sono regolati i passi
dell’analisi della quotidianità inautentica se non attraverso un concetto di esistenza presupposta? e quando diciamo che l’esserci è ‘deiettivo’ e che l’autenticità del suo poter-essere deve essere strappata a questo ente contro la tendenza del suo essere, da quale punto di vista facciamo questa affermazione?
Tutto non è già illuminato, benché indistintamente, dalla luce dell’idea di esistenza che abbiamo ‘presupposta’32 ?
egli è quindi consapevole che “quest’idea dell’esistenza, formale
ed esistentivamente non obbligatoria, porta già in sé un ‘contenuto’ ontologico determinato benché non chiarito”33. nella consapevolezza che
“la filosofia non debba ripudiare i suoi ‘presupposti’, ma neppure limi-
28. nB, p. 368; trad. it., p. 36. J. Brejdak si chiede a tale proposito: “la formulazione dell’ermeneutica indicativo formale come ‘schematizzazione’ in Essere e Tempo
non rappresenta – relativamente alle prime lezioni friburghesi – un passo indietro verso
l’impulso proto-cristiano, come è stato sottolineato da molti allievi di Heidegger?” (Cfr.
BreJdAk [1996], p. 4).
29. eeT, p. 43; trad. it., p. 66.
30. Ivi, p. 313; trad. it., p. 378.
31. Ivi, p. 310; trad. it., p. 375.
32. Ivi, p. 313; trad. it., p. 378.
33. Ivi, p. 314; trad. it., p. 379.
34. Ivi, p. 310; trad. it., p. 375.
18
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tarsi ad assumerli”34, Heidegger pertanto intende dirigere tutti i suoi
sforzi per “inserirsi originariamente e recisamente [nel] ‘circolo’”35 che
si instaura fra un’idea di esistenza presupposta e la sua dimensione di
indicazione formale. È in questo circolo fra presupposizione dell’idea
dell’esistenza e sua determinazione indicativo-formale che si apre lo
spazio per la determinazione della dimensione pratica dell’analitica esistenziale. Heidegger stesso sembra fare un passo in questa direzione
quando sottolinea come “l’oggetto tematico risulta artificiosamente e
dogmaticamente amputato se si chiude ‘innanzi tutto’, in ‘un soggetto
teoretico’, per integrarlo poi ‘dal punto di vista pratico’ con l’aggiunta
di ‘un’etica’”36.
la risposta alla domanda: quando scriverà un’etica, che un giovane studioso pose ad Heidegger subito dopo la pubblicazione di Essere e
Tempo, come egli racconta, è da cercare quindi nella circolarità della
stessa analitica esistenziale. non si tratta di integrare un’ontologia con
un’etica, ma è all’interno dell’esistenza, nella circolarità che si istaura
fra formalità dei concetti esistenziali e precomprensione di un concreto
ideale di esistenza che, da un lato, va cercata la dimensione etica del
pensiero di Heidegger, dall’altro ne vanno individuati i limiti.
35. Ivi, p. 315; trad. it., p. 381.
36. Ibidem.
19
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PArTe PriMA
in CAMMino VerSo l’AnAliTiCA eSiSTenziAle
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CAPiTolo i
lA ViTA CoMe inQUieTo eSSere in CAMMino
FrA Perdizione e PoSSiBiliTà di SAlVezzA
lUTero
Dio dà la legge agli uomini per umiliarli
e li umilia per salvarli
lUTero, Tesi di Heidelberg
1.
La comprensione dell’essenza dell’uomo fra filosofia e teologia
Seppur inserita nel più ampio contesto di un ripensamento radicale dell’idea di filosofia e del suo metodo, la riflessione filosofica del
giovane Heidegger ruota intorno ad una problematizzazione dell’essenza della vita umana, finalizzata ad una delucidazione delle sue complesse strutture costitutive1.
Heidegger sintetizza in modo esemplare il fine del suo lavoro in
un’annotazione conclusiva del curriculum vitae, inviato nel 1922 a Göttingen, su richiesta di Georg Misch2. egli, facendo riferimento alle lezioni tenute fino a quel momento all’università di Friburgo, afferma:
1. Con questa affermazione non si vuole disconoscere che il lavoro di comprensione dell’esistenza che confluisce nell’analitica esistenziale sia finalizzato ad una comprensione più complessiva dell’essere. Tuttavia un’interpretazione che tenga conto, non
solo delle dichiarazioni programmatiche ma della reale evoluzione di un pensiero non può
non partire dalla constatazione che, tutta concentrata sull’esser-nel-mondo e sulle sue categorie, la filosofia del giovane Heidegger fino ad Essere e Tempo, rappresenta innanzitutto una riflessione sull’esistenza.
2. il curriculum fu inviato da Heidegger insieme ad una copia della recensione del
testo di Jaspers. Cfr. G. neUMAnn, Nachwort des Herausgebers, in HGA 62, pp. 438-451;
trad. it. in nB, pp. 81-96.
23
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le ricerche su cui si basano le lezioni autonomamente elaborate si pongono
l’obiettivo di un’interpretazione fenomenologico-ontologica del fenomeno
fondamentale della vita fattuale che viene compresa secondo il suo senso d’essere come ‘storica’ e viene portata a determinazione categoriale rispettivamente ai suoi modi dall’atteggiamento fondamentale dell’avere a che fare con
un mondo (mondo circostante, mondo del con e mondo del sé)3.
la determinazione delle categorie della comprensione storica della
vita fattuale attraversa come un filo rosso tutte le lezioni del primo periodo friburghese, le quali rappresentano il laboratorio concettuale di Essere e Tempo. Fin dal suo primo corso, quello del semestre invernale del
1919, noto come Kriegsnotsemester, Heidegger mette in evidenza come
l’aspetto fondamentale della vita umana sia la sua storicità: “la vita è storica, nessuna frammentazione in elementi essenziali, ma connessione”4.
in questa “vita vitale storica”, egli radica il suo metodo fenomenologico
e, come si legge in una lettera indirizzata a rickert nel 1921, fa derivare
la collocazione “inusuale” del suo pensiero nella fenomenologia proprio
dalla capacità di vedere “il significato fondamentale di ciò che è storico
per la filosofia”5. Una prima determinazione del concetto di storia si ha
nel corso del semestre estivo del 1920, in cui Heidegger elenca ben sei
concezioni di storia: la storia intesa come scienza storica, come totalità
obiettiva di ciò che è accaduto, come tradizione; come insegnamento
[magistra vitae] per la vita o per la politica, come proprio passato e come avvenimento significativo. Qui egli individua il significato più originario nel passato proprio dell’esserci, ovverosia in quel compimento originario del mondo del sé che continuamente rinnova e costituisce la propria esistenza. Solo in quanto siamo caratterizzati storicamente (solo in
quanto abbiamo un passato), infatti, secondo Heidegger, ci può accadere una storia (un avvenimento significativo); solo su questa base un popolo può avere tradizione e può trarre insegnamenti dalla storia; solo nel-
3. M. HeideGGer, Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges: 1910 - 1976,
in Gesamtausgabe vol. 16, a cura di H. Heidegger, Frankfurt a. M., klostermann, 2000,
p. 44; trad.it, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita: 1910 – 1976, a cura di n. Curcio, Genova, il Melangolo, 2005; d’ora in poi: HGA 16.
4. id., Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe, vol. 56/57, a cura di
B. Heimbüchel, Frankfurt a. M., klostermann, 19992, p. 117; trad. it., a cura di G. Cantillo, Per la determinazione della filosofia, napoli, Guida, 19992, d’ora in poi: HGA 56/57.
5. M. HeideGGer-H.riCkerT, Briefe 1912 bis 1933 und andere Dokumente, a cura di A. denker, Frankfurt a. M., klostermann, 2002, p. 54; d’ora in poi: HrB.
24
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la costitutiva storicità dell’esserci si radica la possibilità della scienza
storica o della considerazione dell’insieme degli avvenimenti passati come “storia universale”. È nel contemporaneo confronto produttivo con
Jaspers, poi, che tale compimento del mondo del sé viene compreso come preoccupazione del sé per se stesso6.
la specificità dell’impostazione di Heidegger, però, non consiste
tanto nel considerare la storia come una dimensione peculiare della vita umana, quanto nel determinare le categorie della vita storica, intesa
come preoccupazione, partendo da un’interpretazione dell’esperienza
di vita religiosa del Cristianesimo delle origini7 nel quale egli individua
la nascita del paradigma storico:
la nascita del Cristianesimo offre il più profondo paradigma storico per lo
strano processo dello spostamento del centro della vita fattuale e del mondo
della vita nel mondo del sé e nel mondo dell’esperienza interiore. il mondo del
sé entra nella vita e viene vissuto in quanto tale. nelle comunità cristiane originarie si ha un cambiamento radicale delle tendenze della vita, che generalmente avvengono come ascesi o negazione del mondo. Qui si trovano i motivi per la formazione di connessioni espressive che la vita si crea per sé, addirittura fino a ciò che noi oggi chiamiamo storia8.
Tuttavia, nonostante questa “grande rivoluzione” sia avvenuta
“contro la scienza antica e soprattutto contro Aristotele”, quest’ultimo
“nel secolo successivo, sarebbe divenuto il filosofo del Cristianesimo,
nel senso che le esperienze interiori e i nuovi atteggiamenti di vita sarebbero stati irrigiditi nelle forme di espressione della scienza antica”9.
È a questo proposito che Heidegger, alla ricerca dell’“idea veritiera della filosofia cristiana” e di “una teologia cristiana in senso originario, libera dalla grecità”10, intravede “la necessità di un confronto fondamen-
6. Si veda M. HeideGGer, Anmerkungen zu Karl Jaspers “Psychologie der Weltanschaungen” in id., Wegmarken, Frankfurt a.M., 19963, pp. 1- 44; M. HeideGGer – k.
JASPerS, Briefwechsel 1920-1963, a cura di W. Biemel – H. Saner, Frankfurt a. M., Pieper, 1992; d’ora in poi: HJB.
7. Sul rapporto fra filosofia e teologia nel pensiero di M. Heidegger cfr. CAPelle
[1993], SCHUMACHer [1997].
8. M. HeideGGer, Grundprobleme der Phänomenologie (1919/20), a cura di H.H. Gander, in Gesamtausgbe, vol. 58, Frankfurt a. M., klostermann, 1993, p. 61; d’ora in
poi: HGA 58.
9. HGA 58, p. 61.
10. HGA 59, p. 91.
25
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tale con la filosofia greca e con la trasformazione dell’esistenza cristiana attraverso di essa”11.
Heidegger esplicita questa posizione nell’esposizione programmatica del suo progetto di lavoro e di ricerca, noto come Natorp-Bericht,
elaborato nel 1922 in vista di una nomina come ordinario all’università
di Marburgo. Qui egli parte dalla constatazione che “nella situazione
odierna la filosofia si muove, in gran parte, in modo inautentico, nella
concettualità greca che ci è giunta attraverso una catena di diverse interpretazioni”12. Heidegger percorre a ritroso l’intreccio delle forze effettive che hanno determinato la comprensione della vita umana facendo derivare dalla necessità di districare tale intreccio la sua posizione
critica. Secondo il filosofo, l’idea contemporanea dell’uomo è determinata dall’antropologia filosofica di kant e dell’idealismo tedesco. Quest’ultimo fa derivare la sua concezione dell’esserci umano da una teologia che affonda le sue radici nella teologia della riforma, senza però
riuscire a fornire un’esplicazione autentica del nuovo atteggiamento religioso di lutero e delle possibilità in esso implicite. la posizione di lutero, a sua volta, deriva da un’interpretazione acquisita in modo originario di Paolo e Agostino e da un contemporaneo confronto con la teologia tardo-scolastica, la quale lavora alla definizione della dottrina di
dio, della Trinità, dello Stadio originale, del Peccato, della Grazia con
gli strumenti concettuali messi a disposizione dalla teologia di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura. Questo intreccio non fa altro che mettere in evidenza, secondo Heidegger, che “l’idea dell’uomo e dell’esserci
della vita, posta inizialmente in questo circolo di problemi teologici si
fonda nella Fisica, nella Psicologia, nell’Etica e nell’ontologia aristoteliche, laddove le dottrine fondamentali di Aristotele vengono rielaborate secondo una determinata scelta e interpretazione”13. Heidegger sottolinea inoltre, all’interno di questo percorso, l’influenza di Agostino e,
attraverso di lui, del neoplatonismo e, “in misura più imponente di
quanto si creda normalmente”14, di nuovo di Aristotele.
Tuttavia mettendo in evidenza queste reciproche influenze, egli
non intende criticare “il fatto che noi generalmente siamo in una tradi-
11.
12.
13.
14.
Ibidem. A questo proposito si veda: HAeFFner [1993].
nB, p. 467; trad. it., p. 36.
Ivi, p. 370; trad. it., p. 38.
Ivi, p. 371; trad. it., p. 39.
26
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zione, ma il modo in cui siamo in essa”15 e cioè che si dia per scontata
l’interpretatività che necessariamente deriva dal radicamento di ogni interpretazione in una situazione effettiva, senza comprenderla e senza
metterla in discussione in modo radicale. Questo atteggiamento è tanto
più grave dal momento che la questione affrontata è “la vita effettiva
con le possibilità d’esistenza in essa poste”16 e la mancata comprensione della concettualità con cui essa viene ad espressione equivale ad una
rinuncia da parte della vita “a possedere se stessa in modo radicale e
cioè a essere”17. e proprio nell’aver finalmente assunto la vita effettiva
come tema della filosofia18 Heidegger intravede la possibilità di organizzare intorno a un filo conduttore una critica radicale di questo complesso problematico.
il punto di partenza di tale critica è dato dalla convinzione che sebbene i concetti fondamentali attraverso cui viene compresa la vita abbiano perso “la loro funzione espressiva originaria”19, in essi si mantenga tuttavia “una traccia determinata della loro provenienza”20: “nella misura in cui è ancora comprovabile la direzione significativa verso
le loro fonti oggettuali, essi portano in sé ancora un pezzo di autentica
tradizione nel loro senso originario”21. Per questo motivo, Heidegger intravede la possibilità di una rinnovata comprensione della vita in un’opera di distruzione dei concetti filosofici correnti realizzata attraverso il
discernimento dei “motivi” e delle “tendenze implicite” in essi “ancora
nascosti”22. Allo stesso tempo, egli intende affiancare a tale distruzione
una ripetizione critica dei modelli esemplari della tradizione, mettendo
in luce il loro radicamento in una determinata impostazione problematica e in una specifica situazione dell’interpretazione ormai passata.
Significativamente, ancora nel Natorp-Bericht, Heidegger individua
la “meta” delle “ricerche che assumono il compito della distruzione fenomenologica” nella “tarda scolastica e [nel] primo periodo teologico di lu-
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
Ivi, p. 369; trad. it., p. 37.
Ivi, p. 369; trad. it., p. 38.
Ivi, p. 369; trad. it., p. 38.
Cfr. HGA 61, p. 7; trad. it., p. 42; nB, p. 370; trad. it., p. 39.
nB, p. 368; trad. it., p. 36.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 369; trad. it., p. 37.
27
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tero”23. Come Heidegger appunta a margine della lezione del 1919/20 e
del 1921/22, quest’ultimo rappresenta, nella sua fase giovanile, prima che
la sua posizione venisse trasformata dalla Scolastica protestante, “un contraccolpo teologico e religioso”24 alla “grecizzazione dell’esperienza di
vita religiosa”25. nei suoi scritti e nella sua esperienza pratica di vita26 infatti trova espressione “la lotta fra Aristotele” e cioè, fra la scienza e la filosofia antiche e “il ‘nuovo sentimento [cristiano] di vita’”27.
È guardando a lutero e contemporaneamente partendo da un’interpretazione dei suoi scritti che Heidegger stabilisce la scansione della
sua ricerca, individuando “l’aspetto più importante”, non in una ricostruzione “delle diverse correnti e delle loro diramazioni”, quanto “nel
mettere in evidenza, ritornando originariamente alle fonti, di volta in
volta, le strutture logiche e ontologiche centrali, nei decisivi momenti di
svolta della storia antropologica occidentale”28. relativamente al problema dell’effettività, Aristotele rappresenta, solo in parte, il compimento della filosofia precedente. Attraverso una particolare tematizzazione dell’ente in movimento, infatti, egli “assume, nella sua Fisica, un
nuovo principio fondamentale da cui derivano quella logica e quella ontologia, attraverso le quali si è affermata, ritornando alle fonti, la storia
dell’antropologia filosofica”29. Heidegger mette in evidenza come in esso “il senso ontologico che caratterizza l’essere della vita umana” non
sia ricavato in modo autentico “da una pura esperienza fondamentale di
questo oggetto e del suo essere”30 e come la vita sia compresa, invece,
all’interno di una regione d’essere più ampia, individuata nella sfera oggettuale della produzione. Per Aristotele “ciò che è è ciò che è stato realizzato nella motilità dell’aver-a-che-fare della produzione [poíesis], ciò
che è giunto all’esser presente, disponibile per una tendenza d’uso. essere significa esser-prodotto, e, in quanto prodotto, significativo e disponibile relativamente ad una tendenza dell’aver-a-che-fare”31. Aristo-
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30.
31.
Ivi, p. 371; trad. it., p. 41.
HGA 61, p. 42; trad. it., p. 7.
Ivi, p. 41; trad. it., p. 6.
HGA 58, p. 61.
Ivi, p. 205.
nB, p. 371; trad. it., p. 40.
Ibidem.
Ivi, p. 373; trad. it., p. 42.
Ibidem.
28
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tele comprende l’essere a partire dal fondamentale fenomeno del movimento, determinando quest’ultimo a partire dalla categoria fondamentale della poíesis. in questo modo però egli estende una regione d’essere particolare alla comprensione dell’essere in generale, utilizzando così la determinata ontologia di una determinata regione d’essere e la logica ad essa interna come l’ontologia e la logica sulla cui base è stata
compresa la vita.
Questo significa che, avendo come obiettivo la distruzione critica
della tarda scolastica e il periodo giovanile di lutero, la prima tappa del
pensiero di Heidegger è rendere “disponibile una concreta interpretazione della filosofia di Aristotele, orientata a partire dal problema dell’effettività, ovverosia da un’antropologia radicalmente fenomenologica”32.
Un’indicazione su come la distruzione di Aristotele s’intrecci con
l’interesse per lutero si può trovare nelle parole di Hans Georg Gadamer, testimone dello sviluppo del percorso di ricerca del giovane Heidegger. nel testo che con il titolo Lo scritto teologico giovanile si accompagnava alla prima pubblicazione del Natorp-Bericht, egli sottolinea come “il giovane ricercatore Heidegger” fosse arrivato ad una chiarificazione delle proprie domande sulla vita, percorrendo a ritroso il
cammino di lutero, attraverso Agostino e il neoplatonismo, fino a Paolo e al Vangelo di Giovanni e come egli avesse affrontato queste questioni ricorrendo ad Aristotele33.
in questa prospettiva la nuova interpretazione di Aristotele rappresenterebbe solo un primo passo in direzione del cammino di Heidegger
il cui inizio veniva individuato nel confronto con il giovane lutero,
“proprio quel lutero il quale richiedeva ad ognuno che volesse essere
cristiano di sconfessare quel grande mentitore di Aristotele”34. l’attenzione dedicata da Heidegger ad Aristotele e la quasi totale assenza di riferimenti a lutero portarono alcuni suoi contemporanei a perdere di vista il ruolo giocato da quest’ultimo nella stessa interpretazione di Aristotele. Gadamer commenta:
32. Ivi, p. 371; trad. it., p. 40.
33. Ivi, p. 372; trad. it., p. 41.
34. GAdAMer [1987]. d’ora in poi: GW 3.
29
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Allora eravamo tutti abbastanza ingenui da assumere l’esposizione heideggeriana di Aristotele come la sua filosofia. non vedevamo che per lui Aristotele
era il baluardo al quale contrapporsi, e che egli approdava al suo pensiero con
una domanda totalmente diversa, che perveniva nel nostro presente, muovendo dall’esperienza della vita fattuale messa a punto in un orizzonte problematico ispirato da kierkegaard e educato attraverso il Cristianesimo. egli stesso
non dimenticò mai il significato dell’insegnamento luterano di Heidelberg,
sintetizzato nell’assunto che come cristiani si deve rinnegare Aristotele35.
ed aggiunge:
retrospettivamente è chiaro come ogni tentativo di confronto attuato da Heidegger avesse il suo punto di riferimento critico nella concettualità, determinata in senso greco [an der griechisch bestimmte Begrifflichkeit], propria della teologia e dell’ontologia cristiana, così che la vera sfida consisteva per lui
nella co-appartenenza [Zusammengehörigkeit] di lutero e di Aristotele36.
2.
Heidegger lettore di Lutero
Gadamer non è il solo a porre l’accento sull’importanza di lutero
per Heidegger. in un articolo di recente pubblicazione otto Pöggeler ricorda come, durante una sua visita a Friburgo avvenuta fra il 1959 e il
1961, Heidegger indicandogli una determinata finestra del convitto teologico, gli avesse confidato di aver letto lutero, seduto lì dietro37, già da
giovane studente di teologia, nel 1909. in quella affermazione Pöggeler
scorgeva un accento critico rispetto a quanto egli veniva elaborando nella biografia filosofica dell’autore38, nella quale egli metteva in relazione l’interesse heideggeriano per lutero con la pubblicazione, nel 1919,
della Lettera ai Romani di karl Barth39. Più in generale l’affermazione
di Heidegger e la sua indicazione “di aver conosciuto lutero in altro
35. GW 3, p. 390.
36. Ivi, p. 389.
37. Cfr. PöGGeler [2004]. Un quadro completo del contesto dell’interpretazione
luterana di Heidegger e del rapporto di quest’ultimo con Bultmann è offerto in PöGGeler
[2009]: vedi in particolare pp. 7-129. Sullo sviluppo del pensiero di Heidegger in dialogo
con lutero si veda: PöGGeler [2007].
38. Cfr. PöGGeler [1973].
39. Anche J. van Buren, nel suo pionieristico lavoro su Heidegger e lutero, faceva risalire l’interesse del primo per il secondo a dopo la Prima Guerra Mondiale. Cfr. BUrer [1994], p. 160.
30
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modo” può essere letta come una critica di quanti facevano risalire il
suo confronto con lutero al suo trasferimento a Marburgo nel 1924 e all’influenza del teologo protestante rudolf Bultmann.
Per quanto, infatti, rickert lo ritenesse ancora “come filosofo, convinto cattolico” e lo invitasse a rimanere “in un’università in cui ci [fosse] la facoltà cattolico-teologica”40, già all’inizio del 1917, Heidegger
sottolineava di non aver “mai assunto il punto di vista cattolico in senso stretto, in modo da aver orientato per il passato e da voler orientare
per il futuro la comprensione e soluzione di problemi a punti di vista tradizionali o in qualche modo estranei alle scienze”41. È in una lettera del
9 gennaio del 1919, indirizzata al Padre engelbert krebs che Heidegger
prende ufficialmente le distanze dal Cattolicesimo, affermando: “gli ultimi due anni, nei quali mi sono sforzato di raggiungere una chiarificazione di principio della mia posizione filosofica e ho messo da parte
qualsiasi particolare compito scientifico, mi hanno portato al risultato
che, avendo un legame esterno alla filosofia non potrei garantire la libertà della convinzione e dell’insegnamento. il punto di vista della teoria della conoscenza il quale si interseca con la teoria della conoscenza
storica mi ha reso problematico e inaccettabile il sistema del Cattolicismo – non però il Cristianesimo e la Metafisica (quest’ultima tuttavia in
un nuovo senso)”42. il permanere dell’interesse per il Cristianesimo, nonostante il distacco dal Cattolicesimo, è documentato da una lettera che
Heidegger indirizza l’anno successivo al suo allievo karl löwith:
io lavoro in modo concreto fattuale partendo dal mio ‘io sono’ – dalla mia provenienza, milieu – contesto di vita spirituale, o meglio, fattuale, a partire da ciò
che in esso mi è accessibile come esperienza vitale nella quale io vivo. Questa
fatticità non è, in quanto esistenziale, un mero ‘esserci cieco’; nell’esistenza si
trova – ma questo significa che io lo vivo – ‘un io devo’ di cui non si parla. di
questo esser-così della fatticità, lo storico, imperversa l’esistere; ma questo significa che io vivo i doveri interiori della mia fatticità e in modo così radicale
come lo comprendo. di questa fatticità fa parte – cosa che nomino brevemente – che io sono un ‘teologo cristiano’”43.
40. HrB, p. 40 (lettera del 3 febbraio 1917).
41. Ivi, p. 42 (lettera del 27 febbraio 1917).
42. lettera di Martin Heidegger a engelbert krebs del 9 gennaio 1919, in “Heidegger-Jahrbuch”, 1/2004, p. 67.
43. lettera di Martin Heidegger a karl löwith del 19 agosto 1921, in Zur Philosophische Aktualität Heideggers, vol. 2, Frankfurt a. M., 1992, p. 27.
31
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Che la prospettiva all’interno della quale il Cristianesimo veniva
considerato fosse però cambiata emerge dal racconto che Julius ebbinghaus fa di una serata trascorsa con Heidegger, sempre nel 1921, a leggere gli scritti del riformatore44. Un’esperienza condivisa già l’anno
precedente da Jaspers, il quale riferisce di aver visitato Heidegger nel
1920 e di aver potuto osservare l’intensità del suo studio di lutero45.
la confidenza con il testo del riformatore tedesco sarebbe divenuta tale che quando erich rothacker invita nel 1922 il giovane Heidegger a presentare un suo lavoro sulla rivista da lui appena fondata Deutschen Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, questi, dopo i ringraziamenti per il gentile invito alla collaborazione, risponde:
Potrei contribuire con qualcosa delle mie ricerche sul Medioevo l’anno prossimo. Al momento sono impegnato con altri lavori. relativamente complete e
comprensibili separatamente, anche se si inseriscono in un quadro più ampio,
sarebbero le seguenti ricerche: i fondamenti ontologici dell’antropologia del
tardo Medioevo e il periodo teologico giovanile di lutero46.
Quando Husserl, qualche mese prima, il primo febbraio del 1922,
raccomanda vivamente a natorp la candidatura di Heidegger come ordinario all’Università di Marburgo, sottolinea che, poiché Heidegger
era stato un filosofo cattolico, a Friburgo non avrebbe potuto dedicarsi
liberamente allo studio di lutero. Una nomina a Marburgo sarebbe stata molto importante, perché egli avrebbe potuto mettere in comunicazione la fenomenologia di Husserl e la teologia protestante47. e stando
a quanto racconta l’allievo marburghese di Heidegger, Heinrich Schleier, una volta arrivato a Marburgo nel 1923, egli, non solo riuscì a colmare, come Husserl aveva previsto, “l’abisso” che regnava “fra la filosofia di natorp e Hartmann e la teologia di Bultmann”48, ma lasciò il segno “per la sua approfondita conoscenza di lutero”49. Heidegger è arri-
44. Ibidem.
45. Cfr.: BUren [1994], p. 159.
46. lettera di Heidegger a erich rothacker, in “dilthey-Jahrbuch”, 8/1992-93, p.
192.
47. e. HUSSerl, Briefwechsel, vol. VXXX (die neukantianer), dordrecht 1994,
pp. 147-152.
48. SCHlier [1977], p. 217.
49. Ivi, p. 219.
32
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vato, infatti, da pochi mesi a Marburgo, quando Bultmann, nel dicembre del 1923, scrive a Gogarten:
Adesso posso apprendere di tutto [riguardo al senso e il metodo dell’esegesi]
dal nostro nuovo filosofo Heidegger, un allievo di Husserl. egli proviene dal
Cattolicesimo e ha un’eccellente conoscenza della Scolastica; egli ha inoltre
dimostrato recentemente di disporre di una conoscenza approfondita di lutero, quando Hermelink una sera ha tenuto una relazione su lutero e il Medioevo nella quale ha trattato essenzialmente di Troeltsch e di Holl. Heidegger è risultato molto più chiaro di Hermelink nella comprensione di ciò che è essenziale in lutero50.
dunque Heidegger legge lutero con costanza e dedizione a partire
dal 1909, gradualmente si allontana dal Cattolicesimo pur rimanendo un
“teologo cristiano”. nel 1921, ritiene di aver relativamente concluso le
ricerche sui fondamenti ontologici dell’antropologia del tardo Medioevo
e sul giovane lutero. nel suo schizzo programmatico del 1922, ancora,
dichiara che la meta delle ricerche che sta compiendo sono la tarda Scolastica e il primo periodo teologico di lutero. Husserl gli spiana la strada perché egli possa portare a compimento il suo lavoro in un terreno meno ostile della cattolica Friburgo. A Marburgo il giovane professore Heidegger viene subito notato per la sua eccellente conoscenza di lutero.
Ancora nel 1953/54, in un dialogo con un ospite giapponese, egli afferma che non sarebbe mai approdato sul sentiero del pensiero “senza la sua
provenienza teologica”51. e in effetti egli sembra non aver mai nascosto
“di essere stato influenzato dal nuovo Testamento, in particolar modo da
Paolo e, attraverso Agostino, soprattutto da lutero”52. eppure, a dispetto di questa quasi corale testimonianza dell’interesse e dell’approfondita conoscenza di lutero da parte di Heidegger, essa sembra, apparentemente, non aver quasi lasciato traccia nella sua opera.
50. r. BUlTMAnn – F. GoGArTen, Briefwechsel 1921-1967, H. Götz Göckeritz (a
cura di); Tübingen, Mohr-Siebeck, 2002, pp. 52-53.
51. M. HeideGGer, Aus einem Gespräch von der Sprache, in Unterwegs zur Sprache, Pfullingen 1959, p. 96.
52. G. W. iTTel [1956], p. 92. Anche in una delle prime recensioni di Essere e Tempo, quella di G. krüger, veniva messa in luce “una sorta di antropologia teologica, ovverosia luterana”: cfr. la recensione di Essere e Tempo a cura di G. krüger, in “Theologische
Blätter”, 8, 1929, p.62.
33
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3.
Le tesi di Heidelberg e la teologia della croce
eppure, nell’introduzione dell’ultimo dei corsi Friburghesi, quello
del semestre estivo del 1923 dedicato all’ermeneutica della fatticità,
Heidegger facendo un primo bilancio della sua attività di ricerca e di insegnamento come Privat Dozent, afferma: “nella ricerca mi ha accompagnato il giovane lutero, Aristotele, che lui odiava, mi ha fatto da modello. kierkegaard mi ha fornito degli stimoli. Gli occhi me li ha aperti
Husserl”53. in uno schema annesso alla medesima lezione, egli, guardando al futuro, annota in modo sintetico il suo programma, individuando, ancora una volta, in Aristotele e lutero i due poli del suo interesse da cui trarre, seguendo il filo conduttore dell’ermeneutica della
fatticità, l’anticipazione, la pre-comprensione e la distruzione della filosofia, passando attraverso il nuovo Testamento e Agostino. Siamo ancora nel 1923 e Heidegger scrive: “Aristotele - nuovo Testamento Agostino - lutero. A partire da entrambi anticipazione e pre-comprensione. distruzione della filosofia con l’idea della ricerca, ermeneutica
della fatticità”54. Ma in cosa consiste, per dirlo con Gadamer, questa
“co-appartenenza di Aristotele e lutero”55? Mentre dal 1921 al 1924,
Heidegger dedica ben tre lezioni interamente al pensiero di Aristotele,
forse condizionato dal luogo in cui si trova, la cattolica Friburgo, egli
non affronta mai esplicitamente in nessun corso il pensiero di lutero.
Tuttavia i riferimenti al riformatore, per quanto molto brevi e talvolta
solo accennati, sono costanti nell’arco di lezioni che va dal 1919 ad Essere e Tempo. Ma se ciò che un autore tace è ciò da cui bisogna partire
per comprendere ciò che l’autore stesso ha inteso come ciò che vi è di
più essenziale, è da questa silenziosa presenza di lutero nell’opera di
Heidegger che bisogna muovere i primi passi per comprendere in che
senso egli lo avesse accompagnato e stimolato nella sua ricerca.
due sono i passi nei quali lutero viene discusso più a lungo e che
quindi possono offrire un’indicazione più precisa del significato che
53. M. HeideGGer, Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), in Gesamtausgabe,
vol. 63, a cura di k. Bröcker-oltmanns, Frankfurt a.M., 19952, p. 5; trad. it. a cura di e.
Mazzarella, Ontologia (Ermeneutica della fatticità), napoli, Guida, 1992; d’ora in poi
HGA 63.
54. HGA 63, p. 106; trad. it., p. 107.
55. GW 3, p. 389.
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egli assume nel percorso heideggeriano, in vista di un confronto con
Aristotele. Un ampio appunto pubblicato in appendice alla lezione su
Agostino56 e una relazione sul concetto di peccato in lutero, tenuta da
Heidegger nel 1924 nell’ambito di un seminario di Bultmann sull’etica
di Paolo, all’università di Marburgo57.
Abbiamo visto come Heidegger intraveda nella condotta pratica di
vita di lutero e nel suo lavoro di esegesi del nuovo Testamento una presa di distanza da quel processo di grecizzazione dell’esperienza di vita
proto cristiana “ancora oggi attivo”58. nel 1924, Heidegger, infatti, lamentava dinnanzi alla facoltà di teologia dell’Università di Marburgo
che anche “la nuova ‘corrente’ della teologia protestante”, appoggiandosi sempre alla filosofia per la determinazione della sua concettualità,
“non ha compreso mai positivamente – ciò che lutero aveva richiesto
con grande forza nella disputazione di Heidelberg – e che fino ad adesso non è mai stato realizzato concretamente”59. Al contrario, come Gadamer testimonia, “egli stesso non dimenticò mai, il significato dell’insegnamento luterano di Heidelberg”60. ed è proprio alla disputazione di
Heidelberg che l’unica citazione più lunga del pensiero di lutero contenuta nell’appendice al corso del 1921 su Agostino si riferisce. in essa
il richiamo a lutero si inserisce nella discussione del problema dell’orientamento fondamentale della dilectio in un sistema assiologico generale61 e della via per raggiungere il sommo bene. in questo contesto Heidegger cita rom 1, 19-20:
56. M. HeideGGer, Augustinus und der Neuplatonismus, in Gesamtausgabe, vol.
60, klostermann, Frankfurt a.M., 1995, pp. 281-282.
57. Testo edito in base al protocollo di HeinriCH SCHieler e di n.n., con il titolo
Das Problem der Sünde bei Luther, in B. Jaspert, Sachgemässe Exegese. Die Protokolle
aus Rudolf Bultmanns Neutestamentarischen Seminaren 1921-1951, elwert, Marburg,
1996, pp. 28-33; ora anche in: M. HeideGGer-r.BUlTMAnn, Briefwechsel, a cura di A.
Großmann, Frankfurt a. M. klostermann, Tübingen, Mohr, 2009, pp. 263-271, d’ora in
poi: PSl; trad. it., a cura di A. Ardovino, in “Micromega”, 2/2010, pp. 205-214. Sulla discussione fra Heidegger e Bultmann circa il rapporto fra filosofia e teologia cfr. GroßMAnn [1998].
58. Cfr. HGA 58, p. 61; HGA 61, p. 42; trad. it., p.7.
59. M. HeideGGer, Der Begriff der Zeit, in Gesamtausgabe, vol. 64, a cura di F.W.
von Herrmann, Frankfurt a. M., klostermann, 2004, p. 46; d’ora in poi: HGA 64.
60. GW 3, p. 390.
61. Si noti come il riferimento a lutero avvenga nel contesto di una riflessione etica sul legame esistente fra la conoscenza di dio e la condotta di vita. Per Heidegger sarà
piuttosto importante la conoscenza di sé per l’orientamento del proprio comportamento.
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eppure ciò che si può conoscere di dio è visibile a tutti: dio stesso l’ha rivelato agli uomini. infatti, fin da quando dio ha creato il mondo, gli uomini con
la loro intelligenza possono vedere nelle cose che egli ha fatto le sue qualità invisibili, ossia la sua eterna potenza e la sua natura divina. Perciò gli uomini non
hanno nessuna scusa.
Questa spiegazione è preceduta dall’affermazione che l’ira di dio
si rivolgerà contro tutte le ingiustizie degli uomini. Alla possibilità di
conoscenza razionale di dio si fa corrispondere la possibilità di orientare fermamente la propria condotta secondo norme note e riconoscibili. Questo passo della lettera ai romani su cui si basa la formulazione
greca della dogmatica cristiana è stato considerato erroneamente, secondo Heidegger, come una prova del platonismo di Paolo62. Questo
fraintendimento è stato chiarito solo dal giovane lutero, il quale “nelle
sue prime opere ha dischiuso un’autentica comprensione del cristianesimo delle origini”63. Secondo Heidegger, “la concezione di lutero viene chiaramente ad espressione nella disputazione di Heidelberg del
1518. delle quaranta tesi, di cui ventotto sono teologiche e dodici filosofiche, Heidegger cita le tesi XiX, XXi e XXii.
la tesi XiX afferma: “teologo non è colui che scorge il dio invisibile attraverso il creato”; la tesi XXi afferma: “il teologo della gloria che
si stupisce esteticamente della bellezza del mondo nomina ciò che è sensibile in dio. il teologo della croce dice come sono le cose”; la tesi XXii
afferma: “la vostra saggezza che coglie il dio invisibile a partire dalle
opere, acceca e indurisce”. Heidegger commenta solo la tesi XiX sottolineando come “non si ottenga la prescrizione dell’oggetto della teologia attraverso una osservazione metafisica del mondo”64.
Per comprendere il significato che il riferimento al giovane lutero
assume nell’opera giovanile di Heidegger è opportuno soffermarsi brevemente sui capisaldi teologici esposti da lutero nelle Tesi di Heidelberg65.
62. il radicato antiplatonismo di Heidegger è una forma di antirazionalismo tipica
dell’epoca. Cfr. la lettera di Heidegger a Jaspers del 5 luglio 1949: “Forse l’essere deve
essere prima tirato fuori da questo – per parlare a grosso modo – Platonismo, perché l’uomo possa ancora trovare la strada della salvezza” (HJB, p. 174).
63. HGA 60, p. 281.
64. Ivi, p. 282.
65. Un’utilissima ricostruzione del percorso che portò il giovane monaco alla formulazione della sua dottrina è presentata nel testo ormai classico di roland Bainton: Lutero, Torino, einaudi, 2005.
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esse rappresentano la prima formulazione sintetica della teologia luterana, avvennuta nel 1518 in occasione nel raduno triennale del capitolo
dell’ordine agostiniano. in quella occasione lutero espone una dissertazione in difesa della teologia di S. Agostino, padre dell’ordine, sull’argomento della corruzione del genere umano, affermando che la salvezza non
si ottiene attraverso l’adempimento della legge, ma attraverso la grazia. A
causa della debolezza della natura umana infatti non è possibile adempiere alla legge in tutto e per tutto. Anche l’azione piú santa è compromessa
dalla natura corrotta dell’uomo. Pertanto l’uomo è giusto e peccatore allo
stesso tempo e nel medesimo istante. la legge quindi comporta l’annullamento dell’uomo, la sua riduzione a nullità. Questa situazione però non
deve spingere l’uomo alla disperazione. dio infatti attraverso la legge rende gli uomini miserevoli per poterli innalzare attraverso la grazia. Come
dice rom 3, 20, “attraverso la legge si ha conoscenza del peccato”, attraverso la conoscenza del peccato, umiltà e attraverso l’umiltà si richiede la
grazia. in questo modo, commenta lutero, enunciando uno dei principi
della sua concezione teologica, “Dio con questa opera estranea compie la
sua opera propria: ci rende colpevoli per renderci giusti”. l’impossibilità
di potersi salvare attraverso le opere, quindi, non deve portare alla disperazione, ma all’umiltà, la quale ci spinge a cercare la grazia.
il riconoscimento di questa dinamica contraddittoria e paradossale è
il punto di partenza della teologia della croce, la quale nella sua impostazione di principio si contrappone alla teologia della gloria. Come lutero
enuncia nelle tesi XiX, XX e XXi, esplicitamente citate da Heidegger.
la teologia della gloria infatti risale all’essenza di dio, partendo
dal principio dell’analogia fra la creatura e il creato e procedendo attraverso la ragione e l’intelletto. in questo modo essa raggiunge una visione parziale di dio, da cui deriva una confusione fra il bene e il male e
un’affermazione di principio di una legge, che di fatto non riesce ad essere osservata dagli uomini. la teologia della croce, al contrario, partendo dall’esperienza concreta, chiama le cose con il loro nome e riconosce la logica contraddittoria e dolorosa dell’esistenza, spingendo
l’uomo con umiltà ad affidarsi alla misericordia di dio, pur senza abbandonarsi all’inazione. l’uomo deve annullarsi, deve sentire la vicinanza della morte, deve divenire un uomo nuovo, per poter agire nella
giusta prospettiva.
Colui che è stato annullato dal dolore sa che è sufficiente essere annichilito attraverso la croce, perché Cristo dice: “dovete nascere di nuovo” (Giov 3, 7) e per rinascere bisogna morire e resuscitare con il figlio
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dell’uomo. e rinascere significa – non sarà certo sfuggito ad Heidegger!
– sentire la vicinanza della morte.
la teologia della croce si contrappone anche alla dottrina aristotelica, secondo la quale si giunge ad un habitus virtuoso ripetendo azioni
virtuose. in polemica con Aristotele lutero infatti afferma che la giustizia che vale per dio non si ottiene attraverso la ripetizione costante di
singole azioni, ma viene infusa attraverso la fede. l’uomo si salva per fede e non per le sue opere significa che non sono le opere a rendere l’uomo giusto, ma che l’uomo giusto compie opere giuste. lutero giustifica
questa affermazione ricorrendo a rom 1, 17, in cui si afferma: “il giusto
per fede vivrà” e a rom 10, 19, in cui si dice “se l’uomo crede di cuore,
diviene giusto”. nel commento della tesi, lutero specifica che “senza
opere” si deve comprendere, non nel senso che “il giusto non opera”, ma
nel senso che “le sue opere non producono la sua giustizia, quanto piuttosto il suo essere giusto produce le sue opere”. infatti senza il nostro
contributo ci vengono infuse fede e grazia; solo dopo seguono immediatamente le opere. Così è scritto in rom 3, 20: “nessuno potrà essere riconosciuto giusto da dio grazie alle opere che la legge comanda” e 3,
28: “dio accoglie come suoi quelli che credono, indipendentemente dalle opere della legge” e questo significa che le opere non contribuiscono
alla giustificazione. le opere che l’uomo compie per fede sono opera di
dio. Per questo motivo gli uomini non devono cercare di essere giustificati attraverso di esse, né devono cercare di raggiungere la gloria, ma devono semplicemente cercare dio: la giustizia che deriva dalla fede in
Cristo è sufficiente, dal momento che l’uomo è opera di dio.
Questa concezione teologica viene esplicitata, in particolar modo,
nella relazione sulla comprensione luterana del peccato tenuta da Heidegger al seminario di Bultmann. la definizione del peccato viene considerata una questione teologica ed è connessa alla definizione del rapporto fra l’uomo e dio. il problema viene affrontato da Heidegger in
questi termini: l’uomo non può essere considerato buono, altrimenti non
impara ad amare dio; d’altronde la presenza del peccato nella “creatura di dio”, deve essere giustificata senza cadere nel pericolo di attribuirne a dio la colpa. “da un lato, l’uomo deve essere visto come summum bonum della creazione, dall’altro lato deve essere così costituito
che caduta e essere del peccato siano possibili e non si debbano imputare a dio [zur Last fallen]”66.
66. PSl, p. 29.
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Heidegger procede alla chiarificazione della posizione teologica di
lutero rispetto al peccato, mettendo in evidenza il modo differente con
cui il medesimo problema viene trattato nella Scolastica. in essa la risposta alla domanda sulla giustizia originale dipende dalla necessità di
dimostrare che la Chiesa è un’autorità nelle questioni riguardanti la fede67. Perché ciò sia possibile bisogna dimostrare sia l’esistenza di dio,
sia la possibilità di una rivelazione storica manifestatasi nelle Scritture
e costituita nella Chiesa. il presupposto di questa dimostrazione è che
l’uomo abbia la possibilità di conoscere dio e ciò è possibile solo se la
sua natura rimane integra anche dopo la caduta. la Scolastica risolve
questo problema facendo riferimento ad un donum superadditum, una
più elevata conoscenza di dio, che viene meno dopo la caduta, non mettendo in discussione la naturale disposizione dell’uomo verso dio. in
contrapposizione a questa posizione, lutero parte dall’esperienza della
corruzione della natura dell’uomo. egli nota che dal modo di considerare il peccato e la caduta dipende anche la rappresentazione della redenzione. la sua radicale accentuazione della corruzione dell’essere
umano è finalizzata ad una valorizzazione dell’incarnazione di dio e del
suo effetto di redenzione.
dopo aver sottolineato la funzione teologica della concezione del
peccato, Heidegger si sofferma anche sulle connotazioni che ad esso
lutero attribuisce.
il peccato, come modo d’essere dell’uomo, è caratterizzato da una
determinata motilità, secondo la quale “un peccato ne genera un altro e
trascina l’uomo sempre più in basso”. esso, in quanto adversio Dei, infatti è connesso a timore [pavor], il quale implica la fuga e, in successione: odium, desperatio, impoenitentia. in quanto peccatore, l’uomo
non può reggere la presenza di dio e fugge dinnanzi a lui, non rendendosi conto che il peccato già significa allontanamento da dio e che quindi non è opportuno aggiungere un’ulteriore fuga. non solo l’uomo fugge, ma arriva anche a scusarsi trasferendo la colpa al Creatore e raggiungendo, in questo modo, l’autentica disperazione. A questo punto, citando la Disputatio contra scholasticam theologiam del 1517, Heidegger
mette in evidenza come la speranza non venga dalle opere, ma dalla sofferenza e come ogni azione dell’uomo sia “arrogante e peccaminosa”.
67. Come vedremo per Heidegger l’unica autorità è la fedeltà al proprio sé. Cfr. in
questo testo, p. 214-221.
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Queste affermazioni, secondo Heidegger, “separano lutero da Aristotele e da tutta l’ontologia greca, tanto che egli nella tesi l può affermare: Totus Aristoteles ad theologiam est tenebrae ad lucem”68. Facendo riferimento ad un’opera più tarda di lutero, la lezione sulla Genesi
del 1544, Heidegger mette inoltre in evidenza – puntando su un aspetto
che sarà centrale nell’analitica esistenziale – il legame del peccato e della redenzione con la capacità di ascolto della Parola. il peccato originale “consiste nell’aver ascoltato una parola che non è quella di dio”. Allo stesso tempo la relazione a dio permane anche nel più compiuto allontanamento dell’uomo, perché dio è “summa gratia e, dopo la caduta, non è rimasto in silenzio, ma loquitur”769. Sulla base di queste considerazioni – in modo molto significativo per le considerazioni che seguono – Heidegger conclude la sua relazione citando un’annotazione di
kierkegaard su Cattolicesimo e Protestantesimo, secondo la quale “il
Protestantesimo è solo correlativo al Cattolicesimo e non può sussistere come regolativo”70.
Ma come si inseriscono queste riflessioni sulla contrapposizione
fra legge e fede e sulla dinamica peccato/salvezza, annullamento dell’uomo vecchio/nascita dell’uomo nuovo nel percorso heideggeriano di
comprensione dell’esistenza? e in che modo determinano l’orizzonte in
cui avviene il confronto heideggeriano con Aristotele?
È Heidegger stesso a fornire un’indicazione, citando nuovamente
lutero, esattamente nel commento al motto che egli intendeva preporre
all’intera analitica esistenziale. in un appunto pubblicato a margine della lezione del Semestre invernale 1921/22 Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Heidegger annota: “motto e indicazione della fonte
con implicito ringraziamento”, commentando: “per caratterizzare la tendenza dell’interpretazione faccio riferimento al motto che è anteposto all’introduzione nella ricerca fenomenologica”71. egli inizia le sue riflessioni con una citazione tratta dal testo Esercizio del Cristianesimo, nella
quale kierkegaard afferma che l’intera filosofia moderna si è basata, sia
in senso etico che cristiano, su una leggerezza la quale consiste nell’aver
invitato gli uomini al dubbio piuttosto che averli richiamati “all’ordine
68.
69.
70.
71.
Cfr. WA 1, p. 226, rigo 26.
Ae1, p. 229.
PSl, p. 33.
HGA 61, p. 182; trad. it., p. 211.
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col discorso della disperazione e della rabbia”72. Heidegger integra questa citazione con un passo tratto da Aut-Aut in cui kierkegaard afferma:
“ciò che invece alla filosofia e ai filosofi riesce difficile è lo smettere” e
commenta: “smettere nel vero inizio!”. infatti – e qui entra in gioco lutero – “iniziamo con i nostri costumi già dall’utero materno” e quindi –
ancora lutero – “bada perciò di non bere vino se sei ancora un lattante.
ogni dottrina ha la sua misura, il suo tempo e la sua età”73. Se quindi si
prende sul serio questo motto che Heidegger intende preporre all’introduzione di Aristotele e al libro che ne sarebbe derivato, l’analitica dell’esistenza prende in considerazione l’esistenza come un essere in cammino fra perdizione e redenzione attraverso il dolore e l’annullamento.
Quando Heidegger individua nell’esistenza una tendenza alla deiezione, quando vede la possibilità di contrapporre a tale tendenza una dimensione di autenticità, decidendo di decidere a prescindere dall’esplicito riferimento ad un sistema normativo e a partire dall’orizzonte dell’essere-per-la-morte, quando egli, allo stesso tempo, sottolinea la cooriginarietà della verità e della non verità esistenziale, mostra di aver radicalmente assimilato il nucleo del discorso luterano. Ma perché questo
nucleo luterano possa arrivare ad una piena formulazione, Heidegger
deve ancora compiere un complesso percorso di distruzione e appropriazione prima di quelli che per lui sono i modelli esemplari del Cristianesimo delle origini: Paolo (nuovo Testamento) e Agostino e poi di
colui che tradizionalmente ha fornito lo strumentario concettuale per
portare ad espressione la concezione di vita cristiana: Aristotele. Basti
qui ricordare l’appunto di lavoro già citato: “Aristotele - nuovo Testamento – Agostino - lutero. A partire da entrambi anticipazione e precomprensione. distruzione della filosofia con l’idea della ricerca, ermeneutica della fatticità”74. in questo modo, riferendosi alle due fonti
luterane per eccellenza: Paolo e Agostino, egli procederà a dar voce alle dinamiche interne all’esistenza, con particolare riferimento alla dinamica autenticità/inautenticità e al suo nesso con la temporalità; per procedere poi ad una ricerca degli strumenti concettuali utili per l’espressione di tali dinamiche, all’interno delle pieghe e delle sacche rimaste
oscure nella tradizione della filosofia di Aristotele.
72. Ibidem.
73. M. lUTero, Prefazione all’Epistola di S. Paolo ai Romani, 1522. edizione di
erlangen, vol. 63, p. 35; citazione in HGA 61, p. 182, trad. it., p. 211.
74. HGA 63, p. 106; trad. it., p. 107.
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PAolo
Se fosse stata data una legge capace di dare vita,
la giustificazione si avrebbe realmente dalla legge
PAolo, Epistola ai Galati, 3, 21
4.
Paolo, ovvero la contrapposizione fra legge e grazia
nel semestre invernale 1920/21 Heidegger annuncia nella guida dello studente un corso sulla fenomenologia della vita religiosa75. nella prima metà delle lezioni però si concentrerà soprattutto sull’elaborazione del
metodo fenomenologico, senza fare riferimento a contenuti religiosi76.
Solo dopo le lamentele di alcuni studenti, egli si dedicherà al tema annunciato, intraprendendo una puntuale interpretazione delle lettere di Paolo.
la sua intenzione è quella di tematizzare la temporalità dell’esperienza
fattuale77, basandosi sulla duplice ipotesi che la religiosità del cristianesimo originario si trova nell’esperienza di vita protocristiana e che l’esperienza di vita fattuale è storica. Tali ipotesi confluiscono nell’asserto di
fondo che “la religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale”78.
l’esperienza di vita cristiana infatti è determinata storicamente attraverso l’annuncio. l’oggetto dell’annuncio paolino, come si evince da
i Cor 15, 1-11, è Gesù come Messia. Questo pezzo centrale della dottrina di Paolo non è una “specifica dottrina teoretica”79, esso è legato alla
vita, al come del suo svolgimento: la resurrezione e il riconoscimento
del figlio di dio come Signore sono “una condizione fondamentale della salvezza”80. Questo annuncio incontra gli uomini in un momento particolare, è tuttavia “costantemente vitale nel compimento della loro vita”81. la vita del cristiano è tribolazione (i Tess 3, 3), è acquisto della
salvezza per mezzo del Signore (i Tess 5, 9). il centro della vita cristiana è il compimento e “il senso della temporalità si determina a partire
dal rapporto fondamentale con dio”82.
75. Cfr. l’analisi di zACCAGnini [2003].
76. Un’approfondita analisi del metodo utilizzato da Heidegger è attuata in CAMilleri [2008].
77. Cfr.: FAdini [2003], GorGone [2005].
79. HGA 60, p. 80; trad. it., p. 118.
79. Ivi, p. 116, trad. it., p. 158.
80. Ibidem.
81. Ivi, p. 117; trad. it., p. 159.
82. Ibidem.
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Perché la temporalità che caratterizza l’esperienza di vita cristiana
possa emergere, però, le lettere paoline non devono essere comprese in
modo storico obiettivo, né devono essere lette a partire dalla contrapposizione dogma/morale, ma devono essere intese come un intero vitale.
Pur sottolineando di volersi “liberare dal punto di vista luterano”83,
Heidegger non fa nessun mistero sul fatto di essere arrivato ad un’interpretazione delle lettere di Paolo attraverso lutero. Una prima conferma di tale legame è dato dal fatto che egli intraprende la sua analisi
proprio a partire dalla lettera ai Galati, “insieme alla lettera ai romani, fondamento dogmatico”84 della posizione teologica del riformatore.
essa si dovrà sempre tener presente, se si mira ad una comprensione autenticamente storica85 dell’esperienza di vita dei cristiani dell’origine.
l’acquisizione di una prospettiva luterana emerge con chiarezza nell’accentuazione della contrapposizione legge/grazia e nella sua trasposizione all’interno della dinamica dell’esistenza86.
la lettera ai Galati rappresenta, per Heidegger, il racconto storico
della conversione di Paolo e del suo sviluppo nella fede e funge da filo
conduttore per entrare nel fenomeno fondamentale della vita protocristiana. Heidegger parte dal racconto della storia personale di Paolo, sottolineandone “l’originale comprensione storica di se stesso e del suo esserci”87. Un’analisi puntuale della lettera rileva tutti gli elementi che
mettono in luce questa peculiare dimensione storica: la sua conversione, avvenuta come “completa rottura con il precedente passato e con
ogni comprensione non cristiana della vita”88; la sua fretta nella diffusione del Verbo, derivata dalla consapevolezza che “la fine del tempo è
già arrivata”89; la sua apertura verso il futuro che Heidegger intravede
nell’affermazione di Phil, 3, 13, “io dimentico ciò che si trova dietro di
me e mi proietto verso ciò che mi sta innanzi”.
83. Ivi, p. 67; trad. it., p. 105.
84. Ibidem.
85. Ivi, p. 101; trad. it., p. 137.
86. l’interpretazione intimistica e tutta interna alla dinamica della singola esistenza ben si differenzia dalle recenti interpretazioni politiche di Paolo. Cfr. a tale proposito:
BAdioU [1997], AGAMBen [2000], SiCHÈre [2003]; TAUBeS [2003].
87. HGA 60, p. 74; trad. it., p. 112.
88. Ivi, p. 69; trad. it., p. 106.
89. Ivi, p. 70; trad. it., p. 108.
43
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nel delineare l’esperienza di vita storica di Paolo, Heidegger si
sofferma poi sulla sua precedente vita da ebreo fedele, osservatore della legge, ponendo l’accento sulla sua repentina conversione e sul suo
sviluppo religioso. Paolo ha vissuto al suo interno un lotta fra fede e legge che è la medesima lotta in cui si trova coinvolta la comunità cristiana alla quale l’apostolo si rivolge. in essa ebrei e ebrei cristiani diffondono una falsa interpretazione del Vangelo, contrapponendo alla fede in
dio, la mera osservanza della legge.
Al centro del racconto di Paolo c’è la lotta contro gli ebrei, la cui
meta è “‘la salvezza’, in definitiva, la ‘vita’”90. Tale lotta si esemplifica
nella contrapposizione fra fede e legge, intese come due modi per giungere alla salvezza, l’uno attraverso “l’osservazione dei comandamenti”91 e attraverso il riferimento dell’uomo all’ambito delle opere e del fare92, l’altro attraverso la grazia di dio.
Heidegger sottolinea come la contrapposizione fra legge e fede,
opera e grazia riguardi le “condizioni per entrare nella vita cristiana”93,
affermando che, quando Paolo parla dell’alternativa “legge - grazia” sta
parlando “dell’esistere, del ‘vivere’” e che “ek nómou o ek písteos” non
rappresentano altro che “un aut-aut fra due strade verso la vita non meta a se stessa”94. Questo significa, pertanto, per Heidegger che a partire
dalla lettera ai Galati è possibile comprendere “la fondamentale dinamica fenomenologica e arcontica”95 dell’esistenza. in essa viene affrontata la questione “se il cristiano si esplicita e giunge in un originario possesso esistenziale oppure si perde nel culto”96.
Significativo per il nostro discorso è che, in questo contesto, la legge viene criticata soprattutto in quanto “rituale e cerimoniale”97, in
quanto “appartenente al mondo attuale”98, cioè per il suo carattere abitudinario e di routine, da cui non può derivare “un afferramento radicale dello spirito”99 e, soltanto in quanto tale, anche come “legge mora-
90. Ivi, p. 69; trad. it., p. 107.
91. Ivi, p. 126; trad. it., p. 171.
92. Ibidem.
93. Ibidem.
94. Ibidem.
95. Ibidem.
96. Ibidem.
97. Ivi, p. 72; trad. it., p. 110.
98. Ivi, p. 126; trad. it., p. 171.
99. Ibidem.
44
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le”100. nell’adempimento della legge la vita è intesa come un protocollo, un processo, un procedimento che porta dinnanzi a dio e non come
un essere in cammino verso di esso, il quale è reso possibile dalla fede,
non vuota “situazione di fatto” o “spiritualità definitiva”, ma “riferimento conforme al compimento dell’entrata, carica di preoccupazione,
nel futuro”101. la salvezza può avvenire quindi solo attraverso la fede e
la redenzione operata da parte di Cristo.
in modo significativo, se si pensa alla derivazione luterana del suo
pensiero, Heidegger sottolinea in un appunto pubblicato in appendice
alla lezione sulla fenomenologia della vita religiosa, come il punto di
rottura e di passaggio da un modo all’altro di vita sia dato dall’esperienza della croce:
nella tendenza deiettiva della vita e della disposizione verso tendenze mondane (saggezza dei Greci) c’è bisogno di un punto di vista radicale per poter predicare la semplicità richiesta; la croce deve essere vista sempre solo in questo
modo. [essa] pone dinnanzi ad un aut-aut e non lascia posto a vie di mezzo e
ad opinioni, – grandi discorsi che nascondono ciò che è autentico102.
Questa svolta avviene attraverso “un essenziale rivolgimento escatologico”, che implica “un correre verso la meta! ed è contemporaneamente speranza verso il compimento dell’inizio”103.
Tale dimensione temporale emerge dall’interpretazione delle due
lettere di Paolo ai Tessalonicesi. Heidegger parte nella sua analisi da un
determinato momento del racconto storico-oggettivo presente nella Storia degli Apostoli: Paolo va a Tessalonica, si reca alla Sinagoga e predica che “il Messia ha dovuto soffrire e resuscitare dalla morte” e che colui che egli annuncia “è questo Messia”. Alcuni si lasciano convincere e
si uniscono a Paolo, altri no. il suo obiettivo è quello di leggere questo
racconto come una situazione, cioè come un intero vitale caratterizzato
dall’interconnessione di tutti gli elementi in gioco. egli si sofferma in
particolare sul rapporto fra Paolo e i Tessalonicesi, i quali sono coloro
che, in seguito all’annuncio della Parola, sono divenuti e hanno un sape-
100. Ivi, p. 72; trad. it., p. 110.
101. Ivi, p. 128; trad. it., p. 172.
102. Ivi, p. 144; trad. it., p. 188.
103. Ivi, p. 128; trad. it., p. 172. Questo ruolo è attribuito nel discorso di Heidegger
alla morte intesa come télos.
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re di ciò. l’essere divenuto dei Tessalonicesi è contemporaneamente “un
nuovo divenire”104. essi sono “in cammino”105. Commentando i Tess 1,
6106 e i Tess 4, 1107, Heidegger presenta questo essere divenuti come “un
accogliere la parola” che implica “un entrare in una connessione effettiva con dio”. in questo contesto individua un passaggio significativo in i
Tess 1, 9-10108 in cui l’essere divenuto dei Tessalonicesi viene presentato come “un rivolgimento assoluto, più precisamente un rivolgimento
verso dio e un allontanamento dagli idoli”109, caratterizzato da tribolazione e gioia. Questo rivolgimento si esplicita in due direzioni fondamentali, le quali determinano la direzione di ogni ulteriore riferimento a
dio e al mondo: douleín [servire] e anaménin [attendere].
decisiva per la caratterizzazione dell’esperienza di vita cristiana è
soprattutto quest’ultima tendenza, esemplificata nell’attesa della parousía. Con essa il cristiano si porta “nella necessità”110, in una situazione
caratterizzata da assoluta tribolazione111 e preoccupazione in cui emerge come la vita cristiana non sia possesso, ma ricerca, e come per essa
non ci sia sicurezza112.
egli poi presenta Paolo come intrinsecamente legato al divenire
dei Tessalonicesi, messo in moto, per l’appunto, dall’entrata dell’apostolo nella loro vita113. Come suggerisce i Tess 2, 17114, essi hanno per
lui un significato assoluto. il loro essere divenuti e, allo stesso tempo, il
104. Ivi, p. 98; trad. it., p. 146.
105. Ibidem.
106. i Tess 1, 6: “e voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, accogliendo la
parola in mezzo a molte tribolazioni con la gioia dello Spirito Santo”.
107. i Tess 4, 1: “Come avete appreso da noi il modo di vivere e di piacere a dio e
come già vivete, così progredite sempre di più”.
108. i Tess 9-10: “Gli stessi abitanti, infatti, raccontano di noi, quale accoglienza
abbiamo avuto da voi e come vi siete convertiti a dio dagli idoli, per servire dio vivo e
vero, per aspettare dai cieli suo Figlio, che resuscitò i morti, Gesù, che ci libera dall’ira
che viene”.
109. HGA 60, p. 95; trad. it., p. 135.
110. Ivi, p. 98; trad. it., p. 138.
111. Ibidem. Heidegger attribuisce questi due sentimenti non più all’essere dinnanzi a dio, ma all’agire in quanto deciso.
112. Ivi, p. 105; trad. it., p. 137.
113. Ivi, p. 94; trad. it., p. 134.
114. i Tess 2, 17 “Ma noi, o fratelli, orfani di voi per breve tempo, con la presenza
non con il cuore, ci siamo con estrema premura preoccupati di rivedere il vostro volto”.
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loro essere in cammino è anche l’essere divenuto115 e l’essere in cammino di Paolo, la cui vita dipende dall’esser saldo dei Tessalonicesi nella fede116.
Allo stesso tempo, la situazione in cui Paolo si trova influenza il
cammino dei suoi discepoli: “ciò che egli dice loro e come glielo dice è
determinato dalla sua situazione”117. non solo i Tessalonicesi, accogliendo l’annuncio, si sono posti in una situazione di estrema necessità
e inquietudine, ma anche Paolo si trova in una situazione di necessità e
vuole “essere visto nella sua debolezza e nella sua tribolazione”118. Affermando che “la vita non è per Paolo un mero susseguirsi di avvenimenti, [ma] è solo nella misura in cui egli la ha”119, Heidegger individua una caratteristica fondamentale dell’esistenza che si ritroverà anche
all’interno dell’analitica esistenziale. Anche Paolo, così come i Tessalonicesi, si trova nell’attesa della parousía: “questa tribolazione articola la [sua] situazione […]. A partire da essa è determinato ogni istante
della sua vita”120.
Heidegger mette in evidenza come, nell’annuncio di Paolo, la parousía acquisisca un nuovo significato, rispetto alla tradizione. Se in
greco classico parousía vuol dire arrivo, nel Vecchio Testamento “l’arrivo del Signore nel giorno del Giudizio” e nel tardo ebraismo ancora
“l’arrivo del Messia come sostituto del Signore”, per i Cristiani invece
la parousía significa “la riapparizione del Cristo già apparso”. la modificazione della struttura del concetto implica una modificazione della
struttura temporale dell’esperienza di vita che ad essa si rapporta.
Heidegger sottolinea:
Si potrebbe pensare innanzitutto: il rapporto fondamentale verso la parousía è
un attendere e la speranza cristiana [élpis] un caso particolare di essa. Ma questo è del tutto falso! non possiamo comprendere in nessun caso il senso di riferimento alla parousía, se non attraverso l’analisi di un evento futuro. la
struttura della speranza cristiana, che in realtà è il senso di riferimento della parousía, è radicalmente diverso da ogni attesa121.
115.
116.
117.
118.
119.
120.
121.
HGA 60, p. 93; trad. it., p. 133.
Ivi, p. 97; trad. it., p. 137.
Ivi, p. 100; trad. it., p. 141.
Ivi, p. 98; trad. it., p. 138.
Ivi, p. 100; trad. it., p. 141.
Ivi, p. 98; trad. it., p. 138.
Ivi, p. 102; trad. it., p. 142.
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Con l’intenzione di disinnescare il riferimento ad un quadro temporale oggettivo, ponendo la domanda sul “quando” della parousía,
Paolo si mantiene distante da una curiosità di tipo conoscitivo e da un
atteggiamento di tipo teoretico. “Paolo non risponde alla domanda con
una logica mondana. Si tiene lontano da una trattazione di carattere conoscitivo, tuttavia non dice neanche che si tratta di qualcosa che non si
può conoscere. egli risponde contrapponendo due modi di vivere”122.
rispondendo al quando dell’arrivo della parousía, Paolo avrebbe
fatto riferimento ad una concezione oggettiva del tempo, mancando la
specificità che emerge dall’esperienza di vita cristiana. “Paolo non dice
‘quando’, perché questa espressione è inadeguata a ciò che deve essere
portato ad espressione, perché essa non è sufficiente”123. la domanda
sul quando non è “una domanda di conoscenza”, finalizzata a fare esperienza di un avvenimento preciso in una serie temporale. essa fa appello ad un sapere, quel sapere che i Tessalonicesi hanno della loro vita:
Paolo non dice ‘in tale giorno il Signore ritornerà’ e nemmeno ‘non so quando ritornerà’, bensì: ‘Voi sapete in tutta certezza…’. deve trattarsi di un sapere peculiare, poiché Paolo rinvia i Tessalonicesi a se stessi e al sapere che hanno in quanto divenuti. da questo genere di risposta emerge che la decisione in
merito alla ‘domanda’ dipende dalla loro propria vita124.
È dalle due diverse modalità di vivere l’attesa della parousía che si
dovrà dedurre la struttura temporale della vita.
rispetto all’eventualità dell’arrivo di Cristo, alcuni si rapportano a
ciò che gli viene incontro nella vita fattuale, dicendo “pace e sicurezza”
(e sono gli unici a dire qualcosa circa l’avvento della parousía). Per essi, ciò che viene incontro nel rapportarsi mondano non presenta motivo
d’inquietudine. essi rimangono legati al mondo che li rassicura. Coloro
che vivono in questo orizzonte sono colti di sorpresa dall’arrivo di Cristo e sono presi da un’improvvisa rovina. essi sono sorpresi, in quanto
la loro attesa è conforme all’atteggiamento teoretico e non possono salvarsi, perché non hanno se stessi in un sapere autentico. Con la riapparizione del Cristo sono sorpresi come le doglie sorprendono le parto-
122. HGA 60, p. 103; trad. it., p. 143.
123. Ibidem.
124. Ibidem.
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rienti. Heidegger commenta: “Coloro ‘che dicono: pace e sicurezza’ si
consacrano totalmente a ciò che la vita arreca loro, occupandosi di ogni
compito della vita, quale che sia. Sono catturati da ciò che la vita offre,
mentre, quanto al sapere di se stessi, sono nelle tenebre”125.
Ad essi Paolo contrappone i figli della luce e del giorno, i quali
hanno un sapere di se stessi. Mettendo in evidenza come questi due atteggiamenti non siano cristallizzati e immobili, e come l’esperienza di
vita cristiana sia una continua lotta, egli invita questi ultimi a “vegliare
ed essere sobri”, in modo che il giorno non li sorprenda “come un ladro
nella notte”.
Heidegger conclude l’analisi della prima lettera commentando:
Attraverso questo (‘facci essere svegli’) si vede: la domanda sul ‘quando’ si riconduce al comportamento. il modo in cui la parousía sta nella mia vita rinvia
al compimento della vita stessa. il senso del ‘quando’, il tempo, nel quale il cristiano vive, ha un carattere del tutto particolare. noi lo abbiamo prima caratterizzato formalmente [dicendo] la religiosità cristiana vive la temporalità. Si
tratta di un tempo senza ordine e punti fissi etc. Questa temporalità può essere
molto difficilmente compresa a partire da un concetto obiettivo del tempo. il
quando non può essere in nessun modo compreso oggettivamente126.
Questa prospettiva è confermata anche nell’interpretazione della
seconda lettera ai Tessalonicesi. in essa Paolo non predica “l’arrivo immediato della parousía”127, ma fa precedere quest’ultima dall’Avvento
dell’Anticristo, accompagnato da guerra e disordine. Heidegger sottolinea però come anche con il riferimento all’Anticristo “Paolo non
pens[i] affatto a rispondere alla domanda sul ‘quando’ della parousía”128. Anche in questo caso, “il ‘quando’ è determinato dal ‘come’ del
comportarsi, che a sua volta è determinato dal compimento dell’esperienza effettiva della vita in ciascuno dei suoi momenti”129.
Alla ricerca della temporalità dell’esperienza di vita cristiana, Heidegger parte ancora una volta dalla contrapposizione fra due diversi
modi di vivere l’attesa della parousía, soffermandosi sull’impatto che la
prima lettera ha avuto sulla comunità di Tessalonica. in essa alcuni han-
125.
126.
127.
128.
129.
Ivi, p. 105; trad. it. p. 146.
Ivi, p. 104; trad. it. p. 144.
Ivi, p. 108; trad. it., p.150.
Ivi, p. 106; trad. it., p.147.
Ibidem.
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no compreso l’annuncio di Paolo e sanno quale è la posta in gioco. Costoro vivono in un’angustia autentica130, in quanto sono consapevoli che
“se la parousía dipende dal modo in cui vivo, allora non sono in grado
di attenermi saldamente alla fede e all’amore che mi sono richiesti, dunque giungo ad un passo dalla disperazione”. essi “si angosciano in senso genuino, nel senso della vera cura riguardo alla loro possibilità di
compiere le opere della fede e dell’amore, e di resistere fino al giorno
decisivo”131. Heidegger sottolinea come Paolo non li aiuti, né li consoli, rendendo “la loro angustia ancora più grande”132.
in contrapposizione ad essi vi sono coloro che hanno compreso in
modo diverso la prima lettera. Costoro smettono di lavorare e se ne vanno in giro senza far nulla, interrogandosi sull’imminente venuta del Signore. “essi si preoccupano mondanamente nella molteplice operosità
del discutere e del non far nulla e divengono un peso per gli altri”133.
Accentuando un aspetto presente già nella prima lettera, nell’invito rivolto ai figli della luce a rimanere sobri e a vegliare, Heidegger non
caratterizza le due differenti modalità di vivere l’attesa della parousía
come due atteggiamenti radicalmente contrapposti e non comunicanti
fra di loro, evidenziando come il non presente nella definizione di coloro che si perdono come “coloro che non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi” (ii Tess., 2, 10), non sia né “una deviazione del
compimento, né un porsi al di fuori di esso”134. A coloro che si perdono
“manca il vero compimento”135, essi non si sono realmente messi in
cammino.
egli osserva quindi come nella contrapposizione fra “due fondamentali comportamenti della vita pratica”136, l’uso di due participi presenti [sozómenoi e apollúmenoi] indichi che il movimento si sta ancora
compiendo e come l’accettazione della predicazione sia “un ultimo decidersi”137.
130.
sobria”.
131.
132.
133.
134.
135.
136.
137.
Cfr. HGA 64, p. 57: “la scoperta della risolutezza si mantiene in un’angoscia
HGA 60, p. 107; trad. it., p. 148.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 109; trad. it., p. 150.
Ibidem.
Ivi, p. 113; trad. it., p. 155.
Ibidem.
50
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in questa ottica è chiaro come l’annuncio dell’arrivo dell’Anticristo prima dell’arrivo della parousía non rappresenti “un prolungamento della scadenza. Al contrario, nel senso della fatticità cristiana, esso
rappresenta un incremento della più alta necessità”138. esso pertanto
non ha la finalità di ridimensionare il pericolo, quanto quella di accentuare la situazione di necessità e di accrescere la tensione139, rimandando alla situazione in cui ognuno si trova, al sapere che si ha di essa e alla necessità di decidere della propria vita. Heidegger afferma: “il senso
dell’annuncio dell’Anticristo è il seguente: si deve prendere l’Anticristo per ciò che è. egli si spaccia per dio. Perché ciò sia possibile è necessaria la fatticità del sapere. Si decide chi è cristiano in senso veritiero a partire dal fatto che egli riconosce l’Anticristo. l’avvenimento che
deve venire prima della parousía è, secondo il suo senso di riferimento,
un qualcosa che rimanda agli uomini. Con l’arrivo dell’Anticristo ognuno si deve decidere, anche colui che non è inquieto si decide attraverso
di ciò ad essere così come è. Chi rimane indeciso si è posto fuori dalla
connessione di compimento della necessità dell’attesa e si è inquadrato
fra gli apollúmenoi (coloro che sono sul punto di perdersi)”140.
il non accogliere l’amore quindi ha un significato positivo perché
indica che è nell’accogliere l’amore come compimento che si fonda la
possibilità di giudicare e riconoscere l’Anticristo. “Solo grazie a questo
dokimázein [giudicare] colui che sa vede il grande pericolo che minaccia l’uomo religioso: colui che non ha accolto il compimento (colui che
non si è messo in cammino) non può scorgere l’avanzamento dell’Anticristo sotto l’apparenza del divino, egli gli si abbandona, senza accorgersene”141.
l’arrivo dell’Anticristo rappresenta pertanto un momento di passaggio: esso fortifica “la fede di coloro che hanno fede e sono già decisi”142, ma, allo stesso tempo, “facilita la tendenza verso la vita deiettiva”143, in quanto “la decisione in sé è molto difficile”144. Coloro che si
perdono credono a ciò che è falso, “si fanno confondere proprio nella
138.
139.
140.
141.
142.
143.
144.
Ivi, p. 114; trad. it., p. 156.
Ivi, p. 108; trad. it., p. 150.
Ivi, p. 110; trad. it., p. 149.
Ivi, p. 113; trad. it., p. 155.
Ivi, p. 115; trad. it., p. 157.
Ivi, p. 113; trad. it., p. 155.
Ivi, p. 115; trad. it., p. 157.
51
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loro operosità intorno alla ‘sensazione’ della parousía, essi abbandonano [abfallen] l’originaria preoccupazione del divino. Per questo sono
annientati in modo assoluto e perdono la zoé”145.
Heidegger descrive così questa tendenza: “coloro che si perdono
credono alla menzogna, essi non sono indifferenti, sono molto indaffarati, ma si sbagliano e cadono dinnanzi all’Anticristo. essi non tralasciano ciò che è cristiano, ritenendolo senza importanza, ma mostrano
un innalzamento particolare che porta a compimento la loro cecità e
rende completa la caduta verso l’Anticristo, così che un ritorno non è
più possibile. essere dannato per Paolo significa essere completamente
annullato, nulla assoluto”146.
Queste due tendenze vengono ricondotte da Heidegger alla contrapposizione paolina di carne e spirito, le quali non rappresentano due
“parti dell’uomo”, ma due modalità di vita. la vita secondo lo spirito è
la vita interiore, la vita dell’ántropos pneumatikós che “si è appropriato
di una proprietà determinata della vita”147; così come la carne è “un modo di pensare [Gesinnung]; cioè una tendenza della vita”148, ovverosia
“il contesto di compimento della fatticità autentica nella vita mondana”149. Anticipando il ruolo della conoscenza come punto di demarcazione fra l’esistenza autentica e inautentica Heidegger afferma che ogni
tendenza di vita è immediatamente una forma di sapere150.
Tuttavia “se si considera solo l’aspetto contenutistico”151, la differenza fra i due modi di vita non è evidente. Heidegger individua il nucleo del messaggio escatologico di Paolo nell’invito di ii Tess 2, 15 ad
“essere forti e saldi nelle tradizioni nelle quali siete stati istruiti” e commenta: “per il cristiano può essere decisivo solo il nun della connessione di compimento nella quale effettivamente [eigentlich] si trova, non
l’attesa di un evento che si mantiene in quanto futuro nella temporalità”152. l’adesso viene compreso a partire dalla predominante dimensione temporale della speranza.
145.
146.
147.
148.
149.
150.
151.
152.
Ivi, p. 113; trad. it., p. 155.
Ivi, p. 114; trad. it., p. 156.
Ivi, p. 124; trad. it., p. 167.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 123-124; trad. it., p. 167.
Ivi, p. 109; trad. it., p. 150.
Ivi, p. 114; trad. it., p. 156.
52
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È a partire da tale orizzonte che il riferimento del cristiano al mondo circostante e al mondo degli altri acquisisce un nuovo senso. Heidegger intende esemplificare che cosa significhi che l’esperienza di vita cristiana viva la temporalità, partendo da due passi della prima lettera ai Corinzi (i Cor 7, 20- 24 e i Cor 1, 26-27).
Paolo afferma:
i Cor, 20-24:
Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato
chiamato da schiavo? non ti preoccupare, ma anche se hai la possibilità di renderti libero, profittane! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è liberto del Signore! Similmente il libero che è stato chiamato, è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a prezzo; non diventate schiavi di uomini! Ciascuno,
o fratelli, rimanga davanti a dio in quella condizione in cui era quando fu chiamato.
i Cor 1, 26-27:
Considerate la vostra chiamata, o fratelli: non sono molti tra voi i sapienti secondo la carne, non molti i potenti, non molti i nobili. Ma dio ha scelto ciò che
è stoltezza del mondo per confondere i sapienti, dio ha scelto ciò che è debolezza del mondo per confondere i forti.
Heidegger commenta:
la fatticità protocristiana non raggiunge, con tutta la sua originarietà, assolutamente, nessuna eccezionalità, né particolarità. nonostante l’assolutezza della trasformazione del compimento, in relazione alla fatticità mondana, tutto rimane come prima153.
Con l’acquisizione dell’annuncio “si mira all’effettività della vita
mondana. l’effettività della vita consiste nella tendenza di appropriazione di queste significatività. Tuttavia esse non divengono dominanti all’interno della fatticità della vita cristiana. Al contrario én té klesíei menéto!
Si tratta di ottenere un nuovo atteggiamento nei loro riguardi”154: “le significatività della vita rimangono, ma sorge un nuovo rapporto ad esse”155.
153. Ivi, p. 117; trad. it., p. 159.
154. Ibidem.
155. Ivi, p. 116; trad. it., p. 158.
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Heidegger sottolinea come la relazione dell’uomo al mondo non
acquisisca il suo senso in base al contenuto, ma a partire dall’orizzonte
di compimento in cui essa si colloca156. in breve:
Ciò che viene mutato non è il senso di riferimento e ancor meno il contenuto.
Questo significa che il cristiano non si pone fuori dal mondo. Se è chiamato
come schiavo, non deve cadere nella tentazione [in die Tendenz verfallen] di
credere di ottenere qualcosa per il proprio essere aumentando la propria libertà. lo schiavo deve rimanere schiavo. È indifferente, in quale contesto significativo mondano esso si trovi. Queste connessioni di senso che vanno in
direzione del mondo circostante, della professione e di ciò che si è (mondo del
sé) non determinano in alcun modo la fatticità del Cristiano. Queste significatività mondane divengono, attraverso l’esser divenuti, beni temporali157.
Alla base di questa trasformazione d’orizzonte c’è l’esperienza
della temporalità contratta così come viene enunciata in i Cor 7, 29-32:
Questo vi dico fratelli: il tempo ha avuto una svolta; d’ora innanzi quelli che
hanno moglie siano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non
piangessero; quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero; quelli che
comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se ne
usassero a fondo: perché passa la figura di questo mondo!
Heidegger commenta: “manca ancora solo poco tempo, il cristiano
vive costantemente nell’ ‘ancora solo (nur-noch)’, che aumenta la sua
oppressione. Costitutiva per la religiosità cristiana è una temporalità
contratta: ‘ancora solo’; non resta tempo per rimandare”158. “i Cristiani
devono essere così che, coloro che hanno una donna, la hanno in modo,
che non la hanno”159. Contrastando la traduzione corrente di os mé con
come se, in quanto espressione di una connessione di significato oggettiva, Heidegger sottolinea, come “in termini positivi lo ós significa un
nuovo senso che sopraggiunge. il me riguarda il contesto del compi-
156. Brejdak, nel libro già citato evidenzia come “Heidegger d’accordo con Paolo
mett[a] in relazione la temporalità che inizia nuovamente, la temporalità del divenire, con
la fede che, in quanto superamento della legge contenutistica e in quanto aumento dell’attenzione per il senso di compimento, è proprio ciò che rende possibile la temporalità”:
cfr. BreJdAk [1996], p. 61 .
157. HGA 60, p. 119; trad. it., p. 161.
158. Ibidem.
159. Ivi, p. 120; trad. it., p. 162.
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mento della vita cristiana”160. Tutti i riferimenti al mondo subiscono
nell’orizzonte di vita cristiana “un ritardo nel compimento”161, in quanto devono passare attraverso l’essere-divenuto, l’interruzione dell’esperienza di vita cristiana la quale non procede in modo lineare. Questo ritardo scongiura l’identificazione del mondo del sé con il mondo circostante, pur non separandolo da esso. È il rivolgimento interno alla vita
del cristiano a donare un nuovo senso alle sue relazioni al mondo. “l’isolamento della vita cristiana suona negativamente. Se compreso in modo autentico invece, la connessione vitale può essere compresa solo a
partire dall’origine del contesto di vita cristiano”162.
Per questo motivo l’affermazione: “passa la forma di questo mondo” non è da intendersi in modo obiettivo, ma a partire dal contesto del
“rapportarsi al mondo”, come conferma anche rom 12, 2: “non uniformatevi al mondo presente, ma trasformatevi continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza, in modo che possiate discernere che cosa dio vuole da voi, che cosa è buono, a lui gradito e perfetto”163.
Questo compimento però supera la forza dell’uomo: “esso non è
pensabile a partire dalle sue sole forze. la vita non può far derivare solo da sé le motivazioni anche solo per raggiungere il genéstai”164. il contrasto al dominio delle significatività mondane, non può avvenire attraverso l’assunzione di un contegno [Halt] dinnanzi a dio, ma solo per
Grazia di dio. “Attraverso la rinuncia al modo mondano del difendersi
la necessità della vita aumenta. È quasi senza speranza poter pervenire
in tale contesto di compimento. il cristiano ha la consapevolezza di non
poter ottenere questa fatticità con le sue sole forze, al contrario essa deriva da dio – fenomeno della Grazia”165. Secondo quanto si legge in ii
Cor 4, 7 “questo tesoro lo abbiamo in vasi di creta, affinché appaia che
questa potenza straordinaria provenga da dio e non da noi”, “ciò che è
disponibile non è sufficiente a fare raggiungere la fatticità cristiana”166.
160. Ibidem.
161. Ivi, p. 120; trad. it., p. 163.
162. Ibidem.
163. A questo proposito Heidegger sottolinea come il significato delle lettere di
Paolo non è mai etico, e come quindi la critica di nietzsche in questo senso, sia errata. la
tematizzazione della temporalità però avviene anche in Paolo attraverso la contrapposizione di due ethoí diversi.
164. HGA 60, p. 122; trad. it., p. 164.
165. Ivi, p. 121; trad. it., p. 164.
166. Ivi, p. 122; trad. it., p. 164.
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l’esperienza cristiana della temporalità ha inizio con l’annuncio
del Messia. l’accettazione di tale annuncio implica un rivolgimento totale nell’esistenza, la quale si apre in una relazione verso dio. È questa
apertura a determinare la nuova dimensione temporale. Comprendere
l’annuncio e accettarlo significa avere una diversa consapevolezza di
sé, nata dall’acquisizione dell’orizzonte divino significa essere “figli
della luce” ed essere consapevoli che il tempo che resta è breve, che occorre vegliare ed essere sobri, senza farsi dominare dall’angoscia di non
riuscire a compiere le opere della fede e dell’amore. il senso della vita,
non il suo contenuto si determina a partire dall’esperienza della contrazione del tempo.
l’accettazione dell’annuncio però non è qualcosa che avviene una
volta per tutte: colui che ha rivolto la propria esistenza verso dio, è costantemente in cammino e di volta in volta posto dinnanzi alla possibilità di perdersi o di aversi, decidendosi per un rivolgimento più profondo e radicale della propria esistenza. la vita del cristiano è constante
lotta fra il rituale della legge e l’apertura al futuro resa possibile dalla
fede, fra la tendenza a comprendersi a partire dall’orizzonte mondano e
la tendenza a comprendersi in dialogo con dio, fra carne e spirito, fra
scansione cronologica del tempo e assunzione della prospettiva della fine. il passaggio da una dimensione all’altra avviene attraverso l’esperienza della croce, un radicale punto di vista che apre un nuovo orizzonte di senso all’interno dell’esistenza. Tale passaggio non è completamente nelle mani dell’uomo, ma è frutto della Grazia, la cui condizione necessaria e tuttavia non sufficiente, è l’esperienza dell’annullamento della morte. Attraverso tale rivolgimento non muta il tipo di relazione dell’uomo al mondo: il cristiano non esce dal mondo, ma vive il
mondo e i suoi contenuti a partire dalla prospettiva e dall’orizzonte del
dialogo con dio.
56
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AGoSTino
questio mihi factum sum
AGoSTino, Confessioni
5.
Agostino e la ricerca esistenziale di Dio
la fondamentale intuizione proto-cristiana della vita, il fatto storico del Cristianesimo acquisiscono la forma di una dottrina attraverso
l’incontro con la filosofia ellenistica. in questo percorso si colloca anche il pensiero teologico di Agostino al quale Heidegger dedica la lezione del semestre estivo del 1921.
Ben consapevole della presenza di una tendenza alla “grecizzazione”167 all’interno delle Confessioni – la quale si esplicita soprattutto nella trasformazione della ricerca esistenziale in una domanda d’accesso –
Heidegger intraprende la sua interpretazione con l’intenzione di cogliere, attraverso la duplice operazione di distruzione e acquisizione, elementi fondamentali per comprendere la struttura storica della vita, il suo
inquieto essere in cammino. Per questo motivo, egli non si sofferma sull’Xi libro168 dedicato esplicitamente alla questione del tempo169, troppo
167. Cfr. HGA 60, p. 238; trad. it., p. 318: Heidegger si chiede: “fino a che punto,
a partire da qui, un nuovo tenore entra nei concetti teologici; fino a che punto tale tendenza
subisce l’influsso non soltanto della Chiesa, ma anche della grecità!”.
168. Heidegger non perviene all’interpretazione esplicita del Xi libro delle Confessioni nella lezione dedicata ad Agostino, ma solo in alcuni seminari più tardi. in generale si può notare come nella tematizzazione del tempo, Agostino conservi la struttura
temporale presente nelle lettere di Paolo. nel capitolo Xi, il tempo viene infatti compreso come una misura, attuata dall’anima, dall’estensione del ricordo del passato, della visione del presente e dell’attesa del futuro. Per quanto anche in questa comprensione del
tempo sia fondamentale la dimensione dell’attesa e quindi dell’anticipazione del futuro,
in Agostino si può già notare l’influenza di quella che Heidegger in seguito chiamerà l’ontologia della presenza di Aristotele. Sia il passato che il futuro sono compresi a partire dal
presente: il passato esiste solo come presente di ciò che è passato e il futuro come presente
di ciò che sarà. il nucleo dell’interpretazione heideggeriana del tempo agostiniano è esposto nella relazione dal titolo: Augustinus: quid est tempus? Confessiones lib. XI, che Heidegger tenne a Beuron il 26 ottobre 1930. Cfr. denker [2003].
169. Sulla tematizzazione agostiniana del tempo nella prospettiva heideggeriana si
veda: CorTi [2006].
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compromesso, a suo avviso, con l’approccio filosofico greco, ma si interessa al libro X, tutto concentrato sulla ricerca esistenziale di dio da
parte dell’uomo Agostino170.
l’analisi del libro è allo stesso tempo un invito al rivolgimento interiore, ad una trasformazione e correzione del proprio percorso di vita,
come si può dedurre dal motto anteposto alla lezione heideggeriana, in
cui il pensiero va alla “gente curiosa nel conoscere la vita altrui, pigra
nel correggere la propria”171.
nella sua ricostruzione critica Heidegger si sofferma su due temi:
la ricerca di dio da parte di Agostino e la determinazione dell’essenza
dell’uomo come cura e come tendenza al peccato. Tali temi, che risulteranno connessi dal momento che l’accesso a dio è possibile solo attraverso la giusta disposizione esistenziale, offriranno la base per comprendere la dinamica interna all’esistenza con la sua tensione deiettiva
e la sua ricerca dell’autenticità.
nella prima parte della sua analisi Heidegger affronta la progressiva trasformazione della prospettiva in cui avviene la ricerca di dio da
parte di Agostino, sottolineando la continua oscillazione fra una modalità oggettivante di ricerca, concentrata sulla domanda che-cosa è dio e
dove è possibile scorgerlo e una modalità esistenziale, concentrata sulla domanda del come è possibile congiungersi a dio e chi può raggiungerlo. l’analisi del passaggio dal che-cosa al come, dal come al chi e dal
chi al come del chi si conclude nell’analisi dell’esistenza in quanto cura e mette in luce la stretta connessione dei due temi trattati.
Heidegger organizza la sua interpretazione intorno ai principali nuclei del discorso agostiniano. le Confessioni non ripercorrono l’esperienza trascorsa, il passato, ma ci dicono chi è oggi Agostino, ci danno
indicazioni sul suo stato presente e non su quello passato. egli si confessa, si mostra in tutta la sua debolezza di uomo, dispiega la sua sfera
intima, perché i suoi lettori si uniscano a lui nel ringraziamento, dopo
aver udito quanto dio lo avvicina a sé attraverso il suo dono e preghino
per lui, dopo aver constato quanto sia pesante il fardello della vita.
la confessione parte dalle poche certezze che Agostino ha acquisito nel suo percorso di vita: egli confessa ciò che sa di sé. e ciò che sa
con certezza è di essere problema a se stesso, di essere terreno di scon-
170. FiSCHer [2007], pp. 55-90.
171. HGA 60, p. 158; trad. it., p. 206.
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tro e confronto di tentazioni diverse. Ma, allo stesso tempo, sa anche di
amare dio e in tale amore consiste la bussola che gli permette di orientarsi nella sua inquietudine. È tale inquieta ricerca che segna il perimetro dell’interesse di Heidegger.
Agostino parte dalla domanda: “Che cosa amo, quando amo te?”.
egli si rivolge alle creature: la loro bellezza rimanda a dio. Fra di esse,
particolare tramite a dio è l’uomo, non per la forza che lo accomuna agli
altri animali, ma per l’intelletto che Heidegger identifica con la capacità
di decidere. È nell’uomo che si deve cercare dio e la memoria deve fungere da guida. Ma in questo modo di procedere, secondo Heidegger, non
viene semplicemente ad “espressione” qualcosa di me: tale “ricerca costituisce la mia fatticità e la mia preoccupazione intorno ad essa”172.
Questo significa pertanto che “nella ricerca di questo qualcosa in quanto dio, io stesso pervengo in un altro ruolo. io non sono solo colui dal
quale parte la ricerca e che si muove in una certa direzione, o colui nel
quale la ricerca avviene, ma il compimento del cercare è qualcosa di
questo stesso cercare”173. in altri termini: la ricerca esistenziale di dio
riguarda il modo d’essere dell’uomo Agostino, la sua costituzione d’essere, il modo e l’orizzonte della sua attuazione. essa implica e co-costituisce – per dirlo con kierkegaard, al quale Heidegger fa espressamente riferimento – “quale tipo di rappresentazione ho di me stesso”174.
Questo aspetto diviene evidente quando Agostino, nel corso del suo
racconto, identifica la ricerca di dio con quella della vita beata. nonostante un’implicita tendenza a trasformare questa ricerca in una “teoria
generale d’accesso”, in cui la vita beata si identifica con la vera vita beata, dio con la verità; l’accentuazione della dimensione di compimento
della ricerca, attuata da Agostino, lascia aperto, però, secondo Heidegger, uno spiraglio per una sua interpretazione in senso esistenziale, in cui
il modo d’avere la vita beata coincide con un modo d’essere.
Ma come si configura tale vita? Alla ricerca di una definizione,
Agostino parte in modo aristotelico: la prima certezza incontrovertibile
è che tutti desiderano la vita beata, sono proiettati verso di essa. egli abbandona però subito il tracciato dello Stagirita, quando nota che per desiderare la vita beata gli uomini devono conoscerla, deve esservene trac-
172. Ivi, p. 192; trad. it., p. 249.
173. Ibidem.
174. Ibidem.
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cia nella memoria, nella loro sfera interiore. non tutto ciò che sembra
rendere beati è tale in senso autentico: comporta vera beatitudine solo
tutto ciò che è compiuto a causa di dio, guardando nella sua direzione
e pensando a lui175. Coerentemente con il suo tentativo di formalizzazione e neutralizzazione dei concetti religiosi, ma anche con la sua tendenza ad evitare il riferimento esplicito ad un universale, Heidegger sottolinea come “la vita beata in quanto tale e in riferimento al come del
suo esserci” sia “indicata formalmente”176. dio è l’orizzonte del compimento, è ciò in vista di cui tutto è compiuto, non ha uno specifico contenuto di senso. È il singolo a doverne fornire una definizione. nella
comprensione e tensione verso di essa “ne va del singolo, del modo in
cui egli se ne appropria”177. dio rappresenta solo l’orizzonte, l’apertura
in cui si colloca la decisione del singolo.
l’attenzione quindi deve essere tutta concentrata sulla modalità di
compimento e di realizzazione della vita. Seguendo Agostino, Heidegger rileva innanzitutto una tendenza al peccato e all’errore. la maggior
parte degli uomini non tendono verso la vera e autentica vita beata, ma
per la debolezza della carne, “cadono là dove possono e ne sono paghi”178, ovverosia – secondo la parafrasi di Heidegger – “cadono in ciò
che essi stessi possono, verso ciò che hanno in quel momento a disposizione, verso le significatività mondane o qualsiasi altra significatività
del mondo e del sé comodamente raggiungibili”179. Gli uomini mancano tutto ciò che non è semplicemente a loro disposizione e non sono assolutamente in grado di assumere le possibilità che non rientrano nel loro orizzonte di preoccupazione.
Quella che però sembra essere la più radicale impossibilità di realizzare la vita autentica viene capovolta nel suo contrario quando Agostino identifica la vita beata con la vera vita beata, la verità.
Anche se gli uomini infatti – sottolinea Agostino – sembrano perdere di vista la vita beata, tutti desiderano la verità e questo desiderio si
manifesta con forza nel contro-desiderio del “non voler-essere-ingan-
175. Ivi, p. 197; trad. it., p. 256.
176. Ibidem.
177. Ibidem.
178. AGoSTino, Confessioni, trad. it. di G.Sommavilla, Casale Monferrato, Piemme, 2000, p. 286; d’ora in poi: Confessioni.
179. HGA 60, p. 197; trad.it., p. 256.
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nati”180. Gli uomini “gioiscono in un certo senso della verità e si danno
da fare per essa”181. Pur sentendo una tensione nella sua direzione, però,
essi non vivono nella verità, fondamentalmente perché si lasciano travolgere da altri impegni e occupazioni. Agostino afferma: “essi sono più
intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici, di quanto non li renda felici questa [la verità], di cui hanno un così tenue ricordo”182. Ciò nonostante egli mette in evidenza una tensione, una sorta di
contraddizione, insita nell’esistenza stessa, la quale viene ad espressione nel fatto che “quanti amano un oggetto diverso pretendono che l’oggetto del loro amore sia la verità”183. Heidegger chiarifica questa mistificazione sottolineando che nella vita fattuale gli uomini intuiscono in
qualche modo qualcosa di giusto e vivono in esso e per esso assumendolo come significativo.
Questa apertura implica una tensione verso la verità. “Gli uomini
vogliono che l’oggetto del loro amore sia la verità”184 e viene assunto
come vero ciò che si ama in uno specifico momento. in esso la verità
viene travolta, travisata e modificata e questo significa che “non si indietreggia soltanto dinnanzi al vuoto, ma anche e soprattutto, fondamentalmente, dinnanzi al ‘movimento’ verso di essa”185. l’amore per la
verità e quindi il desiderio di non voler essere ingannati travolgono pertanto gli uomini in un processo decadente. Per non ammettere di essersi ingannati, essi si radicano con forza nella loro situazione: “non si vogliono scollare da essa, adducendo quella che a loro appare una corretta motivazione, e cioè che non vogliono essere ingannati, ovverosia non
vogliono essere staccati da ciò che essi posseggono come verità. […] Si
rifiutano di essere convinti del loro errore. Uno sforzo, che però non è
autentico e radicale (caduta!), verso la verità li tiene saldi nell’errore”186. Agostino afferma che gli uomini, ingannandosi sull’autentica verità, “amano la verità quando splende, l’odiano quando riprende”; nella
parafrasi di Heidegger: “l’amano quando gli viene incontro in modo rilucente, e porta ad un comodo rallegrarsi in senso estetico come in ogni
180.
181.
182.
183.
184.
185.
186.
Ivi, p. 198; trad. it., p. 257.
Ivi, p. 199; trad. it., p. 258.
Confessioni, p. 286.
Ibidem.
HGA 60, p. 200; trad. it, p. 260.
Ibidem.
Ibidem.
61
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splendore dal quale ci si può far trasportare nel riposo. la odiano quando essa li incalza”. Continuando a riflettere sul tracciato agostiniano,
Heidegger constata nel proseguimento della sua analisi come questo
odio produca una fuga dell’esistenza dinnanzi a se stessa: quando la verità riguarda gli uomini in prima persona, cioè quando “mette in discussione la loro fatticità e la loro esistenza, allora è meglio chiudere gli occhi dinnanzi ad essa, per entusiasmarsi dinnanzi alle litanie corali inscenate dinnanzi a sé”187. nell’analisi di Agostino, però, secondo Heidegger, risulta evidente che “in questo chiudersi [Sich-selbst-Abriegeln]
dinnanzi alla verità essi amano la verità più che l’errore e in questo modo si sforzano e si protendono verso la vita beata”188. Quest’ultima –
compresa in senso esistenziale – è gioia per la verità e dà senso a tutte
le cose. È questo “cammino verso la verità”, questo percorso interno all’esistenza – sul quale poi si è verificata “l’irruzione della filosofia greca”189 – ad essere al centro dell’interesse di Heidegger.
Seguendo Agostino, egli sottolinea come porre dio, la verità, nella memoria e cioè nella sfera interiore dell’uomo non significhi porlo in
una sfera della coscienza, ma consideralo come colui che risponde alle
domande di chi lo vuole ascoltare. la possibilità di trovare dio dipende dalla disposizione di chi lo cerca: “tutto dipende dall’udire in modo
autentico, dal come dell’atteggiamento interrogativo, del voler udire”190. Ma anche in questo atteggiamento si annida la possibilità dell’errore:
Tutti traggono consiglio là da dove vogliono qualcosa, però non sempre odono ciò che davvero vogliono. Prendono per autentico ciò per cui si danno premura in quel momento, senza porsi domande, cioè vogliono udire qualcosa a
quel proposito. Ciò significa che in fondo non sono affatto in grado di udire,
ossia di mantenersi aperti; sono solo ansiosi di apprendere ciò che fa loro ‘comodo’ e non sanno trasformare ciò che odono in ciò che forse non fa loro ‘comodo’, ma di cui devono davvero preoccuparsi191.
la possibilità di condurre una vita beata aprendosi ad un orizzonte
divino dipende dalla disposizione esistenziale di chi si è posto alla ricer-
187.
188.
189.
190.
191.
Ivi, p. 201; trad. it., p. 261.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 203, it., p. 263.
Ivi, p. 204; it., p. 263.
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ca. Sottolineando come “la domanda ‘dove trovo dio?’ [sia] ribaltata nella discussione delle condizioni dell’esperienza di dio, che confluisce nel
problema ‘chi sono io stesso?’”192, Heidegger evidenzia la stretta connessione fra la ricerca esistenziale di dio e la struttura costitutiva dell’esistenza umana e passa, in questo modo, alla trattazione del secondo nucleo
tematico: la ricostruzione dei tratti fondamentali dell’esistenza. È in questo contesto che egli perverrà all’individuazione degli esistenziali già qui
intesi come “categorie ermeneutiche nel senso della storia dell’attuazione
e non categorie ordinative aventi carattere di atteggiamento”193.
Fino ad ora egli ha messo in risalto come la ricerca di dio costituisca l’esistenza dell’uomo. dio è l’orizzonte d’apertura a partire dal quale avviene la ricerca: esso va indicato formalmente e la decisione del
suo contenuto spetta al singolo. nell’ambito della ricerca di dio, specificato come vita beata, Agostino mette in luce una tendenza al peccato
e al decadimento. la verità è accolta quando fa comodo, è rifiutata
quando mette in discussione. da ciò deriva la tendenza mistificatrice a
considerare vero ciò che è a disposizione, a portata di mano, e non pone problemi. l’amore per la verità è tale da far apparire come vere proprio queste attività e mistificazioni. Tuttavia anche nell’errore decadente l’uomo è attratto dalla verità piuttosto che dalla menzogna ed è in
questo radicale e originario amore per la verità che si dà la possibilità
della svolta, ovverosia del superamento del peccato. Tale superamento
avviene nella giusta disposizione esistenziale all’ascolto.
in questo modo affiora una dinamica fondamentale dell’esistenza:
l’esistenza è cammino, ricerca della salvezza, dell’autenticità. in questo
cammino rimane imbrigliata in una dimensione inautentica. non solo
l’esistenza tende, propende quasi, all’inautenticità, quanto poi, prendendo tale dimensione come l’unica, l’assume come autentica, aumentando e radicalizzando il proprio errore. Ma poiché anche nell’errore e
nella mancanza di verità/autenticità, l’esistenza è amore di verità/tendenza all’autenticità, è nell’errore che va cercata la strada per giungere
alla vita beata. Bisogna passare attraverso l’errore per salvarsi. là dove
cresce il pericolo è la salvezza194. È quindi ancora nelle pieghe dell’esi-
192. Ibidem.
193. Ivi, p. 232; trad. it., p. 297.
194. la possibilità della salvezza è nell’amore per la verità: qui non compare ancora il tema della paura e dell’angoscia.
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stenza che va cercata, con l’aiuto della misericordia di dio, la possibilità della svolta, dell’autentica possibilità d’esistenza.
6.
La vita come molestia e prova ininterrotta
il carattere fondamentale con cui Agostino nel X Capitolo delle
Confessioni descrive la vita è la deformità. la vita non è una passeggiata, è deforme, in essa sono un peso a me stesso.
Tale deformità si materializza in una Zwiespältigkeit, una lacerazione fra tendenze diverse. la vita è “in multa defluere”195, un disperdersi in molteplici attività. essa si forma a partire da se stessa e si articola in diverse direzioni, mossa dal desiderio di raggiungere il piacere.
in questa tensione è instabile e insicura: oscilla fra il temere le avversità
nel benessere e il desiderare il benessere nelle avversità. in essa le cose
temute o desiderate sono poste in un orizzonte di attesa: non sono possedute, ma sono oggetto di una preoccupazione. Tale instabilità non trova un equilibrio, una sorta di via di mezzo in senso aristotelico e il peso consiste proprio nel contrasto fra la gioia fiduciosa e la disperazione.
l’uomo Agostino afferma di non sapere “da quale parte [sia] la vittoria”196; Heidegger definisce questa condizione umana: “una diabolica
lacerazione”197. Solo l’indolente, trasportato “in una monotona leggerezza e apatia”198, non la vede e non la esperisce. Al contrario, “chi esperisce ciò cerca di fissare la fine, di fermarsi”199.
la questione da affrontare pertanto, secondo Heidegger, è “proprio
in quale modo della preoccupazione queste esperienze preoccupate debbano essere compiute”200 per evitare il pericolo di assecondare la tendenza della cura verso il piacere e, in questo modo, di “cadere nell’inautentico”201.
È in questo quadro che si inserisce l’analisi delle diverse forme di
tentazione. essa non è una classificazione oggettiva, ma percorso di vi-
195.
196.
197.
198.
199.
200.
201.
HGA 60, p. 206; trad. it., p. 266.
Confessioni, p. 289.
HGA, p. 209; trad. it., p. 269 .
Ivi, p. 250; trad. it., p. 321.
Ibidem.
Ivi, p. 208; trad. it., p. 268.
Ivi, p. 209; trad. it., p. 269.
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ta, riportato nella confessione. Solo se visto dall’esterno “sembra che
Agostino ci voglia offrire una comoda classificazione delle differenti
direzioni della concupiscenza”202. Ad uno sguardo più attento è chiaro
che l’esposizione invece “si mantiene sempre nell’atteggiamento della
confessio: egli cioè confessa come ‘da’ e ‘in’ tali fenomeni gli vengano
tentazioni e come si comporti (o tenti di comportarsi) nei loro confronti”203.
Agostino compie la sua suddivisione delle diverse forme di tentazione, partendo da 1 Gv, 2, 15-17 in cui si afferma:
non amate il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, non è in lui
l’amore del Padre; poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita, cose che non vengono dal
padre, ma dal mondo.
Concupiscenza della carne e degli occhi e superbia della vita sono
per Agostino le tre forme di dispersione e quindi, secondo Heidegger,
tre forme di “pericolo”204 per l’esistenza.
nell’analisi delle diverse forme di concupiscenza carnis Heidegger mette soprattutto in evidenza la dimensione di incertezza propria
della vita. Agostino non può essere certo di sé, brancola nel buio. egli
non ha mai “la possibilità di richiamar[si] ad un momento per così dire
‘fisso’”205. l’esperienza dell’avere-se-stesso avviene in “un avanti e indietro”206. Come egli afferma: “nessuno deve sentirsi sicuro in questa
vita che fu definita tutta una prova. Chi poté diventare da peggiore migliore, può anche diventare da migliore peggiore”207. l’incertezza e
l’instabilità sono totali.
È in questa esperienza di vita come inquieto cammino che si insinua la tentazione da Heidegger individuata come quella generale tendenza a “trasformare l’incertezza in comodità”, che “si insinua nel movimento verso l’esistere ‘autentico’” e che consiste in un’assolutizzazione dell’orizzonte significativo mondano che “basta a se stesso” di-
202.
203.
204.
205.
206.
207.
Ivi, p. 211, trad. it., p. 272.
Ivi, p. 212, trad. it., p. 272.
Ivi, p. 211, trad. it., p. 271.
Ivi, p. 217, trad. it., p. 279.
Ibidem.
Confessioni, p. 295.
65
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venendo la fonte primaria di senso208. da ciò deriva una sorta di inversione nell’ordine gerarchico delle motivazioni, “un lasciarsi sviare nel
calcolo delle significatività”209 in cui si antepone l’orizzonte mondano
a quello divino e si trascura la dimensione del possibile a favore di
un’“insediarsi saldamente nel reale”. Tale dinamica è presente in tutte
le forme di peccato, a partire dalla trasformazione della necessità del
nutrimento in piacere, fino alla fruizione delle bellezze del creato dalle
quali gli uomini traggono la misura per giudicarne il valore, non la misura per farne buon uso, ponendo di conseguenza la bellezza “al servizio dell’affaccendarsi”210 mondano. la perdita del riferimento a dio è
evidente soprattutto in quest’ultima forma di concupiscenza della carne, in cui gli uomini si lasciano imbrigliare dalla bellezza perdendo l’orientamento verso la vera luce. Heidegger commenta:
essi non serbano per sé, nel loro riferimento a te [dio], la sicurezza e la vitalità dell’attuazione della cura e dell’impegno, bensì le spargono e le dispensano con leggerezza in dilettevoli lassitudini e piacevoli pigrizie. non le hanno
più a disposizione per una decisione autentica. Falliscono, benché in relazione al mondo degli altri si diano un’importanza artificiosa e assumano una posa artefatta da gaudenti e conoscitori di queste cose, comportandosi come se
avessero una confidenza e una familiarità particolari con il senso del mondo e
i misteri della vita211.
Se la concupiscenza carnis è stata caratterizzata come una tendenza a distrarsi nella carne stessa, la concupiscenza oculorum consiste nel
desiderio del “guardarsi intorno (non del darsi da fare) negli ambiti e nei
campi più diversi”212. la forma più diffusa di concupiscenza degli occhi è la curiosità213, “‘l’avidità del nuovo [Neu-gier]’, ‘curiosità vana’,
ammantata dal nome di cognizione e di scienza”214. nella curiosità è insito un pericolo in quanto essa può rivolgersi anche a ciò che può essere nocivo per l’uomo. la curiosità però non è pericolosa in primo luo-
208. HGA 60, p. 220; trad. it., p. 282.
209. Ivi, p. 219; trad. it., p. 281.
210. HGA 60, p. 220, trad. it., p. 283.
211. Ibidem.
212. Ivi, p. 223; trad. it., p. 286.
213. in HGA 64 viene stabilito il legame fra la concezione agostiniana e il fenomeno della curiosità proprio della dimensione deietta di esistenza. Cfr. HGA 64, p. 37.
214. HGA 60, p. 223; trad. it., p. 286.
66
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go in relazione al contenuto, ma in base al tipo di riferimento e di relazione che essa instaura con ciò che ci circonda. in essa infatti “il senso
del riferimento come tale è ostinato, sicché ostinato e primario è il senso del pieno videre, che determina tutte le esperienze effettive comprese quelle ultime e decisive”215. in questa prospettiva persino dio diventa “fattore dello sperimentare umano. egli deve dare risposta a una curiosità risoluta, presuntuosa e pseudoprofetica, vale a dire a un curioso
guardarsi intorno al suo riguardo, che non si subordina al senso del proprio oggetto ed è quindi una in-subordinazione”216.
la terza forma di tentazione non riguarda il rapporto con il mondo
circostante in senso stretto, quanto la modalità di compimento del sé. il
finis delectationis, in questo caso, è la “significatività propria”217, la
comprensione che l’esserci ha di se stesso.
Seguendo Agostino Heidegger analizza le deviazioni dall’autentico compimento del sè, prima in relazione agli altri, poi in relazione a se
stessi.
il primo gradino della perdizione nella modalità del compimento
del sé è il desiderio di farsi temere ed amare dagli uomini. in esso il sé
è completamente perso perché “l’esperire stesso si vede negli occhi,
nelle pretese, nei giudizi, nel gusto, ovvero nell’incapacità, nella volubilità e nella stupidità degli altri”218. Gli altri determinano il nostro modo di vederci. Un’accentuazione di questo desiderio di essere amati è il
“volersi farsi valere”, un considerarsi importante [Selbstwichtignahme],
per poter ottenere lodi. “Questo affaccendarsi in vista della lode, cioè
dell’‘essere tenuti in considerazione’ nel mondo degli altri, è una cura
che mira al piacere (agli altri)”219. in tale contesto il peccato consiste, da
un lato, nel lasciar determinare il nostro comportamento dagli altri, dall’altro, in uno spostamento della direzione della cura. esprimendo esplicitamente un giudizio di valore220, Agostino definisce tale spostamento
“una vergognosa arroganza [foeda iactantia]” facendone derivare l’assenza di amore e di timore innocente per dio e, quindi, il raggiungimento di una falsa beatitudine. Anziché amare e stimare dio, gli uomi-
215.
216.
217.
218.
219.
220.
Ivi, p. 224; trad. it., p. 290.
Ivi, p. 225; trad. it., p. 288.
Ivi, p. 228; trad. it., p. 292.
Ivi, p. 229; trad. it., p. 293.
Ivi, p. 235; trad. it., p. 298.
Ibidem.
67
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ni preferiscono essere amati e stimati al suo posto. in realtà è dio ad
aver donato all’uomo tutto ciò che lo rende degno di essere lodato221,
pertanto l’atteggiamento migliore dinnanzi a lui è la lode, piuttosto che
il desiderio di essere lodati. il rallegrarsi della lode infatti è una forma
di decadimento, “dato che dinnanzi a dio, l’uomo, quanto al suo significato, è un ‘nulla’”222. Al contrario “il dovere supremo” ma “non certo
comodo”223 è il rallegrarsi per il dono di dio. il comportamento autentico da tenere nei confronti degli altri pertanto è il lodare, piuttosto che
l’essere lodati. “Bisogna rallegrarsi del proprio genuino saper lodare;
poi del fatto di essere arrivati a vedere un genuino donum [dei], ad apprezzarlo e valorizzarlo. nel rallegrarmene sono io stesso preoccupato
soltanto del bonum come tale”224.
Anche relativamente a questa circostanza, Heidegger evidenzia
l’instabilità di Agostino. Questi infatti riconosce il pieno valore della
verità e la derivazione di questo bene da dio ed afferma che è preferibile il possesso della verità accompagnato dal biasimo di tutti, piuttosto
che essere in uno stato di follia accompagnato dalla lode degli uomini.
Tuttavia non riesce ad essere fermo nella sua posizione.
l’approfondimento delle forme della tentazione continua con l’analisi del prendersi per importanti non più di fronte agli altri, ma di fronte a se stessi, ovverosia del “Sibi placens, [del] farsi valere di fronte a se
stessi, compiacersi di fronte a se stessi, attribuire a se stessi un bonum”:
“in questa forma di tentazione c’è una possibilità di decadimento, tale
che in esso il sé e, quindi, l’esserci del singolo diventano frivoli, volatilizzandosi nel vuoto e nel nulla”225.
Agostino rileva diverse possibilità del gaudere dinnanzi a se stessi e del prendersi per importanti, evidenziando come la una comprensione della provenienza, del come e perché del bonum diventi sempre
più appropriata. nelle varie forme del gaudere dinnanzi a sé però il Sé
si prende decisamente ancora troppo sul serio, perdendo il centro della
propria esistenza.
221. Siamo ancora lontani dal concetto della dignità umana: l’esser degni di lode.
l’uomo piuttosto deve lodare per essere nel giusto.
222. HGA 60, p. 236; trad. it., p. 300.
223. Ibidem.
224. Ivi, p. 238; trad. it., p. 302.
225. Ivi, p. 239; trad. it., p. 304.
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la prima forma del godere di se stessi consiste nel prender sul serio ciò che si è fatto e si è capaci di fare, considerandolo come un bene.
Questo atteggiamento viene aggravato dal ritenere se stessi, piuttosto
che dio, autori di tale bene. il proprio sé è comunque preso troppo sul
serio anche quando non ci si ritiene autori del bene, ma “degn[i] della
dote di essersi in qualche modo res[i] meritevol[i] del bonum e della sua
assegnazione”226, oppure quando si ammette di possedere il bene immeritatamente, ex gratia, ma non si desidera condividerlo con gli altri,
traducendo la forma più radicale di superbia in “un pericoloso individualismo”227, dannoso “per il bene della collettività”228. nel compiacimento egoistico di fronte a se stessi si incarna la forma più radicale di
sviamento nel calcolo delle significatività e di inversione nel loro ordine gerarchico. in realtà però è in quest’ultimo gradino della perdizione,
nella più estrema contrapposizione fra l’annullamento che deriva dall’essere degno di un bene indipendentemente dalla propria prestazione
e solo per grazia di dio e l’affermazione di sé nell’egoistica fruizione di
tale bene, che si cela la possibilità di un superamento della tentazione
nella “genuina attuazione del sé”229.
la determinazione della vita, come “molestia”230, deforme lacerazione fra molteplici direzioni, costantemente tendente al desiderio, instabile e insicura, infatti, non nasce dal desiderio di giustificare la propria condizione di peccatore, ma mira ad una presa di distanza attraverso la quale poter ritornare a sé. Heidegger afferma: “‘deformis’ è la
mia vita. non per scusarsi, bensì proprio per allontanarsi da sé senza alcun riguardo e per conquistare se stesso da questa inesorabile distanza,
Agostino si chiarisce ora che la ‘vita’ non è una passeggiata ed è
senz’altro l’occasione meno adatta per darsi arie d’importanza”231. Secondo Agostino, l’uomo non conosce se stesso a meno che non impari
a conoscersi nella tentazione, la quale “costituisce la possibilità del perdersi e del conquistarsi”232. la molestia infatti è possibilità di degrado
la quale cresce quanto più si vive intensamente e “quanto più la vita
226.
227.
228.
229.
230.
231.
232.
Ivi, p. 239; trad. it., p. 305.
Ivi, p. 241; trad. it., p. 307.
Ibidem.
Ivi, p. 240; trad. it., p. 306.
Ivi, p. 242; trad. it., p. 308.
Ivi, p. 205; trad. it., pp. 264-265.
Ivi, p. 246; trad. it., p. 313.
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esperisce che nella sua piena attuazione ne va di essa stessa, del suo essere”233. la deformità e la molestia però non vanno intese, come avviene nell’ascesi greco-pagana o cristiana, come “una dotazione obiettiva
dell’essere umano, […] che si deve staccare e gettare”234.
È nella vita stessa, intesa come molestia, che, nella prospettiva interpretativa di Heidegger, si dà la possibilità del decadimento e l’occasione del conquistarsi.
nell’attuazione concretamente genuina dell’esperienza si dà la possibilità del
decadimento, però nella cura più propria e radicale di se stessi si dà nel contempo l’occasione piena, concreta ed effettiva di pervenire all’essere della vita più propria235.
il ritorno in sé è un “contro-movimento”236 esistenziale che prende
forma in uno “sperare decidente”237 il quale non raggiunge mai definitivamente una meta, dal momento che la vita umana è “una prova ininterrotta”238, un continuo e costante essere in cammino. esso è ispirato
dall’amore della verità e dal profondo desiderio di volere essere ingannati ed è innescato dal comando (a fin di bene), realizzato, secondo la
variante luterana, attraverso l’interazione di misericordia divina e disperazione umana239. Tale contro-movimento si esplica nella continentia e nella giustizia, modalità in cui si supera il decadimento relativo al
mondo del sé e al mondo degli altri.
Per evitare le difficoltà di Paolo e lutero240, Heidegger non si sofferma a lungo sulla giustizia, per quanto nella descrizione del superamento del desiderio di lode come “genuino abbandonarsi al mondo degli altri”241 sia possibile individuare un riferimento alla concezione luterana della giustizia intesa come “devozione”, e come “la dirittura
[Gerichtetheit] il modo di dirigersi autenticamente e secondo un sen-
233.
234.
235.
236.
237.
238.
239.
240.
241.
Ivi, p. 244; trad. it., p. 310.
Ivi, p. 245; trad. it., p. 311.
Ibidem.
Ivi, p. 205; trad. it., p. 265.
Ibidem.
Ivi, p. 206; trad. it., p. 266.
Ivi, p. 205; trad. it., p. 265.
Ivi, p. 211; trad. it., p. 271.
Ivi, p. 236; trad. it., p. 302.
70
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so originario nell’insieme dell’esperienza effettiva della significatività”242.
Maggiore attenzione è dedicata alla continentia. essa consiste non
nell’astensione, ma nel mantenere insieme le diverse inclinazioni della
vita evitando la dispersione e la distrazione nella molteplicità delle inclinazioni che in essa si presentano e si contrastano.
Una particolare forma di continentia è il superamento dell’individualismo egoistico. “nella cura estrema, più decisiva e più pura di se
stessi sta in agguato la possibilità della caduta più abissale e del vero e
proprio perdere se stessi”243. “il carattere satanico della tentazione” consiste nel fatto che la caduta non si arresta in nessun luogo e quindi può
essere sempre trasformata in qualcosa di importante mondanamente.
nell’ultimo stadio della tentazione, l’individualismo egoistico, però, il
sé è “ciò in cui e di fronte a cui si realizzano la grazia e il donum”244.
Ammettendo di essere degno di beni solo per grazia di dio, infatti, l’uomo svincola il proprio merito dall’opera compiuta, aprendo in questo
modo la possibilità del superamento. “nella modalità in cui il sé, relativamente alla prestazione, non assegna nulla a se stesso – proprio allora
tutto è abbandonato nel gioire di dio”245. l’esperienza di dio si antepone al compiacimento di sé e ogni cosa cade nel vuoto rispetto al sommo
bene. “il movimento nascosto attraverso cui l’esperienza di dio si antepone all’autocompiacimento che deriva dal prendersi per importanti fa
cadere ogni cosa nel vuoto, facendole perdere validità rispetto al summum bonum”246.
7.
Il problema dell’assiologizzazione
Heidegger ripete l’analisi della tentazione con l’intenzione di affrontare la questione della migliore gestione della vita molesta. egli sottolinea come la tentatio sia “formativa”, porti con sé “la possibilità” dell’autentico peso e sia fonte di rinnovamento per colui che si mette radicalmente in “questione”. Attraverso la tentazione esperisco l’angoscia,
242.
243.
244.
245.
246.
Ivi, p. 237; trad. it., p. 303.
Ivi, p. 240; trad. it., p. 307.
Ivi, p. 239; trad. it., p. 306.
Ibidem.
Ibidem.
71
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tuttavia in questa esperienza della miseria della vita mi è data la possibilità di comprendere che esistere significa vivere radicalmente nella
possibilità. “la mia vita è vita autentica”247, se compiuta nell’orizzonte divino: in questo caso “tutte le relazioni della vita e l’intera fatticità
sono talmente dominate e riempite da [dio] che ogni attuazione si compie dinnanzi a [lui]”248. Poiché però nella vita ciò avviene raramente e
con difficoltà e ogni volta si tratta di una vera e propria conquista, sono
peso a me stesso. il peso consiste nella tensione in cui vivo fra passioni
e desideri contrastanti. in questa dinamica si inserisce la tentazione, che
consiste nello scambiare il decadimento per qualcosa di autentico249.
essa è “storicamente presente”250, ovverosia in agguato in ciò che appartiene alla mia fatticità.
la sfida di Heidegger pertanto è quella di evidenziare il profondo
legame fra la dimensione storica della vita e la tentatio, in contrapposizione alla tendenza – già presente nel testo di Agostino e portata alle
estreme conseguenze da autori a lui contemporanei, come per esempio
Scheler – ad interpretare tale tensione in modo assiologizzante.
la base della sua argomentazione è offerta dal capitolo XXXii delle Confessioni in cui Agostino, presentando la propria debolezza e la
propria insicurezza, si interroga sulle sue forze e dubita di potersi fidare di sé medesimo. in questo modo, secondo Heidegger, è tematizzata
l’esperienza storica. la vita è una continua prova in cui chi poté divenire migliore, può anche ridiventare peggiore. in questo contesto la
chiave per comprendere l’autentico senso della storicità dell’esistenza
è, secondo Heidegger, il nescio, il non sapere da che parte sta la vittoria. Tale non poter prevedere che cosa accadrà deve divenire motivo di
apertura dinnanzi alle possibilità e non occasione per nascondersi a se
stessi e alla vita, in una chiusura [Abriegelung251]. la dispersione infatti offre in se stessa la possibilità della sua gestione autentica, ma l’uomo è bloccato, perché si pone in una dimensione d’attesa, ha un sapere
determinato circa il modo in cui le cose sono solite andare e ha la pre-
247. Ivi, p. 249; trad.it., p. 320.
248. Ivi, p. 250; trad. it., p. 320.
249. Ivi, p. 252; trad. it., p. 322.
250. Ivi, p. 253; trad. it., p. 323.
251. Si noti come la Abriegelung diventerà nella lezione del WS 1921/22 una delle categorie fondamentali per comprendere la motilità della vita.
72
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tesa di poter controllare in prima persona ciò che accade. nel nescio, nel
non sapere, invece ci si rimette a dio aprendo in questo modo la possibilità della “gestione” autentica (che poi si rileverà come assunzione su
di sé) della vita molesta.
Questo modo di concepire la “formazione” della vita a partire e attraverso la tentatio è profondamente polemico rispetto ad una concezione assiologizzante, secondo la quale, nell’accezione che Heidegger
dà a questo termine, la molestia è una dotazione obiettiva da staccare e
espellere dalla vita. Heidegger parte da questa definizione della tentazione:
il tentare, ovvero l’essere tentati, è un esperire in cui una direzione dell’esperienza in quanto così diretta in se stessa – in forza del suo pieno senso in questa piena fatticità – tenta quest’ultima e, attirandola, la chiama a sé, cercando
la preferisce nella direzione propria e precisamente in modo, che nel farlo, la
cura autentica va perduta252.
il pericolo dell’assiologizzazione consiste nel voler scindere la dimensione deietta dalla cura autentica e nel voler incastonare l’esistenza
in una gerarchia cristallizzata di valori legati fra loro quasi in modo
meccanico. Heidegger perviene alla chiarificazione di un modello contrapposto alla assiologizzazione, attraverso la citazione di un lungo passo dalle Enarrationes in Psalmos che qui riportiamo:
riconosci il retto ordine, cerca la pace. Sta tu soggetto a dio e la carne sia soggetta a te. Che cosa c’è di più giusto e di più bello? Tu soggetto al più grande
di te, inferiore soggetto a te. Tu servi al tuo Creatore, affinché ciò che è stato
creato per te sia al tuo servizio. non è infatti come segue l’ordine che riconosciamo e inculchiamo, cioè la carne soggetta a te e tu a dio, ma tu soggetto a
dio e tu alla carne. [...] Pertanto assoggettati prima tu a dio: successivamente,
da lui istruito e aiutato, buttati nella mischia253.
nell’assoggettamento a dio egli individua un punto focale a partire dal quale l’uomo istruito e aiutato si butta nella mischia, senza riferirsi ad una ferrea e rigida gerarchia di valori, ma basandosi solo sul suo
profondo riferimento a dio. Secondo Heidegger infatti “la gerarchia di
252. HGA 60, p. 253; trad. it., p. 324.
253. Ivi, p. 260; trad. it., p. 332.
73
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valori, con la corrispondente configurazione assiologizzata, manca l’interpretazione autentica” della vita. nel preferire un valore ad un altro,
in modo rigido e definito, si perde di vista il contesto dell’attuazione
della decisione. Mediante l’assiologizzazione si insinua nella vita il carattere di calcolo, di livellamento e di ordinamento. in questo modo “la
cura autentica è rovinata e vista come calcolo dissimulato”254.
in opposizione a tale interpretazione, egli sottolinea come la tentatio sia un esistenziale genuino e non vada fissata in una determinata assunzione di valore o disvalore. Una comprensione adeguata della tendenza alla tentazione insita nella vita e della sua possibilità di gestione
è possibile se si pongono all’ordine del giorno tali questioni: “come è
concepito il decadimento e che cosa significa in termini esistenziali? in
che misura è obiettivo, constatativo, normativo (teoretizzante, avente
carattere di atteggiamento)? in che misura è effettivo, relativo al sé, esistenziale, conforme all’attuazione?”255.
Per Heidegger ci sono “due interpretazioni della ‘molestia’ in linea
di principio diverse, che dipendono dalla possibilità di vedere i fenomeni che accadono”:
1. Molestia in quanto qualità, ovvero dotazione obiettiva, peso obiettivo, presente agente come cosa (un indurirsi in tal caso: far scomparire – togliere, eliminare – con mezzi obiettivi; il proprio stesso essere è uno stato, una qualità obiettiva).
2. Molestia in quanto ‘occasione’ della serietà, occasione che uno ha di modellarla innanzitutto in quanto tale, di renderla a me esperibile in quanto fatticità, ovvero di afferrarla in termini esistenziali, di avere così la vita nel ricordo e nell’attesa, accrescendo la serietà. (Porgere e sviluppare la possibilità esistenziale in quanto possibilità autentica)256.
Una analoga prospettiva emerge anche quando Heidegger evidenzia la modalità autentica del divenire problema:
decisivo è il come: i fenomeni incalzano sensibilmente di più nei contesti di
senso dell’attuazione. Tutto ciò che ha carattere di contenuto riceve di là il suo
senso. – Problema: come mi esperisco esperendo la tentatio. Quale modalità
della cura, della fatticità! 257
254.
255.
256.
257.
Ivi, p. 262; trad. it., p. 334.
Ivi, p. 258; trad. it., p. 330.
Ivi, p. 254; trad. it., p. 325.
Ibidem.
74
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la tentazione può essere compresa nell’orizzonte dell’attuazione
del sé storico; oppure in base ad un criterio di valore obiettivo-assiologizzazione.
Heidegger intravede la tendenza all’assiologizzazione della vita,
per quanto non in modo così marcato come in Scheler, anche in Agostino; a causa dell’elemento greco-platonico in essa presente. egli però
sottolinea che “tuttavia per l’interpretazione delle Confessioni non bisogna proseguire in tale direzione, bensì rimanere nel luogo in cui esse
sono assicurate; è a partire di là che va afferrato il disegno esistenziale,
tentando di dare inizio alla distruzione. d’altra parte è vero che in Agostino l’analisi assiologica non è solo supplementare, bensì domina completamente ogni considerazione”258.
Al contrario per Heidegger, l’esistenza ha “un carattere funesto”,
non adatto all’assiologizzazione. Pertanto “ciò che importa non è fuggire, bensì avere costantemente un confronto radicale con il fattuale. io devo averlo per giungere all’esistenza. Questo avere si chiama viverci dentro, non però cedere, ma nemmeno superare comodamente e assiologisticamente”259. Facendo riferimento al De triplice e de duplice di lutero, Heidegger afferma che peccato è il cedere e l’arrendersi, l’andare perduti, mentre l’atteggiamento autentico di fronte alla tentazione è il noncedere che si incarna nella fede. Heidegger si propone di fissare e di fare proprio in modo genuinamente effettivo il mondano, senza valutarlo
positivamente, secondo quanto è stato falsamente attribuito a lutero, e
senza fare compromessi, seguendo la variante cattolica del cristianesimo.
il suo obiettivo è quello di “cercare di ottenere quella fatticità che
‘forma’ esistenza”260. in questa ottica egli specifica: “la ‘molestia’ va
definita in termini esistenziali: non ‘peso’ – in senso greco-ascetico -,
bensì occasione della serietà. devo per prima cosa solo pre-formare la
molestia, non superarla falsamente”261.
Ciò presuppone uno sviluppo radicale della questione della molestia, ovverosia l’“appropriarsi in modo conforme all’attuazione della
moles, in quanto qualcosa di sviante, non lasciarla stare lì come cosa e
‘natura’, bensì afferrare il senso della fatticità, attuarlo in termini esi-
258.
259.
260.
261.
Ivi, p. 261; trad. it., p. 333.
Ivi, p. 266; trad. it., p. 338.
Ibidem.
Ibidem.
75
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stenziali e comprenderlo così storicamente nel ricordo e nell’attesa. dare alla vita questa fatticità e chiarezza esistenziali, vale a dire accrescere la serietà!”262.
ora per Heidegger, che interpreta Agostino, importante è il contesto
effettivo dell’attuazione: l’espressione “um Gottes Willen, ‘per’ amore di
dio” vuol dire “in termini fenomenologici” “‘volere’ l’esistenza di dio,
ovvero volere conquistare l’attuazione autentica in quanto esistenziale”.
Heidegger specifica come “decisiva qui non è una predilezione di valori
– il risalto [Absetzung] costituisce un fraintendimento teoretico del fenomeno vero e proprio – bensì la cura esistenziale (attuazione dell’esistenza)”263.Tale cura avviene nella fede intesa come “il genuino, radicale
amore di sé (l’egoismo assoluto)” e come “il genuino, assoluto amore di
dio (dedizione assoluta)”; laddove Heidegger specifica “l’essere-‘assoluto’ [das Absolut-Sein] non è essere-‘generale’, da dissolversi nel legale, bensì […] radicale, concreto, storico ‘essere il singolo’ [das Der-Einzelne-Sein]”264. in contrapposizione a tale atteggiamento c’è l’orientamento al “Summum bonum assiologizzato”265, che trasforma l’intero
comportamento in un esteticismo qualsiasi. Heidegger però conclude:
dato che in ultima analisi ciò che importa è l’esistenza effettiva, ed è in essa
che la distruzione è propriamente vissuta e ha senso, tutto ciò che va distrutto
dev’essere esplicato anch’esso, in definitiva, in relazione al suo ‘come’. il
compito è quindi il seguente: vedere quel passaggio inespresso che finché si
vive solo nella ‘cosa’ stessa e, ad esempio si discute, non si è in grado di ottenere. il passaggio inespresso si può ‘vederlo’ soltanto entro un’anticipazione
autentica (esistenziale) come tale. e ciò che importa è seguire con precisione i
passi senza lasciarsi sedurre da alcuna convenzione266.
È in questo contesto che si inserisce la riflessione sulle tesi luterane di Heidelberg alle quali abbiamo già fatto riferimento. Sono tali tesi
ad offrire l’orizzonte e la chiave dell’interpretazione non assiologizzante del movimento dell’esistenza. Heidegger infatti sottolinea come “il
problema della teoria generale dei valori [sia] in relazione con il platonismo e con la dottrina del summum bonum, in particolare con la conce-
262.
263.
264.
265.
266.
Ivi, p. 259; trad. it., p. 331.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 260; trad. it., p. 332.
Ivi, p. 269; trad. it., p. 342.
76
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zione della via mediante la quale il summum bonum diventa accessibile”.
il legame fra platonismo e dottrina cristiana si basa però su un’errata interpretazione da parte dell’intera filosofia patristica del passo paolino
della lettera ai romani, cap. i, 19-20. esso è stato assunto come prova
del platonismo di Paolo e come prova della possibilità di risalire al dio
invisibile tramite le opere del creato. la frase “a partire dalla creazione
del mondo, l’invisibile di dio si rende visibile al pensiero per mezzo delle sue opere” ritorna costantemente negli scritti patristici e dà la direzione all’ascesa (platonica) dal mondo sensibile a quello sovrasensibile.
Secondo Heidegger
ciò costituisce tuttavia un fraintendimento del passo paolino, che soltanto lutero per primo ha compreso correttamente. nelle sue prime opere lutero ha
inaugurato una nuova comprensione del cristianesimo delle origini, benché in
seguito sia caduto vittima egli stesso del peso della tradizione, dando inizio così allo sviluppo della scolastica protestante. le conoscenze che caratterizzano
il primo periodo di lutero sono decisive per i rapporti intellettuali fra il cristianesimo e la cultura – un fatto questo, che oggi, nel bel mezzo della preoccupazione per il rinnovamento cristiano-religioso viene disconosciuto. la concezione di lutero è chiaramente espressa nelle Tesi di Heidelberg267.
in esse lutero presenta la natura corrotta dell’uomo e la sua tensione verso la salvezza, la quale non può essere raggiunta attraverso l’adempimento della legge. il solo tentativo di raggiungere la salvezza attraverso l’orientamento a regole certe e riconoscibili attraverso l’intelletto infatti porta alla dannazione e alla disperazione. Tuttavia questa situazione di totale annullamento dell’uomo dinnanzi a dio corrisponde
alla logica divina dell’opera propria nell’opera aliena secondo la quale
dio annulla l’uomo per poter compiere la sua autentica opera di redenzione. Questa concezione dell’uomo e del suo rapporto a dio è, come
abbiamo visto, radicalmente contrapposta a quella della Scolastica, la
quale fonda l’autorità della Chiesa sulla dimostrazione razionale dell’esistenza di dio e sulla possibilità di poter accedere altrettanto razionalmente a tale dio attraverso la conoscenza e il riferimento ai suoi comandamenti. la contrapposizione alla Scolastica da parte di lutero deriva quindi da una opposizione al dominio della ragione sulla quale basare la possibilità della conoscenza di dio attraverso il creato e la certezza delle norme e dell’autorità della Chiesa.
267. Ivi, p. 282; trad. it., p. 359.
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il rifiuto della ragione e della gloria si traduce in una accettazione
della dimensione umana di dolore: dio è nel dolore e nella sofferenza.
la molesta vita fattuale non può essere superata in vista del mondo celeste a cui poter accedere attraverso un retto comportamento. Bisogna
saper vivere nella polarità senza assiologizzare la vita, contrapponendo
una dimensione all’altra nell’ottica di un suo superamento.
Attraverso l’interpretazione delle lettere di Paolo, Heidegger ha
evidenziato la contrapposizione fra legge e grazia come due dimensioni dell’esistenza, individuando nell’esperienza della croce il punto di
passaggio, per poi proiettare tale contrapposizione in un orizzonte temporale caratterizzato dalla opposizione di attesa e speranza.
egli ha messo poi in moto tale contrapposizione radicandola nella
dinamica dell’esistenza come molestia, lotta fra direzioni diverse tendenti al peccato e tensione verso la salvezza, attraverso l’analisi del libro X delle Confessioni. Qui Agostino presenta la vita come inquieto
essere in cammino, ricerca della vita beata. All’interno di tale ricerca si
insinua una tendenza alla mistificazione, in base alla quale dall’interazione dell’eccesso d’amore per la verità e la difficoltà del suo raggiungimento deriva il desiderio di assumere come autentica verità ciò che
non lo è. Tale dinamica ha al suo interno però la chiave della sua fluidificazione nel desiderio umano di non voler essere ingannati il quale permane anche nella situazione di maggiore lontananza esistenziale dalla
verità. la caduta libera del peccato si interrompe nel punto più alto di
singolarizzazione dell’esistenza. il punto di cesura si trova all’interno
del compimento del sé e dipende dall’orizzonte assunto attraverso
un’anticipazione che permette di vedere da un’altra prospettiva la situazione in cui siamo quotidianamente immersi. A tale anticipazione si
perviene attraverso un atteggiamento risoluto, passo dopo passo, senza
lasciarsi sedurre da alcuna convenzione. l’uomo nuovo si esplicita in
relazione al come del suo compimento: l’acquisizione dell’orizzonte divino si risolve in un radicale, concreto, storico essere-il singolo.
la chiave interpretativa di tale dinamica dell’esistenza è fornita
dalla teologia della croce di lutero, il quale sospende qualsiasi riferimento ad un sistema normativo e ad un ordine gerarchico di valori, individuando la possibilità della salvezza nell’acquisizione dell’orizzonte divino, mediante l’esperienza della croce e del dolore. la salvezza è
nella vita fattuale stessa come molestia: non si tratta di uscire dal mondo, ma di viverci, assumendone polarità e contraddizioni.
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CAPiTolo ii
onToloGiA dellA ViTA ConTro onToloGiA
dellA TeCHne: lUTero e AriSToTele in diAloGo
Non è possibile dare una norma univoca e assoluta
al nostro essere caratterizzato da Jeweiligkeit,
Si tratta di formare l’essere dell’uomo
in modo da renderlo capace di mantenere il centro.
Questo però non significa altro che afferrare l’attimo.
MArTin HeideGGer,
Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (1924)
1.
La radice religiosa del filosofare
È con la duplice intenzione di distruggere l’ingenuità dell’ingerenza del pensiero dello Stagirita nella comprensione cristiana della vita e di elevare le strutture di vita cristiana ad una comprensione filosofica che Heidegger si dedica a partire dal semestre invernale del
1921/22 ad un confronto estremamente produttivo con Aristotele. egli
assume una duplice prospettiva: da un lato critica l’ontologia aristotelica, intesa come un’ontologia della produzione [poíesis/téchne]1; dall’altro mette in luce anche nel pensiero di Aristotele, elementi utili alla
formulazione di un’ontologia della vita e dell’esistenza.
Un importante passo in questa direzione è quello compiuto nella
prima lezione dedicata al pensiero di Aristotele, quella del 1921/22,
1. nel Natorp-Bericht, Heidegger presenta la posizione esposta in modo sintetico in: HGA 62. Cfr. Bn, pp. 373-375; trad. it., pp. 44-45. Un’esposizione dell’interpretazione heideggeriana dell’ontologia aristotelica è presente in: MinCA [2006].
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pubblicata con il titolo Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele.
Introduzione alla ricerca fenomenologica. È proprio dall’elaborazione
del manoscritto di questa lezione che nascerà Essere e Tempo. l’orizzonte dell’analisi è chiarito negli appunti pubblicati in appendice in cui
Heidegger, pensando all’introduzione del suo libro, ragiona su come
presentare e giustificare il suo lavoro.
la questione fondamentale affrontata nella lezione è la filosofia
stessa: la sua propria essenza e la sua concreta attuazione. È questa problematica a determinare l’impostazione dell’interpretazione di Aristotele, fornendone il criterio, il metodo e l’estensione. Heidegger afferma:
le ricerche che seguono non hanno in verità né l’intenzione di porre in opera
un recupero filosofico e un’apologia di Aristotele, né tanto meno mirano a un
suo rinnovamento per dar vita ad un aristotelismo rammendato alla meglio con
i recenti risultati delle scienze. obiettivi di questo genere non sono adatti ad
una seria ricerca filosofica, quand’anche pretendano di richiamarsi a kant o a
Hegel. Queste interpretazioni delle lezioni e dei trattati aristotelici nascono
piuttosto da una concreta problematica filosofica, e però in forma tale che questa esplorazione della filosofia aristotelica non viene a essere solo un’appendice accidentale, un’‘integrazione’ o illustrazione ‘sotto il profilo storico’, ma
costituisce di per se stessa un momento fondamentale di questa problematica2.
Seguendo il filo conduttore della comprensione della vita fattuale
e del radicamento della filosofia in essa, Heidegger illustra la precoce
“grecizzazione” della vita cristiana e cioè quella situazione in cui “già
le stesse condizioni di vita del cristianesimo originario erano maturate
in un ambiente la cui vita tendeva ad esprimersi in una direzione determinata, non da ultimo dall’interpretazione dell’esistenza e della concettualità (terminologia dei Greci)”3. egli crea un insieme problematico in
cui l’interpretazione di Aristotele è difficilmente separabile dalla formulazione del suo pensiero. Un particolare esempio di questo modo di
procedere è dato dall’elaborazione filosofica della temporalità tipica
dell’esperienza storica della vita proto-cristiana.
Partendo dall’affermazione aristotelica, secondo la quale il tempo
è la misura del movimento, e procedendo in analogia ad essa, Heidegger ricostruisce le categorie in cui si esprime la motilità della vita4, at2.
3.
4.
HGA 61, p. 11; trad. it., p. 47.
Ivi, p. 6; trad. it., p. 42.
Cfr. WeiGelT [2002].
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traverso un’elaborazione ibrida del movimento, in cui le categorie tratte dall’analisi della vita cristiana che riproducono il modello della dinamica di peccato-caduta e salvezza e quelle tratte da Aristotele (non dalla Fisica – come una trattazione del movimento lascerebbe presupporre, ma dall’Etica Nicomachea) si intrecciano e si sovrappongono.
la pregnanza di questa operazione potrà essere colta se inserita nel
quadro complessivo delle riflessioni heideggeriane. Al motto che Heidegger intendeva anteporre alla lezione e al suo significato per l’interpretazione nel suo insieme si è fatto già riferimento. A margine del corpo principale della lezione Heidegger annota il suo programma:
Seguire in termini indicativo-formali la motilità della fatticità, aprendone di
volta in volta le strutture, tendendo ad una situazione decisiva fondamentale.
Al tempo stesso, elaborazione del senso di motilità del filosofare, interpretazione fenomenologica. Così che, volta per volta, un grado interpreti l’altro.
[…]. Quindi contro-movimento indicativo-formale e metodologicamente interpretativo che torna indietro fino al punto di partenza nella fatticità, in modo
tale che l’elemento del metodo, cioè quello espressamente appartenente all’attuazione, venga all’appropriazione in forma genuina. Così emerge la storicità,
che nel corso di questa intera interpretazione viene portata all’ad-vento in una
forma altamente riflessa, ma proprio per questo tanto più genuinamente autonoma5.
il suo obiettivo è quello di portare ad espressione la storicità della
vita partendo dalla sua motilità fondamentale, per pervenire alla situazione fondamentale della decisione, intesa come contro-movimento.
Tale operazione è rivolta “a coloro che sono pre-socratici in senso stretto e che a Socrate vogliono innanzitutto arrivarci e arrivarci sul serio,
per i quali una scuola di ‘sapienza’ è qualcosa per cui non esiste né una
definizione né una ‘geometria’”6. Questa impostazione prevede che come “norma e scopo”7 della conoscenza filosofica non possa essere presa “la verità assoluta che rappresenta in sé una ‘droga soporifera’”8.
È di fondamentale importanza per il nostro discorso che Heidegger
giustifica la necessità di una nuova fondazione della filosofia, proprio
partendo da una riflessione sulle contraddizioni legate alla formulazione di un’etica assoluta.
5.
6.
7.
8.
HGA 61, p. 183; trad. it., p. 212.
Ivi, p. 191; trad. it., p. 218.
Ivi, p. 164; trad. it., p. 193.
Ibidem.
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Uno può progettare un sistema assoluto dell’eticità, dei valori etici e dei loro
rapporti validi in sé, e restare in tutto questo non dico un uomo moralmente
cattivo – un argomento simile qui sarebbe fuori luogo, almeno in prima istanza – ma può, proprio in virtù di questa forma di legalità e di questi rapporti di
validità assoluti, restare cieco di fronte a oggetti e a riferimenti che nell’eticità
vivente – ovvero nella fatticità come modo del suo possibile senso d’essere e
d’attuazione – hanno il vizio di riproporsi regolarmente. Magari si dice: ‘qualche volta’ e già si immagina di esagerare; del resto si sa, in fondo, l’uomo è un
ben triste soggetto – ma del resto, non meno in fondo, ciò non confuta il filosofo più di tanto.
nel confronto con dei rapporti di valore di tipo assoluto si può ben constatare
che solo di rado o addirittura mai li si ‘realizza’ del tutto. Con una certa aria di
modestia si può prendere atto dell’insufficienza rispetto all’ideale. Ma tutto
questo in fondo non ha alcuna importanza e viene subito dimenticato. A che
scopo voler mettere in conto queste spiacevoli imperfezioni, e per di più in sede di principio, come se avesse voce in capitolo nella determinazione del senso d’essere della vita fattizia? l’importante è che si resti comunque l’indefesso rappresentante di un’etica assoluta.
il fatto che ogni ora e ogni giorno ci si muova e ci si incontri all’interno di menzogne, compromessi o peggio, il fatto anzi che a volte non ci si incontri proprio per nulla, dopotutto è cosa fin troppo nota perché se ne possa trarre l’occasione per annunciare ai contemporanei una nuova filosofia9.
eppure – come si evince dal già citato motto che presiede a tutta
l’introduzione ad Aristotele e in prospettiva a tutta l’analitica esistenziale10 – Heidegger si auspica un nuovo inizio, un vero inizio, che egli,
citando kierkegaard, intende raggiungere “intimidendo gli uomini e richiamandoli all’ordine col discorso della disperazione e della rabbia“11.
dall’impossibilità di progettare un sistema assoluto dell’eticità deriva il
desiderio di una nuova filosofia che dia voce alla dinamica peccato/salvezza attraverso la disperazione e il contro-movimento. Ma il vero inizio “ha il suo tempo”12, o meglio, implica una nuova comprensione del
tempo e del suo rapporto alla vita.
Sarà la filosofia come appropriata modalità d’accesso alla problematicità della vita a fornire la possibilità del nuovo inizio, in quanto movimento contro-rovinante che implica la possibilità di salvezza dalla
tendenza al rovinio propria della vita stessa.
9.
10.
11.
12.
Ivi, p. 164; trad. it., p. 194.
Ivi, p. 182; trad. it., p. 211.
Ibidem.
Ivi, p. 186; trad. it., p. 215.
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Questa critica all’etica assoluta acquisisce ancora più pregnanza se
si considera che anche alla base della lettura heideiggeriana di lutero si
colloca, fra l’altro, il desiderio di criticare il sistema assiologico e normativo della teologia della gloria. non si ritiene di allontarsi troppo dal
vero nell’affermare che la molla che spinge Heidegger al nuovo inizio
non è soltanto la ricerca di un nuovo atteggiamento della filosofia, ma
con la filosofia e attraverso di essa.
Bisogna a questo punto chiarire come la dimensione religiosa rappresenti la radice di tale concezione filosofica. È Heidegger stesso a fornire un importante indizio in questo senso, quando negli appunti per
l’introduzione del libro che andava progettando afferma:
la problematicità non è un che di religioso, ma è ciò che solo è in grado di portare nella situazione di una decisione religiosa. nel filosofare non mi comporto religiosamente, anche se come filosofo posso essere un uomo religioso.
‘l’arte però sta in questo’: filosofare ed essere autenticamente religiosi, vale a
dire assumere il proprio compito mondano, sul piano della storicità e della storia, nel filosofare, in un fare e in un concreto mondo del fare, non in ideologie
e fantasie religiose13.
Quando quindi Heidegger afferma che “la filosofia deve essere atea in senso di principio”14, lo fa nella consapevolezza che essa “non deve avere l’ardire di possedere o di determinare dio”15 e che quanto più
essa si presenta, come “un via-da-lui”, tanto più diviene il più proprio
e difficile “presso di lui”16. Atea per principio, la filosofia deve scegliere “se stessa in modo decisivo”17 e deve porre “come suo oggetto la vita effettiva in relazione alla sua effettività”18.
rispetto all’articolazione fondamentale del fenomeno vita, valga
in termini generali ciò che Heidegger annota a conclusione della lezione, riguardo alla tentazione:
il carattere della tentazione [das Tentative] – non è religioso. Per esperirlo non
occorre che sia viva una qualche esperienza fondamentale di tipo religioso; va
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Ivi, p. 197; trad. it., p. 224.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
nB, p. 363; trad. it., p. 31.
Ibidem.
83
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detto però che solo attraverso il cristianesimo diviene visibile la tentazione come carattere della motilità; visibile: esperibile nella vita fattuale, passibile di
essere assunta nell’‘(io)sono’. Questo significa però contemporaneamente che
il carattere della tentazione non è un in sé, ma un modo nella concretizzazione
– in quanto respinta, accolta con indifferenza, presa con interesse o afferrata;
in un modo o nell’altro essa è presente nella vita ‘non-cristiana’ di oggi19.
Pur derivando la descrizione delle fondamentali categorie della vita dall’esperienza religiosa, Heidegger intende utilizzare tali strutture
tematiche in modo “indicativo formale”, per evitare il fraintendimento
dei caratteri dell’esistenza intendendole come “qualità fondamentali,
stabili e fisse di un essente”, spacciandole così “per le determinazioni
fondamentali dell’esserci della vita“, correndo il rischio di “istaurare
una metafisica ontologica alla maniera di Bergson o di Scheler”20. in
questo modo egli si pone l’obiettivo di neutralizzare l’elemento valutativo. nell’analizzare, per esempio, la tentazione per Heidegger “non si
tratta di dimostrare, con una documentazione storica, che la vita fattizia
è esposta a delle tentazioni, ma che il suo proprio senso d’essere è tale
che essa si es-pone ogni volta al suo mondo”21. la sua intenzione è piuttosto di evidenziare la tentazione “in un senso formale e, dunque, né
propriamente etico né specificamente religioso”22 è una dinamica interna alla vita stessa, che fa riferimento alla condizione di povertà e di
mancanza tipico della vita. Se e come tale intenzione trovi conferma e
applicazione nell’opera di Heidegger è quanto qui di seguito si intende
verificare nell’analitica esistenziale.
2. Le categorie ibride del movimento: il primo confronto con Aristotele
Sottolineando come l’interpretazione di Aristotele si inserisca in
un progetto più complessivo di cui egli ha già ben presente le varie fasi
e, in qualche modo anticipando il lavoro che andrà a compiere nei semestri successivi, dedicati ad una esplicitazione dei concetti fondamen-
19.
20.
21.
22.
HGA 61, p. 154; trad. it., p. 183.
Ivi, p. 141; trad. it., p. 171.
HGA 61, p. 142; trad. it., p. 172.
Ibidem.
84
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tali della filosofia aristotelica23, Heidegger chiarifica le linee generali
del suo lavoro come segue:
le seguenti indicazioni di senso relative a delle categorie fenomenologiche
fondamentali e al loro contesto categoriale sono presentate qui solo per quel
tanto che è necessario per le analisi successive. la loro autentica interpretazione ed acquisizione originaria, almeno rispetto a una determinata parte (problema dell’attuazione e temporalizzazione – fatticità), dovrà occuparci in forma estesa e particolareggiata nel corso della stessa interpretazione di Aristotele, in connessione inscindibile con l’interpretazione del senso categoriale24.
egli considera solo “un atteggiamento di comodo” – espressione
addirittura della “bancarotta della filosofia” – l’invito a non usare più
l’“espressione” vita, a causa delle sue “molte sfaccettature”25 e dichiara di voler superare la “singolare vaghezza”26 di tale fenomeno attraverso l’elaborazione di “un concetto rigoroso e filosoficamente incisivo”27.
Heidegger perviene a tale concetto, sottolineando come in tutte le
espressioni verbali e nominali ricorra l’equivalenza: “vita = esserci, ‘essere’ in e attraverso la vita”28. la vita andrà articolata nelle sue fondamentali categorie, nella consapevolezza che “le categorie non sono
un’invenzione o un insieme di schemi logici per sé, delle griglie, ma sono invece, in modo originario, in vita nella vita stessa; in vita per formare la vita. esse hanno il loro proprio modo di accesso, che però non
è tale da essere estraneo alla vita stessa, da piombare su di essa dall’esterno, ma è invece la maniera prioritaria in cui la vita perviene a se
stessa”29 ed è posta dinnanzi alla decisione circa se stessa.
Prima di passare all’analisi delle singole categorie, anticipando la
distinzione fra esistenza autentica e inautentica e il loro rapporto, Heidegger mette in luce una tensione di fondo presente nella vita:
Ciò che fin da principio resta da osservare è quanto segue: la vita riceve in ogni
23. Sul legame che intercorre fra la formalizzazione delle categorie della motilità della vita e l’interpretazione teologico-cristiana della vita, si veda: SoMMer [2006], pp. 1-28.
24. HGA 61, p. 77; trad. it., p.113.
25. Ivi, p. 86; trad. it., p. 121.
26. Ivi, p. 80; trad. it., p. 114.
27. Ivi, p. 82; trad. it., p. 116.
28. Ivi, p. 84; trad. it., p. 118.
29. Ivi, p. 86; trad. it., p. 120.
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caso una modalità [Weisung] fondamentale e cresce al suo interno. È possibile che si giunga ad una presa di consegna esplicita (nei confronti del mondo
collettivo, ad esempio), ma non è necessario che ciò avvenga. le modalità decadono [fallen zu], cadono a fianco (slittamenti!). il mondo ambiente ad esempio si determina a partire dalla frequentazione-di, e tuttavia il carattere di mondo ambiente è più comunemente definibile attraverso gli altri. dalla presa di
consegna esplicita la vita può però ritornare di nuovo al non-evidenziamento
del ‘vivere’ nel rispettivo mondo; in questo caso però, il carattere d’attuazione
è comunque diverso da quello di una maniera non evidenziata di vivere in un
mondo che non sia mai stato attraversato da alcun evidenziamento30.
Una tale dinamica può essere approfondita solo attraverso la specificazione delle ulteriori categorie del senso di riferimento della vita:
l’inclinazione, la distanza e la chiusura e le loro interne articolazioni.
esse contengono già nella loro espressione terminologica l’indicazione
del movimento ed è attraverso la loro interpretazione che Heidegger intende elaborare “la precognizione necessaria per l’afferramento radicale del senso fondamentale del ‘movimento’”31, che egli ha già presentato e descritto come “inquietudine”32.
la prima categoria presa in considerazione è l’inclinazione [Neigung]. essa consiste nella tendenza, implicita nella vita, a prendersi cura di determinate significatività e a direzionarsi sempre verso un mondo che è il suo. Tale tendenza conferisce alla vita una gravità che le deriva da se stessa, una direzione di gravitazione. A partire da questo carattere si temporalizza, nel modo della rilucenza, l’essere-incline. Questo essere-incline spinge la vita nel suo mondo e ve la tiene stabilmente: la vita trova se stessa là dove il proprio essere incline la stabilizza. in
questo modo le significatività che mano a mano vengono incontro trascinano con sé la vita, la quale, nel suo essere-incline, giunge alla modalità dell’essere-trascinata e si abbandona ad una certa pressione del
suo mondo che la distrae, la fa vivere alla giornata, in una dimensione
di autosoddisfazione fine a se stessa. Co-originaria all’inclinazione è la
distanza, con la sua struttura categoriale articolata in cancellazione della distanza, svista, perdere di vista, distinzione nell’essere-incline e
iperbolicità. nel riferirsi al suo mondo nel prendersi cura, la vita ha il
30. Ivi, p. 98; trad. it., p. 130.
31. Ivi, p. 102; trad. it., p. 134.
32. Ivi, p. 91; trad. it., p. 126.
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suo mondo, le singole significatività dinnanzi a se. nell’inclinazione
però questo carattere viene rimosso, coperto e trascinato nella distrazione. la distanza che rende possibile l’inclinazione viene trascinata
con sé da quest’ultima e diviene cancellazione della distanza. Vivendo
nell’essere-incline e nella distrazione, la vita infatti non mantiene una
distanza: prende una svista, perdendo di vista se stessa, non cogliendosi nella misura ad essa adeguata. in questo modo diviene iperbolica,
cioè cerca in maniera frenetica le distanze e le differenze all’interno delle significatività in cui vive. l’ultima categoria in cui si articola il senso di riferimento è la chiusura della vita dinnanzi a se stessa, avvenuta
nella duplice forma dell’inclinazione e della soppressione di distanza.
in questa tendenza “la vita si chiude contro se stessa e tuttavia, proprio
questa chiusura, non può liberarsi di sé. nel suo incessante guardare altrove, essa si cerca sempre e si incontra proprio là dove non se lo aspetta, per lo più proprio nei suoi mascheramenti”33. Heidegger definisce in
sintesi il carattere della chiusura in questi termini:
il carattere del senso di riferimento che definiamo ‘chiusura’ caratterizza il
modo peculiare in cui la vita fattizia si dà cura di sé nel suo mondo, temporalizzandosi (di fatto) contro se stessa, nell’apprensione e nella cura crescente
per il suo mondo, quella che è propriamente una non-cura: una spensieratezza
(essa stessa una cura apprensiva); così nella cura la vita c’è ancora, ma appunto come ciò che nella cura e nel suo adempimento è liquidato, annientato. nell’apprensiva chiusura contro se stessa la vita fattizia dà forma a delle possibilità sempre nuove di significatività delle quali può occuparsi, assicurandosi così il suo ‘significato’34.
Con questa molteplicità e infinità di significati la vita si abbaglia e
si acceca, lasciando effettivamente fuori se stessa proprio nel gesto di
difendersi positivamente. in questo modo la vita assume lo specifico carattere d’attuazione dell’ellittico. in sintesi: “nella sua presa di consegna
la vita fattizia si fa strada da sé. inclinandosi, rimuovendo la distanza e
chiudendosi in direzione della vita”35.
A conferma della tesi sopra enunciata, secondo cui alla base dell’elaborazione della filosofia aristotelica si colloca la lettura critica di
33. Ivi, p. 107; trad. it., p. 138.
34. Ivi, p. 198; trad. it., p. 139.
35. Ibidem.
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lutero, si noti come nelle categorie dell’inclinazione – con la sua articolazione in essere incline, essere trascinato, distrazione, autosoddisfazione; della distanza – con la sua articolazione in cancellazione della distanza, svista, perdere di vista, distinzione nell’essere-inclini, iperbolicità; e della chiusura – con il suo carattere di abbagliamento e accecamento e la sua ellitticità, trovi nuovamente voce, su un piano che vuole
essere indicativo-formale, l’elencazione delle tappe e dei gradi della
perdizione presente nel commento luterano alla lettera ai romani, la
cui lettura tenne così impegnato il giovane Heidegger ancora nel convitto teologico dell’Università di Friburgo. Così lutero:
Considera dunque le tappe e i gradi della perdizione [Verderbens]. il primo stadio è l’ingratitudine ovvero l’omissione della gratitudine. […]. l’ingratitudine
è frutto dell’autocompiacimento [Selbstgefälligkeit] in cui si è soddisfatti di
ciò che si è ricevuto, ma come se non fosse stato ricevuto, proprio perché non
viene preso in considerazione colui che ha dato. il secondo grado è la vanità
[Eitelkeit]. in questo caso ci si pasce di se stessi e delle creature, e si gode di
ciò che torna a proprio comodo. il terzo passo è l’accecamento [Verblendung]:
privati della verità, immersi nella vanità, si diventa necessariamente ciechi in
ogni disposizione del cuore ed in ogni pensiero, poiché, in modo radicale, si
sono volte le spalle a dio. e quand’ormai si è immersi nelle tenebre, che cos’altro si può fare, se non ciò cui tiene dietro chi sbaglia da stolto? infatti un
cieco sbaglia molto facilmente, anzi sbaglia sempre. Così al quarto posto viene l’ingannarsi a proposito di dio. Questo è l’errore peggiore, poiché genera
l’idolatria. essere caduti in esso significa aver toccato il fondo dell’abisso [in
den tiefsten Abgrund gestürzt zu sein]. […]. ecco allora che grave male è l’ingratitudine! essa comporta la tendenza [Neigung] alla vanità; questa si trascina dietro la cecità [Verblendung], questa porta a sua volta l’idolatria, la quale
apre la via al gorgo dei vizi [den reissenden Strom]”36.
Pur riprendendo sotto molti aspetti la terminologia luterana, Heidegger – fortemente motivato a trasporre sul piano filosofico la struttura di vita cristiana – per determinare il senso unitario della tendenza di
vita descritta, farà riferimento ad Aristotele. non l’Aristotele però dal
quale lutero invitava a prendere le distanze, ma quello dell’Etica Nicomachea, il quale pone l’accento sulla difficoltà di cogliere e mantenere,
nell’acquisizione della virtù, il giusto mezzo, che in Heidegger diviene
36. M. lUTero, Vorlesung über den Römerbrief, in Luther Deutsch, a cura di k.
Aland, vol. 1, Göttingen, UTB, 1991, pp. 114-115; trad. it., La Lettera ai Romani (15151516), a cura di F. Buzzi, Cinisiello Balsamo, edizioni San Paolo, 1991, pp. 217-218.
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il prendere la vita alla leggera, inteso come “il rendersi-facili le cose”37,
sotto la pretestuosa maschera “che ci si rende la vita difficile!”38. Così
Heidegger traspone, nel suo orizzonte problematico, il passaggio dell’Etica Nicomachea in cui Aristitole parla della difficoltà di raggiungere la virtù come giusto mezzo:
la vita è cura, e lo è proprio nell’inclinazione del rendersi-facili le cose, della
fuga. in ciò matura la presa di direzione rivolta alla possibilità dell’errore in
quanto tale, all’errabilità, la de-cadenza, il rendersi-facili le cose, il darsi a intendere qualcosa, l’enfasi l’esuberanza. la vita determinata dall’inclinazione
va colta in modo più incisivo come vita determinata dalla colpa e dall’opacità.
la vita cerca di darsi sicurezza distogliendo lo sguardo da se stessa. Questo
sguardo è quello primario, che dà l’indagine fondamentale del modo in cui la
vita è vista da se stessa. essa modella in sé la propria tentazione riguardo a se
stessa, che nel suo decadere si tramuta in assenza di cura, in spensierata sicurezza [securitas]. Questa sicurezza è essa stessa una forma di cura, di apprensione della vita per se stessa.
la spensierata sicurezza dà ora forma al mondo e, per trovarvi una soddisfazione, deve intensificarlo, divenendo iperbolica e assegnandosi un tipo di appagamento e di cura più facile, vale a dire la salvaguardia e la conservazione
del proprio esserci. l’esserci iperbolico si rivela così al tempo stesso ellittico:
evita ciò che è difficile, ciò che è monaco, semplice (senza orpelli), non definisce alcun limite, non vuole essere posto di fronte a una decisione originaria
o in seno ad essa (nella sua ripetizione)”39.
Questa tendenza a “prendersi alla leggera” deve essere compresa a
partire dalla motilità specifica della vita come si evince dall’esposizione del programma di Heidegger:
Si tratta di farsi strada interpretativamente fino a un movimento che costituisca un’autentica motilità della vita, in cui e attraverso di cui la vita è, in base
a cui perciò essa può essere determinata nel suo senso d’essere in una forma o
un’altra; una motilità che faccia capire, dunque, in che modo un simile essente possa essere genuinamente portato in una delle modalità di possesso ad esso disponibili e appropriate (problema della fatticità, problema della kínesis).
in questo modo, all’interpretazione categoriale viene consegnata la possibilità
di evidenziare il senso fondamentale da cui tutti gli esistenziali traggono, interpretativamente, il loro senso proprio e il loro senso di riferimento40.
37.
38.
39.
40.
HGA 61, p. 108; trad. it., p. 140.
Ivi, p. 109; trad. it., p. 141.
Ivi, p. 108; trad. it., p. 140.
Ivi, p. 117; trad. it., p. 148.
89
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Attraverso la comprensione di tale motilità sarà possibile cogliere il
senso fondamentale intorno a cui ruotano tutte le categorie in cui la vita
si articola, aprendo contemporaneamente la strada ad una possibile appropriazione comprendente della filosofia come conoscenza di principio.
Heidegger individua le categorie del movimento nella rilucenza (il
movimento della vita verso se stessa all’interno di ciascun incontro) e nella prestruzione (il movimento del verso-cui progettante e modellante della vita stessa) ed intende innanzitutto presentare un’idea generale delle
connessioni tra queste due categorie e le tre categorie del senso di riferimento per poter comprendere il movimento come un fenomeno pieno e
articolato, in cui l’inclinazione, la cancellazione della distanza e la chiusura si presentano ciascuna a modo proprio come rilucenti e prestruttive.
in quanto incline, la vita ha una peculiare gravità. Ciò che è significativo provoca o ostacola la vita, facendo ritorcere l’inclinazione all’indietro. Questo movimento della vita verso se stessa è quella che Heidegger chiama la rilucenza. in quanto progettante, la vita nella sua rilucenza è sempre allo stesso tempo prestruttiva. nella cancellazione della distanza invece prevale il rilucente ritornare su di sé della cura, ma,
nel suo iperbolico dar forma a delle distinzioni e a delle nuove possibilità di inseguire una qualche distanza nell’orizzonte rilucente della vita,
è presente anche un momento autonomamente prestruttivo in senso positivo. nella chiusura, in cui la vita scappa via da se stessa, invece prevalgono le categorie della rilucenza:
il prendersi-cura nel carattere del senso di riferimento della chiusura è rilucente in modo particolarmente forte e trascinante: nell’apprensivo immergersi
nel suo mondo, la vita fa sì che essa stessa […] distolga lo sguardo da sé; proprio in questo modo però la vita fa sì che essa incontri se stessa, che investa se
stessa in una motilità particolare e cioè, in un certo senso, impaurendo e spingendo alla fuga in questa sua tendenza di investire-sé. Con questa rilucenza si
temporalizza un senso fondamentale del riferimento, che è rilevante per l’intera struttura categoriale della fatticità: il ‘via da sé’ nel ‘fuori di sé’. il potere
della rilucenza nel carattere di motilità della chiusura si esprime proprio nel
fatto che in questo ‘via-da-sé’ della vita, quest’ultima dà forma essa stessa a un
‘contro-sé’ e in questa formazione e grazie ad essa ‘è’ […], per cui la vita fattizia nel suo prendersi cura si struttura proprio in questo ‘via da sé’, è proprio
dal come di questa motilità che essa prende il senso direttivo delle sue prestruzioni; da questa fuga dinnanzi a se stessa essa ricava il modo in cui frequentare il suo mondo e se stessa41.
41. HGA 61, p. 123; trad. it., p. 154.
90
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Sul piano prestruttivo, la chiusura determina la vita come un costante mancare se stessa, caratterizzata dall’ellittica ricerca di occasioni
e scappatoie, in fuga dalla vita che, anche nella tendenza di chiusura, fa
pressione e incombe. Un’ulteriore intensificazione della motilità del
prendersi cura è data dall’apprensione, che si ha quando la cura prende
ad oggetto se stessa, radicando l’aver-cura nel suo mondo e togliendogli qualsiasi possibilità di chiarificazione.
Heidegger mette in evidenza le connessioni fra le diverse declinazioni del movimento, definendolo “un ‘come’ che ha il carattere del
muover-si, di una motilità in sé stessa”42, il quale si organizza secondo
un rapporto di reciprocità fra rilucenza e prestruzione, secondo il quale
ogni motilità prestruttiva si dà in una rilucenza mondana. nel sottolineare come “la reciprocità [sia] espressione del fatto che la rilucenza come modo della motilità è pre-struita da quest’ultima, mentre a sua volta questa motilità è tale da modellare e da far maturare sul piano del movimento la prestruzione in quanto rilucente”43, Heidegger intende mettere in evidenza come tale motilità non abbia nulla in comune con “un
procedere ordinato lungo una fila di oggetti fino all’ultimo della serie,
su cui infine si riversa la motilità”44.
3.
La filosofia come contro-movimento esistenziale
Heidegger finisce per individuare nella “motilità della vita fattizia
[…] che modellando se stessa si porta a se stessa, intensificandosi in tal
modo da sé”, una caduta. Tale motilità della vita è terminologicamente
definita come Ruinanz [rovinio]. essa viene a sua volta intesa “in modo
indicativo-formale” come “la motilità della vita fattizia, che la vita fattizia ‘attua’, cioè ‘è’ in sé stessa, in quanto è se stessa, per se stessa, fuoriuscendo da sé e, in tutto ciò contro se stessa”45.
l’obiettivo di Heidegger, a questo punto, è quello di delineare un
movimento contro-rovinante, una contro-motilità della vita, che la ri-
42.
43.
44.
45.
Ivi, p. 146; trad. it., p. 157.
Ivi, p. 148; trad. it., p. 158.
Ibidem.
Ivi, p. 131, it., p. 161.
91
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porti indietro rispetto al rovinio. nell’indicare un movimento come conto-movimento, egli mostra di essere consapevole che “il ‘contro’ (rovinante)”46 è “un ‘presupposto’ dell’interpretazione”47. di fatto ogni interpretazione filosofica, in quanto modalità della fatticità, parte da un
presupposto; “il che dimostra che l’interpretazione è essa stessa fattizia
ed è quindi adeguata al proprio oggetto”48. la filosofia, come la vita, è
coinvolta, in un gioco sempre perfettibile, contro la deiezione, la caduta, il rovino. il contro dell’interpretazione fenomenologica esistenziale,
intesa come contro-motilità, pertanto, si giustifica in quanto “non è per
nulla chiaro a prima vista che l’apprensivo immergersi in qualcosa sia
un movimento della vita ‘contro sé’ di modo tale che la vita è ‘ancora’
qualcos’altro, un ‘qualcos’altro’ che nel rovinio è là, cioè ‘avviene’, ma
nella forma dell’esser-rimosso”49.
Heidegger procede all’adeguata comprensione del “‘contro’ (rovinante), ovvero (in senso formale) [del] contro-cui inteso come un’autenticità fattizia della vita”50 attraverso l’analisi del fenomeno dell’apprensione. il suo obiettivo è quello di “articolare in modo ancora più incisivo il rovinio nel suo proprio senso, in modo che ne diventi comprensibile il peculiare carattere di caduta, inteso peraltro come momento categoriale di un senso d’essere (fatticità)”51.
la Besorgnis, apprensione, è quella che potremmo definire una
forma deietta di Sorge, ovvero una Cura che si riversa su se stessa. in tale fenomeno
Ciò a cui il prendersi-cura nella sua attuazione (nella sua motilità e quindi nel
suo senso pieno e nel suo carattere d’essere) ha mirato è ‘esso’ stesso. ‘esso’
stesso, e non necessariamente sé stesso. Con l’uso di questo ‘esso’ va indicato
il fatto che qui, dove il prendersi cura prende in cura se stesso, questa cura presa nel prendersi cura viene incontro in forma mondana. […]. il prendersi-cura
è preso in esso stesso e contenuto nella cura; è ap-preso, cioè ripreso ed assunto
esso stesso nella cura52.
46.
47.
48.
49.
50.
51.
52.
Ivi, p. 132, trad. it. p. 162.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 134, trad. it., p. 164.
Ivi, p. 136; trad. it., p. 166.
92
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nell’apprensione la motilità di se stesso viene mossa da esso stesso, la piena motilità del prendersi cura si riversa su esso stesso: la dimensione mondana della vita funge da centro di attrazione gravitazionale; dal punto di vista formale, si ha “un’intensificazione della motilità
del prendersi-cura”, il cui senso categoriale fondamentale va fissato nel
rovinio. Tale intensificazione si accompagna anche ad un accrescimento dell’ambiguità rispetto a se stessi che sfocia in una chiusura [Abriegelung] della vita rispetto a se stessa e alle proprie possibilità.
nella chiusura maturata dall’apprensione, la vita – dietro l’apparenza della più
alta attualità, agitazione ed apprensione intesa come serietà ed impegno – radica l’aver-cura nel suo mondo, e così non ri-conosce più se stessa in se stessa e dinnanzi a se stessa; nell’apprensione la vita rovinante ricopre, per così dire, se stessa!53.
nella situazione emotiva dell’apprensione, piuttosto che “vegliare
ed esser desti per non esser sorpresi come un ladro nella notte”, gli uomini sono tenuti “in agitazione notte e giorno” per aver assunto con fermezza, come un compito, il coinvolgimento nel mondo della cura. in
questo compito la vita “sembra essersi impegnata fino in fondo, ma in
verità è soltanto […] un mero farsi trasportare e trascinare, così che in
questo rovinare la stessa chiarificazione viene ceduta e abbandonata nel
rovinio”54. Tenendo ancora una volta presente la terminologia paolinoluterana Heidegger descrive il punto più alto del rovinio dell’apprensione come segue:
nell’apprensione, in cui il prendersi cura fattizio prende a cura se stesso, la vita rovinante s’impiglia in se stessa. la cura, nel senso della sua attuazione, grava sempre di più sulla vita e infine si deposita su di essa, cioè la vita fattizia
vuole reggere se stessa– nel suo modo fattizio rovinante – e alla fine, espressamente o meno, finisce col diventarne pazza o folle [töricht]55.
in quanto completamente presa da se stessa, la vita nel suo carattere rovinante è folle, è completamente annullata, annichilita, schiacciata sulla dimensione mondana. Tuttavia, il giovane Heidegger, lettore
53. Ivi, p. 136; it., trad. it., p. 166.
54. Ibidem.
55. Ivi, p. 140; trad. it., p. 170. il corsivo è mio.
93
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di lutero, ben sa che dio ci annulla e ci umilia per salvarci, e nel punto più alto del rovinio cerca il punto di torsione, di ritorno della vita a se
stessa che, come vedremo, troverà proprio nell’annullamento della vita
di luterana memoria.
nel tentativo di trasporre con Aristotele – o piuttosto, in analogia
al suo pensiero – la dinamica religiosa della vita sul piano filosofico, i
suoi sforzi sono, a questo punto della elaborazione del suo pensiero, tutti concentrati sulla determinazione della struttura motilo-temporale della vita. egli ricorda come abbia “già più volte fatto accenno al fenomeno per cui, nell’attuazione del prendersi-cura, la vita avviene, si fa incontro, seppure per lo più in forma mondana, tuttavia in modo tale che,
in questa mondanità, essa traspare nella sua autenticità”56. il suo specifico obiettivo è ora evidenziare “il modo in cui, sotto il profilo cairologico, nell’apprensione si annuncia (avviene) e in generale può annunciarsi (avvenire) la vita”57.
riprendendo la paradossale logica di coappartenenza di verità e
menzongna rilevata nell’analisi della ricerca della vera vita beata, Heidegger sottolinea come anche nel colmo dell’apprensione la vita possa
essere colta da “un’afflizione, un rovello”, che lungi dal rappresentare
un mero e vuoto “sentimento”, deve essere inteso come un fenomeno
che possiede “uno specifico senso d’annuncio”58:
nella forma del tormento si annuncia qualcosa che rode la vita. nella forma
del tormento si annuncia cioè un avvento nella fatticità (il ‘rodere’, l’affliggere) in cui ad-viene a un tempo anche ciò che nel rodere è roso: ‘la vita stessa’
sul piano del mondo ambiente; dunque, in un certo senso, in una forma non
mondana, ma d’altra parte nemmeno in un modo contenutisticamente diverso
in termini categoriali, bensì, appunto, proprio in questo stesso essere annunciato sotto forma di tormento nella fatticità59.
Heidegger intende in questo modo evidenziare come tale avvento
non possa essere compreso come il farsi avanti di un avvenimento e come alla base di tale annuncio vi sia una particolare concezione del tempo e della storicità e del loro legame con la motilità della vita.
56.
57.
58.
59.
Ibidem.
Ivi, p. 137; trad. it., p. 167.
Ivi, p. 136; trad. it., p. 168.
Ibidem.
94
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relativamente alla vita fattuale, il tempo non può essere inteso “come la cornice o la dimensione in cui si ordinano i fatti, né tanto meno come carattere (specificamente formale) delle connessioni storiche tra
eventi diversi”60. il tempo è la struttura interna della fatticità, è la sua essenza costitutiva, è modo della motilità stessa della vita “nel senso di un
carattere che non solo rende possibile la motilità ammettendola al suo interno, ma che entra a farne parte e di fatto genera autonomamente un movimento”61. in quanto struttura interna della vita, il tempo pertanto non
può essere descritto come un flusso continuo di istanti sempre identici:
“la vita fattizia ha il suo tempo, un ‘tempo’ che le è assegnato e che essa
può ‘avere’ in diversi modi”62. in quanto struttura temporale dell’esistenza, la storicità, di conseguenza, è l’insieme delle modalità in cui
un tale tormento si sia fatto avanti per la prima volta, come si sia avvertito per
la prima volta un simile peso sulla coscienza, come dapprima il tormento sia
scomparso quasi da sé per avanzare poi nuove pretese nel corso della successione storica, nel corso e nel succedersi del ‘tempo’; come il suo presentarsi
stesso si sia quindi insediato in modo del tutto autentico nell’orizzonte delle
aspettative, avvenendo ‘più di rado’, ‘a tratti ancora’, ‘di tanto in tanto’, finché
la vita infine non ha più ‘avuto tempo’ per esso63.
nella definizione sopra riportata, infatti il “di rado”, il “talvolta ancora” sono espressioni della crescente sicurezza mondana e implicano
“un’intensificazione del rovinio”64.
Sia la possibilità di cogliere il carattere d’annuncio di un fenomeno come quello dell’apprensione, sia la possibilità di lasciarsi trascinare dal e nel rovinio di cui esso è espressione si radica, pertanto, nella dimensione storica della vita, nella possibilità di avere il proprio tempo in
diversi modi. rispetto alla temporalità e alla storicità, il rovinio si presenta nella modalità della cancellazione65 che tenta di estromettere “dalla fatticità il carattere storico”66: “il rovinio sottrae il tempo; viceversa
‘non avere tempo’ come modo della vita fattizia è espressione del suo
60.
61.
62.
63.
64.
65.
66.
Ibidem.
Ivi, p. 137; trad. it., p. 169.
Ibidem.
Ivi, p. 136; it., p. 168.
Ivi, p. 137; it., p, 169.
Ibidem.
Ibidem.
95
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rovinio; i diversi caratteri cairologici sono specifiche interpretazioni
dell’intensificazione del rovinio, interpretazioni categoriali del carattere di caduta”67.
Ma in che modo nella costituzione storico-temporale della vita si
radica insieme alla possibilità del rovinio anche quella del movimento
contro-rovinante? Soffermandosi ulteriormente sull’analisi dell’apprensione, Heidegger procede con l’individuazione dei suoi quattro caratteri indicativo-formali: il carattere seduttivo, quietivo, alienante e negativo (attivo, transitivo). nell’apprensione infatti il prendersi cura
prende in cura esso stesso, in un orizzonte mondano (carattere seduttivo). in tale orizzonte è quieto e appagato (carattere appagativo). in
realtà però è alienato dalla sua dimensione autentica (carattere alienativo), è annullato (carattere negativo); laddove però tale annullamento è
transitivo, permette il transito al sé autentico. il contro-movimento esistenziale quindi deve emergere dall’analisi dell’ultimo momento.
Heidegger formula il problema in questi termini: “rispetto al carattere di caduta della vita fattizia: dove arriva, alla fine, ‘ciò che cade’
(cioè l’oggetto caratterizzato dalla ‘caduta’, che qui può anche essere
indicato a sua volta con l’espressione ‘caduta’)? dove trova alla fine il
suo impatto, la sua resistenza?”68. egli specifica che la caduta è solo e
semplicemente caduta e questo “semplicemente” “sta a significare che
il verso-dove della caduta non è qualcosa di estraneo ad essa, ma ha a
sua volta il carattere della vita fattizia, ed è precisamente ‘il niente della vita fattizia’”69. Questo niente non deve essere inteso come “un vuoto”, come una possibilità di sistemare e ordinare gli oggetti ivi reperibili assegnandogli un posto e una relazione reciproca:
in senso originario, il ‘niente’ della vita fattizia che è qui in questione è proprio quello che meno può essere connesso al ‘vuoto’, dato che questo niente è
una possibilità che appunto non dà luogo, non offre sistemazione e riparo, ma
accoglie e in qualche modo porta a compimento la caduta; il niente è invece
qualche cosa che partecipa alla maturazione della caduta; un vuoto che proprio per questo può diventare fatale per la caduta stessa70.
67.
68.
69.
70.
Ivi, p. 140; trad. it., p. 170.
Ivi, p. 144; trad. it., p. 174.
Ibidem.
Ivi, p. 146; trad. it., p. 176.
96
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Pur consapevole che l’espressione possa “vagamente ricordare una
qualche esasperazione metafisica e suscitare immagini cupe e vaghe
prediche filosofiche sulla ‘vita’”, Heidegger definisce questo carattere
della caduta che si forma a partire dal suo verso-dove, “annientamento”,
definendolo come “il niente della vita fattizia”, in quanto “non-avvento
nell’esserci rovinante di se stesso”71. egli chiarifica: “quanto più la vita fattizia vive nella sua maniera rovinante di prendersi-cura, tanto più
incalzante e, al tempo stesso, inespresso diviene il modo in cui essa ha
cura del non-avvento di se stessa per se stessa”. evidenziando l’elemento positivo di movimento, Heidegger sottolinea come “questo ‘nonavvento’ non [sia] in questo caso il mancare al proprio posto all’interno
di un ordine determinato, di modo che questo posto resta vuoto e il nonesserci può quindi essere accertato in una constatazione obiettiva; questo ‘non-avvento’ è invece un’espressione, in termini di movimento, del
modo proprio dell’ ‘esserci-ancora’ della vita mondano-ambientale”72.
Quindi è proprio nel niente della vita, fattizia, nel suo non-avvento, nel
suo annullamento di luterana memoria, che Heidegger vede la possibilità per la vita di ritornare a sé stessa:
la vita mondano-ambientale si annuncia ancora nel suo non-poter-avvenire,
non nel senso che essa propriamente si evidenzi, ma in quanto proprio in questo suo non-evidenziarsi viene incontro insieme al mondo e in quanto mondo,
di modo che il mondo assume così il carattere dell’intrasparenza e, nonostante ogni immediatezza, resta, almeno nel suo esserci e nel suo farsi-incontro, un
che di enigmatico73.
Heidegger infatti sottolinea:
lo sfrenato, esplosivo gettarsi sul mondo e nel mondo nella forma del prendersi-cura, del precipitarsi nelle cose, dell’intervenire, del porre mano alle singole incombenze – tutto ciò, sul piano della cura, rende esperibile il mondo come ciò che è più immediatamente prossimo e che nell’apprensione viene considerato prima di ogni altra cosa74.
71.
72.
73.
74.
Ibidem.
Ivi, p. 147; trad. it., p. 177.
Ibidem.
Ibidem.
97
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non è detto però che ciò che è esperito in tale forma immediata sia
colto “in una forma da esso genuinamente richiesta”75. l’immediatezza
non può essere assunta come criterio fondamentale dell’autodonazione.
“d’altra parte però va osservato in linea di principio che, dato l’avvento
della vita fattizia nella sua propria fatticità, la possibilità d’accesso può
essere ottenuta proprio in base alle suddette motilità della vita fattizia”76.
la breccia all’interno della compattezza della stessa vita immediata è aperta dal dialogo interpretativo proprio dell’attuazione fattizia della vita. essa infatti possiede una tendenza alla chiarificazione la quale è
solo momentaneamente messa fuori gioco dal desiderio di una superiore spensieratezza. in opposizione a tale tendenza
l’interpretazione filosofica della fatticità fa sul serio con questa problematicità
[…] in quanto fa maturare questa problematicità e la mantiene in forma concreta e in direzioni concretamente disponibili, tenendo viva però proprio in
questo modo l’attuazione dell’accesso alla vita fattizia77.
in questo modo la vita fattizia immediata diventa problematica per
se stessa.
Pertanto l’interpretazione del carattere di direzione del rovinio
porta all’oggettualità e al senso d’essere del mondo, ed è solo così che
il contesto della motilità può definirsi più incisivamente come ciò in cui
qualcosa come un contro-movimento ha, in quanto movimento, il suo
senso di attuazione. “Una motilità contro-rovinante è quella dell’attuazione dell’interpretazione filosofica, in quanto essa si attua nell’appropriata modalità d’accesso della problematicità”78. Anche l’interpretazione filosofica fattizia deve lottare con il suo rovinio fattizio e questa
lotta non può essere effettuata una volta per tutte attraverso una particolare impostazione metodologica, ma è sempre contemporanea all’attuazione del filosofare.
Heidegger conclude, sottolineando come
il carattere rovinante del negativo consista nel fatto che esso fa appunto maturare il niente della vita fattizia in quanto autentica possibilità fattizia del rovinio stesso, di modo che, nella sua maturazione, questa possibilità così matura-
75.
76.
77.
78.
Ivi, p. 148; trad. it., p. 178.
Ivi, p. 149; trad. it., p. 179.
Ivi, p. 152; trad. it., p. 181.
Ibidem.
98
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ta riluce a sua volta sulla caduta che si riversa su di essa. Questa è un’intensificazione della caduta, che si attua essa stessa nella sua propria contro-direzione e, attraversando l’intera motilità, fa sì che il niente le venga continuamente incontro e che essa stessa prenda forma proprio in questo suo cadere79.
risulta a questo punto chiaro come l’intenzione dell’interpretazione heideggeriana di Aristotele sia quella di individuare le categorie filosofiche per la comprensione della struttura storica della vita e come il
suo presupposto sia la definizione della storicità come inquieto essere in
cammino in cui è possibile perdersi o trovarsi. Questa concezione della
vita implica una nuova concezione del tempo e del movimento che, secondo la dottrina di Aristotele, ne rappresenta la base. Heidegger deduce le categorie del movimento della specifica temporalità della vita dall’analisi congiunta di Agostino e lutero. Assimilando le dinamiche religiose dell’esistenza, egli descrive il movimento del modellamento e
della progettazione della vita attraverso il reciproco rapporto di rilucenza e prestruzione. nell’inquieto cammino si insinua una tendenza della
vita a comprendersi in un orizzonte rilucente, rispecchiante, abbagliante, in cui la vita perde di vista se stessa e la propria complessità divenendo folle. Questo movimento frenetico, iperbolico – per usare il termine di Heidegger – si attorciglia in modo ellittico ed è espressione della tendenza al rovinio implicita nella vita stessa definita, sulla base di
Aristotele, come un prendersi alla leggera. il tempo come struttura stessa della vita è un modo della motilità. esso non è la cornice in cui si ordinano i fatti: la vita non ha il tempo, ma è il tempo, un tempo che le è
assegnato e che essa può vivere in modo diverso. in tale struttura motilo-temporale si radica la possibilità del rovinio, della caduta, che, come
annullamento, tendenza al nulla della vita fattuale, porta con sé la possibilità del contro-movimento esistenziale del ritorno della vita a se
stessa nella sua pienezza. Tale motilità contro-rovinante è l’attuazione
dell’interpretazione filosofica.
Si deve a questo punto chiarire come questa prospettiva interpretativa implichi da un lato la critica radicale dell’ontologia di Aristotele e
della sua concezione del tempo e del movimento orientata al modello
della produzione e della tecnica, dall’altra il recupero, proprio all’interno del pensiero aristotelico, di categorie del movimento – e non solo –
79. Ibidem.
99
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adeguate alla comprensione della vita umana e della sua inquietudine di
fondo.
4. Ontologia della vita contro ontologia della téchne: l’agathón come determinazione dell’essere dell’uomo
È con l’intenzione di approfondire il legame fra motilità e temporalità all’interno della vita fattuale che Heidegger si dedicherà nuovamente all’interpretazione di Aristotele. Procedendo, questa volta, attraverso un commento e una ricostruzione puntuale dei testi dello Stagirita, egli darà luogo alla più compiuta testimonianza della “co-appartenenza” di lutero e Aristotele.
Siamo nel 1924, Heidegger è al suo secondo semestre all’Università di Marburgo80 e, dopo aver programmaticamente esplicitato la sua
posizione fenomenologica, nella lezione del semestre invernale sui
Concetti fondamentali della fenomenologia, lontano dalla “cattolica”
Friburgo, espone, nella lezione Concetti fondamentali della filosofia
aristotelica81, in modo, potremmo dire quasi sistematico, la sua interpretazione di Aristotele. Con l’intenzione di trovare il “terreno” in cui si
radica la concettualità aristotelica, Heidegger analizza la determinazione dell’essere dell’uomo come zoé praktiké tis toú lógon échontos. egli
si propone di dimostrare – attraverso l’interpretazione combinata di passi salienti dell’Etica Nicomachea82, del De Anima e della Retorica – al
di là del già rilevato prevalente orientamento dell’ontologia aristotelica
al modello della téchne, la parallela presenza nel pensiero di Aristotele
di “un’ontologia dell’essere caratterizzato dalla vita”83. Heidegger infatti mette in evidenza come la comprensione “tecnica” dell’essere sia
una sorta di comprensione media e quotidiana84, la quale non riesce a
dare ragione dell’“esserci autentico qui ed ora”85. egli parte dalla defi80. Cfr. VolPi [1984].
81. M. HeideGGer, Grundbegriffe der Aristotelischen Philosophie, in Gesamtausgabe vol. 18, klostermann, Frankfurt a.M, 2002. d’ora in poi: HGA 18.
82. Sul legame fra l’Etica Nicomachea e la strutturazione dell’esistenza in Essere
e Tempo vedi: VolPi [1994]; sulla differenza fra l’analitica esistenziale e l’Etica Nicomachea cfr.: reSe [2007].
83. HGA 18, p. 101.
84. Ivi, p. 223.
85. Ibidem.
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nizione – che ritiene essere già aristotelica86 – della vita come “esserenel-mondo”, comprendendola come ciò che ci riguarda e che è costituito da una connessione di utilizzabili e di beni. in questo contesto, definisce poi l’uomo come il bene supremo. Sull’accentuazione heideggeriana, all’interno dell’esistenza umana, della dinamica paura/salvezza e
sull’operazione che ne consegue di neutralizzazione di qualsiasi elemento normativo nell’orizzonte di compimento della vita, così come
descritto nell’Etica Nicomachea, si basa l’ipotesi che, nella sua interpretazione, Heidegger abbia ben presenti le critiche mosse dal giovane
lutero alla filosofia dello Stagirita e che, nel giocare l’Aristotele della
vita contro l’Aristotele della téchne e della poíesis, proprio a tali critiche tenti di dare una risposta.
il cuóre dell’argomentazione heideggeriana mira ad individuare nell’agathón “l’autentico carattere d’essere dell’uomo”87. È utile osservare
come Heidegger in questo modo attribuisca il ruolo che nella concezione
cristiana è di dio all’agathón, inteso come quel limite che definisce l’esserci riportandolo a sé. non più dio è il télos dell’uomo: l’esistenza non
si definisce in relazione all’ente Supremo, ma è completamente immanente e si trascende soltanto rispetto a se stessa e ad una comprensione
deitta di sé. egli giustifica la sua interpretazione in questo modo:
l’essere dell’uomo è determinato come prendersi cura, ogni cura in quanto
prendersi cura ha una determinata fine [Ende], un télos. Fin tanto che l’essere
dell’esserci è determinato dalla práxis e ogni práxis ha un télos, nella misura
in cui il télos di ogni práxis in quanto péras è l’agathón, l’agathón è l’autentico carattere d’essere dell’uomo88.
Perché questo carattere possa emergere, però, si deve chiarire la
sua essenza di péras. A tale scopo, Heidegger intraprende una trattazione sistematica dell’agathón, tentando di determinare le possibilità che
tale struttura apre all’essere umano. esso infatti non è un qualcosa di
obiettivo, ma un “come dell’esserci stesso”89. Solo dopo aver chiarito il
86. Cfr. HGA 18, p. 66: “Forse siete dell’opinione che questa definizione è una forzatura di Aristotele, ma forse più avanti vedrete che interpretazione è porre in risalto ciò
che non c’è”.
87. HGA 18, p. 65.
88. Ibidem.
89. Ivi, p. 69.
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suo carattere di télos, sarà possibile affrontare quale modo di essere dell’uomo soddisfi il teleíon akrótaton. la sua indagine parte dalla determinazione del bene in generale, per poi affrontare come esso debba essere inteso quale determinazione dell’uomo.
la definizione più generale del bene si trova, secondo Heidegger,
nell’attacco del primo libro dell’Etica Nicomachea, nel quale Aristotele afferma che ogni attività dell’uomo è protesa verso un fine. in modo
del tutto generale, quindi, ciò in cui diviene visibile in maniera esplicita il bene è “la téchne, ‘l’intendersi di qualcosa prendendosene cura di
volta in volta’”90. Heidegger perviene ad una specificazione di tale carattere, mettendo in evidenza la molteplicità dei modi del prendersi cura e, di conseguenza, dei fini presenti nella vita umana e la loro organizzazione in una connessione gerarchica. egli parte dalla distinzione
aristotelica fra “ciò che è fine in vista di altro” e “ciò che è fine in sé”,
rilevando come ci debba essere, nella molteplicità di preoccupazioni e
di fini, una preoccupazione e un fine in sé: “è impossibile che noi nel
circolo di tutte le possibili preoccupazioni nel con-essere afferriamo
sempre l’una a causa dell’altra. infatti in questo modo si procede all’infinito, non si ottiene un péras, in modo tale che la órexis, l’essere proteso verso qualcosa diviene vuoto e futile”91. Sempre riportando Aristotele, Heidegger sottolinea come “il compimento del prendersi cura [sia]
possibile solo se ciò di cui ci si prende cura ci è, in modo che il prendersi cura non afferr[i] nel vuoto e cioè solo se esso ha il carattere del
péras”92. È necessario quindi che esista un télos di autó, un fine di cui
ci si prenda cura in vista di esso stesso. Tale è il bene umano. Aristotele
prova a definire tale bene attraverso l’orientamento all’esperienza e cioè
partendo dalle opinioni correnti che l’esserci ha di se stesso: “dell’esserci – infatti – fa parte un’interpretazione di se stesso che egli, in una
certa misura, porta sempre con sé”93. Questa generica comprensione si
basa su quella che Aristotele chiama la dóxa, un’opinione media e generica delle cose del mondo. “Questa opinione che l’esserci ha di se
stesso è la prima delle fonti a partire dalle quali Aristotele si orienta
esplicitamente per comprendere come l’esserci pensa la sua finitudi-
90.
91.
92.
93.
Ivi, p. 68.
Ivi, p. 72.
Ibidem.
Ivi, p. 73.
102
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ne”94. dalla contrapposizione delle diverse opzioni di vita, però, non
emerge una determinazione univoca del bene umano95, tanto che, secondo Heidegger, l’analisi del quarto capitolo dell’Etica Nicomachea
sembra concludersi con il risultato che “non può esserci un bene in
sé”96.
È per superare tale difficoltà e per ottenere una determinazione più
precisa del bene che Aristotele è costretto a lasciare la strada dell’opinione e della tradizione, procedendo ad un’accentuazione del carattere
d’essere dell’agathón e della sua capacità, in quanto télos, di costituire
una finitudine. egli perviene a tale risultato soffermandosi su uno dei
caratteri fondamentali del bene in sé: il suo essere teleión perfetto, compiuto. Per la funzione strategica che tale concetto assume in vista della
comprensione dell’agathón come determinazione dell’essere umano,
Heidegger si sofferma con particolare attenzione sulla spiegazione di tale termine fornita da Aristotele in Me. 5, 16.
egli parte dalla constatazione che il teleión indica sia l’ente finito
[Fertigseiendes] sia ciò che costituisce l’essere finito, l’essere determinato, quindi, il modo d’essere dell’ente finito. Partendo dalla traduzione e dal commento del testo aristotelico, Heidegger individua quattro significati fondamentali del termine. Teleión viene definito un ente al di
fuori del quale non si trova nessuna singola parte, in modo tale che essa possa ancora costituire intrinsecamente l’essere in questione. in questo senso, finito è il tempo, il quale di volta in volta può essere finito,
compiuto per un esserci, nel senso che al di fuori di esso non c’è più alcun tempo che lo costituisce in modo intrinseco. inoltre, viene inteso in
quanto finito ciò che non ha più un oltre [Darüberhinhaus] rispetto alle
proprie possibilità d’essere. Finito quindi è anche l’éschaton, ciò che è
estremo, la morte e l’in-vista di, ciò in funzione di cui qualcosa è. l’intenzione di Heidegger è quella di mettere in evidenza come il teleión sia
“il ciò-oltre-cui-niente che, in quanto determinata possibilità d’essere di
un ente, lo determina nel suo essere in modo autentico”97. egli procede
in questa direzione sottolineando come teleión abbia innanzitutto il si-
94. Ivi, p. 74.
95. Heidegger sottolinea come il bene non sia qualcosa che è posto lì nel mondo,
quanto piuttosto “un modo della vita” (HGA 18, p. 78).
96. Ivi, p. 79.
97. Ivi, p. 89.
103
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gnificato di confine [Grenze], termine con il quale egli indica “ciò oltre
cui non c’è nulla, fine, ciò presso cui qualcosa finisce”98. non tutto ciò
che finisce però ha carattere di compiutezza. Per esempio un sentiero
che attraversa un prato finisce dinnanzi ad un recinto, ma il recinto non
rappresenta il suo teleión, in quanto non lo porta a compimento. Teleión
quindi non è confine nel modo in cui un ente è confine per un altro ente, ma indica un essere, un modo d’essere. Solo in quanto tale, esso è la
“determinazione dell’essere dell’esserci”99. Tale carattere di confine diviene chiaro nella definizione della morte come teléute. la morte è la fine della vita, nel senso del suo compimento; essa esprime l’autentico
senso del telós come teleión in quanto “non fa semplicemente scomparire ciò di cui è fine, […], ma lo mantiene in esso e in esso lo determina in modo autentico”100. in sintesi quindi:
la determinazione più generale e più prossima del teleión è da comprendere
come il ciò-oltre-cui-non, nella misura in cui, in esso viene ad espressione un
carattere d’essere. […]. il non-più-oltre non deve essere considerato come essere-alla-fine in senso negativo, ma in senso positivo, in quanto ciò che costituisce/apre l’autentico Ci101.
È partendo da questa definizione di teleión – secondo quanto Heidegger afferma – che Aristotele procede alla determinazione del bene
umano come il più perfetto e compiuto. l’anthópinon agathón è teleión
in senso proprio: poiché la successione dei fini e dei beni non può procedere all’infinito, ci deve essere un bene scelto per sé e non in vista di
altro. Ma questo significa per Heidegger che, dal momento che i téle
kat’autá, il piacere, l’onore, la virtù, possono essere acquisiti, alla fine
e in generale, in vista dell’eudaimonía, essi hanno un altro télos, il quale va identificato con l’autentico essere dell’uomo. Heidegger così giustifica la sua interpretazione:
Se l’háplos teleión deve essere qualcosa che è sempre e continuamente
kat’autó, allora, per quanto riguarda l’esserci dell’uomo, si può prendere in
considerazione solo ciò che riguarda l’esserci in quanto tale. […]. l’essere di
cui in fine ne va può essere per l’esserci solo il suo essere, in modo tale che qui
98.
99.
100.
101.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
104
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diviene chiara una determinazione fondamentale dell’esserci: un tale ente per
il quale nel suo essere ne va in modo esplicito o implicito del suo essere, così
che l’áplos teleión è ciò che costituisce, in senso proprio, l’essere finito dell’esserci, la possibilità d’essere per eccellenza dell’esserci stesso102.
non stupisce che, partendo da tale contesto, Heidegger un anno più
tardi definisca l’eudaimonía come ciò che “apre e costituisce l’autenticità dell’essere dell’uomo”103 in quanto “condizione ontologica dell’esistenza fattuale e concreta”104.
Per comprendere tali connessioni può risultare utile pertanto fare
riferimento ad un saggio di Hartmut Buchner, in cui è recepita e assunta l’interpretazione heideggeriana dell’Etica Nicomachea. Buchner sottolinea come il testo aristotelico analizzi “per la prima volta e in modo
esemplare il dispiegamento, in senso rigorosamente ontologico e in sé
concluso, dell’accadere dell’essere umano nell’orizzonte della concezione dell’essere sviluppata nella Fisica e nella Metafisica”105. Per questo motivo – ritiene Buchner – “non è un caso e non si giustifica in base ad una preferenza personale, il fatto che un filosofo contemporaneo
della statura di Martin Heidegger […] abbia intrapreso un intenso confronto con Aristotele e in particolare con l’Etica Nicomachea. le tracce di un tale fecondo dialogo si possono vedere e intuire sempre nuovamente, per esempio, in un testo come Essere e Tempo”106. nello stesso
tempo però, poiché questa etica si basa su una determinata concezione
dell’essere107, è chiaro che “laddove questa esperienza ontologico-metafisica dell’essere su cui si basano tutte le questioni riguardanti l’essere dell’uomo viene messa in discussione nel suo fondamento – ovverosia in Heidegger – si rinunci per principio e con buone motivazioni a ciò
che è strettamente connesso con questa concezione ed è noto con il termine ‘etica’”108. eppure, partendo dalla definizione di etica come “dottrina dell’éthos” e quindi come “sforzo pensante per il riuscito e giusto
102. Ivi, p. 95.
103. M. HeideGGer, Platon: Sophistes, in Gesamtausgabe, vol. 19, Frankfurt a. M,
klostermann, 1992, p. 172. d’ora in poi: HGA 19.
104. Ivi, p. 179.
105. BUCHner [1963].
106. Ivi, p. 232.
107. Sul rapporto fra metafisica e etica si veda: kAMPiTS [1995].
108. BUCHner [1963], p. 232.
105
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abitare dell’uomo in quanto tale, per il modo in cui l’uomo come uomo
è e può essere a casa nel mondo”109, Buchner afferma che ciò non significa che anche nel pensiero di Heidegger non si tratti “in senso essenziale e addirittura più profondo, anche se allo stesso tempo provvisorio, del ‘vivere dell’uomo su questa terra’”110. Partendo dal tali premesse, Buchner analizza i tratti fondamentali dell’Etica Nicomachea
evidenziandone, al di là e oltre il significato etico in senso stretto, la dimensione ontologica. la sua interpretazione ruota intorno alla comprensione del termine agathón, inteso come “ciò che è in grado di portare qualcosa nel soggiornare e nel farlo soggiornare in quanto tale”111.
l’eudaimonía, come sommo bene, è “il modo in cui di volta in volta
l’uomo soggiornante, determinato nell’uno e nell’altro modo, ovverosia
nella sua costituzione è in un senso compiuto”112. essa è telos non in
quanto ciò presso cui la vita umana finisce e smette, ma nel senso di ciò
presso cui la vita si compie. in questa prospettiva la vita umana viene
definita come “‘movimento’, come accadere, essere in cammino, e cioè
essere cammino”113. in una prospettiva che risente dell’interpretazione
heideggeriana di Aristotele, ma che ci è utile per comprenderne fino in
fondo il significato, Buchner sottolinea come “l’uomo, per Aristotele, è
un ente il quale, in quanto è, è sempre in cammino e come cammino.
l’uomo non è, come per esempio il téchne ón, ciò che è prodotto attraverso la tecnica, prodotto una volta per tutte, per poi essere lì come opera compiuta e per soggiornare, in un certo senso fino alla fine in modo
statico, come una casa o una botte. Questo significa contemporaneamente che l’uomo raggiunge la sua meta, cioè il suo esser presente in
modo riuscito, in quanto questo ente, non alla fine di una produzione,
ma solo nel e come essere in cammino”114.
Un’utile chiave di lettura, a tale proposito, è offerta dalla distinzione, introdotta da ernst Tugendhat nella sua interpretazione dell’Etica Nicomachea, fra una definizione soggettiva del bene, inteso come
ciò verso cui tutti tendono e, allo stesso tempo, come ciò in vista di cui
109.
110.
111.
112.
113.
114.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 235.
Ivi, p. 238.
Ivi, p. 239.
Ibidem.
106
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qualcosa è, e una definizione oggettiva, legata alla comprensione della
virtù umana. Secondo Tugendhat – il quale sottolinea l’ambiguità con
cui viene definito il bene nell’attacco del testo aristotelico – sia se si parte dalla definizione del bene come ciò verso cui tutti sono protesi, sia se
si parte dalla definizione del bene come ciò in vista di cui un’azione è
compiuta, si perviene ad una definizione soggettiva del bene umano, secondo la quale ciò che è bene è la vita stessa. in questa prospettiva il criterio in base al quale definire il raggiungimento del bene è interno alla
vita umana. Tugendhat sottolinea come questa definizione soggettiva
del bene si ritrovi anche nel pensiero di Heidegger. egli afferma: “ciò
verso cui tutti tendono è vivere e vivere bene. Questo sembra essere banale, allo stesso modo che la tesi espressa nel primo capitolo dell’Etica
Nicomachea nella quale si afferma che noi tendiamo verso ciò che ci fa
stare bene. Con l’affermazione che con ciò ne va della nostra vita – una
tesi che Heidegger ha ripreso nell’affermazione che all’uomo ne va del
suo essere – si vuole solo sottolineare che il benessere ricercato si deve
riferire alla vita intera. Questo aspetto è implicato anche nel termine ‘felicità’”115.
Se – come si evince dalla riflessione di Tugendhat – la questione
della definizione del bene è, certo, problematica per lo stesso Aristotele, è chiaro che, prescindendo dalla definizione dell’érgon dell’uomo,
Heidegger non arriverà mai ad una definizione oggettiva del bene, portando – come abbiamo visto – alle estreme conseguenze la sua definizione soggettiva. la comprensione della vita come essere in cammino e
l’accentuazione della sola dimensione soggettiva del bene – questa la
mia ipotesi – sono il frutto del produttivo confronto di Heidegger con
lutero e sono finalizzate a comprendere la vita in quanto tensione verso la salvezza.
5.
La dinamica pericolo-salvezza: élpis soterías
la lettura luterana di Aristotele diviene ancora più chiara, pertanto, quando Heidegger, partendo da un’interpretazione della dottrina aristotelica dei páthe, arriva a rintracciare all’interno della concezione ari-
115. TUGendHAT [1995], p. 244.
107
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stotelica della vita umana la tensione verso la salvezza.
non essendo infatti interessato all’“elaborazione concreta dell’interpretazione dell’esserci”116, Heidegger non prosegue nella lezione su
I concetti fondamentali della filosofia aristotelica con la determinazione ulteriore del bene umano. Al contrario, con una mossa che preannuncia già l’impostazione fondamentale di Essere e Tempo, lascia il
tracciato aristotelico e l’approfondimento delle virtù dell’anima e si dedica alla comprensione delle “determinazioni fondamentali”117 “dell’essere della zoé dell’uomo”118. la sua attenzione si sposta quindi, di
conseguenza, sul De Anima, inteso come “la dottrina dell’essere della
vita, l’ontologia dell’essere, caratterizzato dalla vita”119. Con l’intenzione di cogliere tale vita nelle sue determinazioni fondamentali, Heidegger – utilizzando un metodo anch’esso ripreso in Essere e Tempo –
parte dall’analisi dell’esserci nella sua quotidianità, basandosi, a tale
scopo, sulla Retorica120121, “la disciplina in cui avviene l’interpretazione dell’esserci concreto, l’ermeneutica dell’esserci stesso”122.
la meta della retorica è la formazione di una dóxa e cioè di un
orientamento generale e medio nel mondo, in cui si esprime “il modo in
cui noi abbiamo la vita nella sua quotidianità”123. Con lo sguardo già rivolto alla definizione della chiacchiera e della curiosità come dimensioni deiette dell’esistenza, Heidegger definisce la dóxa come la comprensione media in cui non si cerca la verità, ma ci si attiene a ciò che gli altri dicono. essa assume in questo modo una funzione di “dominio e guida del con-essere nel mondo”124. “Si riporta agli altri un’opinione. nel riportare non ci si preoccupa di che cosa significa ciò che viene detto. decisivo non è ciò che è detto, ma chi è che dice ciò che è detto. dietro il
116. HGA 18, p. 103.
117. Ivi, p. 104.
118. Ibidem.
119. Ivi, p. 101.
120. Sul ruolo dell’ascoltare nell’ambito della fenomenologia dell’esistenza heideggeriana si veda: eSPineT [2009].
121. Sulla centralità dell’analisi della Retorica di Aristotele per la formazione della concettualità di Essere e Tempo, si veda il volume collettaneo: GroSS-keMMAnn
[2005]. in appendice si trova anche un’utile bibliografia aggiornata su Heidegger e la retorica, a cura di A. kemman, pp.175-188.
122. HGA 18, p. 110.
123. Ivi, p. 138.
124. Ivi, p. 151.
108
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dominio della dóxa si nascondono gli altri, i quali sono indeterminati in
senso proprio e non possono essere afferrati – si è l’opinione: un dominio, un’ostinazione e una coercizione che si trovano nella dóxa stessa”125. la comprensione media della dóxa è per Aristotele sia la base del
discorso scientifico dell’epistéme, sia la base del discorso retorico che
spinge l’ascoltatore a prendere una decisione. È su quest’ultimo significato che Heidegger si concentra, con l’intenzione di comprendere la dinamica di salvezza e di superamento della medietà e della deiezione.
in questo orizzonte si colloca l’approfondita e complessa analisi
dei pathe, con la quale Heidegger mira a dimostrare come essi caratterizzino l’intero uomo nella sua situazione emotiva – un aspetto fino ad
adesso tralasciato dalla filosofia e che “solo la fenomenologia sta iniziando a tematizzare”126. egli individua nell’edoné, il páthos che conferisce al biós dell’uomo la sua struttura e la sua tonalità emotiva fondamentale – non alla vita nel senso di zoé, ma al biós, la vita dell’uomo
caratterizzata in modo specifico dalla possibilità di decidere.
A partire da tali considerazioni, Heidegger intende esplicitare
“quale ruolo gioc[hi] il páthos nella formazione della krísis, del ‘prendere posizione’ e del ‘decidere’”127. in tale prospettiva egli individua la
molla del movimento, proprio della vita, nel páthos della paura – una tonalità emotiva che ha una particolare rilevanza nel discorso del giovane
lutero. Così Heidegger:
Faccio riferimento proprio alla dottrina degli affetti, poiché all’interno delle
domande fondamentali della teologia medievale e della filosofia, essa è rilevante anche per Lutero. È soprattutto la paura a giocare un ruolo particolare
nel Medioevo, perché il fenomeno della paura è particolarmente connesso con
quello di peccato e il peccato è il concetto contrapposto alla fede. Anche lutero si è confrontato e si è occupato della paura, negli scritti giovanili, in particolare nel Sermo de poenitentia128.
interpretando Aristotele a partire dalle sollecitazioni provenienti
dalla sua lettura di lutero129, Heidegger descrive la paura come “una situazione emotiva che si prova dinnanzi ad una possibilità che mi ri-
125.
126.
127.
128.
129.
Ibidem.
Ivi, p. 199.
Ivi, p. 169.
Ivi, p. 178.
Cfr.: CArBone [2006].
109
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guarda, che mi viene incontro e si annuncia in quanto tale, e che quindi
si avvicina attraverso l’annunciarsi”130. Ciò di cui ho paura è qualcosa
che mi manda in subbuglio e mi fa perdere il contegno, in quanto ha il
carattere della potenza, è nelle vicinanze e mi minaccia, pur essendo caratterizzato da indeterminatezza. ripercorrendo la scansione del discorso aristotelico, però, Heidegger cerca di evidenziare come proprio ciò
che è pericoloso nel senso più ampio abbia un legame con la possibilità
della salvezza. egli afferma:
il credere di essere in pericolo è tale da muoversi contemporaneamente anche
in una élpis, la quale consiste nell’appropriarsi di ciò che ci minaccia come di
qualcosa che ci riguarda e nello sperare allo stesso tempo, di riuscire ad evitarlo. dell’aver paura fanno parte in modo egualmente essenziale sia la élpis
soterías che il credere di essere minacciato. in questa ‘speranza di essere salvato’ si esprime la situazione emotiva dell’essere preoccupato di ciò di cui si
ha paura la quale si esprime nella consapevolezza che esso mi deve riguardare, non può essere indifferente131.
Attraverso la dinamica paura/salvezza è esplicitata quella motilità
della vita fattuale che Heidegger aveva identificato con l’inquietudine,
individuando in essa la dinamica dell’esistenza e la sua essenza storica132.Trasponendo sul piano filosofico la concezione della vita cristiana
attraverso il ricorso ad Aristotele, Heidegger afferma:
L’inquietudine non è altro che la contrapposizione della oíesthai e della élpis:
credere di essere perduti e, nonostante ciò, sperare. la possibilità della salvezza deve essere tenuta ferma e nel tener fermo, nell’attesa, la possibilità del non
poter essere annichilito, si trova il tipico movimento del ‘retrocedere’ dinnanzi a ciò che mi minaccia [...]. la possibilità di essere salvato: in breve, di essere, è lì, si dà, nonostante mi allontano dall’essere. Questo è il senso fondamentale della taraché. l’esserci non fugge via da sé, ma mantiene nella speranza la possibilità della salvezza133.
riportando tale discorso sul piano dell’analisi della struttura dell’esistenza, egli nota come ciò che nell’ambito della quotidianità appare come paura abbia fondamento nel fenomeno più originario dell’an-
130.
131.
132.
133.
Ivi, p. 251.
Ivi, p. 260.
Cfr.: HGA 61, p. 93.
HGA 18, p. 260.
110
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goscia, quel sentimento che si prova “quando qualcosa è inquietante e
non sappiamo di che cosa abbiamo paura”134. Ponendo tale situazione
emotiva in relazione alla possibilità di prendere una decisione135, Heidegger afferma:
la paura, qui caratterizzata da Aristotele, ha in sé stessa la possibilità di essere
afferrata dagli uomini in modo risoluto. la paura, come páthos determinato, implica la possibilità di una hexis. Una tale possibilità è il coraggio. Ma è evidente che posso avere coraggio in senso autentico, solo se ho paura. La paura è la
condizione della possibilità del coraggio. Chi non ha paura o dà a intendere di
non averne (questo è il caso più diffuso) non può pervenire in senso proprio ad
una decisione ed essere coraggioso. ne va dell’afferrare il coraggio. ne va dell’avere paura nel modo giusto e di pervenire in questo modo ad una decisione136.
il legame di tale dinamica con la concezione cristiana di vita emerge ulteriormente quando Heidegger rileva come “in questo contesto si
debba anche comprendere la frase di Agostino: initium sapientiae timor
Domini, la quale chiarifica la rilevanza fondamentale della paura per
l’esserci”137.
6. L’autentica virtù? Essere inquieto, in cammino, risoluto nell’attimo della decisione
il punto più alto della “co-appartenenza”138 di Aristotele e lutero139
134. Ivi, p. 261.
135. HeideGGer-CASSirer, Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, in M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Frankfurt a. M., 19915, pp.
274-296. d’ora in poi: davos. Se si parte dalla constatazione del legame fra angoscia e decisione risulta chiaro come la domanda: “in che misura la filosofia ha il compito di liberarci dall’angoscia?” (davos, p. 228) posta da Heidegger a Cassirer durante l’incontro di
davos, fosse solo “retorica”. Compito della filosofia per Heidegger non può essere liberare dall’angoscia, quanto piuttosto, quello di gettare nell’angoscia per trovare in essa la base emotiva della decisione esistenziale. Per Cassirer, al contrario, “la filosofia deve far sì
che l’uomo diventi tanto libero, quanto può diventarlo. in quanto lo fa, [...] lo libera, in un
certo senso radicalmente, dall’angoscia come semplice tonalità affettiva” (davos, p. 229).
136. HGA 18, p. 261.
137. Ibidem.
138. Sulla compresenza di una dimensione pagana e una cristiana nel pensiero di
Heidegger si veda: ViTiello [1994], pp. 261-306. Questo aspetto è approfondito anche in
ViTiello [2005].
139. Sul rapporto fra Aristotele e lutero si veda anche CoUrTine [1992].
111
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e anche il più compiuto esempio di quella che, con Tugendhat, abbiamo
definito l’accentuazione della dimensione soggettiva dell’Etica Nicomachea viene raggiunto, però, quando Heidegger inserisce l’analisi della
genesi della virtù, all’interno del percorso di vita caratterizzato dalla dinamica di perdizione e salvezza. egli parte dalla caratterizzazione dell’essere dell’uomo come un essere in cammino, caratterizzato da práxis,
ovverosia da quel “modo dell’essere-nel-mondo” altrove definito come
“esistenza”140. il suo intento è quello di evidenziare come nella práxis,
quindi nell’esistenza, sia implicita la possibilità dell’areté, intesa come
héxis proaretiké, disposizione alla decisione.
Tale disposizione è definita come “la determinazione dell’autenticità dell’esserci in un momento dell’essere raccolto/concentrato per
qualcosa”141, caratterizzata da “un originario orientamento verso il
kairós”142. in quanto disposizione alla decisione, la virtù non è quindi
una qualità o un possesso che deriva dall’esterno, ma “un essere-sul posto nella situazione”143 pronto all’azione, che si esprime nel fatto che
“sono qui, può accadere qualsiasi cosa”144. nella sua analisi Heidegger
si sofferma soprattutto sul rapporto fra héxis e mesótes con l’intento di
dimostrare che “la mesótes non è qualcosa come la medietà, non è una
determinazione dell’azione umana, in cui ne va della medietà […], non
è un principio di ordine gerarchico, […] ma relazione fondamentale alla heéxis, con ciò all’essere dell’uomo, la práxis, con ciò al kairós”145.
Tutto questo per dire che l’Etica Nicomachea “non è una morale borghese”, ovverosia che è tutt’altro che “l’etica della mediocre medietà e
della convenzione”146. Anzi la héxis, orientata alla mesótes, è tale da
trarre fuori l’esserci dalla sua situazione quotidiana, in cui esso “si mantiene costantemente oscillando fra il più e il meno, il troppo e il troppo
poco”147, portandolo a “guadagnare se stesso”148.
il rapporto esistenza/virtù riguarda quindi la possibilità della vita
140.
141.
142.
143.
144.
145.
146.
147.
148.
HGA 18, p. 176.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, pp. 179-180.
Ivi, p. 180.
Ibidem.
Ibidem.
112
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di pervenire a se stessa, ovverosia la possibilità della conversione e della salvezza. Questa prospettiva e il legame con l’orizzonte teologico luterano emerge con maggiore chiarezza quando Heidegger individua le
condizioni preliminari per il raggiungimento della virtù nelle situazioni
pericolose della vita: “solo se la vita non sfugge alle proprie possibilità
e ai propri pericoli è data l’opportunità di formare questo come dell’esserci”149. la héxis è afferrata “nell’essere presenti corrispondentemente
al proprio essere, nel pieno presente della situazione in cui ci troviamo”150: essa non è una proprietà che si ha una volta per tutte, ma viene
di volta in volta acquisita. Accentuando il legame pericolo/virtù/salvezza, Heidegger afferma: “solo in quanto ci portiamo in situazioni pericolose, abbiamo la possibilità di apprendere il coraggio e di superare la codardia, non in una riflessione fantastica sull’esserci, ma nell’arrischiarsi nell’esserci secondo le possibilità che ci vengono incontro nell’esistenza in cui di volta in volta ci troviamo”151. il suo intento è quello di
dimostrare come per questo arrischiarsi e questo afferrare le opportunità
che la vita ci presenta non ci sia una tecnica, né “un comando generale,
un’etica aprioristica, secondo la quale l’umanità diviene migliore eo
ipso”152. Al contrario “ognuno deve dirigere lo sguardo verso ciò che è
nell’attimo e lo riguarda”153, come – secondo Heidegger – emerge chiaramente nella determinazione aristotelica dell’azione giusta come quella che compirebbe l’uomo giusto, assumendo su di sé la responsabilità
della decisione.
Questa posizione si giustifica partendo dalla contrapposizione aristotelica fra práxis e téchne, intense come due dimensioni dell’esistenza.
il fine della téchne è la corretta realizzazione di un prodotto finito attraverso “una corretta conoscenza” del procedimento. “Che tipo sono” non
gioca nessuna importanza. nella prassi invece ne va del come dell’azione. Parafrasando Aristotele, Heidegger sottolinea come colui che agisce
“debba essere ‘consapevole [wissend]’ e debba agire nella giusta ‘visione del mondo circostante [Umsichtigkeit]’, la quale, all’interno del suo
contesto, è orientata al kairós”, come “debba agire a partire da sé, auto-
149.
150.
151.
152.
153.
Ivi, p. 181.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 182.
Ibidem.
113
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nomamente” e soprattutto come “debba essere saldo e non facilmente
scuotibile dal suo contegno”154. Questo significa per Heidegger che nella vita umana, intesa come prassi, “caratteristico non è il risultato, l’aver
raggiunto un’altra attitudine o capacità, ma l’essere fuori dall’attitudine,
l’essere in cammino da uno stadio all’altro, l’autentica inquietudine
[…]”155. Per la prassi sono fondamentali pertanto la decisione e la risolutezza, le quali non sono “giuste” per il loro contenuto, ma perché vengono attuate come le attuerebbe l’uomo giusto.
ne consegue che per Heidegger non è importante “il parlare sulla
morale”, ma il “giusto filosofare”. Tale posizione trova conferma nella
affermazione aristotelica (1105 b 12) secondo la quale
i più non si preoccupano dell’essere risoluti e affidabili, ma trovano rifugio
nella chiacchiera e credono in questo modo di filosofare e di essere seri nel modo giusto, assomigliando così a coloro che ascoltano attentamente il medico (e
discutono di ciò che ha detto), senza applicare nulla di tutto ciò. Così come coloro che si comportano in questo modo non guariscono, allo stesso modo coloro che moralizzano solo non avranno presso di sé l’esistenza autentica, (ma
se ne approprieranno solo come in una discussione)156.
Tale posizione rappresenta per Heidegger “una frecciata contro i
Sofisti e la maggior parte degli uomini che credono che attraverso la discussione sui conflitti etici e il moralizzare si possa ottenere qualcosa
per l’azione morale”157.
la mancanza di un criterio univoco per la determinazione di un’azione giusta e l’accentuazione di un motivo “decisionista” nel pensiero
di Aristotele diviene ancora più chiara nell’interpretazione della mesótes
(il giusto mezzo) come “il modo di stare nel mondo in quanto tale”158.
Heidegger specifica come il termine méson derivi dalla medicina e
indichi la situazione di salute dell’uomo e come esso, nel passaggio dalla medicina all’etica, perda la possibilità di essere definito in modo univoco. nella misura in cui, infatti, questo concetto viene utilizzato per la
vita umana, esso non può essere determinato geometricamente, come
“l’ugualmente distante dagli estremi”159, ma è prós hemás, relativo al
154.
155.
156.
157.
158.
159.
Ivi, 183
Ibidem.
Ivi, p. 184.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, 186.
114
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singolo uomo e alla singola situazione dell’azione. da ciò deriva che
mantenere il centro non significa altro che cogliere l’attimo160 e che
quindi “al nostro essere, caratterizzato dalla Jeweiligkeit, non si può
dare nessuna norma assoluta che valga una volta per tutte”161. il compito dell’etica pertanto è quello “di formare l’essere dell’uomo in modo
tale da porlo in condizione di mantenere il centro”162 e la virtù non è altro che “un modo di orientarsi nel mondo”, “un essere aperto per la situazione” che consistente “nel cogliere in modo giusto l’attimo”163.
Heidegger trova una conferma della sua interpretazione del méson come “un originario essere orientato nel mondo” e non come “una qualità
misurata”164 nell’analisi aristotelica della aísthesis in quanto “méson dal
carattere del kritikón, del ‘poter differenziare’ un aspetto contro l’altro”165. Questa concezione deriverebbe dal fatto che Aristotele si accorge che “vedere un colore è sempre un differenziare un colore rispetto all’altro”, per cui “il poter vedere deve essere una tale possibilità, che non
è riferita ad un oggetto del contesto, ma è tale da poter vedere verso entrambi gli estremi, scuro-chiaro, e con ciò verso tutta l’estensione della
molteplicità dei colori. […]. il percepire è rispetto agli oggetti nella condizione particolare di essere libero per essa. in questo essere libero esso è un determinato essere orientato a partire dai due estremi”166.
È solo seguendo il filo di questo ragionamento che, secondo Heidegger, si può comprendere in che senso Aristotele ritenga che le virtù
etiche, di cui la giustizia fa parte, si possano raggiungere attraverso l’abitudine. Portando alle estreme conseguenza la distinzione fra tecnica e
prassi, intese come due modi di essere dell’esserci, Heidegger tenta di
mettere in senso proprio Aristotele e lutero in dialogo fra loro. Come
abbiamo visto, secondo lutero la giustizia che vale per dio non si ottiene attraverso la ripetizione costante di singole azioni come insegna
Aristotele. Heidegger mette in discussione questa posizione sottolineando come éthos, abitudine, indichi “il portarsi in una determinata
possibilità attraverso il fare sempre più spesso [das Öfter-Durchma-
160.
161.
162.
163.
164.
165.
166.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 187.
Ivi, p. 86.
Ivi, p. 187.
Ibidem.
115
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chen]”167 e come tale “fare sempre più spesso” assuma un significato
differente nella tecnica e nella prassi. egli chiarisce tale differenza attraverso l’esempio aristotelico dell’apprendimento della scrittura.
la scrittura è una tecnica che risulta appresa quando se ne dominano le regole. Questo risultato si ottiene attraverso l’esercizio [Übung]
il quale consiste in un fare sempre più costante che ha come conseguenza il disinnescare la capacità di riflettere. Solo a questo punto,
quando non si ha più bisogno di riflettere su ogni passo, la tecnica è appresa. A differenza che per la tecnica, nell’azione invece è centrale la
proaíresis, “il modo del ‘decidersi’”168. l’azione infatti non è finalizzata al raggiungimento di un risultato, ma “ha il suo télos nel kairós”169 e
si basa quindi propriamente sulla decisione, la quale deriva dalla riflessione e dalla considerazione delle circostanze. il fare sempre più spesso, ovverosia il modo in cui ci si “abitua” nell’azione quindi non è l’esercizio – il quale mette anzi “fuori gioco” “tutto ciò che nell’azione è
decisivo”: “il riflettere, il decidere, il come dell’agire” – ma la ripetizione [Wiederholung] – termine con il quale Heidegger non indica “il
mettere in gioco una competenza radicata, ma l’agire in ogni attimo a
partire dalla decisione corrispondente”170.
nella formazione della virtù – questa la risposta che Heidegger dà
a lutero attraverso la sua interpretazione di Aristotele – “non ne va del
funzionamento, della routine”, in quanto “ogni competenza, intesa come una routine radicata, fallisce in relazione all’attimo”, “lo distrugge”171. Al contrario: “appropriazione e formazione della virtù [héxis] attraverso l’abitudine non significano altro che giusta ripetizione”172, rinnovamento della decisione nell’attimo dell’azione.
Poco appropriata è quindi, secondo Heidegger, la critica di lutero
alla concezione aristotelica della giustizia: nella vita chiamata a scegliere di volta in volta di se stessa, in cui sono in gioco “l’essere di volta in volta risoluti e l’appropriazione dell’attimo”, “l’agire sempre più
spesso” può indicare soltanto il continuo ripetere della decisione in
conformità all’attimo. la virtù consiste nel “cogliere l’attimo come tut-
167.
168.
169.
170.
171.
172.
Ivi, p. 188.
Ivi, p. 189.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 190.
Ibidem.
116
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to”173 e in ciò si identifica, per l’appunto, la sua difficoltà, determinando la tendenza della vita a prendersi alla leggera.
Heidegger quindi ha tratto da Aristotele le categorie per portare ad
espressione la dinamica di perdizione e salvezza interna all’esistenza e
da lutero ha ricevuto gli stimoli per liberare Aristotele dalla Scolastica,
accentuando all’interno della sua concezione dell’esistenza un momento decisionista a discapito di ogni riferimento normativo.
Articolando in questo modo la comprensione aristotelica della vita come prassi e come ricerca della virtù, egli mira ad individuare lo specifico movimento della vita nell’essere in cammino. Conformemente a
tale motilità egli intende comprendere la specifica temporalità della vita, rispetto alla quale “le tradizionali determinazioni del tempo falliscono”174. Quando sono in gioco “l’essere di volta in volta risoluti e l’appropriazione dell’attimo”175, infatti, “l’agire sempre più spesso” non
può indicare una durata in base alla quale dopo un tempo determinato si
è raggiunta la routine in modo definitivo, ma soltanto il continuo “ripetere della prassi”176. non è “il sempre” a spiegare la temporalità propria
della vita, ma “il sempre più spesso della ripetizione”. Questa affermazione deve essere messa in relazione al desiderio heideggeriano di comprendere le connessioni temporali della vita umana nella sua storicità177.
Per accentuare la contrapposizione al proprio modo di vedere la vita, Heidegger fornisce un’immagine della concezione greca del cosmo
e del ruolo dell’uomo in esso:
l’autentico-esserci-sempre, ciò che l’orientamento naturale nel mondo non
deve cercare a lungo è il cielo. il cielo greco e il mondo devono essere compresi come volta celeste, nel quale il sole sorge e tramonta. il prendersi cura
pratico dell’uomo si svolge nel centro, nel méson. la terra è il centro di orientamento per l’orientarsi nel mondo, il quale non deve essere necessariamente
teoretico né scientifico. Questo sistema di orientamento è assoluto. non c’è
nulla a partire da cui il mio esserci sia relativo. C’è solo l’esserci, l’esserci sulla terra come centro d’orientamento assoluto. Per Aristotele ci sono tre movimenti fondamentali: 1. allontanamento dal centro; 2. verso il centro; 3. intorno al centro – tre movimenti in cui l’esserci è come essere-nel-mondo. Tutto
173.
174.
175.
176.
177.
Ivi, p. 191.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
117
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ciò che è nel mondo è kósmos. l’ente del kósmos è caratterizzato dalla presentità di ciò che ci è già sempre, parousía. ogni ente è determinato nel suo essere in quanto peras, l’esser-finito, che ha il suo confine – ‘confine’ non in quanto determina la relazione fra due enti, ma in quanto momento d’essere dell’ente, péas, – è il suo luogo, il suo posto, il suo essere prodotto, l’essere-al-suoposto. in modo tale che l’ente che si muove nel kósmos ha sempre il suo determinato confine del movimento, cioè il suo luogo178.
Quando avviene “lo strappo nel cielo di carta”, però, quando il
mondo smette di essere kósmos, per divenire intreccio e connessione di
significati all’interno dei quali l’esistenza è gettata, l’uomo è rimesso alla decisione, è ripetizione di se stesso attraverso la decisione.
Ma che cosa decide l’esserci nella decisione? Heidegger sintetizza
così il suo discorso su Aristotele:
il ‘vivere insieme’ è caratterizzato quotidianamente e mediamente dalla dóxa.
l’esserci nella quotidianità si mantiene nell’indecisione del ‘più e del meno’,
non si prende sul serio, non è seria [unsachlich] ad un certo livello. l’uomo
non è serio rispetto a se stesso. Tuttavia, nella misura in cui è così, contemporaneamente ha la possibilità di decidersi per qualcosa di autentico, è nella possibilità della proaíresis, ha nella disvelatezza [Aufgedecktheit] del suo essere
una exis. […] essa è un disporre sull’autenticità del rapportarsi agli altri e a
se stessi. Aristotele definisce colui che è determinato da questa héxis come aleteuikos, che vuol dire: disporre dell’esserci nella sua sveltezza, darsi in modo
che il proprio darsi a sé e agli altri non sia un contraffare o un nascondersi, ma
un darsi come si è e come si pensa179.
Seguendo Aristotele e la sua analisi della sincerità, Heidegger individua questo essere autentico come una via di mezzo fra l’essere millantatore e l’essere ironico: “l’uomo in generale e per lo più, si comporta come un millantatore/vanaglorioso, nel parlare, si attiene a ciò che
è ben visto in generale, oppure, in alternativa, dice di sé cose che non ha
a disposizione oppure ancora afferma di sé cose più grandi o più importanti, di ciò che è – cioè si comporta in modo da nascondere il proprio essere autentico e non mostra tale essere autentico senza contraffazioni”180. l’altra possibilità è quella che Aristotele descrive in en 1127
178. Ivi, pp. 266-267.
179. Ivi, p. 264.
180. Ivi, pp. 264-265.
118
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a 23 e che Heidegger così traduce: “colui che nega ciò che è, che non
ammette il proprio essere, così come esso si mostra in modo immediato, colui che diminuisce il proprio essere”181. “la via di mezzo è
aleuthikós, l’essere-‘veritiero’, essere-‘autentico’”, che significa per
Heidegger: “ognuno agisce e si comporta come è!”182. Questo essere risoluto e deciso in quanto movimento dell’autentico e sincero divenire
ed essere ciò che si è ha il carattere della salvezza:
Mi accade qualcosa in modo tale che questo fare o subire un’esperienza ha il
carattere del sózein. Per il fatto che qualcosa mi viene incontro, mi accade, non
vengo annullato, ma solo allora pervengo nell’autentico stadio, cioè la possibilità che era in me diviene autenticamente effettiva183.
e significativamente, – soprattutto per il discorso che andremo a
fare di qui a poco intorno all’autenticità dell’esistenza – per spiegare
questo tipo di movimento che è alla base di tale fondamentale dinamica della vita, Heidegger fa riferimento ad Hegel, il quale avrebbe “tratto, utilizzando l’espressione Aufhebung, il fenomeno del sózein da Aristotele”184. riferendosi alla spiegazione del páthos fornita da Aristotele
nel De Anima185, Heidegger afferma che, con la salvezza, si innesca un
tipo di movimento che non può essere identificato con “il divenire-altro”, così come non si può dire che “un costruttore edile diviene un altro quando costruisce una casa”; al contrario “egli diviene esattamente
ciò che è”186.
7. La phrónesis come salvezza contro la tendenza dell’esserci al
nascondimento
l’aleuthikós, in quanto essere sincero e autentico con se stesso e
con gli altri, non è l’unico modo del disvelamento dell’esserci. nella
181. Ivi, p. 265.
182. Ibidem.
183. Ivi, p. 196.
184. Ivi, p. 195.
185. De Anima, B 5, 427 b 5 e s.: “neppure ‘subire’ [páskein] ha un unico significato, ma in una prima accezione è una specie di distruzione da parte del contrario, in un’altra è piuttosto la conservazione [sotéria], da parte di ciò che è in atto, di ciò che è in potenza e che gli è simile allo stesso modo che la potenza ha relazione con l’atto”.
186. HGA 18, p. 196.
119
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parte conclusiva della lezione su I concetti fondamentali della filosofia
aristotelica, Heidegger nota: “Aristotele tratta le diverse possibilità dell’aletheuein tematicamente nel Vi libro dell’Etica Nicomachea. […].
due sono le più elevate: 1. sophía, 2. phrónesis – l’‘avvedutezza’ nell’attimo e il theorein, quel modo di rendere accessibile il mondo, di dischiudere l’essere, nel quale non c’è nessuna sottesa intenzione pratica”187. egli si dedicherà ad una dettagliata analisi delle diverse modalità
dell’aletheúein però nell’attacco della lezione del semestre successivo,
di fatto dedicata ad un’interpretazione del Sofista188 di Platone. È interessante, nel contesto del percorso fin qui compiuto, riflettere sulla motivazione che è alla base della scelta di trattare tale dialogo platonico. “il
Sofista – come ogni dialogo – mostra Platone in cammino”189. in particolare però:
nel Sofista Platone prende in considerazione l’esserci umano nella sua estrema possibilità, ovverosia nell’esistenza filosofica. e cioè Platone mostra in
modo indiretto, che cosa significhi essere filosofo, nella misura in cui affronta che cosa significa essere sofista. egli non mette in evidenza questa differenza presentando un programma, e cioè dicendo che cosa bisogna fare se si
vuole essere un filosofo, ma filosofando190.
il fatto che Heidegger premetta alla “riflessione su cosa significa essere filosofi” l’analisi aristotelica dei diversi modi dell’alétheia, è un ulteriore conferma dello stretto legame che si dà fra questa riflessione e la
ricerca di un modello per la comprensione filosofica della vita, come salvezza e contro-movimento. Heidegger parte nella sua analisi dalla considerazione che il termine alétheia, che i Greci usano per indicare la verità,
ha un carattere negativo, come lascia intendere l’uso dell’alpha-privativo. Tale termine indica, quindi, il non essere più nascosto, ovverosia l’essere scoperto. Heidegger sottolinea: “questa espressione negativa mette in
evidenza come i Greci fossero dell’idea che ciò che è scoperto deve essere prima guadagnato/ottenuto [errungen], che esso non è qualcosa di disponibile innanzitutto e per lo più”191. egli individua una duplice forma
187.
188.
189.
190.
191.
Ivi, p. 265. Si veda a tale proposito: reGinA [1993].
Cfr.: HGA 19.
Ivi, p. 14.
HGA 19, p. 12.
Ivi, p. 16.
120
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di nascondimento: da un lato ciò che è nascosto in quanto non ancora conosciuto, dall’altro, ciò che è nuovamente nascosto attraverso false opinioni. “Così – dice Heidegger – l’esserci quotidiano si muove in un duplice nascondimento: innanzitutto nella mera mancanza di conoscenza,
indi però in un nascondimento ancora più pericoloso, nella misura in cui
ciò che è nascosto diviene non-verità attraverso la chiacchiera”192.
da questo stato di cose deriva per Heidegger il duplice compito
della filosofia che consiste “in primo luogo nell’irrompere la prima volta in modo positivo verso le cose; dall’altro lato e, contemporaneamente, nell’assumere un atteggiamento di lotta contro la chiacchiera”193.
Questa duplice tendenza offre lo stimolo per il lavoro spirituale di Socrate, Platone e Aristotele che si concretizza nella lotta contro la retorica e la sofistica. Heidegger afferma che “l’osservazione più ravvicinata
del loro lavoro mostra proprio di quale sforzo ci fosse bisogno, per penetrare nell’essere, passando, contemporaneamente attraverso la chiacchiera”194. e questo significa che “non dobbiamo aspettarci di ottenere
questa cosa con meno sforzo, ancor più che su di noi grava una ricca e
intricata tradizione”195. noi siamo, in un certo senso, questa tradizione,
in quanto “la nostra filosofia e la nostra scienza vivono a partire da questi fondamenti, e cioè a partire dalla filosofia greca, in modo talmente
intrinseco che non se ne è neppure più consapevoli”196. Con l’interpretazione di Platone Heidegger infatti rende trasparenti questi fondamenti e allo stesso tempo determina più da vicino il compito attribuito alla
filosofia. egli infatti afferma: “comprendere la storia non può significare altro che comprendere noi stessi, non nel senso di un poter constare
che cosa ci è successo, ma nel senso di un esperire che cosa dobbiamo
fare”197. Partendo dal presupposto che Aristotele abbia ben compreso
Platone e dal principio ermeneutico secondo il quale nell’interpretazione si deve procedere da ciò che è chiaro in direzione di ciò che è ancora oscuro, Heidegger intende penetrare nel pensiero di Platone, seguendo il filo conduttore della filosofia aristotelica.
192.
193.
194.
195.
196.
197.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 10.
Ivi, p. 11.
121
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in questa ottica egli procede all’analisi del Vi libro dell’Etica Nicomachea e dei diversi modi di dispiegarsi dell’alétheia. egli parte dalla definizione dell’alétheia come “modo d’essere dell’esserci umano”198, il quale deve essere inteso come “l’essere scoperto e il sottrarre
il mondo alla chiusura e al nascondimento”199. Come è noto, Aristotele
individua cinque modi dell’aletheúein: la téchne, ovverosia l’avere una
conoscenza che riguarda il produrre e l’avere a che fare, l’epistéme, cioè
la scienza, la phrónesis, ovverosia l’avvedutezza che riguarda la situazione dell’agire, la sophía, che è l’autentico comprendere e il vous, il
presupporre. di essi, l’epistéme e la sophía riguardano l’ente che è sempre identico a se stesso, la téchne e la phrónesis l’ente che può essere diversamente. il voús è la conoscenza intuitiva dei principi. Con l’intenzione di individuare quale è la forma più elevata di sapere e di disvelamento, Heidegger si sofferma in particolare sull’analisi della phrónesis
e della sophía e del loro reciproco rapporto. Qui di seguito ci si baserà
sulla sintesi di tali connessioni problematiche che in modo esemplare
Heidegger ha esposto nel Natorp-Bericht, per poi accentuare le specifiche differenze presenti nella trattazione anteposta al Sofista.
nel Natorp-Bericht Heidegger definisce la sophía come “il puro
comprendere che guarda in una direzione ben precisa”200 e che “custodisce il ‘da cui’ dell’ente e l’ente stesso che è sempre e necessariamente ciò che è”201; la phrónesis come “l’avvedutezza, che giudica nell’aver cura per…” che “prende in custodia un tale ente che può essere diverso in se stesso e nel suo ‘da cui’”202. entrambi questi modi del compimento sono méta lógou, hanno il carattere dell’esplicare discorsivo.
essi comprendono le archaí non come a se stanti, ma come archaí – per,
proiettandole in un orizzonte di connessioni.
Ponendo come oggetto della filosofia la vita effettiva, Heidegger è
particolarmente interessato al modello conoscitivo della phrónesis, per
la sua capacità di mediazione fra particolare e universale, da un lato, e
per il suo rapporto con la decisione, dall’altro. nel Vi libro dell’Etica
Nicomachea Aristotele definisce phrónimos colui che “sa deliberare be-
198.
199.
200.
201.
202.
Ivi, p. 17.
Ibidem.
Ivi, p. 55.
Ibidem.
Ibidem.
122
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ne su ciò che è buono e vantaggioso per lui, non da un punto di vista parziale, come per esempio per la salute o per la forza, ma su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale”203. la phrónesis riguarda
le azioni, ovverosia quegli enti che possono essere diversamente e che
hanno il loro fine in loro stessi. essa pertanto è “una disposizione vera,
ragionata, ovverosia una disposizione all’azione avente per oggetto ciò
che è bene e ciò che è male per l’uomo”204. in quanto tale essa non ha
conoscenza solo degli universali, ma anche dei particolari205, in senso
specifico, dell’ultimo particolare. nel modo in cui si relaziona a tale ultimo particolare consiste la sua differenza con il noús. Questo ha come
oggetto sia i termini ultimi che i primi, ma non il ragionamento riguardo ad essi. l’intelletto coglie “da una parte i termini immutabili e primi
nell’ordine delle dimostrazioni, e, dall’altra, nelle questioni pratiche,
coglie il termine ultimo e contingente”206. la phrónesis coglie invece
l’ultimo particolare con il ragionamento, applicando, nella situazione
concreta, la conoscenza degli universali. essa è una disposizione a deliberare bene “conforme al mezzo, al modo, e al tempo dovuti”, “sia in
senso assoluto, sia in relazione ad un fine determinato”207. essa è quindi la capacità di saper mediare la conoscenza dei principi universali sia
rispetto alla singola situazione dell’azione sia rispetto all’orizzonte globale di tale azione che riguarda la vita compresa come intero.
nella ricostruzione offerta nel Natorp-Bericht, Heidegger pone
l’accento su tre aspetti della phrónesis: la sua capacità di cogliere l’intero della situazione dell’azione, il tipo di motilità dell’oggetto con cui
essa primariamente si relaziona, la modalità non contemplativa in cui
l’oggetto viene colto. Sullo sfondo emerge la questione della decisione.
Heidegger definisce la phrónesis in questi termini: “la phrónesis rende
accessibile la situazione di colui che agisce, tenendo fermo l’oú éneka,
il per-chè, mettendo a disposizione il per-che cosa appena determinato,
afferrando l’‘adesso’; prescrivendo il come”208. essa si dirige verso
203. AriSToTele, Etica Nicomachea, trad. it. a cura di C. Mazzarelli, Milano 2000.
d’ora in poi: en. Qui: en 1140 a 26-30.
204. en, 1140 b 5-6.
205. en, 1141 b 15-17.
206. en,1143 b 1-4.
207. en, 1142 b, 30-31.
208. nB, p. 584 ; trad. it., p. 56.
123
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l’éskaton, l’ultimo particolare, ed è “possibile solo perché è prima una
aisthesis, e cioè, in fin dei conti, semplicemente un guardare oltre [schlichtes Übersehen] l’attimo”209. egli, quindi, pone l’accento sulla comprensione dell’intero della situazione attraverso la capacità di dominare
l’attimo proiettandolo sull’orizzonte più ampio della comprensione, nel
momento della decisione. nell’ambito della situazione la phrónesis riguarda, in senso specifico, le azioni umane. Così Heidegger:
la phrónesis custodisce nel suo proprio essere il verso-che dell’avere-a-chefare della vita umana con se stessa e il modo di questo avere-a-che-fare. Questo avere-a-che-fare è la práxis: il trattare con se stessi non nel modo dell’avera-che-fare producente, ma solo in quello dell’ avere-a-che-fare che agisce210.
l’ente che è disvelato in tale modalità del disvelamento è il
praktón. esso viene compreso da Heidegger a partire dall’orizzonte del
movimento come “non ancora questo o questo essere”211, che, “in quanto verso-che della disponibilità concreta ad un avere-a-che-fare, di cui
la phrónesis rappresenta la costitutiva chiarificazione”212, è “contemporaneamente già questo o questo”213. Ciò è possibile perché la modalità
d’acceso ad esso non ha il carattere della mera contemplazione. Heidegger comprende la phrónesis come “la chiarificazione dell’avere-ache-fare [Umgangserhellung] che contribuisce a temporalizzare la vita
nel suo essere”214. Ponendo l’accento sul momento della decisione, infatti, egli definisce la verità pratica come “l’attimo – di volta in volta
scoperto nella sua pienezza e disvelatezza – della vita effettiva nel come della disponibilità ad aver-a-che-fare con se stessa nel modo della
decisione, e ciò avviene all’interno di un rapporto effettivo che si prende cura del mondo proprio nel momento in cui esso viene incontro”215.
la phrónesis è prescrittiva, non lascia l’ente a cui si relaziona immutato, ma spinge l’avere-a-che-fare “nell’atteggiamento fondamentale della disponibilità a …, del mettersi in cammino verso [des Losbrechens
209.
210.
211.
212.
213.
214.
215.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 385; trad. it., p. 57.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
124
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auf]”216. Heidegger prosegue la sua analisi, mettendo in evidenza come
Aristotele descriva le caratteristiche della phrónesis attraverso un confronto con le altre disposizioni e attraverso la separazione delle diverse
prospettive del fenomeno analizzato. l’interpretazione di questo fenomeno mette in luce non solo l’ente e l’essere dell’ente che la phrónesis
custodisce, ma anche il suo carattere ontologico. la phrónesis è “un
modo del disporre sulla custodia dell’essere”217 e, in quanto tale, è “ciò
che si temporalizza nella vita stessa come sua possibilità, portandola in
un determinato stadio – cioè portandola a compimento in un determinato modo”218. Questi due aspetti: la disposizione sulla custodia dell’essere da un lato, la temporalizzazione della vita come sua possibilità, dall’altro, lasciano emergere, secondo Heidegger, nel fenomeno della
phrónesis un “raddoppimanento del punto di vista in cui sono posti
l’uomo e l’essere della vita”219. nella avvedutezza, propria della phrónesis la vita è lì “in un concreto modo del con-che dell’avere-a-che-fare”220. l’essere di questo con-che, secondo Heidegger, però, non è determinato dal punto di vista ontologico in maniera positiva, ma solo formalmente come “ciò che può essere anche diversamente e non è necessariamente e sempre come è”221. Questa determinazione ontologica è
compiuta in contrapposizione negativa ad un altro e autentico essere:
l’essere che sempre è, che è disvelato e custodito nella sophía. Heidegger, però, mette in evidenza come questo essere autentico “non è ottenuto, da parte sua, secondo il suo carattere fondamentale, in modo esplicativo a partire dall’essere della vita in quanto tale, ma deriva la sua
struttura categoriale da una radicalizzazione ontologica, compiuta in un
determinato modo, dell’idea dell’essere in movimento”222. Come base
fenomenale per questo movimento e per la sua struttura di senso Aristotele assume l’esempio della produzione. Come abbiamo visto, il filo
conduttore dell’ontologia aristotelica non è dato, in senso prioritario,
dall’ambito tematico della vita, quanto da quello della téchne. non è la
216.
217.
218.
219.
220.
221.
222.
Ibidem.
Ivi, p. 385; trad. it., p. 59.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
125
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vita nella sua motilità ad offrire l’autentico oggetto di conoscenza, ma
soltanto l’essere “in cui il movimento è giunto alla sua fine”223. nel quadro dell’ontologia aristotelica, “la struttura ontologica dell’essere dell’uomo diviene comprensibile a partire dall’ontologia dell’ente nel come della sua determinata motilità e nella radicalizzazione ontologica di
questa motilità”224. Ma da ciò deriva che il puro comprendere non custodisce la vita nel suo modo di essere effettuale, in quanto essa è quell’ente che è, di volta in volta, proprio in quanto può essere diversamente e che, quindi, “l’essere della vita, in quanto tale, deve essere visto nella pura temporalizzazione della sophía solo a causa della motilità disponibile in essa in modo autentico”225. Pertanto la sophía risulta essere la forma più adeguata di sapere solo a partire dall’idea aristotelica di
movimento.
Tuttavia anche nell’interpretazione della struttura della sophía
Heidegger mette in evidenza una duplicità di prospettiva. la sophía rappresenta, da un lato, la più autentica temporalizzazione della vita umana, dall’altro, invece, implica in se stessa una tendenza deiettiva che la
spinge a perdere di vista proprio la vita in cui essa si radica. Attraverso
l’analisi dei primi due paragrafi del primo libro della Metafisica, Heidegger sottolinea come la struttura del puro comprendere sia comprensibile “a partire dal suo radicamento, conforme all’essere, nella vita fattuale e nel modo della sua genesi in essa”226. nella vita sarebbe insita
una “tendenza a vedere di più” da cui derivano gradualmente sia la
struttura sia l’oggetto tematico della sophía. nella prospettiva di Aristotele, la filosofia, quindi, diviene accessibile solo in quanto “interpretazione di una motilità effettiva del curare nella sua ultima tendenza”227. Allo stesso tempo, però, in quanto esso è il frutto della tendenza
a prender distanza dalle attività produttive, il guardare in una direzione
ben precisa, caratteristico della sophía perde di vista proprio la vita stessa in cui è. nella misura in cui questo avere-a-che fare, in quanto puro
comprendere, invece, temporalizza la vita, lo “fa soltanto attraverso la
223.
224.
225.
226.
227.
Ibidem.
Ivi, p. 386; trad. it., p. 61.
Ibidem.
Ivi, p. 387; trad. it., p. 64.
Ivi, p. 388; trad. it., p. 65.
126
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sua motilità in quanto tale”228. la filosofia si radica nella vita. essa è il
più autentico modo di temporalizzazione della vita stessa. Tuttavia nella sua tendenza a comprendere di più, essa perde di vista proprio la vita in cui si radica, conservandone solo un inautentico carattere di motilità.
Questa tendenza deiettiva, in Aristotele solo accennata, raggiunge
l’apice, quando la teoria, per lo Stagirita ancora motilità autentica della
vita, viene trasposta nell’ambito della possibilità e della validità della
conoscenza. Heidegger, infatti, mette in evidenza come, per quanto l’esigenza di un vedere di più implichi la perdita delle connessioni del
mondo circostante, tuttavia, in Aristotele, anche nella più completa autonomia “il comprendere che guarda in una direzione ben precisa non
nasconde la sua provenienza; anche in questa autonomia c’è un modo
dell’avere-che-fare e un modo della vita. […]. Proprio nell’abbandono
degli interessi più prossimi e dei calcoli per il successo si ottiene l’autonomia dell’autentico comprendere che rende disponibile e forma per
esso la decisiva orientazione nell’avere-a-che-fare e l’apertura di senso”229. la sophía, per quanto abbia come suo verso-che connessioni di
tipo oggettivo che si allontanano quanto più possibile dalla costellazione del mondo, riesce a conservare nella sua struttura costitutiva una
traccia della sua provenienza dalla vita. Heidegger, però, sottolinea come “questa interpretazione del senso dell’autentico comprendere [abbia] il suo senso, per nulla utopico, solo all’interno dello specifico modo della vita e dell’interpretazione della vita greca”230. Questo atteggiamento teoretico diviene, però, sterile “laddove, in quanto qualcosa di
propriamente greco, viene invece trasposto in altre connessioni vitali e
altre tendenze esplicative”231.
Sintetizzando i risultati raggiunti da Heidegger attraverso l’interpretazione dell’ontologia aristotelica e dei modi di disvelamento ad essa corrispondenti è possibile constatare come il primato del modo di disvelamento della sophía derivi dall’orientamento dell’ontologia aristotelica al modello della téchne. in seguito ad una tendenza deiettiva alla quale tale ontologia è sottoposta, la comprensione dell’essere, come
228.
229.
230.
231.
Ibidem.
Ibidem.
HGA 62, p. 85
Ivi, p. 84.
127
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essere prodotto, perde il suo contatto con il mondo circostante da cui
deriva e viene esteso a tutta la vita, perdendo il senso della sua provenienza e dalla sua origine. Contemporaneamente, in ulteriore tendenza
deiettiva, essa si consolida nel concetto di ‘realtà’ che è il corrispettivo
ontologico dell’impostazione problematica della teoria della conoscenza. Tutto ciò ha come conseguenza l’assunzione dell’obiettività
come caratterizzazione propria dell’oggetto, compreso nella sua essenza come ‘natura’ e, quindi, l’acquisizione di quest’ultima come il filo
conduttore per la comprensione dell’essere in generale. A completare
questo quadro si aggiunge lo spostamento della sophía, per Aristotele,
ancora motilità autentica della vita, nell’ambito delle possibilità e della validità della conoscenza. Se la comprensione della sophía come suprema motilità della vita non rappresenta, ancora, nel mondo greco, in
tutto e per tutto, un’utopia, Heidegger sottolinea invece come “nel
mondo moderno il conoscere fu trasposto in un altro campo di interesse: limiti, validità, possibilità e criteri dell’assicurazione” e come “a
partire da questo campo esso assuma un nuovo senso nella vita, indebolendo la precedente tradizione e trascinandola nella sua struttura
problematica”232.
nella misura in cui però, come abbiamo visto, Heidegger, guidato
da una suggestione luterana, tenta di contrapporre ad un’ontologia radicata nel campo fenomenico della téchne un’ontologia della vita come
inquieto cammino in vista della salvezza e della “redenzione”, egli mira anche ad un capovolgimento del primato della sophía. in un appunto
datato 2 settembre 1922, pubblicato nell’appendice del volume 62 della Gesamtausgabe, la sua intenzione viene chiarita in questi termini:
lasciarsi prescrivere da Aristotele stesso una caratterizzazione della ricerca in
quanto tale, in modo tale da poter ottenere, interpretando, noi stessi un’autentica comprensione di questa caratterizzazione (in quanto interpretazione della
vita)233.
Procedendo parallelamente al discorso di Aristotele, dall’assunzione della vita come tema della filosofia, egli fa derivare il primato della
phrónesis, come suo possibile modello conoscitivo. A sostegno di que-
232. Ivi, pp. 119-120.
233. Ivi, p. 42.
128
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sto tentativo egli stesso mette in evidenza la duplicità di prospettive presente nella valutazione della sophía. Heidegger infatti traduce e commenta la conclusione del discorso aristotelico circa la sophía, nella quale si afferma che “tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa,
ma nessuna sarà superiore” (Met A 2, 983 a 10-11), nel modo seguente:
Più urgente [in riferimento alle urgenze della vita derivando da esse per sé] sono prima di essa tutte le altre, dotata di maggiore valore, nessuna [nessuna è
più significativa se si guarda al carattere di significatività di ciò di cui l’uomo
si può appropriare in generale, e a ciò che può riguardare gli uomini secondo
il loro senso d’essere. – due diversi punti di vista!]234.
Se si guarda alla costituzione dell’uomo nell’ambito dell’ontologia
aristotelica solo la sophía può essere il tipo di sapere che corrisponde al
massimo alle sue potenzialità. nella misura in cui Heidegger, però, si ripropone di comprendere la vita con altre categorie, acquisisce significato il modello conoscitivo della phrónesis, “più urgente” rispetto al
problema della vita, in quanto dalla vita deriva e in vista della vita si dispiega.
Heidegger conferma questa prospettiva anche nella parte iniziale
della lezione sul Sofista. in essa egli ritorna sulla trattazione della phrónesis, arricchendola di alcuni particolari molto utili per la determinazione del suo rapporto con la filosofia e la vita. Partendo dalla definizione aristotelica del phrónimos, come colui che riflette, Heidegger sottolinea come la phrónesis riguardi “l’essere dell’uomo stesso, la eu zén,
e cioè che l’esserci sia un qualcosa di giusto”235. Ciò che viene preso in
considerazione nella phrónesis è la vita stessa236, il suo telos è l’uomo
stesso237. nel mettere in evidenza il legame della phrónesis con l’aletheúein, Heidegger afferma: “nella misura in cui è l’uomo stesso ad
essere l’oggetto dell’aletheúein della phrónesis, l’uomo deve essere in
un certo senso nascosto, deve essersi perso di vista, in modo tale da avere bisogno di un aletheúein, per divenire trasparente a se stesso”238. egli
individua diversi motivi per i quali l’uomo non si vede in un orizzonte
234.
235.
236.
237.
238.
Ivi, p. 45.
HGA 19, p. 49.
Ibidem.
Ivi, p. 51.
Ibidem.
129
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autentico: una situazione emotiva può nascondere l’uomo a sé stesso,
oppure egli può concentrarsi su cose inessenziali o ancora può essere
vergaffen in sé stesso. Contro “il pericolo”239 implicito in tutte queste
tendenze al nascondimento, è necessaria, secondo, Heidegger “la salvezza della phrónesis”240. egli infatti ritiene che “non [sia] proprio per
nulla scontato che l’esserci scopra se stesso nell’autenticità del suo essere; anche in questo contesto, l’alétheia deve essere strappata/ottenuta”241. Per sottolineare la potenzialità salvifica della phrónesis, Heidegger evidenzia come “Aristotele e Platone si riferiscano ad una particolare etimologia: sophrosúne sózei ten phrónesis (cfr. b 11 e s.), “la Besonnenheit è ciò che salva la phrónesis, ovverosia ciò che custodisce
contro la possibilità del nascondimento. Platone nel Cratilo definisce la
sophrosune allo stesso modo: “sophrosúne de sotéria […]
phronéseos”242. in sintesi Heidegger afferma: “nella misura in cui della determinazione fondamentale dell’uomo fanno parte edoné e lúpe,
l’uomo è continuamente nel pericolo di nascondere se stesso attraverso
se stesso. la phrónesis quindi non è scontata, ma è un compito, che deve essere raggiunto in una proairesis. […]. in questo modo la phrónesis, nel suo compimento, è in una continua lotta contro la tendenza al
nascondimento, che si trova nello stesso esserci”243. Sia il pericolo che
la possibilità di resistervi e di contrapporvisi si trova nell’esserci stesso.
Così che, in ultima analisi, Heidegger può definire la phrónesis come
quella disposizione in cui l’esserci perviene e dispone della “trasparenza di se stesso”244.
Attraverso la comparazione con altri due modi del dispiegamento
dell’alétheia, la téchne e l’epistéme, Heidegger mette in evidenza due
aspetti della phrónesis, estremamente rilevanti per la comprensione della sua essenza in rapporto alla vita e la filosofia. in primo luogo egli insiste sulla sostanziale differenza fra la phrónesis e la téchne, evidenziando come la tecnica tragga vantaggio dalla possibilità dell’errore, mentre
per la phrónesis l’errore non consiste in una possibilità più elevata, quan-
239.
240.
241.
242.
243.
244.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 52.
Ibidem.
Ibidem.
130
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to in un Verderben. la phrónesis non può fare della vita un esperimento,
ma si trova di fronte ad un aut-aut. essa è rivolta e proiettata verso la mesótes e questo significa che “nella phrónesis non c’è un più e un meno,
né ‘un sia questo che quello’ come nella téchne, ma solo la serietà di una
determinata decisione, il centrare il bersaglio o il mancarlo, l’aut aut”245.
la caratterizzazione più propria della phrónesis emerge dal confronto
con l’epistéme. Mentre la scienza implica la possibilità del “poter-essere-dimenticato”246, per la phrónesis non si dà “la possibilità deiettiva del
dimenticare”247. in stretta connessione con la concezione cristiana di vita, Heidegger afferma:
Certo la spiegazione che Aristotele dà è breve, ma è chiaro dal contesto che non
ci si spinge troppo in là nell’interpretazione, se si afferma che qui Aristotele si
è imbattuto nel fenomeno della coscienza. la phrónesis non è altro che la coscienza messa in movimento che rende un’azione trasparente. la coscienza non
si può dimenticare. Certo ciò che la coscienza disvela può essere nuovamente
coperto attraverso […] le passioni. Ma la coscienza ritorna all’attacco248.
lottando contro la tendenza al nascondimento insita nella vita, la
coscienza non indica però in direzione di un Sollen, ma invita alla sincerità, all’essere autenticamente se stesso.
Se nella prima lezione dedicata ad Aristotele, Heidegger fornisce
un quadro generale delle categorie della motilità della vita come caduta e salvezza, nelle lezioni successive dedicate al pensiero dello Stagirita, egli si sofferma piuttosto sull’analisi di singoli concetti che nella loro interazione contribuiscono alla comprensione della struttura dell’esistenza umana.
Un ruolo fondamentale è svolto dal concetto di agathón, ciò in vista di cui l’esserci è e che, in quanto ciò-oltre-cui-nulla, delimita l’esserci riportandolo a se stesso. Attraverso tale struttura Heidegger riporta all’interno dell’orizzonte della sola esistenza quella che altrimenti
nella vita religiosa è un’esperienza dialogica: il cristiano si definisce relazionandosi a dio, l’esserci, così come inteso da Heidegger, a partire e
245. Ivi, p. 54.
246. Ivi, p. 56.
247. Ibidem.
248. Ibidem. Cfr. a questo proposito: VolPi [2007]. Sul tema della coscienza in
connessione all’etica, vedi anche: CABeSTAn [2005].
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in vista di se stesso. l’unica forma di trascendenza è relativa alla propria caduta, che qui prende forma di dóxa, una comprensione media della quotidianità della vita, in cui non si cerca la verità, ma ci si attiene a
ciò che gli altri dicono.
l’influsso di lutero in tale lettura di Aristotele è evidente nel tentativo di rintracciare nella concezione aristotelica della vita umana la
tensione verso la salvezza, nel particolare páthos della paura, intesa come condizione della possibilità del coraggio e quindi come molla del
movimento salvifico249. Heidegger approfondisce tale dinamica di salvezza attraverso lo studio della genesi della virtù. egli risponde alla critica luterana secondo la quale Aristotele intende raggiungere la virtù,
nello specifico la giustizia, attraverso la ripetizione di azioni sempre
uguali, contrapponendo la práxis alla téchne, intese come due dimensioni dell’esistenza. Solo per quest’ultima, finalizzata alla realizzazione
di un prodotto attraverso l’applicazione di un protocollo, la critica luterana è pertinente. la vita umana però non è tecnica, ma prassi. relativamente alla prassi però la ripetizione non è una routine, ma un agire in
ogni attimo a partire dalla decisione corrispondente. la mesótes a cui
l’azione virtuosa si orienta non è una norma assoluta o un principio di
gerarchie di valori, ma un modo di stare nel mondo che si caratterizza
nella disposizione a mantenere il centro, ovverosia per Heidegger, a co-
249. Cfr. HABerMAS [1987]. Qui Habermas spiega il riferimento heideggeriano alla grandezza e alla verità del nazionalsocialismo nella lezione del 1935 Einführung in die
Metaphysik, a partire dalla dinamica di pericolo/salvezza, individuata come costante del
pensiero di Heidegger. Mentre le lezioni degli anni Venti sono caratterizzate dalla contrapposizione fra colui che è stato scelto (dall’essere) al borghese, fra il pensiero originario e il senso comune, fra il coraggio della morte e l’abitudine di ciò che è senza pericolo, e dall’innalzamento dell’uno e dalla condanna dell’altro; negli anni Trenta, quando
l’europa si trova nella morsa delle due polarità del dispiegamento planetario della tecnica: America e russia, la salvezza rispetto al pericolo viene individuata nel nazionalsocialismo. Alla decisione quasi religiosa del singolo subentra l’assunzione, non meno religiosa, del destino della comunità. Successivamente Habermas accentua questa tesi, sottolineando come nel pensiero di Heidegger, il passaggio dalla teoria all’ideologia sarebbe
avvenuto solo nel 1929. Criticando questa posizione nel suo libro La comunità, la morte,
l’occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra”, losurdo sottolinea “la notevole presenza della Kriegsideologie già in Essere e Tempo e anche ben prima del ’29” (Ivi, p. 177),
ritenendo che “la separazione tra teoria e ideologia è per così dire non orizzontale, bensì
verticale, nel senso che attraversa la produzione di Heidegger nel suo complesso” (Ivi, p.
178).
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gliere l’attimo. la virtù quindi non è un’abilità finita o un atteggiamento acquisito una volta per tutte, ma un modo di essere orientato nel mondo che consiste nel giusto afferramento dell’attimo. lungi dall’essere
una routine, la vita come prassi è un continuo decidere della propria esistenza, un essere in cammino da uno stadio all’altro che Heidegger, leggendo Aristotele a partire dall’esperienza di vita cristiana, definisce come la vera inquietudine. Senza essere orientata ad una norma, la decisione non fa altro che portare ad espressione l’essere-autentico di colui
che agisce, il che comporta che ognuno agisce e si comporta come è. la
salvezza che qui si identifica con il decidere della propria vita proprio
della prassi contrapposta allo gestire in modo tecnico la propria vita attraverso l’applicazione di un protocollo, non è divenire altro da sé, ma
divenire effettivamente ciò che si è. A tale tipo di movimento – e questa
affermazione ci tornerà utile più avanti – avrebbe pensato Hegel ne definire il suo concetto di Aufhebung. Questa salvezza però secondo Heidegger avviene in Aristotele attraverso quella lotta alla tendenza dell’esistenza al nascondimento di se stessa che egli identifica con quella sorta di coscienza in movimento rappresentata dalla phrónesis.
Heidegger ha appreso da lutero la dinamica di annullamento e redenzione attraverso l’esperienza della croce, della paura e della morte;
da Paolo la contrapposizione di uomo nuovo e uomo vecchio, fra legge
e grazia, fra rito e fede e la base temporale ad essa sottesa; da Agostino
la tensione di questa contrapposizione all’interno del cammino della vita; da Aristotele le categorie filosofiche della motilità della vita protesa
fra caduta e salvezza.
non ci resta che esaminare adesso se e come questo percorso confluisce nell’opus maximum.
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PArTe SeCondA
le rAdiCi TeoloGiCHe dell’AnAliTiCA eSiSTenziAle
Nel filosofare non mi comporto religiosamente,
anche se come filosofo posso essere un uomo religioso.
L’arte però sta in questo:
filosofare ed essere autenticamente religiosi,
vale a dire assumere il proprio compito mondano,
sul piano della storicità e della storia,
nel filosofare, in un fare e in un concreto modo del fare,
non in ideologie e fantasie religiose
HeideGGer,
Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele (1921/22)
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CAPiTolo i
lA deFinizione ForMAle di eSiSTenzA
1.
L’esistenza protesa fra autenticità e inautenticità
nel 1926 Husserl invita Heidegger a pubblicare un testo in vista
della sua Berufung come professore ordinario all’università di Friburgo.
raccogliendo l’invito, Heidegger pubblica, prima sulla rivista diretta da
Husserl, poi presso niemayer a Tübingen la prima parte di un’opera dedicata alla ricerca del senso dell’essere che poi resterà incompiuta. il
suo obiettivo era quello di pervenire alla riformulazione dell’ontologia
partendo dall’interpretazione delle strutture di un ente particolare: l’esserci. Questo obiettivo non verrà mai raggiunto, come Heidegger stesso ha suggerito, per problemi legati al linguaggio, ovverosia per l’impossibilità di poter esprimere con il linguaggio l’essere senza oggettivarlo e forzarlo in categorie tradizionali inappropriate. del programma
originario resta l’analitica esistenziale, un’analisi delle strutture fondamentali dell’esserci, comprese nella loro costituzione ontologica.
in essa Heidegger parte da quella che vuole essere una definizione
formale dell’esserci in quanto esistenza. dopo aver chiarito l’obiettivo
del lavoro e aver fornito indicazioni di carattere metodologico nei primi paragrafi, egli inizia la sua trattazione partendo da una definizione
dell’oggetto tematico della ricerca: l’esserci, definito come l’ente che
noi stessi siamo e che si relaziona al suo proprio essere nel modo dell’aver-da-essere. da questa definizione Heidegger trae coerentemente
due ordini di conseguenze: l’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza e questo significa che l’esserci si rapporta alla propria essenza
nel modo della possibilità a differenza di una qualsiasi altro ente semplicemente-presente. in quanto tale esistenza è sempre mia, essa non
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può essermi indifferente1: essa è la mia possibilità più propria. in sintesi l’essenza dell’esserci consiste nell’esistenza, cioè nel suo aver-da-essere, tale esistenza è la possibilità più propria per ciascuno. Heidegger
raccoglie questi due aspetti nell’espressione: l’esserci è quell’ente al
quale nel suo essere ne va del suo essere.
Poche righe più avanti, però, procedendo nell’analisi dell’essenza
dell’esserci, Heidegger sposta l’attenzione dallo zu-sein, l’aver-da-essere, essenziale all’esistenza, al sich zueigen, l’appropriarsi di sé, il farsi proprio. l’esserci non solo ha da-essere, ma “nella sua essenza ha la
possibilità di essere proprio/autentico (eigentliches) e cioè di appropriarsi di se stesso, di farsi proprio [sich zueigen]”2. da tale caratteristica dell’esserci, l’essere proprio/autentico, e non dal semplice fatto di
essere indifferente possibilità, come invece Heidegger afferma, deriva
che “questo ente può, nel suo essere, o ‘scegliersi’, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo ‘apparentemente’”3. l’esserci non è un indifferente insieme di possibilità, ma ha
in se stesso la misura di ciò che gli è proprio e di ciò che gli è estraneo,
non relativamente alla propria generale essenza, ma in quanto singolo
esserci. Quando più tardi, nel § 12 Heidegger definirà “il concetto formale di esistenza”4 lo farà in questi termini:
l’esserci è un ente che, comprendendosi nel suo essere si rapporta a questo essere. […]. l’esserci è inoltre l’ente che io stesso sempre sono. l’essere-sempre-mio appartiene all’esserci esistente come condizione della possibilità dell’autenticità e dell’inautenticità. l’esserci esiste sempre in uno di questi modi
o nell’indifferenza modale rispetto ad essi5.
Consapevole dell’aver introdotto, attraverso la contrapposizione di
autenticità e inautenticità, un elemento valutativo, però già nel § 9 Heidegger si è preoccupato di sottolineare come autenticità e inautenticità
siano “espressioni scelte nel loro senso terminologico stretto”, e come
l’inautenticità non rappresenti, come potrebbe sembrare, “un minor es-
1. “l’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria”, eeT, p. 41; trad. it., p. 65.
2. eeT, p. 42; trad. it., p. 65.
3. Ibidem.
4. Ivi, p. 53; trad.it., p. 76.
5. Ibidem.
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sere” o “un grado inferiore”6 di essere, ma semplicemente, potremmo
dire, una misura di coerenza o di incoerenza con il proprio se stesso.
Assumendo questa definizione formale dell’esistenza come guida,
compito dell’analitica esistenziale è comprendere l’esserci come essere-nel-mondo, un fenomeno unitario che si articola in tre momenti fondamentali: la struttura ontologica del mondo nella sua mondità (ovvero,
l’essenza del mondo); il chi dell’esserci e il con-esserci (ovvero, l’essenza dell’esistenza) e l’in-essere in quanto tale (ovvero, la relazione fra
io e mondo, da un lato, e l’articolazione dell’io, dall’altro).
Attraverso l’analisi di tali strutture e del loro legame ontologico,
Heidegger giungerà a definire l’essere-nel-mondo come Cura, fornendo
in questo modo la spiegazione ontologica di un’idea dell’uomo già acquisita nell’autointerpretazione ontica dell’esserci7.
Heidegger definisce questa struttura unitaria anche apertura: “l’ente la cui essenza è costituita dall’essere-nel-mondo è il suo ‘Ci’”8; l’espressione ‘Ci’ significa apertura essenziale: “l’esserci è la sua apertura”9. il suo obiettivo è quello di cogliere l’articolazione interna di questa apertura.
2.
La mondità del mondo
Con convinzione Heidegger afferma di non voler presupporre nella ricerca della costituzione ontologica dell’esserci “una possibile idea
concreta di esistenza”10. Per cercare di evitare tale indebita presupposizione egli parte, in un primo momento11, dall’esserci che ogni giorno e
6. Ivi, p. 42; trad. it., p. 65.
7. Ivi, p. 196; trad. it., p. 246.
8. Ivi, p. 132; trad. it., p. 170.
9. Ibidem.
10. Ivi, p. 43; trad. it. p. 66.
11. l’analisi della quotidianità fungerà effettivamente da guida solo per accedere
alla mondità del mondo. Già nei capitoli successivi dedicati al con-esserci e all’articolazione interna all’esserci stesso, Heidegger considererà l’analisi delle modalità quotidiane
di esserci e con-esserci solo delle integrazioni dell’analisi strutturale che in realtà precede l’interpretazione della loro forma deiettiva. Metodologicamente la quotidianità lascerà
il posto al fenomeno dell’angoscia nel momento in cui Heidegger prova ad accedere alla
totalità originaria delle strutture dell’esserci: la Cura. A tale proposito Heidegger afferma:
139
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per lo più è sotto gli occhi di tutti: l’esserci quotidiano, nel suo “indifferente innanzitutto e per lo più”12. Heidegger infatti nota che nell’esplicazione dell’esserci si salta costantemente la quotidianità e ciò comporta che “ciò che è onticamente più vicino e noto è ontologicamente
più lontano, sconosciuto e disconosciuto nel suo significato ontologico”13. la ormai nota espressione tratta dal libro X delle Confessioni:
factus sum mihi terra difficultatis, ripresa da Heidegger in questo contesto, “non vale solo per l’opacità ontica e preontologica dell’esserci,
ma anche, e in misura ben maggiore, per il compito ontologico, non solo di non lasciarsi ingannare nella comprensione di questo ente nel suo
modo di essere fenomenologicamente più vicino, ma di renderlo accessibile nei suoi caratteri positivi”14. la quotidianità quindi non è un semplice aspetto della vita, quanto, piuttosto, il trasparente attraverso cui
pervenire alla comprensione delle strutture d’essere dell’esserci.
l’ipotesi heideggeriana è che nella quotidianità si incontri, anche
se nel modo dell’inautenticità e dell’inadeguatezza, ovverosia della fuga dinnanzi a se stesso, la struttura dell’esistenzialità. Heidegger, infatti, ritiene che “ciò che è onticamente nel modo della medietà, può essere compreso ontologicamente in strutture pregnanti, che non sono strutturalmente diverse, dalle determinazioni ontologiche dell’essere autentico dell’esserci”15.
effettivamente per giungere alla comprensione del primo momento fondamentale dell’essere-nel-mondo, la mondità del mondo, Heidegger parte dalla comprensione della struttura costitutiva dell’ente che si
incontra generalmente e per lo più nel mondo. Siamo di fronte al tentativo, a lungo preparato, di correggere l’ontologia aristotelica orientata al
“l’esperienza quotidiana e intramondana che, tanto onticamente quanto ontologicamente,
non va oltre l’ambito dell’ente intramondano, non è in grado, con i suoi procedimenti ontici, di condurre originariamente l’esserci in cospetto dell’analitica ontologica. lo stesso
dicasi della percezione immanente delle esperienze vissute per quanto concerne la sua capacità di fungere da filo conduttore ontologico. in fine, è fuori dubbio che l’essere dell’esserci non deve essere dedotto da un’idea dell’uomo”: eeT, p. 181; trad. it., p. 228. È
necessaria raggiungere la più ampia e più originale possibilità di apertura dell’esserci:
sarà il fenomeno della Cura a rispondere a tale pretesa metodologica.
12. eeT, p. 43; trad. it. p. 66.
13. Ibidem.
14. Ibidem.
15. eeT, p. 44; trad. it., p. 67.
140
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modello della produzione attraverso l’accentuazione della dimensione
pratica dell’esistenza.
Heidegger intende chiarire la struttura del mondo che egli definisce mondità, partendo dall’esame dell’“essere-nel-mondo quotidiano
nel suo fondamento fenomenico”16. Tale mondo è l’Umwelt, il mondo
circostante, al quale l’esserci si rapporta quotidianamente, innanzitutto
e per lo più, nella modalità dell’Umgang, l’aver-a-che-fare, compreso
come “prendersi-cura maneggiante e usante, fornito di una propria ‘conoscenza’”17. ritornando alla modalità greca di intendere il rapporto fra
teoria e prassi non come due ambiti nettamente separati, Heidegger sottolinea a tale proposito: “l’avere-a-che-fare che usa e manipola non è
[….] cieco, perché ha un suo modo di vedere che guida la manipolazione, conferendole la sua specifica adeguatezza alle cose. […]. la visione connessa ad un processo del genere è l’Umsicht, il guardarsi intorno,
rendendosi conto”18. da ciò deriva quindi che “il comportamento ‘pratico’ non è ‘ateoretico’ nel senso che sia privo di visione, e il suo differenziarsi dal comportamento teoretico non consiste solo nel fatto che
nel primo si agisce e nel secondo si contempla, cosicchè l’agire, per non
rimanere cieco, dovrebbe applicare il conoscere teoretico; al contrario,
il contemplare è originariamente un prendersi cura, allo stesso modo
che l’agire ha un suo proprio modo di vedere”19.
Per risalire alla comprensione della mondità del mondo Heidegger
parte pertanto dalla comprensione dell’essere dell’ente che si incontra
in questo prendersi cura maneggiante e usante dotato di una propria capacità conoscitiva. Ciò deve avvenire attraverso una “rimozione delle
tendenze interpretative che accompagnano e sopraffanno il fenomeno
del prendersi cura coprendolo completamente e coprendo assieme ad
esso anche l’ente così come esso da esso viene incontro al prendersi cura”20. Tale rimozione può essere realizzata evitando di attribuire all’ente-cosa, inteso come terreno prefenomenologico d’indagine, “il ruolo
pretematico”. “Con questa investigazione dell’ente come cosa [res] –
infatti secondo Heidegger – è introdotta di soppiatto una caratterizza-
16.
17.
18.
19.
20.
Ivi, p. 66; trad.it., p. 91.
Ivi, p. 67; trad.it., p. 92.
Ivi, p. 69; trad. it., p. 95.
Ivi, p. 70; trad. it., p. 96.
Ivi, p. 67; trad. it., p. 93.
141
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zione ontologica preliminare”21 che va di pari passo con il predominio
della modalità conoscitiva teoretica e la determinazione dell’essere come realtà e semplice-presenza.
in contrapposizione a questo modo tradizionale di procedere derivato, a suo parere, dalla Metafisica e dalla Fisica di Aristotele, Heidegger contrappone un modo alternativo che egli deduce da quella che ritiene essere una più corretta e approfondita comprensione della tradizione filosofica.
i Greci usavano un termine appropriato per designare le ‘cose’: prágmata, ciò
con cui si ha a che fare nel modo dell’avere-a-che-fare che si prende cura
[práxis]. Ma essi lasciarono ontologicamente all’oscuro proprio il carattere
‘pragmatico’ specifico dei prágmata, determinandone, ‘innanzi tutto’, il significato come ‘semplici cose’ 22.
Accentuando invece tale significato pragmatico, Heidegger definisce “l’ente che viene incontro nel prendersi cura: il mezzo [per]”23. la
comprensione della mondità del mondo avverrà attraverso la definizione rigorosa di ciò che fa di un mezzo “un mezzo per”. innanzitutto egli
sottolinea come non sia concepibile un mezzo isolato e come nella sua
struttura sia sempre presente il rimando ad una totalità di mezzi. il mezzo non rimanda però soltanto ad altri mezzi, ma rimanda in modo ancora più essenziale all’opera da realizzare. l’opera, a sua volta, si comprende a partire dall’a-che del suo impiego, e cioè dal suo fine in quanto perché. Anche l’opera, realizzata attraverso l’insieme di mezzi, si inserisce in una serie di connessioni. Heidegger specifica: “l’opera costruita non rimanda soltanto all’‘a-che’ della sua impiegabilità e al ‘diche’ del suo esser-fatta: le condizioni più elementari della sua costruzione implicano anche il rimando a colui che la impiega e la usa. […].
l’opera non ci fa dunque incontrare soltanto enti utilizzabili, ma anche
enti che hanno il modo di essere dell’esserci, al cui prendersi cura l’opera viene incontro, come utilizzabile”24. ogni utilizzabile trova la sua
appagatività, cioè si compie, si realizza in un’opera. riprendendo vela-
21.
22.
23.
24.
Ibidem.
Ivi, p. 68; trad. it., p. 94.
Ibidem.
Ivi, p.70; trad. it., p. 97.
142
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tamente l’argomentazione aristotelica dell’attacco dell’Etica Nicomachea, secondo la quale tutti gli uomini tendono verso un fine, ma vi è
un fine in vista del quale tutti gli altri fini sono, Heidegger sottolinea
come “la totalità di appagatività si agganci sempre, alla fine, a un a-che
presso il quale non sussiste più nessuna appagatività, in quanto non si
tratta di un essente che abbia il modo di essere dell’utilizzabile intramondano, ma di un ente il cui essere è costituito dall’essere-nel-mondo
e alla cui costituzione ontologica appartiene la mondità stessa”25. l’ache primario, il fine verso cui tutto tende, è “un in-vista-di cui”, ovverosia l’orizzonte a partire dal quale guardare il tutto delle connessioni e
dei rimandi. “l’in-vista riguarda sempre l’essere dell’esserci, a cui nel
suo essere ne va essenzialmente di questo essere stesso”26.
il mondo pertanto si annuncia nell’insieme di rimandi che si instaura fra mezzo e opera e fra opera e destinatario del suo uso. Questi rimandi infatti non avvengono in maniera meccanica, ma in ogni rimando è implicito un colpo d’occhio preciso sull’ambiente circostante nella sua completezza. il mondo è scoperto preliminarmente, anche se non
tematicamente, in tutto ciò che in esso si incontra. Ma perché il mondo
possa in qualche modo apparire, secondo Heidegger, occorre che esso
si sia già aperto in generale. l’insieme dei rimandi non è dato dalla somma di singole connessioni mezzo/fine, ma la totalità della connessione
di fini e mezzi precede ogni singolo rapporto fra mezzo e fine ed è più
originaria di essa. Heidegger localizza tale originarietà nella capacità
strutturale dell’esserci di aprirsi in un’ autocomprensione.
in sintesi: il mezzo rimanda ad un altro mezzo e si compie nel raggiungimento del suo fine. in questa operazione di rimando si apre contemporaneamente il mondo. il rimando, infatti, non avviene in modo
meccanico, ma implica un colpo d’occhio sul mondo ambiente, che
evidenzia da un lato la totalità di mezzi, dall’altro la co-implicazione
di enti che hanno il modo di essere dell’esserci, al cui prendersi cura
l’opera viene incontro, come utilizzabile. in tutto ciò che si incontra è
scoperto, anche se non tematicamente, il mondo. esso però appare come ciò in vista di cui avviene la serie dei rimandi e come ciò rispetto a
cui è lasciato venire incontro l’ente nel modo di essere dell’appagati-
25. Ivi, p. 84; trad. it., p. 113.
26. Ibidem.
143
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vità, nel movimento di autocomprensione dell’esserci. Così che Heidegger può affermare a conclusione del capitolo sulla mondità del
mondo che il fenomeno del mondo è “l’in-che della comprensione autorimandantesi, in quanto è ciò rispetto a cui è lasciato venire incontro
l’ente nel modo di essere dell’appagatività”27. il mondo è cioè quella
particolare apertura in cui l’esserci si autocomprende. l’esserci è il fine della catena dei rimandi, in quanto ciò che non è ulteriormente rimandabile e realizzabile, e quindi è ciò in vista di cui la connessione di
rimandi avviene. Contemporaneamente esso è ciò che apre l’orizzonte
dell’insieme di connessioni attraverso il movimento della propria autocomprensione.
3.
Il con-esserci
dopo aver delucidato il momento strutturale del mondo, Heidegger si concentra sulla struttura del con-esserci28.
Già a partire dall’analisi di questo secondo momento dell’esserenel-mondo, si avverte un cambiamento di direzione rispetto all’uso metodologico della quotidianità. Mentre nell’analisi della prima struttura
d’essere dell’essere-nel-mondo la comprensione dell’ente incontrato
nella quotidianità ha fatto da guida, a partire dall’interpretazione della
seconda struttura dell’essere-nel-mondo, il con-essere, la quotidianità
non rappresenta più il trasparente attraverso cui scorgere le strutture dell’esserci. Capovolgendo l’ordine di priorità metodologica originaria-
27. Ivi, p. 86; trad. it., p. 116.
28. A proposito della tematica del con-esserci, si veda il testo di BACAlAri [1999].
l’autore prendendo le distanze da quanti (primo fra tutti löwith) criticano l’insufficienza
dell’elaborazione del problema del con-esserci nell’ambito dell’analitica esistenziale,
parte dall’ipotesi che invece “il problema dell’‘essere-con’ costituisca un punto di osservazione privilegiato del pensiero di Heidegger” (Ivi, p. 5). Considerando il problema del
con-esserci un problema ontologico prima ancora che antropologico o etico, Bacalari intende mettere alla prova da questo punto di vista l’ontologia heideggeriana nella sua pretesa di essere l’unico esito rigoroso della fenomenologia. Un’interpretazione in senso etico del con-esserci è presentata invece nello studio di olAFSon [1998]. nel testo
Fremdwahrnehmung und Mitsein: zur Grundlegung der Sozialphilosophie im Denken
Max Schelers und Martin Heideggers, 1997, Michalski intenta la fondazione di una filosofia sociale nel pensiero di Scheler e Heidegger. Sulle implicazioni etiche del Mit-Sein
si veda anche: VoGel [1994], lUCkner [1998].
144
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mente stabilito, Heidegger parte dalla tematizzazione della fondamentale struttura presa in esame, per poi affrontare la sua dimensione quotidiana solo in un secondo momento come integrazione dell’autenticità,
di cui viene considerata una degenerazione. Questo modo di procedere
sarà conservato anche nell’analisi delle strutture essenziali costitutive
dell’apertura dell’esserci: la comprensione, la situazione emotiva e il discorso. in questo modo viene in luce un’ambiguità del discorso di Heidegger in cui ontologia e etica29 si intrecciano loro malgrado: la quotidianità è da un lato il trasparente attraverso cui guardare la struttura autentica dell’esserci (piano ontologico) e dall’altro la dimensione inautentica che si completa e si integra nella dimensione autentica dell’esistenza (piano etico).
Heidegger parte dall’ipotesi che come “non è dato innanzitutto e
non è mai dato un soggetto senza mondo [...] allo stesso modo non è
mai dato, innanzitutto, un io isolato senza gli altri”30. Tale immediato
con-esserci è interpretato in modo ontologicamente adeguato, partendo dalla definizione del mondo come un insieme di connessioni significative e strumentali. nell’insieme delle connessioni dei rimandi che
costituiscono il mondo è implicito “un rimando essenziale a un utilizzatore possibile”31. Tale utilizzatore non è né un ente utilizzabile, né
una semplice-presenza, ma è così come è l’esserci che lo comprende:
anche esso ci è con. “Gli altri che si ‘incontrano’ entro il complesso dei
mezzi utilizzabili intramondani non sono pensati come se si aggiungessero alle cose innanzitutto semplicemente presenti. Al contrario
queste cose si incontrano a partire da un mondo in cui sussistono come
utilizzabili per gli altri; mondo questo che è anche fin da principio il
mio”32. il con-esserci si incontra quindi immediatamente all’interno
del fenomeno del mondo: “il mondo è già sempre quello che condivido con gli altri. il mondo dell’esserci è con-mondo. l’in-essere è un
con-essere con gli altri. l’esserci-in-sé-intramondano è un con-esserci”33. Heidegger quindi deduce che “l’esserci proprio di ognuno è incontrato dagli altri come un con-esserci, solo perché l’esserci stesso ha
29.
30.
31.
32.
33.
Cfr. a tale proposito: oyen [1948], rAPP [1989].
eeT, p. 116; trad. it., p. 151.
Ivi, p. 117; trad. it., p. 152.
Ivi, p. 118; trad. it., p.153.
Ivi, p. 118; trad. it., p. 154.
145
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la struttura esistenziale del con-essere”34.
Heidegger definisce terminologicamente il modo di rapportarsi al
con-esserci, l’aver cura [fürsorgen]. Se si considera che Heidegger definirà più avanti la struttura dell’esserci come Sorge, cura, il termine
Fürsorge non fa altro che indicare l’aver cura [Sorge] per [für] gli altri.
esso non è altro che la neutrale definizione terminologico-strutturale
del rapporto fra gli esserci intesi come Cura, così come il be-sorgen, il
prendersi cura descrive il rapporto fra l’esserci e egli enti non conformi
all’esserci. Heidegger abbandona però il piano della definizione terminologica neutra, nel momento in cui descrive la Fürsorge come premura, secondo quanto emerge dalla descrizione delle due possibilità estreme e contrapposte dell’aver-cura: il modo inautentico del “sostituirsi
dominando” e il modo autentico dell’“anticipare liberando”. Heidegger
afferma:
l’aver cura può in un certo senso sollevare gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto. Questo aver cura assume,
per conto dell’altro, il prendersi cura che gli appartiene in proprio. Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da
34. Ivi, p. 120; trad. it., p. 156. Molto produttiva per il nostro discorso sull’etica è
la critica rivolta da Sartre al “con-esserci”, ne L’Essere e Il Nulla [Cfr. Sartre, 1997]. Sartre sottolina come Heidegger abbia ben visto nel considerare il rapporto con gli altri come “una relazione di essere ed essere e non di conoscenza” (een, p. 289). egli però ritiene che questi “con il suo modo brusco e po’barbaro di tagliare i nodi gordiani, piuttosto
che tentare di scioglierli, risponde alla domanda posta con una pura e semplice definizione” (Ivi, p. 290), quella secondo la quale gli altri sono una struttura essenziale del mio essere. l’essenzialità di questa relazione implica però anche la sua trasformazione: “il con
non indica il rapporto reciproco di riconoscimento e di lotta che risulterebbe dall’apparizione in mezzo al mondo di una realtà umana altra dalla mia. essa esprime piuttosto una
specie di solidarietà ontologica per lo sfruttamento di questo mondo” (Ivi, p. 291). l’altro
rimane nell’ottica di Heidegger oggetto”, “la nostra relazione non è un’opposizione di
fronte, è piuttosto un’interdipendenza a fianco” (Ibidem). da ciò deriva, secondo Sartre
che “l’immagine empirica che meglio può simboleggiare l’intuizione heideggeriana, non
è quella della lotta, ma quella della squadra” (Ivi, p. 292). la teoria di Heidegger indica
solo in direzione di una soluzione, piuttosto che trovarne una, dal momento che non riesce a spiegare la coesistenza fra i con-esserci. Sartre infatti afferma: “certo è seducente
pensare che io possa isolarmi sul fondo differenziato dell’umano con lo slancio della mia
libertà, con la scelta delle mie possibilità uniche – e forse questa concezione racchiude in
sé un’importante verità, Ma. sotto questa forma, almeno, solleva obiezioni considerevoli” (Ibidem.). Per Sartre infatti “l’essenza dei rapporti fra le coscienza non è il ‘Mit-Sein’,
ma il conflitto” (Ivi, p. 482).
146
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altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendevano cura, risultandone del
tutto sgravati35.
l’esserci si sostituisce agli altri nelle decisioni, alleviandogli il peso dell’esistenza. Al contrario, l’anticipare liberando è
quella possibilità di aver cura che anziché porsi al posto degli altri, li precede
e anticipa [vorausspringen], nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la ‘cura’, ma per riportarli autenticamente in essa. Questo aver cura
che riguarda essenzialmente l’autentica cura e cioè l’esistenza dell’altro e non
un che cosa di cui essi si prendono cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli
[trasparenti/durchsichtig] nella propria cura e liberi per essa36.
Come vedremo, questa modalità di comportamento anticipante
corrisponde all’anticipazione della fine che porta l’esserci dinnanzi alla decisione di esistere autenticamente. Anticipando la propria fine, l’esserci decide di decidere e assume anche rispetto al con-esserci un atteggiamento anticipante e non di sostituzione. in generale “l’essere-assieme si fonda, innanzitutto e spesso esclusivamente, in ciò in cui in tale
essere ci si prende cura insieme”37. il semplice fare le stesse cose o anche il dedicarsi ad un affare comune, non sta però a garanzia di un rapporto autentico, anzi sfocia addirittura in una reciproca diffidenza. Solo
quando “l’esserci ha afferrato se stesso in senso proprio”, è in grado di
“giocare tutto in comune per una medesima causa” e “solo questo legame autentico rende possibile la determinazione giusta della cosa in
questione che rimette gli altri alla propria libertà”38.
l’aver-cura, che anche in questo caso è piuttosto un esser-premuroso, è guidato dai due principi del “riguardo” e dell’“indulgenza”39. “nell’aver cura questi due modi possono subire modificazioni difettive e di
indifferenza, fino alla mancanza di riguardo e alla negligenza che guida
l’indifferenza”40. È questo ultimo modo che prevale nell’aver-cura quotidiano. esso emerge soprattutto quando l’essere-assieme viene considerato come una somma di più soggetti, ovverosia come un insieme di nu-
35.
36.
37.
38.
39.
40.
eeT, p. 122; trad. it., p. 157.
Ivi, 122; trad. it., p. 158.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
147
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meri. “Questa numerabilità è scopribile solo a partire da un essere-assieme particolare. Questo con-essere ‘irriguardoso’ ‘conta’ gli altri senza
‘contare su di loro’ seriamente e senza ‘avere-a-che-fare’ con loro”41.
Heidegger si sofferma soprattutto sull’analisi del modo del con-esserci quotidiano, individuandone il carattere fondamentale nella “contrapposizione commisurante”, ovverosia in quell’atteggiamento in cui
ogni esserci si misura sempre agli altri o per differenziarsene o per portarsi al loro livello o addirittura, per sottomettervisi in un rapporto di dominio. nell’essere-assieme quotidiano tale commisurazione prende la
forma della soggezione:
Questa contrapposizione commisurante, fondata nell’essere, presuppone che
l’esserci, in quanto esserci-assieme quotidiano, si muova nella soggezione degli altri. non è se stesso, gli altri lo hanno svuotato del suo essere. l’arbitrio
degli altri decide delle possibilità quotidiane dell’esserci42.
in questo caso però gli altri non sono delle persone determinate, ma
degli individui neutri e interscambiabili che esercitano sull’esserci il loro potere. Heidegger definisce tali interscambiabili altri l’indefinito Si.
Come egli nota, infatti, “questo essere-assieme dissolve completamente il singolo esserci nel modo di essere ‘degli altri’, sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza”43.
il Si indefinito esercita su gli altri una dittatura in cui il singolo si
comporta e decide come ci si comporta e si decide. Heidegger descrive
tale dittatura come segue:
Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si deve e come si giudica. […]. il si, che
non è un esserci determinato ma tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità44.
Tale dittatura determina un livellamento di tutte le possibilità d’essere, cristallizzate nella pubblicità, un’interpretazione del mondo e dell’esserci che ha sempre ragione, perché non approfondisce mai le cose,
41.
42.
43.
44.
Ivi, p. 125; trad. it., p. 162.
Ivi, p. 136; trad. it., p. 163.
Ivi, p.127; trad. it., p. 163.
Ibidem.
148
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oscura tutto e presenta ciò che risulta in questo modo dissimulato, come
notorio e accessibile a tutti. da ciò deriva quella tendenza – tratta, come abbiamo visto, da una particolare interpretazione dell’Etica Nicomachea – a prendersi alla leggera e a declinare qualsiasi responsabilità
che Heidegger così descrive:
il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata quando per
l’esserci viene il momento della decisione. Tuttavia poiché il Si ha già sempre
anticipato ogni giudizio e ogni decisione, sottrae ai singoli esserci ogni responsabilità concreta. il Si non ha nulla in contrario che ‘si’ faccia sempre appello ad esso. Può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è ‘qualcuno’
che possa essere chiamato a rispondere. […] il Si sgrava ogni singolo esserci
nella sua quotidianità. non solo. in questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e rendere le cose facili45.
Heidegger pertanto conclude che “in questi modi di essere, l’esserci non ha ancora trovato, o ha perduto, il proprio esserci e l’‘autenticità’ degli altri”46. il con-essere è inteso come semplice presenza. Questo significa che nel modo della quotidianità l’essere-nel-mondo “fallisce e nasconde se stesso”47.
il con-esserci inautentico, determinato dalla dittatura del Si, è il
punto di convergenza delle singole dimensioni inautentiche dell’esserci, che Heidegger, attingendo alla tradizione greco-cristiana, descrive
come chiacchiera, curiosità ed equivoco. Queste singole dimensioni
quotidiane dell’esserci hanno la loro base ontologica nel fenomeno della deiezione.
4.
Situazione emotiva e comprensione
Heidegger antepone all’analisi di tali dimensioni quotidiane quella dell’articolazione interna dell’esserci in situazione emotiva [Befindlichkeit] e comprensione [Verstehen], due dimensioni esistenziali strettamente connesse, dal momento che “la situazione emotiva ha sempre
45. Ivi, 128; trad. it., p. 164. il corsivo è mio.
46. Ivi, p. 128; trad. it., p. 165.
47. Ivi, p. 130; trad. it., p. 167.
149
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la sua comprensione, anche se magari, tende a deprimerla. la comprensione è sempre emotivamente tonalizzata”48. la situazione emotiva/Befindlichkeit è il corrispettivo ontologico di ciò che onticamente è
noto come tonalità emotiva, umore49. l’esserci è sempre in uno stato
emotivo e anche l’indifferenza emotiva ne è una prova. riferendosi implicitamente ad Agostino, Heidegger infatti afferma:
l’indifferenza emotiva, sovente persistente, uniforme e diafana, e tuttavia non
confondibile col malumore, è così poco un niente che proprio in essa l’esserci
è di peso a se stessa. l’essere si è rivelato come peso50.
Secondo Heidegger l’esserci è sempre emotivamente aperto in una
situazione. “nello stato emotivo l’esserci è già sempre emotivamente
aperto come quell’ente a cui esso è consegnato nel suo essere in quanto
essere che, esistendo, ha da essere”51. la situazione emotiva apre il fatto che l’esserci “c’è e ha da essere”, ovverosia ciò che Heidegger definisce “l’esser-gettato di questo ente nel suo ‘Ci’”52. il fatto stesso di esserci è emotivamente tonalizzato. la tonalità emotiva è “un modo di essere originario in cui l’esserci è già aperto a se stesso prima di ogni conoscere e volere e al di là della portata del loro aprire”53. ora, secondo
Heidegger, “che l’esserci quotidiano non si affidi a queste tonalità emotive, non acceda a ciò che esse aprono e non si lasci condurre in cospetto di ciò che è in tal modo aperto non costituisce una prova contro il fatto fenomenico dell’apertura emotiva dell’essere del ‘Ci’, ma ne è piuttosto una conferma”54. l’esserci è aperto nella situazione emotiva anche
se si trova nella forma dell’evasione rispetto ad essa:
in quanto ente consegnato al suo essere, l’esserci è sempre consegnato al sentimento della propria situazione; in questo sentimento l’esserci incontra se
stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca. la tonalità emotiva non apre l’essere-gettato limitandosi ad esibirlo, ma lo apre in un processo
di conversione o di evasione55.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
54.
55.
Ivi, p. 142; trad. it., p. 182.
Uno studio sistematico delle tonalità emotive è realizzato in CAPUTo [2005].
eeT, p. 134; trad. it., p. 172.
Ibidem.
Ivi, p. 135; trad. it., p. 173.
Ivi, p. 137; trad. it., p. 174.
Ivi, p. 135; trad. it., p. 173.
Ibidem.
150
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Heidegger infatti ritiene che “la situazione emotiva non solo apre
l’esserci nel suo essere gettato e nel suo stato di assegnazione a quel
mondo che gli è già sempre aperto nel suo essere, ma è anche il modo
di essere esistenziale in cui l’esserci si abbandona al ‘mondo’ e viene affetto da esso in modo da evadere da se stesso. la costituzione esistenziale di questa evasione si farà chiara nel fenomeno della deiezione”56.
Heidegger non si dedica all’analisi delle “varie forme di situazione
emotiva e [alla] connessione dei loro fondamenti”57, ma si limita a constatare che “questi fenomeni sono noti onticamente da lungo tempo e furono studiati dalla filosofia sotto il nome di emozioni e sentimenti”58,
anche se “l’interpretazione onto-logico-fondamentale dei principi delle
emozioni non ha compiuto alcun passo in avanti degno di nota, da Aristotele in poi”59. egli stesso – come si è visto nell’analisi della lezione
Concetti fondamentali della filosofia aristotelica – fa riferimento ad
Aristotele e alla sua Retorica per tematizzare, sulla base di quella che
per lui è “la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano”60, la dimensione inautentica della pubblicità.
Ma prima di analizzare nei particolari la fuga dinnanzi alla situazione emotiva, egli si sofferma ulteriormente sulla articolazione interna
della costituzione dell’esserci, analizzando il momento strutturale della
comprensione. “la situazione emotiva è una delle strutture esistenziali
in cui l’essere del ‘Ci’ si mantiene. Questo essere è cooriginarimente costituito dalla comprensione”61. la comprensione è un modo fondamentale dell’essere dell’esserci. essa è innanzitutto rivolta all’essere dell’esserci in quanto esistere.
Heidegger definisce il significato di tale comprensione partendo
dall’uso generico che di esso avviene nell’espressione “comprendere
qualcosa” come “capirne di qualcosa”:
nel discorso ontico usiamo sovente l’espressione ‘comprendere qualcosa’ nel
senso di ‘essere in grado di affrontare qualcosa’, di ‘essere capace di’, di ‘sa-
56.
57.
58.
59.
60.
61.
Ivi, p. 139; trad. it., p. 178.
Ivi, p. 138; trad. it., p. 177.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 142; trad. it., p. 182.
151
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perci fare’, di potere. Ciò che costituisce il ‘potuto’ nel comprendere inteso come esistenziale non è una cosa, ma l’essere in quanto esistere62.
nel comprendere si radica esistenzialmente il modo di essere dell’esserci come poter-essere.
Come abbiamo visto, l’esserci non è un qualcosa semplicemente
presente a cui si aggiunge la modalità della possibilità, ma è “in modo
primario essere-possibile”63. l’esserci è di volta in volta ciò che può essere non solo in rapporto con se stesso, ma anche in rapporto al mondo
degli enti intramondani e al mondo degli altri.
la possibilità che costituisce l’esserci non è “una vuota e logica
possibilità”, ovverosia “il non ancora reale e il non mai necessario”64,
ma, in quanto possibilità in senso esistenziale, essa è “l’ultima positiva
determinazione ontologica dell’esserci”65 e definisce ciò che è “soltanto possibile”66. Questo significa che l’esserci non ha un’essenza da realizzare diversa dalla sua esistenza. la sua essenza coincide con la sua
esistenza: l’esserci è soltanto possibilità67. Questa possibilità però non
rappresenta un poter-essere indifferente e indeterminato nel senso della
libertas indifferentae. essa è sempre gettata e quindi radicata in un determinato contesto.
l’esserci, in quanto emotivamente situato nel suo essere stesso, è già sempre
insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel poter-essere che è, ne ha
già sempre lasciate perdere alcune; rinuncia incessantemente alla possibilità
del suo essere, alcune riesce a coglierne altre le perde. Ciò significa che l’esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo68.
62. Ivi, p. 144; trad. it., pp. 182-83.
63. Ivi, p. 143; trad. it., p. 183.
64. Ibidem.
65. Ivi, p. 144; trad. it., p. 183.
66. Ibidem.
67. È interessante come, da un certo punto di vista, la concezione dell’esistenza
heideggeriana non si differenzi da quella di Marx. È probabile che proprio questo aspetto
abbia affascinato il giovane Marcuse il quale, come sappiamo, criticò proprio la concezione della storia di Heidegger. Come dire: è condivisibile la comprensione dell’uomo come esistenza storica, non è condivisibile il suo modo di comprendere la storia in modo del
tutto astratto e scisso da ogni dimensione sociale. da ciò deriva anche l’esigenza marcusiana di dedicarsi al tema della storia in un’ottica più decisamente hegeliana come emerge dal testo MArCUSe [1968].
68. eeT, p. 144; trad. it., p. 183.
152
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da ciò deriva che l’esserci non si trova dinnanzi ad una molteplicità di possibilità indifferenziate, ma che esso è “la possibilità di essere
libero per il più proprio poter-essere”69.
in quanto rivolta all’esserci, inteso come poter-essere, la comprensione ha in se stessa la struttura esistenziale del progetto. “l’esserci, in
quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare. il progettare
non ha nulla a che vedere con l’escogitazione di un piano mentale in
conformità al quale l’esserci edificherebbe il proprio essere; infatti l’esserci, in quanto tale, si è già sempre progettato e resta progettante fin che
è”70. Al contrario “la comprensione, in quanto progettare, è il modo di essere dell’esserci in cui esso è le sue possibilità in quanto possibilità”71.
Partendo dal fenomeno della comprensione Heidegger introduce la
distinzione fra esistenza autentica e inautentica: “la comprensione può
attuarsi innanzitutto come apertura del mondo; cioè l’esserci può, innanzitutto e per lo più, comprendere se stesso a partire dal proprio mondo”;
in questo caso la comprensione è inautentica. Al contrario, “la comprensione può anche progettarsi primariamente nell’‘in-vista-di-cui’, cioè
l’esserci può esistere come se stesso”. in questo caso siamo di fronte ad
una conoscenza autentica, “cioè basata su se stesso come tale”72.
Heidegger definisce la comprensione che l’esserci ha di sé “visione” e, riprendendo un tema già caro a kierkegaard73, chiama “la visione che si riferisce primariamente e integralmente all’esistenza”74 “trasparenza”. “esistendo, l’esserci vede ‘se stesso’ solo se è divenuto cooriginariamente trasparente a se stesso nel suo essere-presso il mondo e
nel suo con-essere con gli altri, quali momenti costitutivi della sua esistenza”75. Per questo Heidegger, riprendendo implicitamente Agostino
69. Ibidem.
70. Ivi, p. 145; trad.it., p. 185.
71. Ibidem.
72. Ivi, p.146; trad. it., p. 186.
73. Cfr. kierkeGAArd, Aut-Aut, Estetica ed etica nella formazione della personalità, trad. it. a cura di k.M. Guldbrandsen e r. Cantoni, Milano, oscar Mondadori, 1993,
p. 7. Qui kierkegaard afferma: “in ogni uomo vi sono degli ostacoli che, in un certo senso, non gli permettono di diventare completamente trasparente a se stesso”. Più avanti ancora: “l’esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza” (Ivi, p. 29).
74. eeT, p. 146; trad. it., p.187.
75. Ibidem.
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e la sua classificazione della concupiscenza afferma: “di conseguenza,
l’intrasparenza dell’esserci non deriva unicamente o primariamente da
illusioni ‘egocentriche’, ma altrettanto dalla mancata conoscenza del
mondo”76. Come vedremo infatti anche la curiosità verrà presa in considerazione come una dimensione inautentica dell’esserci.
Heidegger chiarifica la situazione emotiva partendo dalla comparazione del fenomeno dell’angoscia con quello della paura. Mentre la
paura è un sentimento di minaccia che si prova dinnanzi a qualcosa che
ci viene concretamente incontro nel mondo, l’angoscia è un sentimento
diffuso che riguarda l’insignificatività del mondo e di se stessi nel mondo. in quanto pone dinnanzi a tale esperienza limite, l’angoscia ha la duplice funzione di aprire conoscitivamente la struttura dell’esserci, come
essere-nel-mondo, in quanto Cura e di isolare l’esserci rispetto alla sua
immedesimazione con il mondo, aprendogli la possibilità di “essere-libero-per la libertà di scegliere e possedere se stesso”, ovverosia “per
l’autenticità del suo essere in quanto possibilità che esso è già sempre”77. Quest’ultima funzione metodologica verrà approfondita dopo
aver analizzato nei particolari le modalità inautentiche dell’esserci.
5.
Le modalità inautentiche dell’in-essere
la comprensione dell’esserci inautentico deve essere compresa a
partire da queste fondamentali strutture d’essere. Abbiamo già accennato a come Heidegger abbia abbandonato la quotidianità come strumento metodologico per accedere alla struttura costitutiva dell’esserci,
considerandola piuttosto una dimensione degenerativa.
impostando la sua analisi delle modalità inautentiche dell’esserci,
Heidegger tematizza esplicitamente questa inversione, sottolineando come la quotidianità che doveva fungere da filo conduttore nella scoperta
delle strutture d’essere dell’esserci, non solo non abbia svolto il suo ruolo metodologico, ma come “nell’esame delle strutture esistenziali dell’apertura e dell’essere-nel-mondo” sia stata addirittura “persa di vista”.
76. Ibidem.
77. Ivi, p. 188; trad. it., p. 236.
154
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Pertanto “l’analisi deve ritornare ad essa, in quanto – per definizione – è
essa l’orizzonte fenomenico in cui si muove l’impostazione tematica”78.
l’interpretazione della degenerazione, della dimensione inautentica della situazione emotiva e della comprensione funge da supporto e da chiarificazione del con-esserci inautentico descritto come dittatura del Si.
Procedendo alla chiarificazione di tali fenomeni della vita quotidiana Heidegger si sente pertanto tenuto a specificare che “è forse opportuno far presente che l’interpretazione ha un intento puramente ontologico, ed è del tutto estranea a ogni critica moralizzante dell’esserci
quotidiano e lontana dalle aspirazioni della ‘filosofia della cultura’”79.
Ma se l’analisi della modalità quotidiana e inautentica non ha più la funzione metodologica di tramite per la comprensione della struttura autentica dell’esserci quale è la sua funzione ontologica? introducendo all’interno dell’esistenza la distinzione fra dimensione autentica/nonquotidiana e inautentica/quotidiana Heidegger non può evitare il riferimento ad un giudizio di valore, anche se non si tratta di una gerarchia di
valori nel senso scheleriano, quanto piuttosto di una luterana coappartenenza delle due dimensioni di vita.
Avendo ben presente la critica platonica della Sofistica, considerata, come abbiamo visto, una degenerazione della ricerca filosofica autentica attuata attraverso l’uso improprio della parola, Heidegger procede all’analisi di specifiche dimensioni inautentiche della quotidianità
e affronta in primo luogo la dimensione inautentica della chiacchiera.
Heidegger invita a non attribuire a tale fenomeno un significato spregiativo. Tale invito però viene disatteso se si considera la descrizione
del fenomeno. nella chiacchiera
più che di comprendere l’ente di cui si discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò
che il discorso dice come tale. […] Si intendono le medesime cose, perché ciò
che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà. […] la comunicazione non partecipa il rapporto originario all’essere dell’ente di cui si discorre;
l’essere-assieme si realizza nel discorrere insieme e nel prendersi cura di ciò
che il discorso dice. Ciò che conta è che si discorra. l’essere-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose
del discorso e della sua comprensione. e poiché il discorso ha perso, o non ha
mai raggiunto, il rapporto originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso
78. Ivi, p. 167; trad. it., p. 211.
79. Ibidem.
155
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partecipa non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la
ripetizione del discorso. le cose stanno così perché così si dice80.
Questa ripetizione che assume la forma della routine e della mancanza di riflessione è tutt’altra cosa dalla ripetizione riprendente che,
come vedremo, caratterizza e fonda l’esistenza autentica.
Heidegger definisce pertanto la chiacchiera come un procedimento di chiusura, il quale non è frutto di un inganno consapevole: “basta
dire e ridire perché si determini il capovolgimento dell’apertura in chiusura”81. Una chiusura che risulta essere quanto più radicale, tanto più la
presunzione di possedere la comprensione di cui si parla, impedisce
ogni riesame e ogni controprova. la chiacchiera è quindi una modalità
sradicata di comprensione dell’esserci che produce ulteriore sradicamento. “l’esserci che si mantiene nella chiacchiera è del tutto tagliato
fuori dal rapporto primario, originario e genuino del proprio essere col
mondo, col con-esserci e con l’in-essere stesso”82. “l’ovvietà e la sicurezza di sé proprie di questo stato interpretativo medio, impediscono infatti di provare quell’inquietudine dell’infondatezza in cui egli è votato
ad una crescente inconsistenza”83.
Heidegger prosegue la tematizzazione delle modalità d’essere dell’esserci quotidiano attraverso l’analisi del fenomeno della curiosità,
una particolare tendenza di incontrare e apprendere il mondo, al quale –
come egli stesso ricorda – anche Agostino dedica particolare attenzione84. la curiosità nasce dalla tendenza implicita nel prendersi cura a
considerare il mondo nel semplice apparire nel suo aspetto. “la curiosità […] non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per
‘essere per esso’, ma si prende cura solamente di vedere. essa cerca il
nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che
preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto ge-
80. Ivi, p. 169; trad. it., p. 213.
81. Ivi, p. 170; trad. it., p. 214.
82. Ibidem.
83. Ivi, p. 270; trad. it., p. 215.
84. Heidegger rimanda esplicitamente ad Agostino nella sua conferenza sul Concetto di tempo, in cui annota: “sulla curiositas e la cupiditas experiendi (concupiscientia
oculorum) e il primato del vedere cfr. Agostino” (HGA 64, p. 37); eeT, p. 171; trad. it.,
p. 216.
156
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nuino con la verità, ma unicamente le possibilità derivanti dall’abbandono del mondo”85. Per questo motivo la curiosità si caratterizza per la
sua incapacità di soffermarsi nel mondo ambientale, per il suo distrarsi
in possibilità sempre nuove e per la profonda irrequietezza in cui tiene
l’esserci. Heidegger mette in evidenza il profondo legame fra la chiacchiera e la curiosità:
la chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto.
l’essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera.
Questi due modi di essere quotidiani del discorso e del vedere, caratterizzati dallo sradicamento, non sono semplicemente-presenti l’uno vicino all’altro; un’unica maniera di essere li tiene costantemente uniti. la curiosità per cui niente è
segreto, la chiacchiera per cui niente è incompreso, danno a se stesse, cioè all’esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita veramente ‘vissuta’86.
da ciò deriva che la caratteristica più propria della vita quotidiana
è l’equivocità, un fenomeno indotto dalla curiosità e dalla chiacchiera,
nel quale “tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso,
ma in realtà non lo è”87. Tale equivocità riguarda il mondo, l’essere-assieme quotidiano e il rapportarsi stesso dell’esserci a se stesso. nell’equivocità, infatti, “non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa gli
sia capitata o gli venga incontro, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che manca ancora, ma dovrebbe ‘ovviamente’ essere fatto. ognuno ha già sempre presentito e
fiutato ciò che gli altri hanno presentito e fiutato. Questo essere-sullatraccia, ma per sentito dire (chi è effettivamente sulla traccia di qualcosa non ne parla) è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare
all’esserci le sue possibilità, perché le vanifica dall’inizio”88. Tale essere-sulla-traccia allontana radicalmente l’esserci dalla sua possibilità di
progettarsi in modo autentico.
infatti, continua Heidegger mettendo in evidenza il profondo legame che esiste fra chiacchiera, curiosità e equivoco “se un giorno ciò che
si presentiva e si fiutava si realizzasse, l’equivoco avrà già fatto in modo che venga meno l’interesse per la cosa di cui si tratta. l’interesse ha
85.
86.
87.
88.
Ivi, 171; trad. it., p. 217.
Ivi, p. 173; trad. it., p. 218.
Ibidem.
Ivi, p. 173; trad. it., 219.
157
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luogo sotto forma di curiosità e di chiacchiera e non dura più di quanto
duri il superficiale presentimento comune”89. l’avverarsi del presentimento spinge l’esserci in se stesso, facendo perdere ogni forza alla
chiacchiera e alla curiosità. “Ma poiché il tempo dell’esserci impegnato nel silenzio della realizzazione o del genuino fallimento è diverso e,
visto pubblicamente, di gran lunga più lento di quello della chiacchiera
che ‘vive in fretta’, questa, nel frattempo, si è già volta a qualche successiva novità. Ciò che era presentito e che viene poi realizzato arriva
sempre troppo tardi rispetto a ciò che c’è di nuovo”90.
Questo significa che “l’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare in luogo di fare e il presentimento curioso come vera realtà, screditando l’esecuzione come qualcosa di
secondario e privo di interesse”91 e portando con sé l’inganno rispetto
alle proprie possibilità esistenziali.
Fra curiosità, chiacchiera e equivoco si dà un profondo legame:
“l’equivoco offre costantemente alla curiosità ciò che essa va cercando
e alla chiacchiera l’illusione che tutto sia deciso da essa”92.
Heidegger sottolinea come la curiosità determini anche il modo di
avere-a-che-fare con gli altri:
la curiosità come modo di essere dell’apertura dell’essere-nel-mondo investe
anche l’essere-assieme come tale. l’altro, innanzi tutto, ‘ci’ è a partire da ciò
che se ne è sentito dire, da ciò che si racconta su di lui e se ne sa. Anzitutto l’essere-assieme originario è regolato dalla chiacchiera. ognuno tiene gli occhi
addosso all’altro per vedere come si comporta e per sapere che cosa se ne dirà.
l’essere-assieme dominato dal Si non è affatto una giustapposizione di individui estranei e indifferenti, ma un brulicante ed equivoco starsi a sorvegliare reciproco, uno starsi a sentire costante e vicendevole. Sotto la maschera dell’essere-l’un-per-l’altro domina l’essere-l’uno-contro-l’altro93.
Per descrivere la dimensione inautentica dell’esserci con la sua interna articolazione, Heidegger ha attinto tematiche e strutture concettuali dal pensiero della tradizione greco-cristiana. Come è stato già con-
89.
90.
91.
92.
93.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 174; trad. it., p. 220.
Ibidem.
158
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statato infatti l’analisi del fenomeno della chiacchiera non è altro che la
traduzione ontologica della degenerazione dell’ideale greco della filosofia proprio della Sofistica, il fenomeno della curiosità è invece la traduzione ontologica della maggiore forma di concupiscenza oculis secondo il dettato agostiniano.
lo sfondo più propriamente teologico del discorso emerge con ulteriore chiarezza quando, proseguendo l’indagine, Heidegger individua
le basi ontologico-esistenziali del modo fondamentale della quotidianità nel fenomeno della deieizione.
6.
La deiezione come peccato?
la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco costituiscono nella loro
“connessione ontologica” (interrelazione) il modo fondamentale della
quotidianità che nell’orizzonte terminologico di Heidegger prende il
nome di deiezione, Verfallen, caduta. Heidegger specifica però che “il
termine non esprime nessuna valutazione negativa”94, in quanto indica
che “l’esserci è innanzitutto e per lo più presso il mondo di cui si prende cura”95. egli specifica tuttavia subito dopo che “questa immedesimazione in…ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del Si”96. la deiezione indica che l’esserci è già sempre de-caduto
[abgefallen] da se stesso come autentico poter-essere ed è al contrario
“immedesimato nel ‘mondo’ e nel con-esserci con gli altri”97.
Attraverso il fenomeno della deiezione acquisisce tratti più precisi
quella dimensione dell’esserci che Heidegger, nella determinazione formale di esistenza, ha definito inautentica.
nel tentativo di evitare qualsiasi rimando alla concezione cristiana
del peccato a cui potrebbe far pensare l’identificazione di deiezione/caduta e inautenticità, Heidegger specifica che “lo stato di deiezione dell’esserci non deve essere inteso come ‘caduta’ da ‘uno stato originario’
più altro e puro”98. la deiezione è una determinazione esistenziale del-
94.
95.
96.
97.
98.
Ivi, p. 175; trad. it. p. 221.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
159
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l’esserci stesso e “non ha nulla a che fare con relazioni di fatto con un ente da cui l’esserci ‘deriverebbe’ o con un ente con cui, successivamente,
l’esserci sarebbe entrato in una relazione qualsiasi”99. Heidegger intende
escludere anche una valutazione di tipo etico/morale quando afferma:
Questa struttura ontologico-esistenziale sarebbe ugualmente fraintesa se si volesse concepirla come una qualità ontica, negativa e deplorevole, che il successivo progredire della civiltà umana potrà un giorno annullare100.
Se si tengono presenti l’analisi di Heidegger della motilità della vita come Sturz e le analogie in essa rilevate con la concezione del peccato, ben si comprende come l’esigenza heideggeriana di chiarificazione derivi proprio dalla profonda consapevolezza della radice teologica
della propria concezione dell’esistenza e della sua tendenza deiettiva.
Questa ipotesi diviene ancora più plausibile se si considera il proseguimento dell’analisi heideggeriana della deiezione. Heidegger afferma:
noi chiamiamo questa ‘motilità’ [Bewegtheit] dell’esserci nel suo proprio essere caduta [Absturz]. l’esserci cade da se stesso e in se stesso nell’infondatezza e nella nullità [Nichtigkeit] della quotidianità inautentica. lo stato interpretativo pubblico nasconde però questa caduta che è interpretata come ‘perfezione’ e ‘vita vissuta’101.
Heidegger ricostruisce passo dopo passo i diversi livelli di tale caduta verso l’annullamento del se stesso autentico. il suo tentativo di
mondanizzazione dell’orizzonte dell’esistenza si evidenzia nella considerazione della caduta come un movimento tutto interno alla vita e non
indotto da un elemento ad essa esterno:
la chiacchiera è lo stesso modo di essere dell’essere-assieme e non il prodotto di particolari circostanze che, ‘dal di fuori’, influirebbero sull’esserci. Ma
se è l’esserci che nella chiacchiera e nello stato interpretativo pubblico offre a
se stesso la possibilità di perdersi nel Si, di cadere deiettivamente nell’infondatezza, vuol dire che è l’esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della deieizione. l’essere-nel-mondo è in se stesso tentatore102.
99.
100.
101.
102.
Ivi, p. 176; trad. it., p. 222.
Ibidem.
Ivi, p. 178; trad. it., p. 224.
Ivi, p. 177; trad. it., p. 223.
160
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Tale tentazione ha un effetto tranquillizzante:
Chiacchiera ed equivoco, l’aver tutto visto e tutto compreso, creano nell’esserci la presunzione che l’apertura dell’esserci che essi portano con sé sia tale
da garantire la certezza, la purezza e la pienezza delle possibilità del suo essere. la sicurezza di sé e la disinvoltura del Si creano un’indifferenza crescente
verso la comprensione emotiva autentica. la presunzione del Si di condurre
una ‘vita’ autentica e piena crea nell’esserci uno stato di tranquillità: tutto ‘va
nel modo migliore’ e tutte le porte sono aperte103.
Questo sentirsi tranquilli rispetto alla propria vita non sfocia però
in un ozio o in una sorta di serenità, ma porta all’attività sfrenata, iperbolica104. Heidegger vede in questo “autolivellamento tranquillizzante e
tutto ‘comprendente’”105 un estraniazione dell’esserci rispetto al più
proprio poter-essere. evidenziando un ulteriore livello di perdizione e
di caduta, egli pertanto afferma: “l’essere-nel-mondo deiettivo, in quanto tentatore e tranquillizzante, è nello stesso tempo estraniante”106.
Questa estraniazione chiude all’esserci la sua autenticità, senza spingerlo però ad essere altro da se. Al contrario lo rende prigioniero di se
stesso e della propria inautenticità. i fenomeni della tentazione, della
tranquillizzazione, della estraniazione e dell’autoimprigionamento caratterizzano il modo specifico di essere della deiezione, in quanto caduta, ovvero sprofondamento senza fondo verso la nullità di se stesso la
quale avviene in un movimento spiralico. Pertanto Heidegger descrive
la fase terminale della caduta deiettiva nei termini che seguono:
il moto di questa caduta verso e dentro l’infondatezza dell’essere inautentico
del Si, allontana costantemente la comprensione dal progetto di possibilità autentiche e la sospinge sempre di più nella tranquillizzante presunzione di possedere e di raggiungere tutto. Questa costante sottrazione di autenticità, unita
alla presunzione del suo possesso e accompagnata allo sprofondare nel Si caratterizza il modo della deiezione come spirale/gorgo107.
Coerentemente alla sua intenzione di rimanere sul piano della descrizione della struttura dell’esserci, Heidegger insiste nel sottolineare
103.
104.
105.
106.
107.
Ibidem.
Ivi, p. 178; trad. it., p. 224.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
161
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che “l’interpretazione ontologico-esistenziale [della deiezione] non ha
la pretesa di formulare giudizi ontici sulla ‘corruzione della natura umana’ […] perché la sua problematica si pone al di qua di qualsiasi giudizio sulla corruzione o sulla non corruzione degli enti”108. Ancora una
volta, facendo riferimento alle dispute fra teologia della croce e teologia scolastica a lui ben note, afferma con decisione che “non si tratta di
decidere onticamente se l’uomo sia sprofondato nel peccato, se si trovi
nello staus corruptionis, se proceda nello status integritatis, o se viva in
uno stato intermedio, lo status gratiae”109, perché “la deiezione è un
concetto ontologico di moto”110.
Tuttavia la descrizione della dinamica dell’esistenza come movimento di perdizione/salvezza sembra indicare con forza in un’altra direzione. Heidegger infatti non considera il moto deiettivo come l’ultima
parola circa l’esistenza: alla caduta corrisponde una possibilità di salvezza. Al concetto ontologico di moto corrisponde un riprendersi, un ritornare indietro dalla perdizione nel Si che Heidegger individua nel
concetto ontologico della decisione anticipatrice.
7.
La Cura in quanto struttura dell’esserci
Prima di affrontare il problema del rapporto fra esistenza autentica
ed inautentica Heidegger si sofferma però sulla totalità originaria delle
strutture dell’esserci, mirando in questo modo al “raggiungimento dei
fondamenti ontologici di quell’ente che noi stessi siamo e che chiamiamo ‘uomo’”112. egli definirà questa struttura Cura111, caratterizzandola
come verità. A tale proposito egli riconosce apertamente come insufficiente l’espediente metodologico dell’analisi della quotidianità. l’esperienza quotidiana infatti “non va oltre l’ambito dell’ente intramondano”113. Sempre nel tentativo di evitare il ricorso ad “un’idea concreta di
esistenza”, però, egli attribuisce la funzione di tramite metodologico per
108. Ivi, p. 180; trad. it., p. 226.
109. Ibidem.
110. Ibidem.
111. le radici greco-cristiane del fenomeno della Cura sono chiarificate in: lAriVée – ledUC [2001].
112. eeT, p. 197; trad. it., p. 246.
113. Ivi, p. 181; trad. it., p. 228.
162
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accedere alla Cura, intesa come un fenomeno unitario in grado di fondare ontologicamente la totalità delle strutture dell’esserci, alla particolare situazione emotiva conoscente dell’angoscia. essa infatti offre “il
terreno fenomenico per la comprensione esplicita della totalità originaria dell’essere dell’esserci”114, in quanto è in grado di fornire la sua più
ampia e originale apertura. Heidegger descrive l’angoscia come segue:
“l’angoscia, in quanto situazione emotiva, è una modalità dell’esserenel-mondo; il ‘davanti-a-che’ dell’angoscia è l’essere-nel-mondo in
quanto gettato; il ‘per-che’ dell’angoscia è il poter-essere-nel-mondo”115. essa quindi non fa altro che manifestare “l’essere-nel-mondo effettivamente esistente”116.
A ben vedere però Heidegger perviene alla chiarificazione del fenomeno unitario della Cura – caratterizzazione dell’essere dell’esserci
che, per sua diretta ammissione, gli è divenuta chiara “nelle ricerche sui
fondamenti ontologici dell’antropologia agostiniana”117 – attraverso la
scomposizione e l’analisi della formale definizione dell’esserci come
quell’ente per il quale ne va del suo essere.
nella definizione dell’esserci come “un ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso”118, “esser-per il proprio poter-essere significa ontologicamente: l’esserci, nel suo essere, è già sempre avanti
rispetto a se stesso”119. Heidegger chiama “questa struttura d’essere dell’essenziale ‘ne va di…’”120, “l’essere-avanti-a-sé dell’esserci”121. Poiché l’esistere è sempre effettivo e l’esistenzialità è sempre determinata
in modo essenziale dall’effettività, “in una prospettiva più completa
l’‘avanti-a-sé’ significa avanti-a-sé-essendo-già –in-un-mondo”122. Ma
114. Ivi, p. 182; trad. it., p. 229.
115. Ivi, p. 191; trad. it., p. 239.
116. Ibidem.
117. HGA 64, p. 44. in una nota di eeT Heidegger conferma questa derivazione,
affermando: “il punto di vista adottato nella presente analitica esistenziale dell’esserci a
proposito della cura si rivelò all’autore in occasione del tentativo di un’interpretazione
dell’antropologia agostiniana (cioè greco-cristiana) in riferimento ai fondamenti essenziali raggiunti nell’ontologia aristotelica”. Cfr. anche eeT, p. 418; trad. it., p. 527.
118. Ivi, p. 191; trad. it., p. 239.
119. Ivi, p. 191; trad. it., p. 240.
120. Ibidem.
121. Ibidem.
122. Ibidem.
163
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poiché “l’esistere effettivo dell’esserci non è soltanto, in generale e indifferentemente, un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è già anche
sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura”123, Heidegger conclude che “nell’‘avanti-a-che-essendo-già-in-un-mondo’ è essenzialmente incluso il deiettivo esser-presso l’utilizzabile intramondano di cui ci si prende cura”124.
la Cura pertanto, in quanto totalità formale esistenziale dell’insieme delle strutture ontologiche dell’esserci, viene definita come “avanti-a-sé-esser-già-in (un mondo) in quanto esser-presso (l’ente che si incontra dentro il mondo”125. essa è la totalità unitaria di comprensione,
situazione emotiva e deiezione, ovverosia di esistenza, effettività ed esser-deietto e viene prima di ogni comportamento o situazione, in essa si
fondano fenomeni come il desiderio, la volontà, l’impulso. Questi fenomeni vengono descritti da Heidegger solo in modo approssimativo,
perché “la [sua] ricerca di carattere ontologico fondamentale”126 “non si
propone un’ontologia dell’esserci completa e tematica e neppure un’antropologia concreta”127. di fatto Heidegger intravede “la ‘novità’ ontologica della [sua] interpretazione”128 in qualcosa di “onticamente assai
antico”129: “l’esplicazione dell’esserci in quanto cura non forza questo
ente in un’idea astrattamente precostituita, ma conduce a chiarezza concettuale ciò che era stato scoperto in sede ontologico-esistentiva”130, come testimonia una favola antica in cui l’esserci si autointerpreta come
nato dall’unione di Cura e Giove131.
Heidegger si dedica a ricostruire l’articolazione interna di questo
fenomeno nella seconda parte di Essere e Tempo, ponendo particolare
attenzione al rapporto fra la dimensione autentica e inautentica dell’esistenza.
123. Ibidem.
124. Ibidem.
125. Ivi, p. 191; trad. it., p. 241.
126. Ivi, p. 192; trad. it., p. 242.
127. Ibidem.
128. Ivi, p. 196; trad. it., p. 245
129. Ibidem.
130. Ibidem.
131. Cfr. Ivi, p. 197; trad. it., p. 246. Heidegger evidenzia come Burchard abbia individuato due significati di Cura: da un lato pena angosciosa, dall’altro premura, devozione. Questo duplice significato che è possibile riscontrare anche nelle epistole di Seneca esprime ciò che a livello ontologico Heidegger comprende come progetto gettato.
164
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Prima di passare ad analizzare come in concreto si rapportano tali
dimensioni, quale sia la loro interna articolazione e, soprattutto, quale
sia “il fenomeno ancora più originario che sottenda ontologicamente
l’unità e la totalità del molteplice della struttura della Cura”132, Heidegger affronta il rapporto autentico/inautentico anche dal punto di vista
della verità, attuando una serie di riflessioni che torneranno utili al nostro discorso.
la struttura della Cura porta in sé l’apertura, con la quale si raggiunge il fenomeno originario della verità, che Heidegger individua in
una qualità fondamentale dell’esserci. egli infatti ritiene che in quanto
aperto l’esserci sia essenzialmente vero, ovverosia che “l’esserci è ‘nella verità’” e questo significa per lui che dell’esserci “fa parte l’apertura
del suo essere più proprio”133. Tale apertura è essenzialmente effettiva,
in quanto è caratterizzata dall’essere-gettato, cioè dall’essere “già sempre in un determinato modo e presso una determinata cerchia di determinati enti intramondani”134. della costituzione d’esserci fa parte però
allo stesso tempo anche il progetto, cioè “l’aprente essere per il proprio
poter essere”135, attraverso cui l’esserci “può comprendersi a partire dal
mondo e dagli altri oppure dal suo poter essere più proprio”136. Solo nel
secondo caso esso rivela “il fenomeno della verità più rigorosamente
originario nel modo dell’autenticità”137. Heidegger definisce questa
apertura originaria verità dell’esistenza. Come abbiamo visto però della costituzione dell’esserci fa parte anche la deiezione, attraverso la quale l’esserci si perde nel suo mondo, immedesimandosi nello stato interpretativo pubblico e smarrendo in questo modo la possibilità di progettarsi. Pertanto Heidegger afferma che “essendo l’esserci essenzialmente deiettivo, esso, a causa della costituzione del suo essere, è nella ‘non
verità’”138. nonostante egli specifichi che “questa espressione, come
quella di ‘deiezione’, sia usata in senso ontologico” e che “ogni ‘valutazione’ negativa di natura ontica è estranea all’analitica esistenzia-
132.
133.
134.
135.
136.
137.
138.
eeT, p. 196; trad. it., p. 245
Ivi, p. 221; trad. it., p. 272.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 222; trad. it., p. 273.
165
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le”139, quando afferma che “‘l’esserci è nella verità’ porta con sé cooriginariamente: ‘l’esserci è nella non verità’”140, sembra riportare sul piano della dinamica dell’esistenza il principio luterano della contemporaneità di uomo giusto e peccatore.
Per quanto la quotidianità rappresenti l’essere innanzitutto e perlo-più attraverso cui accedere alla struttura dell’esistenza, pertanto è
chiaro che dal punto di vista ontologico e, solo secondo Heidegger avalutativo, l’apertura viene prima della chiusura. egli infatti sottolinea: “è
soltanto in quanto aperto che l’esserci è anche chiuso; ed è soltanto perché con l’esserci è già sempre scoperto l’ente intramondano che tale ente può essere nascosto o contraffatto quando è incontrato nel mondo”141.
riprendendo la funzione metodologica attribuita precedentemente alla
phrónesis egli pertanto conclude che “stando così le cose, l’esserci, deve, per essenza, riappropriarsi esplicitamente anche di quanto ha già
scoperto, contro la parvenza e la contraffazione, e deve sempre nuovamente riassicurarsi della scoperta fatta”142 e questo significa che “la verità deve essere strappata all’ente”143, il quale deve essere “sottratto a
forza all’essere nascosto”144.
da un lato quindi Heidegger presenta una coappartenenza di verità
e non verità, dall’altra una sorta di gerarchia ontologica. Ma come si rapportano effettivamente fra loro queste due dimensioni dell’esistenza?
139.
140.
141.
142.
143.
144.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
166
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CAPiTolo ii
dAll’eSiSTenzA inAUTenTiCA
All’eSiSTenzA AUTenTiCA
1.
In cammino verso l’esistenza autentica
Heidegger affronta questa questione nella seconda sezione di Essere e Tempo, dedicata non più alla comprensione della costituzione
concreta dell’esistenza nell’articolazione delle sue strutture essenziali,
ma al poter-essere-un-tutto dell’esserci. in questo modo egli passa dalla comprensione della struttura dell’esistenza – il che-cosa – alla questione della possibilità dell’esistenza autentica – il come. in questo modo si attua un cambiamento di prospettiva che sembra corrispondere al
passaggio, rilevato dallo stesso Heidegger nel X libro delle Confessioni, dalla domanda sul che cosa è dio a quella su come sia possibile accedervi, laddove non è più dio ad essere cercato, quanto l’autentica dimensione dell’esistenza.
È nella tematizzazione di questo passaggio che si rendono riconoscibili gli stimoli forniti da kierkegaard1 sul percorso tracciato da lutero lungo il quale Aristotele ha assunto la funzione di modello.
Heidegger ha affrontato fino ad adesso il problema dell’essere-untutto da parte dell’esserci, in un primo momento come “un problema
meramente teoretico e di metodo”2, finalizzato a raggiungere “una datità completa di tutto l’esserci”3. in corso d’opera, però, aprendo una
breccia all’interno della mera determinazione ontologica dell’esistenza,
1.
2.
3.
Cfr. HGA 63, p. 7; trad. it., p. 9.
eeT, p. 232; trad. it., p. 284.
Ibidem.
167
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rileverà il significato effettivo esistentivo dell’inautenticità che l’esserci risolve solo come deciso.
egli ha assunto come filo conduttore dell’analitica esistenziale
“l’idea dell’esistenza come il poter-essere comprendente cui ne va sempre del suo essere stesso”4 che, in quanto sempre mio, è stato caratterizzato come “libero per l’autenticità, l’inautenticità o la loro indifferenza modale”5. Fino ad adesso però l’analisi si è mossa soltanto nel
campo dell’esistere o indifferente o inautentico, senza riuscire a pervenire all’esserci totale e autentico.
Heidegger afferma pertanto che “se l’interpretazione dell’essere
dell’esserci […] vuole farsi originaria, dovrà, prima di tutto, porre esistenzialmente in luce l’essere dell’esserci quanto alle possibilità che esso porta con sé dell’autenticità e della totalità”6; considerando come
originaria quella comprensione che “abbia portato nella pre-disponibilità il tutto dell’ente tematico”7. Tale tutto indica sia l’esserci “dal suo
‘inizio’ alla sua ‘fine’”8, sia l’esserci nell’insieme della sua dimensione
autentica e inautentica.
Heidegger chiarisce il poter-essere-un-tutto autentico dell’esserci
attraverso l’analisi del concetto esistenziale della morte. È l’essere dinnanzi alla morte, compreso in modo esistenziale, a rendere possibile
uno sguardo sul tutto dell’esistenza, ponendola contemporaneamente
dinnanzi alla possibilità di pervenire ad una dimensione autentica9.
impostando il suo discorso, Heidegger sembra essere consapevole
della necessità di un criterio in base al quale determinare l’autenticità
dell’esistenza, quando chiede “come potrà essere determinata, in linea
generale l’autenticità dell’esistenza se non rispetto all’esistere autentico? Ma dove prenderemo il criterio per rintracciarlo?”10. Ciò nonostante, egli sgombra il campo da ogni possibilità di poter rintracciare tale
criterio in modo univoco, quando afferma: “evidentemente è l’esserci
stesso che deve offrire nel suo essere la possibilità e la modalità della
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Ivi, p. 233; trad. it., p. 285.
Ibidem.
Ivi, p. 234; trad. it., p. 286.
Ivi, p. 232; trad. it., p. 284.
Ivi, p. 233; trad. it., p. 285.
Un’analisi del rapporto fra fenomeno della morte e etica è attuata in BeUCHoT
[1986].
10. Ivi, p. 234; trad. it., p. 286.
168
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sua esistenza autentica, dato che essa non può essere imposta all’esserci onticamente né può essere fabbricata ontologicamente”11. Spostando
l’attenzione dal piano della conoscenza al piano dell’esistenza, Heidegger sottolinea come “l’attestazione di un poter-essere-autentico [sia] offerta dalla coscienza” e come “il poter-essere-autentico dell’esserci
consiste nel voler-aver-coscienza”12. È attraverso la comprensione esistenziale sia del fenomeno della morte che di quello della coscienza che
bisognerà passare per comprendere questa trasposizione.
2.
Il morire come determinazione dell’essere più proprio dell’esserci
Heidegger afferma di aver dedotto il fenomeno ontologico della
morte “dalle strutture dell’esserci precedentemente analizzate”, “senza
costrizioni esterne” e senza far riferimento ad “un ideale esistentivo
‘oggettivo’”13. di fatto però come è stato rilevato nella comprensione
esistenziale della morte converge il tema luterano dell’annullamento
dell’uomo attraverso la croce, reinterpretato su base ontologica attraverso il ricorso al concetto aristotelico del télos-teleión. Qui di seguito
si metterà in evidenza come Heidegger attinga alle fondamentali strutture di pensiero presenti nelle lettere paoline ai Tessalonicesi per la determinazione dell’atteggiamento dell’esserci rispetto alla morte.
Heidegger si è soffermato sul concetto aristotelico di télos teleión,
in alcune riflessioni a margine della definizione dell’agathón come autentico carattere d’essere dell’uomo nella lezione sui Concetti fondamentali della filosofia aristotelica. in essa il telos teleion era stato definito come il fine, nel senso del limite oltre il quale non è possibile procedere che, allo stesso tempo, determina ciò di cui è fine. Una particolare modalità di tale fine era stata individuata nella morte, la quale, sulla base della definizione aristotelica data in Met 5/16, era stata definita
come fine della vita, nel senso del suo compimento, ovvero come ciò
che non fa scomparire ciò di cui è fine, ma lo mantiene in esso e lo determina.
nell’analitica esistenziale partendo da tali riflessioni Heidegger
11. Ibidem.
12. Ivi, p. 234; trad. it., p. 287.
13. Ivi, p. 265; trad. it., p. 322.
169
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sottolinea come la morte non debba essere compresa come la fine della
vita il cui raggiungimento implica “la perdita dell’essere del Ci”14. la
morte piuttosto è il compimento dell’esserci nel senso del télos: essa lo
determina e quindi lo definisce. relativamente all’esserci, essere alla fine [das Zu-Ende-sein] significa Sein zum Ende. il significato esistenziale della fine emerge dal duplice significato della preposizione tedesca zu, che indica il complemento di moto a luogo, il verso cui, e il fine, il per-cui. Sein-zum-Tode è quindi l’essere-per-la-morte-e-verso-diessa. la morte è la fine della vita nel senso del télos, l’esserci tende verso questa possibilità e si definisce attraverso di essa.
Heidegger chiarifica questo specifico senso dell’essere-per/versola-fine partendo da un approfondimento della definizione dell’esserci
come cura e della sua interna articolazione in esistenza, effettività e
deiezione. Attraverso tale analisi “l’essere-per-la-fine si rivela fenomenicamente come l’essere per la possibilità dell’esserci più caratteristica
e specifica”15.
relativamente alla dimensione dell’esistenza che si esprime nel
momento strutturale della cura dell’essere-avanti-a-sé la morte è “la
possibilità di non-poter-più-esserci”16, ovverosia “la possibilità della
pura e semplice impossibilità dell’esserci”17. in quanto esiste, l’esserci
è gettato in questa possibilità, pur non avendone una conoscenza specifica, se non nella situazione emotiva dell’angoscia, la quale è la specifica “apertura dell’esserci al suo esistere come essere-gettato per la propria fine”18. rispetto alla dimensione deietta della fine Heidegger afferma:
la constatazione che in linea di fatto molti uomini, innanzitutto e per lo più,
non sanno nulla della morte, non può essere addotta a prova che l’essere-perla-morte non appartiene ‘universalmente’ all’esserci, ma vale piuttosto come
prova del fatto che l’esserci, innanzitutto e per lo più copre il più proprio essere-per-la-morte, fuggendo dinnanzi ad esso. l’esserci muore effettivamente
fin che c’è, ma, innanzitutto e per lo più, nella maniera della deiezione19.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
Ivi, p. 237; trad. it., p. 291.
Ivi, p. 250; trad. it., p. 306.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 251; trad. it., p. 307.
170
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È questo modo deietto di relazionarsi alla morte a fornire delle indicazioni circa il suo fenomeno autentico esistenziale. Secondo la comprensione quotidiana e media dell’esistenza, prima o poi tutti muoiono: si
muore. dicendo si muore, “la morte è concepita come qualcosa di indeterminato, che, certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che,
per intanto non è ancora presente e quindi non ci minaccia”20. in questo
modo il morire è livellato ad un evento che certamente riguarda l’esserci,
ma non concerne nessuno in proprio. Questo equivoco che nasce dalla
“tentazione di coprire a se stesso l’essere-per-la-morte più proprio”21 ha
un effetto tranquillizzante riguardo alla morte che determina anche il modo “in cui ci si deve, in generale, comportare dinnanzi [ad essa]“22. il Si
non ha il coraggio dell’angoscia dinnanzi alla morte e interpreta tale angoscia come una paura che va superata. “Ciò che ‘si addice’, secondo il
tacito decreto del Si, è la tranquillità indifferente di fronte al ‘fatto’ che si
muore”23. Questa indifferenza ha un effetto estraniante rispetto alle possibilità più proprie dell’esserci che possono invece essere aperte nella situazione emotiva dell’angoscia, la quale conduce l’esserci davanti a se
stesso, rimettendolo alla sua possibilità insuperabile. Heidegger però sottolinea che “anche nella quotidianità media, l’esserci si muove costantemente in questo poter essere più proprio, incondizionato e insuperabile,
sia pure solo nel modo del prendersi cura di una indifferenza opaca ConTro la possibilità estrema della propria esistenza”24.
definendolo per differenza rispetto all’interpretazione quotidiana
fin’ora delineata, il concetto ontologico esistenziale integrale della morte viene riassunto da Heidegger in questi termini: “la morte, come fine
dell’esserci, è la possibilità dell’esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile”25. Questa possibilità “deve
essere compresa proprio come possibilità, deve essere posta in atto come possibilità e in ogni comportamento verso di essa deve essere sopportata come possibilità”26.
Forte della sua interpretazione del fenomeno dell’attesa della pa-
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
Ivi, p. 253; trad. it., p. 308.
Ivi, p. 254; trad. it., p. 309.
Ivi, p. 254; trad. it., p. 310.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 258; trad. it., p. 315.
Ibidem.
171
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rousía Heidegger individua il modo autentico di rapportarsi alla morte
come possibilità nel fenomeno dell’anticipazione. l’esserci infatti non
può rapportarsi alla morte come ad una possibilità che va realizzata. Tale realizzazione coinciderebbe con il suicidio e implicherebbe l’annullamento della possibilità in quanto possibilità. nel pensare alla morte,
nel lambiccarsi il cervello sul suo come, sul suo quando e sul suo perché, invece, non si priva la morte del suo carattere di possibilità, in
quanto essa effettivamente è vista come qualcosa che verrà, ma la si
svuota del suo significato “tentando di controllarla per mezzo di calcoli”27. neanche l’attesa può essere il modo in cui l’esserci si rapporta alla morte come sua possibilità autentica. l’attesa è infatti sempre attesa
di qualcosa e blocca il possibile in quanto tale in tutta la sua apertura.
Come Heidegger sa dalla Lettera ai Tessalonicesi coloro che attendono
la parousía e si tranquillizzano di fronte al suo non essere ancora presente sono sorpresi dall’arrivo del Signore come ladri nella notte. l’attesa è una modalità teoretica di rapportarsi a ciò che si manifesta che si
risolve nell’“essere attento” alla possibilità. in questo modo però “ha
luogo un allontanamento dal possibile” che implica un radicamento nel
reale che funge da orizzonte a partire dal quale ci si attende ciò che è atteso. “Muovendo dal reale e tendendo ad esso, il possibile è risolto nel
reale che ci si attende”28. ogni attesa, in quanto attesa di qualcosa di
specifico, pertanto blocca la possibilità e l’annulla in quanto tale. di
conseguenza, attendere la morte significa smettere di vivere.
nel fenomeno dell’anticipazione, invece, la morte viene compresa
come possibilità, viene posta in atto e sopportata come possibilità. nell’anticipazione la vicinanza massima dell’essere-per-la-morte coincide
con la sua lontananza massima da ogni realtà. Quanto più autenticamente viene compresa la morte in quanto possibilità, tanto più essa
emerge come “l’impossibilità dell’esistenza in generale”29. la morte in
quanto possibilità non offre niente da realizzare all’uomo, ma è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento verso ogni esistere.
“l’essere-per-la-morte, come anticipazione della possibilità, rende possibile la possibilità e la rende libera come tale”30.
27.
28.
29.
30.
Ivi, p. 262; trad. it., p. 318.
Ibidem.
Ivi, p. 263; trad. it., p. 319.
Ibidem.
172
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È l’anticipazione a far emergere la morte come la possibilità più
propria, incondizionata, insuperabile, certa e indeterminata dell’esserci.
l’essere-per-la-morte apre all’esserci il poter-essere più proprio nel
quale ne va pienamente del suo essere. Attraverso l’anticipazione della
morte l’esserci è sottratto al Si. la possibilità più propria infatti appare
come incondizionata, in quanto l’esserci ha da assumere esclusivamente da se stesso quel poter-essere in cui ne va del suo poter-essere più proprio. la morte non appartiene indifferentemente all’insieme degli esserci, ma pretende l’esserci nel suo isolamento. in questo modo, l’anticipazione della possibilità incondizionata conferisce all’ente anticipante la possibilità di assumere il suo essere più proprio da se stesso e a partire da se stesso. “l’essere può essere autenticamente se stesso solo se
si rende autenticamente possibile per ciò”31.
la possibilità più propria e incondizionata è allo stesso tempo insuperabile. Posto dinnanzi a tale insuperabilità in modo autentico l’esserci assume il compito della propria irripetibile singolarità. Attraverso
l’anticipazione esso infatti non evade l’insuperabilità come fa l’essereper-la-morte inautentico, ma si rende libero per essa. “l’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità
che si presentano casualmente, in modo che le possibilità effettive, cioè
situate al di qual di quella insuperabile, possono essere comprese e scelte autenticamente”32. Giocando intorno al duplice significato del termine Selbstaufgabe, autoannullamento e compito di se stesso, Heidegger
afferma che, trovandosi dinnanzi alla possibilità della propria dissoluzione e scomparsa, l’esserci si assume come compito e dissolve “ogni
solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte”33. riferendosi esplicitamente a nietzsche, egli poi sottolinea:
Anticipandosi, l’esserci si garantisce dal cadere dietro a se stesso e alle spalle
del poter-essere già compreso e dal ‘divenire troppo vecchio per le sue vittorie’ (nietzsche). libero per le possibilità più proprie e determinate a partire
dalla fine, cioè comprese come finite, l’esserci sfugge dal pericolo di disconoscere, a causa della comprensione finita propria dell’esistenza, le possibilità
esistenziali degli altri che esulano da tale comprensione; oppure, miscono-
31. Ivi, p. 262; trad. it., p. 320.
32. Ivi, p. 263; trad. it., p. 321.
33. Ibidem.
173
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scendole, di ricondurle alle proprie, per sfuggire così alla singolarità assoluta
della propria effettiva esistenza34.
la scelta della propria singolarità dinnanzi a cui ci pone l’esperienza dell’insuperabilità della morte apre l’esserci contemporaneamente alla consapevolezza del “poter-essere degli altri che ci con-sono”35 e lo pone dinnanzi alla “possibilità di esistere concretamente come poter-essere totale”36.
Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile appare attraverso l’anticipazione come certa, seppure questa certezza non
rientri nell’ordine dell’evidenza delle semplici presenze e non possa essere raggiunta mediante il calcolo statistico dei casi di morte registrati,
ma è la certezza nell’essere-nel-mondo stesso, caratterizzata in tutto e
per tutto da indeterminatezza. la possibilità più propria, incondizionata, insuperabile e certa è, quindi, quanto alla certezza, indeterminata. la
morte infatti incombe come una minaccia certa, ma indeterminata rispetto al suo quando.
l’anticipazione della morte, così compresa, pone dinnanzi ad una
possibilità propria (la morte non è un’esperienza interscambiabile), incondizionata (la morte è l’estrema possibilità), insuperabile (la morte è
un’esperienza inderogabile), certa (la morte riguarda tutti) e indeterminata (la morte colpisce certamente anche se non si sa quando). Questa
anticipazione del proprio autentico limite pone l’esserci di fronte alla
possibilità di essere se-stesso in modo autentico.
la costante minaccia della fine e l’indeterminazione di tale certezza infatti si esprimono nella situazione emotiva dell’angoscia che nasce
dal trovarsi “di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria
esistenza”37. Questa autentica inquietudine porta l’esserci dinnanzi alla
possibilità di un cambiamento che coinvolge l’intera esistenza: angosciandosi per il poter-essere dell’ente così costituito l’angoscia “ne apre
in tal modo la possibilità estrema”38. essa infatti “svela all’esserci la dispersione del Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura
34.
35.
36.
37.
38.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 266; trad. it., p. 323.
Ibidem.
174
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avente cura, lo pone dinnanzi alla possibilità di essere se stesso, in una
libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di
se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte”39.
Questa possibilità ontologica dell’essere libero per la propria morte viene attestata sul piano esistentivo, non solo come possibile, ma anche come richiesta dall’esserci stesso. Heidegger infatti sostiene che
non solo l’assunzione del limite e l’apertura all’autenticità sono possibili, ma che esse sono di fatto anche volute e desiderate dall’esserci. in
questo modo ritorna ancora la dinamica descritta da Agostino: gli uomini amano la verità, non vogliono essere ingannati. lo sfondo teologico del discorso emerge chiaramente quando Heidegger rintraccia la possibilità ontica corrispondente all’essere-per-la-morte autentico nel fenomeno della voce della coscienza.
3.
La voce della coscienza e la decisione esistenziale
l’esserci è posto dinnanzi alla possibilità di poter-essere se stesso
in modo autentico attraverso l’anticipazione dell’essere-per-la-morte.
Tale poter-essere se stesso autentico, in quanto modificazione esistentiva del Si-stesso, si manifesta come un capovolgimento della modalità
fondamentale d’essere del Si. Tale capovolgimento deve avvenire attraverso la ripresa di quella dimensione autentica perduta nella dimensione del Si40 che Heidegger in questo contesto, così descrive:
Con la perdizione dell’esserci nel Si, tutto è deciso circa il poter-essere dell’esserci più prossimo ed effettivo, cioè circa i compiti, le regole, le misure,
l’urgenza e la portata dell’essere-nel-mondo prendente e avente cura. il Si ha
già sempre esonerato l’esserci dalla comprensione genuina di questa possibi-
39. Ibidem.
40. Anche kierkegaard definisce la dimensione “inautentica“, ovvero per lui, l’esistenza estetica, come un sottrarsi alla scelta. Se l’uomo estetico perde l’attimo della decisione “alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché
ha scelto, ma perché non l’ha fatto, il che si può anche esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso” (Aut-Aut, p. 11). la concezione estetica impedisce la scelta che per kierkegaard non è scelta della scelta, ma scelta dell’etica, quindi scelta di una modalità. egli afferma: “Ciò che appare come mio aut-aut è l’etica. Perciò non si può ancora parlare della scelta di qualche cosa, non si può ancora parlare della
realtà di ciò che è stato scelto, ma della realtà dello scegliere” (Aut-Aut, p. 26).
175
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lità di essere. il Si nasconde la tacita sottrazione che esso compie della scelta
esplicita di queste possibilità41.
Se il Si-stesso si identifica innanzitutto e per lo più con questo declinare ogni responsabilità attraverso l’assunzione di norme prestabilite
e generalmente accettate, per differenza, la ripresa dell’essere se-stesso
autentico “deve aver luogo come ripresa della scelta”42, ovverosia come “scelta di questa scelta stessa, una decisione per un poter-essere
fondato nel proprio se-stesso”43. Come l’individuo kierkegaardiano, se
vuole divenire etico deve scegliere la realtà della scelta, così anche l’esserci rende possibile a se stesso il proprio poter-essere autentico44, scegliendo la scelta.
ora, secondo Heidegger, l’attestazione della possibilità del poteressere se-stesso autentico è data da quel fenomeno che nell’interpretazione quotidiana dell’esserci viene identificato nella voce della coscienza45. È la voce della coscienza che spinge l’esserci alla scelta di se
stesso e quindi al suo se-stesso autentico.
Heidegger considera la coscienza come un modo di essere dell’esserci, un fatto dell’esistenza effettiva che non va confermato da prove e
controprove di alcun genere, ma va compreso nella sua struttura formale. in quanto tale, la coscienza è ciò che “dà qualcosa a conoscere. [essa] apre e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni esistenziali che
costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura”46.
41. eeT, p. 268; trad. it., p. 325. il corsivo è mio.
42. Ibidem.
43. Ibidem.
44. Siamo ancora una volta di fronte al tema kierkegaardiano per eccellenza: la
scelta. Cfr.: Aut-Aut, p. 15: “Scegliere è soprattutto una espressione rigorosa ed effettiva
dell’etica. Sempre quando nel senso più rigido si parla di un aut-aut, si può essere certi
che è in gioco anche l’etica. l’unico aut-aut assoluto che esista è la scelta fra bene e male, ma anche questo è assolutamente etico. la scelta estetica o è contemporaneamente
spontanea e perciò non è una scelta o si perde nella molteplicità”. la vera scelta è quella
etica e quindi quella assoluta.
45. J. Brejdak, mette in evidenza come già nell’orizzonte concettuale di Paolo,
l’autorità della voce della coscienza sostituisca quella che nel mondo ebraico era stata
l’autorità della legge, basando quest’affermazione su rom, 2. in questo modo mette in
evidenza la concezione ebraica del tempo del kairós conforme al compimento. Cfr.: BreJdAk [1996], p. 55.
46. eeT, p. 270; trad. it., p. 328.
176
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Utilizzando un metodo già sperimentato, Heidegger perviene alla
determinazione del fenomeno esistenziale della coscienza in quanto
apertura, attraverso il capovolgimento di alcuni aspetti deietti e quotidiani dell’apertura stessa. nella quotidianità l’esserci si comprende a
partire dallo stato interpretativo pubblico del Si, in quanto sta a sentire
ciò che si dice: “perso nella pubblicità del Si e nelle sue chiacchiere,
l’esserci non ascolta più il proprio se-stesso, smarrito come è nel dar
retta al Si-stesso”47.
l’esserci può ritrovare quel se-stesso che ha trascurato di sentire
dando ascolto al Si, prestando attenzione ad una chiamata “le cui caratteristiche siano radicalmente opposte a quelle del sentire che definisce
la perdizione del Si”48. Questo significa che “poiché quest’ultimo sentire è stordito dal ‘chiasso’ e dalla rumorosa equivocità della chiacchiera ogni giorno ‘nuova’, la chiamata dovrà farsi sentire silenziosamente,
inequivocabilmente e senza appiglio per la curiosità”49. Secondo Heidegger, “chi dà a comprendere chiamando in questo modo non è altro
che la coscienza”50.
essa è un modo del discorso, non necessariamente articolato verbalmente, in cui il Si-stesso è richiamato a Se-stesso. la coscienza parla nel modo del silenzio; essa non dice nulla al se-stesso che viene richiamato, ma lo ridesta a se-stesso, cioè al suo proprio poter-essere. la
coscienza è “il risveglio del se-stesso al suo poter-essere se-stesso, e
perciò una chiamata dell’esserci di fronte alle proprie possibilità”51, anche se “il che-cosa di queste possibilità resta vuoto e indeterminato”52.
Heidegger sottolinea come quella che appare come una voce estranea che sovrasta l’esserci, in realtà non sia altro che la voce dell’esserci nel suo sentirsi profondamente spaesato, in quanto originario e gettato essere-nel-mondo come non-sentirsi-a-casa-propria53. la chiamata
pertanto avviene nel modo spaesato del tacere, la sua voce infatti “non
giunge al richiamato insieme alle chiacchiere pubbliche del Si, ma lo
47.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
Ivi, p. 271; trad. it., p. 329.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 274; trad. it., p. 332.
Ivi, p. 275; trad. it., p. 333.
Ivi, p. 277; trad. it., p. 335.
177
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trae fuori da esse richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente”54.
Coerentemente alle possibilità metodologiche a disposizione e
conformemente ai compiti posti nell’analisi esistenziale, secondo Heidegger “ciò che può e deve essere determinato non è il contenuto esistentivo contingente delle singole chiamate nei singoli esserci, ma ciò
che rientra nella condizione esistenziale della possibilità del poter-essere effettivo esistentivo”55.
Tale condizione viene identificata nell’essere colpevole compreso
in modo autenticamente esistenziale. il legame con la tradizione teologica è evidente e, nello specifico, proprio la radice paolino-luterana non
può passare in sordina, se si considera che Heidegger ritiene che la colpa possa essere compresa esistenzialmente se viene “sciolta dal riferimento al dovere e alla legge”56 e se si comprende “il carattere del non”
che l’idea di colpa porta essenzialmente con sé57.
Heidegger definisce l’idea formale dell’essere colpevole come
“essere fondamento di un essere che è determinato da un ‘non’, cioè essere fondamento di una nullità”58, più precisamente: “l’essere (nullo)
fondamento di una nullità”59. egli comprende questa definizione formale a partire dall’essenza dell’esserci, determinata in quanto cura, nella sua articolazione di effettività, esistenza e deiezione. l’esserci è “nullo fondamento”, perché può essere fondamento del proprio poter essere
solo a partire dal proprio essere-gettato. Ma l’esserci non può essere signore di tale gettatezza. esso è fondamento di una nullità in quanto, come poter-essere, è “sempre in una o in un’altra possibilità; non è mai
l’una e l’altra, perché nel progetto esistentivo ha sempre rinunciato ad
una”60. da ciò deriva che “il progetto, in quanto gettato, non è soltanto
determinato dalla nullità dell’essere-fondamento, ma è essenzialmente
54. Ivi, p. 278; trad. it., p. 336.
55. Ivi, p. 280; trad. it., p. 339.
56. eeT, p. 282; trad. it., p. 343.
57. ne L’Essere e il Nulla, Sartre rileva come “a dire il vero, [questa] descrizione
di Heidegger lascia troppo chiaramente apparire la preoccupazione di fondare ontologicamente un’etica, di cui pretende di non preoccuparsi, come anche di conciliare il suo
umanismo con il senso religioso del trascendente” (SArTre, 1997), p. 118.
58. eeT, p. 282; trad. it., p. 343.
59. Ibidem.
60. Ibidem.
178
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nullo proprio in quanto progetto”61. Questa nullità è il fondamento della possibilità della nullità dell’esserci non-autentico della deizione, in
cui esso già da sempre effettivamente è.
Heidegger sottolinea pertanto che l’essere dell’esserci è nullo precedentemente al suo stesso progettare e quindi la nullità non ha il carattere della “manchevolezza rispetto ad un ideale proclamato e mai raggiunto”62. Al contrario “questo essere colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità dell’esserci di potere, esistendo, divenire
colpevole”, è cioè “la condizione essenziale della possibilità del bene e
del male ‘morale’, della moralità in generale e della possibilità delle sue
modificazioni particolari”63. in quanto nullo fondamento di una nullità
l’esserci è ontologicamente inadeguato all’adempimento della legge: è
nullo, senza fondamento, ma soprattutto fonda nullità.
la voce della coscienza che indica in direzione dell’autentico essere colpevole in quanto nullo fondamento di una nullità, viene dallo
spaesamento e richiama l’esserci dinnanzi al suo proprio poter-essere.
Tale richiamo viene definito da Heidegger come “un richiamare-in-dietro-chiamando-innanzi“: “indietro: nell’essere-gettato, per comprenderlo come nullo fondamento che l’esserci, esistendo, ha da assumere”;
“innanzi: alla possibilità di assumere, esistendo, quell’ente gettato che
l’esserci è”64. Ascoltando questo richiamo l’esserci può divenire colpevole nel modo più proprio ed autentico e progettarsi nel suo essere più
proprio. “l’esserci che comprende la chiamata, ascoltando ubbidisce alla possibilità più propria della sua esistenza. Ha scelto se stesso”65.
Con questa scelta, l’esserci rende possibile a se stesso quel più proprio essere-colpevole che resta invece nascosto al Si-stesso. Quest’ultimo infatti “non conosce che l’ottemperanza o la violazione di regole
pratiche e norme pubbliche” e “procede computando manchevolezze ed
escogitando compromessi”66. Al contrario, “la comprensione della chia-
61. Ivi, p.284; trad. it., p. 345.
62. Ibidem.
63. Ivi, p. 287; trad. it., p. 347. Anche kierkegaard mette in evidenza come la scelta non sia fra il bene e il male: “il mio aut-aut non indica la scelta fra il bene e il male; indica la scelta con la quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto fra bene e male” (Aut-Aut, p. 17).
64. eeT, p. 288; trad. it., p. 348.
65. Ivi, p. 288; trad. it., pp. 248-249.
66. Ivi, p. 288; trad. it., p. 249.
179
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mata è una scelta; non però della coscienza che, in quanto tale, non può
essere scelta”, ma del voler-aver-coscienza, il quale rappresenta “il presupposto esistentivo più originario per la possibilità del divenire colpevole effettivo”67. Comprendendo la chiamata, l’esserci lascia agire in sé
il se-stesso più proprio, a partire dal poter-essere che esso ha scelto e solo così può essere responsabile in senso proprio ed adeguato, assumendo, come abbiamo visto, se stesso come compito68.
relativamente alla tematica del divenire colpevole è chiaro il riferimento al tema kierkegaardiano del pentimento e della conseguente
scelta di se stesso da parte dell’individuo come scelta che libera e pone
dinnanzi alla responsabilità. kierkegaard infatti sostiene che nel pentimento assumo me stesso liberamente, liberandomi da me stesso. nella
scelta “l’individuo diventa cosciente di sé come questo determinato individuo, con queste doti, queste tendenze, queste passioni, questi ardori,
influenzato da questo determinato ambiente, come questo determinato
prodotto di un mondo circostante determinato. Mentre diventa cosciente
di se in questo modo, egli assume tutto sotto la sua responsabilità”69. Tale responsabilità consiste nello scegliersi come prodotto. Come abbiamo
visto per Heidegger, anche kierkegaard considera questo scegliersi come un divenire compito a se stessi, ma – e in ciò si caratterizza la profonda differenza fra i due autori – tale compito consiste nell’amalgamare ciò
che è casuale e ciò che è universale, ciò che è reale e ciò che è ideale. Secondo kierkegaard “quando l’individuo ha conosciuto e scelto se stesso,
egli sta per tradurre in realtà se stesso; ma poiché egli deve liberamente
tradurre in realtà se stesso, egli deve sapere cosa deve tradurre in realtà.
Quello che vuol tradurre in realtà è certamente se stesso, ma è il suo ideale, che egli in nessun altro luogo può avere se non in sé”70.
Heidegger esprimendo la medesima idea, ma senza riferimento all’universale e all’ideale afferma:
67. Ibidem.
68. Partendo dalla costatazione di questo primato della coscienza, J. Brejdak sottolinea come “a chi vuole cercare di spiegare la mancanza di un’etica in Heidegger si deve obiettare che chi afferma l’autorità della coscienza non ha bisogno di un’etica” (BreJdAk, 1996, p. 80).
69. Aut-Aut, p. 117.
70. Aut-Aut, p. 127. Cfr. Anche p. 27: “l’io sceglie se stesso, o piuttosto riceve se
stesso. […] l’uomo non diviene diverso da ciò che era prima, ma diventa solo se stesso;
la coscienza si raccoglie e egli è se stesso“.
180
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in virtù del modo di essere costituito da quell’esistenziale che è il progetto,
l’esserci è costantemente ‘più’ di quanto di fatto sarebbe qualora potesse o volesse prendersi in esame come semplice-presenza. esso però non è mai più di
quanto effettivamente sia, perché il poter essere rientra in linea essenziale nella sua effettività. Ma, in quanto poter-essere, non è mai neppure meno, perché
ciò che nel suo poter-essere esso non è ancora, esistenzialmente lo è già. Soltanto perché l’essere del Ci trova la sua costituzione nella comprensione e nel
carattere di progetto di essa, soltanto perché esso è ciò che diviene o non diviene, esso può, comprendendo, dire a se stesso: ‘divieni ciò che sei!’71.
in altri termini, per Heidegger “la chiamata non dà a conoscere un
poter-essere ideale e universale: essa apre il poter-essere come poter-essere singolarmente individuato d’un esserci singolo”72 che nel divenire
se stesso non ha più nessun rapporto con l’universale.
4.
Decisione anticipatrice
Heidegger ritiene che il poter-essere autentico dell’esserci attestato dalla coscienza deve essere compreso nella sua costituzione esistenziale come decisione73 intesa come “il tacito ed angoscioso autoprogettarsi nel più proprio essere colpevole”74. Tale definizione si giustifica se
si pensa che – come abbiamo visto –, relativamente alla situazione emotiva, il poter-essere autentico è costituito dall’angoscia, relativamente
alla comprensione, esso è l’autoprogettarsi nell’essere-colpevole più
proprio, relativamente al discorso, esso è silenzio.
Heidegger però sottolinea che “la decisione è autenticamente e totalmente ciò che essa può essere solo come decisione anticipatrice”75 e
cioè come la decisione che nasce nella “situazione limite”76 dell’anticipazione della fine. Alludendo al duplice significato del termine wiederholen, ripetere, ma anche riprendere, egli definisce la decisione indotta dall’anticipazione della morte Wieder-holung77, un riprendersi
71. eeT, p. 145; trad. it., p. 184.
72. Ivi, p. 280; trad. it., p. 340.
73. Cfr. TreiBer [2000].
74. eeT, p. 297; trad. it., p. 359.
75. Ivi, p. 308; trad. it., p. 373.
76. Ibidem.
77. Come vedremo qui Heidegger sta pensando a nietzsche e propone una versione esistenzialista dell’eterno ritorno.
181
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dalla perdizione del Si che avviene attraverso un tornare indietro ripetente. Tale decisione rappresenta una ripresa radicale, in cui l’esserci
“assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità”78. in quanto deciso, l’esserci non si rifà a
norme e regole codificate da altri e pedissequamente accettate, non si
comporta più in modo abitudinario e routinario, ma assumendo su di sé
l’essere la propria nullità, come l’individuo etico kierkegaardiano, diviene trasparente a se stesso.
Questo significa che “la decisione anticipatrice non è affatto un
espediente per aver ragione della morte, ma è una comprensione che, facendo seguito alla chiamata della coscienza, offre alla morte la possibilità di farsi padrona dell’esistenza dell’esserci e di sottrarre decisamente quest’ultima a ogni nascondimento ed evasione”79.
il richiamo a i Cor, 20-27 passa difficilmente sotto silenzio quando Heidegger sottolinea che l’apertura autentica ottenuta mediante la
decisione “modifica cooriginariamente la scoperta del ‘mondo’ in essa
fondato e l’apertura del con-esserci con gli altri”80. egli poi specifica
che “ciò non significa che il ‘mondo’ utilizzabile debba mutare quanto
al suo ‘contenuto’ e che la cerchia degli altri subisca alterazioni, ma
semplicemente che l’utilizzabile comprendente e prendente cura e il
con-essere avente cura degli altri vengono determinati dal più proprio
poter essere”81.
Con ciò, come Heidegger ha già constatato commentando la prima
Lettera ai Corinzi, la decisione, così come l’anticipazione della parousía, “non scioglie l’esserci nel suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto”82, “non implica cioè un atteggiamento di distacco e di
fuga dal mondo”83, anzi porta il se-stesso ad essere presso l’utilizzabile, spingendolo nel con-essere avente cura degli altri e “porta l’esserci,
affrancato da ogni illusione, nella decisione dell’‘agire’”84.
78. eeT, p. 306; trad.it., p. 370.
79. Ivi, p. 309; trad. it., p. 374.
80. Ivi, p. 296; trad. it., p. 361.
81. Ibidem.
82. Ibidem.
83. Ivi, p. 309; trad. it., p. 374.
84. Ibidem. Cfr. a questo proposito kierkegaard: “Chi ha scelto se stesso diviene
eo ipso attivo” (Aut-Aut, p. 94); non dimentica le cose del mondo. Vedi anche Aut-Aut,
p. 103.
182
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È il rivolgimento interno all’esistenza a donare nuovo senso alla
relazione al mondo; nei termini utilizzati nell’interpretazione di Paolo:
Tutto rimane come prima, tuttavia il rapporto al mondo circostante, al
mondo del sé e al mondo degli altri acquista il suo senso in base al nuovo orizzonte di compimento, determinato dalla conversione. Anche
kierkegaard sottolinea come “siccome l’etica giace nel più profondo
dell’anima, non è sempre manifesta, e chi vive eticamente può fare le
stesse identiche cose di chi vive esteticamente, tanto che per molto tempo ci si può ingannare; ma alla fine giunge il momento in cui appare che
chi vive eticamente ha un confine che l’altro non conosce”85.
Sgombrando il campo da qualsiasi dubbio circa l’esistenza di un
criterio per determinare l’autenticità della decisione Heidegger afferma
che la risposta alla domanda sul che-cosa e sul verso-che cosa della decisione “può essere data solo dal decidersi stesso”86: “si cadrebbe in una
completa incomprensione del fenomeno della decisione se lo si intendesse semplicemente come l’assunzione passiva di possibilità offerte e
raccomandate”87. Al contrario “il decidersi è, in primo luogo, l’aprente
progettamento e la chiara determinazione delle possibilità di volta in volta effettive. la decisione è sicura di se stessa solo in quanto decidersi”88.
A questa “indeterminazione esistentiva”, questa indifferenza rispetto al contenuto della decisione, corrisponde una “determinatezza
esistenziale”89 che ha luogo nell’essere chiamato dalla coscienza all’interno di una situazione. “la chiamata della coscienza, – infatti – risvegliando al poter-essere, non prospetta un vuoto ideale esistenziale, ma
chiama dentro la situazione”90, progettandosi “in possibilità determinate ed effettive”91. in quanto deciso in una situazione, l’esserci quindi,
lungi dal sottrarsi alla realtà, “scopre per la prima volta il possibile effettivo in modo tale da afferrarlo così come esso, in quanto poter-essere
più proprio, è possibile nel Si”92.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
Aut-Aut, p. 124.
Ivi, p. 296; trad. it., p. 361.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 296; trad. it., p. 361.
Ivi, p. 300; trad. it., p. 363.
Ivi, p. 299; trad. it., p. 362.
Ibidem. il corsivo è mio
183
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la descrizione di tali singole possibilità esistentive, così come anche la semplice individuazione di un’indicazione positiva data dalla coscienza, esula completamente dall’indagine heideggeriana dell’esistenza, rivolta solo ad identificare “il poter-essere autentico che l’esserci attesta da se-stesso e per se-stesso nella coscienza”93. “il problema del poter-essere-un-tutto-effettivo da parte dell’esserci è un problema effettivo-esistentivo” che, secondo Heidegger, l’esserci può risolvere solo “in
quanto deciso”94. il solo rilevare la mancanza di tale positività, pertanto, equivale ad un cercare “possibilità dell’agire, via via disponibili e
computabili” che ha come conseguenza il subordinare “l’esistere dell’esserci all’idea di una condotta d’affari regolabile”95. il compito della
coscienza invece non è quello di fornire “ingiunzioni pratiche di alcun
genere, unicamente perché essa desta l’esserci all’esistenza, al suo poter-essere-se-stesso più proprio”. Fornendo l’ulteriore e definitiva conferma del rifiuto di ogni riferimento normativo dell’agire, Heidegger afferma:
Se fornisse le massime attese su cui fondare la possibilità dei calcoli precisi, la
coscienza sottrarrebbe all’esistenza niente meno che la possibilità d’agire96.
Al contrario:
Udire autenticamente la chiamata significa portarsi nell’agire effettivo97.
l’autenticità della decisione deriva solo dall’anticipazione della
morte. Heidegger afferma: “la certezza costante può essere garantita alla decisione solo se questa si rapporta ad una possibilità di cui essa possa essere assolutamente certa. nella sua morte l’esserci deve riprendersi
radicalmente, quando sia costantemente certa di ciò, quando cioè sia anticipante, la decisione raggiunge la sua certezza autentica e totale”98. in
quanto deciso, l’esserci raggiunge “la verità originaria dell’esistenza”99.
93.
94.
95.
96.
97.
98.
99.
Ivi, p. 300; trad. it., p. 364.
Ivi, p. 299; trad. it., p. 373.
Ivi, p. 294; trad. it., p. 356.
Ibidem.
Ivi, p. 294; trad. it., p. 357.
Ivi, p. 308; trad. it., p. 372.
Ivi, p. 307; trad. it., p. 371.
184
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Anche dopo la decisione però l’esserci è caratterizzato dalla tendenza alla deiezione e quindi è “cooriginariamente nella non verità”100.
Anche in quanto deciso, infatti l’esserci si trova a dover determinare di
volta in volta, in ogni singola decisione, l’indeterminatezza del proprio
essere. Quanto più è deciso, però, e cioè quanto più ha fatto esperienza
della fine, tanto più esso riuscirà ad evitare “la perdizione costante nell’indecisione nel Si”101.
la fine rappresenta l’orizzonte rispetto a cui misurare l’autenticità
della decisione. Quanto più anticipa la fine in modo autentico, tanto più
l’esserci è capace di determinare nella singola decisione l’indeterminatezza del proprio esserci senza deviazioni deiettive. in quanto deciso,
l’esserci può “divenire la ‘coscienza’ degli altri”102, creando la condizione di “lasciar ‘essere’ gli altri che ci con-sono nel loro poter-essere
più proprio”103. in questo modo “dall’essere Se-stesso autentico nella
decisione”104 “scaturisce l’essere-assieme autentico” e “non dall’equivoco o geloso accordo o dall’affratellamento ciarliero nel Si e nelle sue
imprese”105.
il legame con la teologia cristiana emerge con ulteriore chiarezza
quando Heidegger afferma che, nell’assumere su di sé e solo su di sé la
responsabilità dell’agire, l’esserci prova, come il cristiano dinnanzi a
dio106, una “calma angoscia, che pone di fonte al poter essere isolato”,
e una “gioia imperturbabile che questa possibilità porta con sé”107.
5.
Virtù o conversione? Convergenza di modelli
Con la tematizzazione della decisione anticipatrice, in quanto essere un tutto autentico, Heidegger raggiunge allo stesso tempo il punto
più alto della comprensione della totalità delle strutture dell’esserci e
quello della determinazione della sua autenticità. non a caso quindi
100.
101.
102.
103.
104.
105.
106.
107.
Ivi, p. 308; trad. it., p. 372.
Ibidem.
Ivi, p. 299; trad. it., p. 361.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Cfr. HGA 60, p. 95; trad. it., p. 135.
Si veda a tale proposito HAnSelMAnn [1953].
185
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egli, arrivato a questo punto, prima di procedere alla determinazione
della temporalità come “fondamento originario dell’esistenzialità dell’esserci”108, preparando in questo modo l’ultimo passo verso la comprensione della struttura temporale dell’essere in quanto tale, sente l’esigenza di fare il punto della situazione, soffermandosi su alcune considerazioni metodologiche che danno il senso e l’orizzonte complessivo
dell’opera e forniscono non poche conferme alla nostra iniziale ipotesi.
Per questo motivo, prima di lasciare nuovamente la parola ad Heidegger, è giunto anche per noi il momento di tirare le somme del percorso interpretativo fin qui proposto.
All’inizio del nostro cammino abbiamo visto come Heidegger abbia
inteso comprendere l’articolazione interna dell’esserci e la sua struttura,
seguendo prima il filo conduttore dell’analisi della quotidianità e poi servendosi metodologicamente del fenomeno dell’angoscia. Questa opzione
metodologica voleva lasciare intendere che la contrapposizione fra dimensione autentica e inautentica interna all’esistenza deriva dall’autocomprensione dell’esserci stesso. A questo punto della nostra ricostruzione però è possibile vedere come quella distinzione/contrapposizione fra
esistenza autentica e inautentica, introdotta a livello meramente formale
da Heidegger all’inizio del suo percorso, riesca sempre meno, in corso
d’opera, a nascondere la sua radice teologica.
Heidegger è partito dall’affermazione che l’esserci ha in sé la possibilità di perdersi o di appropriarsi di se stesso, perché è sempre il mio
esserci, identificando la condizione di possibilità dell’autenticità e dell’inautenticità nell’“essere-sempre-mio” dell’esistenza. È la comprensione a rivelare all’esserci “come stanno le cose a proposito dell’essere
che gli è proprio”109. essa infatti “può attuarsi innanzi tutto come apertura del mondo; cioè l’esserci può, innanzi tutto e per lo più, comprendere se stesso a partire dal proprio mondo”; in questo caso la comprensione è inautentica e l’esserci si comprende e si programma, di conseguenza, in modo inautentico. Al contrario, “la comprensione può anche
progettarsi primariamente nell’in-vista-di-cui, cioè l’esserci può esistere
come se stesso”110; in questo caso la comprensione è autentica e l’esserci si comprende e si progetta a partire da essa in modo autentico.
108. eeT, p. 233; trad. it., p. 287.
109. Ivi, p. 144; trad. it., p. 184.
110. Ivi, p. 146; trad. it., p. 186.
186
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Seguendo Agostino, Heidegger ha descritto l’inautenticità come
una tendenza a “trasformare l’incertezza in comodità” che si concretizza
nel lasciar determinare dagli altri la conoscenza di sé e il proprio comportamento. ne deriva un atteggiamento abitudinario, basato sull’applicazione di regole e convenzioni, una sorta di téchne aristotelica, finalizzata al raggiungimento di un risultato mediante ripetizione e routine.
Questa modalità d’esistenza, come vedremo, ha alla sua base una comprensione del tempo come successione di istanti sempre identici e infiniti. in alternativa a tale atteggiamento, la dimensione autentica si caratterizza come un assumere su di sé la responsabilità di se stessi e dell’azione (come nullo fondamento di una nullità), in un costante riprendersi
dall’eterodeterminazione del Si, attraverso una sempre nuova e diversa
ripetizione della decisione nella situazione che di volta in volta si presenta. il presupposto di tale modalità di esistenza è – si vedrà di qui a poco – la temporalità estatica finita che ha il suo primato nel futuro.
A dispetto dell’affermata cooriginarietà formale di autenticità e
inautenticità, Heidegger ha individuato però nella costituzione dell’esserci in quanto cura, una tendenza alla deiezione e, di fatto, nota che “innanzi tutto l’esserci è il Si e per lo più rimane tale”111. Pertanto “il fenomeno della deiezione non ci fa conoscere una specie di faccia notturna dell’esserci”, al contrario esso, “in quanto struttura ontologica essenziale dell’esserci stesso”, “ne costituisce tanto poco l’aspetto notturno, da riempire, nella quotidianità, tutti i suoi giorni”112.
Poiché immedesimandosi con il Si-stesso, l’esserci si lascia prescrivere non solo l’interpretazione immediata del mondo e dell’esserenel-mondo, per cui “io non sono io stesso nel senso del me-stesso che
mi è proprio, ma sono gli altri nella maniera del Si” ma anche l’interpretazione ontologica, in base alla quale il mondo è compreso come un
ente intramondano, l’essere-nel-mondo nel modo della quotidianità
“fallisce e nasconde se stesso”113, si perde, per dirla con kierkegaard114.
Questo fallimento è evidente nel modo in cui esso progetta la propria esistenza.
111. Ivi, p. 128; trad. it., p. 166. Cfr. Anche nB, trad. it., p. 21: “nella motilità del
curare è vitale un’inclinazione verso il mondo in quanto propensione a disperdersi e a lasciarsi prendere da esso”.
112. eeT, p. 179; trad. it., p. 225.
113. Ivi, p. 129; trad. it., p. 167.
114. Cfr.: r, p. 13.
187
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il comprendente autoprogettamento dell’esserci, in quanto effettivo, è già sempre presso un mondo scoperto. È a partire da questo mondo che l’esserci si istalla nelle sue possibilità e, innanzi tutto, in conformità allo stato interpretativo del
Si. Questo stato interpretativo ha anticipatamente ristretto le possibilità offerte
alla scelta nell’ambito del noto, del raggiungibile, del conveniente, del sopportabile e del decente. Questo velamento delle possibilità dell’esserci in conformità a ciò che, quotidianamente, e innanzitutto disponibile, porta con sé un velamento del possibile come tale. la quotidianità media del prendersi cura non
vede la possibilità e si adagia nella tranquillità del semplice reale. Questa tranquillità non esclude l’irrequietezza del prendersi cura; al contrario la eccita115.
in tale condizione, non si vuole veramente: ciò che si vuole non è
costituito da possibilità nuove e positive; al contrario si modifica tatticamente ciò che è disponibile, in modo da suscitare l’illusione che succeda veramente qualcosa. Questo volere tranquillo e soddisfatto non
rappresenta una dissoluzione dell’essere per il proprio poter-essere, ma
è solo una sua modificazione che si presenta sottoforma di desiderio.
“nel desiderio, l’esserci progetta il suo essere in possibilità che non solo non sono mai afferrate nel prendersi cura, ma la cui realizzazione non
è mai né seriamente progettata, né seriamente attesa”116. in questo modo si ha una incomprensione delle possibilità effettive, nel mondo dei
desideri ci si abbandona a ciò che è disponibile, ma in modo tale che esso è sempre insufficiente in confronto con il desiderato. l’esserci è solo un vagheggiamento di possibilità che chiude le possibilità e rivela
l’inclinazione dell’esserci a lasciarsi vivere nel mondo in cui già sempre è. il sottomettersi a tale inclinazione implica “una modificazione
dell’intera struttura della cura”: “Accecato, l’esserci subordina all’inclinazione tutte le sue possibilità”117. Per uscire da tale situazione non è
sufficiente però contrapporre al lasciarsi vivere dagli altri “un impulso
alla vita”: esso nella sua precipitosità implica la riduzione di ogni altra
possibilità. Heidegger pertanto conclude che, così come “l’inclinazione
a lasciarsi ‘vivere’ nel mondo non deve essere estirpata”118, “l’impulso
‘alla vita’ non deve essere distrutto”119, in quanto “l’uno e l’altra, in
quanto e solo in quanto si fondano ontologicamente nella cura, debbo-
115.
116.
117.
118.
119.
eeT, p. 194; trad. it., p. 243.
Ivi, p. 195; trad. it., p. 244.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
188
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no essere modificati, in sede ontologico-esistentiva, dalla cura autentica”120.
Ciò è possibile perchè il se-stesso “non consiste in uno stato eccezionale del soggetto separato dal Si, ma è una modificazione esistentiva del Si in quanto esistenziale essenziale”121. il Se-stesso è nella forma
del Si-stesso quando non afferra “l’‘in-vista-di-cui’ autentico”122, e cioè
quando si rapporta alle sue possibilità “non deliberatamente”, ovverosia senza decidere. Al contrario, il Se-stesso non è altro che il Si-stesso,
ma in quanto autentico cioè “posseduto in modo appropriato”123.
ora, secondo Heidegger, in quanto innanzitutto e per lo più disperso nel Si, l’esserci “deve prima di tutto ritrovare Se-stesso”124. Questo ritrovarsi e portarsi indietro rispetto ad una situazione di perdizione
avviene “sotto forma di rimozione dei velamenti e degli oscuramenti e
come chiarificazione delle contraffazioni con cui l’esserci si rende prigioniero di se stesso”125. Tale portare indietro è messo in atto dalla coscienza che, come la phrónesis126, non è altro che una continua lotta
contro la tendenza al nascondimento di sé dell’esistenza.
Come Heidegger ha appreso dallo studio congiunto di lutero e di
Aristotele, è la situazione emotiva dell’angoscia, innescata dall’esperienza anticipante la propria fine, a portare l’esserci dinnanzi alla possibilità della decisione circa la propria modalità di esistenza:
Gettato nel suo ‘Ci’, l’esserci è già sempre assegnato effettivamente a un determinato (cioè al suo) ‘mondo’. nel contempo i progetti effettivi immediati sono
rimessi al Si in conseguenza della perdizione del dominio del prendersi cura. la
perdizione – però – può essere investita dal richiamo dell’esserci sempre-diqualcuno e il richiamo può essere compreso nel modo della decisione127.
120. Ivi, p. 196; trad. it., p. 245.
121. Ivi, p. 130; trad. it., p. 167.
122. Ivi, p. 193; trad. it., p. 241.
123. Ivi, trad. it., p. 166. Anche kierkegaard sottolinea come l’individuo autentico
non nasca da una rottura, ma da una “trasfigurazione” di quello estetico (Aut-Aut, p. 90).
124. eeT, p. 129; trad. it., p. 166.
125. Ibidem.
126. HGA 19, p. 56. Heidegger definisce qui la phrónesis una sorta di “coscienza
messa in movimento”.
127. eeT, p. 297; trad. it., p. 360.
189
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Con la decisione avviene una ripresa “radicale”128 dell’esserci, un
ritornare indietro rispetto alla propria perdizione che si concretizza nella disponibilità alla “ripetizione di Se-stesso”129 e cioè nel “mantenersi
libero per la propria ripresa possibile e sempre necessaria in linea di fatto”130. Attraverso tale ripresa l’esserci raggiunge “la trasparenza autentica”131 di se stesso, la quale determina anche “il suo essere-presso-ilmondo e il suo essere con-gli altri, quali momenti costitutivi della sua
esistenza”132.
Con Paolo133, Heidegger sa che la decisione, indotta dall’anticipazione della morte, implica, come l’anticipazione della paroúsia, un rivolgimento totale, in quanto “richiede non solo un particolare comportamento dell’esserci, ma anche che esso sia nella piena autenticità della
propria esistenza”134. egli però sa anche che il rivolgimento, pensato sul
modello della conversione, non avviene una volta per tutte, ma deve essere continuamente rinnovato come l’annuncio della Parola, il quale è
costantemente vitale nel compimento della vita del cristiano. Pur se raggiunge la verità esistenziale, anche in quanto deciso, l’esserci è “co-originariamente nella non verità”135 e per quanto tanto più deciso, tanto
meno esso rischia di “ricadere nell’indecisione”136, “la decisione, trasparente a se stessa, comprende che l’indeterminazione del poter-essere si determina sempre e solo nel decidersi per una situazione concreta”137. la decisione è ripresa e ripetizione: nel determinare tale totale rivolgimento Heidegger integra il modello della conversione, realizzata
attraverso un salto esistenziale, con quello della virtù, ottenuta attraverso “la giusta ripetizione”138. rispondendo però alle critiche mosse da
128. Ivi, p. 307; trad. it., p. 372.
129. Ibidem.
130. Ibidem.
131. Ivi, p. 299; trad. it., p. 362.
132. Ivi, p. 146; trad. it., p. 187.
133. Heidegger infatti ha appreso da Paolo, che “la domanda sul ‘quando’ si riferisce al mio comportamento. il modo in cui la paroúsia sta nella mia vita, si riferisce invece al compimento della vita stessa” (HGA 60, p. 104; trad. it., p. 145).
134. eeT, p. 265; trad. it., p. 322 (trad. lievemente modificata).
135. Ivi, p. 308; trad. it., p. 372.
136. Ibidem.
137. Ibidem.
138. HGA 18, p. 190.
190
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lutero ad Aristotele, egli presenta tale ripetizione come un agire in ogni
attimo a partire dalla decisione corrispondente, tendente ad afferrare
l’attimo come un tutto139 senza alcun riferimento normativo.
Come Heidegger apprende da Paolo, questa apertura autentica in
cui l’esserci è portato dalla decisione, modifica cooriginariamente la
scoperta del mondo in essa fondato e l’apertura del con-esserci con gli
altri, senza però modificarne il contenuto. la decisione non implica una
fuga dal mondo, “l’esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di
sopra della quotidianità deiettiva”140, così come il non del non-autentico “non significa che l’esserci si separa da se stesso per comprendere
‘soltanto’ il mondo”141, in quanto “[esso] fa parte del suo se-stesso in
quanto essere-nel-mondo”142. Allo stesso tempo, anche e soprattutto come deciso, l’esserci deve relazionarsi al mondo143. l’esistenza autentica e decisa è un “afferramento modificato”144 di quella deietta che si
realizza attraverso una scoperta autentica del mondo e un inserimento
altrettanto autentico in esso. Heidegger afferma:
innanzitutto l’esserci è il Si e per lo più rimane tale. Quando l’esserci scopre
autenticamente il mondo e vi si inserisce, quando apre se stesso a se stesso il
suo essere autentico, esso realizza sempre questa scoperta del ‘mondo’ e questa apertura dell’esserci sotto forma di rimozione dei velamenti e degli oscuramenti e come chiarificazione delle contraffazioni con cui l’esserci si rende
prigioniero di se stesso145.
Ma se l’esserci autentico non fugge dal mondo, inserendosi piuttosto autenticamente in esso e se a questa modificazione cooriginaria del
mondo del sé e degli altri non corrisponde un mutamento del contenuto
dell’azione, come si comprende questo rapporto fra dimensione autentica e inautentica?
Heidegger afferma da un lato che “la comprensione coinvolge
139. Ibidem.
140. eeT, p. 179; trad. it., p. 225.
141. Ivi, p. 146; trad. it., p. 186.
142. Ibidem.
143. nel modello kierkegaardiano da Heidegger tenuto presente, se “le cose del
mondo scompaiono“, “se tutto si ferma“, l’uomo “non ha scelto se stesso, ma come narciso si è innamorato di se stesso” (Aut-Aut, p. 93).
144. eeT, p. 179; trad. it., p. 225.
145. Ivi, p. 129; trad. it., p. 166.
191
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sempre l’apertura totale dell’esserci come essere-nel-mondo” e che “il
risolversi della comprensione per una possibilità è una modificazione
esistenziale del progetto nella sua globalità”146; dall’altro che la tendenza alla deiezione implica “una modificazione dell’intera struttura della
cura” e che “l’esserci subordina all’inclinazione tutte le sue possibilità”147. Allo stesso tempo però egli afferma che “il risolversi della comprensione per una di queste possibilità fondamentali non implica l’eliminazione dell’altra”148. Per quanto ciascuna dimensione sembri essere
totalizzante, essere posti dinnanzi ad un aut-aut non significa scegliere
una dimensione abbandonando l’altra secondo il modello dell’assiologizzazione gerarchica, propria della teologia della gloria. Per quanto ancora impregnata di una terminologia metafisica, per la determinazione
di questo rapporto può essere utile la descrizione che kierkegaard fa
della relazione che sussiste fra individuo etico ed individuo estetico:
“dunque con la scelta assoluta è posta l’etica; ma non ne consegue affatto che l’estetica sia esclusa. nell’etica la personalità è centralizzata
in se stessa; l’estetica è quindi esclusa in modo assoluto, ma rimane
sempre come il relativo. Quando la personalità sceglie se stessa, sceglie
se stessa eticamente ed esclude in modo assoluto l’estetica; ma poiché
sceglie se stessa e nello scegliere se stessa non diventa un altro essere,
quanto se stessa, tutta l’estetica ritorna nella sua relatività”149.
Questo assumere su di se avviene nella decisione – una con-versione totale del proprio modo di essere, continuamente ripetuta nella vita quotidiana – per la quale vale propriamente quell’essere “cooriginariamente nella verità e nella non-verità”150 che per Heidegger, il quale
interpreta e si riappropria di lutero, è costitutivo dell’esserci. la decisione, infatti, in quanto verità autentica dell’esistenza “si appropria autenticamente la non-verità”. È a partire da questa autentica appropriazione che il se-stesso gestisce il suo Si-stesso151. Heidegger infatti sot-
146. Ivi, p. 146; trad. it., p. 186.
147. Ibidem.
148. Ibidem.
149. Aut-Aut, p. 28.
150. eeT, p. 299; trad. it., p. 362.
151. Sul problema del rapporto fra dimensione estetica e etica della vita kierkegaard afferma: “Si deve vivere o esteticamente o eticamente. Qui, come dissi, non si può
ancora parlare, nel senso più stretto, di una scelta; poiché chi vive esteticamente non sceglie e chi, una volta rivelatosi il mondo etico, sceglie il mondo estetico, non vive esteti-
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tolinea che, anche se deciso, “l’esserci è già ora e forse di nuovo, nell’indecisione”152. nonostante “l’indecisione del Si rest[i] dominante,
essa [però] non può oppugnare l’esistenza decisa”153; allo stesso tempo
“anche il decidersi resta rinviato sempre al Si e al suo mondo”154. Questo significa che, da un lato, la decisione, come la conversione, non avviene una volta per tutte, ma va rinnovata di giorno in giorno155, contrastando la tendenza alla perdizione; dall’altro che anche l’esserci non
è mai o solo deciso o solo indeciso, ma che siamo di fronte ad una luterana coappartenenza di giusto e peccatore.
Per spiegare concettualmente questa coappartenenza di verità e
non verità dell’esistenza e soprattutto la loro contemporaneità, Heidegger ricorre in un trattato che precede di pochi anni la pubblicazione di
Essere e Tempo e di cui più avanti ci occuperemo in maniera più approfondita, al concetto hegeliano della Aufhebung:
l’autentico essere dell’esserci è ciò che è solo in quanto esso è l’inautentico
autentico, ovverosia si ‘supera’ [hebt auf] in se stesso. esso non è un qualcosa
che debba e possa sussistere per se accanto all’inautentico; infatti il come acquisito nella risolutezza dell’anticipare è autentico solo e soltanto in quanto determinatezza di un agire da afferrare nell’adesso del tempo dell’essere-assieme. Colui che è risoluto però ha il suo tempo e non ricade nel tempo a cui si
deve orientare in quanto colui che si prende cura delle cose del mondo156.
Questo non significa che la dimensione inautentica di esistenza
scompare nella dimensione autentica o diviene pura illusione. Anzi, nell’inautentico autentico:
l’essere temporale che attende, tipico del prendersi cura, non solo non scompare nella misura in cui è autentico – [Heidegger sente qui il bisogno di sottoli-
camente, poiché pecca e soggiace alle determinazioni etiche, anche se la sua vita deve essere determinata come non etica” (Aut-Aut, pp. 16-17). Più avanti: “la disperazione non
è rottura, ma una trasfigurazione” (Aut-Aut, p. 90) in cui “la vita estetica rimane all’uomo, ma subordinata a qualcosa di più alto, e in questa subordinazione viene conservata”
(Ibidem).
152. eeT, p. 299; trad. it., p. 362.
153. Ibidem.
154. Ibidem.
155. Anche kierkegaard ritiene che “la scelta originaria è sempre presente in ogni
scelta seguente” (Aut-Aut, p. 78).
156. HGA 64, p. 81.
193
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neare che il termine non va inteso in senso ‘moralizzante’, ma ‘esistenziale’!];
ma addirittura esso non può essere distinto mondanamente e pubblicamente
dall’essere temporale solo deietto. e questo tanto meno, quanto più l’essere
temporale si comprende in modo autentico nella risolutezza157.
Secondo quanto Heidegger afferma in Essere e Tempo, “il decidersi non si sottrae alla ‘realtà’, ma scopre per la prima volta il possibile effettivo in modo tale da afferrarlo così come esso, in quanto poter-essere
più proprio, è possibile nel Si”158 e ciò è possibile in quanto, come abbiamo visto, “la chiamata della coscienza, risvegliando al poter-essere,
non prospetta un vuoto ideale esistenziale, ma chiama dentro la situazione”159. in questo modo diviene evidente anche come la coscienza sia
“quel modo di essere, rientrante nel fondamento dell’esserci, in virtù del
quale l’esserci rende possibile a se stesso la sua esistenza effettiva, attestando il poter-essere più proprio”160 e richiamando alla realizzazione
di esso di volta in volta nella situazione.
Per sottolineare l’impossibilità di determinare la differenza fra la
modalità inautentica e autentica di vita relativamente ad un contenuto,
a un criterio o a una norma di riferimento, Heidegger accenna, nel trattato sopra citato, ad un passo del libro del Siracide (20,7), secondo il
quale “l’uomo saggio sta zitto fino al momento opportuno, lo stolto non
sa attendere il tempo giusto” . Poi osserva che “la risolutezza non parla
di sé e non si annuncia pubblicamente attraverso programmi”161 – egli
ben sa che tale programmazione è propria di una dimensione deietta di
vita – ma che “il suo modo di comunicare è l’agire esemplare silenzioso con gli altri e per sé”162.
detto nei termini di Essere e Tempo, l’esserci che ha deciso può diventare la “coscienza” degli altri e, divenuto autentico attraverso l’anticipazione, può anticipare gli altri “non già per sottrarre loro la ‘cura’,
ma per inserirli autenticamente in essa”163.
risulta a questo punto evidente che Heidegger, pur distinguendo
nettamente la dimensione autentica dell’esistenza da quella inautentica,
157.
158.
159.
160.
161.
162.
163.
Ivi, p. 82.
Ibidem.
Ivi, p. 212; trad. it., p. 263.
Ibidem.
HGA 64, p. 82.
Ibidem.
eeT, p. 122; trad. it., p. 158.
194
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non individua un criterio certo per definire l’autenticità. Tale criterio infatti non può essere dato all’esserci onticamente, né può essere fabbricato ontologicamente, ma può essere attestato solo dall’esserci stesso164
il quale è l’unica misura dell’autenticità della sua decisione.
Heidegger ritiene che alla verità originaria, che l’esserci raggiunge nella decisione, corrisponde una certezza originaria che consiste nell’essere saldo e risoluto in ciò che la verità apre165. e poiché la decisione si inserisce e apre di volta in volta in una situazione, senza mai fare
riferimento ad un’ideale, la sua certezza consiste nel non irrigidirsi in
tale situazione, mantenendosi di volta in volta “libero e aperto per la
possibilità singola ed effettiva”166.
l’esserci è presentato come un essere in cammino in tensione fra
una dimensione autentica e una inautentica dell’esistere, fra un lasciarsi vivere e determinare dagli altri e un decidere in proprio dell’esistenza. Heidegger pensa il rapporto fra queste due dimensioni attraverso il
modello congiunto della conversione e della genesi della virtù. la rimozione dei velamenti avviene come una sorta di conversione, un mutamento repentino e totale di atteggiamento che tuttavia, come Heidegger apprende ancora da Paolo, va continuamente, rinnovata e ripetuta.
la decisione infatti rappresenta una modificazione esistenziale che, per
quanto totale, non è mai raggiunta una volta per tutte. essa non è un habitus, in quanto non è una rappresentazione cognitiva di una situazione,
ma si è già insediata in essa. l’esistenza risoluta inoltre è sempre esposta al pericolo di ricaduta nell’inautentico. Per questo la lotta contro la
tendenza al nascondimento di sé, al mistificamento dell’originaria apertura, va effettuato nella ripetizione della singola decisione nella situazione che di volta in volta si presenta. l’esserci deve inserirsi adeguatamente nel mondo: sul piano effettivo, però, al rivolgimento totale non
corrisponde un atteggiamento esteriore individuabile. l’agire autentico
– più precisamente, l’inautentico autentico a cui perviene la decisione –
che ha assunto su di sé la propria inautenticità, non si distingue di fatto
dall’agire di un esserci solo inautentico. la misura della sua autenticità
è data dall’esserci stesso, dalla sua coscienza. riprendendo ciò che Hei-
164. Ivi, p. 234; trad. it., p. 286.
165. Cfr. Aut-Aut, p. 15: “non importa tanto lo scegliere giusto, quanto l’energia,
la serietà, ed il páthos con il quale si sceglie”.
166. Ivi, p. 308; trad. it., p. 372.
195
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degger aveva notato relativamente al percorso di vita descritto da Agostino nel X libro delle Confessioni e marcando la differenza da kierkegaard, possiamo dire di essere di fronte al genuino, radicale, assoluto,
cioè sciolto da ogni legalità, concreto e storico essere-il-singolo che ha
spezzato ogni ponte verso l’ideale e l’universale.
Ben si comprende perché Heidegger, dopo aver insistito ripetutamente sulla formalità del suo concetto di esistenza e dopo aver messo in
guardia da ogni interpretazione in senso etico delle sue categorie, raggiunto il punto più alto della tematizzazione dell’esserci, senta la necessità di riflettere nuovamente sulle radici della propria concezione
dell’esistenza. egli si chiede:
Ci sarà forse una particolare concezione ontica dell’esistenza autentica, un
ideale concreto dell’esserci alla base dell’interpretazione ontologica dell’esistenza autentica?167.
Come abbiamo già visto nell’introduzione di questo lavoro, egli è
partito da una definizione formale dell’esserci. Tuttavia, dopo avere realizzato l’intero percorso finalizzato all’individuazione dei fondamentali esistenziali, Heidegger si trova a constatare che il fatto che ci sia un
ideale concreto alla base della definizione dell’esistenza “non deve né
essere negato, né ammesso a denti stretti, ma deve essere compreso ed
elaborato nella sua necessità positiva a partire dall’oggetto tematico della ricerca stessa”168.
Con una serie incalzante di domande e risposte retoriche egli infatti constata:
dove troveremo ciò che costituisce l’esistenza ‘autentica’ dell’esserci? Senza
una comprensione esistentiva ogni analisi dell’esistenzialità resta priva di base. l’interpretazione che abbiamo dato dell’autenticità e della totalità dell’esserci non ha forse alla base una comprensione ontica dell’esistenza, che pur essendo possibile, non è obbligatoria per tutti? l’interpretazione esistenziale non
deve mai assumersi il compito di formulare giudizi autoritari su possibilità e
obblighi esistentivi. Tuttavia non dovrà forse giustificarsi quanto alle possibilità esistentive su cui basa onticamente l’interpretazione ontologica? […]. dove mai l’interpretazione potrà trovare il proprio filo conduttore se non in un’i-
167. Ivi, p. 310; trad. it., p. 375.
168. Ibidem.
196
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dea dell’esistenza in generale ‘presupposta’ come tale? i passi successivamente compiuti dall’analisi della quotidianità inautentica, da che mai saranno stati regolati se non da un concetto di esistenza presupposta? e quando diciamo
che l’esserci è ‘deiettivo’ e che l’autenticità del suo poter-essere deve essere
strappata a questo ente contro la tendenza del suo essere, da quale punto di vista avanziamo un’affermazione di questo genere? Tutto non è già illuminato,
benché indistintamente dall’idea di esistenza che abbiamo presupposta?169.
e una conferma del fatto che, nonostante i tentativi di formalizzazione, la determinazione dell’esserci come Cura rimanga imbrigliata in
un orizzonte teologico, è data dalla modalità con cui Heidegger ne tematizza la temporalità come suo senso.
6.
La temporalità originaria
la prima trattazione sintetica della temporalità come senso della
cura è esposta in effetti da Heidegger in una conferenza sul Concetto di
tempo tenuta nel 1924 presso la facoltà di teologia di Marburgo. Qui
Heidegger marca subito la differenza: la teologia comprende il tempo a
partire dall’eternità e quindi in relazione a dio, sua intenzione, invece,
è quella di comprendere il tempo a partire dal tempo170. A tale scopo egli
assume l’orizzonte della finitudine dell’esistenza dato dalla morte come
estrema possibilità dell’esserci. l’attenzione si sposta dal precorrimento della parousia all’anticipazione della propria fine. Ma se si prescinde da questo spostamento di asse, dall’eterno alla finitudine dell’esistenza umana, è possibile trovare numerose analogie strutturali fra il
modello temporale che emerge dalle lettere paoline e la comprensione
heideggeriana della temporalità dell’esistenza.
Queste analogie emergono con maggiore evidenza se si tiene presente anche il trattato sul concetto di tempo, concepito nel 1924 come recensione dello scambio epistolare fra dilthey e il conte york, contemporaneamente alla conferenza omonima. Qui Heidegger individua due atteggiamenti possibili che l’esserci può assumere rispetto alla propria fi-
169. Ivi, p. 313; trad. it., p. 378. Sul significato che tali riflessioni rivestono per l’etica cfr.: SoMMer [2005 b].
170. Sulla concezione heideggeriana del tempo Cfr. Heinz [1982]. FleiSCHer
[1991].
197
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ne. Un atteggiamento inautentico, caratterizzato da indifferenza rispetto
alla possibilità della propria morte, in cui si è certi che prima o poi si morirà, ma si è tranquilli perché il quando della propria fine è indeterminato. in questo tipo di atteggiamento “‘si’ distoglie il pensiero dalla morte.
e ciò avviene in una misura tale che nell’essere-assieme gli altri danno
ad intendere a coloro che stanno morendo che presto andrà meglio. l’interpretazione mondana media pensa in questo modo di consolare gli altri”171. Un’espressione tipica di questo modo di relazionarsi alla fine è il
considerare “il ‘pensiero della morte’ come angoscia codarda, oscura fuga dal mondo”172. Al contrario “lo sfuggire dinnanzi alla possibilità della morte che incombe con certezza viene interpretato come un afferrare
la vita, come sicurezza di se stesso”173. rimuovendo la possibilità concreta della morte, invece, si vive in modo abitudinario, secondo una routine consolidata174, determinata da ciò che ci tiene impegnati ed è oggetto della nostra preoccupazione, delegando, in questo modo, agli altri la
scelta circa la propria esistenza. Potremmo dire con Paolo che coloro che
assumono tale atteggiamento inautentico verranno sorpresi dall’arrivo
della morte come le doglie sorprendono le partorienti.
A tale modalità d’esistenza, Heidegger contrappone l’anticipazione, come possibilità di relazionarsi in modo autentico alla propria estrema possibilità. Tale modo di interpretare la propria fine è autentico “se
invece della fuga dinnanzi alla morte, scopre quest’ultima come possibilità, ovverosia come la propria e certa possibilità e se questa certezza
viene compresa nella sua indeterminatezza”175. l’indeterminatezza della fine però non indebolisce la sua certezza. la morte è indeterminata e
certa in ogni attimo. Anticipando l’estrema possibilità come certa, per
quanto indeterminata, l’esserci si trova di fronte alla possibilità del
“non-più-dell’essere-al-mondo”, ovverosia del “possibile ‘non-essercipiù’”176. dinnanzi a tale possibilità “il mondo non può più dare all’esserci il proprio essere a partire da se stesso”177. Con “il ritirarsi del mon-
171.
172.
173.
174.
175.
176.
177.
HGA 64, p. 50.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 54.
Ivi, p. 52. il corsivo è mio.
Ivi, p. 52.
Ibidem.
198
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do”178 scompare anche la pubblicità che rappresenta un punto fermo per
l’esserci e con essa la struttura significativa del mondo in generale. Come Heidegger afferma nella conferenza sul concetto di tempo:
Siffatto ‘non più’, che come tale io anticipo, in questo mio anticiparlo fa una
scoperta: è il non più di me stesso. in quanto è tale non più, esso scopre il mio
esserci come d’un tratto non più qui; d’un tratto non sono più qui, in queste e
quest’altre cose, con queste e questa’altre persone, in queste vanità, in questi
pretesti, in questa verbosità. il non più scaccia ogni brigare e ogni affaccendarsi, trascina tutto con sé nel nulla179.
Trovandosi dinnanzi al nulla, l’esserci è rimandato a se stesso. “il
‘non più’ riporta l’esserci, in quanto di volta in volta proprio, indietro rispetto al suo essere perduto nella medietà pubblica del ‘Si’”180. di conseguenza “non ‘Si’ può più essere il ‘Si’, non si possono più ingaggiare
gli altri e farli scegliere al proprio posto. Si sbriciola la possibilità di nascondimento del ‘Si’. Viene interrotto il cammino verso la fuga nella
mancanza di responsabilità del ‘nessuno’”181. nell’estrema possibilità
“l’esserci viene ‘riportato [überantwortet]’ a se stesso, ovverosia diviene evidente come l’essere che deve essere a partire da se stesso, se vuole essere autenticamente ciò che è”182. in sintesi: l’anticipazione porta
dinnanzi alla scelta fra l’autenticità e l’inautenticità dell’esserci, apre
l’orizzonte della scelta e ciò che in essa deve essere scelto, “l’esserci
nella sua più propria possibilità: o di essere esso stesso nel come dell’afferrata responsabilità per sé, oppure di essere nel modo del farsi vivere da ciò che è di volta in volta motivo di preoccupazione”183.
Prima che Heidegger attui la formalizzazione dell’idea di esistenza, in Essere e Tempo sembra essere qui più chiaro che l’autenticità si
costituisce nell’autodeterminazione in cui si assume la propria gettatezza. Questo significa che l’esserci, a partire dalla propria gettatezza, è
posto di fronte ad una scelta morale fra l’assunzione della responsabi-
178. Ibidem.
179. M. HeideGGer, Der Begriff der Zeit (Vortrag 1924), trad. it. a cura di F. Volpi, Il concetto di tempo, Milano, Adelphi, 1998, p. 39. la conferenza è pubblicata in HGA
64, pp. 105-125.
180. HGA 64, p. 53.
181. Ibidem.
182. Ibidem.
183. Ivi, p. 54.
199
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lità per se stesso e per le proprie azioni e il lasciarsi vivere e determinare dagli altri.
Posto di fonte alla fine, “l’esserci può scegliere l’essere nel come
del voler-essere-responsabile-per-se-stesso”. il che-cosa della singola
scelta verrà di volta in volta “determinato a partire da questo come scelto”184. Quella modalità che Heidegger già qui chiama il “voler-aver-coscienza”185 rappresenta “il come per antonomasia”, l’orizzonte a partire
dal quale scegliere ogni singolo che-cosa. Solo in quanto il prendersi
cura deietto è anche un modo dell’esserci, esso può essere indicato come “il come decandente”. Anche il non assumersi la responsabilità di sé
e il non prendere decisioni rappresentano infatti una modalità dell’esserci e non nulla. Solo che “ogni rimandare una decisione è, in senso ontologico, un lasciarsi andare nell’essere-deietto”186; mentre “al contrario l’anticipare l’estrema possibilità non è morire, ma vivere. in questo
e non nel morire consiste la difficoltà dell’esserci”187. Tuttavia Heidegger sottolinea come nella vita non ci sia “un come in generale” da assumere nella scelta188 e delucida il rapporto fra la modalità quotidiana di
vita e l’esserci nel come della scelta di se stesso come segue:
in quanto l’anticipare che va al non più tiene fermo quest’ultimo nel ‘come’
dell’essere di volta in volta, l’esserci stesso diventa visibile nel suo ‘come’.
l’anticipare che va al non più è il correre incontro alla propria possibilità estrema da parte dell’esserci; e nella misura in cui tale ‘correre incontro’ è serio, in
questo correre l’esserci viene rigettato nel suo esserci-ancora. È il ritornare
dell’esserci alla sua quotidianità che c’è ancora e precisamente in modo che il
non più, in quanto ‘come’ autentico, scopre anche la quotidianità del suo ‘come’, la riprende – nel suo affaccendarsi e industriarsi – nel ‘come’. ogni ‘checosa’, ogni preoccupazione e programmazione vengono riportati nel ‘come’189.
È possibile scorgere un implicito accenno critico alla teologia della gloria, quando Heidegger nota:
184.
185.
186.
187.
188.
189.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 56.
Ibidem.
Ivi, pp. 54-55.
Ivi, p. 117; trad. it., p. 39.
200
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Questo non più in quanto ‘come’ porta l’esserci, senza indulgenza, alla sua unica possibilità di essere se stesso, lo rimette completamente a se stesso. Questo
non più può spaesare l’esserci nel bel mezzo della gloria della sua quotidianità190.
Ancora con Paolo, Heidegger sottolinea che l’anticipare in cui
l’esserci viene riportato indietro dall’essere deietto nel mondo non può
essere compreso come “oscura fuga dal mondo”191. la fuga dal mondo
non porta l’esserci nell’autenticità e originarietà del suo essere, ma si
preoccupa semplicemente di aprire le porte di “un mondo migliore”. Assumendo la responsabilità di se stesso e risoluto a decidere, l’esserci, accoglie l’invito al vegliare ed essere sobrio e si mantiene in “un sobria
angoscia”192, la quale è un sopportare l’inquietudine del proprio essere
come possibilità.
A questo punto può essere utile fare riferimento ad una riflessione
su kant che Heidegger quasi ab abrupto193 inserisce nel suo discorso,
individuando nel come il principio di ogni etica: “Forse non è un caso
che kant abbia definito il principio fondamentale della sua etica in modo tale che esso meriti di essere detto formale. Sapeva forse, per una familiarità con l’esserci stesso, che esso è il ‘come’”194.
nello stesso contesto, evidenziando ancora una volta, la sua distanza rispetto a qualsivoglia indicazione concreta di comportamento,
egli prende le distanze da quanti provano ad offrire ricette per la condotta di vita, affermando – e qui sembra di leggere Weber! – che “é rimasta invece una prerogativa dei profeti di oggi organizzare l’esserci in
maniera da occultare il ‘come’”195.
e in effetti anche kant introducendo l’idea di legge196 si è allonta-
190. Ibidem.
191. Ivi, p. 57.
192. Ibidem.
194 in realtà Heidegger sta preparando la “svolta” verso kant, che può essere “localizzata” nella lezione del semestre invernale del 1925/26 dal titolo Logik. Die Frage
nach der Wahrheit, (HGA 21). Cfr. a questo proposito l’articolo di VolPi [2006]. Su Heidegger e kant cfr. anche: PereGo [2001]; MASCHieTTi [2005]; P. reBernik [2006].
194. HGA 64, p. 117; trad. it., p. 39.
195. Ibidem.
196. HGA 18, p. 95.
201
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nato dal come per eccellenza. Secondo “la determinazione kantiana dell’uomo” “l’essenza razionale esiste come fine in sé”197, l’esserci è worumwillen, è in vista di se stesso. l’esserci in quanto come è “contemporaneamente la condizione ontologica della possibilità dell’imperativo categorico”198. Per kant pertanto “il modo per antonomasia dell’esserci”199 è la legge, che egli peraltro, intenderebbe, secondo Heidegger,
attraverso l’estensione dell’idea di legge della natura alla legislazione
umana, “in senso quasi aristotelico”200.
Come sappiamo Heidegger rifiuta sistematicamente il riferimento
a qualsiasi elemento normativo che regoli la condotta di vita. Questa
prospettiva trova ulteriormente conferma quando egli nell’ambito del
trattato qui preso in considerazione individua esplicitamente la forma
più appropriata di “responsabilità”201 nel “farsi storico”202, ovverosia
nell’“assumere la propria provenienza a partire e in direzione del futuro”203. il massimo di formalità diviene qui il massimo di concretezza e
il punto più alto di distanza dalla teoria kantiana.
Partendo dalla contrapposizione del come per antonomasia al come quotidiano, l’obiettivo di Heidegger è quello di dimostrare che l’esserci stesso che anticipa o manca la propria morte non presuppone il
tempo, ma è il tempo.
egli infatti ritiene che “l’essere-innanzi si svela come essere-futuro”204 e questo significa che “l’esserci nell’anticipare è futuro”205. Questo futuro però non va compreso come un qualcosa che viene incontro
mondanamente: “l’afferrare che anticipa la morte certa non è un attendere un avvenimento futuro”206. nell’attesa ci si relaziona a qualcosa di
futuro come ad un qualcosa di non ancora presente. l’anticipazione non
rende presente qualcosa che non lo è, né, invertendo di segno questo atteggiamento, allontana ciò che non deve divenire presente, perché si ha
197.
198.
199.
200.
201.
202.
203.
204.
205.
206.
Ibidem.
Ivi, p. 96.
HGA 18, p. 96.
HGA 64, p. 141; trad. it., p. 56.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
HGA 64, p. 142; trad. it., p. 57.
Ibidem.
Ibidem.
202
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paura di esso. “l’anticipare fa essere futuro proprio ciò che è. Lontano
dal presente si mantiene nell’esser-innanzi come il puro divenire presso se stesso dell’esserci. il mantenere custodente tale essere possibile
dell’esserci è l’essere-futuro”207. l’anticipare non è né un attendere, né
un generico avvenire, “un futuro sospeso in aria”208, ma “‘è’ il futuro
dell’essere che è se stesso”209.
nel futuro inteso come anticipazione è implicito l’intero fenomeno del tempo: “l’esserci che nel suo essere è la sua estrema possibilità
e questo significa, che è futuro, è in quanto questo essere il proprio essere-passato e il proprio essere-presente”210. il non-più dinnanzi a cui
mi pone l’anticipazione è il non-più dell’esserci già stato e ancora essente. il futuro e il passato non rappresentano però il non-ancora e il
non-più di qualcosa di presente.
l’anticipazione rende visibile il tempo autentico dell’esserci inteso come un essere in cammino che decide di volta in volta circa la propria esistenza.
Heidegger afferma a tale proposito:
il non più è il non più certo adesso e in ogni attimo. nell’essere-passato così
scoperto è implicito: l’esserci si trovava già in ogni istante nella possibilità di
anticiparsi nella sua estrema possibilità, esso si trovava ogni istante nella possibilità di scegliere fra ‘coscienzioso’ e ‘privo di coscienza’211.
e poiché l’esserci è caratterizzato dalla deiezione, in esso è implicita “la tendenza a lasciarsi determinare nell’agire primariamente a partire dal mondo e attraverso il mondo. in questo aprirsi nel mondo può
dimenticarsi di sé, ovverosia diventare senza coscienza [gewissen-los],
ma anche senza certezza”212.
la risolutezza però smaschera questo esserci nel non aver scelto in
modo autentico e nel suo lasciarsi scegliere dal mondo circostante. l’essente-stato dell’esserci così scoperto non può essere oggetto di conoscenza storica, “la risolutezza lascia divenire l’esserci colpevole a parti-
207.
208.
209.
210.
211.
212.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 137; trad. it., p. 59.
Ibidem.
Ibidem.
203
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re da se stesso nel suo non aver scelto. nel divenire colpevole e nel rimanerlo l’esserci anticipante è il suo passato. Questo essere passato, che
la risolutezza (l’aver-scelto) è in quanto essere futuro, però si precipita
nell’afferrare conforme all’attimo in quanto agire nel come. A partire
dall’essere possibile autentico ed estremo l’esserci diviene scoperto e reso trasparente attraverso il suo essere passato nella Jeweiligkeit dell’attimo afferrato”213. in questo modo l’esserci è divenuto trasparente come
temporalità. da ciò deriva che “l’esserci, compreso nella sua estrema
possibilità d’essere, è il tempo stesso, non è nel tempo. l’essere futuro
così caratterizzato è, in quanto come autentico dell’essere temporale, il
modo d’essere dell’esserci nel quale e in base al quale esso si dà il suo
tempo. […] l’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e
consente di ripetere il passato nel ‘come’ del suo essere stato vissuto”214.
il senso autentico del tempo invece viene meno se prova ad inchiodare l’indeterminatezza della fine chiedendo “quando” o “quanto
ancora”, nel tentativo di quantificare e misurare il tempo. “Questo domandare non coglie il carattere indeterminato della certezza del non più
per quello che esso è: indeterminato e, in quanto indeterminato, certo”215. esso rappresenta una fuga dinnanzi all’autentico non più. “domandare sulla quantità del tempo significa lasciarsi completamente assorbire dal prendersi cura di un ‘che cosa’ presente. l’esserci fugge dinnanzi al ‘come’ e si attacca al ‘che cosa’ di volta in volta presente”216.
Come coloro che attendono la parousía chiedendosi “quando”,
l’esserci inautentico “si interroga sulla morte, chiedendo ‘quando arriverà?’. il fatto che il quando sia indeterminabile non modifica in nulla
il modo del domandare e il tipo di risposta, con la quale l’esserci persosi nel mondo si cura di consolarsi: ‘c’è ancora tempo’. la domanda presentificante circa il quando non più rimane imbrigliata proprio nel ‘non
ancora passato’ e calcola quanto ci sia ancora da vivere”217. Calcolando
e attenendosi al tempo, l’esserci non è mai nella sua dimensione autentica. Come abbiamo già anticipato, Heidegger descrive il rapporto fra
tempo autentico e il tempo inautentico nei termini di una Aufhebung.
213.
214.
215.
216.
217.
Ivi, p. 138; trad. it., p. 60.
Ivi, p. 118; trad. it., p. 40.
Ivi, p. 119; trad. it., p. 41.
Ivi, p. 120; trad. it., p. 42.
Ivi, p. 149; trad. it., p. 81.
204
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egli riproduce questa medesima dinamica anche in Essere e Tempo. Qui il tempo viene inteso come ciò che rende possibile l’essere-untutto-autentico dell’esserci nell’unità delle sue strutture. Solo in quanto
determinato dalla temporalità, infatti, l’esserci è possibile come l’autentico poter-essere-un-tutto nella decisione anticipatrice.
Heidegger chiarifica la struttura interna del tempo scomponendo il
fenomeno della decisione anticipatrice. essa è stata definita come “l’essere-per il poter-essere più proprio e caratteristico”218 in quanto permette all’esserci di pervenire a se stesso nella sua possibilità più propria, mantenendo aperta, in questo lasciarsi pervenire, la possibilità in
quanto possibilità. l’articolazione di questo movimento dell’anticipare
che riporta l’esserci essente-stato nel presente della situazione, rappresenta per Heidegger il tempo. egli infatti individua nel “lasciarsi pervenire a se stesso nel mantenimento della possibilità”219 il fenomeno originario dell’ad-venire [Zu-kunft], esplicando tale fenomeno a partire
dalla scomposizione del termine Zu-kunft [futuro]. Zu, come abbiamo
visto, è la preposizione del moto a luogo, Kunft è un segmento temporale, un avvento. Pertanto il futuro è l’ad-venire, il proiettarsi innanzi ritornando indietro, secondo il tipico movimento verso un télos. Heidegger specifica: “Avvenire non significa […] un ‘ora’ che non è ancora divenuto ‘attuale’ e che lo diventerà, ma l’avvento [Kunft] cui l’esserci
perviene a se stesso, in base al suo poter-essere-più-proprio”220. Questa
proiezione innanzi, propria dell’anticipazione, riporta l’esserci al proprio “essere come gettato fondamento di una nullità”221, ovverosia al
proprio “essere autenticamente come già sempre era”222. l’anticipazione della possibilità estrema e più propria è un ritornare sul più proprio
essere stato. Pertanto “l’esserci può autenticamente essere-stato solo in
quanto è ad-veniente. il passato scaturisce in un certo modo dall’avvenire”223. Anticipando la propria fine insomma l’esserci ritorna al proprio
essere-stato, presentificandosi in una situazione. Stigmatizzando il rapporto fra le tre dimensioni del tempo, Heidegger afferma: “Ad-venien-
218.
219.
220.
221.
222.
223.
eeT, p. 325; trad. it., p. 391.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
205
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te rivenendo su se stessa, la decisione, presentando, si porta nella situazione. l’esser-stato scaturisce dall’avvenire in modo che l’avvenire che
è stato (o meglio essente-stato) lascia scaturire il presente da sé”224 e definisce “questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante […] temporalità”225.
la temporalità così definita esprime il senso della Cura. nell’“esser-già-avanti-a-sé (in un mondo) come esser-presso (l’ente che si incontra nel mondo)”226, il momento dell’avanti a sé si fonda nell’ad-venire, il momento dell’esser-già nell’essere-stato e l’esser-presso è reso
possibile dalla presentazione. Avvenire, esser-stato e presente non possono essere compresi nel senso tradizionale di futuro, passato e presente, come un non-più-ora-ma-poi-dopo, un non più ora, ma prima si o
semplicemente come un ora, ma rappresentano le estasi in cui la temporalità si temporalizza, essendo l’originario fuori di sé in sé e per sé.
Tale temporalizzazione non significa affatto una “successione” delle
estasi, in quanto “l’avvenire non è posteriore all’essere-stato e questo
non è anteriore al presente”227, ma “la temporalità si temporalizza come
avvenire essente-stato e presentante”228.
il primato dell’avvenire, da cui scaturiscono essente-stato e presente, e il carattere estatico dell’avvenire-essente-stato sono le caratteristiche proprie della temporalità come finitudine. Con ciò egli non intende che l’esserci abbia una fine, raggiunta la quale cessi di essere, ma
che esso, anticipando la propria fine, esiste finitamente.
dopo avere individuato nella temporalità il senso della cura, partendo dall’analisi della struttura della decisione anticipatrice, Heidegger, che si prepara al confronto con Hegel per compiere l’ultimo passo
verso la mai realizzata deduzione della struttura temporale dell’essere
dall’analisi dell’esserci, si concentra su una sistematizzazione del fenomeno della temporalità, evidenziando le diverse accentuazioni e focalizzazioni delle estasi temporali nei principali esistenziali.
la sua intenzione è quella di “esibire la costituzione temporale integrale della Cura”229. le singole costituzioni temporali di questi feno-
224.
225.
226.
227.
228.
229.
Ivi, p. 326; trad. it., p. 392.
Ibidem.
Ivi, p. 327; trad. it., p. 393.
Ivi, p. 350; trad. it., p. 420.
Ibidem.
Ivi, p. 335; trad. it., p. 403.
206
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meni infatti riconducono sempre all’unica temporalità che garantisce la
loro unità strutturale.
Attraverso questo tentativo di comprensione sistematica delle diverse modalità di temporalizzazione della temporalità verrà in luce ancora più chiaramente la sua derivazione paolina.
6.1 La temporalità della comprensione
Heidegger parte dall’analisi della temporalità della comprensione.
Pur essendo un’unità estatica, ogni momento strutturale della Cura si
temporalizza a partire dal primato di un’estasi temporale. nello specifico, la comprensione, “in quanto esistere nel modo di un poter-essere comunque gettato, è primariamente ad-veniente”230. essa, cioè, si temporalizza a partire dall’avvenire. la temporalizzazione dell’avvenire ha
varie modalità che corrispondo alla modalità autentica o inautentica di
autocomprensione dell’esserci. “il termine che denota il futuro formalmente indifferente, è quello proprio del primo momento strutturale della Cura, l’avanti-a-sé”231. l’esserci è, effettivamente, costantemente davanti a sé, ma non sempre in una modalità autentica.
Heidegger designa l’essere avanti-a-sé autentico con il termine anticipazione. il futuro autentico infatti non deve essere compreso a partire dal presente, ma a partire dall’avvenire inautentico. l’essere-avantia-sé esiste in maniera autentica quando anticipa la propria fine, ritornando a se stesso come poter-essere autentico. Pertanto l’avvenire autentico può rivelarsi solo nella decisione.
All’avvenire come anticipazione corrispondono due specifiche
modalità autentiche dell’essente-stato e del presente. “All’anticipare,
proprio della decisione, corrisponde un presente in conformità al quale
il decidersi apre la situazione. nella decisione, il presente non solo è
sottratto alla dispersione nel mondo della cura più prossima, ma è mantenuto nell’avvenire e nell’essere-stato”232. Heidegger individua il presente autentico e mantenuto nella temporalità autentica nell’attimo, definendolo come “l’estaticità dell’esserci, decisa e mantenuta nella deci-
230. Ivi, p. 337; trad. it., p. 405.
231. Ivi, p. 336; trad. it., p. 404.
232. Ivi, p. 338; trad. it., p. 406.
207
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sione” e con ciò “aperta a ciò che nella decisione si incontra”233. Tale fenomeno va nettamente distinto dall’istante, in cui qualcosa sorge, passa
o è semplicemente presente. “Formalmente ogni presente è presentante,
ma non ogni presente è ‘attimo’. Quest’ultimo si temporalizza a partire
dal futuro autentico”234. “nell’‘attimo’ nulla può accadere; ma in quanto presente autentico, esso rende per la prima volta possibile l’incontro
con ciò che può essere ‘in un certo’ tempo come utilizzabile o come
semplice presenza”235.
All’anticipazione e all’attimo corrisponde una particolare modalità
di temporalizzazione del passato. “il pervenire a se stesso autentico, proprio della decisione anticipatrice è contemporaneamente un rivenire nel
se-stesso più proprio e gettato nell’isolamento”. nell’anticipazione della fine, l’esserci deciso assume l’ente che esso già è, riportandosi indietro dalla sua perdizione nel Si. da ciò deriva che l’essere-stato autentico
è tale ripetizione/ripresa del proprio se stesso. Pertanto, giocando con il
duplice significato del termine Wieder-holen, ripetere, ma anche tirare ripetutamente indietro, Heidegger definisce la temporalità autentica della
comprensione come l’anticipante riprendere e ripetere nell’attimo.
Anche la comprensione inautentica si temporalizza nella sua temporalità in un’unità estatica ben definita che Heidegger descrive a partire dall’avanti-a-sé inautentico che non è l’anticipazione, ma l’attesa.
egli perviene a tale definizione attraverso la seguente analisi.
l’esserci si comprende in generale a partire da ciò di cui si prende
cura. nel caso della comprensione inautentica, esso “si progetta sull’oggetto di cura possibile, su ciò che è fattibile, urgente o indispensabile negli affari quotidiani”236, aspettandosi da esso il suo poter-essere.
da ciò deriva che l’avvenire inautentico ha il carattere dell’aspettarsi.
A tale carattere corrisponde un determinato modo estatico dell’essere
presente e dell’essere passato. il modo estatico dell’essere presente che
corrisponde all’aspettarsi è la “presentazione”237, espressione con cui si
intende “il presente inautentico, privo di attimità e indeciso”238. il cor-
233.
234.
235.
236.
237.
238.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 338; trad. it., p. 406.
Ibidem.
208
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relativo essere-stato che corrisponde all’aspettazione presentante è l’oblio. “l’inautentico autoprogettamento nelle possibilità, desunte da ciò
di cui ci si prende cura attraverso la presentazione attualizzante, è possibile solo se l’esserci ha obliato il suo poter-essere più proprio e gettato”239. Pertanto la temporalità della comprensione inautentica è “l’aspettarsi obliante-presentante”240.
6.2 La temporalità della situazione emotiva
Mentre la comprensione si fonda primariamente nell’avvenire, la
situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’essere-stato. il
carattere esistenziale fondamentale della tonalità emotiva infatti consiste nel “portare indietro verso”241: essa rivela sempre all’analisi esistenziale un modo dell’essere-stato.
il carattere temporale della situazione emotiva viene chiarificato a
partire dalle due situazioni emotive principali già precedentemente prese in considerazione: la paura e l’angoscia. “la paura è un aver paura
innanzi a qualcosa di pericoloso che, minacciando il proter-essere effettivo dell’esserci, si avvicina, […] nella prossimità dell’utilizzabile e
della semplice-presenza di cui si prende cura”242.
Ad una considerazione superficiale sembra non allontanarsi dal vero la convinzione che la paura è l’attesa di un male futuro, così come generalmente si crede. Heidegger però sottolinea come l’aspettarsi proprio
della paura lascia venire indietro ciò che è minaccioso e come tale tornare indietro sia possibile solo se ciò verso cui esso torna è già estaticamente aperto. da ciò deriva che “il senso temporale-esistenziale della
paura è costituito dall’obliarsi, cioè dallo sconvolto essere-fuori di sé
fuggendo davanti a quel poter-essere effettivo in cui consiste l’esserenel-mondo minacciato che si prende cura dell’utilizzabile”243. lo sconvolgimento della paura nasce dall’oblio di sé e del proprio poter-essere
autentico. “il prendersi cura sconvolto dalla paura salta da una cosa più
vicina all’altra, perché dimentico di sé, non afferra nessuna possibilità
239.
240.
241.
242.
243.
Ivi, p. 339; trad. it., p. 407.
Ibidem.
Ivi, p. 341; trad. it., p. 409.
Ibidem.
Ivi, p. 342; trad.it., p. 410.
209
RUOPPO_ultimo_ITINERA 22/11/11 10:54 Pagina 210
determinata”244. da questo oblio di sé deriva anche la “sconvolta presentazione del ‘quanto più prossimo tanto meglio’”245 e la forma futura
dell’“aspettazione depressa e sconvolta”246. in sintesi: “l’unità estatica
specifica che rende esistenzialmente possibile l’impaurirsi, si temporalizza primariamente a partire dall’oblio che, in quanto modo dell’esserestato, modifica nella sua temporalizzazione il presente e il futuro che gli
sono propri”. Pertanto “la temporalità della paura è un oblio aspettantesi-presentante”.
la temporalità autentica della situazione emotiva è chiarificata a
partire dalla situazione emotiva fondamentale dell’angoscia. “essa porta l’esserci davanti al suo essere gettato più proprio e svela lo spaesamento dell’essere-nel-mondo immedesimato nella quotidianità”247.
nell’angoscia “la minaccia non viene dall’utilizzabile e dalla semplice
presenza, ma, al contrario, proprio dal fatto che l’utilizzabile e la semplice presenza non ‘dicono’ assolutamente più nulla”248. il mondo è precipitato nell’insignificatività: “l’aspettarsi prendente cura non trova più
nulla da cui possa comprendersi e perciò brancola nel nulla del mondo”249. l’angosciarsi però non ha il carattere dell’attesa, perché ciò davanti a cui esso si angoscia, in quanto è l’esserci stesso, ci è già. “l’insignificatività del mondo, aperta dall’angoscia, svela la nullità di ogni
possibile oggetto di cura, cioè l’impossibilità di progettarsi in un poteressere dell’esistenza che sia primariamente fondato in ciò di cui si prende cura”250. la rivelazione di questa impossibilità equivale all’illuminazione della possibilità di un poter-essere autentico. Heidegger si chiede quale sia il senso temporale di questa rivelazione.
l’angoscia si angoscia per il nudo esserci, per l’essere gettato nello
spaesamento. essa riporta indietro sul puro che del più proprio e isolato
essere-gettato. Questo tornare indietro non ha il carattere dell’oblio divergente e neppure quello del ricordo, né tanto meno l’angoscia è già “la
ripetente/riportante indietro assunzione dell’esistenza in quanto decidersi”251.
244.
245.
246.
247.
248.
249.
250.
251.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 343; trad. it., p. 411.
Ibidem.
Ivi, p. 344; trad. it., p. 412.
Ibidem.
Ibidem.
210
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essa riporta l’esserci indietro al suo proprio essere-gettato come
possibile ripetibile, svelando in questo modo la possibilità di un poter
essere autentico che, riprendendosi in quanto anticipante, torna indietro
verso l’esser-gettato. Heidegger definisce quindi il modo estatico caratteristico dell’essere stato proprio della situazione emotiva dell’angoscia, “il portare-innanzi alla possibilità della ripetizione/ripresa”252. il
presente dell’angoscia, in quanto tonalità emotiva di un decidersi possibile, non è l’attimo, ma il mantenere “l’attimo pronto al balzo!“253. il
tornare indietro rispetto alle possibilità mondane è contemporaneamente un poter essere autentico. nell’angoscia quindi il futuro e il presente
si temporalizzano a partire da un essere-stato originario che ha il senso
del riportare indietro verso la ripetizione/ripresa.
Heidegger sottolinea: “l’angoscia può sorgere autenticamente solo in un esserci deciso. Chi ha deciso non conosce paura, ma afferra
l’angoscia come una tonalità emotiva che non lo paralizza e non lo
sconvolge. l’angoscia lo affranca dalle possibilità ‘nulle’ e lo rende libero per le autentiche”254. Sia la paura che l’angoscia si fondano primariamente nell’essere-stato: “l’angoscia scaturisce dall’avvenire della
decisione, la paura dal presente dispersivo che ha paurosamente paura
della paura, per cadere proprio per questo in essa”255. in conclusione
Heidegger nota:
il semplice lasciarsi vivere, il lasciare che le cose ‘vadano’ come vogliono si
fonda in un obliante abbandono di sé all’essere-gettato. […]. l’indifferenza
che può andare di pari passo con un’affannosa operosità è da tenersi ben distinta dalla imperturbabilità. Questa tonalità emotiva scaturisce dalla decisione che ha il colpo d’occhio dell’attimo sulle situazioni possibili del poter-essere-un-tutto aperto nell’anticiparsi per la morte256.
6.3 Temporalità della deiezione
il senso esistenziale della deiezione è nel presente. Heidegger ricava la specifica temporalità della deiezione dall’analisi del fenomeno
della curiosità.
252.
253.
254.
255.
256.
Ibidem.
Ivi, p. 345; trad. it., p. 413.
Ibidem.
Ivi, p. 346; trad. it., p. 414.
Ivi, p. 345; trad. it., p. 415.
211
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essa è una caratteristica tendenza dell’esserci, in base alla quale
esso si prende cura di poter-vedere e di poter incontrare l’utilizzabile e
la semplice presenza così come appaiono. Tale lasciare incontrare si
fonda nel presente. la curiosità non lascia incontrare qualcosa per conoscerlo, ma solo per dire di averlo visto. da ciò deriva che l’estasi derivante dall’essere innanzi a sé della curiosità in quanto “presentazione
aggrovigliandosi in se stessa”, non è altro che un “aspettarsi inseguente”257, che volge continuamente lo sguardo altrove, da cui deriva quella
incapacità di soffermarsi sulle cose, tipica della curiosità. essa è un modo del presente “diametralmente opposto all’attimo”. Mentre l’attimo,
infatti, porta l’esistenza nella situazione e apre il Ci autentico, nel non
essere mai fermo in quanto curioso, l’esserci è “ovunque e in nessun
luogo”258.
relativamente all’essente-stato, la temporalità della curiosità non
può essere ri-petente/ri-prendente, “lo ‘scaturire fuggendo’ dal presente
presuppone un oblio crescente”259, per il quale l’esserci si estrania dal
suo poter-essere più proprio. la presentazione, offrendo sempre qualcosa di nuovo, non lascia che l’esserci torni indietro a se stesso e alla
sua possibilità autentica, ma lo tranquillizza incessantemente. Tale tranquillizzazione rafforza la tendenza allo scaturire fuggevole. “A produrre la curiosità non è la distesa senza fine di ciò che non si è ancora visto, ma la forma deiettiva della temporalizzazione propria del presente
che scaturisce fuggendo via. Anche se tutto fosse stato visto, la curiosità
troverebbe pur sempre qualcosa di nuovo da vedere”260.
in sintesi:
la comprensione si fonda primariamente nell’avvenire (anticipazione e aspettarsi). la situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’essere-stato
(ripetizione/ripresa o oblio). la deiezione è radicata in modo temporalmente
primario nel presente (presentazione o attimo). Tuttavia la comprensione è
sempre presente ‘essente stato’. Tuttavia la situazione emotiva si temporalizza
come avvenire ‘presentante’. Tuttavia il presente o ‘scaturisce fuggendo via’
257.
258.
259.
260.
Ivi, p. 347; trad. it., p. 417.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 348; trad. it., p. 418.
212
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dall’avvenire essente stato o è mantenuto come tale da questo. la temporalità
si temporalizza come un tutto in ogni estasi, cioè nell’unità estatica della sempre totale temporalizzazione della temporalità si fonda la totalità dell’insieme
strutturale dell’esistenza, effettività e deiezione, cioè l’unità della struttura della cura. la temporalizzazione non significa una successione delle estasi. la
temporalità si temporalizza come avvenire essente stato e presentante261.
la temporalità si temporalizza come avvenire essente-stato presentante. Tale temporalizzazione non significa però una successione
delle estasi. nel modello heideggeirano, “l’avvenire non è posteriore all’essere stato e questo non è anteriore al presente”262. Al contrario, in
ogni estasi temporale si ha la compresenza di tutte le estasi con un’accentuazione che varia a seconda dell’esistenziale preso in considerazione. Così la comprensione autentica si caratterizza temporalmente come
un anticipare ripetente/riprendente nell’attimo, la situazione emotiva
come il portare innanzi alla ripetizione/ripresa anticipante in cui l’attimo si mantiene pronto al balzo. la comprensione inautentica si temporalizza invece come un’attesa obliante presentificantesi e la situazione
emotiva inautentica come un oblio attendente presentificante. la deizione, infine, come presentificazione obliante attendente e, nella forma
della sua negazione/superamento, come attimo ripetente/riprendente
nell’anticipazione.
dopo aver delineato il senso della cura come temporalità originaria, e dopo aver ricostruito l’articolazione temporale dei principali esistenziali, Heidegger continua il suo discorso sul tempo, soffermandosi
sul tempo mondano e intratemporale. il suo obiettivo è quello di dimostrare come quest’ultimo derivi da un livellamento del tempo estatico
originario dovuto all’uso del tempo all’interno di un orizzonte pubblico. in questo contesto egli non considera problematico tale livellamento, ma il fatto che il tempo pubblico dell’orologio venga inteso come
l’unico orizzonte temporale e il fatto che, tradizionalmente, la stessa
concezione filosofica del tempo venga tratta inconsapevolmente da tale livellamento. È ciò che accade nel pensiero di Aristotele il quale, nella sua definizione del tempo come il numerato nel movimento secondo
il prima e il dopo, dà voce alla struttura della databilità e del calcolo che
261. Ivi, p. 350; trad. it., p. 420.
262. Ibidem.
213
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è alla base del tempo dell’orologio. Quella che però viene considerata
una concezione naturale del tempo non viene messa in discussione relativamente alla propria origine. Ciò nonostante anche in Aristotele e
più tardi in Agostino c’è legame fra l’anima e il tempo. Pertanto in conclusione della sua dettagliata analisi del rapporto fra tempo originario e
tempo derivato, tempo estatico e tempo quotidiano, Heidegger sottolinea che “benché l’esperienza ordinaria del tempo, innanzi tutto e per lo
più, conosca solo il ‘tempo mondano’, essa gli conferisce […] un particolare riferimento all’anima e allo spirito”263. Pertanto “l’interpretazione dell’esserci come temporalità non è […] estranea, in linea di principio, all’orizzonte ordinario del tempo”264.
7.
La storicità dell’esserci e la fedeltà al proprio destino
Heidegger conclude e integra la sua riflessione sulla temporalità
con l’analisi della storicità dell’esserci, la quale assume un particolare
valore per il nostro discorso circa la dimensione etico-pratica dell’analitica esistenziale e dei suoi limiti.
l’obiettivo di Heidegger è quello di stabilire il luogo ontologico
del problema della storicità, ovverosia di chiarire che “l’esserci non è
temporale perché sta nella storia, ma che esso esiste storicamente in
quanto è temporale”265. Seguendo un metodo già più volte sperimentato nell’analitica esistenziale, egli fa derivare le caratteristiche fondamentali della costituzione della storicità dell’esserci dalla comprensione ordinaria della storia, non in quanto scienza, quanto piuttosto come
realtà storica. Quest’ultima è intesa, in generale, come passato, come la
totalità dell’ente nel tempo in contrapposizione alla natura o come ciò
che è tramandato. in conformità a tali significati correnti “la storia è lo
specifico storicizzarsi nel tempo dell’esserci esistente che avviene in
modo tale che a valere come storia in senso eminente è quello storicizzarsi che, nell’essere-assieme, è ‘passato’ ma tuttavia ‘tramandato’ e
tuttora efficace”266.
263.
264.
265.
266.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 376; trad. it., p. 452.
Ivi, p. 379; trad. it., p. 455.
214
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Questa definizione troverà conferma nell’analisi della costituzione
fondamentale della storicità che Heidegger deduce dall’approfondimento della struttura dell’esserci come cura e come temporalità. la storicità in senso proprio, infatti, non è altro che “un’elaborazione più concreta della temporalità”267 e, in quanto si radica nella cura, essa può essere o autentica o inautentica268. Heidegger identifica la storicità inautentica con “ciò che è stato analizzato sotto la designazione di quotidianità”269 e ritiene che lo storicizzarsi autentico dell’esserci si costituisca
in quella concretizzazione del tempo autentico che è la decisione anticipatrice. A conferma di ciò egli afferma:
Solo un ente che nel suo essere sia essenzialmente ad-veniente, cosicché, libero per la propria morte, possa, infrangendosi in essa, lasciarsi rigettare sul proprio Ci effettivo; cioè, solo un ente che, in quanto ad-veniente, sia co-originariamente essente-stato, può, tramandando a se stesso la possibilità ereditata,
assumere il proprio essere-gettato ed essere, nell’attimo, per ‘il suo tempo’270.
ovverosia: “soltanto una temporalità autentica, che è nel contempo finita, rende possibile […] una storicità autentica”271 che Heidegger
di qui a poco identificherà con il destino.
nell’analisi della storicità egli, infatti, è particolarmente interessato al modo in cui l’esserci si relaziona al proprio passato, ovvero al proprio essente-stato; come emerge dall’analisi della decisione anticipatrice in quanto ripetizione.
Heidegger infatti ritiene che “nella decisione si costituisce sempre
un tramandamento di eredità”272: “la decisione, in cui l’esserci ritorna
su se stesso, – infatti – apre le singole possibilità effettive di un esistere
autentico a partire dall’eredità che essa, in quanto gettata, assume”273.
ora però egli mette in evidenza come nel “tramandamento di possibilità
ricevute”274 che sempre avviene nella decisione, “queste possibilità non
267.
268.
269.
270.
271.
272.
273.
274.
Ivi, p. 382; trad. it., p. 458.
Ivi, p. 376; trad. it., p. 451.
Ibidem.
Ivi, p. 385; trad. it., p. 461.
Ibidem.
Ivi, p. 384; trad. it., p. 460.
Ibidem.
Ibidem.
215
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veng[ano] sempre colte in quanto ricevute”275. le possibilità effettive
infatti possono essere ripetute in modo routinario e meccanico, oppure
possono essere assunte e ripetute in modo proprio, ovverosia scelte in
quanto tramandate. il tramandamento di eredità che avviene nella decisione è tanto meno casuale, quanto più l’esserci si decide a partire dall’anticipazione della morte, la quale “elimina ogni possibilità casuale e
‘provvisoria’”276. la decisione anticipatrice infatti istalla l’esserci nella
sua finitudine e lo porta dinnanzi al proprio destino. Con questo termine però non è indicata una necessità insuperabile contrapposta alla libertà dell’esserci, quanto piuttosto “l’originario accadere dell’esserci
che ha luogo nella decisione originaria, in cui l’esserci, libero per la sua
morte, si tramanda in una possibilità ereditata eppure scelta”277. Heidegger descrive tale decisione come una ripetizione: “la decisione, ritornante su se stessa e autotramandante, diviene allora la ripetizione di
una possibilità d’esistenza trasferita. La ripetizione è il tramandamento
esplicito, cioè il ritorno alle possibilità dell’esserci essenteci-stato”278.
Tale ritorno non è una restaurazione del passato, né consiste in un semplice collegamento fra passato e presente, ma è “una replica alla possibilità dell’esistenza essenteci stata e allo stesso tempo ‘una revoca’ di
ciò che al momento sta per mutarsi nel ‘passato’”279, in cui l’esserci fa
esperienza da un lato dell’“ultrapotenza della sua libertà finita”, dall’altro dell’“impotenza dell’abbandono a se stesso”280.
Se quindi la ripetizione è “il modo della decisione autotramandantesi mediante cui l’esserci esiste esplicitamente come destino”281, “la
storia non ha il suo centro di gravità né nel passato, né nel presente e nella sua ‘connessione’ col passato, ma nello storicizzarsi autentico dell’esistenza, quale scaturisce dall’avvenire dell’esserci”. È l’anticipazione
del futuro infatti a “rigettare l’esistenza verso il suo essere-gettato effettivo, conferendo così all’essere-stato il suo caratteristico primato in
seno alla storia”282. Pertanto, la storicità autentica, in quanto concretiz-
275.
276.
277.
278.
279.
280.
281.
282.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 386; trad. it., p. 462.
Ibidem.
Ivi, p. 384; trad. it., p. 460.
Ivi, p. 386; trad. it., p. 462.
Ibidem.
216
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zazione della temporalità autentica, è l’accadere dell’esserci a partire
dall’anticipazione della fine, in una ripetizione che assume l’essere-stato effettivo su di sé nell’attimo.
All’interno di tale accadere, per Heidegger, non è importante pertanto stabilire “l’a-che cosa l’esserci di volta in volta si decida”283, ma
individuare correttamente la storicità come l’orizzonte da cui l’esistenza possa ricavare le sue possibilità effettive, ripetendole nella decisione.
Questo non significa che “le possibilità di esistenza effettivamente aperte” possano essere “ricavate dalla morte”, la quale è solo la garante della “totalità e della autenticità della decisione”284, ma che – con nietzsche285 – “il fatto che l’esserci scelga i suoi eroi si fonda essenzialmente nella decisione anticipatrice”. essa, lungi dall’essere un’esperienza
vissuta che dura solo quanto l’atto del decidere, apre “la stabilità esistentiva la quale, in conformità alla sua esistenza, ha già anticipato ogni
attimo possibile da essa scaturente”286 e quindi “rende liberi per la lotta
successiva e per la fedeltà a ciò che è da ripetere”287. in ultima analisi,
la decisione costituisce “la fedeltà dell’esistenza al proprio se-stesso” e
il rispetto di fronte “all’unica autorità che un esistere libero possa riconoscere, cioè di fronte alle possibilità ripetibili dell’esistenza”288.
Partendo dalla struttura relazionale dell’esserci che, in quanto essere-nel-mondo, è sempre immediatamente con-esserci, Heidegger ritiene che nel destinarsi del singolo “trova il suo fondamento anche l’invio, cioè l’accadere dell’esserci nel con-essere con gli altri”289 e approfondisce questa questione come segue:
Ma se l’esserci, caratterizzato dal destino, esiste in quanto essere-nel-mondo
essenzialmente nel con-esserci con gli altri, il suo accadere è un accadere-con
ed è determinato come invio [Geschick]. Con ciò indichiamo l’accadere della
comunità, del popolo. l’invio non si compone di singoli destini, così come il
con-esserci non può essere compreso come il convergere di più soggetti. nel-
283. Ivi, p. 383; trad. it., p. 459.
284. Ibidem.
285. il confronto fra la concezione nietzscheana della storia e quella di Heidegger
è il tema di FiGAl [2000].
286. Ivi, p. 391; trad. it., p. 468.
287. Ivi, p. 386; trad. it., p. 462.
288. Ivi, p. 391; trad. it., p. 468.
289. Ivi, p. 386; trad. it., p. 462.
217
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l’essere assieme in un medesimo mondo e nella decisione per determinate possibilità i destini sono anticipatamente segnati. Solo nella comunicazione e nella lotta, la forza dell’invio si rende libera. il destino che l’esserci ha in comune con la sua ‘generazione’ e nella sua ‘generazione’ esprime lo storicizzarsi
pieno e autentico dell’esserci290.
Fra la comunità che Heidegger, utilizzando il linguaggio politico
del tempo, identifica con il popolo e l’esserci, c’è una sorta di corrispondenza: l’una è l’amplificazione dell’altro, quasi senza soluzione di
continuità291.
Come notò, immediatamente dopo la pubblicazione di Essere e
Tempo, uno dei primi lettori interessati alla dimensione pratica dell’analitica esistenziale Hebert Marcuse:
nella rappresentazione dell’autentica esistenza in quanto storicità, in quanto
apertura per la situazione storica che si presenta di volta in volta, in quanto atteggiamento fondamentale eccellente si compie la domanda heideggeriana sull’essere dell’esserci292.
nella particolare modalità in cui la storicità è tematizzata come determinazione fondamentale dell’esserci, Marcuse intravide non solo “il
punto fondamentale della fenomenologia di Heidegger”293, ma anche
quell’elemento che fa di Essere e Tempo “un punto di svolta nella storia
della filosofia: il punto, in cui la filosofia borghese si dissolve nel suo
interno e libera la strada per una nuova ‘più concreta’ scienza”294 che
egli in questa fase di elaborazione del suo pensiero va formulando co-
290. Ivi, p. 384; trad. it., p. 461.
291. Ben descrivendo questa dimensione collettiva, ma non intersoggettiva, in
L’Essere e il Nulla Sartre afferma: “il rapporto originario dell’altro con la mia coscienza
non è il tu e io, è la sorda esistenza in comune del vogatore con la sua squadra. […]. è sul
fondo comune di questa coesistenza che il brusco apparire del mio essere-per-la-morte mi
separerà improvvisamente in un’assoluta ‘solitudine in comune’ elevando nello stesso
tempo gli altri a questa solitudine” (een, p. 292).
292. MArCUSe [1978]; d’ora in poi: MFA. recentemente è apparsa una traduzione
in inglese degli articoli dedicati dal giovane Marcuse ad Heidegger, con un’interessante
introduzione dei curatori, con il titolo Heideggerian Marxism, a cura W. richard e J Abromeit, Univ. of nebraska Press, 2005.
293. MFA, p. 361.
294. Ivi, p. 358.
218
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me una dialettica ermeneutica. Marcuse identifica tale punto di rottura
nella concezione della libertà come destino e nella modalità con cui
l’esserci afferra tale destino. egli afferma:
in quanto riconosce la gettatezza storica dell’esserci, la sua determinatezza storica, e il suo radicamento nell’‘invio’ della comunità, Heidegger ha portato la
sua ricerca radicale al punto più estremo finora raggiunto dalla filosofia borghese e in generale raggiungibile. egli ha scoperto il modo di comportarsi teoretico dell’uomo come ‘derivato’, in quanto fondato nel ‘prendersi cura’ pratico; ha determinato l’istante della decisione, la risolutezza, in quanto situazione
storica, e la risolutezza stessa come un assumere su se stessi un destino storico;
ha opposto al concetto di libertà borghese e al determinismo borghese l’essere
libero in quanto poter scegliere la necessità, in quanto poter afferrare le possibilità prescritte e ha indicato in questa ‘fedeltà alla propria esistenza’ la storia
come unica autorità. in questo modo la radicalità ha raggiunto la sua fine295.
la filosofia di Heidegger pertanto ha per Marcuse il merito di aver
posto la domanda circa “l’esistenza autentica”296 e la sua possibilità e,
in questo senso, è “vera scienza pratica”297. Tematizzando lo storicizzarsi come l’invio che partendo dall’anticipazione della fine ripete l’essente stato nell’attimo, Heidegger però manca qualsiasi senso critico rispetto all’oggi e tralascia qualsiasi analisi della “costituzione materiale
della storicità”. nata come “una riflessione richiesta dal destino e dalla
situazione minacciosa dell’uomo contemporaneo” e non come “un rinnovato tentativo di risolvere i problemi della filosofia perennis”, l’analitica esistenziale non risponde tuttavia alla domanda su “che cosa [sia]
concretamente l’esistenza autentica e come essa […] sia possibile in generale”298, fornendo delle riposte “vuote per l’esserci in generale, e cioè
senza conoscenza e senza vincolo, caratteri che le sarebbero propri in
quanto domande esistenziali”. inoltre deve essere contraddetto il tentativo di “riportare la risolutezza all’esserci solo, invece di spingere alla
risolutezza dell’azione”299.
Queste riflessioni sulla concezione heideggeriana della storicità e
295.
296.
297.
298.
299.
MFA, p. 363.
Ivi, p. 362.
Ivi, p. 363.
Ibidem.
Ivi, p. 364.
219
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della libertà come punto estremo della filosofia borghese300 sono tanto
più interessanti, se si pensa che lo stesso Marcuse più tardi identificherà,
nello scritto Idee per una teoria critica della società301, proprio nella
comprensione luterana della libertà il punto di partenza della concezione borghese di cui Heidegger rappresenta la crisi.
Marcuse assume come base per la sua analisi lo scritto Libertà di
un uomo cristiano, redatto dal giovane lutero nel 1520 e identifica nella contrapposizione luterana fra libertà interiore e completa sottomissione del cristiano all’ordine mondano la nascita del concetto borghese
di autorità, basato sulla scissione fra persona e funzione. interpretando
lutero, Marcuse sottolinea che “l’uomo rinchiuso nella sua libertà interiore è così libero relativamente alle cose esteriori, da divenire libero da
esse”302. Se l’uomo non ha più bisogno delle opere, allora egli è anche
esonerato da ogni legge e comandamento, ciò che accade nel mondo
esteriore gli è indifferente. la libertà interiore è indipendente e priva di
legami e “viene talmente prima [vor] di ogni azione e prima [vor] di
ogni opera, che essa è già sempre realizzata quando l’uomo inizia ad
agire”303. in questo modo l’uomo libero interiormente è esonerato dalla
responsabilità per l’azione, ma allo stesso tempo “è divenuto libero per
ogni tipo d’azione, in quanto la persona che si basa sulla libertà e sulla
pienezza interiore si può gettare nella prassi esteriore, perché sa che in
essa non gli può accadere nulla”304.
interpretando la contrapposizione fra dimensione interiore e esteriore come contrapposizione fra uomo nuovo e uomo vecchio e trasponendola all’interno della dinamica dell’esistenza, Heidegger attribuisce
all’esserci risoluto molte caratteristiche che secondo lutero sono proprie della libertà interiore del cristiano. l’esserci per Heidegger è libero in quanto risoluto, in quanto anticipando la propria fine assume su di
300. da un punto di vista diverso anche M. Scheler, critica la concezione della libertà e della doppia morale luterana. Si veda a tale proposito: SCHeler [1963]. Una posizione critica rispetto all’interpretazione di Marcuse è esposta in: liedke [1998]. Si veda
anche: BAyer [1992].
301. H. MArCUSe, Ideen zu einer kritischen Theorie der Gesellschaft, Frankfurt
a.M., Suhrkamp, 19786, p. 362. d’ora in poi: ikG.
302. ikG, p. 60.
303. Ivi, p. 61.
304. Ibidem.
220
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sé la propria gettatezza e agisce senza riferimento ad una norma, libero
per ogni tipo di azione. A differenza di lutero, però, Heidegger, non articola la contrapposizione fra uomo interiore ed esteriore nella scissione fra individuo e società, secondo quanto Marcuse intravede in lutero,
ma collocandosi nel punto di maggiore crisi del mondo borghese, porta
la scissione e la separazione all’interno del singolo e all’interno della
comunità che immediatamente gli corrisponde. Quest’ultima, nell’orizzonte di Heidegger, non si contrappone al singolo, ma ne rappresenta, al
contrario, l’amplificazione e l’eco. Sembra di poter rivolgere ad Heidegger quella critica che Marx aveva rivolto al riformatore, dicendo
lutero ha combattuto la schiavitù derivante dalla devozione, perché ha messo
al suo posto la schiavitù derivante dalla convinzione. egli ha interrotto la fede
nell’autorità, perché ha restaurato l’autorità della fede.
in un orizzonte del tutto mondano, ma non per questo meno teologico, Heidegger introietta la critica al sistema dell’autorità Scolastica
basata sulla possibilità di risalire razionalmente a dio e ai suoi comandamenti, per affermare all’interno dell’esistenza risoluta e convinta
l’autorità della decisione e della sua sempre possibile ripetizione nell’orizzonte di fedeltà al proprio autentico se stesso, mancando in questo
modo qualsiasi possibilità di distacco critico del presente305.
305. Un’interessante prospettiva in relazione al potenziale critico del pensiero di
Heidegger e al suo rapporto con lutero è quella esposta in CroWe [2008]. l’autore sottolinea l’importanza dell’influenza di lutero soprattutto relativamente all’assunzione del
metodo della distruzione attraverso il quale Heidegger avrebbe acquisito una misura critica del presente e la capacità di saper vedere possibilità vitali per il futuro. il rapporto fra
Heidegger e lutero è analizzato anche in CroWe [2007].
221
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ConClUSioni
Con le considerazioni intorno alla storicità dell’esserci siamo giunti alla fine della nostra analisi sulle ricadute dell’interpretazione della
concezione di vita greco-cristiana nell’analitica esistenziale. A questo
punto dovrebbe risultare più chiara l’origine della tensione etico-pratica che in essa ravvisarono i suoi primi lettori.
l’intenzione heideggeriana di utilizzare concetti tratti dalla tradizione in una funzione meramente indicativo-formale, infatti, non trova
riscontro in Essere e Tempo e, quanto più Heidegger, nei punti nodali
del suo ragionamento, invita a non interpretare la sua analisi dell’esistenza in senso etico1, tanto più sembra confermare in essa la presenza
di una dimensione valutativa, per quanto programmaticamente non intenzionata.
Tale presenza non può essere ricondotta, a nostro avviso, ad una
semplice incapacità dell’autore di districarsi nel suo compito. Si è infatti
evidenziato come una delle matrici fondamentali dell’esigenza heideggeriana di rinnovamento della filosofia, confluita nell’analitica esistenziale, sia la critica di un ‘sistema assoluto dell’eticità’, basato sul concetto di legalità e su rapporti di validità assoluti, in vista di una filosofia in grado di comprendere l’eticità vivente.
l’ex-studente di teologia, che aveva preso parte attivamente all’antimodernismusstreit, dà voce a questa sua esigenza contrapponendosi innanzitutto alla Scolastica, ovverosia ad un’interpretazione razionalistica del cristianesimo, che sull’analogia fra Creatore e Creatura ba-
1. Cfr. nB, trad. it., p. 29; eeT, p. 167, trad. it., p. 211; p. 175; trad. it., p. 221; p.
176, trad. it., p. 222.
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sa la possibilità di risalire alla conoscenza di dio e, in questo modo, di
orientare razionalmente il proprio comportamento secondo le sue leggi
e i suoi comandamenti2. Compagno di viaggio in questo percorso critico è il lutero che nelle Tesi di Heidelberg – il cui insegnamento Heidegger non aveva mai dimenticato – mette in guardia sull’inadeguatezza
dell’adempimento della legge come via per la salvezza, facendosi portavoce della paradossale logica divina dell’opus proprium in opus alienum. Seguendo l’insegnamento del riformatore, attraverso la mediazione di Paolo e Agostino, da un lato e di Aristotele, dall’altro, Heidegger
porta ad espressione nella sua concezione dell’esistenza “un radicale,
concreto, storico essere-il singolo”, caratterizzato da una dinamica di annullamento e redenzione, pericolo e salvezza, che esclude qualsiasi riferimento al normativo e, in senso più generale, all’universale3.
la critica alla Scolastica e l’assunzione della prospettiva luterana
nella tematizzazione dell’esistenza è pertanto lo specifico modo heideggeriano di dare voce alla generale difficoltà della filosofia dopo Hegel nel conciliare singolarità e universalità. Mentre per kierkegaard,
che pure ha fornito ad Heidegger non pochi stimoli4, l’uomo etico incarna “l’unità dell’universale e del particolare”5 e in un dovere, per
quanto concretamente inteso, obbedisce alla legge morale nella sua universalità, Heidegger abbandona qualsiasi tensione verso l’universale6 e
porta all’estreme conseguenze l’assolutizzazione del singolo. Come in
kierkegaard, l’aut-aut di fronte a cui è posto l’esserci non ha un carattere escludente e come in kierkegaard la vera e autentica scelta è solo
la scelta del se-stesso autentico; la scelta del Si è piuttosto una non-scel-
2. Secondo la ricostruzione di losurdo, Heidegger considera il Cristianesimo così come la democrazia come portatore di universalismo e per questo vi si contrappone in
chiave antimoderna.
3. Secondo losurdo “il risultato della progressiva distruzione del concetto universale dell’uomo” è la catastrofe dell’affermazione del nazismo. Cfr. loSUrdo [1991],
p. 184.
4. Cfr. HGA 63, p. 7.
5. Aut-Aut, p. 132.
6. A questo proposito cfr. l’introduzione all’edizione italiana del Discorso del rettorato: Autoaffermazione dell’Università tedesca, trad. it. a cura di AnGelino [1988]. Qui
Angelino sottolinea come: “l’opzione originaria da cui ha preso le mosse negli anni Venti la rivoluzione filosofica di Heidegger è proprio la netta esclusione dell’eterno dal novero dei problemi filosofici” (Ivi, p. 11). All’oblio dell’eterno può essere ricondotta “l’infausta decisione di Heidegger del 1933” (Ibidem.).
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ta. Come in kierkegaard l’esser deciso è “la condizione esistenziale della possibilità del bene e del male ‘morale’, cioè della moralità in generale e della possibilità delle sue modificazioni particolari”7. A differenza di kierkegaard, però, la chiamata “non dà a conoscere un poter-essere ideale e universale, ma apre piuttosto il poter-essere come il poter essere singolarmente individuato di un esserci singolo”8. l’esserci deciso,
quindi, non è l’individuo etico, l’incarnazione dell’universale, ma continua ripetizione della decisione che assume se stessa come unica misura di autenticità. Anche se la decisione apre il campo della morale e
“comprendendo la chiamata, l’esserci lascia agire in sé il se-stesso più
proprio, a partire dal poter essere che esso ha scelto”9, divenendo in questo modo responsabile, nell’orizzonte di Heidegger non è prevista nessuna imputabilità dell’azione.
in questo modo Heidegger raggiunge il punto di massima distanza
dall’etica kantiana e dalla richiesta universalistica del suo imperativo10.
e se nell’incontro di davos11, messo alle strette dal suo interlocutore,
egli sembra pendere per un momento per la versione conciliativa di
kierkegaard, quando invita a meditare sulla “funzione interna della legge per l’esserci” e sul “modo in cui la legge è costitutiva per lo stesso
esserci e per la personalità”12, in realtà è piuttosto costante in Essere e
Tempo e dintorni la critica a qualsiasi momento normativo, astratto ancor più che concreto.
7. eeT, p. 281, trad. it., p. 347.
8. Ivi, p. 287, trad. it., p. 340.
9. Ibidem.
10. A questo proposito sono molto interessanti alcuni appunti di e. Cassirer rispetto al rapporto fra Sprito e Vita in Heidegger: Cfr. e. CASSirer, Spirito e Vita: Heidegger,
in id., Spirito e vita, a cura di r. racinaro, Salerno edizioni 10/17, 1992, pp. 177-182.
Marcando la differenza con il suo pensiero, Cassirer nota come per Heidegger ogni dedizione all’universale sia una ‘deiezione’ – un toglier via lo sguardo dall’ esserci autentico
– una dedizione alla inautenticità, al ‘Si’” (Ivi, p. 178). Cassirer sembra cogliere anche la
derivazione religiosa del rifiuto dell’universale quando afferma: “la dedizione al mondo
‘universale’ vale anche qui come un semplice distogliere lo sguardo da sé, come una specie di ‘peccato orginario’” (Ibidem). Cassirer nota come nella filosofia di Heidegger non
vi sia nessun “elemento sovra-personale” (Ivi, p. 179).
11. Sullo scontro/incontro fra Heidegger e Cassirer vedi anche: kAeGi-rUdolPH
[2002], Feron [2006] e [2009].
12. davos, p. 223.
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Heidegger sembra apprezzare che per kant “l’essenza razionale
esist[a] come fine in sé”13. egli però ritiene che, attraverso l’introduzione del concetto di legge, il filosofo critico perda di vista tale “come per
eccellenza”; infatti “nella misura in cui viene introdotta questa idea di
legge”, la determinazione dell’essere razionale come fine in sé acquisisce “un nuovo aspetto”: “l’idea della legge è orientata alla legalità della natura, anche se la legge viene compresa qui in modo più ampio. Tuttavia la natura è qui il modo dell’esserci, nel senso della physis di Aristotele. […] la massima non deve divenire legge della natura in quanto legge esplicita, ma deve divenire il modo dell’esserci per ecccellenza”14. Questa medesima posizione verrà difesa anche in un corso di lezioni immediatamente successivo alla pubblicazione di Essere e Tempo,
in cui l’etica kantiana non viene tanto criticata dal punto di vista dell’etica materiale dei valori, in quanto formale, cioè in quanto “manchevole per l’agire pratico morale effettivo, il quale richiede sempre decisioni determinate”15, ma quanto in essa la libertà è una forma particolare di
causalità che riproduce la causalità della natura e quindi, in ultima istanza la concezione aristotelica dell’essere come essere-prodotto.
Tuttavia nell’analitica esistenziale è presente un momento etico:
esso però non trova espressione in un’etica astratta e universale, quanto piuttosto nella contrapposizione fra una dimensione autentica e una
dimensione inautentica dell’esistenza, fra un uomo nuovo e un uomo
vecchio, fra due diversi ethoí.
l’inautentico che affronta e gestisce le difficoltà, le contraddizioni, in una parola, la molestia della vita, in modo meccanico, ripetitivo e
etero-determinato, senza decidere della propria esistenza, ma adem-
13. HGA 18, p. 95. Cfr. Anche HGA 21, pp. 220-222. Qui Heidegger afferma il fatto che a l’esserci ne vada di se stesso è ciò che kant ha in mente quando “con le categorie della tradizione dice: l’uomo fa parte di quelle ‘cose il cui esserci è fine a sé ’; o secondo una sua formulazione: ‘l’esserci esiste come fine a sé’”. Partendo da tali constatazioni, Gethmann sottolinea come “la differenza decisiva [fra kant e Heidegger] consiste
nel fatto che per Heidegger la risolutezza deve essere determinata come ‘il luogo’ sufficiente della moralità”. Questa posizione è per Gethmann problematica non solo relativamente alla fondazione dell’etica kantiana, ma anche rispetto alla stessa analisi esistenziale, in quanto “sarebbe stato possibile arrivare ad una variante esistenzialistica dell’imperativo categorico partendo dai concetti dell’in-vista-di [Worumwillen] e di colpa”. Cfr.
GeTHMAnn [1988], p. 167.
14. HGA 18, p. 96.
15. HGA 30, p. 279. Cfr. Anche HGA 18, p. 96.
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piendo piuttosto a compiti, regole e misure già decise, secondo quanto
Heidegger attribuisce al rituale religioso, al protocollo tecnico o alla
convenzione borghese.
l’autentico che, riprendendosi dalla perdizione, si assume come
compito, diviene trasparente a se stesso, e contrapponendosi a qualsiasi routine, decide di decidere, assumendo su di sé la responsabilità della propria finitezza e destinandosi di volta in volta nell’attimo della decisione, senza il riferimento ad una norma o ad un criterio e come unica personale misura di autenticità.
Heidegger descrive l’esserci in quanto apparentemente posto dinnanzi all’indifferente scelta fra queste due dimensioni dell’esistenza:
quella inautentica che scorre secondo il ritmo del tempo cronologico e
quella autentica che si invia nel presente a partire dall’anticipazione del
futuro e la ripresa del proprio passato nella decisione. Solo quest’ultima
però rappresenta la forma più elevata di esistenza.
da un lato quindi egli pone l’esserci di fronte alla possibilità di una
scelta libera fra le due dimensioni, dall’altro però individua la più alta
forma di esistenza in un destinarsi fedele al proprio se stesso, il quale
esclude la possibilità di divenire altro da sé. la libertà, in senso proprio,
non è libertà di scelta fra possibilità, ma la libera scelta del proprio destino. e anche se qui destino non significa necessità, passiva accettazione del proprio passato, ma sua attiva ripresa, l’esserci non può mai
divenire altro da sé, e la scelta non è mai veramente una libera scelta fra
possibilità, quanto piuttosto una scelta fra il subire il proprio se stessi e
il riprenderlo nella decisione, rendendolo in questo modo libero.
Assumendo su di sé l’essere nullo fondamento di una nullità, l’esserci trasvaluta la cristiana molestia della vita e, in un gesto profondamente umanistico, si assume la responsabilità della propria esistenza, risoluto nell’attimo della decisione, fedele al proprio se stesso e rispettoso dell’unica autorità accettabile per un’esistenza libera: le possibilità
ripetibili dell’esistenza.
Con l’aiuto metodologico della Aufhebung, Heidegger riesce ancora a tenere forzatamente insieme queste due dimensioni contraddittorie, descrivendo il loro rapporto come l’inautentico autentico, la verità
non vera, la paradossale coappartenenza di giusto e peccatore, ponendoci di fronte, in questo modo, ad una sua personale variante dell’epocale contrapposizione fra tipi umani già descritta in Mercanti e Eroi e
che da qui a pochi anni verrà portata alle estreme conseguenze nell’Operaio di Jünger.
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Tenendo conto di tale ambiguità, uno dei primi lettori ad individuare in Essere e Tempo una dimensione etico-pratica, Herbert Marcuse, interpretò il pensiero di Heidegger come il punto più alto raggiunto
dalla filosofia borghese e contemporaneamente come il suo punto di
rottura. riprendendo questa tesi, lukács16, intravide nell’irrazionalismo persistente nel pensiero di Heidegger la cifra di questa crisi, mettendo in stretta correlazione tale irrazionalismo con l’adesione di Heidegger al nazismo17. in una costellazione del tutto diversa anche
löwith mise in relazione l’errore politico di Heidegger alla persistente
mancanza di riferimento ad un universale e al primato della dimensione storica nell’ambito dell’analitica esistenziale18. Pur se Heidegger è
16. Cfr. di MArCo [2008].
17. il rapporto di Heidegger con il nazionalsocialismo è un tema molto controverso. Un’ampia selezione dei testi riguardanti il periodo del rettorato è pubblicato in: HGA
16, pp. 81-364 e in “Heidegger-Jahrbuch”, vol. 4, Freiburg i. Br 2009, pp.13-52. Su questo tema cfr. anche la bibliografia annessa alla fine del libro pp. 241-242.
18. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, löwith, antico allievo di Heidegger,
scrive un breve intervento dal titolo Les implicationes politiques de la philosophie de l’existence chez Heidegger, sulla rivista francese, “les Temps Moderns” (ii, 1946, n.14, pp.
343-360). in seguito al dibattito apertosi sulla rivista, löwith chiarisce la sua posizione prima nella Réponse a M. de Waelhns iV, 1948, n. 34, pp. 370-73 e poi in Der europäische
Nihilismus Betrachtungen zur geistigen Vorgeschichte des europäischen Krieges (1940),
(in Sämtliche Schriften, vol. 2, Stuttgart, Metzler, 1983, pp. 473-540), in particolare nel paragrafo Der politische Horizont von Heideggers Existentialontologie, (Ivi, pp. 514-528) il
quale, sostanzialmente, riprende l’argomentazione esposta in Mein Leben in Deutschland
vor und nach 1933. in sintesi, löwith ritiene che l’errore politico di Heidegger si radica “in
una mancanza del suo pensiero”. l’importanza storica della sua filosofia quindi deve essere messa in relazione con l’assunzione di responsabilità e di complicità politiche conformemente alla tesi centrale del § 74 di Essere e Tempo, secondo la quale l’uomo che ha accettato la morte è “nell’istante per il suo tempo”. löwith considera il pensiero di Heidegger come una forma di storicismo radicale che prescinde da ogni rapporto con la trascendenza. le categorie con cui esso comprende l’esistenza sono vuote e formali e nel 1933 egli
fornisce a tali categorie il contenuto del Führer e della sua politica. löwith apporta a sostegno di questa tesi il discorso che Heidegger tenne quando, nell’aprile del 1933, accettò
l’incarico di rettore dell’Università di Friburgo. Tale discorso è estremamente ambiguo, in
quanto tenta di utilizzare le categorie ontologio-esistenziali per l’istante storico (secondo il
§74 di Essere e Tempo), in modo da suscitare l’idea che le intenzioni filosofiche di Heidegger possano e debbano procedere di pari passo con la situazione politica. Alla ricerca di
ciò che si deve fare e che perciò è necessario nell’istante storico, Heidegger si orienta a
kierkegaard, appropriandosi della sua tematica religiosa attraverso il metodo dell’indicazione formale. nell’insistenza su ciò che si deve fare però permane, secondo löwith, un
pathos religioso che si risolve in una vuota risolutezza e in una “teologia senza dio”. Hei-
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lontano dall’assumere una posizione critica19, non ci sembra però corretto far derivare necessariamente dal suo irrazionalismo o dal suo storicismo l’adesione al nazismo.
Certo, nel pericolo l’uomo Heidegger si decide per il nazionalsocialismo e ne assume il linguaggio20. la sua decisione però non è uni-
degger assume da un punto di vista non religioso il motto luterano: Unus quisque robustus
sit in existentia sua, affermando che “in gioco è il proprio poter essere, oppure la delimitazione esistenziale alla propria fatticità storica”. löwith ritiene pertanto che già l’affermazione contenuta nella lettera del ’21 secondo la quale la fatticità del singolo contiene un iodevo di cui non si parla sia sintomatica della successiva adesione al nazionalsocialismo.
Perché si giunga alla decisione politica del ’33 e alla sovrapposizione delle vuote categorie esistenziali al movimento generale dell’esistenza tedesca manca solo l’allontanamento
dalla singolarizzazione ancora in parte religiosa del proprio esserci verso il proprio esserci tedesco e il suo destino storico.
Questa presa di posizione aprì un dibattito che vede intervenire, nello stesso numero di Les Temps Moderns, per primo Sarte, il direttore della rivista, il quale – alla difesa
dell’esistenzialismo – sostenne la mancanza di un legame intrinseco fra l’intervento politico di Heidegger e il suo pensiero. le prese di posizione si moltiplicano nel numero successivo di Les Temps Moderns, su cui intervennero de Waehls (La philosophie de Heidegger et le nazisme) e Weil (Le cas Heidegger), e ancora una volta löwith a chiarificare la sua posizione. in una sorta di tentativo di discolpare l’esistenzialismo heideggeriano
(piuttosto che Heidegger!), eric Weil sottolineava che si fa un errore stabilendo una connessione di causa ed effetto fra esistenzialismo e nazismo, in quanto in gioco è solo la decisione del singolo. il filosofo trascendentale non può fondare la sua scelta politica filosoficamente e l’esistenzialismo non detiene una regola positiva di condotta. la verità tedesca non può essere dedotta da Essere e Tempo. Pertanto identificando la verità storica
concreta con la volontà del popolo tedesco, Heidegger ha fatto una scelta che era possibile nella sua filosofia, come erano possibili tutte le scelte fra le possibilità politiche date.
l’esistenzialismo heideggeriano non conduce a nessuna decisione concreta, ma solamente alla decisione. in una prospettiva che può essere definita piú sartriana, de Waehlhens
individua la problematicità del pensiero di Heidegger piuttosto che nella mancanza di un
riferimento all’assoluto (il che equivarrebbe a dire che ogni filosofia non credente sfocia
nel nazismo), nella carente eleborazione del fenomeno del Mit-Sein, dal momento che nell’analitica esistenziale manca una descrizione dell’essere in comune autentico e del divenire dialettico dell’esistenza autentica o quotidiana.
19. Cfr. CASSirer [1979], p. 230. Si afferma che l’accentuazione della gettatezza è
indice di un pensiero concentrato sulla decadenza della cultura e non più in grado di aprire una prospettiva etica.
20. Un esempio di tale commistione è dato dal seminario tenuto da Heidegger nel
semestre invernale del 1933/34 i cui protocolli sono stati recentemente pubblicati con il
titolo Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat. Übung aus dem Wintersemester 1933/34, in “Heidegger-Jahrbuch”, 4 (2009), pp. 53-88. Cfr. a tale proposito
l’articolo di Heinz [2009].
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versalizzabile. e nella misura in cui l’unico criterio dell’azione risoluta
è la fedeltà al proprio se stessi e l’unica autorità accettabile è la ripetibilità della decisione, dal decisionismo di Heidegger non deriva né l’adesione al nazismo, né la sua critica21. Mantenendosi sulla linea della
crisi, nel tanto criticato § 74 di Essere e Tempo, egli afferma: “la decisione in quanto destino è la libertà per la rinuncia a questo o a quel determinato decidersi secondo le esigenze della situazione. il che, però
non rompe la continuità dell’esistenza, ma al contrario la riconferma
nell’attimo”22, nell’attimo della decisione.
21. A conclusione del suo saggio sulla concezione dell’agire in Essere e Tempo,
GeTHMAnn [1989] afferma: “Fondamentalmente la concezione filosofica dell’agire in
Heidegger non ha nessuna affinità politica o teoretico-politica. Per questo motivo la filosofia di Essere e Tempo non si può collegare in linea di principio con nessuna teoria politica. […]. Tuttavia sembra essere chiaro che la concezione dell’agire di Essere e Tempo
non fornisce alcun possibile accesso ai fondamenti filosofici di una concezione politica
democratico-repubblicana” (Ivi, p. 170). Significativamente, Gethmann giustifica la polivalenza politica della concezione dell’agire di Heidegger facendo riferimento agli studi
giovanili di Marcuse e alla definizione che Habermas dà di quest’ultimo come “Heideggermarxista” (Zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus, in id.,
Theorie und Praxis, neuwied, 1963, p. 330).
22. eeT, trad. it., p. 468.
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noTA BiBlioGrAFiCA
la Gesamtausgabe di Martin Heidegger
i testi di Martin Heidegger sono editi, fatta esclusione per pochi esemplari, nella Gesamtausgabe, presso la casa editrice Vittorio klostermann di Frankfurt a. M. il
piano di pubblicazione, ancora in corso d’opera, prevede 102 volumi. essi sono suddivisi in quattro sezioni fondamentali:
i Veröffentliche Schriften 1910-1976. (Scritti pubblicati in vita dall’autore):
volumi 1-16.
ii Vorlesungen 1919-1944 (Corsi universitari): volumi 17-63, così suddivisi:
a) Marburger Vorlesungen 1923-1928 (vol. 17-26)
b) Freiburger Vorlesungen 1928-1944 (vol. 27-55)
c) Frühe Freiburger Vorlesungen 1919-1923 (vol. 56/57-63).
iii Unveröffentliche Abhandlungen. Vorträge-Gedachtes (vol. 64-81).
iV Hinweise und Aufzeichnungen (vol. 82-102).
la sigla HGA seguita dal numero ordinale indica il corrispettivo volume della
Gesamtausgabe. Qui di seguito sono riportati i testi presi in considerazione e analizzati nel seguente lavoro:
– zur Bestimmung der Philosophie (1919), in Gesamtausgabe, vol. 56/57, a cura di
B. Heimbüchel, Frankfurt a. M., klostermann, 19992, trad. it., a cura di G.
Cantillo, Per la determinazione della filosofia, napoli, Guida, 19992. nel testo
citato come: HGA 56/57.
– Grundprobleme der Phänomenologie (1919/20), in Gesamtausgbe, vol. 58, a cura
di H.-H. Gander, Frankfurt a. M., klostermann, 1993. nel testo citato come:
HGA 58.
– Anmerkungen zu karl Jaspers “Psychologie der Weltanschaungen” (1919/20), in
id., Wegmarken, Frankfurt a.M., 19963.
– Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks: Theorie der philosophischen
Begriffsbildung (1920), Gesamtausgabe, vol. 59, a cura di C. Strube, Frankfurt
a. M., klostermann, 1993. nel testo citato come: HGA 59.
– Phänomenologische interpretationen zu Aristoteles: Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät (1922), in Gesamtausgabe, vol.
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62, a cura di G. neumann, Frankfurt a.M., klostermann, 2004; trad. it., a cura
di A.P. ruoppo, interpretazioni fenomenologiche di Aristotele: elaborazione
per le facoltà filosofiche di Marburgo e di Gottinga (1922), con un saggio di
G. Figal, napoli, Guida ed., 2005. nel testo citato come: nB.
– ontologie (Hermeneutik der Faktizität) (1923), in Gesamtausgabe, vol. 63, a cura
di k. Bröcker-oltmanns, Frankfurt a.M., klostermann, 19952; trad. it., a cura
di e. Mazzarella, ontologia (ermeneutica della fatticitá), napoli, Guida, 1992.
nel testo citato come: HGA 63.
– Grundbegriffe der Aristotelischen Philosophie (1924), in Gesamtausgabe, vol. 18,
a cura di M. Michalski,Frankfurt a.M., klostermann, 2002. nel testo citato come: HGA 18.
– HeinriCH SCHieler e di n.n., das Problem der Sünde bei luther, in B. Jaspert,
Sachgemässe exegese. die Protokolle aus rudolf Bultmanns neutestamentarischen Seminare 1921-1951, Marburg, elwert, 1996, pp. 28-33; trad. it., a cura di A. Ardovino, in “Micromega”, 2/2010, pp. 205-214.
– der Begriff der zeit (1924), in Gesamtausgabe, vol. 64, a cura di F.W. von Herrmann, Frankfurt a. M., klostermann, 2004. nel testo citato come: HGA 64.
– Platon: Sophistes (1924/25), in Gesamtausgabe, vol. 19, a cura di i. Schüßler,
Frankfurt a. M., klostermann, 1992. nel testo citato come: HGA 19.
– Sein und zeit, Tübingen, niemeyer, 199317; trad. it., a cura di P. Chiodi, Milano,
longanesi, 1976. nel testo citato come: eeT.
– Brief über den Humanismus, Frankfurt a.M., klostermann, 19919, trad. it., a cura
di F. Volpi, lettera sull’Umanismo, Milano, Adelphi, 1995.
– reden und andere zeugnisse eines lebensweges: 1910 - 1976 , in Gesamtausgabe, vol. 16, a cura di H. Heidegger, Frankfurt a. M., klostermann, 2000; trad.
it., discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita: 1910 - 1976, a cura di n. Curcio, Genova, il Melangolo, 2005. nel testo citato come: HGA 16.
– Aus einem Gespräch von der Sprache, in Unterwegs zur Sprache, Pfullingen, 1959.
– Phänomenologie des religiösen lebens, in Gesamtausgabe, vol. 60, a cura di M.
Jung, Frankfurt a.M., klostermann, 1995; trad. it. a cura di G. Guirisatti, Milano, Adelphi, 2005.
– Über Wesen und Begriff von natur, Geschichte und Staat. Übung aus dem Wintersemester 1933/34, in “Heidegger-Jahrbuch”, 4 (2009), pp. 53-88.
– M. HeideGGer-H.riCkerT, Briefe 1912 bis 1933 und andere dokumente, a cura di
A. denker, Frankfurt a. M., klostermann, 2002. nel testo citato come: HrB.
– M. HeideGGer - k. JASPerS, Briefwechsel 1920-1963, a cura di W. Biemel - H. Saner, Frankfurt a. M., Pieper, 1992. nel testo citato come: HJB.
– M. HeideGGer - r.BUlTMAnn, Briefwechsel, a cura di A. Großmann, klostermann,
Frankfurt a. M., Tübingen, Mohr, 2009.
Heidegger e l’etica
numerose sono le pubblicazioni sul rapporto di Heidegger con l’etica e più in
generale con la Filosofia Pratica. Per un orientamento sull’ampio dibattito si vedano
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i volumi collettanei:
– GeTHMAnn-SieFerT A. - PöGGeler o. [19892] (a cura di), Heidegger und die Praktische Philosophie, Frankfurt a. M., Suhrkamp.
– di GioVAnni P. [1994] (a cura di), Heidegger e la filosofia pratica, Palermo, Flaccovio.
– ArdoVino A. [2003] (a cura di), Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica:
etica, estetica, politica, religione, Milano, Guerini.
Altri testi su Heidegger e l’etica
– BeUCHoT M., [1986], Hermeneutica de la muerte y opcion etica en Heidegger, in
“revista de filosofia”, Mexico, 19, pp. 211-223.
– BrAndner r., [1992], Warum Heidegger keine ethik geschrieben hat, Wien, Passagen-Verl.
– BollnoW o. F., [1949], existentialismus und ethik, in “die Sammlung” 4, pp.
321-335.
– CAlloni M., [1989 a], dasein im technischen zeitalter. Moral und Philosophie bei
Herbert Marcuse und Martin Heidegger, in, G.FleGo e W.SCHMied-koWArzik
(a cura di), Herbert Marcuse: eros und emanzipation; Marcuse-Symposion in
dubrovnik 1988, Gießen, Germinal, pp. 11-34.
– CAlloni M., [1989 b], Heidegger e la filosofia pratica, in “Fenomenologia e Società”, n. 2, pp. 3-31.
– CASlA BiUrrUn C., [2000], Heidegger y la etica, in “Apuntes Filosoficos”, 16, pp.
71-84.
– CASTellon e. l., [1972], dimensiones christianas de la etica de la situacion, in
“estudios Filosóficos”, 21, pp. 377-442.
– FAHrenBACH H., [1969], existenzphilosophie und ethik, Frankfurt a. M., klostermann, pp. 99-131.
– FrAnCo de Sá A., [2002/2003], Heidegger e a questão da ética: entre as duas vias
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indiCe
Presentazione
Nota introduttiva
Introduzione
5
9
13
PArTe PriMA
in CAMMino VerSo l´AnAliTiCA eSiSTenziAle
CAPiTolo i
lA ViTA CoMe inQUieTo eSSere in CAMMino,
FrA Perdizione e PoSSiBiliTà di SAlVezzA
23
lUTero
1. La comprensione dell’essenza dell’uomo fra filosofia e teologia
2. Heidegger lettore di Lutero
3. Le tesi di Heidelberg e la teologia della croce
23
30
34
PAolo
4. Paolo, ovvero la contrapposizione fra legge e grazia
42
AGoSTino
5. Agostino e la ricerca esistenziale di Dio
6. La vita come molestia e prova ininterrotta
7. Il problema dell’assiologizzazione
57
64
71
CAPiTolo ii
onToloGiA dellA ViTA ConTro onToloGiA dellA
TeCHne: lUTero e AriSToTele in diAloGo
79
1. La radice religiosa del filosofare
2. Le categorie ibride del movimento: il primo confronto con Aristotele
3. La filosofia come conto-movimento esistenziale
79
84
91
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4. Ontologia della vita contro ontologia della techne:
l’agathón come determinazione dell’essere dell’uomo
5. La dinamica pericolo-salvezza: élpis sotérias
6. L’autentica virtù? Essere inquieto, in cammino, risoluto
nell’attimo della decisione
7. La phronesis come salvezza contro la tendenza
dell’esserci al nascondimento
100
107
111
119
PArTe SeCondA
le rAdiCi TeoloGiCHe dell´AnAliTiCA eSiSTenziAle
CAPiTolo i
lA deFinizione ForMAle di eSiSTenzA
137
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
137
139
144
149
154
159
162
L´esistenza protesa fra autenticità e inautenticità
La mondità del mondo
Il con-esserci
Situazione emotiva e comprensione
Le modalità inautentiche dell’in-essere
La deiezione come peccato?
La Cura in quanto struttura dell´esserci
CAPiTolo ii
dAll´eSiSTenzA inAUTenTiCA All´eSiSTenzA AUTenTiCA
167
1.
2.
3.
4.
5.
6.
In cammino verso l´esistenza autentica
Il morire come determinazione dell´essere più proprio dell´esserci
La voce della coscienza e la decisione esistenziale
La decisione anticipatrice
Virtù o conversione? Convergenza di modelli
La temporalità originaria
6.1 La temporalità della comprensione
6.2 La temporalità della situazione emotiva
6.3 Temporalità della deiezione
7. La storicità dell´esserci e la fedeltà al proprio destino
167
169
175
181
185
197
207
209
211
214
ConClUSioni
223
noTA BiBlioGrAFiCA
231
246
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Finito di stampare
nel mese di dicembre 2011
per i tipi de “il nuovo melangolo”
dalla Microart’s S.p.A. - recco (Ge)
Fotocomposizione e impaginazione:
Type&editing - Genova