[go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu
L’IMMAGINE DI ALFONSO IL MAGNANIMO TRA LETTERATURA E STORIA, TRA CORONA D’ARAGONA E ITALIA LA IMATGE D’ALFONS EL MAGNÀNIM EN LA LITERATURA I LA HISTORIOGRAFIA, ENTRE LA CORONA D’ARAGÓ I ITÀLIA Lola Badia ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI 1. IL CONTESTO CATALANO FRA XII E XV SECOLO Nel primo capitolo della recente Història de la Literatura Catalana. Literatura Medieval in tre volumi, pubblicata a Barcellona fra il 2013 e il 20151, si riuniscono dati basilari intorno a “Medioevo e letteratura”, che illuminano i presupposti di un discorso espositivo sulle particolarità di un patrimonio testuale che, non appartenendo alla struttura di uno stato, facilmente sfugge all’attenzione del mondo globalizzato del ventunesimo secolo2. D’accordo con una tradizione storiografica del Novecento che risale a Jordi Rubió i Balaguer e Martí de Riquer3, la letteratura catalana medievale è costituita dai testi in versi e in prosa, dotati di qualche tipo di elaborazione formale significativa, prodotti nei secoli che vanno dal XII al XV, nei territori di lingua catalana, cioè il dipartimento francese dei Pirenei Orientali, le regioni oggi spagnole della Catalogna, di Valencia e delle Baleari, e il principato d’Andorra, tenendo conto della notevole mobilità degli scrittori e del loro pubblico in un periodo di continua espansio1. Literatura Medieval, 3 voll., dir. L. Badia, in Història de la Literatura Catalana, dir. A. Broch, 8 voll., Barcelona 2013-2015. Per le origini della storia letteraria catalana, cfr. J. Molas, Sobre la periodització en les històries generals de la literatura catalana, in Symposium in honorem prof. M. de Riquer, Barcelona 1984, pp. 257-276. Vedasi pure Panorama crític de la Literatura Catalana. Edat mitjana, I: Dels inicis a principis del XV; II: Segle d’Or, Barcelona 2011. 2. Cfr. il capitolo I del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 17-46, di L. Badia e S. Martí. 3. La nuova Literatura Medieval cit. aggiorna la Historia de la literatura catalana di J. Rubió i Balaguer, in Historia general de las literaturas hispánicas, voll. I e II, Barcelona 1949-1953 [edizione catalana in Obres Completes de Jordi Rubió i Balaguer, vol I: Història de la Literatura Catalana, Barcelona 1984], e M. de Riquer, Història de la Literatura Catalana. Part antiga, voll. I-III, Barcelona 1964 [ristampa in 4 voll., Barcelona 1984]. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 LOLA BADIA ne militare e di intensi scambi commerciali nel Mediterraneo. Dal Dodicesimo al Quindicesimo secolo, i territori di lingua catalana appartennero a una monarchia che, dal Cinquecento in poi, viene chiamata Corona d’Aragona, la quale si estendeva, a ovest, dalla valle dell’Ebro – che comprende zone di lingua castigliana – fino alla Navarra e alla Castiglia. Nelle valli montane dell’originario regno d’Aragona e nella pianura popolata dai coloni che ne provenivano si parlavano dialetti aragonesi, che generarono testi scritti di carattere sia amministrativo che letterario4. La coesione politica delle diverse parti della Corona d’Aragona medievale era garantita dall’istituzione monarchica nata nel 1137 dall’unione dinastica del regno d’Aragona, che era un ramo di quello della Navarra, e della contea di Barcellona, di origine carolingia. Nel Duecento i regni di Valencia e di Maiorca caddero nelle mani di Giacomo I il Conquistatore, che sconfisse i musulmani ivi stabiliti dai tempi dell’invasione araba dell’VIII secolo. La spinta espansiva della Corona d’Aragona si protrasse fino ai primi del Trecento, quando la casa di Barcellona, che si era insediata anche in Sicilia e in Sardegna, si impadronì di alcuni territori nell’impero bizantino. Nel Quattrocento Alfonso IV il Magnanimo – spesso detto erroneamente Alfonso V, inserendo nel computo Alfonso Sánchez re di Pamplona e degli Aragonesi5 – conquistò il regno di Napoli e vi trasferì la corte negli anni del massimo splendore del patrimonio letterario catalano medievale. Il catalano, l’aragonese, l’occitano, il siciliano, il sardo, il napoletano, il toscano e altri volgari italiani erano presenti nella vita politica e sociale della Corona d’Aragona, accanto al latino dei chierici, delle università e della tradizione classica, e all’ebraico di tante attive comunità. Il francese e il castigliano erano le lingue dei regni che confinavano a ovest e a nord, i quali, diventati Spagna e Francia nell’Età Moderna, rendono oggi pressoché invisibile la produzione catalana, nata nel contesto di una realtà storica del tutto estranea ai concetti di marginalità o di lingua minoritaria. Come si desume dai documenti della cancelleria regia, il plurilinguismo della Corona d’Aragona era una potente realtà6. Fra le lingue vernacolari, 4. F. Nagore Laín, El aragonés del siglo XIV según el texto de la Crónica de San Juan de la Peña, Huesca 2003. Nel Trecento Juan Fernández de Heredia, gran maestro dell’ordine dell’Ospedale, promosse una vasta compilazione di cronache storiche in lingua aragonese, cfr. J. M. Cacho Blecua, El gran maestre Juan Fernández de Heredia, Zaragoza 1997. 5. J. Riera Sans, La correcta numeració dels reis d’Aragó i comtes de Barcelona, in «Afers», XXVI, 69 (2011), pp. 485-521. 6. L’ultima sintesi sull’argomento: A. Ferrando, La llengua cancelleresca a la Corona 4 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI l’occitano fu di gran lunga quella che ottenne il prestigio più alto negli ambienti di corte, mentre l’arabo delle popolazioni sottomesse dopo la conquista del regno di Valencia rimase lingua orale. La letteratura catalana medievale copre tutti i generi presenti nella tradizione romanza e s’iscrive cronologicamente nel tardo Medioevo: le città sono il centro della vita economica, la scrittura ha una parte fondamentale nell’organizzazione sociale e la cultura scolastica e, a un livello inferiore, quella umanistica7, diffusa fra i cortigiani e i borghesi, definisce lo sfondo intellettuale degli scrittori e del loro pubblico8. Una delle caratteristiche più spiccate della letteratura catalana medievale è il rapporto costante degli scrittori con la casa regnante. Jaume Riera i Sans elenca sessanta scrittori catalani medievali, menzionati nei documenti cancellereschi del Duecento, del Trecento e del Quattrocento e Anton M. Espadaler intitolò opportunamente “La Catalogna dei re” il suo capitolo sulla letteratura catalana nel volume II di Lo spazio letterario del Medioevo9. Fin dalla seconda metà del XII secolo, i sovrani della Corona d’Aragona aderirono alla poesia trobadorica facendone segno d’onore e alcuni di loro la coltivarono personalmente, a cominciare da Alfonso I il Trovatore, che regnò fra il 1162 e il 119610. Anche se Giovanni I, il penultimo re della casa di Barcellona, fu l’ultimo sovrano rimatore, l’avvento della casa di Trastamara nel 1412 non scalfì il favore concesso alla lirica di corte. Anzi, Ferdinando I si affrettò a riprendere la celebrazione delle feste della gaia ciència e le corti dei suoi due figli e successori, Alfonso IV e Giovanni II, accolsero poeti rinomati, tra i quali Ausiàs March11. D’altra parte, verso la fine del Duecento, la cancelleria regia incoraggiò la produzione di un singolare corpo di cronache in lingua romanza12. Il primo scrittore europeo a redigere opere scientifiche di carattere divulgativo in d’Aragó, in Col·lecció documental de la cancelleria de la Corona d’Aragó: Textos en llengua catalana (1291-1420), Valencia 2013, pp. 13-52. 7. M. Vilallonga, La literatura llatina a Catalunya al segle XV, Barcelona 1993. 8. I fondi della cancelleria sono stati setacciati ormai da un secolo: A. Rubió i Lluch, Documents per la història de la cultura catalana mig-eval, 2 voll. Barcelona 1908-1921 [ristampa con un’introduzione di A. Balcells, Barcelona 2000]. 9. J. Riera i Sans, Francesc Eiximenis i la Casa reial. Diplomatari 1373-1409, Girona 2010; A. M. Espadaler, La Catalogna dei re, in Lo spazio letterario del Medioevo, II: Il Medioevo volgare. 1 La produzione del testo, Roma 2001, pp. 873-933. 10. Cfr. il capitolo IV del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 219-296, di M. Cabré. 11. Cfr. il capitolo XII del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 261-352, di J. Torró, e il contributo di L. Cabré in questo volume. 12. Cfr. il capitolo III del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 85-217, di L. Badia, J. M. Pujol, X. Renedo, S. Cingolani e J.A. Aguilar. 5 LOLA BADIA volgare fu Ramon Llull, che esordì come trovatore nella Maiorca recentemente conquistata da Giacomo I13. Alla fine del Trecento Bernat Metge scrisse un dialogo ispirato in parte al Secretum di Petrarca, e Antoni Canals ricavò un’operetta morale in volgare dalla sua Africa14. Verso la metà del secolo successivo il classicismo abbinato alla narrativa cavalleresca generò due romanzi del tutto eccezionali: l’anonimo Curial e Güelfa e il Tirant lo Blanc, opera di Joanot Martorell, un autore che frequentò la corte napoletana di Alfonso il Magnanimo; tradotto in castigliano, il Tirante fu ben noto a Cervantes, e, in versione locale, circolò nelle corti italiane del Cinquecento15. Queste pagine su “Alfonso IV d’Aragona e i grandi scrittori catalani medievali” traggono profitto dal lavoro di direzione della nuova sintesi di storia letteraria catalana medievale già citata. Ridimensionare le interpretazioni tradizionali, scartandone le prospettive inadeguate e valorizzando i nuovi reperti documentali, permette di mettere a fuoco con rinnovata capacità critica la straordinaria produttività della prima metà del Quattrocento catalano e di scavare nei riferimenti letterari di una parte cospicua dei cortigiani presenti sia nella tenda da campo di re Alfonso che nella sua corte napoletana fra il 1432 e il 1458. 2. SCRIVERE IN RIMA: DALLA LINGUA DEI TROVATORI AL CATALANO La descrizione delle origini della poesia colta catalana nella seconda metà del dodicesimo secolo, al di là di problemi ormai superati di qualificazione nazionale, si avvale oggi della nozione di spazio culturale occitano-catalano: un punto di vista che aiuta a capire la produzione e la circolazione non solo della lirica ma anche delle attestazioni romanze più antiche in prosa16. Si conta ovviamente sull’accresciuta documentazione dei rapporti dei poeti non solo con la corte aragonese, ma anche con le piccole corti occitane a nord dei Pirenei, durante il Duecento e fino al Tre13. Cfr. il capitolo VI del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 373-476, di L. Badia, J. Santanach e A. Soler. 14. Cfr. i capitoli IX e X del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 172-183 e 185-238, di M. Ferrer, L. Cabré e L. Badia. 15. Cfr. i capitoli XIV e XV del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 53-105 e 107-161, di L. Badia, J. Torró e J. Pujol. 16. Cfr. il capitolo IV del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 219-222, la BEdT, http://w3.uniroma1.it/bedt/BEdT_04_25/index.aspx, il RIALC, http://www.rialc.unina.it/ e Cançoners DB, http://www.candb.narpan.net/ [consultazione 15/03/2015]. 6 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI cento ben inoltrato. Fondamentali sono i dati che si ricavano dalla disamina dei canzonieri catalani; per esempio il trecentesco ms. Sg della Biblioteca di Catalogna, che trasmette una silloge di trovatori classici – tra cui Cerverí de Girona –, e di poeti occitani contemporanei17. Il discorso storiografico si avvale anche delle riflessioni metaletterarie di trattatisti locali come Ramon Vidal de Besalú, che propone entusiasticamente l’eccellenza dell’esperienza poetica informandoci sulla funzionalità delle lingue romanze come veicolo del letterario: il francese per la narrativa, l’occitano (detto limosino) per la lirica. Il poeta che non possieda la drecha parladura si potrà servire delle regole grammaticali delle sue Razos de trobar18. Sono indicazioni preziose per comprendere le radici profonde dell’attaccamento secolare dei poeti catalani alla lingua occitana, che fu usata del tutto correttamente – da Guillem de Berguedà o da Cerverí – fino alla fine del Duecento, e poi sottoposta a una crescente ibridazione col catalano fino ai tempi di Andreu Febrer e Jordi de Sant Jordi19. L’esiguità della produzione lirica della prima metà del Trecento contrasta con il suo rinnovato impulso all’epoca di re Giovanni I (13871396). La sua corte fu ricordata per l’eccezionale diffusione della poesia e della musica. Todos parecían juglares, scrive lo storico del Cinquecento Jeronimo Zurita20, riguardo alla ricca messe di lirica amorosa ma anche ai poemi narrativi in ottonari rimati, le novas rimadas della tradizione occitanica, che interessarono i poeti e il loro pubblico fino agli inizi del Quattrocento21. Il Canzoniere Vega-Aguiló, oggetto di ricerche recenti, ha tramandato quest’eredità poetica catalana, assieme a una scelta dei modelli occitanici e francesi in voga22. La veste linguistica dei poeti del VegaAguiló è sempre tendenzialmente quella dei trovatori. La coloritura occi17. M. Cabré, Cerverí de Girona: un trobador al servei de Pere el Gran, Barcelona-Palma de Mallorca 2011; M. Cabré, La circolazione della lirica nella Catalogna medievale, in La tradizione della lirica nel Medioevo romanzo. Problemi di filologia formale, Firenze 2011, pp. 363-407, e M. Cabré e S. Martí, Le chansonnier Sg au carrefour occitano-catalan, in «Romania», 128 (2010), pp. 92-134. 18. Cfr. Literatura Medieval cit., I, p. 20. 19. La descrizione più efficace della lingua ibrida della tradizione poetica catalana è quella di M. de Riquer in appendice alla sua edizione di Andreu Febrer, Poesies, Barcelona 1951. 20. Jerónimo Zurita, Anales de de Aragón, IV, Zaragoza 1978, p. 720 [anno 1388]. 21. Cfr. il capitolo XII del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 261-266. 22. A. Alberni, El cançoner Vega-Aguiló: una proposta de reconstrucció codicològica, in Literatura i cultura a la Corona d’Aragó (s. XIII-XV), Barcelona 2002, pp. 151-171, e della stessa, Intavulare. Tavole di canzonieri romanzi. I Canzonieri provenzali, 11. Barcelona, Biblioteca de Catalunya: VeAg (mss. 7 e 8), Modena 2006 [2009]. 7 LOLA BADIA tanica, però, arriva a scomparire completamente nei componimenti di carattere burlesco o satirico, come ad esempio il Sermó di Bernat Metge. Nei primissimi anni del regno di Alfonso IV, Lluís Icard e Jordi de Sant Jordi, invece, tessero le lodi di Margarida de Prades, la vedova di Martino I, intrecciando la lezione dei trovatori con quella di poeti italiani e francesi. Il maestro di questa rinnovata voce lirica catalana fu Andreu Febrer, che frequentò l’effimera corte siciliana di Martino il Giovane e seppe imitare le rime petrose di Dante23. Recentemente, la nuova identificazione della maggior parte dei poeti presenti nei canzonieri catalani del secondo Quattrocento, sottoposti anch’essi a impegnativi esami codicologici, permette di individuare le circostanze in cui la lingua catalana subentra a quella occitanica nella lirica d’amore più elevata. Il momento, come si era sempre detto, è quello della comparsa di Ausiàs March nello scenario poetico. Precisiamo ora che si tratta degli anni tra il 1424 e il 1432, in cui la corte di Alfonso IV si stabilì assiduamente a Valencia. Siamo in grado di concretare i rapporti del giovane Ausiàs March con questa corte e con la persona di re Alfonso, come s’illustra nel contributo di Lluís Cabré in questo stesso volume, ma possiamo anche individuare un gruppo di poeti coetanei di March, nati come lui intorno al 1400: Martí Garcia, Lluís de Requesens, Bernat Miquel, Joan de Vilagut o Francesc Sunyer, i quali assieme a lui misero da parte la veste linguistica occitana. Sono i poeti del regno di Alfonso il Magnanimo, identificati anagraficamente e analizzati criticamente da Jaume Torró in un volume che ha cambiato la storia della poesia catalana del Quattrocento24. D’altra parte, è stata rivista nei minimi particolari la consacrazione di Ausiàs March a opera degli scrittori della generazione a lui successiva – quella dei nati intorno agli anni Venti del secolo – tra i quali spicca il poeta bilingue catalano-castigliano Pere Torroella. Figlio cadetto di una famiglia della bassa nobiltà dell’Empordà, Torroella si formò nella corte di Giovanni di Navarra (il futuro Giovanni II d’Aragona) e divenne arbitro di eleganze poetiche in quella napoletana di Alfonso25. L’auctoritas di March campeggia nello scambio epistolare fra Torroel23. Cfr. il capitolo XII del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 279-290, e L. Cabré - J. Torró, La poesia d’Andreu Febrer: el trobar ric i el Dante líric, in «Medioevo Romanzo», 39/1 (2015), pp. 151-165. 24. Cfr. la terza parte del capitolo XIII del volume II di Literatura Medieval cit., di J. Torró e F. Rodríguez Risquete, pp. 398-435; Lluís de Requesens, Bernat Miquel, Martí Garcia, Rodrigo Dies, Lluís de Vila-Rasa, Francesc Sunyer, Sis poetes del regnat d’Alfons el Magnànim, ed. J. Torró, Barcelona 2009. 25. Pere Torroella, Obra completa, 2 voll., ed. F. Rodríguez Risquete, Barcelona 2011. 8 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI la e Pedro Ximénez de Urrea, governatore di Valencia e figlio di Teresa d’Híxar, la nobildonna valenziana che Ausiàs chiamava Llir entre cards. L’enorme successo di March giovò senz’altro alla definizione del catalano come lingua della lirica, ma lo scarto rispetto all’antica lingua poetica avvenne nella corte valenziana del giovane Alfonso, che si volle costantemente circondare di letterati e di poeti26. Torró ha provato anche che Francesc Sunyer poetò in catalano accanto al suo sovrano, diventato signore di Napoli: la lirica catalana che raggiunse il suo apice in Ausias March vi fu presente27. 3. MONARCHIA, LINGUA E LETTERATURA Esiste uno stretto rapporto fra l’attività amministrativa della cancelleria catalano-aragonese e l’affermarsi di una lingua catalana unitaria come strumento espressivo adattabile ai più diversi registri, compreso quello letterario28: Martí de Riquer usò opportunamente l’espressione «king’s Catalan» per definire la lingua della cancelleria e della corte, che documentiamo dalla fine del Duecento ai primi del Cinquecento29. L’omogeneità linguistica del catalano dei documenti cancellereschi, come, per esempio, le istruzioni per gli ambasciatori e i loro rapporti, è largamente attestabile negli anni del regno di Giacomo II (1291-1327), un sovrano che svolse un’impressionante attività diplomatica. Ramon Muntaner scrisse la sua Cronaca proprio negli anni successivi e lodò l’unità della lingua comune della Catalogna, di Valencia e di Maiorca. Lo pus bell catalanesc è quello parlato dal re e dai suoi cortigiani, meglio ancora se non sono di madrelingua catalana, come Corrado Lancia e Ruggiero di Lauria, giunti in Catalogna con la regina Costanza, la figlia di Manfredi di Sicilia andata in sposa a Pietro II il Grande. La salda realtà linguistica del catalano di Muntaner è al polo opposto dell’indefinitezza del volgare illustre italiano di cui si lamenta Dante nel quasi coevo De vulgari eloquentia30. 26. Cfr. la prima e la seconda parte del capitolo XIII del volume II di Literatura Medieval cit., di L. Cabré e M. Ortín, pp. 353-397. 27. Cfr. Sis poetes del regnat d’Alfons el Magnànim cit. 28. Cfr. il capitolo VIII del volume II di Literatura Medieval cit., di L. Badia, pp. 105-116. 29. Riquer, Història de la literatura cit., II, p. 336. Cfr. J. M. Nadal - M. Prats, Història de la llengua catalana, I, Barcelona 1982. 30. Per un confronto fra la nozione di lingua in Muntaner e in Dante, cfr. L. Badia - J. Torró, El Curial e Güelfa i el «comun llenguatge català», in «Cultura Neolatina», 73 (2014), pp. 203-245. 9 LOLA BADIA L’entusiasmo di Muntaner coincide con l’affermarsi di una scripta libraria stabile per la prosa catalana, che si consolida verso la metà del Trecento e copre tutto il Quattrocento31. Pietro III il Cerimonioso (1336-1386) aveva tempra di scrittore: promosse e diresse personalmente opere storiografiche e vergò di sua mano lettere personali e sermoni politici32. Sotto il suo mandato la cancelleria regia acquisì un rigido regolamento, che prevedeva la formazione tecnica dei professionisti addetti ai lavori: copisti, notai, segretari, funzionari con mansioni diverse incentrate sulla scrittura si addestravano nell’ars dictaminis, coltivavano il latino e stendevano documenti romanzi in aragonese e in catalano in una prosa accurata33. Bernat Metge e Andreu Febrer appresero il mestiere dello scrittore in quest’ambiente. Il prestigio della lingua catalana si estese a livello internazionale all’epoca dei re della casa castigliana dei Trastamara: per governare i nuovi regni si avvalsero della cancelleria ereditata dai predecessori e contribuirono a rafforzarne le strutture. La catalanizzazione amministrativa delle corti di Ferdinando I e Alfonso IV è ben palese nei documenti del periodo34. Poche cose cambiarono in quest’ambito negli anni della Guerra Civile, 1461-1471, che contrappose Giovanni II e la Diputació del General, un lungo conflitto che per molti altri aspetti fu rovinoso per la Catalogna35. 4. STORIA E LETTERATURA: LE CRONACHE DEI RE La storia della prosa catalana esordisce con il libro di memorie di un re, Giacomo I (1208-1276), che non aveva familiarità con la scrittura. Il Llibre dels fets de Jaume I, infatti, è il resoconto dell’esperienza vitale e politica del sovrano che conquistò Maiorca e Valencia; il testo fu elaborato oral31. L. Badia - J. Santanach - A. Soler, Per la lingua di Ramon Llull: un’indagine intorno ai manoscritti in volgare di prima generazione, in «Medioevo romanzo», 33 (2009), pp. 49-72, e degli stessi, Els manuscrits lul·lians de primera generació als inicis de la scripta librària catalana”, in Translatar i transferir: la transmissió dels textos i el saber (12001500). Actes del Primer Col·loqui Internacional del Grup Narpan (2007), Barcelona-Santa Coloma de Queralt, 2010, pp. 61-90. 32. F. Gimeno Blay, Escribir, reinar. La experiencia gráfico-textual de Pedro IV el Ceremonioso (1336-1387), Madrid 2006. 33. A. Canellas López - J. Trenchs, Cancillería y cultura. La cultura de los escribanos y notarios de la Corona de Aragón (1344-1479). Folia Stuttgartensia, Zaragoza 1988. 34. B. Canellas - A. Torra, Los Registros de la Cancillería de Alfonso el Magnánimo, Madrid 2000. 35. J. Trenchs - A. M. Aragó, Las cancillerías de la Corona de Aragón y Mallorca desde Jaime I a la muerte de Juan II. Folia Parisiensia 1, Saragozza 1983. 10 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI mente con l’appoggio interattivo di un gruppo di ascoltatori che stimolavano la memoria del relatore, mentre era ripreso per scritto da scrivani professionisti36. Bernat Desclot e Ramon Muntaner, invece, redassero le rispettive cronache delle imprese dei catalani, guidati da re che erano campioni della cavalleria, fra la fine del Duecento e i primi del Trecento in ambienti legati alla cancelleria e all’amministrazione. Avevano appreso l’arte del racconto dai romanzi francesi di Lancillotto e Tristano, che circolarono in Catalogna, dove vennero anche tradotti37. La medesima scuola di scrittura romanza si riscontra nelle due opere narrative di Ramon Llull, il Romanç de Blaquerna (Montpellier 1283) e il Libro delle meraviglie (Parigi 1287-89). Tuttavia, Ramon Llull costituisce un universo a sé, in parte isolato dall’insieme della letteratura catalana: coltivò tutti i generi conosciuti – dal trattato, al dialogo, alla poesia lirica, ai proverbi e le sentenze – sempre con la ferma volontà di piegare l’aspetto letterario ai fini didattici del suo personale programma di missione, imperniato sull’Arte: un metodo dei metodi, che Llull presentava come il frutto di una rivelazione38. Le opere lulliane non rientrano nel discorso su Alfonso IV e la letteratura catalana, con l’eccezione degli scritti sulla crociata, che Martorell poteva conoscere quando immaginò il suo eroe Tirant mentre portava il cristianesimo in tutta l’Africa settentrionale. Invece il libro di re Giacomo I e le cronache di Desclot, Muntaner e Pietro III contengono molti materiali di propaganda politica, che sicuramente interessavano gli intellettuali dell’ambiente alfonsino, particolarmente nei resoconti a sfondo epico delle vittorie terrestri e navali dei catalani su nemici potenti: le vittorie di Giacomo I sui musulmani di Maiorca e di Valencia o quelle di Pietro II sui francesi in Sicilia e in Catalogna, in occasione dell’invasione 36. Cfr. la terza parte del capitolo III del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 97-122; S. Asperti, La tradizione manoscritta del Libre dels feyts, in «Romanica Vulgaria», 7 (1984), pp. 107-167; Id., El rei i la història. Propostes per a una nova lectura del Libre dels Feyts de Jaume I, in «Randa», 18 (1985), pp. 5-24; J. M. Pujol Sanmartín, The Llibre del rei En Jaume: A matter of style, in Historical Literature in Medieval Iberia. Papers of the Medieval Hispanic Research Seminar, II, London 1996, pp. 3565, e El Llibre dels fets del rei En Jaume, ed. A. e R. Vinas, versione moderna di J. M. Pujol Sanmartín, Palma di Maiorca 2008. 37. Cfr. le parti quarta e quinta del capitolo III del volume I di Literatura Medieval cit., pp. 123-188, e S. M. Cingolani, Historiografia, propaganda i comunicació. Bernat Desclot i les dues redaccions de la seva Crònica, Barcelona 2006. 38. Oltre al capitolo VI del volume I di Literatura Medieval cit., p. 373-476, cfr. la banca dati Llull DB, http://orbita.bib.ub.edu/llull/intro.asp [consultazione 15/03/2015]. Sono titoli fondamentali A. Bonner, The Art and Logic of Ramon Llull. A User’s Guide, Leiden-Boston 2007, e Raimundus Lullus. An Introduction to his Life, Works and Thought, Turnhout 2008. 11 LOLA BADIA del 1285. Il trionfo di pochi giusti su molti prepotenti, che riprende la storia biblica di Davide e Golia, ritorna in Desclot: Pietro II diventa addirittura un nuovo Alessandro, d’accordo con la proiezione cortese e cavalleresca di questo sovrano, che gli scrittori della cancelleria condividevano con i trovatori che parteggiavano per il re d’Aragona. In Muntaner la Provvidenza si prende cura delle imprese dei catalani nell’impero bizantino: la protezione divina e l’entusiasmo per l’espressione letteraria in lingua catalana s’intrecciano nel suo discorso celebrativo della stirpe reale aragonese. 5. TRADURRE, ADATTARE, IMITARE, EMULARE L’intera cultura medievale si articola su testi sacri, la Bibbia e il Vangelo, importati in latino da originali orientali. La scolastica universitaria nasce dalle traduzioni di testi filosofici e scientifici greci ritornati in Occidente attraverso le versioni arabe. I primi testi narrativi in ottonari francesi si chiamano roman perché erano e si presentavano come volgarizzamenti in lingua romanza di storie antiche scritte in latino. Tradurre diventò subito per gli scrittori romanzi sinonimo di adattare un testo latino preesistente, storico o poetico, ai gusti di un nuovo pubblico. Dall’adattamento si passa presto all’imitazione, e l’imitazione, strumento onnipresente nelle scuole medievali dove s’insegnava il latino, è compagna dell’emulazione, il superamento retorico del modello, già previsto dai trattatisti classici39. La migliore letteratura catalana del tardo Trecento e del Quattrocento è legata alla traduzione: traducendo e adattando modelli latini, francesi e italiani di diverso stampo, Bernat Metge (1346-1410) costruisce opere di rilievo in volgare, sia in una composizione in versi come il Llibre de Fortuna e Prudència, sia ne Lo somni (Il sogno) considerato l’opera più considerevole della prosa catalana antica40. Joan Roís de Corella (1435-1496), che fu teologo e predicatore di prestigio, negli anni della sua giovinezza scrisse versi e prose di argomento sentimentale. Diventò famoso riprendendo storie 39. Cfr. il capitolo IX del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 117-183, di L. Cifuentes, J. Pujol e M. Ferrer; El saber i les llengües vernacles a l’època de Llull i Eiximenis. Estudis Icrea sobre vernacularització / Knowledge and Verncular Languages in the Age of Llull and Eiximenis. Icrea Studies on Vernacularization, Barcelona 2012, e M. Bacardí - P. Godayol, Diccionari de la traducció catalana, Vic (Barcelona) 2011. 40. Cfr. il capitolo X del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 185-238, di L. Cabé e L. Badia e Fourteenth-Century Classicism. Petrarch and Bernat Metge, LondonTorino 2012. Bernat Metge, Il sogno, traduzione italiana di G. Faggin, introduzione e note di L. Badia, Alessandria 2002. 12 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI tragiche d’amore e di morte, da Ovidio e da Seneca, e facendone rivivere gli eroi in un’elaborata prosa latineggiante, costruita sul modello di quella boccacciana. Il fascino della prosa d’arte di Corella, ricavata da un esercizio di traduzione ed emulazione, echeggia in tutte le pagine del Tirant lo Blanc che mirano a un’espressione letteraria elevata41. Oggi sono a disposizione della comunità scientifica censimenti delle traduzioni medievali al catalano, sia di materie letterarie, che scientificotecniche o spirituali, ed è anche in corso un ambizioso progetto di pubblicazione di quelle bibliche42. Nei prologhi alle traduzioni si annidano le scarse riflessioni sul fatto letterario del medioevo non relative alla tradizione trobadorica. Merita di essere ricordato in particolare il prologo che Ferran Valentí scrisse per la sua traduzione dei Paradoxa di Cicerone verso il 1450, ai tempi dunque di Alfonso IV. Allievo di Leonardo Bruni, riscontra nell’esercizio di traduzione in volgare l’adempimento del compito morale di divulgazione dei saperi che salvano in senso cristiano. San Girolamo viene ricordato accanto al suo maestro, e, assieme a lui, scrittori che usarono il volgare per istruire i loro lettori nella saggezza, da Arnaut Daniel a Dante; segue la prima proposta di un canone letterario catalano che comprende Ramon Llull, Bernat Metge e i traduttori dei classici, tra i quali Valentí decisamente colloca se stesso43. Occorre sottolineare a questo punto che il fior fiore delle traduzioni letterarie catalane in senso stretto, quelle cioè che mirano a rispettare la forma, oltre che i contenuti dell’originale, porta la data del 1429, che corrisponde a un breve soggiorno del re Alfonso IV a Barcellona. Andreu Febrer allestì per l’occasione una traduzione completa in versi catalani della Commedia dantesca e un anonimo tradusse in catalano l’intero Decamerone di Boccaccio; si tratta di una versione accurata ed elegante, che mira ad adattare il contesto narrativo ai riferimenti del pubblico locale e sostituisce le poesie che chiudono le giornate con testi lirici noti al lettori44. Appartiene invece all’ultimo terzo del XV secolo la traduzione catalana del De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum del Panormita, opera di 41. Cfr. il capitolo X del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 211-250, di J. L. Martos e F. Gómez. 42. Cfr. le banche dati Sciencia.cat, http://www.sciencia.cat/ e Translat, http://www.narpan.net/translat-db [consultazione 15/03/2015]. Per la Bibbia catalana medievale, cfr. il sito del Corpus Biblicum Catalanicum, http://cbcat.abcat.cat/inici.php [consultazione 15/03/2015]. 43. L. Badia, La legitimació dels discurs literari en vulgar segons Ferran Valentí, in Intel·lectuals i escriptors a la baixa Edat Mitjana, Barcelona 1994, pp. 161-184. 44. Per i dati relativi alle traduzioni della Commedia e del Decamerone, rimando alla banca dati Translat cit. 13 LOLA BADIA Jordi Centelles, un ecclesiastico valenziano di nobili origini, che fu anche poeta e giurista45. 6. SCRITTURE E SCRITTORI CLERICALI Per uno scrittore universitario dei secoli XIII e XIV c’era un solo auctor, che era Dio, e la sua opera era la Sacra Scrittura. Il chierico letterato era lo scriptor, che copiava o annotava e che diventava compilator quando riuniva materiali diversi e produceva un testo nuovo ricavato da testi preesistenti dotati di auctoritas46. E l’auctoritas derivava sempre da una fonte divina, la Bibbia o gli scritti dei Padri della Chiesa. Coloro che le bibliografie moderne chiamano autori delle grandi summae medievali si presentavano come compilatori e quanto c’era di personale nelle loro opere rimandava all’ordinatio dei loro scritti, ossia l’operazione di trovare un’organizzazione nuova, efficace e risolutiva dei materiali della compilazione. L’antica ordinatio, infatti, è alla base della produzione delle opere che oggi sono considerate originali47. Classificare le funzioni della scrittura sotto le categorie di auctor, scriptor, compilator e ordinator, accanto a quella del traduttore-divulgatore, di cui sopra, esclude la creazione libera di testi che scaturisce dall’ispirazione personale. Una simile attività si riconosceva solo ai poetae, cioè gli autori dell’antichità appartenenti al canone della tradizione scolastica: Ovidio, Virgilio, Seneca (il poeta delle Tragedie), Stazio, Lucano. La poesia di questi poetae, detti anche auctores, tradotta in lingua volgare diventava poètica ficció in prosa o semplicemente vulgar poesia, da non confondere con la produzione dei trovatori, i coblejadors, che componevano versi in occitano, occitano-catalano, francese o italiano dal Duecento in poi48. L’auctoritas dei poetae, sia pagani che cristiani – al Dante della Commedia si attribuisce presto in Catalogna l’ auctoritas –, non convinceva affatto predicatori intransigenti come san Vincenzo Ferrer, che li proclamava tutti condannati al fuoco eterno49. La forbita prosa degli scrit45. Antonio Beccadelli il Panormita, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, versione catalana del secolo XV di Jordi de Centelles, ed. E. Duran e M. Vilallonga, Barcelona 1990. 46. San Bonaventura, Commentaria in quatuor libros Sententiarum Magistri Petri Lombardi, I, Ad Claras Aquas 1882, pp. 14-15 (in I sent., proem., qu. IV, resp.). 47. Francesc Eiximenis ragiona in questi termini nel preambolo della sua enciclopedia El Crestià, Literatura Medieval cit., II, pp. 37-39. 48. Dottrine esplicitamente condivise dall’autore anonimo del romanzo Curial e Güelfa e da Joan Roís de Corella, Literatura Medieval cit., III, pp. 84-95 e 235-236. 49. Literatura Medieval cit., II, pp. 79-80. 14 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI ti teologici del suo contemporaneo Felip de Malla (ca. 1372-1431), invece, straripa letteralmente di riferimenti presi da Virgilio, Seneca e Dante. Felip de Malla pronunciò i sermoni sulla gaia ciència nelle feste del 1413, incoraggiando i verseggiatori romanzi a esaltare saggiamente la figura del re Ferdinando, il padre di Alfonso IV50. La produzione in volgare dei frati catalani è enorme: basti considerare il volume degli scritti di Francesc Eiximenis (1330-1409)51. L’enciclopedia che porta come titolo El Crestià, il Llibre dels àngels, il Llibre de les dones e la Vida de Crist sono pieni di materiali letterari, perché la didattica della religione medievale richiedeva l’uso di storie esemplari educative. Stimolato prima dal re Pietro III e successivamente dalla città di Valencia, Eiximenis espose in catalano i contenuti della trattatistica politica scolastica nel Dotzè d’El Crestià – il dodicesimo volume della sua enciclopedia – e descrisse con ricchezza di particolari la funzione delle città nel tessuto sociale, nonché la teoria del pactisme, l’arte di governare dei sovrani catalano-aragonesi, fondata su patti stipulati nelle corts, le assemblee di nobili, prelati e rappresentanti dei governi cittadini52. Sebbene il valore letterario dei componenti narrativi delle compilazioni didattiche non fosse lo scopo principale degli autori, la prosa dei frati, sia latina che volgare, illumina l’insieme della tradizione letteraria catalana. Di particolare interesse sono i sermoni romanzi di un predicatore di masse come san Vincenzo Ferrer (1350-1419), anche se solo accessibili attraverso il filtro non sempre affidabile dei trascrittori53. L’unica scrittrice catalana medievale, Isabel de Villena (1430-1490), di stirpe reale, fu badessa del convento della Trinità di Valencia e compose una Vida de Crist in catalano a partire dai Vangeli canonici e da tradizioni pietose, amplificata con creazioni letterarie personali dettate dalla devozione e destinate all’istruzione delle suore della sua comunità54. 50. Cfr. la seconda parte del capitolo XXI del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 370-390, di J. Pujol. 51. Cfr. la seconda parte del capitolo VII del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 25-59, di S. Martí e D. Guixeras. 52. X. Renedo, Francesc de Vinatea, el ciutadà ideal segons el Dotzè del Crestià de Francesc Eiximenis, in Utopies i alternatives de vida a l’Edat Mitjana, Lleida 2009, pp. 215-252. 53. Cfr. la terza parte del capitolo VII del volume II di Literatura Medieval cit., pp. 59-82, di X. Renedo. 54. Cfr. la terza parte del capitolo XXI del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 390-408, di R. Cantavella. 15 LOLA BADIA 7. I TRE CAPOLAVORI DEL QUATTROCENTO Scritti da laici sono, invece, i tre capolavori delle lettere catalane del Quattrocento: l’Espill di Jaume Roig, l’anonimo Curial e Güelfa e il Tirant lo Blanc di Joanot Martorell. La prima opera è la meno affine agli ambienti di corte55. Jaume Roig (ca. 1410-1478) fu, infatti, un medico della città di Valencia molto ben documentato nell’esercizio della sua professione. Il suo poema satirico, rigidamente strutturato come un sermone rivolto all’istruzione di un giovane nipote, si presenta come una finta autobiografia. Il protagonista centenario, mentalmente indebolito dalla vecchiaia, racconta in chiave comica, verso il 1460, gli infiniti guai procuratigli dalle donne: dalla madre, all’ultima delle mogli, o presunte tali, a tutte le femmine perverse (locandiere, suore, beghine, regine, giudee...) che incontra nei suoi viaggi o nella città di Valencia. Una lunga ed erudita lezione impartita da Salomone, che gli appare in sogno, conferma quanto il lettore aveva già compreso: la donna è la chiave di tutti i misfatti e di tutte le sventure degli uomini. Il falso Roig del poema finisce i suoi giorni ben lontano da qualsiasi femmina. Sole due donne sfuggono alla cattiveria sostanziale del loro genere: la Madonna e la moglie documentata dell’autore, Isabel Pellicer, che era morta poco prima della stesura dell’opera. Gli oltre sedicimila versi in rima baciata di quattro sillabe del testo costituiscono un preciso e mordace ritratto satirico – uno specchio – della società coeva, sotto la veste comica di un’enciclopedia della scelleratezza femminile56. La tradizione medievale distingueva la storia dalla finzione o fabula in termini diversi da quelli odierni. La storia corrispondeva al vero – Muntaner parlava della vera veritat – mentre finzione o fabula erano sempre affini all’inganno e alla menzogna. Nel prologo del terzo libro del Curial e Güelfa si legge una riflessione molto completa intorno a questo problema, che ha come scopo la difesa del diritto alla creazione libera di storie morali educative come quella che propone il romanzo57. L’autore anonimo è un teorico della letteratura che si serve di modelli italiani, soprattutto il Boccaccio del Filocolo, e commentatori della Commedia di Dante, 55. Cfr. il capitolo XIX del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 251-303, di J. Torró e A. Carré, e Jaume Roig, Espill, ed. A. Carré, Barcelona 2014. 56. Jaume Roig, Specchio o Libro delle donne, introduzione, traduzione italiana e note a cura d’A. Fratta, Santa Barbara (CA) 2013. 57. Cfr. il capitolo XV del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 53-104, di L. Badia e J. Torró, e la loro edizione critica e commentata del romanzo, Barcelona 2011. 16 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI come Benvenuto da Imola. Curial è un giovane servitore del marchese di Monferrato, che diventa un campione famoso di combattimenti e giostre cavalleresche grazie alla protezione segreta di Guelfa, la sorella vedova del marchese, ricca, saggia e anche lei giovanissima. L’amore che lega i due protagonisti otterrà l’arduo premio del matrimonio solo quando entrambi avranno superato dure e dolorose prove, orchestrate da una Fortuna dotata di una vivace loquacità e capace di mettere in scena le antiche divinità pagane58. Se l’Anonimo del Curial coltiva una prosa elegante che risente della lezione del Petrarca latino e di Boccaccio, ma anche di quella dei cronisti catalani e dei narratori francesi del Duecento, Joanot Martorell, uno scrittore documentato nella corte napoletana di Alfonso il Magnanimo, nel suo Tirant lo Blanc affascina il lettore con un’ampia varietà di registri59, dall’accurata descrizione di combattimenti cavallereschi e stratagemmi militari, alle chiacchiere effervescenti della loquace Plaerdemavida, alla prosa enfatica degli episodi a sfondo sentimentale e tragico. Le avventure cavalleresche di Tirant iniziano in Inghilterra per spostarsi poi in Sicilia e a Costantinopoli. La storia amorosa del protagonista e della figlia dell’imperatore greco sviluppa l’intero quadro della malattia d’amore, non senza ammiccamenti e un notevole distacco ironico. Confrontato al suo destino eroico Tirant incarna, invece, il cavaliere cristiano ideale, che rinnova lo spirito di crociata che spinse Alfonso il Magnanimo a sfidare Maometto II dopo la caduta di Costantinopoli del 1453. Martorell vuole che Tirant diffonda il cristianesimo in tutta l’Africa settentrionale e riunisca sotto il suo comando una potente coalizione capace di debellare il nemico turco. Tirante salva Costantinopoli, ma la sua morte accidentale, seguita da quelle dell’anziano imperatore e di sua figlia, diventata la sua sposa, chiude il romanzo con una riflessione sulla natura appunto fittizia e favolosa dei sogni che la letteratura rende piacevoli e verosimili60. 58. Anonimo, Curial e Guelfa, introduzione di A. Ferrando Francès, traduzione italiana di C. Calvo Rigual e A. Giordano Gramegna, Roma 2014. 59. Cfr. il capitolo XVI del volume III di Literatura Medieval cit., pp. 107-161, di J. Pujol. La visione critica aggiornata del romanzo parte da Actes del Symposion Tirant lo Blanc, Barcelona 1993, e da reperti di documenti, come quelli editi da J. Villalmanzo, Joanot Martorell: biografia ilustrada y diplomatario, Valencia 1995, e J. J. Chiner Gimeno, El viure novel·lesc. Biografia de Joanot Martorell (amb un fragment d’un manuscrit del Tirant lo Blanch), Alcoi 1993. Bisogna segnalare pure Actes del Col·loqui Internacional “Tirant lo Blanc”: l’albor de la novel·la moderna europea (Ais de Provença, 1994), Barcelona 1997, e l’edizione critica e commentata di Albert Hauf, 2 voll., Valencia 2004. 60. Per la traduzione cinquecentesca del Tirant lo Blanc di Lelio Manfredi: Tiran- 17 LOLA BADIA 8. SCENOGRAFIA CONCLUSIVA Nella Catalogna medievale la commedia e la tragedia non si documentano collegate alle rappresentazioni drammatiche che modernamente chiamiamo teatro61. La commedia, che rimandava ai testi di Plauto e di Terenzio frequentati nelle scuole, veniva assimilata a trame animate da protagonisti plebei o popolani e percorse da atteggiamenti faceti, come è il caso dell’Espill di Jaume Roig. La tragedia, invece, proponeva antichi dei, eroi o personaggi di stirpe reale coinvolti in delitti o accadimenti luttuosi e imponeva l’espressione patetica dell’infelicità. Il modello erano le Tragedie di Seneca, riprese in lingua romanza da Corella. Sussiste comunque nella letteratura catalana antica una «teatralità diffusa», documentata dalle sfarzose feste per le incoronazioni dei sovrani o nei solenni ricevimenti di cui erano oggetto quando visitavano una città62. Sono famosi i festeggiamenti per l’incoronazione di Martino I del 1397 e quelli celebrati per Ferdinando I nel 1412. Una parte dei fasti napoletani del mese di febbraio del 1443 per Alfonso in Magnanimo si collega a questa tradizione. Questi brevi cenni sulla specificità della tradizione letteraria catalana medievale mettono in evidenza la centralità della vita di corte per gli sviluppi della lirica e della narrativa e il peso dell’amministrazione regia e della cancelleria nell’affermarsi della lingua catalana come veicolo espressivo adatto a tutti i registri. Alfonso IV, re di Napoli e promotore dell’Umanesimo meridionale, era l’erede del patrimonio testuale di questa tradizione. Dalle radici ghibelline del suo predecessore Pietro II, che regnò in Sicilia nel Duecento, al discorso politico dei cronisti catalani Desclot e Muntaner, alla poesia encomiastica di Ausiàs March e altri poeti catalani del Quattrocento, ai fasti dell’incoronazione, l’eredità letteraria catalana del re Alfonso IV illumina settori non trascurabili del suo contesto culturale. te il Bianco, ed. A. Annicchiarico et alii, Roma 1984; per quella moderna: Joanot Martorell, Tirante il Bianco, traduzione italiana di P. Cherchi, Torino 2013. 61. Cfr. il capitolo XXII del volume III della Literatura Medieval cit., pp. 107-161, di L. Badia. 62. F. Massip, A cos de rei. Festa cívica i espectacle del poder reial a la Corona d’Aragó, Valls (Tarragona) 2010. 18 ALFONSO D’ARAGONA E I GRANDI SCRITTORI CATALANI MEDIEVALI ABSTRACT Alfonso of Aragon and the Great Medieval Catalan Authors This paper shows that medieval Catalan literature reached a peak of quality during the reign of King Alfonso IV (1416-1458), especially since his becoming ruler of Naples in 1442. Both Ausiàs March – the most renowned medieval Catalan poet – and Joanot Martorell – author of chivalric romance Tirant lo Blanc – were King Alfonso’s courtiers. Many other authors connected with the sovereign also flourished in the first half of the fifteenth century, including Andreu Febrer, Jordi de Sant Jordi and Jaume Roig. As evinced in the recent three volumes of the Història de la literatura catalana. Literatura medieval (2013-2015), directed by the author of this paper, medieval Catalan literature is characteristically tied to the kings of the Crown of Aragon, who showed preference for the lyric of the troubadours and chronicle writing. Lola Badia Universitat de Barcelona lola.badia@ub.edu 19 Francesco Tateo MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NEI SECOLI DELLA LETTERATURA ITALIANA Le prime stagioni della storia culturale del Mezzogiorno, la normanna, la sveva, l’angioina e l’aragonese hanno rischiato a turno – com’è noto – l’oblio per la discontinuità della tradizione, ogni volta interrotta dalla svolta politica successiva e dalla conseguente rimozione storiografica. In realtà la fama di Alfonso il Magnanimo, favorita da quel soprannome, ma sfavorita dalla rimozione dovuta al lungo e ingombrante impero castigliano, che segnò una frattura dal Mezzogiorno aragonese, non si è potuta eclissare fino a farci parlare di oblio. Eppure, se pensiamo alla statura che il personaggio ha assunto nell’ultimo secolo in seguito al riconoscimento dell’Umanesimo napoletano come una stagione fondamentale del Rinascimento italiano, la risonanza del suo nome, nei secoli della letteratura italiana, al di là delle consuete lodi del mecenatismo, non è stata pari all’importanza che questo volume finalmente gli attribuisce. Il destino di Alfonso nella storiografia letteraria era legato al destino di un secolo sottovalutato anche per la sua incerta identità, fra la vetta più alta del Medioevo qual è il Trecento delle tre corone e i fasti del Rinascimento più maturo. A parte la denominazione di «secolo senza poesia», il grande fenomeno culturale della nascita delle signorie ha subìto la sorte che hanno i primordi rispetto alle realtà pienamente affermate, come il vero e proprio Rinascimento dei primi decenni del sec. XVI, e ha dovuto attendere l’identificazione dell’Umanesimo italiano con i fasti delle corti quattrocentesche per acquistare un’identità. Più ancora ha dovuto attendere il Mezzogiorno gravato da un’illustre tradizione egemone di carattere nazionale; ed è sintomatico che l’attesa fu colmata da uno straniero del Nord Europa sensibile alla storia del Mezzogiorno. Alfredo Gothein, infatti, quasi contemporaneamente alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, ossia la voce più autorevole del secolo XIX, che faceva poggiare il Rinascimento su colonne toscane, colmò un vuoto ritrovando nel suolo napoletano una diversa tradizione che avrebbe permesso di moltiplicare nella prospettiva storiografica i centri originari del RinaL’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 FRANCESCO TATEO scimento1. Si deve a quella svolta, al genere nuovo di materiale talora disperso dopo la sua rivisitazione da parte dello storico tedesco, e di cui generazioni di studiosi si sarebbero avvalsi direttamente o indirettamente, il riconoscimento di una pari dignità fra il revival latino dell’età aragonese e la parallela rinascita del volgare, che nella storia nazionale rappresentava agli occhi dei più il cruciale passaggio, o la frattura, fra i due secoli. E Alfonso, fautore dell’umanesimo napoletano, prevalentemente latino, degli anni Quaranta e Cinquanta non poteva che figurare al centro di quella svolta. L’opera di Gothein fu ovviamente conosciuta in Italia dopo qualche decennio da quando De Sanctis scriveva: «Ai letterati fama, onori e quattrini; ai principi il fumo degli incensi, tra i quali sono giunti a noi papa Nicolò V, Alfonso il Magnanimo etc.»2. Il critico napoletano così definiva il rapporto fra cultura e potere, mentre accennava alla resistenza del latino umanistico nella periferia meridionale del Rinascimento, e si apprestava a narrare la più felice Rinascita della tradizione volgare segnata dal pur discusso Poliziano3. L’espressività del linguaggio desanctisiano non lascia dubbi sul significato riduttivo di quel giudizio, che coinvolgeva l’Italia delle corti e non poteva tralasciare qualche voce di artigiano della parola, come Sannazaro, che però non apparteneva propriamente al regno di Alfonso. Costui, in effetti, relegato al ruolo di principe, fondatore di una dinastia che non valeva la pena ricordare nei suoi sviluppi, non era più che un nome, tutt’altro che quel grande personaggio scelto da Vespasiano da Bisticci per la serie biografica degli uomini illustri e accostato a Nicolò V, non per i fumi degli incensi, ma per il contributo dato al rinnovamento del classicismo anche con le traduzioni dal greco4. A De Sanctis sfuggivano, o egli se le faceva volentieri sfuggire, l’importanza della svolta favorita da Alfonso rispetto alla tradizione angioina e le conseguenze di quell’innesto della tradizione spagnola nella cultura italiana e in particolare del Mezzogiorno che avrebbe segnato, con 1. E. Gothein, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, cur. T. Persico, Firenze 1995. 2. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cur. N. Cortese, Napoli 1936, p. 387. 3. Sui limiti della letteratura quattocentesca per il critico tardoromantico rimando a F. Tateo, Il realismo critico desanctisiano e gli studi rinascimentali, in De Sanctis e il realismo, Atti del convegno (Napoli, 2-5 ottobre 1977), cur. G. Cuomo, Napoli 1978, 399-427; Id., L’esemplarità imperfetta del Poliziano: De Sanctis fra Carducci e Croce, in Angelo Poliziano e dintroni. Percorsi di ricerca, cur. C. Corfiati e M. de Nichilo, Bari 2011, pp. 9-28. 4. Con un’iperbole su questo argomento si conclude la biografia composta da Vespasiano: «Et se fussi istato un altro papa Nicola et uno re Alfonso non restava appresso dei Greci libro ignuno non fussi tradutto», Vespasiano da Bisticci, La vita di re Alfonso di Napoli, in La prosa dell’Umanesimo, cur. F. Tateo, Roma, 2004, pp. 423-441. 22 MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NELLA LETTERATURA ITALIANA le sue luci e le sue ombre, i secoli successivi, e che a Benedetto Croce parrà invece un argomento da frequentare in una prospettiva non più romantica e patriottica, ma di storia della cultura e del costume5. Non è un caso che quasi insieme Gothein un altro storico del Rinascimento Italiano, anch’egli di estrazione germanica, Burckhardt, avesse raccolto dalla tradizione, per adattarla alla sua ambigua celebrazione della Rinascita laica e dell’arte dello Stato, l’idea di Alfonso come un rappresentante del nuovo principato (fra le «tirannidi minori»), la cui più significativa virtù sarebbe stata la prodigalità, in realtà un vizio che lo avrebbe condotto a gravare di tasse i sudditi6. Lo storico svizzero, che iniziava il recupero del Rinascimento italiano con un modello etico e un gusto diverso da quello romantico, non si era fermato – come farà De Sanctis – al nome di Alfonso, ma, seguendo forse gli storici della congiura dei Baroni aveva evocato la crudeltà di Ferrante e Alfonso II, senza che ciò giovasse granché, nel confronto, alla celebrazione del Magnanimo, perché la dignitosa affabilità di Alfonso è ricordata piuttosto come incondizionata benevolenza da parte dei sudditi, disposti ad accettare anche i suoi difetti, e la famosa committenza della traduzione della Ciropedia, così importante per l’ideale formazione del nuovo principe, è menzionata più che altro per le troppe monete d’oro sborsate7. Quando Giovanni Pontano, che di quella formazione del principe fu un’autorità, concludeva il suo programma di rielaborazione dell’etica aristotelica, negli ultimissimi anni del Quattrocento, proprio con un trattato sulla ‘Magnanimità’, intendeva riassumere, tesoreggiando risolutamente un passaggio della Nicomachea che non reggeva più al confronto con l’etica cristiana dell’umiltà, il nuovo corso della cultura che noi chiamiamo umanistica. La Commedia di Dante, sposando la prospettiva cristiana, aveva attribuito la magnanimità a personaggi infernali che sono grandi in una prospettiva limitatamente o erroneamente pagana8. Il magnanimo di 5. B. Croce, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari 1917. 6. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1968 (ed. or. Basel 1860), pp. 35-38. 7. Se avesse potuto tener conto del fatto che in realtà Alfonso ritardò e dovette essere sollecitato per sborsare quella ricompensa, come oggi è noto, lo storico avrebbe potuto testimoniare per Alfonso entrambi gli eccessi contrari alla moderazione, la prodigalità e l’avarizia. 8. La magnanimità è attribuita da Dante agli epicurei, esplicitamente a Farinata (Inf. X 73), e indirettamente ai violenti contro Dio come Capaneo (XIV 51-72), e a un prevaricatore come Ulisse (XXVI 112-120). Non sempre si riflette sulla circostanza che si tratti di dannati, che sono all’inferno proprio per questa errata presunzione di grandezza. 23 FRANCESCO TATEO Aristotele è invece colui che è grande con la consapevolezza di esserlo, senza la quale la sua virtù equivarrebbe al difetto del pusillus. Pontano ripete, nella definizione su cui fonda il suo trattato della magnanimità, l’opinione aristotelica vantando il suo modello come altre volte non ha nascosto la sua volontà di recuperare la prospettiva laica degli antichi9. Egli si preoccupa infatti di dimostrare come la magnanimità possa conservare il giusto mezzo della teoria aristotelica, ed essere quindi una virtù, pur potendo sembrare, assieme alla magnificenza, un eccesso della liberalità e quindi un vizio. Il modello di Alfonso non aveva una presenza assoluta nel trattatello sul principe dedicato all’educazione di Alfonso II10, dove l’idea del principe ideale, fortemente caricata del senso aristotelico del Magnanimo, costituisce un modello ancora da costruire, come ci fa intendere il confronto con l’epistola petrarchesca sull’Institutio regia, pur tacitamente richiamata11, che si chiudeva con l’indicazione di Roberto d’Angiò al suo giovane nipote. Pontano, allora, quando le ceneri di Alfonso erano ancora calde, lo ricordava al nipote Duca di Calabria per il merito di aver onorato la letteratura antica anche nel pieno delle sue funzioni di principe, per non essersi scoraggiato nella sconfitta, ma non lo richiamava per il complesso della sua personalità regale come un modello perfetto, e soprattutto come un modello specifico di magnanimità. D’altra parte non è pensabile che Pontano non avesse in mente, trattando specificamente della magnanimità in uno dei suoi ultimi scritti, la figura di colui che aveva ricevuto quell’appellativo, e dal quale era dipeso l’inizio della sua carriera di uomo di corte; colui del quale Bartolomeo Facio aveva celebrato il trionfo e il suo maestro Panormita le virtù che tutte insieme facevano quel soprannome, la liberalità, la clemenza, la cortesia, la fortezza etc.; e se egli stesso nella trattazione dell’etica aveva introdotto qualche ricordo di grandezza spesa in atti di modestia12, alla maniera di Traiano, in occasione di un libro intitolato proprio alla magnanimità il ricordo dell’antifrastica grandezza o umiltà cristiane non ha alcuno spazio. Alfonso è menzionato in un parallelo con Ferdinando suo padre, il quale 9. Pontano, De magnanimitate, ed. F. Tateo, Firenze 1969, pp. 11-21 (VII-XVI); cfr. Aristotele, Etica, VII 1. 10. G. Pontano, Il principe, cur. G. M. Cappelli, Roma 2003. 11. Cfr. F. Petrarca, Fam., XII 2, dove il tema iniziale dell’adolescens pieno di virtuali virtù da consolidare attraverso l’educazione è una versione del topos del puer-senex, richiamato anche nell’aneddoto ciceroniano di Scipione capace di reggere una carica pubblica senza avere ancora gli anni per farlo, con cui s’inizia il trattatello pontaniano (cfr. Cicerone, De off., 2, 44, e Cappelli, note a Pontano, De principe cit., pp. 2-3). 12. Pontano, De beneficentia, 6, in I trattati delle virtù sociali, cur. F. Tateo, Roma 1999. 24 MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NELLA LETTERATURA ITALIANA aveva avuto la grandezza d’animo di rinunciare a una parte del regno per trasmetterlo al fanciullo legittimo erede; Alfonso aveva invece con grandezza d’animo affrontato le difficoltà per insediarsi nel nuovo regno di Napoli13; ma la magnanimità era in questo secondo caso piuttosto fortezza, coraggio, come nel primo degli aneddoti del Panormita, quantunque la rinuncia e il coraggio siano entrambe forme di magnanimità (lo aveva ben illustrato Boccaccio nella decima giornata del Decameron). Fatto si è che il libro scritto da Pontano alla fine del secolo, dopo quarant’anni da quegli avvenimenti, intitolato alla magnanimità, era dedicato ad un allievo, aristotelico di una nuova generazione, Andrea Matteo Acquaviva, che esprime in toto il concetto di magnanimità e magnificenza nell’autentico senso pontaniano. La fisionomia di Alfonso quale magnanimo appare saltuariamente nei ricordi pontaniani, ma non assume un valore paradigmatico, anzi non scompaiono né il fallimento economico di Alfonso in seguito alla troppa liberalità14, né la notizia della spoliazione dei sudditi danarosi fatta col pretesto di multarli: altro che magnanimità. I silenzi, o i mezzi silenzi, non sono necessariamente delle testimonianze (come in certa filologia), ma hanno comunque un significato. Gli ultimi anni di Pontano segnano già un distacco dalla tradizione aragonese. Egli non sceglie nella sua opera storiografica i tempi di Alfonso I, certo perché li aveva già narrati Facio, non dedica ad Alfonso un’opera specifica, certo perché lo aveva già fatto il Pamormita in quella sorta di biografia che è la raccolta aneddotica del De vita et moribus Alfonsi regis, ma nel De bello Neapolitano, che è in sostanza la storia del trionfo di Ferrante, una storia scritta o almeno finita di scrivere quando il Re era scomparso e il suo segretario poteva permettersi di dire che egli non era stato in pace così valido come lo era stato in guerra; che non è un elogio di Ferrante come parrebbe, ma sembra anticipare il diffuso giudizio sulla diversa natura dei due re, entrambi validi guerrieri, ma uno magnanimo, l’altro feroce e vendicatore. Ma lo storico non lo dice: forse perché l’immagine di Alfonso si era già un poco appannata in quegli anni di crisi che preludevano all’imminente scomparsa del Regno aragonese e registravano il distacco dell’umanista dalla politica attiva e dal ricordo di tutta la sua vicenda politica. L’opera storiografica era per lui, in linea con l’interesse principalmente retorico dei tardi anni, soprattutto l’esempio di un genere letterario che completava la sua esperienza di scrittore a tutto tondo, per il quale aveva affrontato nell’ultimo decennio del secolo una riflessione teorica rilanciando, ma superando, il mito liviano che faceva della storia un’epica in prosa. Livio ricor13. Pontano, Il principe cit., p. 18. 14. Pontano, De liberalitate, 10, in I trattati cit. 25 FRANCESCO TATEO dava, sì, le più care letture di Alfonso, eppure nella trattazione inclusa nell’Actius, dove soprattutto si definiscono i confini delle arti della parola, il modello liviano è ribadito, ma integrato con l’esempio di Sallustio più vicino alle specifiche virtù della storiografia, quali la celeritas stilistica e la scelta monografica. Anche nella storiografia, il modello liviano e cesariano, che aveva accompagnato il trionfo di Alfonso, cedeva il passo a Sallustio e Tacito, e Tristano Caracciolo non sceglie, fra le biografie, quella di Alfonso, ma quella più drammatica di Ferrante e ricorda appena Alfonso, scelto da Giovanna II come suo erede15. Insomma, sarebbe paradossale dire che il teorizzatore della magnanimità si sentisse lontano ormai dalla figura storica di Alfonso il Magnanimo e che il suo atteggiamento possa rientrare in quell’oblio di cui abbiamo parlato: ma in effetti era passata una generazione e la magnanimità aveva assunto nella prospettiva pontaniana un colore più adeguato alla rinascita dell’antico che non alla pietas con cui poteva confondersi proprio nel caso di Alfonso, che lui ben conosceva come devoto cristiano impregnato di cultura monastica. La dedica a Consalvo del De fortuna, che sono le ultime pagine scritte da Pontano prima di morire16, segnano il distacco dalla memoria aragonese e forse un’anticipazione della scelta del Giovio17. Circa un decennio prima, la biografia di Alfonso stesa da Vespasiano da Bisticci aveva in effetti interpretato la sua magnanimità come la pietas dei Cristiani, e sembrava sfatare lo sforzo fatto da Facio e dal Panormita per rappresentare il re in guerra come uno Scipione e in pace come un Traiano18. Il segretario di Ferrante aveva conosciuto direttamente Alfonso nella sua giovinezza e sapeva bene come egli non avesse abbandonato le vesti di un medievale osservatore dei riti religiosi, e che con tutta 15. Cfr. T. Caracciolo, De Ferdinando, qui postea Rex Aragonum fuit, in G. Gravier, Raccolta di tutti i più rinomati scrittori del Regno di Napoli, Napoli 1769, VI, pp. 142151. Sul carattere della storiografia umanistica nel Regno di Napoli rimando a Tateo, I miti della storiografia umanistica, Bulzoni, Roma 1990, pp. 137-180. Cfr., anche per una esaustiva bibliografia, il discorso, ricco di argomenti, di M. Sarnelli, «Historica sinceritas», mitopoiesi della figura protagonistica e tradizione classica nella storiografia dell’età aragonese. Appunti critici, in «Atti e memorie dell’Arcadia», 3 (2014), pp. 7-68. 16. Cfr. Pontano, De fortuna, cur. F. Tateo, Napoli 2012, pp. 17-18. 17. P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, cur. F. Minonzio, trad. di A. Guasparri e F. Minonzio, Torino 2006. 18. «Aveva questo, d’essere volto in ogni suo atto a fare tutte quelle cose che s’appartengono a ogni buon cristiano, in prima, d’essere piatosissimo in verso di poveri, religiosissimo in udire ogni dì tre messe, et questo non mancava mai, dua piane, et una cantando, et osservava questo costume dell’udire ueste messe in forma che nulla l’arebe mai lasciato», Vespasiano, La vita cit., p. 423. 26 MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NELLA LETTERATURA ITALIANA la sua opera di mecenatismo non poteva rappresentare in toto la nuova cultura, rimanendo nella più benemerita preistoria di essa; anche se nella definizione del principe non era mancato un accenno realistico all’utilità della religione per il consenso dei popoli, impropriamente assunta come un’anticipazione machiavellica19. La vita di Alfonso, tracciata da Vespasiano da Bisticci nei primi anni Ottanta, è un panegirico in tutti i sensi, al di là del fatto che il grande biografo scegliesse di privilegiare la vita privata giacché quella pubblica era stata narrata da Facio. Dal ricordo della devozione con cui Alfonso lavava il Giovedì santo i piedi dei poveri, che apre la serie degli atti di pietà che gli erano consueti, al racconto della sua morte serena con tutte le pratiche confessionali, che pare un capitolo dell’arte di morire di cui parla Alberto Tenenti per i secoli medievali, la vita del Magnanimo è quella di un santo, con alcuni riferimenti al suo culto degli autori classici e alla necessaria formazione letteraria di un re, che non intacca l’immagine di un temperamento squisitamente religioso, arricchito da questi meriti culturali che potrebbero anche riflettere l’ocium della lettura monastica. Si pensi che una cronaca aquilana dall’anno 1442 al 1485, due date che corrispondono all’inizio del regno di Alfonso e all’apice del dominio aragonese, alle soglie della congiura dei baroni, si preoccupava di annotare che Alfonso nella chiesa dell’Aquila si era inginocchiato davanti all’altare, anche se non lo aveva baciato. Anche Angelo di Costanzo, che non sarà tenero con i successori di Alfonso, annota il consenso che si guadagnò Alfonso con la clemenza e la magnanimità verso la «povera turba» e i ribelli, tanto che «popoli e baroni che stavano dubbi s’inchinarono alla parte del Re»20. Vespasiano non conosceva il compendio della storia del regno di Napoli, che di lì a poco avrebbe scritto in volgare Pandolfo Collenuccio, certo anche sulla scia di Facio, ma proseguendo la storia fino alla morte del re e chiudendo l’intero compendio con un sesto libro dedicato tutto ad Alfonso, di cui è tracciato alla fine un magnifico medaglione come immagine, essenzialmente laica e umanistica del principe ideale. Quella conclusione, che Collenuccio volle icasticamente lasciare nel testo poi pervenuto alle stampe, pur avendo continuato a scrivere del regno di Ferrante in pagine ritrovate più tardi, ha un preciso senso ideologico21. A Collenuccio interessava rappresentare il Mezzogiorno come il regno della ribellione, mai in pace, al 19. Cfr. Pontano, Il principe cit., p. 6. 20. Angelo di Costanzo, Istoria della città e del Regno di Napoli, in Gravier, Raccolta cit., III, p. 452. 21. P. Collenuccio, Istoria del Regno di Napoli, in La prosa dell’Umanesimo, cur. F. Tateo, Roma 2004. 27 FRANCESCO TATEO pari dei campi Flegrei scossi dai giganti fulminati da Giove: aveva sollevato la figura di Federico II a castigatore dei ribelli, scagionandolo anche dalla fama di oppressore e di nemico della Chiesa. Gli andava perciò a genio la figura di Alfonso come conclusiva di una storia segnata dallo strapotere dei baroni e dalla debolezza del governo centrale, ma soprattutto perché Alfonso aveva gratificato Ercole d’Este, il signore dello stesso Collenuccio, con l’elogio del quale termina in sostanza questa prima storia in volgare del Mezzogiorno. Se ne accorgerà il Tiraboschi22, che vide acutamente la storia di Collenuccio anzitutto come funzionale alla celebrazione estense. Il medaglione di Alfonso il Magnanimo fatto da Collenuccio si conclude infatti con la menzione, apparentemente secondaria, di Ercole d’Este, nel quale si sarebbero rinnovate le virtù ideali di Alfonso, e del quale Alfonso si era fidato, laddove Ferrante avrebbe dato il ben servito al condottiero ferrarese. La storiografia successiva – si sa – quando è indirizzata alla celebrazione di Alfonso dipende molto dal Collenuccio, fino al Giannone che lo fa con altro spirito, come vedremo. Del Collenuccio non si servono ovviamente gli scrittori del Cinquecento che non lo conoscono, né per altro verso se ne serve il Muratori, al cui ordinamento annalistico non giovavano quella formula monografica e il suo minore interesse per il Mezzogiorno. Concependo la sua Storia di Napoli in polemica con il Collenuccio, ma con l’esperienza della fine disastrosa del regno Aragonese prevista dallo storico ferrarese, Angelo di Costanzo, al di là della disinformazione sul regno angioino che rimprovera alla storia del predecessore, pur non smentendo l’immagine positiva di Alfonso, si poneva in una prospettiva completamente diversa, perché intendeva rivalutare la dinastia angioina che aveva garantito la sopravvivenza delle virtù cortesi della tradizione provenzale. Sicché, se Collenuccio vedeva il primo re aragonese come un personaggio ideale che emergeva dal buio di una storia negativa del Regno al quale era venuta meno la guida forte e unitaria di Federico II, ossia di un altro eroe solitario, il di Costanzo vedeva il primo re aragonese come l’ultima, grande manifestazione di quella stessa tradizione cortese che egli celebrava (gran re celeberrimo per infinite virtù, magnificente nel pubblico e splendido nel privato, desideroso di pace – anche la passione per Lucrezia d’Alagno racconta come segno di umanità e cortesia) e vedeva il tracollo della dinastia aragonese come la conseguenza di un tralignamento iniziato col figlio bastardo di Alfonso il Magnanimo (astuto, finto, perversa natura), e col bellicoso Alfonso II, nemici della nobiltà, eredi della ferocia del sovrano svevo. È un momento critico non solo della storia meridionale fra Quattro e 22. G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, V, Roma 1784, p. 86 (l. III, LVI). 28 MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NELLA LETTERATURA ITALIANA Cinquecento, ma un momento critico della sua storiografia. I vecchi miti vengono sostituiti in forza del nuovo gusto che guarda specialmente a Tacito per il realismo biografico e il vigore celebrativo. E il Panegirico di Traiano ritrova il suo clima appropriato. Tristano Caracciolo e Giovio non dedicano una biografia ad Alfonso il Magnanimo: l’uno alla ricerca di personaggi da trattare con stile drammatico preferisce Ferrante, l’altro scopre in Consalvo di Cordova, Alfonso d’Este e Leone X i rappresentanti di una nuova età dell’oro. E se il Cantalicio, ancora legato al ricordo della Napoli aragonese, trova nella Gonsalvia il modo di richiamare la pace portata a suo tempo dal trionfo di Alfonso il Magnanimo, è per richiamare un precedente della nuova stagione inaugurata dai cugini spagnoli23. Il Cinquecento guarderà più agli aspetti negativi della tradizione aragonese, che allo splendore del suo magnanimo inizio. E mentre Alfonso I entrava nel mito e nella narrativa aneddotica e alimentava la nuova editoria mediante la traduzione antologica del Panormita ad opera di un narratore in volgare come Lodovico Domenichi24, la vena tragica propria dell’epoca suggeriva un libro di denuncia come La congiura dei Baroni di Camillo Porzio25, che oscurerà nell’opinione comune i fasti della dinastia aragonese, complice la diffusa propensione celebrativa verso l’attuale dominazione spagnola, portatrice di pace e di rispetto per le famiglie aristocratiche sopravvissute all’intransigente centralismo aragonese. Quello del Seicento sarebbe stato il clima meno adatto al recupero della tradizione alfonsina. Al di là della difesa della storia del Regno, la profusa narrazione di Giovannantonio Summonte impegnato nella ricostruzione del mito nazionale napoletano non poteva tacere la grande fama di Alfonso il Magnanimo, ma non aggiungeva alcuna novità al resoconto più o meno scrupoloso degli eventi. Francesco Capecelatro, funzionario del Viceregno e narratore della storia contemporanea, riscriveva la storia di Napoli fino alla morte di Carlo d’Angiò per ricordare i suoi avi, e saltava a piè pari i tempi aragonesi26. Lo spazio dedicato ai tempi di Alfonso dall’Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone inaugura invece una stagione storiografica consapevole del significato propriamente politico della svolta aragonese27. Tralasciando volutamente il medaglione celebra23. Cantalicio, Gonsalvia, l. III, in Gravier, Raccolta cit., VI, p. 62. 24. L. Domenichi, Detti et fatti de diversi signori et persone private, i quali comunemente si chiamano facetie et burle, raccolti per la pubblicazione, Venezia 1562. 25. C. Porzio, La congiura dei Baroni, introduzione di F. Pittorre, prefazione e note storiche di F. Torraca, Venosa 1989. 26. Francesco Capecelatro, Historia della città e regno di Napoli, Napoli 1640. 27. P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, cur. A. Marongiu, V, Milano 1970, ll. XXIV-XXXI. 29 FRANCESCO TATEO tivo soprattutto connesso con la biografia anche privata del principe, con la sua pietà e il suo amore per la cultura, Giannone osserva invece cursoriamente la ricaduta politica della sua magnanimità, ossia la fiducia in lui riposta dai consiglieri della regina Giovanna; la scaltrezza con cui Alfonso dichiara di affrontare l’impresa solo per aiutare la Regina, non per mire espansionistiche, e finge di voler consultare il Consiglio dei baroni di cui poi trascura il parere negativo facendo quel che voleva, risponde ad un’attenzione verso i meccanismi della politica al di là del giudizio morale sulla generosità o avidità del principe; o sulla sua ‘fortezza’, com’era avvenuto nel Panormita o in Pontano, dove si riflette sulle avversità come stimolo alla virtù, o sull’«ora del libro» come un antidoto all’impegno politico e militare28; la prudenza del temporeggiare è guardata come un’arte necessaria, non come una furbizia; il vizio della liberalità che costringe Alfonso a gravare i sudditi, è annullato dal catalogo delle sue virtù29. Ma il proemio al libro XXVI della storia di Giannone è tutto dedicato all’interpretazione storica della svolta data da Alfonso: la fortuna volle, ma fu opera di Alfonso, che il regno di Napoli «non fosse trattato come regno straniero, né reputato forse come una provincia del regno d’Aragona»; Alfonso fermò in Napoli la sua sede regia (un motivo analogo a quello per cui lo storico aveva esaltato Federico cancellando la tradizione ostile all’imperatore), «e non si vide mai tanta floridezza e splendore quanto negli anni del suo regnare». Il riferimento critico, forse polemico, all’attuale situazione politica del Regno è evidente ed è interessante il riferimento critico, questa volta, al concetto di nazione a proposito di tutta la discendenza aragonese: «il regno ebbe insino al re Cattolico proprii principii, anzi più che nazionali; poiché non avendo essi in altre parti altri Stati o dominii, il regno di Napoli era la loro unica sede e la loro patria»30. È già la prospettiva con la quale nei giorni nostri guardiamo a quella unità culturale segnata nel Mezzogiorno dall’Umanesimo, e guardiamo allo stesso Umanesimo come un movimento che ha favorito, più che ostacolato, la formazione delle culture nazionali. Si può dire che con il Muratori si concluda la tradizione di Alfonso il Magnanimo come personaggio mitico, prima della diffidenza illuministica e romantica per i fasti delle corti rinascimentali e prima che la storiografia positivistica rivalutasse con scrupolo erudito la tradizione del 28. Ibid., XXV 3, p. 70 (ma anche in questo caso il Giannone è debitore verso la Istoria del Regno di Napoli d’incerto autore, pubblicata in Gravier, Raccolta cit., IV (cfr. pp. 114-115). 29. Ibid., XXV 5, p. 137. 30. Ibid., XXVI 1, pp. 111-112. 30 MEMORIA E OBLIO DI ALFONSO NELLA LETTERATURA ITALIANA Regno. Il criterio annalistico e il sapiente equilibrio tenuto fra le regioni italiane nel riesumare le testimonianze storiografiche inducono Muratori a fissare la figura di Alfonso principalmente nell’anno dell’avvento al trono e in quello della morte. Il principe, presentato laconicamente come di gran mente e sagacità31 e di non minore fortuna, non è il protagonista di quella complessità di vicende dimostrative delle sue virtù di fortezza, temperanza, clemenza, magnanimità, cultura, ma è appunto un principe accorto e fortunato, che evita il saccheggio e allestisce dispendiose nozze per il figlio, ostacolato perché si pensava volesse ampliare il suo regno. In quelle stesse pagine la figura di Leonello d’Este meritava, da parte di Muratori, ben altro riconoscimento della sua humanitas, un vero e proprio elogio. L’equanime consuntivo di Muratori sembra il modello del passo desanctisiano che abbiamo visto all’inizio, indirettamente ma obbligatoriamente dettato da una indubbia fama, senza ancora l’esplicita punta critica dello storico ottocentesco: «Principe di gran fama a’ suoi tempi non meno per la felicità della sua mente e della sua gran prudenza che pel valore, per la liberalità, per l’amore delle lettere e dei letterati, che non mancarono di esaltar le sua lodi»32. Ricordiamo De Sanctis: ai letterati fama, onori e quattrini; ai principi il fumo degli incensi, tra i quali ci sono giunti i nomi del papa Nicolò V, di Alfonso il Magnanimo etc. Eppure la fonte prediletta da Muratori, la Cronica di sant’Antonino, gli permetteva di esplicitare come non mai la sua diffidenza, direi quasi settentrionale, con la memoria di un corredo di vizi del re meridionale: «Ma cotante sue belle doti non andarono disgiunte da una sfrenata ambizione, da una scandalosa lascivia e da una smoderata indiscretezza in gravare di taglie e gabelle i suoi popoli e dal voler fare da Papa nei suoi regni». Non possiamo oggi leggere senza un filo di ironia la notizia che forse senza ironia, ma certo con ambiguità, Muratori raccoglieva, riconoscendo la consapevolezza da parte di Alfonso, in punto di morte, di quel che egli stesso era stato in vita, quando aveva raccomandato al suo erede di «tenere un governo opposto al suo». In effetti la discrepanza fra il governo di Ferrante e quello Alfonso, finché l’interesse storiografico abbandonerà i parametri morali per concentrarsi sulla svolta storico-culturale, funzionò in vari modi, e in vari modi i posteri ne fecero argomento di elogio per Alfonso e di spregio, o di dimenticanza che è peggio, per la sua discendenza. Forse le doti umane dell’ultimo re, Federico, che pareva essere il pendent del primo, con in più l’apertura alla letteratura volgare, avrebbero potuto rap31. L. A. Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1750, IX, Napoli 1773, p. 125. 32. Ibid., p. 265. 31 FRANCESCO TATEO presentare un elemento di continuità nella memoria complessiva dell’età aragonese quale oggi la vediamo, ma gli eventi non diedero, al magnanimo Federico, il tempo di manifestarsi. Ho lasciato da parte l’argomento forse più interessante per quel che riguarda la biografia privata (ma non può essere mai privata quella di un principe) per non guastare uno dei più delicati racconti eruditi di Benedetto Croce, che sull’onda della curiosità positivistica e seguendo il suo nuovo gusto di storico degli uomini, ha ricostruito l’innamoramento di Alfonso per Lucrezia d’Alagno, rimasto nelle pieghe più nascoste della memoria storiografica33. Ma certo il ricordo della gentildonna, che pare rinnovasse con qualche non chiaro aspetto realistico la fama della pudica purezza dell’omonima eroina romana (non accettò di essere l’amante di Alfonso, perché il divieto opposto al divorzio del Re da parte del papa Callisto non le permise di diventare regina) aveva alle spalle un lungo silenzio, che ben corrisponde all’oblio storiografico che ho voluto soprattutto evocare. 33. B. Croce, L’amorosa storia di Madama Lucrezia in un’inedita cronaca quattrocentesca, in Id., Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 19532, pp. 206-219. ABSTRACT Memory and Forgetting of Alfonso in Centuries of Italian Literature Interrupted by political changes and subsequent historiographical silences, Southern Italy’s discontinuous historiographical tradition has damaged our memory of the Aragonese age. In spite of Alfonso the Magnanimous’s fame, his times and those of his successors have not been sufficiently valued in terms of their contribution to the Italian Renaissance. Only in the last century, a renewal in the study of Humanism has justly reassessed the contribution of the Alfonso and the early Aragonese age to the history of culture. The image of a king so religiously observant, both prodigal with and avid for tributes, and, at the same time, praised for his virtues, has often obscured his role as a great cultural innovator, promoter of Greek literary studies and humanistic culture at large. This paper examines the changes in several historiographical commonplaces and ideological points of view with regard to Alfonso’s legacy, up until two moments that are representative of different ethical and political attitudes, such as the publication of Muratori’s Italian Annals and that of Giannone’s Civil History of the Kingdom of Naples. Francesco Tateo Università di Bari francesco.tateo@uniba.it 32 Fulvio Delle Donne CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA TRA TRADIZIONE CATALANA E INNOVAZIONE UMANISTICA I. L’ORATORIA TRA NAPOLI E ROMA, TRA CATALOGNA E IMPERO Il 24 marzo 1452 l’imperatore Federico III, immediatamente dopo la sua incoronazione imperiale celebrata a Roma il precedente 19 marzo, venne a Napoli, a visitare Alfonso d’Aragona, il re che, in quegli anni, si presentava come il re più potente d’Italia e, probabilmente, dell’intera Europa1. L’evento dovette apparire piuttosto singolare: non era un re a far visita e a omaggiare un imperatore, ma, con una prassi che ribaltava la forma, esattamente il contrario. E Giannozzo Manetti, in una orazione pronunciata probabilmente nell’aprile di quello stesso 1452, non mancò di segnalarne l’eccezionalità: tibi de hac nova et inusitata et gloriosa visitatione apprime congratulamur… Antehac enim ita inusitatum et inauditum est imperatorem quendam, in summo presertim glorie cumulo ad novam coronationem constitutum, regem aliquem vel alium quemvis principem se ipso longe inferiorem visitasse et invisisse, ut nullis litterarum monumentis contineri et comprehendi videatur. Superiores nanque ab inferioribus non inferiores a superioribus videri et visitari consueverunt2. 1. Cfr. E. Lazzeroni, Il viaggio di Federico III in Italia (l’ultima incoronazione imperiale in Roma), in Atti e memorie del primo congresso storico lombardo, Milano 1937, pp. 271397, spec. p. 367. Una descrizione molto dettagliata del viaggio e della visita di Federico ad Alfonso è in Melcior Miralles, Crònica i dietari del capellà d’Alfons el Magnànim, ed. M. Rodrigo Lizondo, Valencia 2011, pp. 206-2013, dove viene fatta risaltare in ogni occasione la magnificenza del sovrano aragonese. 2. L’orazione è edita in S. U. Baldassarri - B. J. Maxson, Giannozzo Manetti, the Emperor, and the Praise of a King in 1452, in «Archivio storico italiano», 172 (2014), pp. 513-569, dove il passo citato è a p. 565. La traduzione del passo è: «ci congratuliamo moltissimo con te per questa straordinaria, insolita e gloriosa visita… Fino ad ora, infatti, è stato così inusitato e inaudito che un imperatore, specialmente quando, nel sommo dei fastigi della gloria, gli è stata apprestata la nuova incoronazione, si muovesse per venire a visitare e a trovare un re o un qualsivoglia altro principe, che è di gran lunga a lui inferiore, tanto che non sembra che se ne parli o lo si racconti in L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 FULVIO DELLE DONNE Giannozzo Manetti era stato inviato a Roma come ambasciatore della repubblica fiorentina, e forse si mosse al seguito del corteo imperiale che giunse fino a Napoli, dove incontrò nuovamente Alfonso, che già aveva avuto occasione di vedere ed elogiare in precedenti occasioni3. L’intento encomiastico appare evidente in ogni punto dell’orazione, dove ripetutamente si ricorda che Alfonso spicca su tutti i regnanti del suo tempo grazie alle sue molteplici virtù, vale a dire giustizia, liberalità, magnificenza, religiosità, temperanza, amore per le arti e le scienze, perizia militare e intelligenza. L’orazione, in effetti, ha un taglio e una struttura che la avvicinava molto a un panegirico. Lo schema compositivo sembra rispettare ciò che si riscontra, a livello teorico, nei precetti attribuiti a Menandro Retore, ovvero nei canoni della tradizione retorica greca del III-IV secolo, e, nella prassi, nei cosiddetti Panegyrici Latini, tornati lentamente in circolazione dopo la loro riscoperta avvenuta nel 14334. Secondo lo schema canonico, il discorso in onore del sovrano (βασιλικὸς λόγοϛ) che consiste in una serie di temi da sviluppare secondo un certo ordine, deve cominciare con l’elogio della patria e del popolo della persona lodata. I.1. Laus Alphonsi e Laus Hispaniae E, proprio come un panegirico, l’orazione di Manetti prende avvio con la lode della terra di cui Alfonso era originario, su cui egli si soffermava abbastanza a lungo, menzionando, tra le altre «laudabiles simul atque admirabiles eius provincie qualitates et conditiones», soprattutto la sua magnitudo, pulchritudo, salubritas e ubertas: tutti caratteri su cui scendeva in qualche dettaglio5. In particolare, poi, ricordava tutto ciò che quella terra produceva: frumento, vino, olio, metalli utili e preziosi, cavalli pregiati e, specialmente, imperatori: Traianus nanque et Adrianus, Theodosius et Archadius, Honorius et alter Theodosius omnes ab Hispania oriundi Romanorum imperatores fuere6. alcun testo letterario. Infatti, gli inferiori sono soliti venire a trovare e a visitare i superiori, e non il contrario». 3. Sui rapporti che intercorsero tra i due cfr. la ampia e dettagliata disamina di S. U. Baldassarri, Giannozzo Manetti e Alfonso il Magnanimo, in «Interpres», 29 (2010), pp. 43-95. 4. I canoni del genere sono presenti soprattutto in Menander Rhetor, Opera, ed. D. A. Russell - N. G. Wilson, Oxford 1981, con testo, traduzione inglese e commento. 5. Baldassarri-Maxson, Giannozzo Manetti cit., pp. 536-537. 6. Ibid., p. 537. «Traiano, infatti, e Adriano, Teodosio, e poi Arcadio, Onorio e il secondo Teodosio furono tutti imperatori romani provenienti dalla Spagna». 34 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA Giannozzo Manetti era autore che amava fare tesoro delle cose utili in cui si imbatteva nel corso delle sue dotte letture. Così, non dovette lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta che trovava in un’epistola che il suo amico e maestro Leonardo Bruni aveva indirizzato, probabilmente nel 1435, a Giovanni II re di Castiglia, tessendo le lodi della Spagna: Ab Hispania enim Traianus, ab Hispania Hadrianus, ab Hispania Theodosius, ab Hispania Arcadius, ab Hispania Honorius, ab Hispania alter Theodosius Imperatores Romanorum fuere; ut non minus vere quam eleganter a Claudiano poeta scriptum sit, provinciarum alias frumentum, alias ferrum, alias aliud quiddam mittere consuesse; solam vero Hispaniam imperatores imperio Romano dare. At quales imperatores?…7 Manetti, più che alla Laus Serenae di Claudiano (vv. 50-69), esplicitamente citata da Bruni come fonte8, dovette, in effetti, rifarsi al cancelliere fiorentino, come dimostra l’esatta riproduzione della sequenza degli imperatori menzionati. Tanto più che Manetti, quando trovava informazioni e argomenti che riteneva davvero buoni, non esitava a farvi ricorso più volte. E, nella particolare occasione del 1452, riusò, quasi con le stesse parole, tematiche a cui già aveva fatto ricorso nel corso di un’altra sua orazione, pronunciata in occasione del matrimonio tra Ferrante, il figlio di Alfonso, e Isabella di Chiaromonte, celebrate a Napoli il 30 maggio 1445, dove, dopo aver decantato le medesime risorse della regione iberica a cui abbiamo già fatto riferimento, pure elencava in maniera assolutamente identica gli antichi imperatori, ma aggiungeva: 7. Leonardo Bruni, Epistolarum libri VII, ed. L. Mehus, Florentiae, ex typographia Bernardi Paperinii, 1741, ep. VII 2, pp. 77-78 (rist. anast. con introd. di J. Hankins, Roma 2007). Dell’epistolario esiste ora anche una nuova edizione con traduzione francese a fronte: Leonardo Bruni Aretino, Letters familières, ed. L. Bernard-Pradelle, Montpellier 2014, dove il passo citato è a p. 188 del vol. II. Sull’epistola e la sua datazione cfr. anche F. P. Luiso, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, cur. L. Gualdo Rosa, Roma 1980, pp. 126-127. Luiso esclude la possibilità che tale epistola possa essere stata indirizzata ad Alfonso d’Aragona, come, invece, aveva ipotizzato G. Voigt, Il Risorgimento dell’antichità classica, ovvero il primo secolo dell’Umanesimo, Firenze 1897 (ed. or. Berlin 1893), I, p. 459. Traduzione: «tra gli imperatori romani, della Spagna fu infatti Traiano, della Spagna Adriano, della Spagna Teodosio, della Spagna Arcadio, della Spagna Onorio, della Spagna il secondo Teodosio; come è scritto in maniera non meno vera che elegante dal poeta Claudiano, alcune province furono solite mandare frumento, altre ferro, altre altro ancora; e solo la Spagna fu solita dare imperatori all’impero romano. Ma quali imperatori?…». 8. Cfr. P. Stacey, Hispania and royal humanism in Alfonsine Naples, in «Mediterranean Historical Review», 26/1 (2011), pp. 51-65: 56-57 ritiene che la fonte di Manetti, così come del Panormita, di cui parleremo dopo, sia sempre Claudiano. Le ricostruzioni e le contestualizzazioni culturali e ideologiche proposte in questo saggio sono, tuttavia, molto imprecise e superficiali. 35 FULVIO DELLE DONNE At quales imperatores? Nempe ut paucis notam et tritam historiam praetereamus, potentissimi, litteratissimi et humanissimi imperatores extitere9. La ripetizione dell’interrogativa «at quales imperatores?» non lascia adito a dubbi sul fatto che egli stava riusando l’argomento bruniano, adattandolo al contesto aragonese. Lo stesso tema Manetti avrebbe, del resto, reimpiegato nel 1457, anche nella seconda dedica della Vita Socratis et Seneca, ma in maniera più “politica”: Mihi enim de egregiis conditionibus tuis sepenumero cogitanti, talis tantusque videri soles, ut et genere et potentia et rerum gestarum gloria et virtutibus et eruditione denique ceteros nostri temporis principes longe superasse ac maiores tuos, non solum antiquissimos illos et clarissimos reges, sed Traianum etiam et Adrianum, Theodosium et Archadium, Honorium et alterum Theodosium, quos licet ex Hispanis parentibus nascerentur, Romanorum tamen imperatores fuisse non dubitamus, iam pridem adequasse videaris10. Qui il discorso si fa più chiaro: Alfonso viene inserito in maniera esplicita all’interno della linea evolutiva imperiale, che conduceva a lui partendo da Traiano. Il salto era compiuto, probabilmente perché, oramai integrato nel sistema di corte e lautamente compensato11, Manetti aveva avuto modo di adattare la sua matrice “repubblicana” a un filone ideologico “monarchico” ben sperimentato, nel frattempo, come vedremo, dal Panormita. I tempi, del resto, erano pienamente maturi. Proprio al 14521453 risale, probabilmente, l’avvio della realizzazione dell’arco trionfale del Castel Nuovo, che collegava immediatamente l’Aragonese agli antichi Cesari12; nel 1455, poi, Alfonso aveva commissionato allo scultore fioren9. L’orazione è inclusa nella raccolta De regibus Siciliae et Apuliae, Hannoviae, ex typis Wechelianis apud heredes Ioannis Aubrii, 1611, pp. 169-175: il passo è alle pp. 170-171, la frase citata è a p. 171. «Ma quali imperatori? Per passare con poche parole oltre una storia conosciuta e assai nota, furono gli imperatori più potenti, più istruiti e più colti». 10. Giannozzo Manetti, Vita Socratis et Seneca, ed. A. De Petris, Firenze 1979, p. 115. «A me, che andavo meditando spesso sulle tue egregie condizioni, sei solito apparire tale e tanto grande che non solo risulti superare di gran lunga per genere, potenza, gloria delle imprese ed erudizione gli altri principi del nostro tempo e i tuoi antenati, quei grandissimi e illustrissimi re, ma risulti pari anche a Traiano, Adriano, Teodosio, e poi ad Arcadio, Onorio e al secondo Teodosio, che, sebbene fossero nati da genitori della Spagna, tuttavia non dubitiamo che furono imperatori romani». 11. Cfr. Baldassarri, Giannozzo Manetti cit.; inoltre, J. H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli 1995 (ed. or. Princeton 1987), pp. 135-140. 12. Su tale datazione cfr. soprattutto R. Di Battista, La porta e l’arco di Castelnuovo a Napoli, in «Annali di architettura», 10-11 (1998-1999), pp. 7-21. 36 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA tino Desiderio da Settignano un gruppo di 12 teste di imperatori romani, probabilmente profili in basso-rilievo; e nello stesso anno egli fu ritratto da Mino da Fiesole allo stesso modo, come se fosse il tredicesimo imperatore della serie svetoniana13. I.2. Tradizione e innovazione ideologica di un topos epidittico In verità, la laus Hispaniae dovette essere un topos abbastanza ricorrente nella produzione letteraria di ambiente alfonsino. Già Angelo de Grassis, nella orazione che tenne in onore di Alfonso il 20 maggio 1443, quindi poco dopo la celebrazione del suo trionfo, usava lo stesso argomento, e, prendendo spunto, anzi prendendo gran parte delle espressioni dal panegirico di Pacato a Teodosio, diceva: Adde tot egregias civitates, adde culta incultaque omnia vel frugibus plena vel gregibus, adde auriferorum opes fluminum, adde radiantium metalla gemmarum. Hec durissimos milites, hec expertissimos duces, hec fecundissimos oratores, hec clarissimos vates parit. Hec divorum principum mater est, hec Traianum illum, hec Adrianum, hec Theodosium secundum ex matre Ytalico transmisit imperio14. Forse Angelo de Grassis non si rendeva ben conto della portata del messaggio che stava trasmettendo equiparando Alfonso ai Cesari antichi, come Traiano o Teodosio. Egli era esterno ai meccanismi della corte: veniva, in quel momento, dall’Italia settentrionale e, probabilmente, percepiva solo il riverbero delle discussioni che si stavano accendendo proprio in quel momento sulla rappresentazione del sovrano, e che avrebbero massicciamente contribuito alla creazione della figura alfonsina. Ovvero, se pure ne ebbe sentore, preferì sacrificare il messaggio più profondamente politico a quello retorico, “saccheggiando” le fonti panegiriche ancora 13. Cfr. F. Caglioti, Fifteenth-century Reliefs of Ancient Emperors and Empresses in Florence: Production and Collecting, in Collecting Sculpture in Early Modern Europe, cur. N. Penny, E. D. Schmidt, New Haven 2008, pp. 67-109; B. De Divitiis, Castel Nuovo and Castel Capuano in Naples: the Transformation of Two Medieval Castles into »all’antica« Residences for the Aragonese Royals, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 76 (2013), pp. 441-474: 454; J. Barreto, La majesté en images. Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon, Rome 2013, pp. 60-63. 14. Angelus de Grassis, Oratio Panigerica dicta domino Alfonso, ed. F. Delle Donne, Roma 2006, p. 6 (V 3-5). «A ciò si aggiungano tante egregie città, i campi incolti e coltivati, tutti pieni di messi o di bestiame, le risorse dei fiumi auriferi, le miniere di splendenti gemme. Genitrice di soldati vigorosissimi, di comandanti espertissimi, di oratori facondissimi, di famosissimi poeti, questa è madre di divi principi, questa dal suolo materno consegnò all’impero italico quei grandi Traiano, Adriano, Teodosio secondo». 37 FULVIO DELLE DONNE ignote15. La sua, in qualche modo, rappresentò una “occasione mancata”; un’occasione, che, invece, non si lasciò sfuggire il Panormita, che usò e amplificò il topos encomiastico in quel testo storico-aneddotico in forma di speculum principis che è il De dictis et factis Alphonsi regis. L’opera, che ebbe una gestazione piuttosto lunga, ma che fu ultimata probabilmente nel 145516, intendeva raffigurare Alfonso come il re virtuoso per eccellenza, ovvero come il sovrano chiamato al suo incarico per le sue ineludibili qualità personali e – conseguentemente, anzi intrinsecamente – per volontà suprema. Ogni cosa detta o fatta da Alfonso assume un assoluto valore esemplare, ma, probabilmente, una delle parti più esplicitamente significative è costituita dal proemio del quarto e ultimo libro, dove l’argomentazione mira a esaltare Alfonso come il sovrano perfetto, che somma in sé sia la suprema dignità derivante dall’appartenenza a un’antica stirpe, sia il possesso delle più alte virtù, che lo rende equiparabile agli imperatori più illustri della storia17. Lì inizia con il richiamo alla grandezza dell’impero di Roma e dell’Italia: consueverunt transmarinae provinciae sua quaeque Romae Italiaeque sufficere. Sicilia insularum celeberrima frumentum zucharumque, Sardinia coria ac caseum, vinum Corsica, Ebusus salem, atque aliae alia18. L’assimilazione tra Roma e l’Italia è sorprendente, ma è qui che ha avvio lo scarto che distanzia la celebrazione ideologico-programmatica del Panormita dalle più occasionali orazioni di Giannozzo Manetti (sia quella del 1445 che quella del 1452) e di Angelo de Grassis (del 1443). L’as15. A Napoli non c’era nessuno, in quel momento, che li avesse letti e che, quindi, potesse riconoscerli, neppure Lorenzo Valla. Per approfondimenti sui Panegyrici Latini e la loro diffusione nel XV secolo si consenta il rimando a F. Delle Donne, Letteratura elogiativa e ricezione dei Panegyrici Latini nella Napoli del 1443: il panegirico di Angelo de Grassis in onore di Alfonso il Magnanimo, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 109/1 (2007), pp. 327-349. 16. Cfr. G. Resta, Beccadelli Antonio, detto il Panormita, in Dizionario biografico degli Italiani, VII, Roma 1970, p. 404; G. Ferraù, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meridionale, Roma 2001, pp. 57-58. 17. Si consenta il rimando a F. Delle Donne, Virtù cristiane, pratiche devozionali e organizzazione del consenso nell’età di Alfonso d’Aragona, in “Monasticum regnum”. Religione e politica nelle pratiche di legittimazione e di governo tra Medioevo ed Età moderna, cur. G. Andenna, L. Gaffuri, Münster 2015, pp. 179-195. 18. Panormita, De dictis et factis Alphonsi regis, ed. M. Vilallonga, in Jordi de Centelles, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, Barcelona 1990, p. 250 (IV Proem.). «Le province transmarine furono solite fornire a Roma e all’Italia le cose che producevano, la più popolosa delle isole, frumento e zucchero, pelli e formaggio, il vino, Ebuso (Ibiza) il sale, e le altre ancora altre cose». 38 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA similazione è spiegabile col ruolo che viene attribuito ad Alfonso, re dell’Italia meridionale, per il quale sono riconosciute adeguate e giuste le più alte aspirazioni, come si comprende da quello che viene detto dopo. Sola Hispania Romae atque Italiae imperatores ac reges dare solita est. At quales imperatores aut quales reges? Traianum, Adrianum, Theodosium, Archadium, Honorium, Theodosium alterum19. L’elenco degli illustri imperatori antichi è quello solito, che abbiamo incontrato anche in Leonardo Bruni, in Angelo de Grassis e in Giannozzo Manetti: anzi, soprattutto all’orazione da quest’ultimo pronunciata per il matrimonio di Ferrante, o al suo modello bruniano, sembra chiaramente rimandare l’interrogativa «at quales imperatores?». Tuttavia, il messaggio del Panormita è più sottile e meglio studiato. Il peso attribuito alla terra natale è ridotto e subordinato: egli ricorda l’ascendenza effettiva, iberica del celebrato, ma la innesta immediatamente in quella ideale, romana e italica: postremo Alfonsum, virtutum omnium vivam imaginem, qui cum superioribus his nullo laudationis genere inferior extet, tum maxime religione, id est vera illa sapientia, qua potissimum a brutis animalibus distinguimur, longe superior est atque celebrior20. Dunque, Alfonso, non solo continua la grandezza degli antichi, ma la amplifica e la sublima grazie alle sue virtù, che possiede tutte, e, soprattutto, grazie alla sua religione, identificata immediatamente con la sapienza, ovvero con l’essenza più peculiare dell’uomo. Solo dopo, ribaltando quindi lo schema seguito dai suoi modelli (De Grassis e Manetti), passa alle lodi della penisola iberica, mettendole in subordine. Ed egli ne ricorda la ricchezza, ma sottolinea che non Alfonsus ab Hispania laude censendus est, sed Hispania potius ab Alfonso, cuius gloriae et admirationi ne hoc quidem obstiterit, quod nostro saeculo natus est21. Ovvero, il Panormita cerca di far passare in secondo piano la provenienza materialmente geografica di Alfonso, nobilitandone quella ideal19. Ibid. «Solo fu solita fornire a Roma e all’Italia imperatori e re. Ma quali imperatori o quali re? Traiano, Adriano, Teodosio, Arcadio, Onorio, il secondo Teodosio». 20. Ibid. «E per ultimo Alfonso, viva immagine di tutte le virtù, che non solo non può essere considerato inferiore in nessun genere di lode a quegli antichi, ma è anche di gran lunga superiore e più lodevole soprattutto per la religione, ossia per quella vera sapienza per la quale ci distinguiamo in misura maggiore dagli animali bruti». 21. Ibid. «Non bisogna pensare che Alfonso derivi la lode dalla Spagna, ma piuttosto la Spagna da Alfonso, alla cui gloria e ammirazione non si può in alcun modo opporre che egli è nato a vantaggio del nostro secolo». 39 FULVIO DELLE DONNE mente politica. In sostanza, sottace l’origine straniera, ‘gotica’ e, quindi, barbara, di Alfonso, per affermare quella italica e romana, che implicitamente si configura così, con una vertiginosa inversione, non solo come ‘locale’, intimamente ‘indigena’, ma anche come ‘suprema’, così da legittimare non solo giuridicamente, ma soprattutto ideologicamente il sovrano. Oramai siamo negli avanzati anni Cinquanta, a più di un decennio di distanza dalla vittoria finale che aveva portato Alfonso al dominio sull’Italia meridionale. Il Mediterraneo Occidentale era divenuto un “lago catalano”, e la costruzione del consenso, in quegli anni, aveva gradualmente delineato un’immagine pubblica del sovrano aragonese sempre più limpida e luminosa. La costruzione ideologica del Panormita si poneva al culmine di un più lungo percorso, e poteva poggiare sulle basi erudite, oramai ben assestate e sedimentate, di precedenti e ripetute celebrazioni oratorie. Una ulteriore base di appoggio, del resto, il Panormita la trovava anche in quello che scriveva, Guarino Veronese, che fu suo amico e, in qualche modo, maestro, il quale, in una lettera del primo ottobre 1442, si rivolgeva al Magnanimo dicendo che in molti sostenevano che egli fosse venuto a «Apuliae regnum invadere et regiones suas intercipere». Ma, in effetti, aggiungeva che nessuno poteva ignorare che: tot quondam ex toto orbe deductas quaquaversum fuisse colonias in Hispanias praesertim, ubi tot Italicae nationis olim civitates floruere, unde et in hanc aetatem Latinus sermo et cognata illis lingua nostram redolet prosapiem, ut in Italiam suum potius genus revocare, et redire verius quam venire videaris22. Insomma, se si superava lo scoglio delle origini iberiche, e si considerava il suo come un ritorno in Italia, piuttosto che un arrivo da un luogo lontano e diverso, Alfonso poteva essere senza più dubbio alcuno accolto nella tradizione “romana”, anzi poteva diventare un perno centrale della costruzione umanistica della storia, generando quell’“Umanesimo monarchico” che aveva caratteri decisamente alternativi al cosiddetto “Umanesimo civile”, rispetto al quale non dimostrava alcun complesso di inferiorità23. 22. Guarino Veronese, Epistolario, ed. R. Sabbadini, II, Venezia 1916, p. 427. «Tante furono un tempo in tutto il mondo le colonie che furono impiantate, e specialmente nelle Spagne, da dove anche fino a questa nostra età il parlare latino e la loro affine lingua fa sentire con chiarezza la nostra ascendenza, così che sembri che tu abbia richiamato in Italia la sua stirpe, e che tu vi sia tornato, piuttosto che venuto». 23. Su tali argomenti, per una più ampia caratterizzazione, si consenta il rimando a F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015. 40 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA Come si è visto, la strada che assimilava Alfonso ai Cesari antichi era stata lunga. A costruirla aveva contribuito anche il Giannozzo Manetti “napoletano”, che pure, però, nelle sue più antiche orazioni, aveva offerto una rappresentazione ben diversa di Alfonso. Infatti, nei due Elogia Ianuensium, che egli scrisse fra la primavera del 1436 e, probabilmente, l’estate del 1437, di Alfonso aveva messo in risalto la barbaries – ossia l’estraneità al genus Italicum – e la libido dominandi, che lo aveva spinto fino alle coste italiane con mire espansionistiche24. E ancora nelle orazioni che, nel 1448 – in coincidenza con il manifestarsi di pericolose mire espansioniste aragonesi nei confronti del territorio toscano – Manetti recitò in volgare al cospetto dei governi senese e veneziano, Alfonso era paragonato sempre più esplicitamente all’invasore cartaginese, contro cui i Romani avevano spesso combattuto per difendere la propria libertà e quella dei loro alleati italici25. Insomma, la trasformazione dell’immagine di Alfonso da feroce e barbaro Annibale a degno erede e continuatore dei più virtuosi antichi imperatori è davvero notevole e impressionante. L’ultimo Manetti, quello più esplicito, del 1457, aveva certamente trovato – sia pure con reciproche interferenze – più chiare e definitive spinte evolutive nel De dictis et factis Alphonsi del Panormita. Ma la stessa opera del Panormita sommava in sé le spinte più proficue che venivano non solo dall’oratoria epidittica, ma anche dalla storiografia. Del resto, come il Panormita ben comprendeva, la storiografia, ben più dell’orazione, può servire a razionalizzare e riordinare gli eventi entro una linea ben precisa, ricollocandoli e illuminandoli dalla giusta angolazione. Solo la storiografia può giustificare le imprese del sovrano e caratterizzarne la figura mascherandone la celebrazione encomiastica che, invece, appare con troppa evidenza nell’orazione panegirica. II. LA STORIOGRAFIA COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE E qui giungiamo al punto centrale della questione, quello del rapporto tra tradizione catalana e innovazione umanistica nella eccezionale stagione 24. Per la datazione delle due orazioni cfr. Giannozzo Manetti, Elogi dei Genovesi, ed. G. Petti Balbi, Milano 1974, pp. 12 e 25-26. Cfr. anche Baldassarri, Giannozzo Manetti cit., pp. 55-57. 25. Jannozii Manetti oratio ad Senenses dum Plumbinum ab Alfonso rege obsideretur, in Giannozzo Manetti, Das Corpus der Orationes, ed. H. W. Wittschier, Koln-Graz 1968, pp. 155-165, e Jannozii Manetti oratio ad Venetos dum Plumbinum ab Alfonso rege obsideretur, ibid., pp. 166-175. Cfr. anche Baldassarri, Giannozzo Manetti cit., pp. 69-74. 41 FULVIO DELLE DONNE storiografica alfonsina, focalizzando, innanzitutto, l’attenzione sul protomedico e storico catalano – ormai non c’è più dubbio26 – Gaspar Pelegrí, ovvero su colui che funse da anello di congiunzione tra Catalogna e Italia. Cum ab oris Hesperie inclitus Alfonsus rex formidatam Cesaris progeniem assumeret, defuncto parente caro, Aragonie in regem erectus est27. In questo modo Gaspar Pelegrí dà inizio ai suoi dieci libri di Historiae dedicate, nella seconda metà del 1443, ad Alfonso. L’associazione tra i lidi della penisola iberica (Hesperia) e quelli dell’Italia, tra dinastia aragonese e dinastia imperiale romana è immediata. L’immagine che si vuole subito trasmettere è quella dell’unicità di due tradizioni di potere. E se l’antica stirpe degli imperatori come Traiano, Adriano o Teodosio, si era trasferita in oris Hesperie, dopo la vittoria di Alfonso essa – come già aveva ricordato Guarino Veronese – si era ritrasferita in Italia, in quel regno che viene spessissimo identificato da Pellegrino con il Latium: sicuramente non per imprecisa conoscenza della geografia italiana, ma per dimostrare ancora una volta il rapporto di discendenza – diretta o indiretta – che lega Alfonso non solo agli imperatori di origine iberica, come Traiano, Adriano o Teodosio, ma addirittura ad Enea, che tante volte, implicitamente, viene evocato nell’opera come omologo di Alfonso28. Gaspar Pelegrí si poneva di fatto come capofila di una tradizione storiografica nuova per il Regno di Napoli: una tradizione che poi, nella sua evoluzione, finì per condannare alla damnatio memoriae il suo iniziatore, al quale sono stati sempre anteposti autori dotati di maggiore consapevolezza sia linguistica, sia teorico-storiografica. Tanto più che sull’opera di Pelegrí ha pesato da subito la severa sentenza di condanna di Lorenzo Valla, che frainteso e non ben contestualizzato, dichiarava che era meglio passare sotto silenzio la sua accuratio, che contrastava con chiunque avesse a 26. Cfr. F. Delle Donne, Gaspar Pelegrí e le origini catalane della storiografia umanistica alfonsina, in «Arxiu de Textos Catalans Antics», 30 (2011-2013), pp. 563-608. 27. Gaspare Pellegrino, Historia Alphonsi primi regis, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007 (Edizione Nazionale dei Testi della Storiografia Umanistica, 2), p. 68 (par. I 1). Del testo esiste anche una edizione con traduzione italiana: Gaspar Pelegrí, Historiarum Alphonsi regis libri X. I dieci libri delle Storie del re Alfonso, ed. F. Delle Donne, Roma 2012 (Quaderni della Scuola nazionale di studi medievali, 3), dove il passo è a p. 4. «L’inclito re Alfonso, dai lidi dell’Esperia, assumendo l’eredità della temuta discendenza di Cesare, morto il caro genitore, fu innalzato a re d’Aragona». 28. Cfr. l’Introduzione a Gaspare Pellegrino, Historia Alphonsi cit., pp. 22 ss. Non a caso, la condizione imperiale viene evocata anche successivamente, a proposito di Ferrante, da Giovanni Brancato e altri autori coevi: cfr. G. M. Cappelli, Giovanni Brancato e una sua inedita orazione politica, in «Filologia e critica», 27 (2002), pp. 64-101, spec. p. 101. 42 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA cuore la fides veritatis29. Non è il caso di discuterne qui per esteso, dal momento che è già stato fatto altrove30, tuttavia, va chiarito che, lungi dall’essere un giudizio esclusivamente formale, l’accuratio di cui parla Valla è da intendere, piuttosto, nel senso di capacità di discernimento nel perseguire la verità: capacità che sta alla base dell’utilità della storia. Il discorso va, però, fatto rientrare nel più ampio quadro delle teorizzazioni sul compito di ricerca della verità imposto alla storia, che, Valla avrebbe esposto in maniera completa nel proemio alla sua opera storica, i Gesta Ferdinandi regis31, scritti tra la fine della primavera del 1445 e l’inizio del 1446, e dedicati alle vicende di Ferdinando, padre di Alfonso. Tuttavia, quando egli, probabilmente all’inizio del 1444, esprimeva il suo giudizio sull’opera di Pelegrí, le discussioni sul modo di scrivere la storia erano, evidentemente, già incominciate, anche se poi sarebbero sfociate in polemica solo con le Invective in Vallam di Bartolomeo Facio e, in risposta, con l’Antidotum di Valla32. II.1. Vero e verosimile: le riscritture della storia Il violento contrasto, che si aprì tra Valla, da un lato, e Facio e Panormita, dall’altro33, verteva essenzialmente sull’elegantia e sul decorum: secondo Facio, questi elementi mancavano nei Gesta Ferdinandi regis di Valla. La questione è ormai nota e ben studiata34: non conviene tornarci 29. Laurentius Valla, Epistole, edd. O. Besomi - M. Regoliosi, Padova 1984, pp. 253-254. 30. Per una corretta e più ampia contestualizzazione dell’espressione, contenuta in una lettera a Biondo Flavio, si consenta il rimando all’Introduzione a Gaspare Pellegrino, Historia Alphonsi cit., pp. 29-39. 31. Laurentius Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, ed. O. Besomi, Padova 1973, pp. 3-8. 32. Bartolomeo Facio, Invective in Laurentium Vallam, ed. E. I. Rao, Napoli 1978; Laurentius Valla, Antidotum in Facium, ed. M. Regoliosi, Patavii 1981 33. Laurentius Valla, Antidotum in Facium cit., pp. 5-6 (I 1, 11-16) e 11 (I 2, 7), dice esplicitamente che alle spalle di Facio si nascondeva Panormita. 34. Cfr. soprattutto Ferraù, Il tessitore di Antequera cit., pp. XV ss., 8 ss.; M. Regoliosi, Riflessioni umanistiche sullo ‘scrivere storia’, in «Rinascimento», 31 (1991), pp. 1627; Ead., Introduzione alla sua edizione di Laurentius Valla, Antidotum in Facium cit., pp. XX-LXXXI; nonché l’Introduzione di G. Resta alla sua edizione di Antonius Panhormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Palermo 1968, pp. 19 ss e 30 ss.; G. Albanese, I Rerum gestarum Alfonsi regis libri X di Bartolomeo Facio: la storiografia ufficiale di Alfonso d’Aragona, in Ead., Studi su Bartolomeo Facio, Pisa 2000, pp. 48 ss. Inoltre, si permetta il rimando a F. Delle Donne, Il re e i suoi cronisti. Reinterpretazioni della storiografia alla corte aragonese di Napoli, in «Humanistica», 9 (2015), in corso di stampa. 43 FULVIO DELLE DONNE ancora. Basti dire che in quell’occasione furono definite le linee entro cui si sarebbe dovuta muovere la storiografia alfonsina, che creò un nuovo modello dinastico-celebrativo destinato ad ampia fortuna. Da un lato si poneva Valla con i suoi ideali di ricerca e di affermazione della veritas; dall’altro si contrapponevano Facio e Panormita, con le loro strategie narrative che, dietro i richiami al decorum, rivelavano evidenti intenti encomiastici. Secondo Facio, e, in sostanza, il Panormita, nell’opera storiografica, che doveva assumere il compito di glorificare la dinastia aragonese, si sarebbe dovuto eliminare il ricordo di tutto ciò che poteva risultare sconveniente o inadatto alla dignità regia, ricorrendo all’espediente della brevitas. Insomma, non tutto il vero deve essere riprodotto dallo storiografo, perché esso potrebbe contrastare col verosimile: «non enim solum veram, sed etiam verisimilem narrationem esse oportet, si sibi fidem vendicare velit»; «infatti, conviene che la narrazione sia non solo vera, ma anche verosimile, se vuole essere degna di fede», afferma Facio nella seconda Invectiva in Vallam35. Contrariamente a quanto aveva affermato Valla nel proemio dei suoi Gesta, il principio fondante della storia, per Facio, non è il vero, ma il verosimile; e la brevitas è, in sostanza, il raschietto che serve a far sparire ciò che è indecoroso. La “legge storiografica” che Facio tentava di imporre, con sottili e ben studiate variazioni rispetto ai precetti ciceroniani che egli citava alla lettera36, era il frutto di una meditata e consapevole riflessione, equivalente a una sorta di teorizzazione formale della storiografia come riscrittura, se non addirittura falsificazione volontaria della realtà. Il rifiuto valliano di una ricostruzione ideologizzata della figura del sovrano, o forse la sua non piena comprensione della linea evolutiva che la costruzione del consenso stava prendendo alla corte di Alfonso, segnò la fine della sua collaborazione con il sovrano aragonese. La proposta storiografica di Lorenzo Valla, con le sue conseguenti rappresentazioni “indecorose” e “sconvenienti” di Martino l’Umano, da cui discendevano i diritti regi sull’Aragona da parte dei Trastàmara, non era adatto al progetto ideologico alfonsino, che mirava all’esaltazione della sua dignità regia, la quale doveva essere assolutamente priva di ombre, neppure quelle che venivano proiettate dalle ricostruzioni di un passato più o meno remoto. Per cui, la composizione dei Gesta Ferdinandi non trovarono né seguito, né 35. Bartolomeo Facio, Invective cit., p. 96. 36. Sull’uso del De inventione e della Rhetorica ad Herennium da parte di Facio cfr. Regoliosi, Riflessioni umanistiche cit., pp. 20-24. Sulle variazioni rispetto al modello, però, si consenta il rimando a Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 56-57. 44 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA prosecuzione, e i programmati Gesta Alphonsi furono scritti da Bartolomeo Facio, che portò a termine il progetto storiografico di tipo dinastico, concentrando, però, l’attenzione solo sul protagonista del presente. II.2. Modelli e trasformazioni tipologiche di un genere fortunato, dalla Catalogna all’Italia Ma, dopo questa rapida puntata sugli esiti della tradizione storiografica alfonsina, che ci ha portato fino a Valla e a Facio, torniamo alle origini, al catalano Gaspar Pelegrí, che, probabilmente, non era pienamente consapevole di quello che gli stava capitando attorno. Fatto sta che la sua opera dovette pagare tutte le conseguenze di uno scontro che assunse caratteri violenti e radicali e che si giocò su un piano letterario troppo alto, spiccatamente “umanistico” nei suoi tratti sia erudito-retorici che ideologico-dottrinali. Così, l’opera di Pelegrí finì con lo sparire dai nuovi orizzonti culturali che, sempre più, a partire dal trionfo “all’antica” del 1443, si schiusero alla corte alfonsina. Tuttavia, essa è importante per ricostruire la parabola che venne percorsa in quel torno d’anni. Una parabola breve, ma estremamente significativa, in termini sia qualitativi che quantitativi, perché nell’arco di un paio di decenni si registra la composizione di un numero inaspettato di opere dedicate alla descrizione delle imprese e della figura del sovrano aragonese: oltre a quella di Gaspar Pelegrí, i Gestorum libri del siciliano Tommaso Chaula37, le opere già menzionate di Lorenzo Valla, di Bartolomeo Facio, del Panormita, per non parlare dell’epica Alfonseis di Matteo Zuppardo38, o delle opere più marginali, talvolta ancora inedite, come l’Historia di Lorenzo Buonincontri, o la Narratio declamatoria di Teodorico Urias, o il De bello regis Alphonsi di Ciccolino Gattini, e altre ancora39. L’opera del Pelegrí, infatti, aprì una importante stagione storiografica di tipo dinastico-celebrativo, mancante del tutto nel Regno dell’Italia meridionale sin dall’epoca normanno-sveva: da almeno due secoli non 37. Thomas de Chaula, Gestorum per Alphonsum Aragonum et Siciliae regem libri quinque, ed. R. Starrabba, Panormi 1904 38. Matteo Zuppardo, Alfonseis, ed. G. Albanese, Palermo 1990. 39. Per riferimenti più precisi si rimanda a Resta, Introduzione a Antonius Panhormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi cit., p. 31, in nota. Per un quadro complessivo della storiografia aragonese cfr. anche F. Tateo, La storiografia umanistica nel mezzogiorno d’Italia, in La storiografia umanistica, Atti del Convegno internazionale di studi, Messina 22-25 ottobre 1987, I, Messina 1992, pp. 501-548 (ripubblicato anche in Id., I miti della storiografia umanistica, Roma 1990, pp. 137-179); Ferraù, Il tessitore di Antequera cit.; nonché Delle Donne, Il re e i suoi cronisti cit. 45 FULVIO DELLE DONNE venivano prodotte opere appartenenti a quel genere, che fossero incentrate sulla figura del sovrano40. L’improvvisa esplosione di quel tipo di produzione non può spiegarsi, verosimilmente, se non con una provenienza esterna: insomma, la presenza del “proto-storico” catalano Gaspar Pelegrí fa apparire molto probabile che i germi di una storiografia celebrativa siano stati importati in Italia direttamente da Alfonso e dai suoi conterranei, che lo accompagnarono nel corso della sua lunga guerra di conquista. Del resto, in Catalogna e in Castiglia – terra d’origine dei Trastàmara – si possono riscontare frequenti attestazioni di storiografi più o meno ufficiali che – come Desclot o Álvar García de Santa María41 – dedicarono la loro opera alla descrizione delle imprese del sovrano. Tuttavia, l’opera di Gaspar Pelegrí non costituisce l’unica attestazione di connessioni tra la tradizione storiografica iberica e quella italiana: altre tracce riconducono allo stesso Alfonso. Un inventario di beni posseduti proprio da Alfonso nel 1417 fornisce un elenco di circa 60 libri, in cui spicca l’alto numero di opere di storia42. L’elenco rivela il notevole interesse – a quanto pare crescente, se si confronta l’inventario del 1417 con quello ricavabile da un altro stilato nel 141343 – di Alfonso per la produzione storiografica della sua terra d’origine, sia quella catalana, sia quella castigliana. Un interesse probabilmente documentato anche dalla circolazione – e dall’uso che ne fece Lorenzo Valla per la composizione dei suoi Gesta Ferdinandi regis Aragonum44, quando fu attivo come storico presso la 40. Su tali questioni cfr. F. Delle Donne, Le riscritture della storia: Alfonso il Magnanimo e la presa di Marsiglia nella storiografia coeva, in Le scritture della storia, cur. F. Delle Donne - G. Pesiri, Roma 2012, pp. 111138. 41. Su Desclot e la storiografia “regia” catalana cfr. soprattutto S.M. Cingolani, Historiografia, propaganda i comunicació al segle XIII: Bernat Desclot i les dues redaccions de la seva crònica, Barcelona 2006; Id., La memòria dels reis. Les Quatres grans cròniques i la historiografia catalana, des del segle X fins al XIV, Barcelona 2007. Su Álvar García de Santa María, invece, si ritornerà più avanti, con riferimenti bibliografici alle note 44 e 45. 42. L’inventario fu pubblicato dapprima da R. d’Alòs, Documenti per la storia della biblioteca di Alfonso il Magnanimo, in Miscellanea Francesco Ehrle, V, Città del Vaticano 1924, pp. 393-406; e ristampato da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei Re d’Aragona, Milano 1947-1952, I, pp. 219-224. Per un approfondimento cfr. F. Delle Donne, Gaspare Pellegrino (Gaspar Pelegrí) e la prima storiografia alfonsina, in Il ritorno dei classici nell’Umanesimo. Studi in memoria di Gianvito Resta, cur. G. Albanese, C. Ciociola, M. Cortesi, C. Villa, Firenze 2015, pp. 231-243. 43. Cfr. E. González Hurtebise, Inventario de los bienes muebles de Alfonso V de Aragón como Infante y como Rey (1412-1424), in «Anuari de l’Institut d’Estudis catalans», 1 (1907), pp. 148-188, spec. pp. 182-185. 44. Cfr. O. Besomi, Introduzione alla sua edizione Laurentius Valla, Gesta Ferdinandi cit., pp. XVII-XX. 46 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA corte alfonsina – della Crónica de Juan II de Castilla di Álvar García de Santa María45, che, secondo alcuni, nel 1412 fu nominato miembro del real Consejo e cronista del Reino46. Insomma, dati questi elementi e i modelli di riferimento che fanno spiccare, per la penisola iberica, la presenza di opere storiografiche dotate di un certo grado di “ufficialità”, siamo naturalmente indotti a pensare che non fu estranea ad Alfonso l’idea di creare anche alla sua corte una storiografia funzionale alla costruzione del consenso. Certamente, a Napoli non si arrivò ancora all’istituzione formale della figura di “storiografo ufficiale” – contrariamente a quanto spesso si afferma in maniera piuttosto imprecisa – ma il conferimento di incarichi occasionali e di retribuzioni specifiche confermano l’ipotesi di un originario modello ispanico della storiografia umanistica alfonsina, finalizzata essenzialmente a giustificare il ruolo del sovrano aragonese47. Tuttavia, gli esiti a cui si giunse in Italia meridionale furono decisamente innovativi, dal momento che ogni precedente possibile esperienza subì le trasformazioni apportate da quegli intellettuali italiani attivi alla corte del Magnanimo, come il Panormita e Bartolomeo Facio, che si erano formati sulla lettura e sulla meditazione dei classici antichi. Del resto, oltre agli esiti concreti, particolarmente pregne di significato risultano le discussioni teoriche de historia conscribenda48, che, come si è visto, trovarono campo particolarmente fertile nell’ambiente “napoletano” e che svilupparono un modello a cui si ispirarono autori anche appartenenti ad altri ambiti geografici e istituzionali49. 45. C’è un’edizione critica solo della prima parte: Álvar García de Santa María, Crónica de Juan II de Castilla, ed. J. de Mata Carriazo, Madrid 1982; la seconda parte è leggibile invece in Crónica de Juan II de Castilla, CODOIN, XCIX-C, Madrid 1891. Ma cfr. anche D. Ferro, Le parti inedite della “Crónica de Juan II” di Álvar García de Santa María, Venezia 1972. Per una puntuale sintesi sull’autore e sui problemi di trasmissione della sua opera cfr. F. Gómez Redondo, Historia de la prosa medieval castellana, III, Madrid 2002, pp. 2207-2333. 46. Cfr. soprattutto F. Cantera Burgos, Álvar García de Santa María. Historia de la judería de Burgos y de sus conversos más egregios, Madrid 1952, pp. 212-246, che, ripetendo una informazione – che non sembra fondata su alcuna fonte certa – di M. Martínez Añibarro, Intento de un diccionario biográfico y bibliográfico de autores de la provincia de Burgos, Madrid 1889, p. 238, afferma anche che, in seguito, fu nominato analista del regno d’Aragona. 47. La figura di “storiografo ufficiale” appartiene a un'epoca successiva: cfr. soprattutto B. Guenée, Storia e cultura storica nell’occidente medievale, Bologna 1991 (ed. or. Paris 1980, pp. 411-418, e R. L. Kagan, Clio and the Crown: The Politics of History in Medieval and Early Modern Spain, Baltimore 2009. 48. Su tali discussioni cfr. soprattutto Regoliosi, Riflessioni umanistiche cit., pp. 16-27. 49. Cfr. soprattutto G. Ianziti, Humanistic Historiography under the Sforzas: Politics and Propaganda in Fifteenth-Century Milan, Oxford-New York 1988, pp. 5 s. e passim; 47 FULVIO DELLE DONNE III. LA VIA DEI CESARI A questo punto, però, è necessario chiedersi quale fosse la ragione per cui all’epoca di Alfonso la produzione storiografica si sviluppò in maniera tanto ampia. Come sempre dovette esserci una convergenza di spinte, di natura e di tipo diverso, tuttavia, il clima intellettuale che si generò alla corte alfonsina fu favorito dalle mire e dalle ambizioni dello stesso sovrano, che non furono solo culturali, ma, ovviamente, anche ideologico-politiche. La presa definitiva del Regno di Napoli era stata lunga e difficile. La sua conquista, dopo circa venti anni di guerra, era avvenuta con le armi, ma – come sempre – aveva bisogno di giustificazioni sia giuridiche che etico-ideologiche. Le pretese della dinastia aragonese sul Regno dell’Italia meridionale si basavano anticamente sui diritti di discendenza dall’imperatore Federico II di Svevia, per il tramite del figlio Manfredi e della nipote Costanza. Ma Alfonso non diede mai molto risalto a questa linea genealogica: nella Historia di Bartolomeo Facio – uno dei veicoli privilegiati della propaganda alfonsina – questo argomento viene solo accennato50. Egli preferì, piuttosto, basare le sue rivendicazioni giuridiche sulla sua adozione da parte della regina Giovanna II d’Angiò, avvenuta nel 1419, sebbene forse successivamente revocata: quell’adozione – su cui insiste soprattutto un’altra fonte importante per la conoscenza della propaganda alfonsina, l’Historia di Gaspar Pelegrí51 – permetteva ad Alfonso di presentarsi come legittimo erede e continuatore della dinastia angioina, e non come un violento soppiantatore. Insomma, la questione relativa all’innesto dinastico poteva essere plausibilmente sostenuta, sotto il profilo giuridico, attraverso il ricorso a una doppia – seppure contrappositiva – discendenza sia dagli Svevi che dai loro nemici Angioini. Ma la strada della discendenza ereditaria, basata sui valori della stirpe, del sangue, poteva nascondere insidie e non essere sufficiente, perché altri potevano vantare diritti pari o superiori. Del resto, non era l’unica fonte di derivazione del potere: la discendenza doveva essere sorretta dalla “spina dorsale” delle virtù personali, che sole potevano dimostrare la concessione di uno speciale e mirato favore divino. La necessità del possesso delle virtù, affermata e dimostrata da tutta la trattatistiB. Figliuolo, La storiografia umanistica napoletana e la sua influenza su quella europea (1450-1550), in «Studi storici», 43 (2002), pp. 347-365. 50. Bartolomeo Facio, Rerum gestarum cit., p. 34 (I 60). 51. Su tale questione si permetta il rimando all’Introduzione a Gaspare Pellegrino, Historia Alphonsi cit., pp. 16-29. 48 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA ca specifica sin dall’antichità, era divenuta questione dirimente in connessione con lo sviluppo della cultura cortese, ma si sarebbe sviluppata ulteriormente in età umanistica, focalizzando man mano l’attenzione sul concetto stesso di nobiltà, coincidente, in sintesi, con la discendenza di sangue oppure con il possesso delle virtù52. E fu proprio a quest’aspetto che gli ideologi del regno alfonsino diedero maggiore rilievo, dandogli nuovo impulso e indirizzandolo verso una discussione destinata a modificare radicalmente la concezione del potere e soprattutto la sua rappresentazione. Nella trattatistica umanistica, la questione avrebbe avuto sviluppi molto ampi e complessi, ma Alfonso – re della Corona d’Aragona e re di Napoli, potente signore del Mediterraneo – con la sua autorità offrì le basi più solide possibili per la definitiva risoluzione della questione. Certo, le idee non erano ancora del tutto mature né delineate, e i modelli classici si confondevano con le immagini mistiche, l’aquila imperiale si sfumava nel santo graal53. Più strada, seguendo la pista teorico-trattatistica, si sarebbe percorsa solo nei decenni successivi, soprattutto in connessione con la guerra di successione che vide Ferrante contrapporsi a Giovanni d’Angiò (1460-1464)54. 52. La bibliografia sul concetto di nobiltà è assai ampia: qui sia sufficiente rimandare solo a C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIVXVIII, Roma-Bari 1988. Per avere un quadro complessivo, soprattutto dal punto di vista politicoistituzionale, si veda anche W. Conze - C. Meier, Adel, Aristokratie, in Geschichtliche Grundbegriffe, cur. O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, I, Stuttgart 1972, pp. 148. All’argomento si è dedicato lungamente, negli ultimi anni, Guido Castelnuovo, del quale basti citare qui solo uno degli ultimi contributi, dal quale si può recuperare la bibliografia precedente: Bartole de Sassoferrato et le Songe du Vergier. Les noblesses de la cité à l’aune du royaume, in Circulation des idées et des pratiques politiques: France et Italie (XIIIe-XVIe siècle), cur. A. Lemonde, I. Taddei, Rome 2013, pp. 59-71. 53. Su tale aspetto della questione cfr. M. Aurell, Eschatologie, spiritualité et politique dans la confédération catalano-aragonaise (1282-1412), in Fin du monde et signes des temps. Visionnaires et prophètes en France méridionale (fin XIIIe-début XVe siècle), ToulouseFanjeaux 1992, pp. 191-235; D. Barca, Alfonso il Magnanimo e la tradizione dell’immaginario profetico catalano, in La corona d’Aragona ai tempi di Alfonso cit., II, pp. 12831291; J. Molina Figueras, Un trono in fiamme per il re. La metamorfosi cavalleresca di Alfonso il Magnanimo, in «Rassegna storica salernitana», 56 (2011), pp. 11-44; Id., Un emblema arturiano per Alfonso d’Aragona. Storia, mito, propaganda, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 114 (2012), pp. 241-268. 54. Su tali aspetti cfr. soprattutto G. Cappelli, La realtà fatta dottrina. Sarno e dintorni nel pensiero politico aragonese, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», 116 (2014), pp. 193-216, da cui si possono ricavare informazioni bibliografiche su precedenti lavori, tra cui si segnala solo l’importante edizione, con ampio commento, di Giovanni Pontano, De principe, Roma 2003. 49 FULVIO DELLE DONNE III.1. Tra Regno e Impero Ma torniamo alla questione che abbiamo posto: se si fosse trattato solo della legittimazione della conquista, a cosa gli serviva l’ispirazione tratta dal modello degli antichi imperatori? O, per meglio dire, a che scopo, dapprima – sebbene, forse, in maniera non del tutto consapevole – Angelo de Grassis, poi in maniera ideologicamente più avvisata il Panormita avrebbero fatto riferimento all’impero romano e ai suoi antichi detentori, rappresentandoli come predecessori di Alfonso? Torniamo alla orazione di Manetti da cui siamo partiti, quella in cui si congratulava con Alfonso per il fatto che era stato l’imperatore a omaggiare lui e non il contrario, come sarebbe stato nell’ordine naturale delle cose. L’evento, si è visto, denunciava un capovolgimento totale della prassi, tanto eclatante da meritare una specifica orazione gratulatoria. L’imperatore, ancora all’epoca di Manetti, rappresentava un’entità politico-spirituale trascendente: l’impero era il perno centrale di una tradizione giuridica e ideologica che, soprattutto in Italia, continuava a essere pressante e non eludibile. Per questo motivo, ogni volta che esalta Alfonso, dichiarando che le sue eccelse virtù spiccano al di sopra di quelle di tutti gli altri signori dell’epoca, Manetti si premura di precisare – in maniera posticcia – che dalla massa va escluso l’imperatore55. Tuttavia, pur in una prospettiva di rispetto formale, non poteva trattenersi dal ricordare un particolare che assumeva i caratteri della celia. Alfonso aveva donato all’imperatore una stola: Hanc stolam, cum illum die sabbati de more accinctum – dum e Neapoli reverteretur – urbem Romam ingredientem vir quidam facetissimus videret, sese continere non potuit quin, cum quibusdam amicis ingressum suum conspicientibus, in hunc modum iocaretur: «Respicite, queso, respicite, inquam, Federicum nostrum qui ex hoc loco Neapolim imperator contendit atque exinde nunc miles effectus rediit!»56. Quel dono dimostrava, nella prassi, il ribaltamento sostanziale della forma. Era Alfonso a essere il vero superiore, colui al quale si sottometteva perfino l’imperatore. Dal punto di vista giuridico egli non godeva del titolo imperiale, ma dal punto di vista del riconoscimento collettivo del55. Cfr. Baldassarri-Maxson, Giannozzo Manetti cit., p. 563, parr. 101 e 102. 56. Ibid., p. 568, par. 123. «Una persona assai faceta, avendo visto che l’imperatore, tornando da Napoli, di sabato, come di consueto, indossava quella stola entrando a Roma, non si riuscì a contenere, e, ammirando con alcuni amici quell’ingresso, celiò in questo modo: “Guardate, prego, guardate, dico, il nostro Federico, che da qui è andato imperatore a Napoli e da lì torna ora fatto cavaliere!”». 50 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA le virtù, però, era lui il vero signore supremo. E se nell’iniziale laus Hispaniae Alfonso – come abbiamo visto – era di fatto equiparato agli antichi imperatores, qui viene assimilato anche al biblico Salomone, il re sapiente per eccellenza57. Specificamente, la visita di Federico III ad Alfonso è paragonata a quella della regina di Saba a Salomone (I Re 10, 1-13; II Cronache 9, 1-12): mossa dalla fama di Salomone, la regina si era recata con una grande carovana a Gerusalemme per vedere il re ebreo. Stupefatta dallo splendore della corte e dalla saggezza di Salomone, innalzate lodi a Dio per la sua opera, dopo aver lasciato preziosi doni, tornò al suo paese. Proiettato da Manetti sulla vicenda contingente, l’episodio descritto rende Alfonso addirittura superiore a Salomone: Ille enim plura magnifica et ampla dona dum viseretur ab eadem regina suscepit. Tu vero inter visendum non modo non suscepisti, sed plurima quoque et ea quidem amplissima munera liberalissime simul atque magnificentissime tradidisti… Ille deinde a femina donatus; tu vero e contra imperatori donator et non donatus evasisti58. Il discorso di Manetti era occasionale: egli, del resto, non era ancora inglobato nella struttura amministrativa e intellettuale del Regno. Tuttavia, l’immagine evocata era pienamente funzionale alla strategia ideologica che in quegli anni si andava perseguendo: tanto è vero che nella Gran Sala del Castel Nuovo, dove era anche il trono e dove tutti visitatori erano indotti ad ammirare e a ripercorre i fasti e la grandezza del sovrano aragonese, sulle pareti c’era un grande arazzo che rappresentava la visita della regina di Saba a Salomone: molto probabilmente, se pure non fu fabbricato in quell’occasione, offriva comunque un richiamo alla visita – e, possiamo dire, a questo punto, quasi all’umiliazione – dell’imperatore Federico III, fatta ad Alfonso nel 145259. 57. Il parallelo con Salomone è usato da Manetti anche nel suo elogio di papa Niccolò V: Giannozzo Manetti, De vita ac gestis Nicolai quinti summi pontificis, ed. A. Modigliani, Roma 2005 (RIS3, 6), pp. 99-102. Cfr. anche M. Miglio, Da san Tommaso a Tommaso, a Niccolò V: la biografia del pontefice, in Dignitas et excellentia hominis, cur. S.U. Baldassarri, Firenze 2008, pp. 221-230, e A. Modigliani, Il testamento di Niccolò V: la rielaborazione di Manetti nella biografia del Papa, ibid., pp. 231-259. 58. Baldassarri-Maxson, Giannozzo Manetti cit., p. 568, parr. 124 e 125. «Quello, infatti, in occasione della visita della regina ricevette molti doni magnifici e grandi. Tu, invece, durante la visita, non solo non ricevesti, ma concedesti, in maniera assai liberale e magnifica moltissimi e grandissimi doni… Quello ricevette doni da una donna; tu, al contrario, hai donato all’imperatore e non ricevuto». 59. Cfr. da ultimo De Divitiis, Castel Nuovo and Castel Capuano cit., p. 459, dove, riprendendo bibliografia precedente, si dice che l’arazzo era probabilmente risalente all’epoca di Giovanna II. Ma forse l’orazione di Manetti può supportare un’altra datazione. 51 FULVIO DELLE DONNE Con più precisione ideologica si muoveva, come si è detto, il Panormita, con i suoi più espliciti accenni ai diritti – se non anche alle aspirazioni – imperiali di Alfonso, che facevano leva esclusivamente sulle virtù. La derivazione diretta del titolo dal merito rimanda, senz’altro, a un contesto teorico tipicamente umanistico, ma è anche funzionale a una contingenza più specifica. Infatti, come si è già visto, il gioco propagandistico del Panormita mira a mettere in secondo piano l’ascendenza familiare del celebrato, quella dinastica dei Trastàmara, per sostituirla con quella ideale, romana: Panormita, cioè, sottace l’origine ‘gotica’ e, quindi, barbara, di Alfonso, per rilanciare quella italica, più adeguata a giustificare e avallare ideologicamente l’assunzione al trono di Napoli, avvenuta, in realtà, per conquista bellica, soppiantando la precedente e legittima dinastia angioina. III.2. I titoli e la dignità sovrana In questo è particolarmente significativo quanto dice il Panormita nel capitolo 29 del secondo libro del De dictis et factis Alphonsi, dove si inizia a raccontare un singolare aneddoto in questo modo: cum aliquis Alfonsum a nobilitate maxime laudaret, quod rex esset, filius regis, regis nepos, regis frater et cetera istiusmodi, rex hominem interpellans dixit nihil esse quod in vita minoris ipse duceret, quam quod ille tanti facere videretur60. Alfonso, con la moderatio che dà il titolo al capitolo, nella sua risposta rifiuta la celebrazione cortigiana e dimostra di tenere in poco conto la vanità dei beni terreni. Ma egli non si limita a questo, perché continua: laudem enim illam non suam sed maiorum suorum esse, quippe qui iustitia, moderatione atque animi excellentia sibi regnum comparassent, successoribus quidem oneri regna cedere, et ita demum honori si virtute potius, quam testamento illa suscipiant61. Non è sufficiente che ci si trovi a guidare un regno, ma bisogna dimostrare di essere all’altezza di quell’onore, facendosi guidare costantemente dalle virtù. I diritti ereditari non sono un titolo di merito, sono cosa mor60. Antonius Panormita, De dictis, ed. M. Vilallonga cit., p. 160 (II 29), parzialmente corretto nella punteggiatura. «Poiché una persona lodava massimamente Alfonso per la sua nobiltà, dal momento che era re, figlio di re, nipote di re, fratello di re e altre cose di questo genere, il re, rivolgendosi a quell’uomo, gli disse che nella sua vita non vi era nulla che stimasse meno di ciò che per lui sembrava tanto importante». 61. Ibid. «Disse che quella lode, infatti, non spettava a lui, ma ai suoi antenati, che con giustizia, moderazione ed eccellenza d’animo si erano procurati il regno, mentre ai successori i regni giungono per onere e, infine, per onore, se nel tenerli badano di più alla virtù che al testamento». 52 CULTURA E IDEOLOGIA ALFONSINA ta se non vengono tenuti in vita da un adeguato comportamento, così come risulta evidente dalla lapidaria conclusione: a se itaque, si qua modo extent, eliceret ornamenta, non a patribus iam mortuis extorqueret62. Insomma, viene proposto, a vantaggio di Alfonso, un modello eticopolitico pienamente funzionale. Alfonso è re e degno di essere re: lo ha dimostrato con le sue virtù, che gli hanno permesso di guadagnarsi il Regno, e che gli permetterebbero, in prospettiva ideale, di guadagnarsi anche la guida dell’impero. La detenzione effettiva del titolo imperiale, a questo punto, è meno importante della sua evocazione: Alfonso è degno di essere rappresentato senz’altro come un imperator e ne può compiere anche i gesti, come la concessione della stola, che faceva di Federico III un suo vassallo, e, ovviamente, come il trionfo “all’antica” del 1443, su cui qui non è il caso di soffermarci63. Nonostante i richiami più o meno espliciti alla tradizione imperiale, forse Alfonso non ambì mai effettivamente all’acquisizione del titolo. Probabilmente, non ne aveva bisogno: così come non ebbe necessità dell’incoronazione per affermarsi come sovrano del Regno. La medesima cerimonia trionfale funse da “surrogato laico” all’acquisizione non solo del titolo regio, come avvenne nella contingenza, ma anche di quello imperiale, come avvenne nell’immaginario64. E la scrittura della storia, che tanto spazio trovò alla sua corte, era il tracciato che segnava la via dei cesari, come ebbe a ricordare inequivocabilmente ad Alfonso, in una lettera del 13 giugno 144365, Biondo Flavio, ovvero colui che, in quegli anni, rivoluzionò la costruzione della memoria storiografica: …ausim dicere, et, si praesentis esset intentionis, ostendere confiderem, eos solos et vere dici et esse reges ac principes, qui litteris sint ornati66. 62. Ibid. «Dunque, i meriti, se pure ve ne sono, bisogna cavarli da se stessi, non recuperarli dai padri già morti». 63. Per accurate e recenti descrizioni del trionfo sia sufficiente, qui, il rimando a A. Iacono, Il trionfo di Alfonso d’Aragona tra memoria classica e propaganda di corte, in «Rassegna storica salernitana», 51 (2009), pp. 957, e a Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 103-144. 64. Per un approfondimento della questione sia consentito il rimando a F. Delle Donne, Il trionfo, l’incoronazione mancata, la celebrazione letteraria: i paradigmi della propaganda di Alfonso il Magnanimo, in «Archivio storico italiano», 169/3 (2011), pp. 447-476. 65. B. Nogara, Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, Roma 1927, pp. 147-153. 66. Ibid., p. 150. «Oserei dire e, se fosse riconducibile alla attuale intenzione, confiderei mostrare che possono essere chiamati re e principi soltanto e veramente quelli che sono celebrati dalle lettere». 53 FULVIO DELLE DONNE ABSTRACT Alphonsine Culture and Ideology between Catalan Tradition and Humanistc Innovation Alfonso conceived of his kingdom as a “Catalan lake” around which the coasts of both Catalonia and southern Italy were in constant touch. Its cultural life offered Alfonso an opportunity to achieve political consensus and rethink the function of literature in that milieu. Through a combination (and renewal) of the Catalan tradition with Italian Humanism, authors in his court (like Panormita, Manetti, Pelegrí, Facio) presented Alfonso, in laudatory speeches and historical works, as an ancient emperor far more powerful than any modern one. This process of monarchical transfiguration was long and its strategies were not linear. It reached a climax after 1452, when Emperor Frederick III visited and honored Alfonso, and resulted in the invention of an innovative “Monarchical Humanism”, which was certainly no less important than the “Civil Humanism” developed elsewhere. Fulvio Delle Donne Università della Basilicata fulvio.delledonne@unibas.it 54 Guido Cappelli E TUTTO IL RESTO È DOTTRINA. SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO Io vollo seguire li vestigii de mio patre et mei antecessori (Ferrante d’Aragona, lettera a Bianca Maria Visconti, 1460; Arch. St. Milano, F. Sforz., Pot. Estere, Napoli, cart. 202, f. 183) 1. SANGUE I tempi delle unzioni papali e del sangue blu sembravano ormai sul viale del tramonto. Nell’Italia tumultuosa e creativa delle piccole e grandi “tirannie” ex defectu tituli, il diritto di governare, il riconoscimento, la legittimità, si dovevano guadagnare per ben altre vie: le vie della virtus, cioè della capacità politica e delle qualità personali1. Perché, a rigore, tutti i nuovi principes, doge e papa compresi, mancano di legittimità di sangue: nel laboratorio politico Italia, le risposte a questo stato di cose sono affidate all’avanguardia umanistica. Se n’era accorto Alfonso d’Aragona, che su una mitografa della virtus fondò il suo nuovo potere italiano2. E lo sapevano bene gli umanisti della generazione successiva, che nel clima di apparente equilibrio della seconda metà del Quattrocento, elaborarono una teoria del potere e della sua legittimità pienamente aderente alle esperienze innovative delle nuove realtà politiche già sulla via della statualità3. 1. Sulla situazione di fluidità e di sperimentazione istituzionale, basti il rinvio a R. Fubini, Italia Quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1992; Id., “Potenze grosse” e piccolo stato nell’Italia del rinascimento. Consapevolezza della distinzione e dinamica dei poteri, in Il Piccolo stato. Politica, storia e diplomazia. Atti del Convegno (San Marino, 11-13 ottobre 2001), San Marino, 2004, pp. 91-126. 2. Cfr. da ultimo l’importante F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015. 3. Per questo processo, sia consentito il rinvio a G. Cappelli, “Corpus est res publica”. La struttura della comunità secondo l’umanesimo politico, in Principi prima del “PrinciL’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 GUIDO CAPPELLI Essendo la legittimazione un affare di capacità, i diritti di sangue ne uscivano seriamente ridimensionati. Così mostra di esserne cosciente il teorico: Optabit igitur rex sobolem ex se genitam similem sibi esse non modo effigie, verum virtute ac moribus, ut rex non decessisse, sed iunior factus esse videatur. Filius quidem sine periculo regnat qui optime antecedentis parentis vestigia conterit. Cernimus tamen nonnumquam ex optimis parentibus deterrimos filios nasci, qualis fuit Commmodus… Videndum proinde erit quis Regni haeres nuncupandus sit. De successore diligenter cogitabit rex dum vivet, ne post obitum fortunae regnum permisisse videatur. Quod si minus idoneum ex se genitum cognoverit, Magni Alexandri exemplum imitabitur qui, interrogatus ab amicis, quum iam deficeret, quem imperii haeredem institueret, «dignissimum» respondit… oblitus posteritatis suae et omnium necessitudinum atque aliarum affinitatum suarum… Ius naturae exigit et gentium consuetudo confirmat ut maximus natu ex filiis mortuo regi succedat… Atqui si rex decedens filios imperio dignos habebit, maiorem natu regem instituat, naturae ius et gentium morem imitatus: hic naturae consuetudinisque ordo neutiquam praevaricandus est, nisi monstrum aliquod aleretur… vel si natus ad tantam spem filius eiusmodi vitio animi vel corporis laboraret ut inutilis qui imperaret esse videretur… Tunc ubi indignus esset successor, regno potius consulendum erit quam naturae ordini aut futurae posteritati4. pe”, cur. L. Geri, Roma 2012, pp. 117-131; nonché, per l’ambito napoletano, Id., Umanesimo politico. La monarchia organicista di Giovanni Pontano, in «California Italian Studies», 3 (2012), pp. 1-21, <https://escholarship.org/uc/item/6ct9b8w1>. 4. Francesco Patrizi, De regno et regis institutione, Parisiis, Galeotus a Prato, 1531, IX, XXIII, pp. CCCCIII-CCCCIIII; per agevolare la lettura, si dà la traduzione italiana dei principali testi addotti, con l’avvertenza che si tratta di traduzioni “di servizio” particolarmente attente a rispettare il lessico tecnico: «Dunque il re farà sí che la prole che ha generato gli rassomigli non solo nell’aspetto esteriore, ma per virtù e comportamento – come se il re non fosse morto ma solo ringiovanito. Il figlio che segue le orme del padre virtuoso, regna sicuro. Tuttavia, a volte vediamo che da genitori eccellenti nascono figli pessimi, come Commodo… Perciò bisognerà vedere bene chi debba essere nominato erede del Regno. Durante la vita, il re rifletterà attentamente sul proprio successore, in modo tale che dopo la morte non paia che ha abbandonato il regno alla sua sorte. E se si accorgerà che suo figlio non è idoneo, seguirà l’esempio di Alessandro Magno, il quale, interrogato in punto di morte dagli amici su chi designava come erede dell’impero, rispose “il più degno”, dimentico di ogni discendenza, parentela e affinità… Il diritto naturale prescrive e la consuetudine ribadisce che il primogenito succeda al re morto… Ma se il re, morendo, avrà figli degni, crei re il primogenito, seguendo il diritto naturale e il mos gentium: in questo caso non bisogna violare l’ordine della natura e della consuetudo; a meno che non si allevi un mostro o un figlio nato per così grande speranza non sia affetto da un vizio fisico o mentale tale da apparire chiaramente inadatto a governare… Allora, se il successore è indegno, bisognerà pensare più al regno che all’ordine naturale o alla discendenza futura». 56 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO Come si vede, pur nella calcolata cautela dei toni, la prospettiva ereditaria è qui, in qualche modo, capovolta: è una retta institutio che, in ultima istanza, garantisce una buona successione, al di sopra persino dello ius naturae e della consuetudo. Né va trascurata la notazione immediatamente successiva, tutt’altro che meramente erudita, agli Egizi e ai Romani che, mentre esalta la virtus umana, sembra tacitamente rimandare a una situazione ben concreta: la condizione di figlio naturale legittimato del successore di Alfonso, Ferrante, iscritta in una prassi storica ed elevata dal particolare storico all’universale teorico: Aegyptii (ut Diodorus scribit) quo tutior inter plures filios esset haeredis electio nullum spurium esse existimabant etiam si ex serva empta quispiam genitus fuisset. Apud Romanos vero Spurius praenomen honoris ac meriti fuit, quippe quum eum ostenderet qui non paternis opibus nec materna commendatione aut dote, sed propria industria ac solertia rem familiarem statuerit et propria virtute laudem ac dignitatem fuerit assecutus5. Queste le considerazioni finali del De regno di un accorto teorico del maturo umanesimo politico come il senese Francesco Patrizi negli anni ’80 del secolo. Ma la dottrina umanistica è percorsa nel suo insieme da interessanti pulsioni antiereditarie che comprendono un’autentica denuncia dei pericoli reali della successione dinastica per via ereditaria. Nell’epistola De monarchia, vergata ai primi del Quattrocento in tutt’altri ambienti, Pier Paolo Vergerio, rievocando, sulla scorta di Cicerone (come faranno molti umanisti allo stesso proposito), l’origine della comunità sociale e politica, illustra il processo di degenerazione ereditaria, causata, a quanto pare, proprio dalla mancanza di una adeguata institutio: Inde factum est ut posteriores, crescentibus cum copia vitiis, a superioribus suis degenerent, et, quo plus posse se videant, eo magis insaniant. Ac simili quidem modo fieri solet ut, cum quis virtute ac gloria militari magnum aliquando regnum adeptus est, aut moderatione prudentiaque prestans ad tollendas seditiones tumultusque ab suis civibus electus est, prudenter, sincere, sobrie publicam rem administraret; filii vero, ut sunt plerunque parentibus absimiles, favore 5. Ibid.: «Gli Egizi – scrive Diodoro – per rendere più sicura la scelta dell’erede tra vari figli consideravano che non vi fossero bastardi anche se uno fosse stato generato da una schiava. Presso i Romani, poi, il praenomen Spurius era motivo di onore e merito, perché mostrava qualcuno che non fondava la fortuna familiare sulla raccomandazione o la dote della madre o i beni del padre, ma sulla propria capacità e solerzia, e otteneva lode e dignità grazie alla propria virtù». 57 GUIDO CAPPELLI parentum prestantes succedant horumque artium ignari omni crudelitatis ac libidinis scelere se contaminent6. Tornando all’ambito aragonese, anche Giovanni Pontano, nel dialogo Charon (1470), esprime, con toni leggeri ma sentenziosi, la concezione umanistica della vanità della successione ereditaria: Caret plerunque successoribus virtus, et cum bonis aliis caveri testamento possit, virtus in haereditatis appellationem minime concedit. Regnorum ut principium sic etiam finis est… Multum in hominum ingeniis tempus valet, plurimum institutio. Coeterum coelestis ordo mundique conversiones moventque et agunt cuncta7. E pressappoco nello stesso periodo, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, ma nel contesto strettamente dottrinale del suo De institutione reipublicae, è di nuovo Francesco Patrizi a ragionare in termini consimili, discorrendo delle origini della vita associata e della poziorità della monarchia: Haec cogitatio [scil.: “tutti gli esseri animati hanno un caput”] principio fortasse vagis ac dispersis hominibus persuasit ut ab agresti vita discederent et in unum locum congregarentur, principemque sibi praeficerent fortitudine, prudentia atque eloquentia praecellentem, cuius arbitria pro legibus observarent. 6. Epistolae, ed. L. Smith, Roma 1934, p. 449: «Accade che, aumentando i vizi insieme con le ricchezze, i discendenti degenerano dai predecessori e quanto più si vedono potenti, tanto più perdono la testa. Allo stesso modo, suole succedere che quando qualcuno ha conquistato un gran regno per virtù e gloria militare, oppure per le sue doti di moderazione e di prudenza è stato eletto dai suoi concittadini per pacificarlo, questi amministra lo stato con prudenza, onestà e sobrietà; ma i figli, che in genere sono ben diversi dai padri, succedono ai genitori valendosi del loro favore e, ignari delle capacità di quelli, si insozzano con ogni genere di scelleratezze crudeli e perverse». 7. G. Pontano, Dialoghi, cur. L. Geri, Milano 2014, p. 214: «Nella maggior parte dei casi la virtù viene meno nei successori, e mentre gli altri beni possono essere lasciati con un testamento, la virtù non può essere ridotta al concetto di eredità… Il tempo ha una grande influenza sugli ingegni degli uomini, ma l’institutio ne ha una ancora più grande» (trad. del curatore; ma ho lasciato in lingua originale il termine tecnico institutio). L’idea, legata alle mitologie delle origini delle comunità (in part. Cicerone, De inventione, I 2), giungeva fino a Machiavelli, Discorsi I 2: «come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per elezione, subito cominciarono gli eredi a degenerare dai loro antichi e, lasciando l’opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d’ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore all’offese, ne nasceva presto una tirannide»; ma proprio in quel momento le grandi monarchie europee procedevano a riaffermare la vigenza della successione dinastico-familiare e dei conseguenti legami con le risorgenti aristocrazie terriere e militari. 58 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO Sed omnia in peius descendunt et potentia homines superbos et petulantes reddit: qui initio mites ac faciles imperio videbantur, iniqui admodum ac crudeles evaserunt8. Vergerio, Pontano e Patrizi individuavano lucidamente la crisi “degenerativa” della successione ereditaria, e sancivano la presa di coscienza dell’esaurimento o l’impraticabilità della legittimazione dinastica: a questa crisi di legittimità il pensiero umanistico contrappone un’institutio basata su un’originale rielaborazione delle teorie classiche e medievali della gubernatio, nonché sull’exemplum dei grandi governanti antichi e moderni. Se, in mancanza del fattore biologico, è l’institutio ad assurgere a strumento principale di legittimazione politica, allora l’exemplum – di cui quello, per dir così, familiare, è una sorta di “sottogenere” – ne diviene un elemento centrale. Cosicché, in linea con la tendenza generale del pensiero politico umanistico, il “sangue” non ha ormai più un valore dottrinale effettivo. Su queste premesse, e all’interno di questo quadro, vale la pena di esplorare l’esemplarità alfonsina per determinare la natura delle virtutes associate alla “funzione-Alfonso” e, nel cammino, sollevare qualche interessante questione dottrinale. 2. «VIRTUS». TIPOLOGIE DELL’«EXEMPLUM» ALFONSINO Prenderò in considerazione unicamente la letteratura strettamente dottrinale scritta dopo la morte di Alfonso (1458), nella seconda fase del Regno aragonese di Napoli, quando, per un momento, parve che il sogno di uno Stato razionale e solido, basato sulla collaborazione organica tra intellettuali e potere, fosse sul punto di realizzarsi. Si tratta di testi dichiaratamente teorici: restano dunque esclusi i testi storici – per esempio il De bello Neapolitano del Pontano – e, salvo qualche eccezione moti8. De institutione reipublicae, I 1 (apud Aegidium Gorbinum [Gilles Gourbin], Parisiis, 1585); si tratta dell’esordio dell’opera, dunque in posizione strategica: «Questa fu forse l’idea che all’inizio dei tempi convinse gli uomini, che vagavano dispersi, ad abbandonare la vita agreste e a raccogliersi in un solo luogo, e a darsi un capo che eccellesse per fortitudo, prudentia ed eloquenza, le cui decisioni essi osservassero come leggi. Ma le cose si degradano e la potenza rende gli uomini superbi e insolenti: chi sembrava mite e disponibile nell’esercizio del potere, riuscì estremamente iniquo e crudele»; il passo è citato anche, ad altro proposito, da M. Pastore Stocchi, Il pensiero politico degli umanisti [1987], in Id., Pagine di storia dell’umanesimo italiano, Milano 2014, pp. 26-83: 52. 59 GUIDO CAPPELLI vata, i trattati pontaniani riguardanti le virtutes nobiliari, cosiddetti “delle virtù sociali”, dal momento che la loro valenza teorico-politica è secondaria rispetto al ripensamento in senso per l’appunto etico-nobiliare9. Questa scelta è dovuta alla necessità di isolare nel modo più evidente la componente dottrinale dell’esemplarità alfonsina, escludendo l’aneddoto biografico e l’elemento puramente eroico-propagandistico. Parziale eccezione il tardo Liber rerum gestarum Ferdinandi regis di Antonio Beccadelli, il Panormita, un prodotto, si potrebbe dire, a cavallo tra due epoche e tra due generi, posto che, da un lato, rappresenta il trait d’union tra periodo alfonsino e periodo ferrantino, dall’altro, si pone sul crinale tra storiografia e dottrina politica10. Nell’impossibilità di offrirne un’analisi esaustiva in questa sede, ci limiteremo ad attirare l’attenzione sul discorso conclusivo di Alfonso morente – e qui più che mai speculum incarnato – al figlio, un de principe in pillole, una sorta di “testamento” politico incentrato sui punti salienti di securitas/mutua caritas11, garantite da humanitas, benignitas, iustitia, da apprendere e coltivare grazie al consiglio dei viri graves12. In tal modo, l’amor, ossia la coesione sociale, e l’inclusione del cittadino negli affari politici, assicureranno stabilità e durata: Tu vero, ut cepisti, pietatem cole, naturam tuam sequere, ab civibus amari quam timeri mavelis; proque certo teneas, quo magis illis de tuo iure ac potestate cesseris, eo tibi firmius ac durabilius Regnum obventurum13. 9. Argomento del resto egregiamente trattato nel contributo di L. Monti Sabia A. Iacono - D. D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo nel ricordo del Pontano [1998], in L. Monti Sabia - S. Monti, Studi su Giovanni Pontano, Messina 2010, pp. 1159-1190, di cui mi sono servito con profitto; vedi anche C. Finzi, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini 2004, pp. 130-131. 10. Su questo testo, cfr. l’importante Introduzione di G. Resta all’edizione da lui curata: Antonius Panhormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Palermo 1968. 11. Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, pp. 142-143: «Quid enim felicius evenire potest civibus bonis quam princeps bonus qui ve subditorum tanquam filiorum curam suscipiat eos amando locupletando et augendo? Eo quidem pacto civium benivolentia adquiritur et servatur… Prosunt nimirum arma, prosunt milites, prosunt divitiae: verum haec omnia absque subditorum gratia fluxa et incerta sunt». 12. Ibid., p. 143: «Hac… (ci)vium benivolentiam si humanitate, (benigni)tate, iusticia… ego tibi Regnum diutissime duraturum trado, sin secus feceris, fragile et caducum. Mutantur saepe quidem mores licentia, aetate, assentatione ac pravo consilio. Verum contra id unicum extat remedium, si gravibus et spectatae virtutis viris adherescas: hos, si me audis, adhibeas, observes, auscultes; his delecteris et gaudeas, quorum consilio et consuetudine, ex bono melior fieri potes». 13. Ibid.: «Tu coltiva la pietas, come già hai cominciato a fare, segui la tua natura, preferendo essere amato dai cittadini piuttosto che temuto; e abbi per certo che quanto più cederai loro parte dei tuoi diritti e del tuo potere, tanto più il Regno che 60 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO Con tale bagaglio di virtutes e di consenso, non sorprende che, come Alfonso si incarica di sottolineare giusto al principio del discorso, la successione – peraltro disputata e contesa fra «plures… qui ad Regnum hoc aspirabant» – si debba principalmente alle virtutes del giovane principe: Compulit me quidem ad hoc praeclara tua indoles et egregii mores quibus et procerum et populorum tibi benivolentiam vendicasse videris et quibus te sperant, non dominum sed regem, non regem sed patrem, curatorem et socium venturum14. Orbene, contrariamente forse a quanto ci si potrebbe aspettare, nel contesto della trattatistica teorica la figura di Alfonso riveste un ruolo piuttosto discreto. Con qualche eccezione, e in mancanza di un’analisi esaustiva15, la sua conversione in exemplum o (come già ho avuto modo di ricordare in altra sede) in funzione-personaggio, non pare sia andata più in là della prima fase del regno di Ferrante, nel clima di ricostruzione politica e morale posteriore alla guerra di successione, e riguarda essenzialmente Pontano e alcuni suoi epigoni. Comunque sia, l’exemplum crea antonomasia: quanto più sarà ripetuto, tanto più sarà effettiva la sua carica modellizzante, in positivo o in negativo; di qui che in molti casi la stessa ripetibilità dell’exemplum, la sua “fortuna”, siano parte integrante della sua significatività16. La tradizione umanistica, risalente ai classici per mediazione di Petrarca, è piena di affermazioni in questo senso17. riceverai sarà stabile e duraturo»; ad altra sede demandiamo l’analisi di questa richiesta, per certi versi sconcertante, di “cessione” di diritti e potestas. 14. Ibid., p. 142: «Mi ha indotto a ciò la tua indole eccellente, la tua condotta virtuosa, per la quale si vede che hai acquisito la benevolenza sia della nobiltà che del popolo, che così può sperare che sarai non un signore, ma un re, non un re ma un padre, un rappresentante, un alleato». 15. Manca, in particolare, l’esame del De maiestate di Giuniano Maio e un approfondimento di De fortitudine e De obedientia di Pontano, su cui vedi qualche cenno in Monti Sabia-Iacono-D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1172. Viceversa, ha dato esito negativo l’analisi dei pontaniani De prudentia e De magnanimitate. 16. Sull’esemplarità nella trattatistica politica cfr. P. Orvieto, Biografia ed aneddotica storica nei trattati umanistici De institutione principis (e nel Principe di Machiavelli), in La storiografia umanistica. Atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), cur. A. Di Stefano et alii, Messina 1992, pp. 153-180; sull’uso e la strategia pontaniani degli exempla (ma con specifico riferimento alle opere “sociali” e al De immanitate), F. Tateo, Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Lecce 1972, pp. 159-161. 17. A partire da Sallustio, Bell. Iug., IV 5: «cum maiorum imagines intuerentur [scil. Q. Maxumus et P. Scipio], vehementissume sibi animum ad virtutem accendi», passando per il Policraticus di Giovanni di Salisbury, per approdare a Petrarca (Fam., 61 GUIDO CAPPELLI Vi è poi una sottospecie di exempla che va al di là di questa carica modellizzante e si fa significante iconico di elementi della dottrina politica: funzioni associate a personaggi storici, funzioni-personaggio, appunto, figure esemplari intorno a cui si condensano tratti dottrinali strategici che trascendono la storicità del personaggio in questione, facendone una sorta di astrazione teorica o modello vivente di virtus. Rimandando a uno, anzi a vari elementi dottrinali, e forgiando una figura ideologicamente stilizzata, l’exemplum alfonsino risponde pienamente, entro i limiti indicati, a queste caratteristiche. Le allusioni ad Alfonso nella trattatistica aragonese rinviano dunque a caratteri in via di codificazione, o già codificati, nella tradizione teorica e propagandistica e, come questi, mirano a modellare la figura del re in un senso che – sulla scia delle elaborazioni precedenti, di età alfonsina, su tutte quella di Panormita18 – trascende il personaggio storico e ne fa, in modo schiettamente umanistico, l’incarnazione di virtutes politiche. Si tratta di uno scarto in senso teorico che va al di là dell’elaborazione storiografica e che caratterizza la seconda fase dell’“umanesimo monarchico” napoletano: al posto del sangue – o a fianco di esso – ciò che si trasmette sono ora le virtutes. Il percorso dal «principio dell’ascendenza di tipo dinastico-familiare» a quello «dinastico-ufficioso» è compiuto19. 3. «VIRTUTES». LA “FUNZIONE-ALFONSO” Il “paragone migliorativo” In via preliminare, va rilevata una movenza retorico-ideologica peculiare, che si potrebbe definire “paragone migliorativo”: si tratta di una comparazione familiare volta a sottolineare la virtus del secondo termine del paragone, cioè del discendente. Un caso appare nell’Oratio a Ferrante d’Aragona che Giovanni Brancato, un membro minore ma non disprezzabile dell’entourage umanistico, lesse pubblicamente nel 1472. Qui, l’elemento di superamento di Ferrante rispetto al padre è la pax, la capacità cioè di aver pacificato il Regno dopo la guerra civile di successione degli anni 1460-1464 – in dottrina, VI 4) e gli umanisti, per es. Vergerio, Guarino o, in ambito aragonese, Patrizi e lo stesso Pontano (De principe, ed. G. M. Cappelli, Roma 2003, pp. 25-27, par. 25, con questi e altri loci nella nota ad loc.) 18. Sulle quali è d’obbligo il rinvio a Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit. 19. Uso ancora la terminologia di Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 15 e 155-156. 62 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO clementia, prudentia e moderatio: «In hac [scil. in pace] nos universi tui subiecti ita iucunde iam pridem vivimus, ut faelices ab omnibus iudicemur, qui te regem habeamus huiusmodi pro nobis facinora molientem»20. Ma è dottrina che si staglia su un fondo di verità storica, nell’allusione alla lunga durata (circa un ventennio) della conquista del Regno da parte del primo Aragonese, cui fa da pendant il lungo periodo di pax generale assicurata dal successore: Quippe, cum in caeteris rebus Alphonsum regem preclarissimum patrem tuum recte tibi conpararemus, hac una nunc in re ausim dicere cum bona eius venia, abste superatum: quod enim ille summo cum labore vix longo tempore efficere potuit, id tu brevissimo quodam non solum effecisti, verum etiam effectum iam pridem tueris et quo in posterum usque tueri possis accuratissime studes, qui pacis ipsius muneribus adeo tecum ipse gaudes adeoque laetaris, ut eam non solum in hoc tuo regno, verumetiam in universa Italia et extra hanc etiam conficere sis conatus21. Nella trattatistica aragonese questo tipo di comparatio ha avuto una sua piccola fortuna, dovuta per l’appunto alla preminenza che già la prima propaganda alfonsina concede, come si è visto, all’idea di virtus come legittimazione del potere, a fronte dell’ascendenza biologico-dinastica. S’innesca un certamen de virtute in cui – stante il citato principio “dinastico-ufficioso” – non è indegno che il discendente superi l’antenato, a maggior gloria di entrambi. Tra le formulazioni reperibili, spicca quella del De principe di Pontano: «Cuius [scil. Alfonsi] te nomen referentem hoc eius exemplum, ut alia multa, imitari maxime oportet: ut enim avo turpe non esset vinci a nepote in litteris, sic nepotem te gloriae eius deesse turpe sit et dedecorosum»22. A testimonianza della sua efficacia retorica, la compa20. «In questa pace, noi sudditi già da tempo viviamo così lietamente, che tutti ci considerano felici, per avere un re come te, che, a nostro vantaggio, fa politiche come le tue»; l’oratio è edita in G. M. Cappelli, Giovanni Brancato e una sua inedita orazione politica, in «Filologia&Critica», XXVII/1 (2002), pp. 64-101 (par. 24) (testo alle pp. 84-92; alle pp. 64-71 un profilo bio-bibliografico dell’autore). 21. «Ché, se in altri campi possiamo paragonare a te tuo padre Alfonso, in quest’unico aspetto oserei dire che, con buona pace sua, tu lo hai superato: infatti, quel che egli è riuscito a fare a stento in molto tempo e con molti sforzi, tu non solo lo hai fatto in un tempo brevissimo, ma te ne fai garante e ti studi con ogni cura garantirlo in futuro, tu che godi e ti rallegri dei frutti della pace a tal punto che provi a portarla non solo in questo tuo regno, ma in tutta Italia e anche all’estero». 22. De principe cit., par. 26: «E a te che rinnovi il suo nome conviene assai imitare il suo esempio, come molte altre cose; ché, come non sarebbe un male per un avo esser superato dal nipote nelle lettere, così sarebbe turpe e disonorevole che tu, il nipote, non fossi all’altezza della gloria di lui» (il passo è rilevante anche a proposito dell’amore per le litterae, e ne esamineremo il resto infra, p. 00, note 25 e 26). 63 GUIDO CAPPELLI ratio figura nell’oratio che un giovanissimo Ermolao Barbaro indirizzava a Ferrante nella stessa occasione in cui Brancato leggeva la propria. Pur non essendo di provenienza aragonese, il testo di Barbaro ne rispecchia alcune linee guida della propaganda e in qualche modo sviluppa e spiega il senso encomiastico del paragone: «Sed libenter filio cessisset Alfonsus et gloria sua filius patrem condonasset contendissentque fortassis utri laus integrior asciscenda esset: patri voluisset observantissimus filius, filio ascripsisset indulgentissimus pater»23. Litterae Il principale elemento dottrinale legato alla figura alfonsina sembra essere l’amore per le litterae, che si pone come asse centrale della trasfigurazione ideologica di Alfonso – sostenuto, del resto, da abbondanti elementi di realtà storica. Il De obedientia, dei primi anni settanta, il più dottrinalmente impegnato dei testi pontaniani, ne fa fede laddove, nel V libro, dedicato agli officia della classe dirigente, la figura del re è messa in stretto rapporto, quasi in una sorta di dipendenza, con quelle degli intellettuali, immagine emblematica dei quali è il suo prestigioso segretario, Antonio Panormita: Quid dicam de rege Neapolitanorum Alfonso, cuius regia nunquam non referta fuit viris ingenio et doctrina praestantibus, quos pene quotidie aut lectitantes audiebat aut disserentes?… Nunquam passus est Antonium ne in periculosissimis quidem expeditionibus ab se discedere aut abesse diutius24. C’è appena bisogno di osservare che tale insistenza sulle litterae va strettamente legata alla rivalutazione del ruolo dell’intellettuale umanista: di 23. «Ma Alfonso avrebbe volentieri ceduto al figlio e questi avrebbe concesso la sua gloria al padre; e forse avrebbero conteso per stabilire a chi dei due dovesse essere riconosciuto un onore più integro: il devotissimo figlio avrebbe voluto riconoscerlo al padre, e il benevolo padre l’avrebbe attribuito al figlio»; l’orazione fu letta nel gennaio 1472 nel contesto di un ricevimento ufficiale: cfr. G. Cappelli, Debutto napoletano. Un’ignota orazione ufficiale di Ermolao Barbaro, in «Humanistica», V/1 (2010), pp. 111-124 (il passo e a p. 121, par. 8); un’altra occorrenza in Pontano, De magnificentia, XX 120 (ed. F. Tateo, Roma 19992), a proposito dell’allevamento di animali da caccia, in cui Alfonso è superato da Ferrante (Monti Sabia-Iacono-D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1174), ma qui non c’è quel “salto dottrinale” che è oggetto della nostra analisi. 24. De obedientia, per Mattiam Moravum, Neapoli 1490, lib. V, f. 91v: «Che dirò di Alfonso, re di Napoli, la cui corte è sempre stata piena di uomini eccellenti per ingegno e dottrina, che quasi ogni giorno il re ascoltava mentre leggevano o dibattevano?… Egli non ha mai permesso che Antonio, neppure nelle spedizioni più pericolose, si separasse da lui o gli stesse lontano a lungo» (cfr. anche Monti Sabia-Iacono-D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1180). 64 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO qui il suo valore dottrinale. Valore che già aveva affermato, in termini simili, il pontaniano De principe (1465 c.), dove Alfonso, exemplum moderno più citato (ben sei volte), compare di nuovo a fianco del Panormita nella famosa “ora del libro”, materializzazione dell’eccellenza delle litterae: Avus tuus Alfonsus, ne a domesticis recedam exemplis, Antonio poetae incredibili quadam voluptate operam dabat aliquid ex priscorum annalibus referenti, quin etiam veterum ab eo scriptorum lectiones singulis diebus audiebat ac, licet multis magnisque interim gravaretur curis, nunquam tamen passus est horam libro dictam a negociis auferri25. In questo e nell’exemplum precedente, come si vede, Panormita, in buona misura il creatore dell’immagine pubblica alfonsina, diviene egli stesso protagonista esemplare, imago paradigmatica dell’intellettuale non già “di corte”, ma pienamente organico a un progetto politico. Naturalmente, tutto è funzionale all’esaltazione della sapientia, in un’atmosfera che oscilla tra il precetto e il dibattito colto: Mirum est enim quantum valeat ad optimam vitae institutionem assidua et diligens lectio… Avus nunquam sine libris in expeditionem profectus, tentorium in quo asservabantur iuxta se poni iubebat cumque nullas Fabiorum, Marcellorum, Scipionum, Alexandrorum, Caesarum haberet imagines alias quas intueretur, libros inspiciebat, quibus gesta ab illis continerentur26. Le litterae sono dunque, per quel che riguarda il sovrano (e coerentemente con gli orientamenti profondi dell’umanesimo napoletano), essenzialmente historia, intesa come rappresentazione viva di gesta esemplari, 25. De principe cit., par. 24: «Tuo nonno Alfonso, per non allontanarmi dagli esempi di casa nostra, ascoltava con incredibile piacere il poeta Antonio Panormita che narrava qualche passo di storia antica. Anzi, ogni giorno ascoltava da lui brani di scrittori antichi e, anche se in quel frattempo era gravato da molte e serie preoccupazioni, mai permise tuttavia che gli fosse sottratta dagli affari dello stato la cosiddetta “ora del libro”»; sulla cosiddetta “ora del libro”, il momento, a dire dei propagandisti regi quotidiano, di raccoglimento e lettura del re, cfr. M. Santoro, La cultura umanistica, in Storia di Napoli, Napoli 1974, vol. IV/2, pp. 317-498: 330; C. Vecce, Il principe e l’umanista nella Napoli del Rinascimento, «Critica letteraria», 115-116 (2002), pp. 344-351: 346; sulla politica culturale alfonsina, J. Bentley, Politica e cultura nella Napoli aragonese, Napoli 1995 (ed. orig. Princeton 1987). 26. De principe cit., par. 26: «È straordinario, in effetti, quanto giovi a un’ottima formazione di vita la lettura assidua e diligente… Tuo nonno non è mai partito per una spedizione senza libri e faceva piantare vicino a lui la tenda in cui erano custoditi. E dal momento che non aveva da guardare altre immagini dei Fabi, dei Marcelli, degli Scipioni, degli Alessandri, dei Cesari, affondava lo sguardo nei libri, nei quali erano contenute le loro gesta». 65 GUIDO CAPPELLI equiparabili o superiori, come in Pontano, a imagines, come chiarisce un passo di Francesco Patrizi proprio in quella sezione del De regno dedicata a illustrare il curriculum studiorum del princeps: Proxima poetarum congnitioni historia accedit… cuius cognitio regibus, ducibus et imperatoribus et omnibus principibus perquam necessaria habenda est. Nam si corporum simulachra et effigies manu artificum factae iuvenum animos excitare solent ad eorum imitationem, quorum illae imagines sunt, quanto magis id assequentur historiae et rerum gestarum monimenta, quae mentem animumque exprimunt, non autem corporis lineamenta formaeque speciem?27 Più avanti, il De principe torna sull’amore di Alfonso per la cultura, questa volta riportando un dictum del sovrano (è fresca la lezione del Panormita, ancor vivo all’epoca della stesura del testo): Illud tamen nullo modo praeterierim quod, victo captoque Antonio Caldora, avus tuus cum exercitu in Pelignos profectus, cum pervenisset in locum unde Sulmo poterat despici, percunctatus an ea, ut ferretur, Ovidii esset patria et qui aderant affirmassent, urbem salutavit gratiasque genio loci egit, in quo tantus olim poeta genitus esset, de cuius laudibus cum non pauca disseruisset, tandem famae eius magnitudine commotus: «Ego – inquit – huic regioni quae non parva Regni neapolitani nec contemnenda pars est libenter cesserim si temporibus meis datum esset hunc poetam ut haberent, quem mortuum pluris ipse faciam quam omnis Aprutii dominatum»28. Religio Un altro degli aspetti che caratterizzano tanto l’Alfonso storico quanto quello della propaganda (e i due aspetti, abbiamo visto, spesso si 27. De regno et regis institutione cit., II, X, p. LXXIII: «Alla conoscenza della poesia si aggiunge la storia… la cui cognizione va ritenuta estremamente necessaria ai re, ai duchi, agli imperatori e ai principi in generale. Infatti, se i ritratti umani e le immagini create dagli artisti sogliono incitare all’imitazione gli animi dei giovani, quanto più otterranno quell’effetto le storie e le memorie delle azioni, che rappresentano il pensiero e l’indole, e non l’aspetto fisico e l’apparenza?». 28. De principe cit., par. 32: «Tuttavia, non potrei in alcun modo lasciare da parte un episodio: dopo aver sconfitto e catturato Antonio Caldora, tuo nonno, recatosi con l’esercito in Abruzzo, giunto in un luogo dove si poteva vedere Sulmona, chiese se quella fosse, come si diceva, la patria di Ovidio e alla risposta affermativa di quelli che erano presenti, salutò la città e rese grazie al genio del luogo dove un tempo era nato un così nobile poeta, e dopo aver parlato a lungo dei suoi meriti, alla fine, commosso dalla grandezza della sua fama, disse: “Volentieri avrei rinunciato a questa regione, che è parte non piccola e non disprezzabile del Regno di Napoli, se alla mia epoca fosse stato concesso di avere questo poeta, che da morto io stimo più della signoria di tutto l’Abruzzo”». 66 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO sovrappongono) è l’insistenza sullo spirito religioso e sul rispetto del cerimoniale, la cui valenza politica è dovuta sia all’affermazione della preminenza di Alfonso sugli stessi antichi proprio grazie alla sua eccezionale religio, sia, d’altro canto, alla necessità di istituire una linea diretta con la volontà divina, indipendentemente dalla mediazione papale29. Il De principe di Pontano traduce in dottrina questi elementi inizialmente forgiati dalla propaganda alfonsina della precedente generazione: Quantum autem ad popularem comparandam benivolentiam religionis valeat opinio docuit macedo Alexander, qui etiam superstitionem laudare solitus est, tanquam per eam in plebis animos rectores ipsi illaberentur. Qua virtute et Cyrus hic de quo dixi et Camillus et Africanus et praestantissimi quique viri excelluerunt, et avus tuus Alfonsus omnes aetatis suae multorumque ante seculorum reges superavit, quem sacra stata ritusque christianos ac solemnes cerimonias tanto cultu observasse certum est, ut ne ab ipsis etiam sacrosanstis pontificibus in hoc vinceretur30. È, a suo modo, un passo celebre, che ha dato luogo a una certa controversia, soprattutto riguardo al significato di opinio, termine che ha generato fraintendimenti (che non è qui il caso di discutere) riguardanti un presunto “precorrimento” pontaniano della nozione – sostanzialmente estranea all’umanesimo politico – di simulatio. Piuttosto, si tratta di “procacciarsi” (comparandam) la benevolentia, cioè il consenso. Questo, intanto, ci suggerisce che il passo va contestualizzato, accostandolo a un altro brano del Charon. Mercurio ha appena criticato aspramente la superstizione. Ma Caronte afferma: Sed tamen, nescio quomodo, dum homines ipsi essemus gentibusque imperaremus, gubernandis populis ea necessaria visa est; adeo videtur male agi cum iis civitatibus in quibus superstitio nulla est! Unde namque tantum boni in hominum vita, ut multitudini nota esse possit vera religio?31 29. Su quest’aspetto, centrale nella storiografia aragonese, e sui contesti e i significati, cfr. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 17-18, 69-72, 155-156. 30. De principe cit., par. 5: «Quanto poi una fama di religiosità valga a ottenere il favore del popolo lo ha mostrato Alessandro il Macedone, che era solito lodare persino la superstizione, quasi che attraverso di essa i governanti riuscissero a insinuarsi nell’animo del popolo. In questa virtù riuscirono eccellenti sia il Ciro di cui ho parlato, sia Camillo, sia l’Africano, e tutti gli uomini di maggior valore; e tuo nonno Alfonso, poi, superò tutti i re dell’epoca sua e di molti secoli precedenti, egli che – si sa – rispettò le feste stabilite, i riti e le solenni cerimonie della religione cristiana con tanto scrupolo da non esser superato in ciò neanche dagli stessi santi pontefici». 31. Dialoghi cit., p. 200: «Ma tuttavia, non so come, mentre noi eravamo uomini e regnavamo sulle genti, reputavamo che la superstizione fosse necessaria per gover- 67 GUIDO CAPPELLI Siamo insomma in un contesto strettamente politico (enfatizzato, nel secondo testo, dalla prospettiva oltremondana dei protagonisti), in cui la religio è, obiettivamente, instrumentum regni. Nulla di strano, a livello dottrinale: nel passo del De principe Pontano, a rigore, riporta un’opinione altrui, cioè di Alessandro magno, trasmessa da Curzio Rufo (IV 10 7) e che in ogni caso ha come base teorica il II libro del De legibus ciceroniano nonché De inventione, II 160, dove viene privilegiato l’aspetto rituale e cerimoniale della religio, funzionale al discorso politico: «quae superioris cuiusdam naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque affert». Tutto ciò non coinvolge la religiosità di Alfonso (e del governante in generale) e tanto meno significa un’esaltazione della simulazione, per giunta in questioni religiose. Anzi, è vero che la religiosità di Alfonso non solo non è messa in discussione, ma viene additata a modello pressoché insuperabile. La linea, come si è visto, era già nel Panormita: «Deum igitur in primis cole, in eum confide, a quo cum victorias omnis, tum optima quaeque provenire dubio procul est32». Nella realtà, peraltro, pare che il primo Aragonese facesse davvero sfoggio di vistose forme di devozione, come il lavaggio dei piedi ai poveri. Per non riandare al Panormita33, si veda per esempio, il racconto del meno noto e prestigioso Filippo De Lignamine, Yncliti Ferdinandi regis vita et laudes (1472): qui quaque veneris die, qua Christus noster passus est, coacta in atrium non modica pauperum multitudine, illos pascere, illis regiis manibus ministrare pastosque, non nisi praestita elemosina deosculataque manu, remittere… Consueverat etiam rex ille divinus singulis annis tot convestire nudos quotquot ad aetatem suam anni accessisent. Quae omnia studiosus puer [scil. Ferrante] cum observaret diligenter externis domesticisque exemplis in dies formabatur34. nare i popoli: a tal punto sembrano andare male le cose in quelle città dove non si trova la superstizione. Da dove infatti potrebbe derivare tanto bene nella vita degli uomini che la vera religione possa essere nota alla moltitudine?». 32. Panormita, De dictis et factis Alphonsi regis, che cito dall’ed. M. A. Vilallonga, in J. Centelles, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, Barcelona 1990, p. 238 (III, 51): «dunque, onora innanzitutto Dio, confida in lui, dal quale non vi è dubbio che provengano tutte le vittorie e ogni ottima cosa». 33. Il cui brano in proposito è discusso da Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., p. 63; e anche (con il racconto del lavaggio dei piedi), Bentley, Politica e cultura nella Napoli aragonese cit., p. 67 34. Ed. E. Pontieri, in Id., Ferrante d’Aragona re di Napoli, Napoli 1969, p. 144: «Ogni venerdì di passione, raccolto nell’atrio un nutrito numero di poveri, li cibava, li serviva con le sue mani e non li rimandava indietro prima di aver fatto loro l’elemosina e baciata la mano… Quel re divino era solito anche vestire ogni anno tanti 68 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO In realtà, l’intento di Pontano si scopre nel riferimento alla superiorità di Alfonso rispetto agli stessi sacrosanti pontefici: cioè affermando – come Alfonso aveva fatto sin dal suo celeberrimo e spettacolare triumphus35 – la propria assoluta indipendenza sovrana, anche e soprattutto rispetto alla Chiesa. Semplicemente, e in buona dottrina politica, la religio può farsi instrumentum regni: in questa prospettiva, il passo del De principe adatta, in definitiva, le convinzioni teorico-politiche di Pontano allo stile, e molto probabilmente alla volontà, dello stesso Alfonso, senza al contempo perdere l’occasione per accentuare l’idea di una religio essenzialmente civile, secondo una linea “romana” che va da Cicerone a Machiavelli. Fortitudo Il celebre episodio della sconfitta navale di Ponza, che, nel 1435, vide l’Aragonese, inizialmente prigioniero del duca milanese Filippo Maria Visconti, capovolgere a proprio favore il rovescio di fortuna, tessendo (all’apparenza in modo inatteso), una salda alleanza con lo stesso duca, offre al Pontano l’occasione per la metamorfosi di Alfonso in “funzione” della fortitudo, la virtus che riunisce le caratteristiche di valore militare, capacità di sopportazione nella sconfitta e autocontrollo nella vittoria – tutte qualità che si esaltano nella rievocazione esemplare della vicenda bellico-diplomatica: Quid quod non raro videmus adversas res magnorum praebuisse causas bonorum? Alfonsus, de quo dixi et saepius dicam, navali praelio superatus, a Genuense capitur, tanquam Regno neapolitano, quod postea contigit, ex captivitate potiturus ac nisi victus prius non esset tandem victor futurus. Adde quod, nescio quo pacto, parta ac retenta cum labore magis nos delectant carioraque multo habemus, quam si aut casu aliquo oblata essent aut si curam eorum nullam habere nos oporteret36. poveri ignudi quanti erano gli anni che compiva. E tutte queste cose, quel zelante ragazzo, osservandole con attenzione, si formava giorno dopo giorno nell’esempio di estranei e familiari»; lo stesso Pontano farà cenno a queste forme di religiosità esteriore catalogandole come magnificentia nel trattato eponimo: cfr. Monti Sabia-Iacono -D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1170; sulla proverbiale obbedienza di Ferrante ad Alfonso, Finzi, Re, baroni, popolo cit., p. 72. 35. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 103-144 (e passim). 36. De principe cit., par.18: «Senza dire che non di rado vediamo che circostanze avverse hanno offerto occasione di grandi beni. Alfonso, che ho menzionato e menzionerò spesso, vinto in battaglia navale, viene catturato dai genovesi: come se avesse dovuto impadronirsi del Regno di Napoli, come poi accadde, in grazia della prigionia, e non avesse potuto essere vincitore se non essendo prima sconfitto. Aggiungi che, non so per quale motivo, le cose procurate e mantenute con fatica ci piacciono di 69 GUIDO CAPPELLI La funzionalità dell’exemplum appare ancor più perspicua se si allarga la visuale al contesto del passo, che riguarda l’atteggiamento di Ferrante di fronte al caso avverso della disfatta militare di Sarno (De principe, parr. 1617), istituendo, una volta ancora, una sorta di legame “figurale” tra i due episodi e, di conseguenza, un vincolo dinastico non già di sangue ma di virtus, tanto più che la fortitudo si presenta come uno degli elementi essenziali della costruzione dell’immagine sovrana di Ferrante (e anche dell’erede Alfonso)37. Comitas gravitate temperata Tra le qualità che conformano la maiestas, vi è la comitas – “affabilità”, “gentilezza” –, concetto di matrice ciceroniana che richiama il governante a un prestigio non esente da accessibilità e “buone maniere”. Il motivo di fondo è, in sostanza, la ricerca della benevolentia del suddito, cioè il consenso e, in ultima analisi, una coesione sociale fondata sul riconoscimento dei ruoli rispettivi all’interno del corpus politico. Se ne fa teorico il Pontano del De principe: Imprimis autem studere oportet ut qui te adeunt facilem esse intelligant. Nihil enim tam alienum est a principe, nec quod aliorum in se odium tantopere concitet, quam asperitas et ea quae «morositas» dicitur. Contra vero, in omni vita maxime laudatur comitas gravitate temperata. Avus tuus hac una re potissimum benivolentiam hominum sibi conciliabat, quod neminem patiebatur tristem a se abire illudque Titi frequens in ore habebat, non oportere quenquam a sermone principis tristem discedere38. più, e le teniamo molto più care che se ci fossero offerte per qualche caso fortuito o non fosse necessario avere cura alcuna di esse»; vedi anche la menzione in Monti Sabia -Iacono-D’alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1161; una spia lessicale («parta ac retenta cum labore etc.») indica la dipendenza ideologica dal De dictis del Panormita (rilevata nel De fortitudine, ibid., p. 1162; per la contestualizzazione, cfr. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., p. 68.) 37. Cenni in Finzi, Re, baroni popolo cit., pp. 172-180; la trasfigurazione dottrinale della battaglia di Sarno è analizzata da G. Cappelli, La realtà fatta dottrina. Sarno e dintorni nel pensiero politico aragonese, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 116 (2014), pp. 193-216. 38. De principe cit., par. 11: «Ma soprattutto occorre fare in modo che coloro che ti si accostano avvertano che sei disponibile. Nulla è infatti tanto estraneo a un principe e suscita tanto contro di lui l’odio degli altri, quanto la scontrosità e quella che si dice morositas, cioè intrattabilità. Viceversa, in ogni condotta di vita si apprezza moltissimo un’affabilità temperata dalla gravità. Con quest’unica qualità tuo nonno si accattivava particolarmente la benevolenza degli uomini, poiché non permetteva che nessuno si allontanasse da lui, e citava ciò che spesso diceva Tito: “Occorre che nessuno si allon- 70 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO Qui, l’avus è messo in relazione con l’imperatore Tito, e non può sfuggire questo nesso romano-imperiale che, ancora una volta, trasferisce nella dottrina un importante elemento della propaganda alfonsina39. È notevole, infine, la sopravvivenza di quest’immagine in una tarda lettera diplomatica di Ferrante II ai Capuani (1495): «da nostro cospetto se haverà meritamente da partire con piena satisfattione de animo et col core allegro et ben contento»40. Clementia La clementia di Alfonso era stato uno degli architravi della strategia di costruzione del consenso condotta dal Panormita e da Facio. Qui è appena il caso di rammentarne il significato ideologico in quanto virtus prettamente legata alla sovranità e all’esercizio del potere “assoluto”, in quanto necessario contrappeso all’arbitrio e materializzazione (in positivo) del diritto di vita e di morte del sovrano41. Al proposito è pertinente un passo del De fortitudine di Giovanni Pontano: «Alfonsus parci Neapolitanis iussit atque a direptione captae per vim orbis statim contineri, fraternae necis oblitus»42, dove spicca il termine parci, di chiare risonanze virgiliane («parcere subiectis et debellare superbos», Aen., VI 853), e che, proprio per questa via, circola nella trattatistica aragonese quasi come termine tecnico per la clementia, tanto più che, come detto, essa è una della principali caratteristiche messe in risalto dalla propaganda alfonsina43. tani triste da una conversazione con un principe”»; per i paralleli ciceroniani (De senectute, 10, Ad Quint. fr., I 1, 23) cfr. ivi, nota ad loc. e Introduzione, p. XCVIII. 39. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 62, 103-104, 114, anche se la linea degli antichi imperatori di origine ispanica non contempla, ovviamente, il romano Tito. 40. Devo il riferimento a Chiara De Caprio, “Voi resterete bene contenti et allegri”. Le relazioni politiche fra universitas e monarchia attraverso i “quaderni” dei sindaci di Capua, relazione inedita all’XI Convegno Asli, L’italiano della politica e la politica per l’italiano (Napoli, 20-22 novembre 2014). 41. Sulla limitazione dell’arbitrio, cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, I, Bologna 1987, p. 228; su Pontano e il pensiero umanistico, Cappelli, Introduzione a Pontano, De principe cit., pp. LXXIX-LXXXI; in particolare, sulla clementia come ius remittendi, D. J. Domínguez González, La antesala del Leviatán. Las maneras de la integración política en la época prerrevolucionaria, in «Bajo palabra. Revista de filosofía», Época I, núm. 2 (2007), pp. 57-72: 65. 42. De fortitudine, Neapoli, per Mattiam Moravum, 1490, I, f. g1v; cfr. Monti Sabia -Iacono-D’Alessandro, Alfonso il Magnanimo cit., p. 1164, che segnalano anche, in questo e altri casi, il parallelo di Tristano Caracciolo; vedi anche ibid., sul rigore di Alfonso con i legati, citato nel De obedientia. 43. Cfr. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 69, 136 (in connessione con 71 GUIDO CAPPELLI Iustitia L’importanza della iustitia come fondamento di ogni virtus (sin da Aristotele e Cicerone) è ben nota e costituisce uno degli elementi portanti del nesso tra teoria e pratica politica che caratterizzò l’epoca umanistica e aragonese in particolare44. Nella realtà storica, pare che i successori di Alfonso cercarono effettivamente di continuare l’uso, tutto politico, di tenere udienze pubbliche, inaugurato dal primo Aragonese con l’evidente finalità di rendere manifesta la presenza sovrana, secondo la nozione giuridico-politica, di lunghissima tradizione, del re come lex animata45. Un passo di Diomede Carafa – che, non si dimentichi, era un alto funzionario della corte – riassume con estrema chiarezza le motivazioni concrete della pubblica udienza, unendo nella sua pratica i primi tre aragonesi, ora più che mai accomunati da un vincolo di virtù più che di sangue: Et certo questa parte de l’udienza pubblica usata per la bona memoria del re Alfonso et anco per la Maiestà de vostro padre [Ferrante] talvolta èi cosa assay laudabile et èi bona causa che se ne vetano multi inconvenienti, che travenino omne dì per li grandi fayno alli piccoli, per li ricchi ali poveri, per li fagoriti cortesani alli altri non prattichi in corte, che per dicta auctorità sforzano, bactino, non pagano et de simele cose, ché sapendose che lo Signore dà audientia et che omne uno se po querulare, multi per dicta audientia se refreneno, che per loro no lo fariano46. Va solo osservata, in aggiunta, la prescrizione esplicita, in linea con l’essenza organicista dell’umanesimo politico, di proteggere i più deboli, secondo una concezione della iustitia come attività politica perequativa. Il il De principe pontaniano); senza dimenticare che l’iscrizione dell’arco di trionfo di Castel Nuovo in Napoli recita appunto: «pius, clemens, invictus». 44. Nella sterminata bibliografia, che non è neppure il caso di accennare, mi limito a segnalare, per la situazione aragonese, F. Storti, “El buen marinero”. Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, Roma 2014, in part. pp. 38-46 e 76 (con il passo del Carafa cit. qui a testo). 45. Scontato il riferimento a E. H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989, pp. 76-165; per il De principe e la letteratura umanistica, vd. l’annotazione al par. 48 dell’ed. cit. 46. D. Carafa, I doveri del principe, in Id., Memoriali, ed. F. Petrucci Nardella, Roma 1988, p. 150. Un rinvio esplicito all’insufficienza della successione ereditaria è nel Memoriale a Francesco d’Aragona, ivi, p. 305: «tanto più ha de bisognio la Signoria vostra èssire virtuoso, quanto, como ho dicto, ve ne è stata causa per vostro patre, site de tale progenie, non havite successione si no tanto, quanto la virtù, bontà et dispositione cum singulare ingenio ve nde daranno». 72 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO precetto, naturalmente, era già biblico, ma dai carolingi, attraverso Giovanni di Salisbury, scende fino al De obedientia di Pontano e in varia misura informa, come si è detto, l’esercizio concreto del potere politico47. CONCLUSIONI Come si vede, molti degli elementi dell’originaria propaganda alfonsina, quella degli anni “eroici” di Panormita e Facio, tornano – dottrinalmente raffinati, convertiti in astrazioni e pronti per integrarsi nel tessuto teorico – nella trattatistica politica della generazione successiva. Le implicazioni sul piano della dottrina della virtus sono evidenti; quelle che investono la concezione dinastico-ufficiosa si condensano nel proemio del De regno di Francesco Patrizi, un passo che è un po’ come il distillato di tutta la pubblicistica su Alfonso e torna a riunire i tre aragonesi in un’unica linea di virtus, in un crescendo che culmina proprio con le gesta del Magnanimo. Siamo nel preambolo generale; l’autore si scusa con una captatio benevolentiae – “chi sono io per insegnarti l’arte di governo?”. Infatti: Nonne tibi ego quasi alter Phormio ludibrio futurus sum, quum has meas commentationes legeris, in quibus ea recognosces quae tibi a teneris annis cognita extiterunt et vernacula disciplina quasi peculiaria? Habes enim ex domestica institutione regnandi rationem exempla omnium virtutum et integram atque absolutam rei militaris scientiam. Unico asclepiadeo versiculo plane se laudasse putavit lyricus noster Flaccus virum illum summum atque illustrem atque Augusti Caesaris comitem in rebus totius orbis terrarum gerendis, quum ait, ode prima libri primi: «Mecoenas, atavis edite regibus», quasi nihil ei virtutis, sapientiae, gloriae ac dignitatis deesse possit, qui generis sui a veteri ac longa regum progenie ducit. Pater tuus Ferdinandus consilio, prudentia, fortitudine atque omni virtute reges omnes sui temporis antecellit… Avus autem tuus Alphonsus, cuius nomine tu quoque nuncuparis, regum fuit rex, ut ex veteri consuetudine loquar, et non modo avitis regnis magna cum dignitate successit, verum gratia, virtute et armis nova quoque adeptus est deque omni hominum genere optime meritis alter Magnus Alexander gloria ac magnificentia ab omni47. Giovanni di Salisbury, Policraticus, ed. C. Webb, Oxford 1909, IV 2: «Pedibus vero solo iugiter inherentibus agricolae coaptantur, quibus capitis providentia tantum magis necessaria est, quo plura inveniunt offendicula, dum in obsequio corporis in terra gradiuntur, eisque iustius tegumentorum debetur suffragium, qui totius corporis erigunt sustinent et promovent molem»; Pontano, De obedientia cit., IV, f. 56r: «ita civitates ipsas solvi ac dilabi necesse est, ubi caruerint rectoribus qui et inter cives iustitiam procurent et publicae salutis curam gerant pacemque tueantur ac pacis bona». 73 GUIDO CAPPELLI bus mortalibus dum vixit habitus est; post obitum vero omnium suffragiis divum nuncupatus et in divinum numen relatus esse creditur48. Alfonso – «regum rex»49 – ha dunque conquistato nova regna solo ed esclusivamente per mezzo delle sue virtutes, e con esse, grazie a un’umanistica «domestica institutio», i suoi successori hanno conservato e aumentato il Regno. Alfonso divinizzato (Deo similis!), Alfonso – di nuovo, al principio e alla fine – paragonato ad Alessandro Magno, come agli inizi dell’avventura, quando il rude poeta castigliano gli rivolgeva proprio questo augurio ruspante: «Endreçe Dios et vos faga segundo Alexandre»50. Noi sappiamo che le cose non andarono esattamente così, e che nel secolo seguente i grandi signori della guerra francesi, spagnoli, tedeschi, il sangue lo fecero valere, eccome – sia rosso che blu. Ma in quell’alba umanistica, quando per un momento parve che tutto fosse possibile, sangue e unzioni si videro improvvisamente come ridotti a elogio retorico, a merito da proemio, a reliquia del passato, privi della consistenza e della potenza dottrinale della virtus, sulla quale l’umanesimo politico, nella sua raffinata versione monarchica aragonese, stava costruendo la propria peculiare idea di Stato moderno. 48. De regno et regis institutione cit., Prooemium, p. II: «Non sarà che io, novello Formione, diventerò il tuo zimbello, quando leggerai queste mie riflessioni, dove non riconoscerai altro che cose che sapevi sin dai teneri anni e che fanno quasi parte di te per educazione domestica? Per educazione familiare hai infatti come modello di governo esempi di tutte le virtutes e una conoscenza militare totale e assoluta. Il nostro Orazio lirico ritenne di elogiare senz’altro, con un unico verso asclepiadeo, quel grandissimo personaggio che accompagnava il Cesare Augusto nel governo del mondo intero, quando dice, nell’ode prima de libro primo: “Mecenate, stirpe di re ancestrali”, come se nulla – né sapere né gloria né dignità – potesse mancare a chi proviene da lunga e antica progenie di re. Tuo padre Ferdinando supera tutti i re del suo tempo per consiglio, prudenza, fortezza e ogni altra virtù… Tuo nonno Alfonso, di cui porti il nome, è stato, per dirla all’antica, re di re, e non solo succedette nei regni aviti perché ne era veramente degno, ma con l’abilità politica, la virtus e le armi ne acquistò di nuovi e, per i suoi meriti verso l’intero genere umano, finché visse fu considerato da tutti, per gloria e magnificenza, un secondo Alessandro magno; dopo la morte, poi, col consenso generale, si crede che fu divino e annoverato tra gli dei». 49. Sull’importanza strategica di sapore imperiale di questo epiteto, assimilabile al regum princeps iscritto nell’arco di Castel Nuovo, cfr. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo cit., pp. 101, 161. 50. Si tratta del Comiat entre.l Rey e la Reyna en el biaje de Nápols, cit. da M. de Riquer, Alfonso el Magnánimo visto por sus poetas, in Id., Estudios sobre Alfonso el Magnánimo, Barcelona 1960, pp. 178-179. 74 SANGUE E VIRTÙ NELLA CARATTERIZZAZIONE DOTTRINALE DI ALFONSO ABSTRACT And all The Rest is Doctrine: Blood and Virtue in the Doctrinary Characterization of Alfonso This essay examines the image of Alfonso the Magnanimous in the most important Neapolitan-Aragonese political treatises of the second half of the fourteenth century. It studies how Aragonese political thought (in the works of humanists like the Panormita, Pontano, Brancato, and Patrizi) goes beyond an idea of legitimacy based on biological, dynastic descent, to, instead, make it dependent upon a new theory of virtus – i.e., the human ability to act autonomously, which can be gained through education (institutio). Therefore, in line with the general premises of political humanism, several classical and humanistic virtutes, such as iustitia, clementia, and the love for litterae, become main factors in the justification of the exercise of power. Guido Cappelli Universidad de Extemadura – Università di Napoli “L’Orientale” gcappelli@unior.it 75 Antonietta Iacono L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI LORENZO VALLA L’estrema esiguità della produzione poetica spinge a ritenere, che il far versi non fu tra le attività predilette da Lorenzo Valla1. Accanto a una sparuta silloge di epigrammi compaiono, infatti, una sperimentale e controversa Ars grammatica in 362 esametri, le porzioni in versi delle Emendationes quorundam locorum ex Alexandro ad Alphonsum primum Aragonum regem2 e il suggestivo componimento intitolato Novencarmen, che per mole e tecnica compositiva si presenta come il lavoro in versi più complesso e significativo dell’umanista. Alla precoce attenzione degli studiosi per il trattatello grammaticale, alimentata soprattutto dall’apparente contrasto con le teorie grammaticali e stilistiche del Valla3, si contrappone una scarsa valutazione della silloge di versi, che l’umanista pure si preoccupò di mettere insieme probabilmente tra gli anni 1443-1444. Solo nel 1986 un saggio di Francesco Lo Monaco ha fornito un primo quadro dei carmina autenticamente attribuibili al Valla, ricostruendone anche la tradizione manoscritta4. Più di recente, una rinnovata attenzione alla produzione in versi del Valla emerge da un saggio di Mariangela Regoliosi, in cui viene delineata la poetica dell’umanista anche in relazione al dibattito tre-quat1. Si trattò peraltro di un’attività che attirò non poche critiche al Valla: cfr. Poggius Bracciolini, Invectiva quarta in Vallam, in Id., Opera omnia, ed. R. Fubini, II, Opera edita et inedita, Torino 1966, pp. 869-885. 2. L’opera sulle declinazioni dei nomi composta a Napoli (tra il 1442 ed il 1447) ha una struttura mista in prosa e versi. Cfr. Laurentius Valla, Emendationes quorundam locorum ex Alexandro ad Alfonsum primum Aragonum regem, ed. C. Marsico, Firenze 2009. 3. Si tratta di un’opera incompleta, segnalata per la prima volta da R. Sabbadini, Versi grammaticali di Lorenzo Valla, in «Biblioteca delle Scuole italiane», 8 (1899), p. 134. L. C. Martinelli, Note sulla polemica Poggio-Valla e sulla fortuna delle Elegantiae, in «Interpres», 3 (1980), pp. 29-79, contestò la paternità valliana del trattatello, attribuito oggi in maniera documentata all’umanista dalla curatrice dell’edizione critica Paola Casciano: Lorenzo Valla, L’arte della grammatica, ed. P. Casciano, Milano 1990, p. XXV. 4. F. Lo Monaco, Per una edizione dei Carmina di Lorenzo Valla, in «Italia Medioevale e Umanistica», 29 (1986), pp. 139-164. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 ANTONIETTA IACONO trocentesco sulla poesia5; e trova il giusto spazio anche nel progetto dell’edizione degli Opera Omnia del Valla attraverso un sintetico saggio di Francesco Lo Monaco, che offre un quadro agile e documentato della tradizione manoscritta dei carmina dell’umanista6. Allo stato attuale della recensio codicum i 25 carmi valliani sono traditi da 3 manoscritti miscellanei: Napoli, Biblioteca Nazionale di Napoli, ms. V. E. 58; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo RossiCassigoli 372; Oxford, Bodleian Library, Canon. Misc. 1697. Il più ricco dei testimoni risulta essere il manoscritto napoletano, cui è vicino per completezza il codice Rossi-Cassigoli, mancante però di tre carmi, 10, 19 e 20 della raccolta, secondo la numerazione data da Francesco Lo Monaco. Quest’ultimo codice si presenta per la qualità testuale come il più accreditato, pur se meno completo del Napoletano: grazie poi alla sottoscrizione («Scriptum Rome per me Ieronimum Pistoriensem. Anno Domini M.CCCC.XLVI. die XVI augusti») che ne data l’allestimento al 1446 esso offre un sicuro terminus ante quem per datare l’organizzazione della silloge a epoca anteriore a tale data8. Il Novencarmen si presenta come un carme polimetrico, la cui composizione è databile a epoca immediatamente successiva al 1439-1441: tale datazione si ricava dalle prime battute, in cui si allude all’assedio di Acerra9, e dai versi finali dell’ultima sezione che si riferiscono rispettivamente alla conquista di Acerra (avvenuta il 25 dicembre 1439); alla conquista di Aversa (avvenuta nel gennaio del 1440), e alla speranza sempre più concreta di conquistare presto anche Napoli10. L’opera, dunque, fu composta 5. M. Regoliosi, Le ‘virtutes loquentes’ di Lorenzo Valla. Ovvero, intorno all’idea valliana di poesia, in Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, cur. G. Venturi - M. Farnetti, I, Roma 2004, pp. 112-121. 6. F. Lo Monaco, Il progetto di edizione dei carmina, in Pubblicare il Valla, cur. M. Regoliosi, Firenze 2008, pp. 263-266. 7. Lo Monaco, Per l’edizione cit., pp. 144-145, con relativa bibliografia. 8. Il codice napoletano V. E. 58 reca a c. 149v una rubrica (Laurentii Vallensis poemata quibus interdum ludere oratori permittitur), che secondo Lo Monaco certifica una ‘presenza valliana’ nell’organizzazione stessa dei materiali poetici ivi raccolti: cfr. Lo Monaco, Per l’edizione cit., p. 264. 9. Novencarmen, I 1-3: «Nuper ab obsessis se rex Alfonsus Acerris / Caietam multa non comitante manu / Contulerat…»; cioè «il re Alfonso da Acerra, che aveva da poco stretto in assedio, s’era portato a Gaeta con un seguito non numeroso». Cito il testo qui e sempre, in mancanza di un’edizione critica, dal codice più accreditato dal punto vista testuale: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Rossi-Cassigoli 372. Ho ritenuto utile fornire qui e in seguito, per i soli brani del Novencarmen, una traduzione che supporti la comprensione di un testo non sempre cristallino. 10. Novencarmen, IX 25-30: «Vixque dies abiere decem capiuntur Acerre / Et per bis totidem est arx quoque capta dies, / Nec longum hinc Aversa; sed o quis talis in 78 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA dal Valla nel clima concitato e vivace precedente la conquista della capitale del Regno, allorché Alfonso circondato da uno stuolo di intellettuali di avanguardia e dotati anche di buon coraggio, organizzava la sua corte in forma itinerante all’interno di un territorio non ancora completamente conquistato e sottomesso, tra Gaeta e Capua, esponendo se stesso e il suo entourage a spostamenti improvvisi e spesso tumultuosi, a insidie e manovre belliche. E questo clima si riverbera nei versi del Valla in una trama che gronda di letteratura e di memorie classiche. Come indica il titolo, si tratta di un componimento costituito di nove canti in cui alla voce dell’autore11 si alternano le voci e i canti di altri personaggi12, con specifiche funzioni celebrative nei confronti di Alfonso il Magnanimo. Si delinea così una struttura caratterizzata dall’utilizzo di speciali registri metrici, che danno una fisionomia suggestiva all’intera composizione e sembrano rapportare il gusto e l’ispirazione poetica del Valla ad un particolare filone della poesia tardo-antica connotato da ardite costruzioni polimetriche. La studiata veste metrica del carme, che si spinge fino all’esibizione di sistemi metrici preziosi, documenta la consapevole scelta operata dal poeta di una metrica innovativa nel panorama della coeva poesia: una scelta che intende evocare una tradizione polimetrica che parte da Plauto, passa per Catullo, per il prezioso e poco imitato per l’epoca Orazio, giungendo fino ad Ausonio, a Paolino da Nola, a Prudenzio, a Boezio. Rapportata, però, alla tradizione più propriamente classica, la sperimentazione del Valla risulta in qualche modo ancora più estrema per l’utilizzo di metri vari all’interno di uno stesso componimento, secondo una struttura aritmeticamente scandita in sequenze e blocchi giustapposti. Il gusto per questo virtuosismo metrico richiama così alla mente, sì, una tradizione classica di polimetria, ma più specificamente esso pare voler gareggiare con le costruzioni metriche dei canti delle commedie plautine o rinnovare quelle delle Epistolae metricae di Ausonio o di Paolino da Nola. E non si può qui che sottolineare quanto questa tecnica hostes: / Incolumis vita iis, incolumes et opes! / Parthenopenque modo vinci speremus eodem / Atque eodem veniam speret et ipsa modo»; «E non erano ancora passati dieci giorni, quand’ecco che Acerra viene presa, e dopo una ventina di giorni anche la rocca fu conquistata e non molto tempo dopo anche Aversa; ma chi si mostrò tale nei confronti dei nemici: essi ebbero salva la vita e le ricchezze! E speriamo che anche Partenope sia vinta allo stesso modo ed essa stessa speri benevolenza di pari misura». 11. All’auctor sono attribuite cinque narrationes che introducono fatti, personaggi e ambientazione del poema. 12. In particolare, nell’opera si succedono due orazioni rivolte ad Alfonso, rispettivamente del Conte di Campobasso, Angelo Monforte, e di Matuta, a cui fa seguito una responsio del re; sigilla, infine, il poema il canto di Mauron. 79 ANTONIETTA IACONO fosse inconsueta ai poeti coevi attivi alla corte del Magnanimo, ancorati in maniera quasi monocorde a metri quali l’esametro e il distico elegiaco13. L’avvicendamento di metri nella struttura dell’intero componimento non è casuale ed è, a mio avviso, vincolato alla tematica sviluppata in ogni canto. Così, per esempio, il distico elegiaco offre una vera e propria connotazione formale alle cinque narrationes auctoris, e attribuisce a tale sistema metrico valore prefatorio, alla stessa stregua di certe praefationes in distici elegiaci istituzionalizzate nell’uso da Claudiano nelle sue opere, come nel De raptu, nell’In Rufinum 1 e 2, nell’Epithalamium de nuptiis Honorii, nel De consulatu Stilichonis14. L’utilizzo, invece, dell’asclepiadeo minore per l’Oratio Comitis Campibassi equivale a una esibita formulazione oraziana (Hor., Carm., I 1) di questo momento ‘oratorio’ ed encomiastico della costruzione valliana. E a memorie oraziane riporta anche l’utilizzo della strofe saffica nel discorso di Matuta: si tratta, infatti, di un registro metrico che la poesia oraziana col carmen saeculare aveva istituzionalizzato per il canto poetico finalizzato alla celebrazione del committente-dedicatario. Gli esametri della Responsio regis connotano col verso epico la risposta del re che è l’eroe-guerriero a cui tutti i personaggi-interlocutori di questa originale partitura valliana rivolgono i loro discorsi e i loro canti, chiedendo appunto la pace, la fine della guerra, la garanzia di una novella età dell’oro. Si tratta di un virtuosismo che si spinge fino alla creazione di un complicato sistema metrico non isosillabico nel canto particolare di Mauron, che chiude la sequenza di canti rivolti ad Alfonso. Il personaggio stesso ha connotazioni suggestive: è figlio di una sirena e di un Sicanus, e proprio nel suo genos reca il segno di una sapientia legata al territorio dell’Italia meridionale, una sapientia che trova piena e compiuta espressione nell’oggetto del suo canto che è un elogio della Pulchritudo. La speranza 13. Un punto di confronto si potrebbe individuare nelle complesse architetture metriche scaltrite da Francesco Filelfo nelle sue Odae: cfr. G. Albanese, Le raccolte poetiche latine di Francesco Filelfo, in Francesco Filelfo nel quinto centenario della morte. Atti del XVII Convegno di Studi Maceratesi (Tolentino, 27-30 settembre 1982), Padova 1986, pp. 388-458, spec. pp. 428-440. 14. Questo utilizzo del distico elegiaco si rintraccia nell’ambito della poesia tardo-antica ed alto-medievale, per esempio, in sede d’esordio della Consolatio Philosophiae di Boezio (Anicio Manlio Severino Boezio, La consolazione della filosofia, edd. C. Mohrmann - O. Dallera, Milano 1977); nella praefatio a Radegonda e Agnese (21 distici elegiaci) che Venanzio Fortunato fa precedere alla sua Vita Martini (Fortunatus, Vita Martini, ed. S. Quesnel, Paris 1996); e ancora nel prologo e nell’epilogo alle due eclogae di Modoino di Autun (Hirtengedichte aus spätrömischer und karolingischer Zeit: Marcus Aurelius Olympius Nemesianus, Severus Sanctus Endelechius, Modoinus, Hirtengedicht aus dem Codex Gaddianus, ed. D. Korzeniewski, Darmstadt 1976). 80 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA dell’anelata pace supportata peraltro dall’avanzata inarrestabile dell’esercito alfonsino verso Napoli prende corpo, così, nelle voci del conte di Campobasso, Angelo Monforte, di Matuta e di Mauron, che sembrano concinnare in maniera insieme personale e specifica le attese di un popolo rispetto al sovrano straniero e conquistatore. L’ambientazione del canto è posta in una precisa realtà geografica, Gaeta, una località di valore strategico, ritenuta una chiave d’accesso al Regno di Napoli, la quale fu per Alfonso anche capitale e sede provvisoria della corte itinerante15. L’ambientazione a Gaeta è esaltata nella partitura del componimento da un passaggio (contenuto nella seconda Narratio auctoris) ispirato dal gusto antiquario e dalle competenze letterarie e lessicografiche del Valla, che inventa per il personaggio di Matuta, la dama che ha il privilegio di rivolgere al re un canto in lode della voluptas, origini antiche e divine. In questo passaggio, infatti, il toponimo Caieta è riletto dal Valla alla luce di ovvie memorie classiche (Verg., Aen., VII 2; Ov., Met., XIV 433), mentre il mito etiologico sull’ascendenza divina da Venere di Matuta nasce da spunti molteplici, che partono dai Fasti ovidiani, e in particolari dal passaggio relativo alle feste dei Matralia in onore appunto di Matuta dea del Mattino (Ov., Fast., VI 475 ss.). Il Valla stesso nella Narratio altera auctoris si fa cura di narrare l’aition: a Enea, nell’atto di terminare la sepoltura della sua nutrice, si presentano i due vecchi sacerdoti del tempio di Venere, Paron e Thymene, una vecchia coppia di sposi, fedeli custodi del tempio di Venere, i quali privi di figli chiedono a Venere che conceda anche a loro l’onore della discendenza (Novencarmen, III 17-26): Dux Anchisiade, sic, o sic numina prestent Condere que cupiant menia posse tibi, Cum genitrice, agito, cuius delubra tuemur: Det nobis sobolem, quippe suum est proprium hoc, Nobis divitie, nobis stirps clara parentum Cunctaque mortales que preciosa putant. Tantum nulla fuit proles optantibus unquam: Quid, si non presis huic, Venus alma, loco, 15. Il Valla nel corso dell’Antidotum in Facium (Laurentius Valla, Antidotum in Facium, ed. M. Regoliosi, Padova 1981, IV 10, p. 371) fa riferimento a conviti e vita gioconda organizzati a Gaeta circa otto anni prima della stesura di questa sua opera (1437-1438). Tale riferimento, prezioso per la datazione dell’Antidotum in Facium, rappresenta però anche una testimonianza relativa alle abitudini della corte alfonsina, sicché l’evento descritto dal Valla nel Novencarmen si inquadra bene nelle prassi conviviali e nelle feste che accompagnarono e allietarono le attività propriamente belliche affrontate dal Magnanimo e dal suo entourage. 81 ANTONIETTA IACONO Quid prodest coluisse deos casteque pieque, Irrita cultori si sua vota manent?16 Alla loro accorata richiesta risponde appunto Venere in persona che promette loro una discendenza divina e doppia, di maschio e femmina, frutto di stirpe eroica, direttamente legata al nome di Venere e alla fama di Troia. E poiché l’epifania della dea avviene sul fare del mattino, Venere fornisce anche il nome di questa casata. Da questa stirpe discende Matuta alla quale il poeta fa guidare il corteo di gran dame che recano omaggio ad Alfonso (Novencarmen, III 33-54): Adventum nati simul opperiebar amate Nutricis mortem; cuncta futura tenens Pulchrius hoc nato munus presente videbam Et quanti est quod vos alloquor ipsa Venus Accipite ergo animis: nato nataque, Thymene, Paronem facies, mater honesta, patrem: Illos vos iuvenes simul ambo videbitis, ambos, Ambos sic lepidos invidiam ut superent. Atqui nascentur partus e stirpe virili, Omnibus his proles, Troia nomen erit. Eu, matutino quia nostrum sydus ab ortu Fulget, Matutam, mando, vocate domum Nemoque Caieta post hac spectosior urbe Quam Matutorum mas erit aut mulier. Hinc quoque nascetur longe pulcherrima cuius Nominis a magno est sillaba prima Iove, Quam reliquas inter tanto illustrabo decore, Ut de me genitam dicere non dubitent17. 16. «Condottiero, figlio di Anchise, così, o così gli dei ti concedano di poter fondare le mura che essi desiderano, insieme con la genitrice, suvvia, i cui templi noi custodiamo. Ella conceda a noi la discendenza, giacché è questo il compito suo proprio, per noi ricchezza, per noi discendenza di illustri genitori e tutto quanto i mortali considerano prezioso. Solo noi, pur desiderandolo, mai avemmo prole alcuna: perché se tu, alma Venere, non fossi patrona di questo luogo, a che gioverebbe aver venerato castamente e piamente gli dei, se irrealizzati restano i voti per il fedele?». 17. «Attendevo insieme all’arrivo del figlio la morte dell’amata nutrice: conoscendo tutto il futuro, io ritenevo più bello questo dono alla presenza del figlio, e quanto vale il fatto che io Venere in persona vi parli considerate nel vostro animo: con un figlio e con una figlia, Timene, tu madre onesta renderai padre Paron; voi due vedrete due giovani insieme, due così pieni di grazia da superare l’invidia. Ma nasceranno quale frutto di stirpe eroica, tutti costoro avranno discendenza, tutti avranno il nome di Troia. Ecco, poiché la mia stella rifulge al sorgere del giorno, chiamate Matu- 82 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA L’ingaggio di questa poesia valliana sembra stare tutto in un’ispirazione erudita, in una poetica che avverte come prioritario l’aspetto retorico e tecnico della composizione: il mito, infatti, rievoca alla memoria, per più consonanze, le atmosfere con cui Ovidio narra, in Met., VIII 631-731, di Baucis e Philemon, e le contamina con altre memorie anch’esse ovidiane, come il mito di Deucalione e Pirra narrato in Met., I 125-415, e non, come, per esempio, il mito biblico della nascita di Isacco alla vecchia coppia di sposi, Abramo e Sara, di Gen. XVII 15; e con i miti di nascite doppie e di gemelli divini (maschio e femmina, appunto, come, per esempio, Apollo e Artemide). Inoltre il gioco paretimologico che deriva il nome Matuta da mane (sulla scia di Fest., p. 158; 161; Non., p. 66)18 si complica per un’allusione enigmatica alla Sibilla discendente dalla stirpe dei Matuti, contenuta – a mio avviso – nei vv. 47-48: in particolare il riferimento alla donna d’esimia bellezza il cui nome trae la prima sillaba da Giove si comprende, appunto, solo facendo risalire l’etimologia di Sibylla, peraltro ampiamente documentata, a sios/dios bole (dei consilium)19. La complicata trama di allusioni e di memorie colte che alimenta questi versi sembra essere funzionale alla nobilitazione di Gaeta, che fu senz’altro città di riferimento per la corte alfonsina negli anni precedenti la conquista della capitale del Regno, un luogo peraltro non privo di una sua specifica rinomanza e di una sua tradizione di antiquitates nell’ambito della letteratura classica (Verg., Aen., VII 1-4; Strab., V 3, 6; Diod., IV 56). Sullo sfondo del componimento si staglia un preciso evento, l’incontro a Gaeta del re con i baroni del regno suoi alleati, seguito dal tipico banchetto rinascimentale che viene collocato in un bosco, sotto i padiglioni regali, e accompagnato da musiche e danze, puntualmente descritto nel corso della quarta narratio auctoris. Il banchetto è un momento ideologico che coinvolge il re e il suo seguito, ma anche la città in uno spazio aperto che diventa spazio pubblico di rappresentazione: il corteo sfila per le strade di Gaeta, sotto gli occhi del popolo che lascia le sue occupazione per guardare e ammirare («spectandi studio plebs relinquit opus»), e la prota la casata, ve lo ordino, e nessuno dopo questa nella città di Caieta sarà più bella di quanto lo saranno maschio o femmina dei Matuti. Da qui nascerà anche colei che di gran lunga sarà la più bella di tutte, il cui nome trae la prima sillaba dal grande Giove, ed ella tra le altre renderò illustre per sì grande bellezza che non esiteranno a dirla da me nata». 18. Cfr. anche Laurentius Valla, Elegantiarum Latinae Linguae libri sex, Lugduni 1543, IV 107 (diuturnus, diut nus, praecox, serot nus, praematurus, maturus). Su Matuta cfr. anche Cic. Nat. 3, 48; Tusc. 1, 12, 28. 19. Cfr., per esempio, Varr., ap. Lact., I, 6, e Uguccione da Pisa, Derivationes, ed. E. Cecchini et alii, Firenze 2004, B 82, 1. 83 ANTONIETTA IACONO fusione di oggetti preziosi (arazzi dipinti, coppe di oro tempestate di pietre preziose, un bacile d’argento sorretto dai servi per il lavaggio delle mani) concorre a suscitare ammirazione e a captare attenzione. I versi del Valla delineano – in una versione precoce rispetto a quella più scaltrita degli umanisti di corte dopo la conquista di Napoli – i poli d’interesse di quella complessa operazione di definizione della magnificentia, la virtù nella quale Alfonso fu campione, fino a divenirne esempio celebrato nella codificazione che di quella virtù fece il Pontano nei suoi trattati delle cosiddette virtù sociali20. Il banchetto descritto nel poema è ambientato in un bosco, sotto padiglioni regali riccamenti addobbati con tappeti e arazzi (Novencarmen, VII 1-8): Dixit et egressus procerum comitante caterva Arboriis loca adit semper operta comis. Parte alia famuli pictis aulea tapetis Regalesque thoros, sedula turba, ferunt Poculaque ex auro solido distintaque gemmis Argentumque humilis grande ministerii, Preterea quicquid convivia regia poscunt, Munera vestra super Liber et alma Ceres21. Doveva trattarsi di una consuetudine particolarmente cara ad Alfonso, quella di apparecchiare banchetti in luoghi aperti, sotto tende splendidamente arredate con arazzi: non a caso, infatti, il Pontano nel De splendore, a proposito del banchetto offerto da Alfonso per le nozze della nipote Eleonora, in occasione di una battuta di caccia nella tenuta di Agnano, ricorda che esso fu allestito in riva alla palude, sotto un padiglione coperto di arazzi, coperte, abachi, palchi ornati di rami, di nastri e di tessuti vari22; e ancora nel De conviventia cita i banchetti tenuti in hortis et locis amoeniori20. Pontano, De splendore, § III, in Pontano, I libri delle virtù sociali, ed. F. Tateo, Roma 1999, pp. 230-231: «Rex Alfonsus et cados et dolia et situlas ex argento habuit, crateres etiam ex auro, toralia et mappas e tela conquisitissima. Itaque eius mensis nihil splendidius». L’accoglienza degli ospiti accompagnata da un apparato sontuoso e dall’atteggiamento benevolo del principe è espressamente codificata dal Pontano nel De principe (G. Pontano, De principe, ed. G. M. Cappelli, Roma 2003), § 54, pp. 64-65. 21. «Così parlò Alfonso e uscito in compagnia d’una gran folla di nobili si reca in luoghi sempre coperti dal manto degli alberi. Da una parte i servi recano le tende dagli arazzi dipinti e, operosa turba, i troni regali e coppe di solido oro e screziate di gemme e una grande coppa per l’umile ufficio, inoltre tutto quanto è necessario per un banchetto regale, oltre ai vostri doni, o Libero e alma Cerere». 22. Pontano, De splendore, § V, in G. Pontano, I libri delle virtù sociali cit., pp. 234237: «Quin etiam miri operis tentorium secundum Angulanam paludem statuit die 84 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA bus23. Da documenti d’archivio emerge, poi, che la corte itinerante di Alfonso all’epoca della guerra per la conquista del regno riusciva ad allestire un padiglione di 75 palmi, con adito, stanza e luogo segreto, e che il re aveva l’abitudine di invitare a convito baroni e cavalieri per ragionare con loro delle cose fatte e da fare; dilettandosi nei momenti di riposo del canto di musici e di letture24. Il reciproco coinvolgimento di attori e di spettatori nel cerimoniale della festa è nella versione fornita dal Novencarmen già definito. Ruoli, relazioni sociali, stratificazioni e gerarchie di corte sono più volte rievocate dall’autore stesso, che ricorda, per esempio, la collocazione gerarchica alla tavola del re. Infatti, Alfonso e Matuta occupano i posti più in alto e gli altri convitati – alternandosi uomini e donne – risultano collocati pro conditione (Novencarmen, VII 1-4; 33-6): Cui simul assurgens procerumque consessus ad altum Deducunt solium, Rex ubi solus erat. Hec ubi dexterior, sic namque est iussa, resedit, Cetera pro merito turba locata suo... Formosam dextra, rex magne Alphonse, prehensam, Matutam tecum fers laterique locas, Post alii iussi pro conditione sedere Permixti alterna foemina virque vice25. Il poeta allude, seppure rapidamente, a un vero e proprio spettacolo durato tre ore, che si conclude con una danza (Novencarmen, VII 25-32): At ubi per ternas est lusum temporis horas Mirantur Salios plena theatra duos. Instructis tandem sub odora arbusta paratu Regali mensis qualis, o Dido, tuus Extitit Enee ducis hospes, Cesaris hospes Extitit aut qualis, o Cleopatra, tuus, venationis, quod magni etiam oppidi instar erat: quo die videre licuit non tentorium modo ipsum, sed paludis oram omnem splendere tapetis, auleis, abacis, scenis e frondibus, e pannis, e variis etiam texis». 23. Pontano, De conviventia, § II, in Pontano, I libri delle virtù sociali cit., pp. 254255. 24. N. F. Faraglia, Storia della lotta tra Alfonso V d’Aragona e Renato d’Angiò, Lanciano 1908, pp. 250-254. 25. «E dinanzi a lei levandosi il consesso di nobili si porta presso l’alto trono, dove era da solo il re. Appena lei siede alla sua destra, giacché così le era stato ordinato, il corteo restante prese posto secondo il suo grado… Presa la bella Matuta, o grande re Alfonso, con la mano, la porti con te e la fai sedere al tuo fianco, mentre gli altri ricevono l’ordine di sedere secondo il proprio grado di nobiltà, mescolati in maniera alterna un uomo e una donna». 85 ANTONIETTA IACONO Solvuntur toto pariter spectacula circo Discubitumque iubet Architriclinus: eunt26. Il riferimento preciso ad Alfonso e Matuta che danzano come novelli Salii riflette, forse, l’amore per la danza alla corte di Alfonso, di cui resta traccia anche in altre fonti che ricordano «li balli maravigliuosi / tratti di Catalani»27. Il banchetto esibisce lo stesso sfarzo dell’apparato ai banchetti pubblici offerti solitamente dal Magnanimo, che dal Pontano furono poi ritenuti exempla insuperabili28. L’apparato di vasellame in cristallo e argento, di tovaglioli di stoffa ricercata è perfettamente in linea con la magnificentia alfonsina, ma rispecchia anche una prassi già istituzionalizzata dell’apparato delle mense e dell’organizzazione del banchetto29. A questo punto il poeta colloca, secondo un uso peraltro tradizionale, il canto di Mauron, il quale canta dall’alto di un albero, come si apprende da una precisa indicazione scenografica (Novencarmen, VII 41-4): Interea viridi sublimis ab arbore Mauron, Mauron quem curvo litore Lymna parit, Ut perhibent, Syrena viro commixta Sicano, Talia felici voce lyraque canit30. 26. «Ma il teatro affollato, dove per tre ore s’era svolto lo spettacolo, guarda ammirato i due Sacerdoti danzare. Allestite sotto piante profumate, infine, le tavole con apparato degno di re, come fu la tua ospitalità per il condottiero Enea, o Didone, o la tua per Cesare, Cleopatra, si concludono finalmente gli spettacoli in tutto il circo e il maggiordomo ordina di disporsi a mangiare: essi vanno». 27. Cfr. M. Mandalari, Rimatori napoletani del Quattrocento, Roma 1885 (ristampa anastatica, Sala Consilina 1979), pp. 183-184. E d’altra parte si era già affermata l’idea del ballo come arte nobile ‘fora del vulgo’ ad opera di autori come Antonio Cornazzano e Guglielmo ebreo, le cui opere (rispettivamente il Libro dell’arte del danzare e il Trattato dell’arte del ballo) a metà del ‘400 avevano avuto una piena diffusione. 28. Pontano, De conviventia, § II, in Pontano, I libri delle virtù sociali cit., pp. 254258. Si fanno notare nel brano le citazioni di antecedenti famosi come il banchetto offerto da Didone ad Enea (cfr. Verg., Aen., I, 695-727) e quello apparecchiato da Tolomeo e Cleopatra per Cesare (cfr. Lucan., X, 107-181). 29. Il riferimento, per esempio, alle coppe d’oro screziate di gemme per il vino trova, infatti, conferma negli usi del banchetto rinascimentale, per cui i vini venivano generalmente serviti in coppe d’argento o d’oro (coppe fornite di piede per il signore, a forma di tazze per gli altri commensali), mentre le altre bevande venivano servite in brocche di vetro trasparenti. Anche il gesto di versare acqua profumata di essenze di rose per nettare le mani prima del pasto attraverso un versatoio di cristallo in un grande bacile d’argento, descritto qui dal Valla, trova conferma negli usi del tempo: cfr. C. Benporat, Feste e banchetti. Convivialità italiana fra Tre e Quattrocento, Firenze 2001, pp. 103-104. 30. «Allora dall’alto d’un verde albero Mauron, Mauron generato sul lido sinuo- 86 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA Mauron s’accompagna nel suo canto con la lira ed è presentato come figlio della sirena e di un Sicanus: l’origine semidivina del personaggio, dunque, è connessa da un lato con una figura suggestiva come quella della sirena, che gli umanisti attivi alla corte di Napoli adottarono come simbolo della tradizione sapienziale legata al territorio del Regno31, e dall’altro alla Sicilia per parte di padre, dal momento che l’aggettivo Sicanus si rapporta agli antichi popoli di questa regione e risulta comunemente utilizzato dagli umanisti sia per indicare i suoi abitanti sia, metonimicamente, anche quelli di tutto il Regno32: Mauron potrebbe allora rappresentare qui simbolicamente l’unificazione sotto Alfonso del Regno di Napoli con quello di Sicilia, in quanto figlio della Sirena Lymna e di un Sicanus, partorito sulla costa di Gaeta33, che all’epoca in cui Valla andava componendo quest’opera aveva un ruolo certo non marginale tra i territori già assoggettati dall’Aragonese34. Il nome contribuisce a un’ulteriore caratterizzazione di questo personaggio: mauron, infatti, può essere inteso come niger, secondo quanto si legge in Uguccione, Derivationes (M 61)35. so, come vuole la leggenda, dalla Sirena Lymna unitasi ad un uomo di Sicilia, canta tali melodie con bella voce e accompagnandosi con la lira». 31. Si tratta di un utilizzo precoce in questo senso del mito delle sirene: cfr. A. Iacono, Geografia e storia nell’Appendice archeologico-antiquaria del VI libro del De bello Neapolitano di Giovanni Gioviano Pontano, in Forme e modi delle lingue dei testi tecnici antichi, cur. G. Matino, R. Grisolia, Napoli 2012, pp. 161-214; Ead., La Laus Civitatis Neapolitanae di Zanobi Acciaioli tra memorie erudite e precettistica menandrea, in Arte della parola e parole della scienza. Tecniche della comunicazione letteraria nel mondo antico, cur. R. Grisolia, G. Matino, Napoli 2014, pp. 105-135. 32. Così, per esempio, Gaspare Pellegrino (Gaspar Pelegrí) nella sua Historia Alphonsi primi regis, ed. Fulvio Delle Donne, Firenze 2007, chiama Sicania la Sicilia (IV 270; V 346; VI 2); mentre Porcellio de’ Pandoni nel suo De proelio apund Troiam utilizza in più versi la denominazione Sicani per indicare in genere la popolazione del Regno di Napoli: (vv. 115, 170, 212, 558, 600, 623, 705, 734). 33. Il passo risulta di difficile esegesi. In particolare, crea problemi il Lymna del v. 42 che, a mio avviso, deriva dal greco λίμνη, “palude, acque stagnanti”, e potrebbe alludere alle paludi oggi bonificate che interessavano anche il territorio di Gaeta. Io ipotizzo che Lymna sia il nome della sirena legata al territorio di Gaeta che assurge a Genius loci con le stesse finalità simboliche con cui gli umanisti utilizzarono Parthenope, Leucosia, e Ligeia per la costa campana. 34. L’importanza strategica di questo territorio è ribadita in una Descrizione della città di Napoli e statistica del Regno del 1444, in cui Gaeta è detta “quarta chiave del Regno”: cfr. Dispacci Sforzeschi (1444-2 luglio 1458), ed. F. Senatore, Napoli 1997, pp. 12-13. 35. Uguccione, Derivationes cit., M 61, 1, p. 741: «Mauron grece, latine dicitur nigrum; unde Maurus dictus est quidam populus quia nigri sunt». Cfr. Isid., Ethym., IX 2, 118, 120, 122, s. v. Mauri. 87 ANTONIETTA IACONO È possibile allora che l’attore-canterino, che intona il suo canto dall’alto di una vera e propria struttura scenica, sia qui mascherato da moro, figura presente nell’araldica della regalità aragonese36 e utilizzata già dall’entourage alfonsino nel trionfo del 142337. In questo caso il personaggio dalla pelle scura potrebbe simboleggiare anche la felice alleanza che Alfonso ebbe con popolazioni africane largamente rappresentate presso la sua corte da delegazioni diplomatiche38. Al di là delle possibili implicazioni simboliche del personaggio, il canto di Mauron si inserisce nel banchetto secondo la prassi per cui i tempi dilatati delle imbadigioni e delle varie portate erano solitamente riempiti da vere e proprie esibizioni, talora legate alla natura e all’occasione del banchetto, in altri casi semplicemente affidate all’arte e all’inventiva di cantori, mimi, buffoni. È ancora il Pontano nel suo De conviventia a ricordare che nei conviti splendidi si devono impiegare musici che possano divertire col canto e, attirando l’attenzione dei presenti, ottenere il silenzio e la tranquillità39. Il canto di 36. Mi riferisco qui, in particolare, all’emblema dei quattro mori che secondo il Zurita fu creato da Pietro d’Aragona per celebrare la vittoria di Alcoraz ottenuta grazie all’intervento miracolo di San Giorgio: J. Zurita, Anales de Aragón, ed. A. Canellos, I, Zaragoza 1967, I 32. Cfr. Rafael Conde y Delgado de Molina, La bula de plomo de los reyes de Aragón y la cruz “de Alcoraz”, in «Emblemata», 11 (2005), pp. 59-82, e anche il lavoro esaustivo di L. D’Arienzo, Lo scudo dei “Quattro mori” e la Sardegna, in «Annali della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari», 9 (1983), pp. 253-292. 37. H. Maxwell, “Uno elefante grandissimo con lo castello sopra”: il trionfo aragonese del 1423, in «Archivio Stroico per le Province Napoletane», 3 (1992), pp. 847-875. L’identificazione di Mauron con un moro è una ipotesi che va valutata e connessa alle origini semidivine con cui è connotato il personaggio e all’oggetto stesso del suo canto. In ogni caso resterebbe da chiarire il significato simbolico e allusivo di questa mascherata. 38. Penso qui, per esempio, alle relazioni con Tunisi, con cui, dopo iniziali scontri, Alfonso ebbe rapporti molto stretti, fino a farne un alleato strategico nella sua conquista del territorio italiano. Non a caso, dunque, nell’entrata trionfale in Napoli del febbraio del 1443 l’ambasciatore di Tunisi sfilò accanto al Principe di Salerno e al Duca di Sessa. In questo stesso trionfo due cavalieri etiopi cavalcarono accanto al carro con la personificazione di Cesare, forse proprio per significare la sottomissione dei popoli africani ad Alfonso: cfr. G. M. Monti, Il trionfo di Alfonso I di Aragona a Napoli in una descrizione contemporanea, in «Archivio scientifico del Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Bari», 6 (1931-1932), pp. 113-125. 39. Pontano, De conviventia, § IV, in Pontano, I libri delle virtù sociali cit., pp. 260261: «Ordini quoque illud accedet, ut astantium ac ministrorum ea disciplina sit, quae conviviorum est propria: absint non modo dicta, verum etiam gestus, qui tristitiam aut turbationem affere habeant aliquam. Qua e re mihi videtur introductum, ut his in conviviis adhiberentur musici, qui non solum oblectarent cantu, verum ut, dum astantes ad se audiendos trahunt, silentium parerent, atque e silentio tranquillitatem». 88 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA Mauron de pulchritudine sembra allora aprire uno spiraglio suggestivo sulla poesia conviviale e su una tradizione recitativa che ci porta però altrove, alla poesia recitata per musica, calata nella vita mondana della corte e in contesti festivi, di cui abbiamo testimonianza nell’attività di poeti come Porcellio de’ Pandoni, Emilio Boccabella, Domizio Calderini, Rustico Romano, Cariteo, Serafino Aquilano40. Esso rappresenta il momento più alto e filosofico dell’intera costruzione valliana, dal momento che celebra la bellezza come forza che supera la violenza, dono e opera degli dei, grazie alla quale l’uomo è profondamente simile, anzi pari alla divinità; la bellezza cui sono indissolubilmente unite le arti, la dottrina e le virtù, che permettono all’uomo di condurre una vita vitalis degna di essere vissuta41. La novità di questa composizione valliana sta proprio nel tentativo di mescolare alla cultura letteraria classica e adattare a un’ispirazione erudita e alla lingua latina prassi e generi recitativi coevi anche di derivazione allogena. In questo senso il Valla anticipa un’operazione compiuta in tempi più tardi e con specifiche volontà encomiastiche dal Pontano in una delle sue più ardite e singolari opere, la Lepidina42. La complessa struttura metrica di questo canto lascia peraltro intendere lo sforzo del Valla profuso in una composizione che, se non fu accompagnata veramente dalla musica, intendeva certo esprimere una volontà di virtuosismo tecnico che approssimava la declamazione al canto43. Il carmen Mauronis de 40. Per la recitazione conviviale di ambito aragonese: C. A. Addesso, Teatro e festività nella Napoli aragonese, Firenze 2012, pp. 12-17. 41. Novencarmen, VIII 95-103: «Ipsa in nobis, ipsa profecto / Forma deorum est inventum / Munus opusque qua sumus illis / Summe similes summeque pares. / Adde quod artes atque doctrine, / Iunge virtutes he, licet omnes / Dicanturque sintque magistre / Et auctores utilitatum, / Quibus agitur vita vitalis». [La stessa bellezza in noi, la stessa bellezza si sa che è dono e opera degli dei grazie alla quale noi siamo profondamente a loro simili, profondamente pari. Aggiungi le arti e la dottrina, unisci queste virtù, purché si dicano e siano maestre e fonti di utilità, grazie alle quali si vive una vita degna d’esser vissuta]. La figura etimologica vita vitalis è un bel sigillo a tutto il passaggio: essa rievoca un preciso luogo del ciceroniano De amicitia (§ 22) a sua volta impreziosito da una citazione enniana (fr. 17). 42. C. V. Tufano, La Lepidina di Giovanni Pontano e il suo rapporto con il sistema dei generi letterari fra tradizioni antiche e innovazioni umanistiche, in «Studi Rinascimentali», 9 (2011), pp. 37-51. 43. E d’altra parte non si può dimenticare la particolare predilezione di Alfonso per la musica testimoniata anche dalla presenza a corte di raffinati musici, come i documenti della tesoreria e della cancelleria documentano meglio a partire dagli anni che vanno dal 1441 e ancora più dal 1444: nomi come Miquel Nadal, Pere Oriola, Felip Romeu, Perinetto da Venezia ricorrono molto spesso nelle cedole della tesoreria e documentano l’amore del sovrano e di tutta la corte aragonese per la musica: cfr. A. W. Atlas, The Music at the Aragonese Court of Naples, Cambridge-London 1985. 89 ANTONIETTA IACONO laude pulchritudinis potrebbe essere la partitura di un banchetto drammatizzato, un genere diffuso, la cui produzione letteraria è andata perduta per gran parte. Questo genere letterario ricorreva generalmente a costruzioni dialogiche, provviste di intrenseca teatralità e di personaggi forniti di spessore simbolico. E a queste caratteristiche sembrano rispondere almeno in parte i personaggi di Matuta e di Mauron; né se ne mostra estranea la figura storica del conte di Campobasso. Anche la responsio regis, che introduce nell’opera tratti dialogici, pare obbedire a precisi canoni recitativi legati al genere della letteratura conviviale. Eppure l’etichetta generica di poesia recitata o di recitazione conviviale non si accorda fino in fondo a questo componimento: non regge, infatti, il confronto tra il Novencarmen e prodotti che meglio meritano tale etichetta, come per esempio l’admirabile convivium del Pandoni composto per il banchetto offerto dal cardinale Riario alla principessa Eleonora che andava in sposa a Ercole d’Este (siamo nel 1474 a Roma) e altre opere composte per l’occasione da poeti come il Boccabella e il Calderini44. La struttura coerente del componimento, le porzioni narrative affidate al distico elegiaco e alla voce dell’autore, la formula oratoria e dialogica, la presenza della musica e del canto rapportano questa costruzione valliana ad altro e sembrano farne una Mischung tra suggestioni ricavate dalle coeve consuetudini della poesia conviviale musicata e memorie di matrice classica, derivate, per esempio, da Plauto, che con la struttura delle sue commedie poteva aver suggerito all’autore l’alternanza ardita tra le orationes (ma scandite secondo moduli metrici) del Conte di Campobasso e di Matuta e il carmen – così fortemente connotato nel senso dello sperimentalismo metrico – di Mauron. Nell’impianto del Novencarmen si segnala per la sua specificità l’Oratio comitis Campibassi: si tratta del secondo canto in asclepiadei minori che dei tre discorsi rivolti al re è l’unico tenuto da un personaggio storico, quel conte di Campobasso, Angelo Monforte, capitano e condottiero, secondo la tradizione familiare, valente nelle armi e gentile. Nel lungo elenco di baroni del regno convenuti a Gaeta45 il conte spicca per le qualità e la 44. C. Corvisieri, Il trionfo romano di Eleonora d’Aragona nel giugno del 1473, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 1 (1878), pp. 475-491; 10 (1887), pp. 629-710; A. Perosa, Epigrammi conviviali di Domizio Calderini, in Id., Studi di Filologia Umanistica. Umanesimo Italiano, cur. P. Viti, III, Roma 2000, pp. 143-156; A. Di Meo, Un poco noto componimento di Porcelio de’ Pandoni e la celebrazione del Cardinale Pietro Riario nel contesto letterario della Roma quattrocentesca, in «Studi Rinascimentali», 12 (2014), pp. 25-43. 45. Nella prima narratio auctoris si fa riferimento, infatti, a un convegno dei baroni alleati con Alfonso: non si tratta di un fatto eccezionale, dal momento che anche 90 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA gentilezza e per il fatto di essere stato prescelto come ambasciatore dagli altri nobili lì convenuti (Novencarmen I 23-30): Et Campibassi comes et re et nomine plane Angelus: ii mores, est ea forma viri Cuius et ante alios visa est facundia maior; Atque alii quos est longa referre mora. Hi postquam regem properantem in castra reverti Senserunt medium classe secante fretum Consiliumque ineunt et in atria regia tendunt Sicque introgressis, Angele, verba facis46. Non a caso il Valla si permette qui un gioco sul nome Angelo: il Monforte si chiama Angelo, in quanto egli è Angelo non solo di nome, ma di fatto; ed elogia il conte celebrandone i costumi, la bellezza e l’eloquenza naturale che ne fanno, appunto, il disinvolto ambasciatore dei desiderata degli altri nobili lì presenti47. Il ritratto che scaturisce dai versi del Valla è pienamente in sintonia con la fama di questo nobile gentile, ancora viva 60 anni più tardi, allorché Tristano Caracciolo ne delineava uno splendido ritratto nel De varietate fortunae ricordandolo quale uomo «frugi et elegantem adeo comem et affabilem, ut nemo eum nosset quin diligeret»48. Gli asclepiadei minori in cui si sviluppa il discorso sembrano ispirati alla lezione poetica di Orazio che in tre carmi carichi di indicaaltre fonti confermano l’abitudine di Alfonso di tenere vere e proprie riunioni con gli alleati per decidere le strategie di guerra. Così, per esempio, Bartolomeo Facio, Gesta, ed. D. Pietragalla, Alessandria 2004, IV 75-80, pp. 143-145, ricorda una riunione tenuta da Alfonso a Sinuessa con i baroni provenienti da Capua poco prima di subire la sconfitta a Ponza (1436). In particolare, in IV 77 si narra che Alfonso non solo accolse con tutti gli onori i baroni, ma li invitò a un banchetto sulla sua galea: «humanissime excepit paucisque verbis inter se habitis ad prandium invitatos in triremes perduxit». 46. «Ed ecco il conte di Campobasso, di fatto e di nome chiaramente Angelo: son tali i suoi costumi, tale la bellezza dell’uomo, la cui facondia parve eccellere su tutti gli altri; e ancora altri baroni, che sarebbe lungo indugio citare. Costoro come appresero che il re ritornava in tutta fretta all’accampamento con una flotta solcando il mare, si riuniscono in assemblea e si dirigono verso il palazzo regale, e così tu, Angelo, una volta entrati, prendi la parola». 47. Il conte risulta tra i capitani di lance dell’esercito alfonsino nelle cedole della tesoreria aragonese sotto l’anno 1437: C. Minieri Riccio, Alcuni fatti di Alfonso Id’Aragona dal 15 aprile 1437 al maggio 1458, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 6 (1881), p. 8. 48. Opuscoli storici editi ed inediti, ed. G. Paladino, Bologna 1933 (RIS2, XXII I), pp. 93-94. Sul Conte cfr. B. Croce, Cola di Monforte conte di Campobasso, in Vite di avventure, di fede e di passione, Milano 1989, pp. 59-195, spec. pp. 70-73. 91 ANTONIETTA IACONO zioni metapoietiche (I 1, III 30 e IV 8) utilizzò questo metro: si tratta di una preziosa allusione che svela un modello e una poetica, segnando anche la distanza – con un certo consapevole compiacimento – rispetto alla coeva produzione poetica attestata su altri codificati registri poetici. L’incipit di questa sezione è difficile, lento, aggravato dalle motivazioni celebrative (Novencarmen, II 1-10): Rex, qui iam populis carus es Italis Delectusque tuos, audeo dicere, Inter Celtiberos non vehementius Qualem non veterum secula principem Nec presens meminit nec poterit sequens Etas aspicere his in regionibus, Compellit pietas, religio, fides Et propensus amor quo tibi nectimur, Ut te seu precibus seu querimoniis Affari libeat non metuentibus49. L’oratio, infatti, inizia con un’apostrofe ad Alfonso citato come re ormai caro ai popoli d’Italia e ai popoli della penisola italiana e iberica, amato più di ogni altro principe di ogni età, passata, presente e futura. Il motivo topico del re diletto dai suoi sudditi è sviluppato qui in riferimento all’essere Alfonso un principe straniero, che è certo amato dai suoi, ma ormai è divenuto caro anche ai popoli della terra di conquista. L’eccezionalità di Alfonso come re rispetto ai principi di tutti i tempi è un motivo formulare che si ritrova in tantissima letteratura coeva, per il quale mi limito qui a segnalare come termine di riferimento il passaggio del primo dei quattro proemi al De dictis del Panormita, un proemio programmatico e ideologico, in cui Alfonso (nella più organica definizione di questo topos) è celebrato come il più saggio e il più forte di tutti i re e principi della sua epoca50. Alle soglie del De dictis, concluso nel 1455, il principa49. «O re, che sei ormai caro ai popoli d’Italia e, oso dire, diletto tra i tuoi Celtiberi in qualità di principe che né epoca antica, né quella presente ricorda con maggiore affetto e che non potrà conoscere l’età futura in queste regioni, ci spinge la pietà, la devozione, la lealtà e l’amore pieno che a te ci lega a volerti parlare e con preghiere e con lagnanze senza timore». Si tratta di un motivo di propaganda: Alfonso benché principe straniero e conquistatore viene salutato come persona ormai cara persino alle genti dell’Italia. 50. Antonio Panormita, De dictis et factis Alfonsi regis Neapolitani, in Jordi de Centelles, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, ed. M. Villalonga, Barcelona 1990, p. 75: «Nostris quidem temporibus etsi non contigit virum videre, ut quondam oraculo Apollinis sapientissimum iudicatum, certe contigit Alfonsum intueri, qui sine con- 92 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA le organizzatore dell’ideologia alfonsina portava avanti una celebrazione del sovrano, centrata, appunto, sul carattere straordinario del personaggio, su quel carisma personale che gli meritava il confronto, insostenibile per altri, persino con Socrate51. Nella trama dell’oratio emerge poi il motivo che sollecita il conte e per bocca sua tutti i nobili alleati a rivolgere una sorta di incalzante suasoria al sovrano: i nobili chiedono ad Alfonso di non voler sottoporsi oltre alle fatiche della guerra. La guerra cui Alfonso non si sottrae non è imposta dal fatto che la patria corra un qualche pericolo, ma dalla volontà del re di conquistare le inclite mura di Napoli, le quali però, ammonisce il conte, non saranno conquistate attraverso i pericoli e i travagli cui il re espone la sua persona, ma piuttosto dalla prudenza/cautio (Novencarmen, II 30-37): Non est quippe magis pro patria sacer Quam pro rege metus civibus optimis: Quanto nunc aderit causa potentior Hortandi, ut capiti parcere regio Nec te quotidie casibus omnibus, Nec te quotidie mille laboribus Exercere velis, quos mala lugubris Cogit militie ferre necessitas! Non est pro patrie res tibi sedibus, Hoc, rex, ni facias mox pereuntibus, Nec claro radiis pro diademate Bis quinis sedibus, veteri Romulidum ducum More aut more tuo, Lavinie pater; Sed pro Parthenopes menibus inclitis, Non que erumna tui corporis ac labor Eius, sed potius cautio perdomet52. troversia regum principumque omnium, quos nostra aetas tulerit et sapientissimus et fortissimus haberetur. Cuius dicta aut facta tanto cariora esse debebunt et memoria digna maiore, quanto pauciores vel omnibus saeculis reges inventi sunt ingenio sapientiaque praestantes». 51. Sul Panormita come promotore del mito alfonsino: F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015, pp. 16-19, 28-30, 61-73. 52. «E certo per sudditi ottimi non è più sacro il timore per la patria di quello per il re: quanto più cogente risulterà il motivo di esortarti ora a voler risparmiare la tua regale persona, a non volerti quotidianamente sottoporre a tutti gli accidenti, alle mille fatiche che la cattiva necessità della funesta milizia costringe a sopportare! Tu non affronti l’impresa per le sedi della patria, a meno che, o re, tu non fai questo perché esse sono or ora in pericolo estremo; né per la corona che risplende di raggi per ciascuna delle dieci sedi, secondo l’antico costume dei condottieri discendenti di 93 ANTONIETTA IACONO Il termine labor53 (v. 27) ha qui già la piena valenza ideologica che gli umanisti alfonsini gli affidarono per descrivere e legittimare la conquista del Regno da parte di Alfonso. Si tratta di una formulazione precoce, dunque, di una topica, che avrà poi una straordinaria fortuna: per esempio, Porcellio Pandoni la adottò nei versi incipitari del suo più famoso poemetto aragonese, il Triumphus Alfonsi regis, composto tra il 1443-4454, celebrando l’impresa alfonsina come frutto di lunga fatica; e soprattutto nel campo artistico proprio la lettura della conquista come fatica eroica compiuta da un re prescelto da Dio finì per promuovere anche l’identificazione di Alfonso con Ercole, figura complessa con numerosi legami con il territorio di Napoli e della Campania55. L’oratio del conte si impenna, ancora, in una Romolo o secondo il tuo costume, padre di Lavinia; ma per le illustri mura di Partenope, le quali non i pericoli della tua persona e il travaglio di essa, ma piuttosto la prudenza potrà sottomettere». Qui potrebbe essere contenuta un’allusione alla corona d’Aragona, costituita dall’unione dinastica del regno d’Aragona e della contea di Barcellona con l’aggiunta dei regni di Maiorca, Valencia, Sicilia, Sardegna, contea di Provenza, ducati di Atene e Neopatria, oltre che regno di Napoli la cui conquista Alfonso andava ultimando. 53. Labor ricompare più volte a definire l’impresa di Napoli, per esempio, nella Oratio Matute che in particolare ai vv. 41-45 rivolge ad Alfonso queste parole: «Numquid ad metas iter obtinendas / Istud et cursus brevioris esse / Credis absque ulla requie per omnes / Corporis, mentis simul et labores / perque pericula?» («Credi forse che la via e il cammino a raggiunger la meta siano più brevi attraverso travagli d’ogni genere e pericoli senza tregua per il corpo e la mente?»), e nelle battute finali del discorso lo invita: «Desinas quare, tibi supplicamus, / Te per erumnas agitare belli. / Hic manes, carpes bona gaudiorum / Nec minus recte ac bene militarem / conficies rem» («Allora smettila, ti supplichiamo, di sottoporti ai travagli della guerra. Rimani qui, cogli i beni del piacere e rettamente non meno che bene porterai a termine la tua impresa militare». 54. Pandoni, Triumphus, I 1-6: «Fert animus partum multo sudore triumphum / Regis Aragonei divorum e prole creati / Post fessos bello populos proceresque ducesque / Incipere et ventis intendere vela secundis. / Tu vati, tu, sacra iugo venerata bicolli / Musa, fave memoransque animis illabere nostris». Cito da V. Nociti, Il trionfo di Alfonso I d’Aragona cantato da Porcellio, Rossano 1895, p. III. 55. Il viaggio di Ercole dalla Spagna all’Italia, ed in particolare alla Campania, fu utilizzato dagli umanisti attivi alla corte aragonese come splendida metafora per legittimare l’impresa di Alfonso il Magnanimo. Si trattò di un’operazione che suggeriva l’identificazione tra Alfonso ed Ercole, tra il sovrano sapiente celebrato come re sapiente e come re guerriero pronto a sopportare i colpi della fortuna ed Ercole eroe con uno statuto iniziatico significato dal mito delle sue fatiche. In proposito cfr. J. Barreto, La Majesté en images. Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon, Rome 2013, pp. 52-53, 82-87; Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico cit., p. 69. 94 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA celebrazione della capacità di Alfonso di tollerare tutte le avversità, i pericoli, le ristrettezze della vita militare (Novencarmen, II 38-46)56: At tu nec nivibus solsticialibus, Nec flammis pariter solsticialibus Vis urbes petere castraque linquere Preponens domibus tergora et arbores Atque escam dapibus, vina falernicis Vix ipsos fluvios equiperantia; Quin horrenda gerens arma diutius Quam veste tolleras qualia pertulit Nemo rex alius, quem ni durior Et peiora minans causa coegerat, Huc quamvis repetas aut Agamenona Cum fratre et reliquo robore Grecie, Aut Cyrum ducibus cum Babiloniis, Aut reges Latios nec Latiis minus Hyspanos, genus unde et tibi, nobiles57. Il ritratto di Alfonso che non è piegato dal freddo o dal caldo, che non abbandona l’accampamento per una casa, che si sottopone allo stesso rancio dei soldati, sopportando l’armatura come fosse una vera e propria veste, condensa una serie di motivi che poi diventeranno topici del ritratto alfonsino, soprattutto dopo l’archetipo fornito dal Facio nei Gesta, in cui Alfonso viene descritto come condottiero che instancabile nessuna fatica può prostrare, costante in guerra al punto che nessuna sconfitta subita, mancanza di denaro, protrarsi della guerra, scarsità dei viveri o rigore dell’inverno hanno mai potuto distoglierlo dall’impresa della conquista di Napoli58. E si tratta di una iconografia di Alfonso alla quale 56. La patientia e la temperantia erano tratti tipici del principe: rimando in proposito al commento di G. M. Cappelli a Pontano, De principe cit., pp. 76-77. 57. «Ma tu nè sotto il freddo del solstizio invernale nè parimenti sotto il caldo del solstizio estivo vuoi dirigerti alle città e lasciare gli accampamenti, preferendo pelli e alberi alle case, il rancio dei soldati ai banchetti e ai vini di Falerno quelli che a malapena si possono paragonare all’acqua; anzi portando armi orribili più a lungo di quanto si tolleri una veste, quali nessun altro ha sopportato, a meno che non fosse costretto da causa più dura o che minacciava conseguenze peggiori, per quanto ora tu possa ricordare Agamennone col fratello e il restante nerbo della Grecia, o Ciro insieme con i condottieri babilonesi, o i re del Lazio e i nobili di Spagna, schiatta non inferiore a quella latina, dalla quale tu trai origine». 58. Facio, Gesta, VII 111, pp. 301-303: « in bello gerendo adeo costans ut eum nec calamitas ulla accepta, nec pecuniae inopia, nec belli diuturnitas, nec commeatuum penuria, nec hiems magnitudo ad incepto revocaverit». 95 ANTONIETTA IACONO apportarono tessere umanisti come il Biondo59, il De Grassis60, che ne mitizzarono la figura fino a farne lo sprezzatore di pericoli (periculorum contemptor) capace di sostenere i colpi della sorte, come si legge nel cammeo, pure non del tutto benevolo, tratteggiato da Enea Silvio Piccolomini nel suo De viris illustribus61. Il catalogo di aristoi rappresentanti di un eroismo senza pari comprende Greci, Persiani, Romani, Iberici, in una successione che culmina significativamente con la citazione degli Iberici, dicendoli non inferiori ai Latini. La preoccupazione di elogiare anche gli Iberici come schiatta non inferiore per nobiltà ai latini qui non si accompagna al riferimento topico alla penisola iberica come terra di Cesari62, ma risulta funzionale – a mio avviso – proprio alle origini di Alfonso, discendente e depositario, così, di una tradizione di nobiltà di origine iberica che si affianca, significativamente, 59. Flavio Biondo in una lettera del 13 giugno 1443 afferma che Alfonso è l’unico principe ad impugnare le armi e ad essere presente personalmente sul campo di battaglia, ordinando cosa fare ed esponendosi a mille pericoli. Cito da B. Nogara, Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, Roma 1927, p. 150: «Quod semper fuit rarissimum, tu solus aetate nostra magnus princeps, propriis manibus arma tractas nec studium armorum a manibus ad oculos, a labore ad voluptatem transtulisti nec ad praeceptoris cuiuspiam praescriptum bella tractas et praelia, sed praesens ipse inter tela hostesque versaris, non minusque praecipis facienda quam facis ab imperatore optimo praecipienda». In proposito cfr. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 8-12. 60. Angelus de Grassis, Oratio panigerica dicta domino Alfonso, ed. F. Delle Donne, Roma 2006, §§ VIII e IX, passi che evocano il confronto con il vigore di Traiano (Pan. III [XI] 11-15) e con l’instancabilità di Teodosio (Pan. II [XII] 9, 7). Ancora De Grassis, Oratio, § XI, riferisce che Alfonso senza mai lasciarsi vincere dai piaceri dormiva per gran parte dell’anno nei padiglioni militari, contentandosi di mangiare all’impiedi secondo il costume dei soldati e servendosi da bere in una tazza qualunque. Ancora Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione, pp. 70-73, per alcuni tratti dell’iconografia alfonsina, come la pratica della preghiera, la purezza dei costumi, la frugalità nel bere e nel mangiare, rintraccia modelli non solo nei Panegyrici latini, ma anche nel filone encomiastico elaborato dai primi autori cristiani, come l’orazione composta da Ambrogio per la morte di Valentiniano, oppure la Gratiarum Actio composta da Ausonio in onore di Graziano. 61. Enea Silvius Piccolominei postea Pius II, De viris illustribus, ed. A. van Heck, Città del Vaticano 1991, § XXVII: «Vir (scil. Alphonsus) brevi corpore, animi immensurati, periculorum contemptor, luxurie deditus, fide varius, pecunie largus distributor, magnanimis viris affectus, numquam quiescens, doli uitator ac structor». 62. Cfr., per esempio, de Grassis, Oratio panigerica cit., §§ VIII-IX, pp. 5-6, 4045; Guarino Veronese, Epistolario, ed. R. Sabbadini, II, Venezia 1916, p. 427; Panormita, De dictis et factis, Prohemium IV, ed. Villalonga cit., p. 250. Per altri riferimenti cfr. anche F. Delle Donne, Cultura e ideologia alfonsina tra tradizione catalana e innovazione umanistica, nel presente volume. 96 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA nella citazione a quella rappresentata dai reges Latii. I referenti classici (generalmente Scipione, Alessandro Magno, Cesare, Annibale) rispetto ai quali Alfonso emerge per la sua spiccata capacità di tollerare i rigori della vita militare, si riducono nel discorso del Conte, e direi ovviamente in funzione del retroterra geografico in cui si svolge il tutto (GaetaCapua)63, ad Annibale (Novencarmen, II 53-7)64: Victor Romulei sanguinis, Anibal, Et victor nivium, victor et Alpium, Victus delitiis istius est loci: Te nulla asperitas nullaque amenitas Potest ad requiem flectere et otium65. Annibale, che era riuscito a vincere i Latini, a superare le Alpi, fu vinto dalle delizie di Capua; Alfonso invece da alcuna asprezza o bellezza può essere indotto a prendere riposo66. Non si tratta di un confronto eccezionale, dal momento che esso sembra far parte di quel formulario per l’esal63. Entrambe le località sono, infatti, citate anche nella Oratio Matute (in particolare IV 17). 64. Non a caso il confronto con Annibale ritorna anche nella Oratio di Matuta (Novencarmen IV 58-60) in un passaggio di carattere fortemente monitorio nei confronti di Alfonso che riferisce della malattia che avrebbe colpito Annibale ad un occhio o ad entrambi durante la campagna in Italia: cfr. Polib., III 74, 11; 79, 12; Corn. Nep., IV. Annibale citato da Matuta (insieme a Scipione Africano e a Cesare) non a caso è rievocato anche da De Grassis in Oratio, § VI, in cui Alfonso è paragonato ad Annibale, appunto, a Scipione Emiliano, e ad Alessandro Magno, sul modello di Pan. II (XII) 8, 4, 5. 65. «Il vincitore del sangue di Romolo, il vincitore delle nevi e delle Alpi, Annibale, fu vinto dalle delizie di questo posto: nessuna difficoltà, come nessuna bellezza riuscirebbe ad indurre te al riposo e all’ozio». 66. Questo confronto Alfonso/Annibale non rappresenta una novità assoluta nel filone della letteratura scritta per o contro il Magnanimo. Mi pare interessante il fatto che il confronto Alfonso/Annibale abbia un suo utilizzo, ma con implicazioni ideologiche fortemente negative, per esempio, in alcuni testi di Giannozzo Manetti (Elogia Ianuensium del 1436-37, e le orazioni ai genovesi e ai veneziani del 1448), che tratteggiano un ritratto di Alfonso come perfido barbaro affetto da libido dominandi fino a farne un novello Annibale: S. U. Baldassarri, Giannozzo Manetti e Alfonso il Magnanimo, in «Interpres», 29 (2010), pp. 56-57. Non mi pare improbabile che qui il Valla abbia consapevolmente utilizzato il confronto per scardinare e capovolgere l’immagine negativa di Alfonso diffusa tra le corti d’Italia dalla propaganda ostile. Ma va tenuto presente anche che Alfonso stesso utilizzò Annibale come suo alter ego: la rappresentazione organizzata per festeggiare la sua entrata in Napoli nel 1423 prevedeva, infatti, una sorta di scontro tra Cartaginesi guidati da Annibale/Alfonso e Napoletani guidati da Scipione Africano/Renato d’Angiò: Maxwell, “Uno elefante” cit., pp. 847-875. 97 ANTONIETTA IACONO tazione di questo sovrano messo a punto dagli intellettuali della sua corte (Novencarmen, II 65-74): O nimium patiens vel mage ferreus, Cur es tam patiens, cur ita ferreus, Rex, nostri atque tui oblite periculi? In te nostra salus vertitur omnium: Nos te namque sumus sospite sospites Et te sollecito nos sumus anxii, Merorique tuo vel valetudini Rursus letitie, quam puto maximum Cunctis esse bonum rebus et unicum, Nos tam partecipes quam socii sumus67. Il lessico utilizzato qui dal Valla concorre a svelarne i modelli. Patiens et ferreus viene qui definito Alfonso: si tratta di due aggettivi che rimandano ad altri ritratti di eroi della classicità: patiens, per esempio, è aggettivo utilizzato da Sallustio per Catilina, appunto corpus patiens inediae nel Bellum Catilinae, V 3; e ferreus nel senso di inflessibile, aduso alla fatica e alla sopportazione è utilizzato da Livio XXXIX 40, 11 in un passo famoso sulla parsimonia e la capacità di sacrificio di M. Porcio Catone. L’orditura retorica, poi, del tam patiens, ita ferreus ricorda, con opportuna variazione, un passaggio di Iuv. I 31 tam patiens urbis, tam ferreus ut. In questo passaggio emerge con straordinaria chiarezza il bonum commune che unisce il principe e i suoi sudditi con un vincolo inviolabile. E se, da un lato, la temperantia e la fortitudo sono apertamente ricosciute come virtù connotanti di Alfonso, dall’altra parte il Valla sembra mettere in bocca al conte una suggestiva semplificazione di quella concezione organicistica che fu la base del rapporto tra intellettuale e regime di epoca umanistica68. Alfonso è definito, infatti, come il fulcro della vita e della morte dei suoi uomi67. «Tu che sei straordinariamente capace di sopportazione o piuttosto di ferro, perché sopporti così tanto, perché sei a tal punto di ferro, re, dimentico del nostro e del tuo pericolo? In te è riposta la salvezza di noi tutti: giacché se tu sei salvo, noi siamo salvi; noi siamo in angoscia quando tu sei preoccupato; e noi siamo partecipi e compagni insieme alla tua afflizione, alla tua salute e ancora alla tua letizia, che io reputo essere massimo e unico bene in ogni cosa». Sulla capacità di sopportare fame, sete, freddo, caldo vd. anche Facio, Gesta, VII 111: famis, sitis, frigoris calorisque inaudita patientia, ad qua sese per assiduos venandi labores induraverat adiuncta erat. 68. G. Cappelli, Sapere e potere. L’umanista e il principe nell’Italia del Quattrocento, in «Cuadernos de Filologia Italiana», 15 (2008), pp. 73-91; Id., “Corpus est res publica”. La struttura della comunità secondo l’umanesimo politico, in Principi prima del Principe, cur. L. Geri, Roma 2012, pp. 59-73; Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 1-22. 98 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA ni, secondo una formula di empatia radicale che esprime quell’ideale di mutua caritas ben codificato dalla trattatistica politica degli umanisti come fondamentale collante del corpo sociale: è, appunto, in Alfonso che si ripone la salvezza di tutti; salvo Alfonso – sostiene il conte – tutti i suoi alleati saranno salvi; il pericolo di Alfonso è pericolo condiviso da tutti; e tutti i suoi alleati possono dirsi compagni al suo travaglio, alla sua incolumità, alla sua felicità. In nome di tutto questo il Monforte chiede che Alfonso tenga conto della potenza della sorte, dei sovvertimenti che essa causa soprattutto in guerra, che coinvolgono tutti senza distinguo di gradi sociali (Novencarmen, II 77-82): ...meritos si modo nos facis Tanti, te genibus, te pedibus tuis Affusi petimus, rex celeberrime, Te quandoque memor sis hominem satum Nec membris hominem esse adamantinis Et quandoque memor quanta potentia Fortune instabilis, quas soleat vices In summos pariter ludere et infimos69. Risulta singolare qui anche la citazione della fortuna instabilis, di cui il sovrano nella codificazione del mito alfonsino a opera del Panormita, del Facio e di altri umanisti è celebrato vincitore, fino alla formula-sphraghis che trova nel dettato agile dei Gesta del Facio (VII 111) la sua più fortunata elaborazione, per cui Alfonso, pur dinanzi a sconfitte (rarissime, certo, ma pur sempre sconfitte), dà l’impressione di essere l’unico tra tutti i re a poter disporre della fortuna70. A questo punto il Valla pone in bocca al conte di Campobasso come esempio della benignitas di Alfonso l’aiuto accordato dal sovrano a una singolare richiesta di grazia e di incolumità postagli da Ebrei. Si tratta, almeno per quanto risulta alla mia ricerca, di 69. «Se tu ora ci reputi meritevoli di tanto, noi prostrati alle tue ginocchia e ai tuoi piedi, re celeberrimo, ti chiediamo che tu sia talora memore che sei nato uomo e che non sei fatto di duro metallo, e che talora tu ricordi quanto sia grande la potenza della mutevole fortuna, quali sovvertimenti essa sia solita giocare a quelli che stanno sui più alti gradi, come pure a quelli che stanno ai più bassi della scala sociale». 70. Facio, Gesta, VII 111, pp. 302-303: «ita porro felix fortunatusque ut perraris cladibus acceptis, ipse unus omnium regum fortunam in potestate habuisse videatur». A questo punto nella Oratio è rievocata la morte dell’infante Pedro per significare a scopo monitorio la mutevolezza della fortuna e il fatto che tutti, principi e non, sono ad essa soggetti. I versi successivi (Novencarmen, II 97-102), che non brillano per limpidezza, sembrerebbero alludere poi ad un pericolo corso da Alfonso stesso, forse un attentato. 99 ANTONIETTA IACONO una novità forse non di poco conto, dal momento che la letteratura celebrativa ci ha assuefatti a innumerevoli esempi della benevolenza esercitata da Alfonso nei confronti di orfani, vergini e vedove, o della clemenza nei confronti dei vinti, ma non sono riuscita a rintracciare atti di generosità, di mansuetudo o clementia nei confronti della comunità israelitica utilizzati dalla letteratura alfonsina a fini celebrativi71. Il discorso del Conte di Campobasso si chiude con un ultimo appello affinché Alfonso presti ascolto alla preghiera dei nobili e trasferisca ad altri il comando della guerra per poter godere di quella quiete di cui da lungo tempo si priva. Prende corpo in questo passaggio finale la celebrazione di Alfonso come nuovo David e vanto della giustizia (Novencarmen, II 120-124): Nos autem miseros cum venia bona Et cum pace tua dicere possumus, Si desiderium votaque negligis Orantum procerum, David o temporum Nostrorum sacer et iusticie decus72. Al canone di referenti classici e gentili del mito alfonsino nella formulazione del Panormita e del Facio si intreccia qui l’esemplarità del re biblico, Davide73. La parabola biblica di David ne fa il prescelto da dio; il 71. Certamente il Magnanimo ebbe particolare attenzione nei confronti delle comunità israelitica: per esempio, tolse ai vescovi locali la giurisdizione sugli ebrei e avocò al potere regio ogni competenza in materia. Anche il suo successore Ferrante mantenne questa deliberazione e fin dal 1468 concesse agli ebrei la cittadinanza del luogo in cui risiedevano, estendendo l’anno successivo questa opportunità anche a quelli che avrebbero deciso di stabilirsi nel regno. In proposito cfr. P. Meli, Il mondo musulmano e gli ebrei nelle corrispondenze fiorentine da Napoli, in Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche, cur. F. Senatore, F. Storti, Napoli 2011, pp. 291-350. 72. «Noi poi possiamo dirci miseri con buona venia e pace tua, se tu trascuri il desiderio e i voti di nobili supplici, o sacro Davide dei nostri tempi e vanto della giustizia». 73. Nel discorso di Matuta ricompaiono referenti biblici per Alfonso. In particolare, Matuta esalta Alfonso come Rex potens, fortis sapiensque preter / Ceteros reges, con un linguaggio che in certe cadenze rievoca la lingua dei Salmi: cfr. Ps., 23 Dominus fortis, potens, dominus potens in proelio. Inoltre, l’epilogo dell’apostrofe di Matuta ad Alfonso contiene un confronto altrettanto suggestivo: Alfonso è paragonato per la sua purezza ad un Adamo senza peccato originale ed è invogliato a smettere di imporsi le fatiche della guerra, a godere dei piaceri e delle bellezze dei luoghi del regno, giacché anche così porterà a compimento la sua impresa: «O qui Adam es prevaricante nondum / et sub arbustis spaciante plenis / equiperandus [....]»; «O tu che sei paragonabile ad Adamo quando non aveva ancora commesso peccato originale e passeggiava 100 L’IMMAGINE DI ALFONSO NELL’INEDITO «NOVENCARMEN» DI VALLA re-poeta che alla corte di Saul diventa anche guerriero e dà prova di coraggio e di aver Dio dalla sua parte; il re conquistatore che porta con sè l’arca dell’alleanza e la stabilisce a Gerusalemme; l’eletto che già Dante pone nel Paradiso (XX 37-42) al centro della pupilla dell’aquila dei beati che guarda la luce di dio. La figura di David, insieme a quella di Saul, di Mosè, Daniele, trova nella trattatistica de principe di epoca umanistica un suo utilizzo74, ma la fonte di questo modello proposto dal Valla potrebbe essere identificata in una tradizione legata al Regno di Napoli e alla figura di Federico II, che già aveva recuperato a sè la figura del re biblico eletto da dio richiamandolo esplicitamente come suo predecessore75. Le direttrici teoriche dell’eulogium alfonsino sono ben delineate nella Oratio del conte di Campobasso76. Lo sforzo di celebrare qui il sovrano e di legittimarne la conquista, peraltro non ancora pienamente realizzata, del Regno, emerge in un ritratto che è costruito per tessere, ma che ha sotto i fitti boschi dell’Eden…». Il paragone con Adamo citato come simbolo di una purezza primordiale legata all’eden, al paradiso, sembrerebbe funzionale nella oratio de voluptate all’esortazione a godere dei luoghi (Gaeta e Capua più volte citate nel corso del poema) che con le loro bellezze potevano essere appunto simbolo di paradiso in terra, un paradiso dal quale – dice Matuta – nessuno, dio o angelo scaccia Alfonso o gli fa divieto di rientrare: «Unde te nemo, Deus Angelusve, / Egredi cogit regredive fulvo / prevetat ense». La celebrazione di Alfonso prima come Davide (nel discorso del conte), poi come novello Adamo, addirittura privo del peccato originale (nel discorso di Matuta), si può interpretare anche come un tentativo di sacralizzare la figura del sovrano: cfr. G. M. Cappelli, “Deo similis”: la dignità del principe nell’umaneismo politico, in La dignità e la miseria dell’uomo nel pensiero europe. Atti del Convegno Madrid, 20-22 maggio 2004, cur. G. M. Cappelli, Roma 2006, pp. 167-180; e Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 67-73. 74. Per esempio, Bartolomeo Platina nel suo De principe cita in più luoghi come exemplum David e in un passaggio esattamente nei termini in cui anche il Valla lo inserisce nel discorso del Monforte, cioè come condottiero eletto da dio, che mai intraprese guerre senza il preventivo consenso di Dio. Cfr. Bartholomaeus Platina, De principe, ed. G. Ferraù, Palermo 1979, p. 58: «Bella nunquam, nisi prius consulto Domino, suscepit David ille fortissime qui et Goliam singulari certamine superavit et finitimas gentes Iudaeis infestas domuit, Deo prius semper litavit hymnosque statim eidem gratias agens cecinit.». 75. Cfr. F. Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione. Letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005, pp. 113-114; e Id., Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 160-162; Barreto, La Majesté cit., pp. 46-47. Per l’adozione dell’ideologia imperiale fridericiana alla figura di Ferrante: F. Storti, El buen marinero. Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, Roma 2014, pp. 53-56. 76. Non mancano questi aspetti ideologici nella Oratio Matute e nel Carmen Mauronis. De laude pulchritudinis, cui dedicherò un prossimo saggio. 101 ANTONIETTA IACONO come focus non solo Alfonso, ma anche la guerra da lui condotta in maniera audace, temeraria, senza esclusione di colpi. Per contro, il desiderio di pace, di quiete, di ritorno alla normalità, cui il Valla dà voce attraverso un’opera complessa che sfugge per originalità e sperimentalismo a definizioni e attribuzioni di genere, sembra essere il preannuncio o l’attesa di un ritorno dell’età dell’oro, della pace e della felicità sotto il governo del re buono, giusto, sapiente. Calato nella dimensione edonistica della festa e del banchetto di corte, il Novencarmen fornisce così – insieme – uno spaccato di vita mondana della corte alfonsina, in epoca precedente l’entrata nella capitale del Regno, e tessere preziose per il processo di mitizzazione di Alfonso il Magnanimo, nella prospettiva singolare di un intellettuale che ebbe un indubbio ruolo di preminenza all’interno di quella corte, ma che mantenne sempre una sua personale marca ideologica e metodologica, la cui originalità traluce anche nei versi di questo poema77. 77. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione cit., pp. 44-59. ABSTRACT The Image of Alfonso in the Unpublished Novencarmen by Lorenzo Valla The unpublished work in verse by Lorenzo Valla entitled Novencarmen is a valuable document of the literature in Alfonso’s court before the completion of the conquest of Naples’ Kingdom. It is a composition consisting of nine songs in which the author’s voice alternates the voices, speeches and songs of other characters, with specific functions celebratory against Alfonso the Magnanimous. The paper presents structures and contents of the work; it highlights the bold experimentalism as represented by meters’ variety and Gattungsmischung; then it analyzes the topical formulation of Alfonso’s iconography in the speech of Angelo Monforte. Antonietta Iacono Università degli Studi di Napoli Federico II aniacono@unina.it 102 Anna Maria Oliva «EL REY TENÍA “INTELIGENCIA CON URSINOS Y COLONESES PARA PONER ALGUNA REVUELTA EN ROMA”». ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV INTRODUZIONE La lunga tradizione di studi sull’espansione della Corona d’Aragona nel Mediterraneo ha, nel tempo, messo a fuoco momenti, aspetti, problemi e profili significativi di quell’epopea, ma restano ampi margini di approfondimento sul rapporto tra Corona d’Aragona e Papato. Molto si è fatto, in anni relativamente recenti, per la seconda metà del Quattrocento sui pontificati dei papi Borgia, Callisto III1 e Alessandro VI2, molto meno invece per l’epoca del Magnanimo3. Ampi spazi di ricerca rimangono per il 1. M. Navarro Sorní, Callisto III. Alfonso Borgia e Alfonso il Magnanimo, cur. A. M. Oliva - M. Chiabò, Roma 2006. 2. Cfr. Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI. Atti del Convegno (Città del Vaticano-Roma, 1-4 dicembre 1999), cur. M. Chiabò - S. Maddalo - M. Miglio A. M. Oliva, 3 voll., Roma 2001; Principato ecclesiastico e riuso dei classici. Gli umanisti e Alessandro VI. Atti del Convegno (Bari-Monte Sant’Angelo, 22-24 maggio 2000), cur. D. Canfora - M. Chiabò - M. de Nichilo, Roma 2002; Alessandro VI e lo Stato della Chiesa. Atti del convegno (Perugia, 13-15 marzo 2000), cur. C. Frova - M. G. Nico Ottaviani, Roma 2003; Le rocche alessandrine e la rocca di Civita Castellana. Atti del convegno (Viterbo, 19-20 marzo 2001), cur. M. Chiabò - M. Gargano, Roma 2003; Alessandro VI. Dal Mediterraneo all’Atlantico. Atti del convegno (Cagliari, 17-19 maggio 2001), cur. M. Chiabò - A. M. Oliva - O. Schena, Roma 2004; La fortuna dei Borgia. Atti del convegno (Bologna, 29-31 ottobre 2000), cur. O. Capitani - M. Chiabò - M. C. De Matteis - A. M. Oliva, Roma 2005; De València a Roma a través dels Borja. Congrés commemoratiu del 500 Aniversari de l’any jubilar d’Alexandre VI (València, 23-26 de febrer de 2000), cur. P. Iradiel - J. M. Cruselles, València 2006. 3. Su Alfonso il Magnanimo v. M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV, Napoli 1972; E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458), Napoli 1975; A. Ryder, Alfonso el Magnánimo rey de Aragón, Nápoles y Sicilia (1396-1458), Valencia 1992. Più recentemente sono emersi nuovi interessanti dati dai dispacci e dalle lettere diplomatiche: M. E. Soldani, Alfonso il Magnanimo in Italia: pacificatore o crudel tiranno? Dinamiche politico-economiche e organizzazione del consenso nella prima fase della guerra di Firenze (1447-1448), in «Archivio L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 ANNA MARIA OLIVA lungo regno di Alfonso a proposito della politica beneficiale, delle biografie cardinalizie, della storia degli ordini religiosi, della presenza catalana in Curia e a Roma, dei rapporti tra Pontefici e sovrano aragonese per quanto atteneva, nella loro totale complessità, il quadro della politica italiana ed in particolare il ruolo svolto da Alfonso nei confronti dello Stato della Chiesa e di Roma4. I rapporti di Alfonso con il Papato sono stati da sempre definiti fondamentali e determinanti per comprendere molti degli atteggiamenti e delle decisioni assunte dal sovrano in merito alla conquista del regno di Napoli e più in generale alla sua politica italiana. Si è spesso ritenuto che l’ostacolo principale fosse costituito dall’atteggiamento di Alfonso nei confronti dello Scisma, degli antipapa e dei Concili, ma i primissimi rapporti intercorsi tra Martino V5 ed Alfonso andavano nella direzione di un accordo e di una intesa. È la politica italiana del sovrano, la sua designazione ad erede nel regno di Napoli e conseguentemente il suo intervento nella penisola che scompagina i piani di Martino V e trasforma Alfonso in un temibile pericolo per il Papato6. Storico Italiano», 165 (2007), pp. 267-324; E. Plebani, Una fuga programmata. Eugenio IV e Firenze (1433-1434), in «Archivio Storico Italiano», 170 (2012), pp. 285-307; Ead., La “fuga da Roma di Eugenio IV e la Repubblica Romana del 1434: questioni economiche, conflitti politici e crisi conciliare, in Congiure e conflitti. L’affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura. Atti del convegno internazionale (Roma, 3-5 dicembre 2013), cur. M. Chiabò - M. Gargano - A. Modigliani - P. Osmond, Roma 2014, pp. 89-108. Un forte interesse si è registrato intorno all’ideologia monarchica di Alfonso e sulla celebrazione ideologica e letteraria del suo trionfo, cfr. F. Delle Donne, Il trionfo, l’incoronazione mancata, la celebrazione letteraria: i paradigmi della propaganda di Alfonso il Magnanimo, in «Archivio Storico Italiano», 169 (2011), pp. 447-476; Id., Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015. 4. M. Miglio, Corona d’Aragona e papato nel primo Quattrocento: riflessioni su un difficile equilibrio, in Ibéria. Quatrocentos, Quinhentos. Duas décades de catedra (1984-2006). Homenagem a Luis Adão da Fonseca, cur. A. L. de Carvalho Homem - J. A. de Sotto Mayor Pizarro - P. M. de Carvalho Pinto Costa, Porto 2009, pp. 151-161. 5. Su Martino V v. P. Partner, The Papal State under Martin V. The administration and governement of the temporal power in the early fifteenth century, London 1958; v. anche M. Caravale, Lo Stato Pontificio da Martino V a Gregorio XIII, in M. Caravale - A. Caracciolo, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio IX, in Storia d’Italia, dir. da G. Galasso, XIV, Torino 1986, pp. 3-29; Alle origini della Nuova Roma. Martino V (14171431). Atti del Convegno (Roma, 2-5 marzo 1992), cur. M. Chiabò - D’Alessandro P. Piacentini - C. Ranieri 1992. V. anche C. Bianca, Martino V, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2000, pp. 619-634. 6. V. A. Alvarez Palenzuela, Los intereses aragoneses en Italia: presiones de Alfonso V sobre el pontificato, in La Corona d’Aragona in Italia (secc. XIII-XVIII), III/2. Presenza ed espan- 104 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV Gli interessi del pontefice nei confronti dello Stato pontificio erano il pieno recupero dei territori della Chiesa7, occupati da diversi condottieri a titolo personale o su mandato delle potenze italiane, la ripresa di Roma, cui teneva moltissimo anche per il valore simbolico che la città rivestiva e che gli aveva fatto rifiutare l’offerta di sedi alternative. Martino V coltivava inoltre forti interessi nei confronti del regno di Napoli non solo perché questo costituiva un feudo della Chiesa, ma anche perché egli aveva in vario modo favorito l’inserimento di esponenti della propria famiglia, i Colonna, nei principati napoletani ed aspirava ad avere un ruolo forte in quel contesto. La presenza a breve distanza da Roma di un sovrano potente quale era Alfonso, che oltretutto aveva un forte profilo ghibellino per tradizioni familiari e per impronta fortemente laica della tradizione giuridica catalano-aragonese, costituiva un grave pericolo da evitare ad ogni costo. RAGIONI DI UNA RICERCA Alfonso è stato a lungo visto in Italia solo come re di Napoli8, trascurando le strategie politiche rivolte ad un più ampio orizzonte italiano e ignorando i perduranti e forti legami con i regni iberici, negando quindi quell’orizzonte mediterraneo che costituisce la cifra del suo percorso politico. Si deve a Mario Del Treppo9 una visione non solo politica e culturale, sione della Corona d’Aragona in Italia (secc. XIII-XV). XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Sassari-Alghero, 19-24 maggio 1990), Sassari 1996, pp. 65-89: 68; Id., Alfonso V, rey de Nápoles: regulación de la sucesión y reconciliación con el pontificato, in El poder real en la Corona de Aragón (Siglos XIV-XVI), XV Congreso de Historia de la Corona de Aragón (Jaca, 20-25 de septiembre de 1993), Actas t. I, vol. 5, Zaragoza 1996, pp. 511-522; Id., Relaciones entre Aragón y Castilla en época de Alfonso V. Estado de la cuestion y lineas de investigació, in La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo. I modelli politico-istituzionali. La circolazione degli uomini, delle idee, delle merci. Gli influssi sulla società e sul costume. Celebrazioni Alfonsine. Atti del XVI Congresso di Storia della Corona d’Aragona (Napoli-Caserta-Ischia, 18-24 settembre 1997), cur. G. D’Agostino - G. Buffardi, I, Napoli 2000, pp. 21-43; Navarro, Callisto III cit., pp. 63-90. 7. P. Partner, The Lands of St. Peter. The Papal State in the Middle Ages and the early Renaissance, Berkley-Los Angeles, University of California Press, 1972. Per un quadro problematico che sottolinea anche le gravi carenze storiografiche verso «quella che, dopo il regno di Napoli, era pur sempre la più vasta costruzione statuale d’Italia» cfr. S. Carocci, Vassalli del papa. Potere pontificio, aristocrazie e città nello Stato della Chiesa (XII-XV sec.), Roma 2010, pp. 7-11, 99-114. 8. Pontieri, Alfonso il Magnanimo re di Napoli cit. 9. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona cit.; M. Del Treppo, Alfonso il Magnanimo e la Corona d’Aragona, in La Corona d’Aragona ai tempi di 105 ANNA MARIA OLIVA ma anche economica del suo progetto in un quadro storiografico molto più ricco, articolato, ampio e complesso che non fosse il solo orizzonte napoletano. La conquista del regno di Napoli, dunque, come risultato più alto dell’espansione della Corona d’Aragona, linea più avanzata della sua plurisecolare traiettoria mediterranea. Le strategie politiche di Alfonso avevano una visione d’insieme dei problemi della Corona, che lo portavano anche a guardare oltre i confini della Confederazione con una proiezione verso una più vasta area di rapporti e di prospettive politiche e strategiche che guardavano a Firenze a Genova a Venezia a Milano, all’Italia10. Non per niente alcune fonti parlano della sua brama di potere e del disegno segretamente coltivato di farsi signore di tutta la penisola sfruttando le contese italiane11. Proprio in virtù di quello sguardo lungo, che va oltre i confini della Confederazione, che propongo una suggestione più che i risultati di una ricerca completa: la rilettura di alcune fonti romane con qualche incursione in quelle catalane con un focus sui rapporti tra Alfonso, Roma e il Papato, inteso però come Terre della Chiesa. Si è spesso affermato che, nel dover affrontare i due pontefici Martino V e Eugenio IV, Alfonso abbia utilizzato come strumenti di pressione con il primo lo Scisma e con il secondo il movimento conciliare12. A queste indubbie pressioni di politica ecclesiastica di portata internazionale e di equilibri politici universali, vanno forse aggiunte altre forme di pressione più concrete, ma non meno minacciose, di natura più strettamente politico-strategica, legate al quadro politico italiano e più concretamente alla stabilità e sopravvivenza dello Stato pontificio e all’integrità della stessa Roma. Generalmente, infatti, nel ricostruire il panorama di quegli anni e le iniziative di Alfonso per una sua affermazione nel regno e più in generale nel contesto italiano il ruolo di Roma e delle terre limitrofe appare poco Alfonso il Magnanimo cit., I, pp. 1-17: 3. Per una riflessione storiografica sul regno di Napoli all’epoca di Alfonso il Magnanimo v. M. Del Treppo, Napoli e la Corona d’Aragona: appunti per un bilancio storiografico, in Fonti e cronache italo-iberiche del basso medioevo. Prospettive di ricerca, Firenze 1984, pp. 33-50. 10. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 221-62; E. Dupré Theseider, La politica italiana di Alfonso d’Aragona. Atti del IV Congreso de História de la Corona de Aragón, (Palma de Mallorca, 1955), Palma de Mallorca 1959, pp. 225-254; C. Cuadrada Majó, Política italiana de Alfonso V de Aragón (1420-1442), in «Acta Historica et Archaeologica Mediaevalia», 7-8 (1986-1987), pp. 269-309; B. Anatra, Guerra e diplomazia di Alfonso il Magnanimo nel Mediterraneo, in Guerra y Diplomacia en la Europa occidental (1280-1480), XXXI Semana de Estudios Medievales (Estella, 19 a 23 de julio de 2004), Pamplona 2004, pp. 361-371. 11. Soldani, Alfonso il Magnanimo in Italia cit., pp. 270-271. 12. Alvarez Palenzuela, Los intereses aragoneses en Italia cit., p. 66. 106 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV meno che marginale. Ritengo invece che la città, con i suoi punti di forza e con le sue fragilità, con la centralità del suo ruolo, con le sue componenti sociali (i grandi baroni vassalli del papa, ma nello stesso tempo vassalli del regno di Napoli; con l’aristocrazia municipale protagonista a sua volta di strategie cittadine e di dinamiche politiche più ampie)13, con le componenti italiane e straniere attive al suo interno portatrici di forti interessi economici14, con un patrimonio di terre e di beni che suscitava gli appetiti delle potenze italiane e dei diversi condottieri15, abbia avuto un ruolo, anche se indiretto, nelle dinamiche della politica di Alfonso, per il quale intervenire, anche se indirettamente su Roma, con minacce o favorendo l’intervento di altri allo scopo di destabilizzare la città e il Papa rientrava tra gli strumenti idonei al raggiungimento dei suoi obiettivi. Accendere un focus su Alfonso, Roma e le terre del distretto, significa proporre una lettura non alternativa, ma parallela del confronto tra sovrano aragonese e pontefici che renda palese la distinzione tra Papato e Roma tra Papato e terre del Patrimonio per cercare di portare alla luce quel nesso che sembra legare la lunga guerra condotta da Alfonso per la conquista del regno di Napoli e le vicende che in quegli stessi anni hanno tormentato le terre della Chiesa e la stessa Roma in una ottica che intende richiamare l’osservazione di Peter Partner quando affermava, seppur per altri contesti, che, altrimenti, il rischio sarebbe stato veramente quello di fare di Roma «un arredo scenico dietro il quale lo Stato papale pare non esistere»16. LE FONTI Per riflettere sui rapporti tra Alfonso il Magnanimo e Roma propongo, dunque, una rilettura delle cronache romane relative alla prima metà del 13. S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993; Carocci, Vassalli del papa cit., pp. 104-109; A. De Vincentis, La sopravvivenza come potere. Papi e baroni di Roma nel XV secolo, in La nobiltà romana nel medioevo. Atti del Convegno (Roma, 20-22 novembre 2003), cur. S. Carocci, Roma 2006, 551-613. 14. J-C. Maire Vigueur, L’altra Roma. Una storia dei romani all’epoca dei comuni (secoli XII-XIV), Torino 2011; A. Esposito, Pellegrini, stranieri, curiali ed ebrei, in Roma medievale, cur. A. Vauchez, Roma-Bari 2001, pp. 213-239; Ead. La città e i suoi abitanti, in Roma del Rinascimento, cur. A. Pinelli, Roma-Bari 2001, pp. 3-47. 15. L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, I, Roma 1910, pp. 193320; P. Paschini, Roma nel Rinascimento, Bologna 1940, pp. 105-157. 16. P. Partner, Un problema tra i problemi: la signoria pontificia, in Signorie in Umbria tra Medioevo e Rinascimento: l’esperienza dei Trinci, Congresso storico internazionale (Foligno, 10-13 dicembre 1986), Perugia 1989, p. 27. 107 ANNA MARIA OLIVA Quattrocento17. Si tratta di fonti di natura varia che offrono una visione di parte degli avvenimenti a loro modo interessante: il Diario della città di Roma di Stefano Infessura18, l’unico testo, forse, con le caratteristiche della cronachistica cittadina, con una ottica romana che abbraccia l’intera città. La fonte seleziona anche avvenimenti esterni ai confini cittadini, con una attenzione al circondario romano e alle terre della Chiesa, là dove quegli avvenimenti abbiano ripercussioni su Roma. Registra con particolare attenzione le diverse sommosse provocate in città e nel distretto dai Colonna e le scorrerie e razzie subite dalla città ad opera dei diversi condottieri e delle loro truppe. «Cronista municipale quanti altri mai», lo definisce Massimo Miglio19, ma che rimane in silenzio per avvenimenti anche molto significativi per la vita della città come per esempio la vicenda di Cola di Rienzo20. Il suo racconto non intercetta quasi mai la vicenda di Alfonso il Magnanimo, se non quando questa si interseca con la campagna nel regno di Napoli del cardinale Giovanni Vitelleschi21, comandante delle truppe pontificie chiamato da Eugenio IV a recuperare le terre della Chiesa e a sostenere il partito angioino nella lunga contesa con Alfonso per il regno di Napoli22. Altre cronache sono invece riconducibili alla tipologia delle scritture di memorie familiari, libri di famiglia e libri di ricordanze. Tale impostazione non è comunque indicativa automaticamente di una attenzione circoscritta e di una visione limitata solo ad un ambito ristretto, perché anzi, 17. M. Miglio, La cronachistica tardo medievale italiana (secoli XIV-XV): rilettura, in Bilan et perspectives des études médiévales en Europe, Louvain la Neuve 1995, pp. 23-34; Id., Cronisti romani del Quattrocento, in Ovidio Capitani: Quaranta anni per la storia medievale, cur. M. C. De Matteis, Bologna 2003, pp. 283-289. 18. Diario della città di Roma di Stefano Infessura scriba senato, ed. O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti per la Storia d’Italia, 5), che va dal 1294 al 1494. 19. Miglio, Cronisti romani del Quattrocento cit., p. 287. 20. Su Cola di Rienzo cfr. A. Rehberg - A. Modigliani, Cola di Rienzo e il Comune di Roma, Roma 2004; Cola di Rienzo. Dalla storia al mito, cur. G. Scalessa, Roma 2009. 21. Sul Vitelleschi v.: J. E. Law, Giovanni Vitelleschi prelato guerriero, in «Renessaince Studies», 12 (1998), pp. 40-66; M. Miglio, Un problema storiografico, in I Vitelleschi. Fonti, realtà e mito. Atti dell’Incontro di studio (Tarquinia, 25-26 ottobre 1996), cur. G. Mencarelli, Tarquinia 1998, pp. 11-20; J. E. Law, Profile of a Renaissance Cardinal, in I Vitelleschi. Fonti, realtà e mito cit., pp. 69-83; G. Lombardi, Giovanni Vitelleschi nei giudizi di alcuni contemporanei, ibid., pp. 23-36, ripubblicato in Lombardi, Saggi, Roma 2003, pp. 279-294. Sull’incontro di studio su I Vitelleschi cfr. anche la scheda di F. Pezzarossa in «RR. Roma nel Rinascimento. Bibliografia e Note», 1999, pp. 225-228, scheda 90. 22. G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in Storia d’Italia, dir. G. Galasso, XV/1, Torino 1992, pp. 561-604. 108 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV nella loro spesso scarna ed essenziale scansione temporale, queste fonti registrano anche avvenimenti di portata ampia e troviamo quindi rari riferimenti anche a vicende che hanno visto protagonista Alfonso23. Il “Memoriale” di Paolo dello Mastro24, un libro di ricordanze familiari in cui l’autore, esponente di una famiglia di mercanti con incarichi nella municipalità romana, raccoglie, con la scansione regolare di un registro contabile, avvenimenti particolari e generali, mescolando ricordi personali e memoria collettiva. I Diari di Stefano Caffari25, il cui autore, notaio del rione Pigna, è anche canonico di San Giovanni in Laterano e poi di S. Eustachio, presentano le caratteristiche proprie di un libro di ricordanze e memorie familiari. Tuttavia l’autore dimostra, seppur saltuariamente, una attenzione ad un panorama più ampio, italiano ed europeo, che gli consente di registrare avvenimenti di portata generale che hanno un riflesso significativo su Roma. La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone26 in cui l’autore, notaio del rione Ponte, è attento non solo agli accadimenti violenti, che hanno scosso la vita della città, ma anche ai fatti riconducibili ad un piano politico più ampio come appunto le vicende che hanno visto protagonista Alfonso. Infine due opere eccentriche, rispetto alla tipologia sin qui delineata, ma che offrono comunque spunti e prospettive interessanti: una cronaca che potremmo definire regionale, la Cronaca di Niccolò della Tuccia27 e, con l’ottica di un curiale del Quattrocento, il Liber de vita Christi ac omnium pontificum del Platina, umanista biografo dei pontefici, con una prospettiva dunque fortemente condizionata tutta rivolta al ruolo del Papato più che a Roma28. 23. Sulle scritture di memorie familiari v. A. Cicchetti - R. Mordenti, I libri di famiglia in Italia, Roma 1985, I, Filologia e storiografia letteraria; II, R. Mordenti, Geografia e Storia, Roma 2001. 24. Il “Memoriale” di Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro del Rione di Ponte, ed. F. Isoldi, Città di Castello 1910-1912 (RIS2, 24/2), pp. 83-100, relativo agli anni 1422-1484. 25. G. Coletti, Dai diari di Stefano Caffari, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 8 (1885), pp. 555-575; 9 (1886), pp. 583-611. Relativi, anche se non in modo continuato, agli anni 1424-1455. 26. La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone XVIII agosto MCCCCXXXIV-VI marzo MCCCCXLVII, ed. E. Isoldi, Città di Castello 1910-1912 (RIS2, 24/2), pp. I-LXXXI, 1-63. 27. Cronaca de’ principali fatti d’Italia dall’anno 1417 al 1468 di Niccolò della Tuccia viterbese, ed. F. Orioli, Roma 1852. 28. Platyna Historicus, Liber de vita Christi ac omnium pontificum (A. A. 1-1474), ed. G. Gaida, Città di Castello 1932 (RIS2, 3/1). Per una riflessione sulla storiografia pontificia v. M. Miglio, Storiografia pontificia del Quattrocento, Bologna 1975; Id., Tradizione storiografica e cultura umanistica nel «Liber de vita Christi ac omnium pontificum», 109 ANNA MARIA OLIVA Cercherò quindi poi di incrociare le fonte cronachistiche romane con quanto riportato da Jeronimo Zurita nei suoi Anales de Aragón29, fonte sempre ricca di informazioni, che l’autore trasse dalla documentazione conservata nell’Archivio della Corona d’Aragona, e da Gaspar Pelegrí nei suoi Libri delle Storie del re Alfonso primo30. Negli ultimi anni significativi risultati nell’apporto di nuovi dati e nell’apertura di nuovi percorsi e di nuove prospettive scientifiche anche per la storia di Roma di questi anni sono venuti dall’edizione delle fonti diplomatiche, delle lettere e dei dispacci degli ambasciatori e degli emissari che a vario titolo operavano presso le principali corti italiane31. Interessantissimi, ancora scarsamente utilizzati quando non del tutto inediti, sono infine i numerosissimi Memorials, le istruzioni destinate agli ambasciatori e agli emissari inviati in quegli anni da Alfonso en Cort de Roma. Queste fonti sono state nel tempo utilizzate da diversi studiosi32, mai però per ricostruire in modo mirato i rapporti tra Alfonso e Roma. ALFONSO E ROMA Alfonso durante il suo lungo regno si è confrontato con diversi pontefici, Martino V, Eugenio IV, Niccolò V e Callisto III, con ciascuno dei quali ha impostato rapporti complessi, più o meno conflittuali a seconda delle circostanze e delle politiche pontificie. La storia del papato, infatti, è fortemente segnata, come è noto, dalla discontinuità dovuta alla successione di diversi pontefici, ciascuno dei quali era portatore di una propria politica, di un proprio progetto, di propri interessi personali e familiari33. in Id., Scritture, Scrittori e Storia, vol. II Città e Corte a Roma nel Quattrocento, Manziana 1993, pp. 111-127. 29. J. Zurita, Anales de Aragón, ed. A. Canellas Lopez, 9 voll., Zaragoza 1980, in particolare i voll. V-VI relativi agli anni di regno di Alfonso il Magnanimo. 30. G. Pelegrí, Historiarum Alphonsi primi regis Libri X. I dieci libri delle storie del re Alfonso primo, ed. F. Delle Donne, Roma 2012. 31. Plebani, Una fuga programmata. Eugenio IV e Firenze cit., pp. 285-307; Ead., La “fuga” da Roma di Eugenio IV e la Repubblica Romana cit., pp. 89-108; P. Farenga, «I Romani sono pericoloso populo…». Roma nei carteggi diplomatici, in Roma Capitale (1447-1527), cur. S. Gensini, Pisa 1994, pp. 289-315; P. Farenga - A. Modigliani, Le lettere degli ambasciatori: una fonte significativa per la storia di Roma nel XV secolo, in Early modern Rome 13411667, Proceedings of a Conference held in Rome, May 13-15 2010, cur. P. Prebys, Ferrara 2011, pp. 88-104; Carteggio degli oratori sforzeschi alla corte pontificia, I, Niccolò V (27 febbraio 1447 - 30 aprile 1452), cur. G. Battioni, Roma 2013 (RR inedita 58, carteggi). 32. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit.; Navarro, Callisto III cit. 33. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella pri- 110 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV La fase più cruciale dell’affermazione di Alfonso d’Aragona nella politica italiana va certamente ricondotta agli anni di Eugenio IV 1431-1447. Il suo pontificato, che purtroppo attende ancora una revisione storiografica approfondita, coincide con uno dei periodi più drammatici della storia del papato, con la fuga del pontefice dalla città, e con Roma preda di continue sommosse, cospirazioni e rivolte34. Su queste vicende si appunterà principalmente la rilettura che propongo. La conquista del regno di Napoli da parte di Alfonso si sviluppa parallela al lungo percorso che i Pontefici hanno dovuto intraprendere per ricostituire e restaurare lo Stato della Chiesa dopo lo Scisma e la lunga assenza da Roma, che aveva lasciato le terre della Chiesa in balia di condottieri, truppe mercenarie ed appetiti di diverse potenze italiane. Nell’agosto del 1420, mentre sta combattendo per pacificare definitivamente il regno di Sardegna, Alfonso riceve la proposta di adozione e dunque di successione al trono da parte della regina Giovanna II di Napoli35. Nel settembre di quello stesso anno Martino V, che era stato eletto al soglio pontificio nel 1417, dopo una serie di tappe di avvicinamento, rientra trionfalmente a Roma36. Successivamente, nei primi mesi del 1431 Alfonso, dopo una fase tutta iberica37, torna ad impegnarsi nello scacchiere italiano e nel marzo di quello stesso anno sale al soglio pontificio Eugenio IV e tutti i risultati, tanto faticosamente raggiunti con Martino V, vengono nuovamente messi in discussione. Il confronto si farà aspro. Infine non è forse casuale che Eugenio IV rientri a Roma, dopo la sua rocambolesca fuga dalla città in rivolta, pochi mesi dopo che Alfonso fa il suo ingresso trionfale a Napoli nel 1443. Si intravedono così due percorsi paralleli le cui scansioni temporali sembrano in qualche modo essere allineate come se vi fosse tra loro un nesso forte, che forse esiste davvero. Fin dal primo coinvolgimento del sovrano nell’avventura napoletana Roma e le terre della Chiesa si trovano al centro dei conflitti e dei contrasti e diventano direttamente o indirettamente pedine importanti nelle strategie del sovrano. ma età moderna, Bologna 2013; A. De Vincentis, Battaglie di memoria. Gruppi, intellettuali, testi e la discontinuità del potere papale alla metà del Quattrocento. Con l’edizione del regno di Leodrisio Crivelli, Roma 2002. 34. V. L. Boschetto, I fatti del 1434 nel giudizio degli umanisti, in Congiure e conflitti cit., pp. 69-87; Plebani, La “fuga” da Roma di Eugenio IV cit., pp. 89-107. 35. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 108. 36. Caravale, Lo stato pontificio cit., pp. 4-29: 24. 37. T. N. Bisson, Història de la Corona d’Aragó a l’edat mitjana, Barcelona 1988, pp. 153-155. 111 ANNA MARIA OLIVA Il Diario di Stefano Infessura narra che nel 1417 Roma era nelle mani di Braccio da Montone38, che venne poi cacciato da Francesco Sforza. Ricorda il cronista «Et Braccio, quando se partì, perché era venuto Sforza, et vidde che li Romani non facevano nulla defensione, se partì molto scorrucciato et per questa cascione tenne modo de rompere la Marmora dello laco de Pedelopo et fecelo a’ntentione de allacare Roma»39. Le pressioni di Braccio da Montone su Roma non dovettero però esaurirsi in quell’episodio. L’Infessura ricorda che nel 1422 vi fu una grande inondazione a Roma «fu una piena d’acqua sì grande a Roma, che allagò la maggior parte di Roma, et fece grandissimo danno… et di questo ne fu cascione Braccio da Montone, perché partendosi molto scorrucciato di Roma quando perdé lo Stato di Roma, ruppe le marmora dello laco di Pedeluco et questo lo fece per dispetto delli Romani»40. Sappiamo dalla Vita Bracci di Antonio Campano che Fortebraccio si tenne a lungo pronto per rientrare a Roma e tra il 1417 ed il 1419 spadroneggiò nelle terre della Chiesa minacciando il pontefice con violente aggressioni che terrorizzarono la popolazione di numerose città soggette al Papato41. Nel febbraio del 1420 venne raggiunta una tregua tra Martino V, irremovibile nel voler limitare lo spadroneggiare di Braccio e il Fortebraccio ormai molto potente nel centro Italia. Ma la tregua fu di breve durata. Tra il 1420 ed il 1421, infatti, la situazione cambia e Braccio da Montone rivolge i propri interessi al regno di Napoli e al sovrano aragonese. Nel gennaio del 1421 Braccio riceve gli ambasciatori di Alfonso e nell’aprile di quell’anno viene nominato connestabile del regno42. Altre fonti forniscono ulteriori elementi utili per meglio comprendere tale vicenda e l’eventuale ruolo avuto da Alfonso. L’Aragonese, per prepa38. Su Andrea Fortebraccio, detto Braccio da Montone cfr. Braccio da Montone e i Fortebracci. Atti del Convegno internazionale di studi (Montone, 23-25 marzo 1990), cur. M. V. Baruti Ceccopieri, Narni 1993; P. L. Falaschi, Fortebracci, Andrea detto Braccio da Montone, in Dizionario biografico degli Italiani, 49, Roma 1997, pp. 117-127; cfr. anche Johannis Antonius Campanus, Braccii Perusini Vita et gesta Ab anno MCCCLXVIII usque ad MCCCCXXIV, ed. R. Valentini, Bologna 1929 (RIS2, 19/4). Sull’opera di Giovanni Antonio Campano, cfr. F. Tateo, Storia esemplare di un condottiero: la «Vita di Braccio» di Giovanni Antonio Campano, in I miti della storiografia umanistica, Roma 1990, pp. 99-120. 39. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., pp. 21-22. Sull’occupazione di Roma da parte di Fortebraccio nel 1417 v. M. G. Blasio, Immagini di un condottiero: Braccio da Montone e l’occupazione di Roma del 1417, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, cur. e introd. M. Del Treppo, Napoli 2001, pp. 215-226. 40. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., p. 24. 41. Campanus, Braccii Perusini Vita cit., pp. 123-125, 149. 42. Ibid., pp. 153-156. 112 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV rare il proprio arrivo a Napoli e neutralizzare le resistenze degli avversari, aveva avviato contatti diplomatici ed attivato contromisure e pesanti diversivi. Per la neutralità di Roma, in accordo con la regina Giovanna, il sovrano aragonese invia ambasciatori al pontefice per ottenere il suo appoggio, ma nello stesso tempo agisce proprio su Braccio da Montone. I due sovrani offrono al condottiero, feroce avversario di Francesco Sforza ormai alleato del pontefice, un accordo promettendogli ricompense, onori, denari e terre se avesse attaccato le terre della Chiesa43. Dell’ingaggio di Braccio da Montone quale mercenario del re Aragonese, in accordo con la regina Giovanna, danno conto Gaspar Pelegrí44, l’editore della Vita Braccii, che parla esplicitamente di un pagamento di 45.000 ducati di Alfonso a Fortebraccio45. Il dato è registrato anche da Peter Partner che definisce Braccio mercenario aragonese46. Il pontefice è letteralmente preso tra due fuochi: gli ambasciatori di Alfonso, le minacce di Braccio, che aveva attraversato il Garigliano con 7000 uomini e minacciava Roma, il rifiuto dei Veneziani di finanziare le truppe di Francesco Sforza che avrebbero dovuto fronteggiare Braccio e le controminacce dello stesso Sforza che, a sua volta, se non soddisfatto per il mancato pagamento del contratto, minaccia la sua ira sulla città. Di fronte a questo dilemma il papa decide di inviare Pedro de Fonseca, cardinale di Sant’Angelo, quale suo legato a Napoli per giungere ad un accordo47. Il tentativo di mediazione, come noto, poco dopo fallisce per la improvvisa morte del cardinale nell’agosto del 142248. È interessante rilevare che in questo periodo era già presente a Roma una rappresentanza catalana che in qualche modo interagiva anche sul piano politico a riprova del ruolo che Alfonso assegnava a Roma come polo politico: erano attivi emissari del sovrano, ma anche agenti della Corte della regina Maria e delle Cortes catalane, contrarie alla politica italiana di Alfonso. Diversi esponenti della curia regia sono attivi en cort de Roma presso il pontefice, presso singoli cardinali con i quali il sovrano intrat43. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp.118-119, 125; Alvarez Palenzuela, Los intereses aragoneses en Italia cit., p. 70. 44. Pelegrí, Historiarum Alphonsi primi regis Libri X cit., libro I, cap. 194, p. 29. 45. Campanus, Braccii Perusini Vita cit., p. 184. 46. Partner, The Papal State under Martin V cit., p. 69. 47. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 126-127. 48. Barcelona, Archivio della Corona di Aragona, Cancelleria, reg. 2672, ff. 192v193r. Alfonso invia a Roma un proprio ambasciatore Ramon Berenguer perché prenda segretamente contatti con il cardinale di Sant’Angelo per smentire false voci che vengono riferite al pontefice sull’impegno militare e diplomatico di Alfonso nei confronti della regina Giovanna e del regno di Napoli. 113 ANNA MARIA OLIVA tiene stretti rapporti e che utilizza come fonti di informazioni e di suggerimenti: in un Memorial destinato a micer Miguel de Naves49, pronto a partire per la corte di Roma, il sovrano precisa: «diga al Cardenal Brancaciis que lo dit senyor (cioè il sovrano) vol havera quell en singular e special amistat denant tots altres e que dels feits tots hauts en lo realme de Napols lo vulla avisar e consellar»50. Il cardinale Brancaccio era allora Legato pontificio nel regno di Napoli e referente delle trattative con Ladislao re di Napoli. Era dunque persona di altissimo profilo e certamente ben informata sulla situazione napoletana. Vescovi, funzionari di cancelleria, esponenti dell’amministrazione regia, dottori in ambo i diritti, cappellani reali e tanti altri operano a Roma per il Magnanimo. La Curia era un mondo di relazioni, di protagonisti, di consorterie, di equilibri e poteri diversi con i quali il Magnanimo dialogava su più livelli e con diverse tipologie di referenti51. Quando nel 1423 il quadro politico del regno di Napoli cambia completamente e sono ormai evidenti le difficoltà che incontra Alfonso, trasformato da erede in usurpatore, vittima delle trame della corte e dell’entourage della regina Giovanna52, sono gli agenti reali presenti ed attivi a Roma che lo avvertono a Napoli della minaccia che si profila e degli intrighi che si stanno mettendo appunto per catturarlo53. È tra gli altri presente a Roma in quell’occasione, quale agente del re Francisco de Arinyo, segretario della sua cancelleria, personaggio di rilievo del suo entourage che lo ha accompagnato anche nella campagna per la conquista della Corsica e durante la sua permanenza in Sardegna54. Quindi Roma un importante spazio politico per Alfonso dove si raccoglievano informazioni preziose per lo scenario napoletano. 49. Miquel de Navés, doctor en cascun dret, era personalità molto stimata dal sovrano. Nel 1416 era stato tra gli ambasciatori di Alfonso intervenuti al Concilio di Costanza, Zurita, Anales de Aragón cit., V, l. XII, cap. LXIII, p. 485. 50. Barcelona, Archivio della Corona di Aragona, Cancelleria, reg. 2671, f. 116r. Rainaldus de Brancatiis venne eletto cardinale da Urbano VI nel 1385. Nel 1409 partecipò al Conclave che elesse l’antipapa Alessandro V e successivamente a quello che elesse l’antipapa Giovanni XXIII che lo nominò governatore di Campagna e Marittima. Successivamente riconobbe Martino V che lo nominò Legato presso il regno di Napoli ed incaricato delle trattative di pace. 51. A. M. Oliva, Schede bibliografiche 34-35-36 su Diplomatari Borja. Documents de l’Arxiu de la Corona d’Aragó (1444-1458), dir. C. López Rodríguez, in «RR. Roma nel Rinascimento. Bibliografia e note», 2007, pp. 140-144. 52. Palenzuela, Los intereses aragoneses en Italia cit., p.70. 53. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 126, 136-137. 54. Zurita, Anales de Aragón cit., vol. 5, l. XIII, cap. XVI, p. 579. 114 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV EUGENIO IV E ALFONSO Il 20 febbraio 1431 muore Martino V e sale al soglio pontificio il veneziano Gabriele Coldulmer con il nome di Eugenio IV. I primi atti ufficiali del suo pontificato furono volti al ridimensionamento del potere della famiglia Colonna, fortemente favorita dalle concessioni di Martino V. Gli interventi pontifici sono volti a ridurre i possedimenti dei Colonna e ad allontanare i rappresentanti di quella famiglia dai principali uffici di Roma e dal governo curiale55. Il Diario di Stefano Infessura ricorda a tale proposito che a maggio del 1431 «lo ditto papa have et pigliò tutte le fortezze, et massime Castiello Santo Angelo, lo quale teneva lo principe (Antonio Colonna principe di Salerno), dallo quale lo ditto papa habbe parecchie migliaia de ducati». Ulteriori contrasti tra Eugenio e i Colonna avrebbero poi spinto questi ultimi, guidati appunto dal principe di Salerno a «venire a Roma per tollere lo Stato allo papa et vennero et pigliaro porta Appia… et lo secondo dì entraro in Roma… et lo danno che fecero fu inestimabile et tennero la ditta porta parecchi dy, et ogni dì sinci combatteva,… et fo sbarrata tutta Roma, et givano i Romani tutti armati»56. Anche la Cronaca di Niccolò della Tuccia narra dell’allontanamento da Roma del principe di Salerno, nipote di papa Martino e del suo ritorno in armi contro la città «detto principe venne a Roma con Brigata sua per nemico del papa e presa porta Latina per forza le brigate entrorno in Roma… E dopo longhe guerre il principe ne fu cacciato fora con sue genti e tenne porta Latina parecchi mesi facendo guerra a Roma»57. Le rappresaglie di Eugenio IV continuarono con la cattura dell’arcivescovo di Benevento58, figlio di Antonio Colonna, principe di Salerno59, e di frate Masi che venne poi trucidato «perché se diceva che aveva ordinato di tollere castello Santo Angelo et fare de molto male, et voleva mettere lo principe in Roma… et per essempio dell’altri lo papa fece fare questo»60. 55. Caravale, Lo Stato pontificio cit., pp. 49 ss. 56. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., p. 27. 57. Cronaca de’ principali fatti d’Italia cit., p. 14. 58. P. Partner, voce Colonna, Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 309-311; C. Eubel, Hierarchia Catholica Medii Aevi, Monasterii 1913-1914, I, pp. 133, 418, II, p. 104. 59. P. Partner, voce Colonna, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 266-267. 60. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., p. 28. 115 ANNA MARIA OLIVA Questa aggressione da parte dei Colonna a Roma e questo forte contrasto con il pontefice acquistano un significato nuovo se posti in relazione con i tentativi di avvicinamento intercorsi tra Alfonso e proprio il principe di Salerno e i suoi familiari. Alfonso, dopo una lunga parentesi che lo aveva visto impegnato in Castiglia, a luglio del 1430 aveva raggiunto un risultato importante, una tregua per cinque anni, e poteva dunque tornare a guardare gli orizzonti italiani. Rappresentanti del sovrano e della regina Giovanna avevano avviato nuove trattative per raggiungere un accordo sulla successione al trono napoletano conteso tra l’Aragonese e l’Angiò. Nei primi mesi del 1431, dunque, in concomitanza con l’elezione del nuovo pontefice, Alfonso avvia preparativi per una nuova impresa nel Mediterraneo e si trasferisce in Sicilia dove rimane dal 1432 al 1435 conducendo una politica di difesa dei propri interessi nell’isola e preparando diplomaticamente una nuova iniziativa verso il regno di Napoli61. Il sovrano, i cui contrasti con la regina Giovanna non erano superati, avvia contatti anche con i grandi baroni del regno ed in particolare con il principe di Salerno, Antonio Colonna, espropriato dei possedimenti suoi e dei suoi familiari da Giovanna appunto in accordo con il Pontefice, al quale chiede aiuti in uomini e denari. Il Principe si disse disposto a rendere omaggio al sovrano, a passare dalla sua parte e a combattere sotto la sua bandiera, se in cambio il sovrano si fosse impegnato ad aiutarlo a recuperare i possedimenti e i castelli che erano appartenuti a lui e alla sua famiglia62. Le fonti non pongono in relazione questi fatti, ma è indubbio che il ruolo dei Colonna a Roma e nel Regno vada letto nell’ottica di una grande e potente consorteria sopra-regionale ed in una prospettiva di forte pressione contro la politica di Eugenio IV. Gli interessi di Alfonso e dei Colonna, dunque, nel contrastare il pontefice e la regina, in questa particolare fase, si incontravano e nella unione si rafforzavano reciprocamente. Le aggressioni a Roma e le minacce di rovesciare il governo pontificio della città da parte dei Colonna intercettavano dunque gli interessi di Alfonso di rafforzarsi nel regno anche attraverso l’appoggio dei grandi baroni. Poste in relazione, le due vicende acquistano una nuova prospettiva e rendono palese l’articolazione, la profondità e la complessità dei piani sui quali opera Alfonso per neutralizzare il papa e realizzare la conquista di Napoli. Alfonso sparisce dalle fonti romane, nonostante le violente vicende connesse all’aggressione alle terre della Chiesa da parte Niccolò Piccinino 61. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 151-262. 62. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. IX, pp. 32-33 De la inteligencia que el rey tenia con los barones del reino. 116 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV e Francesco Sforza che con alterne vicende andavano completando la conquista della Marca di Ancona, dell’Umbria e della Romagna, mentre Fortebraccio proseguiva le sue devastazioni in Campagna e Marittima63. Stupisce che nella fuga del pontefice da Roma, nel 1434, per le violente rivolte del popolo romano nel 1434 fossero implicate, a vario titolo e in vario modo, molte delle potenze italiane: il duca di Milano, che stava assumendo un ruolo preminente nel nord Italia e che per questo aveva assoldato il Fortebraccio e Niccolò Piccinino per aggredire le terre della Chiesa in vista di una possibile espansione della sua influenza al centro Italia; la signoria di Firenze che aveva preparato e gestito la fuga del pontefice facendo dunque rientrare quella operazione nella sua strategia politica ed economica, Venezia in quanto alleata di Firenze, e recentemente poi è emerso il ruolo, tutto politico e mediato da figure di comodo, svolto dai Colonna nel favorire e appoggiare indirettamente, attraverso personaggi legati alla loro consorteria, la rivolta a Roma, mentre proprio Alfonso, che, tra il 1432 ed il 1435, si trovava in Sicilia da dove certamente seguiva le vicende italiane, sembrerebbe del tutto estraneo a questi avvenimenti e addirittura assente dalle fonti e dalle analisi storiche. La fuga di Eugenio IV da Roma nel maggio del 1434 e il ritorno di Roma sotto il controllo pontificio nell’ottobre dello stesso anno sembrerebbero dunque non aver suscitato alcun interesse nel sovrano, mentre la morte di Luigi d’Angiò nel novembre successivo avrebbe cambiato tutte le sue prospettive64. Qualche notizia si ricava dallo Zurita che dedica alla fuga del pontefice un intero capitolo. Già allora il cronista individuava nel duca di Milano e nei Colonna i responsabili diretti ed indiretti, palesi e nascosti, del rovesciamento del governo pontificio. A proposito della fuga di Eugenio IV lo Zurita riporta un dato che non ho avuto modo di verificare, ma che sarebbe molto interessante approfondire: «Fue gran ministro para que el papa se pusiese en salvo Juan de Mella arcidiacono de Madrid, natural de Zamora, che despues fue cardinal65 y un capellan del rey de Castilla abad de Alfaro»66. 63. S. Ferente, La sfortuna di Jacopo Piccinino. Storia dei bracceschi in Italia 14231465, Firenze 2005, pp. 11 ss. 64. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 247-248. 65. Juan de Mella, vescovo di Zamora, laureato all’Università di Salamanca in teologia e diritto canonico, partecipa al Concilio di Firenze del 1439. Nel 1456 viene nominato da Callisto III cardinale del titolo di Santa Prisca, Eubel, Hierarchia Catholica cit., II, p. 12. 66. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XVIII, p. 64. Il riferimento è alla città di Alfaro alla frontiera tra Castiglia e Navarra ove si trova la Colegiata di San 117 ANNA MARIA OLIVA La fonte va certamente verificata e al momento molte possono essere le letture, ma il fatto che siano indicati due ecclesiastici castigliani è certamente un dato interessante su cui riflettere: i sovrani di Castiglia hanno sempre portato avanti una politica di vicinanza al Papato e di stretta fedeltà alla Chiesa al contrario di quanto fatto a più riprese e in diversi contesti dai sovrani della Corona d’Aragona. Inoltre Alfonso ha da poco raggiunto una tregua con il sovrano di Castiglia dopo una lunga guerra, che aveva visto Alfonso in chiara difficoltà e lo aveva di fatto distolto dallo scenario italiano. La commissione mista catalano-castigliana che doveva stabilire i termini dell’accordo era all’opera in quei giorni. Alfonso era stato informato di quanto accaduto a Roma il 9 luglio mentre si trovava a Palermo ed aveva inviato subito al pontefice Martín Galloz67, vescovo di Coria, Ramon Boïl68, e Garcia Aznárez de Añón, decano di Tarazona69. Gli emissari dovevano riferire ad Eugenio che Alfonso, informato delle aggressioni allo Stato della Chiesa da parte di Francesco Sforza e degli altri capitani, aveva aspettato di essere chiamato in aiuto dal Pontefice e che sarebbe stato pronto eventualmente ad inviare le galere con i propri fratelli e lui stesso se necessario. Ma, quando si era reso conto che il pontefice era in accordo con lo Sforza e che insieme combattevano gli altri avventurieri, pensò che non ci fosse bisogno di aiuto. Alfonso esprimeva attraverso gli emissari tutto il proprio rammarico per le circostanze che avevano spinto il papa alla fuga e «posponiendo del todo algunos descontentamientos che tenìa de su santidad, los cuales habìa por olvidados del todo»70, offriva i propri servigi. L’offerta, nonostante i descontentamientos, è reiterata. Il sovrano offre anche al Pontefice l’opportunità, se avesse voluto, di trasferirsi nei suoi regni o di scortarlo a Venezia se avesse preferito. Inoltre Alfonso mette in Miguel Arcángel, retta da un «abad» (ovvero il superiore dei chierici canonici, cioè il decano), A. De Blas Ladrón de Guevara, Historia de la muy noble y muy leal ciudad de Alfaro, Zaragoza 1915, pp. 52 ss. 67. V. Bertrán de Heredia, Cartulario de la Universidad de Salamanca (1218-1600), I, Salamanca 2001, pp. 410-420. 68. Ramon Boïl i Montagut, signore delle baronie di Bétera e di Boïl, nobile valenzano seguì Alfonso nelle sue campagne nel Mediterraneo. Catturato con il sovrano a Ponza, fu suo valido collaboratore sul piano militare e nella diplomazia. Fu anche viceré degli Abruzzi, Pontieri, Alfonso il Magnanimo cit., ad indicem; Pelegrí, Historiarum Alphonsi primi regis Libri cit., ad indicem. 69. García Aznárez de Añón risiedeva in quel periodo a Roma impegnato presso la Curia quale consigliere di Alfonso. Nell’agosto del 1434 venne nominato vescovo di Lleida, sede che raggiunse solo nel 1438. Eubel, Hierarchia Catholica cit., II, p. 167. 70. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XVIII, p. 65. 118 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV guardia il papa dal decidere di trasferirsi ad Avignone. E gli suggerisce di consultarsi prima con lui «porque esto no seria cosa conviniente al papa ponerse en poder de franceses»71. L’insistenza, il proporsi reiterato che si legge tra le righe, fa pensare alla necessità di Alfonso di ritagliarsi in qualche modo un ruolo in quella vicenda. Quasi che il sovrano voglia utilizzare la situazione di indubbia difficoltà nella quale si trovava il pontefice come una opportunità a suo vantaggio. Lo spunto offerto dallo Zurita sembra molto interessante e impone di approfondire l’atteggiamento di Alfonso di fronte alla fuga del pontefice, avvenimento che modifica significativamente gli equilibri politici italiani anche in vista dei progetti alfonsini su Napoli. Nel novembre del 1434 muore Luigi III d’Angiò e pochi mesi dopo anche la regina Giovanna. Insperatamente si apre per Alfonso la possibilità di ottenere il regno di Napoli, sebbene l’erede designato fosse a questo punto Renato fratello di Luigi. Di questi avvenimenti e dei successivi, legati al ritorno in campo di Alfonso, all’assedio di Gaeta e alla battaglia navale di Ponza, non fa alcuna menzione l’Infessura, pur attento cronista della vita romana, che però ci ha abituato a significativi silenzi. Il Platina invece dà conto di tutte le tappe di questa avventura, ma con distacco quasi disinteressato, senza alcun commento, come se le guardasse da un osservatorio lontano72. Niccolò della Tuccia, invece, pur privilegiando una prospettiva regionale, non trascura del tutto le vicende legate al regno di Napoli che sembra seguire a distanza senza per altro mai perderle di vista «fra questo tempo la regina Giovanna di Napoli et il re Aloigi…»73, «nel passato tempo era morto il re Aloigi nel reame di Napoli e la regina morì nel febraro passato. Onde chi più poteva pigliava sue terre»74, «Hora torno alla guerra di Napoli. Sendo morta la regina e rimaso il reame per successione al re Ranieri di Francia questo non poteva prender possesso per la guerra che li faceva il re di Ragona»75. Alfonso torna nelle cronache romane dunque quale protagonista dello scontro con Renato d’Angiò, ma soprattutto quale straordinaria vittima della battaglia di Ponza e vincitore dell’accordo con il duca di Milano. Nella Mesticanza di Paolo di Lello Petrone viene ricordata la battaglia di Ponza che lo vide drammaticamente sconfitto. Vengono indicati alcuni di coloro che combatterono e vennero catturati con lui. L’elenco è a suo modo 71. Ibid., p. 66. 72. Platyna Historicus, Liber de vita Christi ac omnium pontificum cit., p. 317. 73. Cronaca de’ principali fatti d’Italia cit., p. 72. 74. Ibid., p. 81. 75. Ibid., p. 87. 119 ANNA MARIA OLIVA dettagliato vengono ricordati i fratelli del sovrano, i baroni di casa Orsini ai quali viene riservato un ruolo di primo piano e diversi altri nobili. L’avvenimento è certamente degno di essere ricordato e l’elenco di alcune personalità di spicco è funzionale a dare risalto all’accaduto, commenta infatti il cronista «contase che da 600 anni in qua mai simile sconfitta non fosse nelle parti dello reame de Napoli et credo sia lo vero»76. Ma se la cattura del re stimola l’attenzione del cronista romano più ancora suscita il suo interesse l’evoluzione di quella vicenda: il sovrano viene infatti portato a Genova e consegnato al duca di Milano che, come è noto, lo accolse non come un prigioniero ma con gli onori dovuti a un sovrano e poi strinse con lui un accordo di mutuo sostegno ribaltando così tutte le alleanze sino ad allora strette. Lo stupore di Paolo di Lello Petrone è accompagnato dal rimpianto e dall’amarezza per una vicenda di cui non condivide assolutamente l’epilogo, commenta infatti molto negativamente, la decisione del duca di Milano di salvare Alfonso «per la quale cosa onne persona sperava che lo duca li facesse morire o molto gravemente rescoterli». Il cronista esprime in questo modo un rancore nei confronti di Alfonso che possiamo attribuire forse al ruolo che il sovrano rivestiva in quel periodo agli occhi dei romani: era in qualche modo un elemento destabilizzatore, portatore di pericoli e dunque sarebbe stato meglio farlo morire o almeno danneggiarlo fortemente con la richiesta di un forte riscatto. Questo breve ed unico accenno fa pensare che comunque Alfonso venisse percepito dai romani come un pericolo. Vi è però nell’atteggiamento del cronista anche un altro elemento, il rammarico, diciamo così, dell’uomo qualunque, che comprende come per i potenti vi sia sempre una via di scampo e che per loro valga sempre una giustizia altra «Et perché cuorvo a cuorvo non se cacciano li vuocchi, lo ditto duca como magnanimo li liberao tutti quanti e fece a loro molto granne favore e doni»77. Roma, abbandonata dal pontefice, mostrava tutte le sue fragilità e la cronaca tormentata di quegli anni dà conto di continue congiure, sommosse e sollevamenti popolari scorrerie ed aggressioni di truppe mercenarie. Talvolta si perde per fino la ratio di tali vicende, ma giustapponendo diverse fonti forse il quadro appare più leggibile. Le cronache romane, sempre attente alle devastazioni che colpivano Roma e ai progetti di conquista e di sollevamento dei territori della Chiesa di questo o quel condottiero, narrano che nel 1435 «Nicolò de Forte76. La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone cit., p. 17. 77. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., p. 34; La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone cit., p. 21. 120 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV braccio fece tanto danno e vergogna a romani una con Rienzo Colonna, Jacovo Orsino de Monte Retonno et altri latroni baroni che sempre fuoro nemici della Chiesa»78,«avenne ch’in Roma certi Colonnesi et Treiosani ordinarono un trattato in Roma et tollere lo stato alla Chiesa»79. Rientrava in questa cospirazione anche Antonio da Pontedera che, dopo essere stato al servizio del pontefice prima della fuga del 1434, «deventò inimico suo et tuolseli tutta quanta campagna, et retornato lo stato de Roma allo papa (come è noto dopo l’intervento del Patriarca d’Alessandria Giovanni Vitelleschi mandato in armi da papa Eugenio proprio per recuperare con tutti i mezzi le terre del Patrimonio e Roma) fo più inimico che prima»80. Pontedera spadroneggiava a Roma forte anche di un nutrito gruppo di seguaci che il cronista elenca con precisione: «Odoardo Colonna, nipote di papa Martino V, Corradino dello Piglio, Cola Saviello, Ruggieri Gaietano e Grado Conte»81. Altre fonti contestualizzano questi elementi chiarendoli in qualche misura. Eugenio IV, dopo l’accordo tra Alfonso e il duca di Milano, era ormai ossessionato dal timore di quell’asse politico che andava contro i suoi interessi. Accolse quindi a Firenze gli inviati di Renato d’Angiò tributandogli gli onori riservati ad un sovrano «Com si fossen misetges del rey de Napols»82. Segretamente poi pubblicò una bolla con la quale investiva il francese del regno di Napoli. La reazione di Alfonso a questa fuga in avanti del pontefice è determinata, articolata su più fronti e concordata con il duca di Milano: interviene sui propri ecclesiastici presenti al concilio di Basilea ed organizza una azione militare contro gli stati della Chiesa. Orso Orsini, che sappiamo dalla Cronaca di Paolo Petrone aver tentato «con moita jente da cavallo e da pede» un attacco al borgo di San Pietro di Roma e non riuscendovi essersi limitato a razzie di bestiame ai danni dei romani e del distretto83, abbandonando la città si era posto sotto le insegne di re Alfonso e aveva unito le proprie soldatesche alle forze di Renzo Colonna, di Francesco Savelli e di Antonio da Pontedera tutti ostili ad Eugenio e in questa fase sodali con Alfonso. Lo Zurita arricchisce con ulteriori elementi questa fase dello scontro tra Alfonso e Eugenio IV. Aggiunge infatti alle contromosse adottate da 78. La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone cit., p.11. 79. Ibid., p.12. 80. Ibid. 81. Ibid., pp. 14-5. 82. J. M. Madurell Marimon, Mensajeros barceloneses en la corte de Napoles de Alfonso V de Aragón: 1435-1458, Barcelona 1953, p. 163; Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 269. 83. La Mesticanza di Paolo di Lello Petrone cit., p. 8. 121 ANNA MARIA OLIVA Alfonso, finalizzate a colpire il pontefice là dove il colpo sarebbe stato più efficace: l’ordine a tutti i prelati ed ecclesiastici suoi sudditi «que esteban en Roma que se partiesen luego della»84. Ora non sappiamo quanto fosse nutrita la presenza di ecclesiastici catalano-aragonesi a Roma ma ritengo che Alfonso intendesse con questo ordine se non danneggiare concretamente il pontefice certamente esercitare su di lui una pressione ideologica e di immagine molto forte. Invia quindi ad Eugenio padre Bernardo Serra suo elemosiniere85, ma lo Zurita, propone una sottile distinzione tra gli aspetti spirituali e non dei rapporti con il pontefice e per questi ultimi precisa «tenia inteligencia con Ursinos y Coloneses para poner alguna revuelta en Roma»86. Poco dopo Pontedera riuscì ad entrare a Roma al grido di «viva la compagnia viva il re d’Aragona»87. Il successo fu momentaneo perché non vi fu una risposta e una adesione popolare. Le scorrerie contro la città, tuttavia, continuarono ancora, sempre finanziate da Alfonso, ad opera di Antonio di Pontedera, di Riccio di Monteclaro e di Lorenzo Colonna che entrò come nemico nel territorio di Roma facendo razzie88. Afferma Ryder a questo proposito che Alfonso non si arrese e in più di una occasione «intentò revivir el proyecto romano»89. A settembre di quell’anno, infatti, in una fase a lui favorevole dei lavori del Concilio di Basilea, propose ai padri conciliari di prendere Roma e le terre della Chiesa per porle sotto la giurisdizione del concilio e dunque soggette alla loro obbedienza. Chiedeva ai padri una autorizzazione ufficiale sulla base di una bolla e si dichiarava disponibile ad affrontare l’impresa a sue spese. Lo stesso Zurita osserva che in realtà anche questa iniziativa era uno stratagemma di Alfonso una ennesima minaccia per portare a più miti consigli il Papa90. Dunque, come sempre, Alfonso giocava contemporaneamente su più tavoli per esercitare pressioni sul papato: si la politica conciliare, si la minaccia dell’antipapa, ma sul terreno vi era anche la concreta minaccia su Roma, minaccia ideologica se si vuole per il valore simbolico della città, minaccia resa tanto più realistica per i rapporti che nel tempo Alfonso aveva allacciato con molti romani nobili e non. 84. Zurita, Anales de Aragón cit., vol. VI, l. XIV, cap. XXXIII, p. 117. 85. Lo Zurita e Gaspar Pelegrí riferiscono entrambi di questa missione diplomatica, Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XXXIII, p. 117; Pelegrí, Historiarum Alphonsi primi regis Libri cit., p. 165 nota 37. 86. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XXXIII, p. 117. 87. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 269. 88. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XXXVII, p. 139. 89. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 169. 90. Zurita, Anales de Aragón cit., VI, l. XIV, cap. XXXVII, p. 141. 122 ALFONSO, IL PAPATO E ROMA ALL’EPOCA DI EUGENIO IV L’atteggiamento di Alfonso nei confronti di Roma durante il pontificato di Eugenio IV, minaccioso quando non palesemente aggressivo, non sembra tuttavia risolversi con la morte del papa, ma permanere come una opzione politica e strategica sottotraccia. Nel 1447, alla morte di Eugenio IV, nell’imminenza dell’elezione di Niccolò V, le truppe aragonesi sono infatti attestate minacciose a Tivoli. Ricorda a tale proposito Stefano Infessura: «e non fu più fatto niente per paura dello re di Ragona che stava in Tivoli»91. Anna Modigliani, con riferimento alla congiura di Stefano Porcari del 1453, osserva che varie fonti suggeriscono che l’atteggiamento di Alfonso possa aver influito sulla congiura. Solo ulteriori ricerche e nuovi documenti potranno eventualmente chiarire tali possibili connivenze. La lettura combinata di diverse fonti lascia comunque intravedere nuove prospettive per una ulteriore riflessione sulle rivolte antipapali del Quattrocento che forse non vanno ricondotte solo a iniziative personali o familiari di stretto ambito romano, ma inserite in un contesto politico più ampio. 91. Diario della città di Roma di Stefano Infessura cit., p. 46. ABSTRACT El rey «tenía “inteligencia con Ursinos y Coloneses para poner alguna revuelta en Roma”»: Alfonso, the Papacy and Rome in the Time of Eugene IV While the historiographical scholarship on the expansion of the Crown of Aragon through the Mediterranean is rich and varied, there is still ample room to further our knowledge of the (primarily political) relationship between Alfonso the Magnanimous and the Papacy. Through a re-examination of Roman municipal chronicles, papal culture, and Iberian chronicles and sources, this essay offers new perspectives regarding the relationship between Alfonso and Rome. The city of Rome and its surrounding territories cannot be regarded anymore as marginal with respect to the consolidation of Alfonso in the kingdom of Naples, since both played, however indirectly, a political and strategic role in that process. Anna Maria Oliva Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea Consiglio Nazionale delle Ricerche email??? 123 Joana Barreto LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA* Cosimo I de Medici chiamava Alfonso il Magnanimo “mezzo-barbaro”1, cioè, in quanto catalano, estraneo alla cultura urbana e civile del Quattrocento fiorentino. Si avvale di questo giudizio una grande parte della storiografia sulla dinastia aragonese di Napoli. Al contrario, una pluralità d’indizi ci mostra che alcuni caratteri della “modernità” (come l’arte naturalistica o il ritratto mimetico) poggiano su sperimentazioni apparse in ambito iberico, prima di essere importate in Italia tramite la corte napoletana. Il presente contributo concentrerà l’attenzione sulle radici iberiche della politica artistica di Alfonso il Magnanimo, che si pone all’origine di una parte della politica artistica perseguita anche dai suoi successori aragonesi di Napoli. Naturalmente, non sarà possibile descrivere l’integralità degli influssi reciproci e degli scambi artistici tra Spagna e Italia nel Quattrocento. Sulla scia degli studi fondatori di Ferdinando Bologna2, i ricercatori hanno evidenziato l’importanza del legame Valencia-Napoli per la pittura e la scultura del Rinascimento sia italiano sia iberico3. Qui l’intento sarà, però, un po’ differente: si cercherà di * Ringrazio Fulvio Delle Donne e Jaume Torró per la loro rilettura attenta del mio testo italiano. 1. Cfr. B. Croce, La Spagna nella vita italiana, Bari 1917, p. 27. 2. F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura d’Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1977. 3. L’impronta valenciana gioca un ruolo fondamentale in molti aspetti della corte napoletana come il cerimoniale, le festività, il linguaggio diplomatico, la letteratura cortese. Non è possibile citare qua la bibliografia abbondante su questi aspetti ma si veda almeno recentemente C. A. Addesso, Teatro e festività nella Napoli aragonese, Firenze 2012; J. Barreto, La Majesté en images. Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon, Rome 2013; R. Chilà, Une cour à l’épreuve de la conquête: la société curiale et Naples, capitale d’Alphonse le Magnanime (1416-1458), thèse inédite, Université de Montpellier-Università degli Studi di Napoli Federico II, dir. P. Gilli e F. Senatore, discussa nel 2014; F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’Umanesimo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 JOANA BARRETO valutare il plusvalore apportato dalla tradizione iberica in una corte italiana; specificamente, si tenterà di mostrare in qual modo la laus Hispaniae – con motivi e temi scelti appropriatamente – abbia aiutato Alfonso, e poi i suoi eredi napoletani, ad affermare la propria superiorità monarchica sui principi italiani. Per questo, ci si appoggerà su qualche esempio, capace di illustrare un fenomeno più generale, seguendo due linee principali: la prima guarderà alla costruzione dell’immagine di imperatore universale, perché nell’Italia del Quattrocento essere un re significa per Alfonso essere anche un nuovo imperatore; la seconda volgerà alla problematica del ritratto detto “mimetico”, con spunti sull’importanza degli artisti iberici nel loro sviluppo napoletano. I. LA COSTRUZIONE DELL’IMMAGINE DI IMPERATORE UNIVERSALE I. 1. Il gusto orientalizzante Non è necessario dimostrare ancora l’importanza della politica diplomatica orientale per Alfonso, e non si tornerà sull’uso del tema della Reconquista per la dinastia Trastàmara, a iniziare da Ferdinando vincitore di Antequera e padre del Magnanimo. Alfonso, da buon catalano, mantiene legami di ostilità ma anche di diplomazia con i califfi tunisini, il negus di Egyzia o i sultani mamelucchi4. L’importanza dell’Oriente nella sua acquisizione di un’aura legata alla protezione della fede cristiana neanche è da dimostrare. Sappiamo che Alfonso, attraverso profezie e atti dimostrativi – come l’accoglienza riservata all’imperatore Federico III (1415-1493) nel 14525 –, mira a generare un’immagine di imperatore universale. 4. Sull’importanza del legame diplomatico e commerciale dalla Catalogna con l’Africa e il medio Oriente nel medioevo cfr F. Cerone, La politica orientale di Alfonso d’Aragona, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 27 (1902), pp. 3-93, 384-456, 555-634, 774-852; 28 (1903), pp. 154-212; C. Marinescu, La politique orientale d’Alfonse V d’Aragon, roi de Naples (1416-1458), Barcelona 1994 [1928]; D. Coulon, Barcelone et le grand commerce d’Orient au Moyen Âge: un siècle de relations avec l’Égypte et la Syrie-Palestine (ca. 1330-ca. 1430), Madrid-Barcelona 2004; Mediterraneum: el esplendor del Mediterráneo medieval s. XIII-XV, cur. D. Abulafia et alii, Barcelona 2004; J. Molina, Sotto il segno d’Oriente. La monarchia catalano-aragonese e la ricerca del sacro nelle terre del Levante mediterraneo, in Representations of Power at the Mediterranean Borders of Europe (12th-15th c.), cur. I. Baumgärtner - M. Vagnoni - M. Welton, Firenze 2014, pp. 71-90. 5. Sull’uso da parte di Alfonso di temi orientali per affermare la sua posizione d’imperatore universale, mi permetto di rinviare particolarmente all’analisi delle festività organizzate per la visita dell’imperatore Federico III nel 1452 in J. Barreto, La Majesté en images cit., pp. 89-94. Sulla retorica imperiale alla corte alfonsina cfr. P. Botley, Giannozzo Manetti, Alfonso of Aragon and Pompey the Great: a Crusading Docu- 126 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA Quest’atteggiamento si traduce nelle scelte di Alfonso per il suo sfarzo domestico. Si appoggia particolarmente su due competenze sviluppate nella Valencia mudejar: l’arte della rilegatura di manoscritti e l’arte della ceramica6. La corte napoletana di Alfonso importa in Italia un motivo e una tecnica che avranno un grande successo nella penisola e poi in Europa, la rilegatura con doratura a caldo su cuoio (fig. 1)7. L’uso di oro con motivi arabeschi gode di un importante successo in tutto il Quattrocento napoletano, e attesta la presenza di artigiani mudejar di origine catalana a Napoli e la propagazione del loro savoir-faire. I motivi arabeschi del melograno e dell’occhio di pavone circolano nelle botteghe di rilegatori e produttori di ceramiche per la corte di Alfonso, e sono forse spiegabili con la presenza di maestranze nel seguito del re. Il fenomeno dell’insediamento di artigiani mudejar nell’ambito della corte di Alfonso il Magnanimo a Napoli è ben conosciuto per questo settore di produzione, su grande scala questa volta8: si conoscono i legami stretti tra la corte di Alfonso e di sua moglie Maria con le botteghe moresche di Manises (fig. 2). Queste botteghe svilupparono una tecnica insuperata per la produzione di ceramica dorata. Soprattutto, la loro organizzazione lavorativa proto-industriale consentì di rispondere a richieste colossali provenienti dai loro mecenati catalani9. A parte il successo nella nobiltà ment of 1455, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 67 (2004), pp. 129-156; J. Molina Figueras, “Contra Turcos”. Alfonso d’Aragona e la retorica visiva della crociata, in La battaglia nel Rinascimento meridionale. Moduli narrativi tra parole e immagini, cur. G. Abbamonte, J. Barreto, T. d’Urso, A. Perriccioli-Saggese, F. Senatore, Roma 2011, pp. 97-110; S. U. Baldassarri - B. J. Maxson, Giannozzo Manetti, the Emperor, and the Praise of a King in 1452, in «Archivio storico italiano», 172 (2014), pp. 513-569; nonché F. Delle Donne, Cultura e ideologia alfonsina tra tradizione catalana e innovazione umanistica, nel presente volume. 6. Lo studio degli scambi tra Valencia e Napoli nell’arte della rilegatura e della ceramica si inserisce in una ricerca su “Napoli, nesso artistico tra Africa, Occidente e Oriente”, che verrà approfondita nel quadro del Prix Marc de Montalembert 2015. 7. Ph. Lauer, Les reliures des manuscrits des rois aragonais de Naples conservés à la Bibliothèque Nationale, in «Bulletin philologique et historique jusqu’à 1715 du Comité des travaux historiques et scientifiques», 1928-1929, pp. 121-130. 8. L’arte della ceramica napoletana è stato riscoperta e studiata da Guido Donatone, che propone il legame tra le decorazioni delle rilegature e il repertorio ceramico in La maiolica napoletana dagli Aragonesi al Cinquecento, Napoli 2013, pp. 38-39. Donatone insiste sulla mescolanza tra motivi mudejar e italiani nella ceramica napoletana in suoi vari studi: Maioliche napoletane della spezieria aragonese di Castelnuovo, Napoli 1970; Le genesi della maiolica napoletana d’età aragonese, in Italian Renaissance Pottery, London 1991, pp. 102-107; La maiolica napoletana del Rinascimento, Napoli 1994. 9. A. Llibrer Escrig, Relaciones protoindustriales en la producción cerámica. Manises y paterna en la segunda mitad del siglo XV, in «Medievalismo», 24 (2014), pp. 213-239. 127 JOANA BARRETO catalana, la ceramica valenciana conobbe una diffusione europea. Si ritrova alla corte di Borgogna, nell’Italia medicea o in Francia10. Già nel XIV secolo, il murciano Sancho al-Murci era conosciuto come specialista di ceramica dorata. Il re ordinò a Johan Al-Murçi, membro della famiglia, le ceramiche con i suoi emblemi del Miglio e del Libro per il suo palazzo reale di Valencia11 (fig. 3). L’artigiano venne di persona a Napoli nel 1447 per provvedere all’installazione delle decine di migliaia di ceramiche pavimentali ordinate da Alfonso per la sua reggia12. La quantità fenomenale di ceramiche inviate da Valencia a Napoli (circa 200.000 nel 1457) ne illustra la supremazia sui prodotti italiani. Sappiamo che un forno si trovava nella residenza reale, Castel Nuovo, e che altre fornaci di ceramiche erano presenti nella residenza del Duca di Calabria, Castel Capuano. Dobbiamo porre l’accento sulla continuità di temi e di stili tra le realizzazioni valenciane di queste botteghe (per esempio i pavimenti rimanenti del palazzo reale oggi distrutto) e la produzione napoletana. Lo constatiamo sia nell’arte del pavimento in ceramica (come nella cappella Pontano della fine del Quattrocento, fig. 4), che nella massiccia produzione di albarelli, vasi di farmacia decorati con incredibili ritratti della famiglia regia napoletana, sia uomini sia donne. Non possiamo qui soffermarci dettagliatamente sull’originalità di questi ritratti, ma vale la pena sottolineare come questi artigiani moreschi abbiano saputo adattarsi alla richiesta tipicamente rinascimentale di “mimesi” nel ritratto, pur conservando il loro stile13. D’altra parte sarebbe utile soffermarsi anche sulle numerose iscrizioni che accompagnano tali ritratti, che, per la maggior parte, non sono leggibili, ma dimostrano che l’artefice, forse un artigiano, non conosceva l’alfabeto occidentale. Questi due esempi dell’arte della rilegatura e della ceramica mostrano come Alfonso orientasse il suo gusto sfarzoso verso elementi di valorizza10. Sulla diffusione europea della ceramica valenciana cfr. particolarmente T. Husband, Valencian Lusterware of the Fifteenth Century: Notes and Documents, in «The Metropolitan Museum of Art Bulletin», N. S., 29/1 (1970), pp. 11-19. 11. J. Sanchis-Sivera, La cerámica valenciana. Notas para su estudio medieval, in «Boletin de la Real Academia de la Historia», 88 (1926), pp. 638-661, a p. 642; R. Beltran, Invenciones poéticas en Tirant lo Blanc y escritura emblemática en la cerámica de Alfonso el Magnánimo, in De la literatura cavalleresca al Quijote, cur. J. M. Cacho Blecua, Zaragoza 2007, pp. 59-93. 12. Si vedano i conti pubblicati da C. Minieri-Riccio, Alcuni fatti di Alfonso I di Aragona dal 15 aprile 1437 al 31 maggio 1458 (estratti dalle Cedole della Tesoreria aragonese), in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 6 (1881), pp. 1-36, 231258 e 411-461. 13. Cfr. Barreto, La Majesté en images cit., pp. 196-198. 128 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA zione delle sue radici catalane. Oltre l’immaginario orientale, la sua rappresentazione di sovrano cosmopolita si appoggia anche sulla capacità di affermare la sua appartenenza alla grande famiglia dei sovrani europei, al contrario degli altri principi italiani, che erano alla ricerca di una legittimazione molto più precaria. In questo, il gusto di Alfonso per l’arte fiamminga gioca un ruolo fondamentale. Non ritorneremo su una questione già ben studiata14, ma punteremo su due influssi fiamminghi che avranno un ruolo notevole nella Napoli aragonese: i motivi e la struttura del polittico. I. 2. L’arte fiamminga: motivi e struttura del polittico Dobbiamo ricordare che il gusto per l’arte nordica nasce negli anni iberici di Alfonso. I legami tra l’arte iberica e l’arte fiamminga sono stati messi in evidenza dalla mostra La clave flamenca e da un recente libro di Didier Maertens15. Questi nuovi studi hanno mostrato che sia lo stile fiammingo sia la struttura del polittico nordico hanno giocato un ruolo fondamentale per gli artisti iberici. Interessato soprattutto alle sculture e alle tappezzerie fiamminghe, Alfonso permise che il pittore catalano Lluís Dalmau si andasse a formare nella bottega di Jan Van Eyck16. Al suo arrivo a Napoli, Alfonso si concentrò sulla pittura fiamminga, specialmente Van Eyck, del quale possedeva almeno quattro opere, tutte perse: un mappamondo, un’Adorazione dei re magi, il famoso trittico Lomellino e il San Giorgio17. In una sua lettera a Marcantonio Michiel del 1524, Pietro Summonte segnala il San Giorgio di Jan Van Eyck, comprato da Alfonso V nel 1444, che fu copiato da Colantonio18. Riflessi dell’opera di Jan Van Eyck sono stati identificati sia nel San Giorgio di Rogier van der Weyden (fig. 5)19, sia nel quadro di Pere Niçard a Maiorca20. Sappiamo anche che sicu14. Cfr. il capitolo «La première tête de pont de l’art flamand à Naples: Antonello da Messina, peintre italien et flamand» in L. Castelfranchi-Vegas, Italie et Flandres dans la peinture du XVe siècle, Milano, 19842, pp. 75-128. Per una messa a punto, cfr. G. Toscano, Opere fiamminghe nelle collezioni di Alfonso il Magnanimo, in Le Carte aragonesi, Atti del convegno (Ravello, 3-4 ottobre 2002), cur. M. Santoro, Napoli-Pisa 2004. 15. Cfr. D. Maertens, Peinture flamande et goût ibérique aux XVe et XVIe siècle, Bruxelles 2010. 16. Cfr. C. Challéat, Dalle Fiandre a Napoli. Committenza artistica, politica, diplomazia al tempo di Alfonso il Magnanimo e Filippo il Buono, Roma 2012. 17. Cfr. Toscano, Opere fiamminghe cit. 18. Cfr. F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marcontonio Michiel, Napoli 1925. 19. Washington D. C., National Gallery of Art, c. 1432-1435. 20. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee cit. 129 JOANA BARRETO ramente influenzò il Messale di Alfonso21. Ma la sua impronta va ben oltre il regno di Alfonso. Propongo di vederne echi nel Vesperale di suo figlio, Ferrante (fig. 6), e nel Libro d’ore di Federico (fig. 7)22. La ripresa del San Giorgio di Van Eyck fino all’alba del Cinquecento illustra la continuità del suo utilizzo nella Napoli del Quattrocento, innervato dalle radici iberiche della dinastia. Gli echi della bottega di Van Eyck, come ad esempio di Petrus Christus, sull’arte napoletana sono ben conosciuti23. Ricordiamo anche l’importanza di Rogier van der Weyden, soprattutto della sua tappezzeria della Passione, conservata nel Castel Nuovo, che ha certamente ispirato la struttura della Deposizione di Colantonio, anche se Carl Strehlke ha dimostrato che lo stesso Ruggiero si era certamente ispirato all’opera di Fra Angelico24. Colantonio, artista già attivo sotto Alfonso, era particolarmente celebrato da Pietro Summonte come imitatore delle tecniche e dello stile dell’arte nordica. Tuttavia, come mai, nonostante questa importazione piuttosto massiccia di arte fiamminga a Napoli, la sua rivoluzionaria scoperta del ritratto di tre-quarti (“a due occhi” secondo gli Italiani) rimane sterile presso la corte regia? Non conosciamo, in effetti, nessun ritratto che raffiguri Alfonso o i suoi eredi di tre-quarti. Tuttavia, guardando bene Colantonio, credo ancora una volta che possiamo notare l’uso del ritratto “alla fiamminga” nell’ambito dell’arte religiosa. Penso soprattutto alla predella del Polittico di San Vincenzo Ferrer, sulla quale torneremo tra poco25, nella quale si vede al centro Isabella di Chiaramonte con i figli Alfonso e Eleonora (fig. 8). Vi riconosco la lezione di Rogier, specialista del ritratto ufficiale di membri della corte di Filippo di Borgogna. Il paragone con il ritratto di Guigone de Salins (fig. 9), moglie di Nicolas Rolin, fondatore degli Hospices de Beaune, è chiaro: troviamo la stessa disposizione di tre-quarti, così come la contrapposizione tra il velo bianco e la gonna nera. A causa dell’uso della tempera, il rilievo risulta meno acuto nella predella di Colantonio, ma se la disposizione rimanda a Rogier, l’idealizzazione della 21. Toscano, Opere fiamminghe nelle collezioni cit. 22. J. Barreto, Une peinture de Pisanello à Naples? Hypothèse pour la Vierge à l’Enfant avec saint Antoine et saint Georges, in «Studiolo. Revue d’histoire de l’art de l’Académie de France à Rome», 10 (2013), pp. 193-214. 23. Bologna, Napoli e le rotte cit., aveva, tra l’altro, identificato la figura della piangente nella Deposizione di Colantonio come copia di un motivo di Petrus Christus. 24. C. B. Strehlke, Art in Valencia, in «The Burlington Magazine», 151 (2009), pp. 265-266. 25. Per un’analisi più sviluppata, v. Barreto, La Majesté en images cit., pp. 135-136. 130 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA figura rimanda a Jan van Eyck. La predella colantoniana conferma che il ritratto detto “mimetico” a Napoli si sviluppa tra influssi provenienti da Spagna e Italia. II. IL RITRATTO “MIMETICO” II. 1. Temi iberici nel ritratto napoletano Nella storiografia rinascimentale, il tema dello sviluppo del ritratto mimetico nel Quattrocento in Fiandre e in Italia centrale rimane prevalente26. La Napoli di Alfonso il Magnanimo, integrata all’Italia e fortemente impregnata di arte fiamminga, avrebbe dovuto partecipare in prima linea a questo movimento, ma non è esattamente così per diverse ragioni. Una di queste è l’importanza del modello iberico sia nei motivi impiegati, sia nelle forme sviluppate. Le radici catalane spiegano gran parte delle scelte iconografiche di Alfonso. Nel Rinascimento, il termine “ritratto” si riferisce a ogni disegno assomigliante, dalla pianta di città alla raffigurazione di un animale, e non solo a quello del viso umano27. Peraltro, il ritratto “al naturale”, cioè la riproduzione fedele dei tratti del viso, era una tra varie possibilità per rappresentare – ovvero dare presenza – una personalità. L’emblematica giocava un ruolo altrettanto importante, soprattutto quella personale, che diventa, talvolta, dinastica. È il caso della famosa Sedia Ardente, a lungo creduta emblema o insegna della presa di Napoli nel 1442 (fig. 1028). Dagli studi condotti da ricercatori spagnoli, come Joan Molina29, sappiamo che si tratta di un emblema già usato da Alfonso negli anni valenciani, per esempio nel pavimento del suo palazzo reale. La cultura cavalleresca ispirata alla leggenda del re Arturo ha permesso il confronto diretto tra Alfonso e Galahad, il miglior cavaliere del mondo. Dobbiamo 26. Tra la abbondante bibliografia si rimanda almeno a E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, V/2, Torino 1973; É. Pommier, Théories du portrait: de la Renaissance aux Lumières, Paris 1998; A. Beyer, L’art du portrait, Paris 2003. 27. Cfr. Pommier, Théories du portrait cit. 28. Sulla pagina di Alfonso il Magnanimo nel Codice di santa Marta, cfr. T. D’Urso, Escudo de armas de Alfonso el Magnánimo, rey de Aragón y de Nápoles (1396-1458), in Ferdinando II de Aragón, el rey que imaginó España y l’abrió a l’Europa (Zaragoza, Palacio de la Aljafería, 10 marzo - 7 giugno 2015), catalogo della mostra, cur. C. Morte Garcia, J. Á. Sesma Muñoz, J. F. Méndez de Juan, Zaragoza 2015, pp. 152-153. 29. J. Molina i Figueras, Un trono in fiamme per il re. La metamorfosi cavalleresca di Alfonso il Magnanimo, in «Rassegna storica salernitana», 56 (2011), pp. 11-44. 131 JOANA BARRETO rilevare che la sedia in fiamme non è un’immagine relativa a Galahad, ma ai cavalieri impuri che osano sedersi sulla sedia della Tavola Rotonda: se un cavaliere si siede sul seggio destinato a Galahad, solitamente la terra trema e si apre; solo in due casi, invece, per Moïs e Brumante, la sedia s’infiamma. Questo motivo era stato usato anni prima in un contesto molto diverso, quello della leggenda di san Martino nella basilica inferiore Assisi, nel ciclo risalente al 1313-1318 circa, per esaltare la figura di Roberto d’Angiò, famoso predecessore di Alfonso sul trono napoletano (fig. 11). Questa forma specifica potrebbe dunque essere ispirata a modelli angioini30. Inoltre l’uso del motivo della sedia ardente per la “matière de Bretagne” si ritrova in un manoscritto realizzato per il duca Jean de Berry (1340-1416) all’inizio del Quattrocento31 (fig. 12). Il legame tra Alfonso e Jean de Berry è attestato dalla circostanza che il sovrano catalano possedeva una Pietà in oro e smalto con il ritratto del duca donante32. La ripresa della forma monumentale della sedia di legno con braccioli imponenti non può essere del tutto casuale. La conoscenza del motivo della sedia infiammata da parte di Alfonso si potrebbe dunque appoggiare sulla memoria esercitata nei seguaci di Simone Martini, attivo dal 1317 alla corte napoletana di Roberto d’Angiò, nello stesso tempo in cui lavorava alla basilica inferiore di Assisi. Ma il suo uso fuori dal contesto religioso, nell’ambito cavalleresco, potrebbe risalire al legame con il Duca di Berry, radicato negli anni iberici. La continuità tra cultura iberica e opere napoletane non si limita all’ambito cavalleresco medievale. La ritroviamo in luoghi inaspettati, come ad esempio nella serie di magnifiche medaglie realizzate da Pisanello per Alfonso alla fine degli anni 1440. Per lungo tempo non si è capito il significato della medaglia VENATOR INTREPIDUS, nella quale, sul rovescio del 30. Si veda l’affresco di Simone Martini, Giustiniano cacciato da una lingua di fuoco del suo trono perché non ha voluto ricevere San Martino, Assisi, chiesa inferiore, capella san Martino, c. 1320, analizzato in Barreto, La Majesté en images cit., p. 222. 31. Si veda per esempio «Maître des cleres femmes», Castigamento di Brumante, Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Fr. 120, f. 1, primo quarto del Quattrocento. Prima degli anni 1670-1675, i mss. Fr. 117-120 facevano parte di un volume unico comprato dal duca di Berry dal libraio parigino Regnault du Montet nel 1405. Il «Maître des cleres femmes», forse di origine fiamminga, lavorava allora a Parigi. 32. J. V. Garcia Marsilla, La estética del Poder. Arte y gastos suntuarios en la corte de Alfonso el Magnanimo (Valencia, 1425-1428), in Congresso internazionale di storia della Corona d’Aragona. La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo: i modelli politico-istituzionali. La circolazione degli uomini, delle idee, delle merci. Gli influssi sulla società e sul costume (Napoli-Caserta-Ischia, 18-24 settembre 1997), cur. G. D’Agostino, G. Buffardi, II, Napoli 2000, pp. 1705-1718, alle pp. 1711-1712. 132 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA DIVUS ALPHONSUS, si vede un giovane nudo che caccia un immenso cinghiale (fig. 13). Poiché il nudo maschile rimanda alla nudità eroica antica, la composizione è stata riferita a un sarcofago romano che rappresentava la storia di Adone, ma anche alla cattura del cinghiale di Erimanto da parte di Ercole33. Forse era intenzione di Pisanello proporre questi paralleli, ma il punto importante è che l’artista ritrae un evento realmente accaduto nella vita di Alfonso, visto come nuovo Ercole34. Lorenzo Valla, nei Gesta di Ferdinandi, narra che il 7 settembre 1412, giorno in cui Ferdinando di Antequera ascese al trono e suo figlio Alfonso fu nominato erede legittimo del trono, fu organizzata una caccia al cinghiale35. Il giovane, allora dodicenne, si gettò nel fiume Ebro inseguendo il cinghiale e tutti i cortigiani pensarono che sarebbe morto. Finalmente, lo ritrovarono inzuppato ma vincitore della bestia. È proprio questo rito di passaggio all’età adulta, e al contempo di legittimazione ereditaria al trono, che Pisanello raffigura nel momento in cui celebra la presa di Napoli, trent’anni dopo. 33. L. Syson - D. Gordon, Pisanello: painter to the Renaissance court, London, National Gallery, 2001; D. Cordellier (dir.), Pisanello, le peintre aux sept vertus, (catalogo della mostra, Parigi, museo del Louvre, 6 maggio - 5 agosto 1996), Paris 1996. 34. Sulla figura di Ercole nella propaganda visuale degli Aragonesi di Napoli, cfr. Barreto, La Majesté en images cit., pp. 52, 85-95, 202. 35. Per questa proposta di legame tra l’opera di Lorenzo Valla e la medaglia di Pisanello mi permetto di rimandare a J. Barreto, Pisanello graveur monétaire à la cour d’Alphonse I de Naples, «Cahiers numismatiques de la Bibliothèque nationale de France», 155 (2003), pp. 61-75, ripreso in Chilà, Une cour à l’épreuve de la conquête cit., I, pp. 375-383. Questo è il testo di Lorenzo Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, ed. O. Besomi, Padova 1973, pp. 125-126: «Alfonsi mira indoles strenuitatis in apro ingenti et ingenti flumine superato. Forte iis diebus dum hec geruntur, Alfonsus regis primigenius, vix adolescentiam ingressus, cum isset venatum, nactus est eximia magnitudine aprum, quem, ut velocissimo equo vehebatur, precipue urgebat, cupiens aut solus occidere aut primus ferire. Nec procul aberat Hiberus longe maximum Hispanie flumen, Cesarauguste muros preterfluens. Huc aper seu casu, seu uti in locum iam sibi antea notum, cursum intendit perque ripas atque invia se demittens, aquas ingreditur. Alfonsus, a tergo instans ac iam iam feriens, eadem ripa et semita consequitur; ac ne tam insignem predam – hoc est tam insignem cum laude victoriam, quam in manibus habebat – ammitteret, et ipse adacto equo, flumen intrat, immemor quantum periculi adiret, natantemque feram natanti equo infesta urget hasta, quasi illam posset in tam rapido fluvio capere. Hoc spectaculo Bernardus Centellia (eius cure commissus adolescentulus erat) exanimatus, revocare pergentem clamoribus cum non posset, ipsequoque cum aliis nonnullis aquas ineunt, magis verentes infamiam destituti filii regis quam vite periculum. Ille inter natandum quoad poterat ferire conatus, in ulteriorem ripam evasit, atque illinc aliquandiu persecutus strenue occidit, et maximi apri et maximi fluminis victor. Rex ubi rescivit, inter cogitationem periculi et admirationem facti, nec indignationem nec leticiam ostendit, nolens neque strenuitatem reprehendere, neque audaciam nimiam adiuvare». 133 JOANA BARRETO Le radici iberiche sono dunque essenziali sia nell’apparizione degli emblemi propri della dinastia napoletana, che nell’iconografia del suo fondatore Alfonso. Ancora più radicalmente, anche il ritratto “somigliante” del sovrano è nato in territorio iberico e non in Italia. II. 2. Genesi della mimesis I grandi maestri catalani, fin dai primi ritratti di Alfonso, evidenziano due aspetti distintivi del viso del monarca: il naso aquilino e il taglio a ciotola. Li notiamo già nella miniatura aggiunta al ricco Breviario che Martino I offre al giovane Alfonso (fig. 14). Nell’iniziale miniata, Alfonso, inginocchiato in una cappella con due monaci, legge un libro sotto la rappresentazione del santo protettore della casa di Aragona, san Giorgio. La bottega valenciana di Domènec e Lleonard Crespí svilupperà il ritratto del re, specialmente nel suo Libro d’ore miniato a Valencia durante la permanenza di Alfonso a Gaeta (fig. 15), ben prima dunque della venuta di artisti italiani come Pisanello alla corte reale. Già nel trattato giuridico di Paulus Rossellus, Lleonard Crespí aveva reso evidente il naso aquilino di Alfonso come segno della sua virtù reale (fig. 16). Ma sarà Pisanello a determinare il significato simbolico del naso aquilino di Alfonso. Negli abbozzi disegnati del suo primo ritratto del re, si vede sul recto la faccia “al naturale” di profilo del sovrano con il naso aquilino e il taglio a ciotola (fig. 17). Ma, soprattutto, sul verso si disegnano profili e studi di rapaci tra i quali un’aquila imperiale (fig. 18). La sovrapposizione in trasparenza dell’aquila e del viso del re facilita l’analogia e la simbolica fisiognomonica della maestà reale, prima di Alfonso e poi dei suoi discendenti. Pisanello cristallizza dunque gli influssi provenienti dai maestri catalani. Mi sembra importante sottolineare che la permeabilità e gli scambi iconografici tra penisola iberica e Italia continuano durante tutto il secolo. Un manoscritto poco noto ne può dare l’esempio. Si tratta di una versione delle Orationes di Francesco Filelfo miniato per il cardinale valenciano Joan de Castellar i de Borja (fig. 19). Membro della famosa famiglia Borja, seguì la sua carriera ecclesiastica tra Spagna e Italia e fu un familiare del papa Alessandro VI, della dinastia aragonese di Napoli, e di Ferdinando il Cattolico. Nel primo foglio, un ritratto di Alfonso V è identificato con un’iscrizione. Il ritratto è basato su modelli italiani: la corona sul parapetto e il taglio del viso e dei capelli che ricoprono l’orecchio derivano della medaglia TRIVMPHATOR ET PACIFICVS di Pisanello (fig. 20), mentre l’iscrizione ALFONSUS con la “F” e l’abito civile derivano di un progetto di medaglia della bottega napoletana di Pisanello, copiata in segui134 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA to da Paolo da Ragusa36 (fig. 21). La posizione del busto sotto una loggia rimanda al ritratto del museo Jacquemart-André (fig. 22), importante perché unico esempio di un ritratto pittorico indipendente di Alfonso (e dei suoi eredi). L’apertura della loggia su un paesaggio marittimo può riferirsi sia a Napoli sia a Valencia, due città tanto care ad Alfonso quanto a Joan de Castellar i de Borja. L’iconografia monarchica non è l’unica ad approfittare dei legami tra Spagna e Italia. Nella sfera religiosa, ne gode anche, in particolar modo, la figura di San Vincenzo Ferrer. Il frate domenicano, nato a Valencia, fu canonizzato nel 1455, con l’impegno diretto di Alfonso, che funge da testimone nel processo di canonizzazione. I legami del santo con la politica della dinastia Trastàmara sono sempre stati stretti, pertanto grandi maestri catalani sviluppano la sua iconografia tra la sua morte nel 1419 e la sua canonizzazione nel 1455; e su questi sviluppi Colantonio e l’arte napoletana si appoggiano direttamente (fig. 23). Il polittico smembrato di Pere Garcia de Benavarri mi sembra avere un’importanza particolare per l’arte napoletana (fig. 24). Prima di tutto, mentre nell’arte italiana le figure di Vincenzo Ferrer mostrano principalmente il santo isolato o in trittico, Pere Garcia dipinge un grande polittico con il santo in piedi circondato da numerose storie di dimensione più piccola. Precisamente è di questo tipo di polittico tipico dell’arte iberica, avvicinato da Didier Maertens alla formula dell’iconostasis bizantina, che si avvale Colantonio. Il polittico di Pere Garcia è il primo altare catalano dipinto subito dopo la canonizzazione del santo, ed è stato ordinato dalla città di Valencia37. Proprio per questa ragione è una pietra miliare nell’iconografia del santo, forse basato su un archetipo della curia romana o dell’ordine domenicano38. Per il suo santo, Colantonio usa anche un altro archetipo. Alberto Velasco ricorda che negli stessi anni i Domenicani di Valencia ordinano molti ritratti di Ferrer, il cui aspetto, secondo loro, doveva avere «la forma del dit fra Vicent» ed essere «sacado dal vivo». Il ritratto di Ferrer dipinto da Joan Reixac è il più antico conosciuto di que36. Su questo esemplare cfr. Barreto, Pisanello graveur monétaire cit., ed Ead., La Majesté en images cit., pp. 93-103. 37. A. Velasco Gonzàles, Dos arquetips iconogràfics i dos models de difusió en la iconografia primerenca de sant Vicent Ferrer”, in Hagiografia peninsular en els segles medievals, cur. F. Español, F. Fité, Lleida 2008, pp. 252-263. Sull’iconografia di San Vincenzo Ferrer nell’arte italiana del Rinascimento cfr. anche M. J. Zucker, Problems in Dominican Iconography: the Case of St. Vincent Ferrer, in «Artibus et Historiae», 13 (1992), pp. 181-193. 38. Velasco Gonzalès, Dos arquetips cit., p. 244. 135 JOANA BARRETO sto tipo39 (figg. 25-26). Colantonio sembra conoscerlo bene perché riprende lo stesso naso stretto, le guance emaciate, le labbra molto sottili e sopratutto la corona di capelli grigi, senza nessuna ciocca sulla fronte. In un modo o nell’altro, Colantonio conosceva al tempo stesso sia il prototipo di Pere Garcia, sia quello di Joan Reixac, forse tramite i viaggi da Valencia a Napoli di Jacomart, dei quali non sappiamo quasi nulla40. Peraltro, la conoscenza da parte di Colantonio del prototipo di Pere Garcia si conferma con il suo riuso nell’arte napoletana, che va anche oltre il periodo alfonsino. Ne vediamo una reminiscenza nel primo altare di Cristoforo Faffeo datato al 148241 (fig. 27). Il san Vincenzo Ferrer indica con la mano destra un Cristo in gloria molto vicino a quello di Pere Garcia: l’artista salernitano riprende le nuvole sulle quali la Maiestas Domini presenta lo stesso torso nudo e lo stesso mantello rosa. Per concludere, quest’itinerario tra penisola iberica e Italia ci ha confermato che la tradizionale opposizione tra medioevo iberico e modernità italiana non resiste a un’analisi più accurata. Non si può dunque parlare strettamente di rivoluzione italiana opposta a persistenze catalane. Nel caso della politica artistica di Alfonso il Magnanimo e dei suoi eredi, gli scambi costanti, i contatti tra le due penisole hanno un obiettivo politico: magnificare lo statuto di re rispetto agli altri signori italiani. In questo, i gusti personali del sovrano rinforzano una strategia visiva di legittimazione. Iconografia e stile offrono messaggi politici propizi all’affermazione – seppure effimera – di una matrice identitaria che accomuna l’Italia meridionale e la penisola iberica. 39. Ibid., p. 260. 40. Non è il caso di riaprire il ‘dossier’ Jacomart, conosciuto solo da pochi atti d’archivio e dalle lettere inviate da Alfonso il Magnanimo, per ricercare la sua venuta alla corte napoletana come pictor regius. Nessuna delle sue opere napoletane è conservata. Rimando agli studi contraddittori di C. R. Post, A History of Spanish Painting, III, Cambridge 1930, secondo il quale Jacomart sarebbe diventato un commerciante di vino alla fine della sua carriera, e di M. Gomez-Ferrer, Jacomart: revisión de un problema historiográfico, in De pintura valenciana (1400-1600): estudios y documentación, cur. L. Hernandez Guardiola, Alicante 2006, pp. 71-99, per il quale Jacomart sarebbe un intermediario d’arte più che un artista. J. Pitarch nel 1986 propose di identificare Jacomart con il maestro di Bonastre, tesi ripresa con convinzione da J. Gomez Frechina, in F. Benito Doménech - J. Gomez Frechina, La Clave Flamenca en los Primitivos Valencianos, (catalogo della mostra, Valencia, Museu de Belles Artes, 30 maggio - 2 settembre 2001), Valencia 2001; F. Ruiz i Quesada, La pintura gótica hispanoflamenca. Bartolomé Bermejo y su época, Barcelona 2003, pp. 208-213, cat. 17, propone l’identificazione di Jacomart con il Maestro della Porciùncula. Cfr. Barreto, La Majesté en images cit., pp. 37-40. 41. Su Cristoforo Faffeo, cfr. G. Toscano, Faffeo, Cristoforo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 44, Roma 1994, ad vocem, con la bibliografia precedente. 136 LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA ABSTRACT The Valencian Matrix of Alfonso’s Artistic Policy When he settles in Naples, Alfonso the Magnanimous does not forget his Iberian roots. On the contrary, a great part of his artistic politics – and this of his heirs – bases on stylistic tastes and iconographical themes inherited from Catalonia, besides his obvious inspiration from Italian patterns. First, he cultivates an image of universal emperor. To achieve this goal, he gives priority to two main themes set up during his Iberian youth: the Oriental taste (for instance in mudejar binding and in ceramics), and the Flemish one, especially in great polyptych and in portraiture – as I explore it in the analysis of the predella of Colantonio St Vincent Ferrer. But also main themes, traditionally linked to Italian Renaissance, take roots in Iberian experiments – as the topic of “venator intrepidus” by Pisanello, or even the development of mimetic portraiture, both in lay context (the king portrait) and in religious one (the portrait of Vincent Ferrer). With this political choices, Alfonso imports technics and iconographies from Spain to Italy, and enhances Italian Renaissance. Joana Barreto Université Paris I Panthéon-Sorbonne joanabarreto42@hotmail.com 137 Joan Domenge Mesquida LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM: JOIES DOCUMENTADES, REPRESENTADES, IMAGINADES Poc abans de la mort del rei Alfons (1458), l’historiògraf de la cort, Bartolomeo Facio, escrivia que el sobirà havia superat de llarg tots els reis del segle per la seva afecció als vasos d’or i argent, a les imatges, a les gemmes i a qualsevol altra manifestació de l’esplendor regi1. Passat gairebé mig segle, Giovanni Pontano, un altre important humanista que havia conegut bé la cort napolitana, atorga al sobirà el primat que abans havia ostentat el duc de Berry en el gust i la possessió de joies i gemmes2. Certament, Jean de Valois no sols havia estat un príncep bibliòfil – que reuní una llibreria de la qual romanen precioses penyores –, sinó també un impulsiu col·leccionista de joies, pedres precioses i perles, com ho certifiquen els inventaris dels seus béns3. Es mereixia Alfons uns elogis tan resolts sobre la seva passió sumptuària? Tenien raó els panegiristes? Segurament la voluntat – o més ben dit, 1. «Aureis argenteisque vasis simulacrisque, tum gemmis et cetero regali cultu omnes seculi nostri reges longe superavit». El comentari es troba en l’epíleg del De viris illustribus, ed. L. Mehus, Florentiae 1745, p. 78. Cfr. A. Ryder, Alfonso el Magnánimo, rey de Aragón, Nápoles y Sicilia (1396-1458), València 1992 (ed. orig. Oxford 1990), p. 425. 2. «Ante Alfonsum regem dux Bituricensis in conquirendis et coemendis omnis generis gemmis atque unionibus praeluxit coeteris temporis sui principibus. Fama splendoris eius per orbem terrarum erat divulgata»; «Abans del rei Alfons, el duc de Berry resplendia sobre tots els altres prínceps del seu temps en la recerca i en l’adquisició de joies de tota mena i de perles. La fama de la seva esplendor s’havia divulgat per tota la terra» (la traducció és nostra). G. Pontano, I trattati delle virtù sociali, ed. F. Tateo, Roma 1965, p. 135 (De splendore, 7). Cfr. R. Cornudella, Alfonso el Magnánimo y Jan van Eyck. Pintura y tapices flamencos en la corte del rey de Aragón, in «Locus Amoenus», 10 (2009-2010), pp. 40-42. Sobre els humanistes de la cort d’Alfons, cfr. J.H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli 1995; concretament per a Facio i Pontano, pp. 115-122, 140-147. 3. Publicats per J. Guiffrey, Inventaires de Jean duc de Berry (1401-1416), París 1894-1896. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 JOAN DOMENGE MESQUIDA el deure – d’enaltir el seu senyor els privava de judicis més ponderats i objectius. Aquests comentaris encomiàstics, doncs, s’han de posar en quarantena i necessiten contrastar-se amb altres fonts més neutrals i fidedignes. És probable que el Magnànim fos tan addicte al luxe com altres reis i prínceps europeus del Quatre-cents; dir quin lloc precís li correspon en el consum d’objectes preciosos i de gran preu és, ara com ara, un repte difícil4. La historiografia alfonsina, abundant i diversificada5, no ha prestat una atenció especial a aquest aspecte de la personalitat reial, potser perquè les pèrdues de les obres han estat dramàtiques: no en roman pràcticament res! Per compensar-ho, disposem de molta informació documental que parla d’encàrrecs i compres de peces, d’herències i regals que va rebre, d’ofrenes que féu i de joiells que no tingué més remei que empenyorar, per poder fer front als seus projectes polítics i a les necessitats de la cort. Així mateix, algunes imatges revelen, amb totes les limitacions que es vulgui, com podien ésser els arreus que tanta majestat donaren a la persona i a la cort del Magnànim. Convé, d’entrada, intentar definir com es “modelava” la imatge sumptuària d’un sobirà i quins objectes luxosos la connotaven millor. En aquest sentit, la relació concisa de béns mobles que se sol fer en els testaments reials resulta aclaridora. Per tal de fer front a les seves voluntats, Alfons deixa ordenat que s’apleguin i es faci inventari dels «omnia bona nostra mobilia ubique dicionis nostre existencia et reperta aurum, argentum tam in massa quan in vasis aut aliis operibus, pecunie, libri, margarite, lapides preciosi, iocalia, panni de raç, tapeta, cortine, tam pannorum de sirico et brocato auri quam serici et alie…». O sigui, per una banda, tots aquells objectes d’or i argent, perles i pedres precioses – sense deixar de banda els llibres – i per altra els teixits rics: draps de ras, teles de seda o brodats d’or i seda. Tot seguit se n’especifica la funció: «tam pro ornatu et veneratione capelle nostre quam pro ornatu persone et domus nostre»6. Queda clar, doncs, que es tracta d’obres de gran valor que serveixen per ornamentar la capella, el cos i el palau7. Encara que no s’expliciti, la vaixella d’or i argent assolia una 4. Per valorar la magnitud del consum sumptuari d’Alfons caldria, per exemple, una anàlisi comparativa amb el d’altres poderosos del seu temps, com el duc de Borgonya Felip el Bo. 5. Basta veure les quasi 2.000 pàgines que li foren dedicades en el XVI Congrés d’Història de la Corona d’Aragó, celebrat a Nàpols el 1997. Les actes, publicades l’any 2000, són encara un referent historiogràfic ineludible per a múltiples aspectes del regnat d’Alfons. 6. A. Udina, Els testaments dels comtes de Barcelona i dels reis de la Corona d’Aragó. De Guifré Borrell a Joan II, Barcelona 2001, p. 389. 7. Per a una visió general de l’art promogut pels sobirans de la corona d’Aragó a 140 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM importància cabdal entre els objectes domèstics, i les insígnies de la dignitat reial eren iocalia “imprescindibles” per a les grans cerimònies. Pontano també ens pot servir de guia. En el tractat De splendore, acota quins són i com han de ser els arreus de l’home esplèndid8, i el rei Alfons, endemés, sovint és evocat com exemple d’allò que l’humanista recomana9. La decoració de la casa, les vestimentes i els ornaments del cos, els objectes domèstics, etc. han de ser abundants i excel·lents – han de superar l’estricta funcionalitat – però sense excedir-se, o sigui, han de reflectir un comportament mesurat. Cal tenir present no sols l’abundància, sinó la varietat de materials i formes, així com la raresa – o excepcionalitat dels objectes – i utilitzar-ho tot de manera convenient. Mentre que unes obres són preuades pel cost i la grandesa, altres ho són per la finesa i raresa, per la mà de l’artista que les ha fetes o per algun altre motiu. La destinació també s’ha de fer amb criteri selectiu: els arreus quotidians no poden ser els mateixos que els de les festes i solemnitats. Precisament, en tractar dels ornaments per a les grans ocasions (De apparatu), Pontano esmenta l’aixovar litúrgic i recorda que Alfons adornava meravellosament i amb varietat d’ornaments tant el palau on vivia com el «templum, ubi sacra faciebat»10. Comenta, també, que en la vestimenta i ornat del cos del rei, cal preservar la dignitat reial i que les gemmes i les perles fan més preuats no sols l’abillament humà, sinó també els ornaments emprats en els celebracions religioses, tot advertint, però, que en aquest cas només es pot resplendir si es tenen grans riqueses. Per donar una imatge de dignitat i poder, reis i magnats utilitzaren paraments de teixits rics i objectes d’orfebreria – amb pedres fines i perles – sobretot en les solemnes aparicions públiques i en protocol·làries recepcions a la cort. També se’n serviren per oferir-los com a regal i estrènyer relacions familiars, d’amistat i diplomàtiques. El gust per atresorar l’època del gòtic, cfr. F. Español, Els escenaris del rei. Art i monarquia a la corona d’Aragó, Manresa 2001. 8. «Qualem esse deceat viri splendidi supelectilem. His dictis, ad ea, quae splendidorum sunt, transeamus, ac primo loco de supelectile, deinde de ornamentis, deinceps de cultu et ornatu corporis, ultimo de apparatu dicemus». Pontano, I trattati cit., pp. 129 ss. (De splendore, 3). 9. L. Monti Sabia - D. D’Alessandro - A. Iacono, Il ricordo di Alfonso di Aragona nelle opere di Giovanni Pontano, in XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona, cur. G. D’Agostino, G. Buffardi, Napoli 2000, II, pp. 1503-1531. 10. En el tractat anterior, De magnificentia, ja avança que l’home magnífic ha de fer grans despeses per al culte i que Alfons va superar els seus coetanis en fornir tots els arreus que donaven pompa a les funcions religioses i als ornaments dels sacerdots. Pontano, I trattati cit., p. 107. 141 JOAN DOMENGE MESQUIDA peces cares i belles podia respondre al delit dels prínceps pels joiells preciosistes i, també, a la necessitat de constituir una reserva metàl·lica que permetés encarar tota casta de dificultats econòmiques11; paradoxalment, les millors descripcions que tenim de les peces són les que es fan quan s’empenyoren o es redimeixen. El nostre propòsit, explícit en el títol, no és altre que el d’apropar-nos, en la mesura del possible, a la imatge sumptuària d’un sobirà que va regnar al llarg de 42 anys (1416-1458) i que va manifestar en tot moment una clara afecció als objectes de gran preu. Ho farem servint-nos d’una documentació arxivística que, per sort, descriu amb detall una munió d’obres per desgràcia totes perdudes12, i d’unes representacions que permeten imaginar com eren aquestes exquisides creacions13. Els documents permeten, també, recuperar la memòria d’alguns artífexs i marxants – injustament arraconats per les tradicionals jerarquies artístiques – que s’encarregaren de satisfer, amb la producció de les peces i amb la seva comercialització, un clar desig d’ostentació del poder per part de les elits. Amb materials cars i selectes, i amb molta perícia tècnica, crearen joies i altres objectes sumptuaris de gran refinament destinats a enriquir les cambres i guarda-robes reials. La quantitat de textos és tan gran que no es pot pretendre l’exhaustivitat. Incidirem, doncs, en alguns moments i aspectes que permeten albirar no sols els gustos sumptuaris d’Alfons, sinó el sentit pragmàtic i simbòlic amb què va utilitzar els objectes, tot esperant que aquestes pinzellades es puguin completar – després d’una consulta documental sistemàtica – amb recerques més àmplies i fondes sobre l’aura sumptuària de la cort del Magnànim. 1. Que sie gentil e que sie per a vostre cors. Els arreus del primogènit Alfons, fill de l’infant Ferran de Castella i de la rica dama Elionor d’Alburquerque, va passar la infantesa en les residències d’Olmedo i Medina 11. Cfr. J. V. García, La cort d’Alfons el Magnànim i l’univers artístic de la primera meitat del quatre-cents, in «Seu Vella. Anuari d’Història i Cultura», 3 (2001), pp. 40-42. 12. J. Ainaud ja es lamentava de poder dedicar només palabras casi elegíacas a l’orfebreria del Magnànim, atesa l’excessiva desproporció entre l’abundància d’al·lusions documentals i l’escassetat d’obra conservada. J. Ainaud de Lasarte, Alfonso el Magnánimo y las artes plásticas de su tiempo, in IV Congreso de Historia de la Corona de Aragón, Palma de Mallorca 1955, pp. 23-26. 13. Cal tenir en compte, també, les figuracions del propi sobirà, sobretot pel que fa a les joies per a l’ornamentació personal. Cfr. A. Igual, Iconografía de Alfonso el Magnánimo, València 1950; C. Morte, La representación del rey en la Corona de Aragón, in La Corona de Aragón. El poder y la imagen de la Edad Media a la Edad Moderna, Barcelona 2006, pp. 76-80. 142 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM del Campo, en una atmosfera de tranquil·litat, benestar i luxe, marcada per la influència francesa en els vestits, els costums i la literatura14. En aquest ambient refinat es degué començar a assortir un guarda-roba amb teixits de luxe, arnesos, joies i altres bells objectes, propis d’un infant del seu rang. Quan el seu pare Ferran puja al tron d’Aragó, després de les resolucions del Compromís de Casp (1412), el destí dóna un gir important; al setze anys Alfons es converteix en l’hereu de la Corona d’Aragó. No és estrany que ara es vegi la conveniència d’iniciar un inventari de totes les seves «joyes, robes e altres coses» per tenir el control d’uns valuosos objectes, tan importants per donar una imatge de dignitat i esplendor a l’infant. Per bé que no es conserva sencer, l’inventari és una font excepcional per conèixer els béns del «primogènit del senyor Rey»15. Durant una dotzena d’anys (1412-1424) s’hi anoten entrades i sortides de peces que permeten polsar els vaivens de la seva cambra; es descobreix, així, l’ímpetu renovador d’Alfons – aviat es cansa d’algunes peces i les substitueix per d’altres de “noves” – i s’identifiquen alguns dels incondicionals del príncep, que són distingits amb peces impregnades d’aura cortesana. Entre draps de taula, selles, cavalcadures, penons, paraments tèxtils, peces d’indumentària, llibres, espases, etc. s’hi descriuen, més o menys a mitjan lloc, la vaixella d’or i argent i les joies per al guarniment personal (són 85 de les 424 entrades que té l’inventari). L’escrivà agrupa algunes de les joies pro ornatu persone en capítols específics (collars, fermalls i corretges) deixant la resta en un apartat miscel·lani on s’allisten pedres fines, perles i altres guarniments16. La relació dels ornaments del jove Alfons es completa amb una corona d’or, xapellets, esquerpes, rosaris, etc. L’or, amb alguna combinació, és el material dominant; els esmalts de moda – el blanc opac, el verd i el rogicler17 o vermell transparent – aporten les notes de color. Però les joies d’Alfons no són només peces opulentes, de gran valor material, sinó també originals creacions amb capricioses formes. Criden l’atenció una sèrie de collars amb baules fetes a manera de fulles de 14. La influència era reforçada per l’aliança dels Trastàmares amb els reis de França. Cfr. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., pp. 18-20. 15. E. González, Inventario de los bienes muebles de Alfonso V de Aragón como infante y como rey (1412-1424), in «Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans», 1907, pp. 148188. Cal subratllar l’interès d’aquest document per a l’estudi de la cultura material cortesana i per a la història de les arts sumptuàries. 16. Braçalets, paternòsters, sivelles, creuetes, i també ganivets amb mànecs i beines amb aplicacions de metall noble i/o esmalts. 17. Mot derivat del francès rouge-clair. La presència del gal·licisme en la documentació recorda la descoberta i difusió d’aquest fascinant esmalt per part dels orfebres francesos. 143 JOAN DOMENGE MESQUIDA col o d’espinacs, la qual cosa revela l’atenció dels orfebres reials pels elements de la natura vegetal, si no és que la comparança amb les verdures és mèrit dels escrivans (Fig. 3). Sens dubte els collars eren joies molt estimades a l’època; no és estrany que, juntament amb la corona i una discreta corretja, siguin els ornaments d’orfebreria amb què es fa retratar Alfons en un dels seus llibres d’hores18 (Figg. 1-2). A l’inventari també destaquen diversos fermalls – alguns amb motius figuratius recoberts d’esmalt blanc – plens de safirs, balaixos, diamants i perles19. És difícil dir quines joies inventariades eren de fabricació local i quines comprades a fora. A part de les especificitats tècniques, tenim indicis que revelen el prestigi de l’orfebreria francesa – i més específicament parisenca – en les primeres dècades del quatre-cents. L’any 1413, Alfons mana pagar «i xipellet de plomes de diverses colors ab son stoig de fust qui fou comprat en la ciutat de París»20, un joiell que devia assemblar-se a les garlandes que molts sants llueixen en les representacions pictòriques21 (Fig. 4). Tres anys més tard, tot just després de la seva proclamació com a rei, sabem – gràcies a les cartes del seu emissari, Ramon de Caldes – que encarrega peces d’arnès i guarniments als tallers més prestigiosos de París, on també s’abasteixen el rei de França i els homes de gust més selecte. Caldes es pren algunes llibertats, sense altra intenció que satisfer el seu senyor: fa afegir dos plomalls a un elm, sol·licita quatre arnesos de rossins «de la pus nova manera» que troba i, en saber que a Flandes es fabriquen jaserans més bells que els de París, fa mans i mànegues per obtenir-ne un «que sia gentil et que sie per a vostre cors», diu al rei en una de les lletres22. Aquesta recerca del bo i millor, del més nou 18. Per bé que el llibre fos il·lustrat vers 1443, es representa el rei amb aspecte jovenívol, molt ben endiumenjat i fent les pràctiques religioses a la seva cambra (f. 14v). Alfons apareix en altres pàgines del llibre, amb corona i riques vestimentes. Cfr. F. Español, El salterio y Libro de Horas de Alfonso el Magnánimo y el cardenal Joan de Casanova (Bristish Library, Ms. Add. 28962), in La miniatura medieval en la Península Ibérica, cur. J. Yarza, Múrcia 2007, pp. 551-612. 19. Probablement eren semblants als fermalls de factura parisenca (c. 1390) que es conserven a la catedral d’Essen. E. Kovács, L’âge d’or de l’orfèvrerie parisienne, Dijon 2004, pp. 256-257. 20. J. Domenge, Circulation d’objets, d’orfèvres et de techniques: l’émail en ronde-bosse en Espagne autor de 1400, in Les transferts artístiques dans l’Europe gothique, cur. J. Dubois et al., Paris 2014, p. 142. 21. Sol portar-ne el cavaller sant Jordi. Vegeu-ne alguns exemples a: Catalunya 1400. El Gòtic Internacional, cur. R. Cornudella, Barcelona 2012 (cat. exp.), pp. 147 i 160; Libri a corte, cur. E. Ambra et al., Napoli 1997 (cat. exp.), tav. IV. 22. F. de Bofarull, Antiguos y nuevos datos referentes al bibliófilo francés Juan de Francia, duque de Berry, in «Revista de Ciencias Históricas», 5 (1887), p. 58. Atès que Pon- 144 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM i original23, descobreix la personalitat del novell monarca, primcernut i exigent, que es fa portar dels centres més prestigiosos allò que pugui afavorir la seva imatge. Pel que fa a l’orfebreria, dels obradors parisencs del 1400 sortien sofisticats objectes d’or esmaltat que circularen entre les corts reials i ducals més esquiterelles del moment24. Alfons sembla estar ben al corrent de la fama parisenca i malda per entrar en l’escena sumptuària més exquisida dels entorns curials. La documentació certifica, endemés, que algunes joies del príncep són realitzades per orfebres francesos actius a la cort del seu pare. Rigaut Sauner obra diversos collars (1413), Guillamí Albier una cadena d’or i Tuxo Rigau un cinturó (1415)25. La tria dels argenters i dels llocs de proveïment revela, doncs, la personalitat d’un príncep preocupat per la seva imatge, tant per les joies que devia reservar per lluir en les grans ocasions, com pels arnesos que vestia en les justes galants i festoses. Una sèrie de peces descrites a l’inventari – joies, teixits, armes, etc. – porten figurava la divisa de l’orde de cavalleria de «la gerra i el griu», creada per Ferran d’Antequera el dia de l’Assumpció de la Mare de Déu del 1403. La presència de l’emblema patern en les peces de l’aixovar certifica no sols les donacions que Ferran va fer al primogènit, sinó també l’interès d’aquest per recuperar objectes familiars, després del traspàs del pare. Amb tot, alguns objectes amb la divisa es degueren fer expressament per a l’infant, ja que fou membre de l’orde d’ençà de la seva fundació. Atès que el collar era el distintiu dels cavallers de «la gerra i el griu» – «tomé un collar por devisa», afirma Ferran en els estatuts fundacionals – no ve de nou trobar entre les pertinences del primogènit tres sobergs collars que evidencien tano compara Alfons amb el duc de Berry per l’afecció a les joies, és oportú recordar que, en una de les lletres, Caldes parla al rei de la mort del duc i de les joies i gemmes que tenia. J. Domenge, Regalos suntuarios: Jean de Berry y la realeza hispana, in El intercambio artístico entre los reinos hispanos y las cortes europeas en la baja edad media, C. Cosmen et al., León 2009, p. 360. 23. Aquesta tendència s’accentuarà encara més al llarg del regnat. Com diu J. V. García, el Magnànim vigilava “directament que tot allò que es fabriqués a la cort mirés de desmarcar-se del camí trillat i busqués allò insòlit, cridaner i mai vist, que l’autoritat social i moral del monarca havia de convertir en moda”. J. V. García, Intercanvis culturals i lideratge estètic. La demanda artística d’Alfons el Magnànim en el context de l’Europa del quatre-cents, in Capitula facta et firmata. Inquietuds artístiques en el quatrecents, cur. M. R. Terés, Valls 2011, p. 131. 24. Kovács, L’age d’or cit.; Paris 1400. Les arts sous Charles VI, cur. E. TaburetDelahaye, Paris 2004 (cat. exp.), pp. 161-189. 25. J. Domenge, Argenters i marxants de “coses de grans preus” a la cort d’Aragó (ca. 1380-1420), in Mercados del lujo, mercados del arte, cur. S. Brouquet, J. V. García, València 2015, pp. 394-395. 145 JOAN DOMENGE MESQUIDA el grau de sumptuositat d’aquestes joies i la destresa tècnica dels orfebres que les varen obrar. Les detallades descripcions descobreixen aspectes formals i materials dels joiells; les representacions pictòriques i escultòriques de cavallers que foren condecorats amb la divisa, permeten visualitzar-los26 (Figg. 5-6). En un es combinaven nou gerres de lliris amb nou fulles de trèvol i portava un penjoll amb un griu blanc acompanyat del títol «Per vostra amor». Un altre era més impactant, car estava format per 42 baules, cadascuna composta de dues gerres capiculades separades per un roseta i amb una fulla d’or brunyit penjant. L’aspecte del tercer collar era diferent car el formaven 18 baules en forma de fulla, dotze amb la gerra emblemàtica i les sis restants ornades amb fermalls de balaixos i perles. D’aquest darrer se’n coneix la procedència; el va regalar Ferran al seu fill Alfons quan es va casar amb Maria de Castella (1415)27. Dels altres en sabem el destins: del primer es varen treure vuit gerres per distribuir-les a diversos cavallers que per voler d’Alfons prenien l’empresa; el segon fou desnotat el 1417 per oferir-lo a l’esposa del seu cambrer, Gonçalvo de Muntroy. El simbolisme de les gerres i del griu s’expressa clarament en els estatuts de l’orde: la gerra de lliris remet a la puresa i innocència de Maria, senyora i advocada del fundador; el griu és el més fort dels animals, i els cavallers cal que siguin forts, no sols en l’amor a Déu i a Maria, sinó en tot allò referit a la cavalleria28. Alfons, com a primogènit, heretarà els drets de l’orde i no en crearà cap de nou; sí que contribuirà, amb un regnat molt més llarg que el del seu pare, a estendre’l i a donar-li una dimensió veritablement internacional. Amb aquests collars que, tot i seguir la moda tenen una especificitat pròpia, la imatge sumptuària del Magnànim s’impregnava d’un fort regust cavalleresc, d’un profund sentiment religiós i d’un declarat sentit dinàstic. 2. Pieças d’oro rebudes de la mare, Elionor d’Alburquerque El juliol del 1426 Alfons escriu una lletra a sa mare, segellada amb el segell secret, per notificar-li que ha rebut en les pròpies mans sis objectes 26. González, Inventario cit., pp. 164-166. Es comenten amb més detall i s’il·lustren amb imatges a J. Domenge, Las joyas emblemáticas de Alfonso el Magnánimo, in «Anales de Historia del Arte», 24 (2014), pp. 109-111. Sobre els collars emblemàtics en general cfr. W. R. Lightbown, Mediaeval European Jewellery, London 1992, pp. 245 ss. 27. Les noces se celebraren a València el 12 de juny i la ciutat «aumentant en honós, presentà hun colar d’or ab perles e pedres fines; costà .XXX. mília florins». Melcior Miralles, Crònica i dietari del capellà d’Alfons el Magnànim, ed. M. Rodrigo, València 2011, p. 165. 28. Els membres podien portar un tercer distintiu: una faixa o estola blanca; per això l’orde fou conegut també com l’“orde de l’estola”. 146 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM extraordinaris, que apareixen descrits amb precisió: dues peces de vaixella (un gobell i un aiguamanil), dues insígnies reials (un pom i un ceptre) i dos oratoris o díptics per a la devoció privada29. Són obres d’altíssim valor, escaients per a la cambra de la reina Elionor, coneguda amb el sobrenom de la rica fembra. Poc abans, a Terol, ella mateixa havia lliurat al seu fill una copa i un pitxer, també d’or30. Les quatre peces de vaixella podien incrementar, quan s’esqueia, el luxe de la taula reial o l’esplendor i magnificència del tinell on se solien exposar, tot enlluernant els comensals i convidats amb un distingit servei31. Totes eren d’or i les que són ben descrites es diu que portaven perles i safirs, així com esmalts de diversos colors – sense faltar-hi el rogicler –, amb curioses figuracions de caràcter profà: homes cavalcant sobre grius, sonant instruments musicals, portant estendards, o caps de donzella. De bell nou, les característiques d’aquestes peces permeten sospitar que podien ser importades de la capital de França o fetes pels orfebres estrangers actius a la cort del seu espòs, el rei Ferran; a més les «figuras de coronas e de rayos de sol» que decoraven les tapadores del gobell i l’aiguamanil podien ser emblemes reials de la família Valois32. Aquestes refinades obres sens dubte es desmarcaven de la vaixella d’argent «més corrent» que Alfons havia aplegat, com bé ho certifica el seu inventari. La llista de l’argent del rebost mostra una gran diversitat tipològica33. Pràcticament de totes les peces se n’indica el pes, s’especifica el 29. García, La cort d’Alfons cit., pp. 40-41. Una descripció pràcticament idèntica, feta quan els objectes es trobaven a Guadalupe, es pot llegir en un inventari-memorial publicat per J. M. Nieto, El tesoro de Doña Leonor, esposa de Fernando I de Aragón, en el Monasterio de Guadalupe, in «Acta Medievalia», 18 (1997), pp. 60-62. En la comptabilitat d’Alfons es troba el pagament de 50 florins a Pere d’Estiaso, de casa de l’ardiaca de Niebla, pel viatge que va fer per portar els joiells des de Guadalupe a València. Arxiu del Regne de València (a partir d’ara, ARV), MR, vol. 8765, f. 91r. 30. En tenim coneixement pels adobs que hi va fer l’argenter del rei, Joan de Pisa, per valor de 540 sous, però ens manca una descripció detallada que permeti saber com eren. ARV, MR, 8765, f. 72r. Cfr. J. Sanchis, La orfebrería valenciana en la edad media, Madrid 1924, p. 49. 31. Sobre el luxe de la taula en aquest període, vegeu: J. A. Gisbert, A la mesa con el príncipe. El oro en la mesa, espejo del poder, in A la búsqueda del Toisón de oro, cur. E. Mira, A. Delva, València 2007 (cat. exp.), pp. 177-199; O. Pérez, “Ornado de tapicerías y aparadores de muchas vaxillas de oro e plata”. Magnificencia y poder en la arquitectura palatina bajomedieval castellana, in «Anales de Historia del Arte», 23 (2013), pp. 259285; F. Vilaseñor, “Muchas copas de oro con muchas piedras preçiosas”: joyas, lujo y magnificencia en la Castilla de don Álvaro de Luna, in «Anales de Historia del Arte», 24 (2014), pp. 611-628. 32. Domenge, Circulation d’objets cit., p. 145. 33. Plats, platerets, escudelles, salers, bacins d’aiguamans, copes amb sobrecopa o 147 JOAN DOMENGE MESQUIDA material – si és argent blanc o daurat –, el tipus d’obratge – obra plana o llisa, obra picada, etc. – i els ornaments que les decoren: esmalts, algun motiu embotit i inscripcions. Pel “march” que porten, hom pot pensar que moltes foren obrades a les grans ciutats de la Corona: Barcelona, Saragossa i València34. Quan es revisa un altre apartat de l’inventari titulat «Vaixella d’aur e d’argent» – encara que no s’hi anotin peces d’or – constatem que la vaixella reial s’anava enriquint amb els regals que les ciutats feien a Alfons quan les visitava o quan hi havia esdeveniments reials dignes de celebració, especialment copes que despunten per refinats treballs artístics35. Amb les obres reunides pels volts del 1414-1416, el príncep podia parar una taula amb un mostrari tipològic ben diversificat; els objectes d’or rebuts el 1426 de la seva mare devien donar-hi el toc de distinció36. Se suposa que la vaixella més rica s’emprava en les grans celebracions, però no sabem quins objectes s’utilitzaven a la taula i quins més aviat s’exhibien al tinell – o aparador – com es veu en alguns retaules, miniatures i tapissos de l’època37. Amb la donació de la mare, també arriben a mans d’Alfons un ceptre i un pom, dues de les insígnies o atributs de la dignitat reial38. El ceptre és descrit com una verga d’or amb una «rosa de seys fojas de manera de cardo» al cap i un esmalt amb les armes de la reina a la part inferior. El pom cobertor, tasses, pitxers, canelobres i peces més singulars com una llimonera, una ouera, broques, vergues per torrar pa o una coltellera. 34. González, Inventario cit., pp. 150-154. 35. Ibid., pp. 169-175. Les ofrenes dels jurats de Saragossa, Daroca i Terol; després les dels jurats i l’arquebisbe de València, o les dels cònsols de Perpinyà, contribuïren d’una manera decisiva a enriquir la vaixella principesca. Un cop proclamat rei el 1416, els jurats de Girona s’afanyaren a presentar-li un lot important d’objectes. I encara que no es faci constar que són regals de la ciutat de Barcelona, al començament del llistat hi ha unes obres amb escuts i marques de Barcelona que haurien estat ofertes pels representants de la capital. J. Domenge, Paraments d’argent i serveis de taula a la cort dels monarques catalans (segles XIV-XV), in Actes del Ir. Col·loqui d’Història de l’Alimentació a la Corona d’Aragó, Lleida 1992, II, pp. 641-653. Encara que centrat en el s. XIV, cfr. A. Molina, Els objectes d’argent a la taula de Pere III el Cerimoniós (1336-1387), in XIV Jornades d’Estudis Històrics Locals, Palma de Mallorca 1996, pp. 655-666. 36. Justament aquest mateix any, Alfons encarregava a un dels seus orfebres de confiança, Joan de Pisa, una copa amb tapadora i un gobell d’or. ARV, MR, 8763, f. 79r, 92r-v. Cfr. Sanchis, La orfebrería valenciana cit., p. 50. 37. Vegeu-ne alguns exemples a: Gisbert, A la mesa cit.; O. Pérez, Ornado de tapicerías cit. 38. Encara que centrat en la monarquia castellana – sobretot a l’època dels Reis Catòlics – vegeu l’estudi d’A. Fernández de Córdova, Los símbolos del poder real, in Los Reyes Católicos y Granada, Granada 2004 (cat. exp.), pp. 37-58. A part de la corona, el pom i el ceptre, es prenen en consideració altres objectes simbòlics del poder reial. 148 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM era com un ou de griu, tot recobert de fullatges realitzats amb obra picada i una petita creu al seu damunt. Podem suposar que les insignia regalia eren semblants a les que el seu pare va dur a la coronació de Saragossa el 141439. En el rotlle de Poblet, els ceptres que porten els antecessors d’Alfons en el tron d’Aragó, Joan i Martí, són més senzills, amb el pom sense ornamentacions i el ceptre rematat amb una gran flor de lis40 (Figg. 7-8). En realitat, la informació sobre les altres insígnies de la dignitat reial és més aviat escassa. De jove, Alfons ja tenia una luxosa corona, que fou desfeta l’any 1424 per utilitzar l’or en certa obra; una part de les pedres i perles romangueren a la cambra del rei, mentre que d’altres foren donades a la seva esposa41. En qualsevol cas, el rei tenia la corona que havia estat del seu pare, el rei Ferran, «ab diverses pedres de gran preu, e perles fines» encastades en el cercle i en els murons42; tanmateix la va empenyorar el 1426. En les representacions del Llibre d’Hores de Londres, Alfons porta la característica corona medieval, amb florons en forma de flor de lis, i en altres objectes com medalles, relleus i pintures també hi compareix sovint la corona43. Malgrat tot, sembla que en la seva entrada triomfal a Nàpols no va voler lluir-ne cap, com comentarem més endavant. És sorprenent que en l’inventari gairebé no s’esmentin els objectes de la capella; segurament estaven allistats en algun dels plecs perduts del document44. En canvi, en la comptabilitat del germà d’Alfons, s’hi consignen les despeses «ops de la capella del senyor infant don Johan» (141239. La documentació conservada evidencia fins a quin punt era important per a Ferran tenir a mà una gran quantitat de joies per presentar-se, en una celebració com aquesta, amb tota la majestat davant de dignataris i súbdits. En relació al pom es dóna la mateixa referència de mesura: tan grande como un huevo de grifos. Cfr. R. Salicrú, La coronació de Ferran d’Antequera: l’organització i els preparatius de la festa, in «Anuario de Estudios Medievales», 25/2 (1995), pp. 735-738; Domenge, Argenters i marxants cit., pp. 389-392. 40. Cfr. A. Serra, La historia de la dinastía en imágenes: Martín el Humano y el rollo genealógico de la Corona de Aragón, in «Locus Amoenus», 6 (2002-2003), pp. 57-74; J. Domenge, “Iocalia ornamentaque cappellae et alia pretiosissima bona”. Orfebreria a Catalunya a l’entorn del 1400, in Catalunya 1400 cit., pp. 76-77. 41. L’inventari la descriu articulada en dotze parts mitjançant xarneres, amb tres florons a cada part, i enriquida amb balaixos i perles. González, Inventario cit., p. 165. 42. ARV, MR, 8763, f. 45v. 43. R. Pane, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, Milano 1975, vol. I, figg. 7981, 84, 86, 89-90; J. Barreto, La Majesté en images. Portraits du pouvoir dans la Naples des Aragon, Roma 2013, figg. 16, 18, 19, 21, 48, 49, 54-56. 44. Entre les “pedres fines, perles e altres joyes” tan sols es descriuen unes petites peces que – tret d’una Mare de Déu d’ivori – semblen més aviat objectes religiosos per a l’ornament del cos. González, Inventario cit., p. 168. 149 JOAN DOMENGE MESQUIDA 1414)45. Si tenim present que aleshores Alfons ja era el primogènit d’Aragó, cal pensar que tenia uns arreus litúrgics semblants al del germà, i probablement millors, atesa la seva condició46. I amb la donació de la mare s’incorporaven a la capella dos exquisits díptics o oratoris – com se’n diu en el document –, diferents dels imprescindibles utensilia sacra que solen ser prescriptius en tota capella, com els de l’infant Joan, suara esmentats. Les peces d’Elionor d’Alburquerque segurament eren destinades a pràctiques de devoció més privades, a la contemplació i delectació personals. Un dels díptics era molt complex, amb una quantitat tan gran de minúscules escultures i esmalts que costa d’imaginar en un objecte de dimensions reduïdes, tot ornat de pedres precioses: diamants encerclats de perles, balaixos i safirs. A l’altre oratori – també d’or i tot esmaltat, amb predomini del color blau – hi havia les imatges de Jesucrist i la Mare de Déu a la part interior, mentre que a la part exterior – o sigui, quan romania tancat – s’hi veien sant Joan Baptista i santa Caterina. La descripció d’aquest oratori permet imaginar una peça semblant al bell tríptic de Chocques, obra parisenca de la darrera dècada del segle XIV, i ratificar altre cop la semblança d’algunes obres de la cambra d’Elionor amb els productes de la capital francesa47. Aquests dos díptics no eren les úniques peces d’aquesta casta en la cambra d’Alfons. Dos anys abans (1424) havia comprat, per quasi 1.000 lliures, «unes taules d’aur plegadisses» que tenia venals Margarida de Prades, la vídua de Martí l’Humà. Es tractava d’un díptic a manera de llibre, treballat molt subtilment «d’obra de punxó»48, amb una Pietat de Jesucrist i diverses figures a l’anvers, mentre que el revers era decorat amb sants i àngels 45. Dos argenters valencians, Lluís Adrover i Joan Çalamanca, s’encarreguen d’obrar els arnesia sacra: creu, calze i patena, canadelles, salpasser i caldereta, canelobres i encenser. Domenge, Argenters i marxants cit., p. 396. 46. Precisament l’any 1424 es pagava a Joan Montserrat, lloctinent de capellà major del rei, per les despeses “en fer portar la trossa en lo loch on lo dit senyor ohia missa fora la sua capella, en adobar tanquadures de coffres, claus, libres, vestiments e altres coses necessàries a la dita cappella e pertanyents en aquella” i uns mesos després se sap que s’havien fet dues caixes noves “a ops de la sua capella, per a reservar en aquelles les sues rellíquies”. ARV, MR, 8759, f. 63v i 104r. 47. J. Domenge, Los esmaltes sur ronde-bosse en los reinos hispánicos ca. 1400. Exordio para un corpus, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. IV, Quaderni, 15 (2003), pp. 102-103 i 128-129. Encara que Alfons pogués tenir geloses aquestes peces, veurem que aviat (1431) va empenyorar el primer oratori. 48. Es refereix a l’opus punctorium o “obra picada”, tan característica dels objectes d’aquest temps. Cfr. N. Stratford, De opere punctili. Beobachtungen zur Technik der Punktpunzierung um 1400, in Das Goldene Rössl, München 1995 (cat. exp.), pp. 131-145. Sobre la incidència d’aquesta tècnica en l’orfebreria catalana, cfr. Domenge, Circulation d’objets cit., pp. 156-158. 150 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM entre fullatges49. No sabem del cert si és la mateixa peça que dos anys després (1426) Alfons recuperava del capítol catedralici de València, que la tenia en penyora. En la detallada descripció es diu que a l’anvers, a part de la Pietat, hi eren representats «tot d’obra lavada e esmaltada» – o sigui, en relleu – el duc Joan de Berry, acompanyat pels sants Joan Baptista i Evangelista, i que era ornada amb quasi un centenar de perles. Fos o no la que havia comprat dos anys abans, el cert és que es tractava d’una peça impregnada d’aura principesca, car sembla que el duc francès havia regalat el díptic al seu nebot Joan I d’Aragó i d’aquest havia passat al germà, Martí I, que el va succeir en el tron50. Tots aquests díptics d’or per a les pràctiques de devoció privada són, doncs, objectes d’un altíssim valor material i artístic, al qual s’hi suma el simbolisme dinàstic d’haver pertangut als avantpassats. Altres tres peces d’or inventariades a la cambra d’Elionor – una copa, un firmalle i un pende – sembla que no arribaren a mans d’Alfons, potser perquè la mare se les va reservar o les va regalar als altres fills. Tanmateix, pels mateixos anys el sobirà no deixava d’invertir en extraordinaris joiells per al guarniment del cos. Se’n poden recordar alguns per la seva riquesa i singularitat. Quan es redimeixen les taules amb la representació del duc de Berry, descobrim dos «simpàtics» joiells d’or, fets «a semblança de bogia»: en un, la símia semblava voler rosegar un balaix molt bell i gran; en l’altre duia els braços estesos «en so que vol fer colp»51. Abans, el 1424, Alfons havia encarregat al mestre Hans Tramer un anell amb la imatge d’ell, entronitzat52, segurament comparable als segells dels reis 49. García, La cort d’Alfons cit., pp. 16-17; Domenge, Regalos suntuarios cit., pp. 361-362. 50. Hem tractat més extensament de la peça i del seu periple en altres ocasions: Domenge, Los esmaltes cit., pp. 98-99; Id., Regalos suntuarios cit., p. 355. R. Cornudella (Alfonso el Magnánimo cit., p. 43) identifica les taules d’or comprades a Margarida de Prades amb el díptic del duc de Berry. No descartem la proposta, car en ambdós casos es tractava d’unes taules amb la Pietat, i se sap que el díptic ducal havia estat en mans de la vídua del rei Martí. Però sorprèn la quantitat de “lapsus” de l’escrivà: diu que és tot “de puntxó”, quan en el díptic de Berry hi havia figures en relleu; no s’esmenten els esmalts – el rogicler sempre solia cridar l’atenció als escrivans – i se silencien les perles que, sens dubte, incrementaven el valor econòmic de l’objecte. També cal tenir present les oscil·lacions de valor: es compraren per quasi 1.000 lliures i, dos anys després, Alfons n’havia de pagar 2.800 per recuperar-les. 51. En el segon, la bugia portava un diamant tomba al pit i una cadeneta penjada al coll amb un balaix còdol. ARV, MR, 8763, f. 115v. 52. «Sculpit a figura del dit senyor seent en cadira e tinent ceptre en mà, ab l’escut als peus, divisat a les armes reyals, ab letres entorn». Cfr. Sanchis, La orfebrería valenciana cit., p. 44; Domenge, Circulation d’objets cit., p. 149. Seria diferent, per tant, del famós anell del duc de Borgonya, Joan sense Por, que porta un retrat realitzat en ivori. Cfr. L’art à la cour de Bourgogne, París 2004 (cat. exp.), cat. 55. 151 JOAN DOMENGE MESQUIDA catalans – i als del mateix Alfons (Fig. 9) – on compareixen asseguts al tron, amb les armes i envoltats d’inscripcions. L’encàrrec no es feia a un argenter qualsevol, sinó a un mestre «nadiu de Constança, de l’imperi d’Alemanya», es diu de Tramer el 1417, quan realitza els segells de del General de Catalunya53. Avesat a treballar amb formats petits, el pas dels segells a l’anell no significaria cap repte especial per a l’orfebre. El mateix any 1424, l’argenter «del senyor rei», Guido Antoni, s’encarregava de fabricar una peça «menys icònica», però ben representativa del gust d’Alfons per les pedres precioses i del dineral que estava disposat a destinarhi54: un braçalet, tot ple de diamants encastats i de llarg obratge, car s’havia d’esperar l’arribada de les gemmes. El 1424 es comprava un diamant al mercader de Barcelona Francesc Oliba i dos anys després un altre a Marc Olzina, argenter de València, «per metre en un dels encasts buyts del braçalet dels molts diamants»55. El nom resulta ben revelador de les pretensions del seu destinatari: disposar d’un joiell on hi hagués el major nombre possible de diamants56. Peces com aquesta, sense motius iconogràfics específics, eren valorades probablement per la seva riquesa material i per la lluentor o l’espurneig que les gemmes podien irradiar. 3. Joies amb les divises del mill, el llibre obert i el siti perillós Alfons no s’acontentà de lluir joies amb la divisa del seu pare i sucumbí de ple en el fascinant món dels emblemes, sense la necessitat de crear un nou orde de cavalleria. És probable que poc després d’heretar el tron d’A53. N. de Dalmases, Orfebreria catalana medieval: Barcelona 1300-1500, Barcelona 1992, II, pp. 141-142, 255, 257. 54. Durant la segona meitat de l’any estan documentades moltes compres de perles a l’argenter de Barcelona Berenguer Trullars i a diversos mercaders de la mateixa ciutat. ARV, MR, f. 79v, 80r, 82r, 85r, 97v. Tot plegat mostra com, entre les dues campanyes de Nàpols, la despesa sumptuària d’Alfons era altíssima, bé fos en sofisticats i simpàtics objectes, bé fos en pedres i perles de gran valor. 55. Es pagaren 130 i 165 florins d’or, respectivament. ARV, MR, 8759, f. 81v.; 8763, f. 56r. El costum d’anomenar els objectes a partir de la gemma o gemmes que els singularitzen és ben atestat. Cfr. Lightbown, Mediaeval cit., p. 37; Kovács, L’âge d’or cit., pp. 155-158; Domenge, Argenters i marxants cit., pp. 377-378. 56. Són ben escasses les joies d’aquest tipus que han arribat als nostres dies. Es pot citar, salvant totes les distàncies, el braçalet de Suero de Quiñones, conservat a Santiago de Compostel·la. Cfr. Paris·1400 cit., cat. 87. Els diamants es començaren a utilitzar abundantment en la joieria medieval a partir de mitjan segle XIV, gràcies a les importacions des de l’Índia fetes per mercaders venecians, genovesos i florentins. Es tractava d’una pedra molt atractiva (forta, durable) i amb propietats curatives i protectores, segons les interpretacions exegètiques i les creences populars. Diamanti. Arte, storia, scienza, Roma 2002 (cat. exp.), pp. 89-95, 167-169. 152 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM ragó es comencés a interessar per cercar uns signes d’identitat propis, sense renunciar als emblemes dinàstics de la gerra i el griu. A partir de la tercera dècada del segle, tres noves empreses o divises (el mill, el llibre obert i el siti perillós) compareixen en tota casta d’objectes (Figg. 9-10); és lògic, doncs, que també es representin en selectes joies. Per ara, les millors descripcions que coneixem es troben en una llista de les obres dipositades pel rei a la taula de canvi de Barcelona l’any 142957. Les tres divises apareixen en enlluernadors collars, penjolls i fermalls, degudament guardats en estoigs de cuir segellats amb les armes d’Aragó i/o Sicília. Es tracta dels tipus de joies on es manifestà de manera més clara l’originalitat dels orfebres. En efecte, els inventaris, les novel·les de cavalleria i les representacions pictòriques que evoquen la vestimenta i la joieria de les persones de rang, acrediten la difusió i el prestigi d’aquests jocalia pro ornatu persone. Un gran collar d’or portava l’empresa del mill, combinada amb balaixos i moltes perles. Un fermall petit d’or fi també era obrat «a manera de una mata de mill», amb pedreria i perles. Els testimonis gràfics de les espigues de mill – representades en medalles, ceràmiques, segells, llibres il·lustrats, etc. – permeten imaginar, amb totes les limitacions que calgui, l’aspecte d’aquestes joies. La ficció literària ha ajudat a revelar el significat d’aquesta empresa alfonsina. A la novel·la Tirant lo Blanc, el protagonista és descrit en una ocasió «ab un manto de orfebreria; la divisa era tota de garbes de mill, e les espigues eren de perles molt grosses e belles, ab un mot brodat en cascuna quadra del manto, qui deïa: “Una val mill e mill no valen una”. E les calces e lo capiró lligat a la francesa, d’aquella devisa mateixa»58. El missatge sembla ben clar: Tirant – en aquest cas l’alter ego d’Alfons – val per mil. Així, l’emblema esdevé una imatge clara de propaganda reial que proclama el coratge i la força del rei, n’exalta les virtuts cavalleresques i la valentia en el combat. El valor emblemàtic d’un altre collar – obrat a manera de bavera i amb lletres esmaltades – es concentrava en el penjoll. Era un llibre d’or amb 57. El va donar a conèixer M. Tintó, Dos fermalls i altres joies d’Alfons el Magnànim, segons un inventari de la taula de canvi de la ciutat de Barcelona, in «Acta Medievalia», 26 (2005), pp. 767-773. Sobre els significats i suports dels emblemes alfonsins, cfr. J. Domenge, La gran sala de Castelnuovo, memoria del Alphonsi regis triumphus, in Le usate leggiadrie, cur. G. Colesanti, Montella 2010, pp. 307-325; E. Juncosa, El rei Alfons i la promoció de la magnanimitat, in Terés, Capitula facta cit., pp. 141-166; Barreto, La Majesté cit., pp. 218-225. Per a les joies d’Alfons amb divises, cfr. Domenge, Las joyas emblemáticas cit. Remetem a aquestes aportacions per a una bibliografia més específica. 58. J. Martorell, Tirant lo Blanc i altres escrits, ed. M. de Riquer, Barcelona 1990, cap.119, pp. 380-381. 153 JOAN DOMENGE MESQUIDA un balaix i un bell diamant “lanzengat” encastats, i els giradors rematats amb perles. La forma d’aquest “pendent” devia ser semblant a moltes altres representacions que es coneixen de la divisa, o sigui, un llibre obert, vist per les cobertes, com si algú l’estigués llegint, i amb els giradors penjant a la part inferior. Antonio Beccadelli descobreix el seu significat quan escriu, en el llibre Dels fets e dits del gran rei Alfons, que la divisa del rei era un llibre obert per mostrar que el saber i el coneixement de les arts i les ciències pertanyen als reis i que aquest coneixement no es pot assolir sense llegir, estudiar i estimar els llibres59. L’emblema pretén mostrar, doncs, que Alfons porta el saber com a insígnia i, així mateix, pretén acolorir la seva imatge d’home intel·lectual i culte, molt abans que s’envoltés d’humanistes a la cort de Nàpols. Un tercer collar portava l’altra empresa que el Magnànim va utilitzar amb assiduïtat. Entre dues vies – o suatges, com diu el document – que semblaven algues de mar, s’hi espaiaven els sitis perillosos60. Les imatges del tron en flames, que decoren els marges dels manuscrits reials i altres objectes, ajuden a visualitzar com podien ser els sitis d’aquest collar. Diversos indicis aclareixen el significat de l’emblema. El siti perillós és una imatge de la literatura artúrica que es refereix al seient buit dels cavallers de la taula rodona, reservat al victoriós Galaad després de la conquesta del sant Graal. Tot aquell que pretengui asseure’s al tron sense haver dut a terme la comesa, acabarà cremat per les flames. La història i l’emblema vénen a Alfons com anell al dit, per presentar-se com un nou Galaad, que no persegueix la troballa del sant Graal sinó la conquesta del tron de Nàpols. Així ho proclamà una de les virtuts dels entremesos que desfilaren per Nàpols quan es festejà el triomf alfonsí l’any 144361. No sorprèn, doncs, que uns anys després, quan el rei es fa representar en el fris 59. A. Beccadelli, el Panormita, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, ed. E. Duran, M. Vilallonga, Barcelona 1990, p. 145. 60. Aquest singular collar es completava amb un “pendent, que és un joyell d’aur fi fet a manera de mirall, amb letres esmaltades de blanch e vermell”, en el qual hi havia encastat un diamant molt bell i gros. No es pot descartar que sigui el “collar fet a manera d’espill” que poc abans obrava l’orfebre del rei, Guido Antoni. Cfr. Sanchis, La orfebrería valenciana cit., p. 46. Sobre l’empresa del siti, vegeu l’article monogràfic de J. Molina, Un trono in fiamme per il re. La metamorfosi cavalleresca di Alfonso il Magnanimo, in «Rassegna Storica Salernitana», 56 (2011), pp. 11-44. 61. «La dita empresa del dit siti perillós, per la benaventurada conquesta havie son obtente, com algun altre rey, príncep ne senyor ere stat digne de seure sobre aquell siti, sinó lo dit senyor que havia supeditat e obtengut lo dit reyalme». J. M. Madurell, Mensajeros barceloneses en la corte de Nápoles de Alfonso V de Aragón, 1435-1458, Barcelona 1963, p. 218. 154 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM principal de l’arc del Castellnou, les flames restin deposades als seus peus i ell ocupi el seient reial amb tota dignitat. Els collars emblemàtics descrits l’any 1429 no serien gaire diferents dels que es veuen en dos bustos del seu fill Ferran (o del nét Alfons62), hereus del tron de Nàpols (Figg. 11-12). Aquí, però, les divises alfonsines es combinen amb les del seu successor Ferran: l’ermini – emblema de l’orde de cavalleria que havia fundat l’any 146563 – i la muntanya de diamants, molt sovint associada al Magnànim64. Els collars d’aquestes escultures mostren, doncs, com es podia “jugar” amb els emblemes, tot combinant-los amb motius diversos o associant-los amb altres divises, d’acord amb una lògica que, si existia, no sempre és fàcil d’esbrinar. Fos com fos, es tracta de joies amb missatge que connoten la imatge reial i no simples ornaments mancats de contingut. Les joies emblemàtiques allistades el 1429 formaven part d’un conjunt de peces d’or no menys valuoses, atapeïdes de pedres fines i perles. Hi havia un collar «a manera de gorial de malla de geserant» i un altre a «manera de nus de rostoll de blat», amb un penjoll que representava un ermini esmaltat de blanc65. La relació segueix amb un collar «estret, abte a portar al coll», amb algunes lletres morisques i un bell balaix com a penjoll; un valuós braçalet – que hem esmentat abans – amb lletres franceses i 21 diamants; un fermall amb forma de flor; una gran perla amb un pern i una baga que es podia emprar com a penjoll; un molt bell diamant «fet a manera de losa longa lansengada en certa forma de nova manera»66, encastat en un anell de tipus episcopal i un gran robí en un encast d’or. Es tractava, doncs, d’un conjunt de peces sobretot per al guarniment personal del rei67, que fou dipositat en un cofre de fusta degudament tancat amb presència dels representants del rei, de dos mercaders i del prestigiós orfebre barceloní Marc Canyes, el qual degué ajudar els escrivans a des62. Cfr. Barreto, La majesté cit., pp. 210-213. 63. Sobre aquest orde vegeu G. Vitale, Araldica e politica. Statuti di Ordini cavallereschi “curiali” nella Napoli aragonese, Salerno 1999, pp. 55 ss. 64. Cfr. Domenge, La gran sala cit., pp. 308-309. 65. No crec que els escrivans confonguin el blat amb el mill, car l’havien reconegut en altres peces. L’ermini podia ésser l’emblema dels ducs de Bretanya, puix encara faltaven anys perquè el fill d’Alfons, Ferran de Nàpols, fundés l’orde que portava aquest animal com a insígnia (1465). Cfr. Lightbown, Mediaeval cit., p. 254. 66. De bell nou es constata l’interès d’Alfons per les formes innovadores. Vegeu la nota 23. 67. A la llista també surten el díptic d’or de la Pietat – el del duc de Berry – i un Calvari, també d’or, constel·lat de balaixos, safirs i perles, que pel pes sembla més un joiell que no pas un objecte de capella. 155 JOAN DOMENGE MESQUIDA criure les obres i a pesar-les. Aquestes joies es recuperaren aviat – a diferència d’altres peces de vaixella i arnesia sacra que empenyorarà poc després –, probablement perquè eren molt importants per projectar una imatge personal de gran dignitat i magnificència. 4. El collar de les olles o “apuradors” de la reina Maria Just després del matrimoni d’Alfons amb Maria (1415), i de l’ascens al tron dels joves prínceps l’any següent, s’inicia el registre de tresoreria de la reina, el qual permet conèixer, malgrat les llacunes, les seves despeses sumptuàries68. Amb regularitat, la sobirana encarrega o compra tot tipus d’objectes a coneguts argenters: anells i vergues d’or, agulles, arracades, collars, cadenes, corretges, fermalls i pedres precioses soltes, que després devia fer encastar en alguna joia. També tenia importants peces de vaixella d’argent, obrades amb les tècniques i els ornaments corrents a l’època. Per a les seves pràctiques religioses podia utilitzar, almenys del 1430 ençà, un servei eucarístic d’or, o sigui, un calze i una patena, obrats per Dionís Moliner, «argenter de casa de la senyora reina». I a l’inventari dels béns de Maria es descriu amb minúcia un impactant portapau o “donapau” d’or, amb un Calvari al mig69. La imatge, doncs, d’una reina humil, piadosa, resignada i discreta, que la historiografia ha tramès, es pot matisar a la llum de les evidències sobre el seu consum sumptuari. El gust pels objectes de preu l’apropa a les sobiranes que la precediren en el tron d’Aragó i el seu aixovar de peces d’orfebreria i teixits rics li devien donar una imatge digna, fins i tot poderosa, com s’esqueia i s’esperava d’una dona de la seva condició. Potser moltes peces documentades eren de fabricació un tant “seriada” i es compraven dels estocs que els orfebres tenien per al lliure mercat. Però en els seus joiers no mancaven peces que excel·lien, com un opulent fermall en forma de “M”, que delaten, al cap i a la fi, la cura de la pròpia imatge i la voluntat de presentar-se amb l’esplendor i dignitat que podien donar els gran joiells. Entre els diversos collars que s’inventarien a la seva mort en volem destacar un que, al nostre entendre, és la joia de caràcter més personal, més sofisticada i rica de Maria: un opulent collar que és descrit amb detall 68. Recentment ha estudiat aquesta documentació J. Vidal, La cámara real de María de Castilla. Sus joyas y otras delicias suntuarias, in «Anales de Historia del Arte», 24 (2014), pp. 593-610. 69. El que realment atragué l’atenció dels escrivans foren 6 balaixos, 6 safirs i 24 perles disposades al voltant; no és estrany que sigui així, car les pedres tenien una importància cabdal per a la valoració econòmica de la peça. Domenge, Los esmaltes cit., pp. 122-123. 156 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM quan s’empenyora l’any 144670. Era constituït per quatre peces o mòduls, segurament calats i amb forma similar a un escut; a cada peça hi havia «una olla o apurador que la senyora Reyna tenia per divisa e ampresa». A part de l’originalitat d’aquest emblema, els 46 balaixos, grans i mitjancers, i les 88 perles que l’enriquien n’incrementaven la sumptuositat i el valor econòmic, fins al punt de poder-se empenyorar per parts. Per restituir la imatge el collar ens poden ajudar els testimonis iconogràfics sobreviscuts de l’emblema, que són escassos si ho comparem amb els que revelen les divises d’Alfons. El monument funerari de Maria, en el claustre del monestir de de València, mostra les armes en tres grans medallons, flanquejats per les dues empreses règies: l’apurador i la mata de safrà (Figg. 13-14). I en un segell procedent del monestir, conservat a Madrid, hom també hi veu les divises, a banda i banda de l’escut de la sobirana71 (Fig. 15). Per què la reina havia escollit aquests motius? Quin sentit tenien per a ella? En quina mesura expressaven les seves conviccions, desitjos o inquietuds? La veritat és que la recerca sobre l’emblemàtica de Maria és encara incipient i ara no ens hi podem entretenir72. Tan sols creiem convenient assignar a Maria una representació i un mot que la historiografia ha vinculat a Alfons, perquè puguin ésser reconsiderats en futures recerques sobre les divises de la sobirana. En unes rajoles conservades a València es troba dibuixat un element que sempre s’ha identificat amb el siti perillós d’Alfons, envoltat amb una inscripció que, lògicament, s’hi ha volgut relacionar73. El títol diu: «virtut apurar no·m fretura sola» (Fig. 16) i, vinculat al siti perillós, s’ha interpretat com la virtut inesgotable de l’heroi per dur a terme la comesa, sigui la troballa del sant Graal en el cas de Galaad, sigui la conquesta de Nàpols en el cas d’Alfons. Però l’objecte representat no és un tron en flames, sinó un olla o apurador sobre un trespeus, resolt de manera esquemàtica, amb les limitacions figuratives de les tècniques dels ceramistes. La comparació de les rajoles amb altres repre70. J. Vidal tracta monogràficament les dues joies, el fermall i el collar. Cfr. Vidal, La cámara cit., pp. 595-602. 71. Cfr. T. Vicens, Aproximació al món artístic de la reina Maria de Castella, in Terés, Capitula facta cit., pp. 220-223. 72. Durant la revisió de les proves d'aquesta contribució, hem tingut constància de l'article de M. Narbona, El contenido devocional de las divisas: el azafrán y la olla ardiente de la reina de Aragón (1416-1458), in «Emblemata», 20-21 (2014-2015), pp. 435-454. 73. Vegeu-ne dos exemplars a: València-Nàpols. Les rutes mediterrànies de la ceràmica, València 1997 (cat. exp.), cat. 59. Rajoles com aquestes han estat molt reproduïdes i dibuixades, però sempre desxifrades com a representacions del siti perillós. 157 JOAN DOMENGE MESQUIDA sentacions, del siti i de l’olla, creiem que aclareix el dubte. Endemés, el títol pren un nou sentit i dóna una clau interpretativa: la paraula “apurar” es relaciona directament amb el motiu icònic de l’apurador. «Virtut apurar no·m fretura sola». La lectura i interpretació del mot no són fàcils degut als diversos sentits que pot tenir la paraula fretura i a l’ambigüitat del sola. Podríem llegir-ho així: no deixaré o mancaré d’apurar sola – per mi mateixa – la virtut74. La idea d’apurar o purificar la virtut difícilment es podia materialitzar en quelcom tangible. Tanmateix l’olla o apurador hi podia remetre, car l’ideòleg de la divisa i del títol – fos la pròpia reina, fos algú del cercle curial – pogueren recórrer a referents bíblics i literaris. «El gresol prova la plata, i la fornal, l’or, / però els cors, els prova el Senyor», es diu en els Proverbis. I Ausiàs March escriu en un dels seus versos: «ans es fornal que apura l’or i acaba / Lleixant lo fi, e l’als en fum derrama»75. Per a una persona de profund sentiment religiós com Maria, tant una sentència que la presentava com a dona virtuosa – o almenys incansable en la pràctica de la virtut – com un objecte o recipient on s’apurava l’or podien resultar ben adients. És difícil dir si el mot sola reflecteix el sentiment de l’abandó del marit i de la soledat que han glossat els cicles literaris referits a ella. Recordem que, en contraposició als textos que ressalten la figura del monarca, les seves qualitats i empreses, el cicle de la reina Maria té per tema l’abandonament i la separació moral i material de l’esposa, ressaltant-ne, això sí, la virtut, com es llegeix en una composició del cançoner d’Estúñiga: «La vuestra gran solitud, illustre reyna bendita, descobrió vuestra virtut de toda sospecha quita»76. El collar de les olles o apuradors no era, doncs, un simple ornament, un objecte sumptuós i car que ressaltava la magnificència de la reina, sinó una joia que també contenia un missatge i projectava una determinada imatge de la sobirana com a dona virtuosa. No tenim constància que l’altra empresa de la reina, la mata de safrà, s’hagués materialitzat en forma de joia; almenys la documentació que per ara coneixem no ho revela. En uns bacins que portaven les armes i «les 74. Per a la lectura i interpretació del títol han estat de gran ajut els consells de P. Quetglas i particularment de Jaume Torró, als quals vull expressar la meva gratitud. 75. Prov., 17, 3; altres referències a la depuració de l’or es troben en els llibres bíblics de Sap., 3, 6 (...Els ha depurat com l’or en el gresol...) i Eccles., 2, 5 (...perquè, com en el foc es prova l’or, en la fornal de la humiliació són provats els escollits). Per als versos de March, cfr. Ausiàs March, Poesies, ed. P. Bohigas, riv. da A.-J. Soberanas, N. Espinàs, Barcelona 2000, XCII, vv. 183-184. 76. L’encapçalament de la composició és: Muestra como por l absencia del Rey mostró su virtud et constancia. Vicens, Aproximació cit., p. 193. 158 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM divises de apurador d’or77 ab fochs» s’assenyalen tres flors, però sense més clarificacions. En canvi, en un drap de peus que ostentava els escuts de la reina, hi havia «mates de çaffrà entorn dels dits senyals hoc hi ha la empresa de la dita Reyna, ço és una olla ab foch qui stà sobre uns ferros», tot descobrint exactament el tipus de flor, però també evidenciant que l’empresa predilecta de la sobirana era l’apurador78. Les raons que haurien empès Maria a triar aquestes flors com a motiu emblemàtic podien ser múltiples. A l’època medieval el safrà fou una planta utilitzada tant en cuina, com en medicina i cosmètica. Ramon Llull diu en el Llibre de Fèlix que el «safrà ha virtut a confortar e alegrar lo cor, e fa bona sang». Si tenim present, a més, les connotacions religioses d’aquesta planta – trinitàries, cristològiques, marianes79 – no seria fàcil trobar un emblema més apte «i terapèutic» per a una reina trista i malaltissa com fou Maria. 5. Penyores sumptuàries per a la campanya de Nàpols: arreus de capella i vaixella d’or i argent La conquesta de Nàpols fou per al rei Alfons una empresa cara, en el doble sentit que té el mot: volguda i costosa. El tresor reial se’n ressentí fortament, com bé ho evidencia un aplec de documents d’entorn a 1430, donats a conèixer per A. Duran. Segons l’autor, sempre que alguna gesta reial exigia esmerçar una quantitat extraordinària, es procedia a vendre i empenyorar joies del tresor reial. Ara, la imminència d’una nova acció bèl·lica per prosseguir el pla d’expansió del reialme, Mediterrani enllà, obligava a una venda important80. Entre 1428 i 1432 es fan diversos empenyoraments i vendes, no sols de joies i orfebreria de tota casta, sinó també d’armes, capçanes de guarniment de cavall i draps de ras. Crida la nostra atenció una gran venda del 1431 al mercader de Barcelona Jaume de Casafranca no sols, com declara Alfons, «pro expeditione nostri felicis stolum navium et galearum quod de presenti fecimus», sinó també per fer front a les «expensis et missionibus nobis et nostre Curie». El document 77. No passem per alt aquesta especificació funcional de l’objecte (apurador d’or), en correspondència amb les citacions bíbliques i amb el vers de March. 78. Cfr. M. Narbona, El contenido devocional cit., pp. 443s. 79. Ho esbrina amb detall Maria Narbona en un treball, en premsa, que amablement ha volgut posar a la nostra disposició. M. Narbona, Les devises et la foi: l’interpretation des devises princiers selon une lecture spirituelle, à partir de quelques rois ibériques des XIVe et XVe siècles. Presentat al Col·loqui Internacional Empresas-Devises-Badges (Batalha, setembre de 2014). 80. A. Duran, Joies i obres d’art empenyorades i venudes per a la campanya de Nàpols, in Id. Barcelona i la seva història, III, L’art i la cultura, Barcelona 1975, pp. 268-281. 159 JOAN DOMENGE MESQUIDA conté una llarga relació d’objectes, separats en dues partides: els uns provenen de la capella reial i els altres formen part de la vaixella del palau; no hi ha joies d’ornamentació personal, potser perquè es reservaven per poder-les lluir personalment81. Es torna posar en evidència, de manera ben explícita, quin ús es podia fer del tresor reial, a part de contribuir a donar una imatge de poder i dignitat al sobirà. El «memorial dels arreus de capella, axí creus com imatges» consta de 23 peces de gran magnificència. Si abans havíem advertit que a l’inventari de 1412-1424 precisament mancaven les peces litúrgiques, aquesta llista – i una altra d’obres empenyorades el 142182 – mostren fins a quin punt les comandes, i potser les donacions, de la segona i tercera dècades del segle XV foren importants. L’elenc comença amb tres peces d’or que devien ser d’altíssim valor. En primer lloc es parla del peu d’una creu d’or «fet a forma d’esqueix de roca», amb calaveres i ossos, tot d’or fi esmaltat i amb un marcat realisme, ja que l’escrivà afegeix «sus lo natural»83. En segon terme es descriu una creu d’or – no es diu, però, que fes joc amb el peu anterior – amb l’anvers i el revers recoberts d’imatges del «procés de la vida e mort de Jesucrist, de Nostra Dona e dels Evangelistes e de diverses sants e santes», tot recobert d’esmalts de variats colors84. La tercera peça allistada és una escultura o imatge de l’arcàngel sant Miquel, «armat de armes de guerra», amb una figura de dimoni als peus. Sens dubte es tracta de la que pocs anys abans (1424) havien obrat dos argenters italians molt lligats a la cort d’Alfons: Guido Antoni i Joan de Pisa85, la qual cosa revela la capacitat d’aquests mestres per realitzar escul81. Tanmateix, l’any 1435 a Nàpols empenyorava un conjunt de joies, pedres i perles de gran valor. Cfr. F. Patroni Griffi, Banchieri e gioielli allà corte aragonese di Napoli, Napoli 1992, pp. 11, 76-77. 82. R. Conde, Orfebrería impignorada por Alfonso el Magnánimo en Nápoles en 1421, in «Aragón en la Edad Media», 16 (2000), pp. 185-195. 83. La base de l’anomenat «Calvari de Maties Corví» – que en realitat és el regal d’estrenes que féu Margarida de Flandes al seu espòs Felip l’Atrevit, duc de Borgonya, l’any 1403 – permet fer-nos una idea del peu d’aquesta creu. Mostra un promontori, fet precisament d’esqueixos de roca esmaltats, entre els quals es veu el crani d’Adam i altres ossos escampats, recoberts d’esmalt blanc opac. El Calvari es conserva a Esztergom i és considerat una obra mestra de la Goldemailplastik o émaux sur ronde-bosse d’or. Kovács, L’âge d’or cit., pp. 24-27. 84. Poc abans, l’any 1429, el rei havia encarregat a l’orfebre Guido Antoni un peu per a una creu d’or «novellament comprada per lo dit Senyor, de diversa obra de massoneria». Sanchis, La orfebrería valenciana cit., p. 47. 85. Tots dos, de procedència italiana, ostentaren la distinció d’«argenters de casa del senyor rei» i mostraren una gran versatilitat en realitzar objectes de tot tipus. Sanchis, La orfebrería valenciana cit., pp. 44-50; Domenge, Regalos suntuarios cit., p. 362. 160 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM tures amb el més preat i valuós dels metalls86. Però per les abundants descripcions que es tenen de l’obra, atès que sovint s’empenyorava, resta clar que es tractava d’una escultura d’or, amb les ales treballades amb opus punctorium o amb una tècnica similar, i amb un toc de color només a l’escut, esmaltat de blanc i amb la creu de rogicler87. Malgrat els empenyoraments, sembla que el rei tenia un afecte especial a la figura, de manera que l’any 1446 era redimida amb altres peces per tal que la reina Maria les pogués trametre a Nàpols88. Assenyalem que el culte a l’arcàngel viu un moment d’intensa expansió en l’àmbit de la cultura cavalleresca i nobiliària i que el sant Miquel d’or constitueix un testimoni precoç de la devoció d’Alfons a l’arcàngel, manifestada en altres accions, ben conegudes sobretot en l’etapa napolitana89. No és estrany, per tant, que volgués una sumptuària imatge de l’arcàngel per presidir la capella el dia de la seva festivitat o per altres celebracions, potser de caire més privat90. Aquesta gran venda de 1431 permet saber que la capella d’Alfons es podia ornamentar també amb un espectacular conjunt de divuit imatges argèntiques, la qual cosa mostra la passió del rei per l’escultura d’argent, 86. La intervenció dels dos mestres i l’elevat preu de la peça, 650 lliures, és certificat per dos pagaments que es fan el setembre de 1424. Cfr. García, La cort d’Alfons cit., p. 31. Poc després es remunerava un estoig i una caixa «per costodiar e reservar la ymaga de sant Miquel». ARV, MR, 8759, f. 107r. 87. No era, per tant, comparable als grands joyaux parisencs, recoberts en bona part amb esmalt blanc opac. Cfr. Domenge, Circulation d’objets cit., pp. 154-155. 88. La descripció que es fa de la figura l’any 1446 dóna una idea molt aproximada de com era: «Primerament, una ymatge d’aur, de diverses leys, figurada de l’archàngel Sant Miquel, armat, e té en la mà dreta una lansa e en l’altra mà un scut, enmig del qual ha hun smalt blanch, e sobre aquell una creu de rochicler. La qual ymatge ha dues ales fetes de diverses plomes, grans e poques, rexades ab borí lavorat del dit aur, ab una spasa del dit aur senyida al costat. E ab una ymatge de figura diversa de dimoni, lavorada en certa forma del dit aur, la qual lo dit archàngel té sota los peus, e pesa tot, a pes de Barchinona, XXIII marchs, VI onzes». ARV, MR, 9349, f. 25. 89. A part d’utilitzar la seva imatge com a emblema heràldic en la campanya militar de 1441 a 1443, Alfons manà que es col·loquessin representacions del sant en esglésies, banderes i mantes. Recordem que la capella que el rei promogué a Poblet és dedicada a la Mare de Déu i als sants Jordi i Miquel; que l’arcàngel corona l’arc del Castellnou i que Alfons oferia un gran convit als nobles del regne per la festivitat del sant. Els seus descendents també professaren una gran devoció al sant; Ferran dedicà l’orde de l’ermini precisament a sant Miquel. Cfr. N. Jaspert, Santos al Servicio de la Corona durante el reinado de Alfonso el Magnánimo (1419-1458), in XVI Congresso Internazionale cit., p. 1845; Barreto, La Majesté cit., p. 115; Vitale, Araldica cit., p. 58. 90. Una quarta peça d’or, descrita al final de llista, també deixava l’oratori del Magnànim per passar a mans de mercaders; era un dels dos díptics que sa mare li havia lliurat el 1426. Vegeu la nota 47. 161 JOAN DOMENGE MESQUIDA potser perquè era un mitjà eficaç per fer tangible la protecció dels sants a través de les imatges i sentir més propera la seva empara. La primera és una imatge de la Mare de Déu amb el Nen als braços91. Després es descriuen onze sants – tots apòstols, tret de sant Joan Baptista – amb els seus atributs i també es detalla la forma de les peanyes, tot especificant que portaven les armes d’Aragó i/o Sicília i en tres d’elles hi havia també la divisa reial “dels llibres”. Segurament algunes d’aquestes imatges havien estat realitzades a la segona dècada del segle, per orfebres de la confiança del rei, i almenys una se sap que provenia de la capella del seu pare92. Les de sant Simó i Judes eren obra d’un dels argenters del rei que ja hem esmentat, Joan de Pisa, que les havia fetes pocs anys abans (1428)93. El conjunt estatuari es completava amb tres parelles d’àngels al damunt de peanyes amb les armes d’Aragó i Sicília94. Amb aquesta venda també s’alienava una crossa episcopal d’argent «de diverses obres de maçoneria» – o sigui, de formes arquitectòniques –, decorada amb esmalts de diversos colors i pedres de poc valor95. Encara que no aparegui en aquest llistat, l’any se-güent (1432) el mercader Lluís Sirvent, actuant en nom del rei, 91. Tal vegada semblant a la que fou del seu pare Ferran, conservada a la catedral de Toledo, que porta les armes que utilitzava Ferran d’Antequera abans d’ésser rei d’Aragó. Cfr. Ysabel, la reina católica. Una mirada desde la catedral Primada, Toledo 2005 (cat. exp.), cat. 293. Un altre referent interessant és la Mare de Déu de la catedral de València que s’atribueix a B. Croylles i es data c. 1400-1435. El Renacimiento Mediterráneo, Madrid 2001 (cat. exp.), cat. 6. 92. Abans ja havien estat empenyorades el 1421 i el 1426, per bé que en el segon cas foren redimides aviat. La imatge del sant Joan Evangelista portava a la base «les armes del senyor rey don Ferrando com era infant de Castella», es diu en l’empenyorament del 1421. Cfr. Conde, Orfebrería impignorada cit. p. 191; García, Intercanvis culturals cit., p. 132. 93. Sanchis, La orfebrería valenciana cit., p. 49. Per als apòstols pot servir de referent un sant Pere de la catedral de València, encara que de cronologia més tardana (c. 1470). Cfr. Reliquias y relicarios en la expansión mediterránea de la Corona de Aragón. El Tesoro de la Catedral de Valencia, València 1998 (cat. exp. Nàpols 1998), cat. 16. 94. Dos vestits de sotsdiaca i amb un canelobre a les mans; altres dos amb perfumadors o encensers i el tercer parell amb un petit canelobre a la mà i abrigats amb «una manta» (mantell?). Per bé que es tinguin documentats altres àngels d’argent, n’han arribat ben pocs als nostres dies; la bella figura de l’àngel custodi de la catedral de Tortosa, obrada pels volts del 1450, pot donar una idea de com podien ser els del Magnànim. J. Domenge - J. Vidal, El tresor medieval de la Seu de Tortosa, in Història de les Terres de l’Ebre, V, Tortosa 2010, pp. 125-126. 95. En dies successius a l’adquisició de les figures i la crossa per part de Jaume de Casafranca, el mercader les revenia a diversos compradors. J. M. Madurell, Documents culturals medievals (1307-1485), in «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», 38 (1979-1982), docs. 101 ss. 162 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM venia la mitra pontifical de Benet XIII, amb el seu estoig, a diversos mercaders de Barcelona96. La peça, riquíssima, és descrita amb pèls i senyals, pedra a pedra. Amb una venda com aquesta la capella devia romandre pràcticament desvestida d’aquells ornaments que li donaven més dignitat quan es feien les solemnes celebracions. Segurament es reservaren les peces bàsiques, més funcionals, que eren imprescindibles per al culte; però durant un temps degué ésser difícil exhibir una litúrgia esplendorosa, com la que volia el rei, segons testimonis de l’etapa napolitana. També se’n ressentiren, i molt, la taula i el tinell reials, car la venda de vaixella d’or i argent també fou important. S’esmenten vuit peces d’or (copes, pitxers, gobells i un got) amb luxoses tapadores rematades amb poms o pinacles que destacaven per les seves formes (de testa, de flor de carxofa, de gla, etc.). Portaven també balaixos, safirs, perles i esmalts, bé amb les armes reials, bé amb motius figuratius que podien ser religiosos – els quatre doctors i els quatre evangelistes en un pitxer; la figura de Déu Pare en un got – o profans, com la decoració d’un petit gobell «esmaltat dels nou Prous e de les set Deesses», personificacions dels ideals de la cavalleria, molt grates a la cultura cortesana del gòtic, que solien representar-se en cicles de pintura mural i tapisseries. Per als argenters devia ser tot un repte caracteritzar adequadament els herois i les deesses en petits esmalts, per a obres tan exquisides com aquestes peces de vaixella. És difícil proposar referents visuals per a les peces de vaixella d’Alfons (Figg. 17-18); l’obra profana ha patit encara més que la religiosa, de manera que els testimonis servats són realment escassos. Fora del nostre àmbit cultural, i de cronologia lleugerament més tardana, algunes produccions borgonyones poden ajudar a fer-nos la idea de com podien ser algunes de les peces més selectes de la taula del Magnànim97. Després de les peces d’or s’allisten les d’argent98 en les quals manquen les pedres fines 96. Per als documents de la mitra, cfr. M. Mitjà, Aventuras de unas joyas en el transcurso de los años 1432-1447, in «Arte Español», 35 (1963-1967), pp. 163-170; Madurell, Documents cit., docs. 108 i 110. 97. Splendeurs de la Cour de Bourgogne. Charles le Téméraire (1433-1477), Bruxelles 2008 (cat. exp.), cat. 12, 106 ss. Un bon recull iconogràfic d’objectes de taula representats en miniatures es troba a: À la table des seigneurs, des moines et des paysans au Moyen Âge, Tours 2011 (Fig. 18). 98. Per bé que es faci només amb 15 entrades, en realitat es compten 64 peces que també deixaren el rebost o el tinell reials per passar a mans dels creditors. Són jocs o parells de flascons, ampolles, bacins d’aiguamans, pitxers, un adreç de 12 plats cairats d’argent “ab imatges a l’entorn” i un altre joc de 10 plats i 10 escudelles amb les vores daurades, marcat amb el punxó de València. 163 JOAN DOMENGE MESQUIDA i perles; la decoració també sembla més austera, car només es fa referència a esmalts heràldics, motius florals i lletres. Se’n demarca un gobell cobertorat amb tres homes salvatges al peu, portant estendards, i un quart que rematava el pinacle de la tapadora. Sense descartar que algunes peces de vaixella fossin encàrrecs del propi rei, cal tenir present que moltes obres arribaren a mans del monarca com a regals que les ciutats li feren, d’acord amb uns hàbits i costums ben documentats de temps enrere. 6. L’entrada triomfal a Nàpols: un vencedor “sense corona” La venda d’aquestes peces de la capella i de la vaixella reials no fou en va, sinó que va donar el seu fruit: Alfons guanyà el regne de Nàpols i ho volgué festejar amb una sonada entrada triomfal el 26 de febrer de 1443. La celebració fou prou impactant perquè molts testimonis deixessin per escrit el que veieren o el que sentiren contar. Personatges propers a la cort, com Facio i Beccadelli, també en perpetuaren el record99. A més d’una gran quantitat d’escrits en diverses llengües, el més excepcional és que es conservin diversos testimonis figuratius100. Relats i imatges presenten coincidències, però també matisos i divergències, fruit dels interessos en joc que condicionen cadascun dels relators o dels artistes, i que poden desenfocar la visió de la realitat. Sigui com sigui, contrastant la informació d’aquestes diverses fonts es pot tenir una idea d’allò que es va veure a Nàpols aquell 26 de febrer. Els múltiples aspectes i registres d’aquest espectacle, gairebé teatral, carregat d’ideologia i política, són impossibles de sintetitzar; ens limitarem, per tant, a comentar alguns detalls de la imatge que Alfons volgué donar en aquella diada, tot prioritzant les fonts figuratives. Per bé que desfilessin alguns vistosos entremesos, el centre d’interès era el carro del rei. En les representacions “oficials” del triomf101 assoleix una 99. La celebració ha estat molt comentada. Dues contribucions recents poden servir per a una síntesi de consideracions fetes al voltant de l’esdeveniment i com a referent bibliogràfic sobre el tema. A. Iacono, Il trionfo di Alfonso d’Aragona tra memoria classica e propaganda di corte, in «Rassegna Storica Salernitana», 26/1 (2009), pp. 9-56; F. Delle Donne, Il trionfo, l’incoronazione mancata, la celebrazione letteraria: i paradigmi della propaganda di Alfonso il Magnanimo, in «Archivio Storico Italiano», 169 (2011), pp. 447-476. 100. G. Alisio et. al., Arte e política tra Napoli e Firenze. Un cassone per il trionfo di Alfonso d’Aragona, Modena 2006, pp. 36-37; Domenge, La gran sala cit., pp. 296301; Barreto, La Majesté cit., pp. 72-75. 101. Com el conegut relleu de l’arc del Castellnou i el de la porta que comunicava la Sala dei Baroni amb les estances reials, tan malmès per l’incendi del 1919 que resulta pràcticament il·legible. 164 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM importància cabdal i deixa reduït al mínim la resta de la comitiva; en una miniatura del còdex Vallardi, no hi ha lloc per a res més102 (Fig. 19). En canvi, en un cassone nupcial té una presència més aviat discreta, al final de la processó. Tots els cronistes destaquen la magnificència del carro reial: daurat, gran, alt, bell, són adjectius que es repeteixen en les descripcions103. L’estiraven quatre cavalls blancs, ricament guarnits. És probable que els organitzadors de la desfilada sabessin que els antics emperadors romans entraven en quadriga, i que els escultors i pintors del triomf alfonsí es deixessin guiar pels models antics que els serviren de font d’inspiració. Al damunt del carro hi havia una cadira curul coberta de draps brocats d’or i coixins del mateix teixit; un per al peus, especifica Vinyes a la seva carta (Fig. 20). Els homes principals de la ciutat estengueren damunt del vencedor un pali de brocat d’or amb 22 bordons que havia costat, segons el mateix autor, 1.400 ducats104. Per bé que de manera simplificada, el relleu de l’arc permet verificar les indicacions textuals: el pali hi és representat amb la seva decoració heràldica i s’hi veuen el tipus de cadira, les textures dels teixits, els coixins que donaven dignitat i comoditat al rei, etc. Els cronistes no s’oblidaren de descriure l’aspecte que presentava el nou sobirà. Anava «vestit de huna roba de carmesí folrada de marths gebelins», com bé ho certifica un pagament de la tresoreria reial105. Un aspecte que va cridar molt l’atenció i que queda ben reflectit en les representacions oficials de la cerimònia és el fet que Alfons anés amb el cap descobert i no portés corona; tots els cronistes se’n fan ressò i els més propers al rei raonen i justifiquen aquest gest106. Però els mestres que pintaren l’es102. Lorenzo Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum: Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. Lat., 1565, f. 123. 103. Una crònica napolitana del segle XVI parla d’un carro de fusta recoberta d’or, de blau i altre colors fins, amb 4 rodes que semblaven d’or massís. Cfr. Iacono, Il trionfo cit., p. 22, n. 34. 104. Madurell, Mensajeros cit., pp. 217-219. 105. Miralles, Crònica i dietari cit., p. 203. Concretament es paguen «XXXVI, marts communs calabresos…, són stats mesos en la forradura de la roba larga de vellut carmesí que lo dit Senyor vestí com entrà en la ciutad de Nàpols, la jornada del Triumpho». L. Montalto, La corte di Alfonso I di Aragona. Vesti e gale, Napoli 1922, p. 10. 106. Beccadelli diu: «Levava… la cabeça descubierta. Aunque muchos grandes y sabios se lo porfiaron, nunca consintió que le pusiessen en la cabeça corona de laurel, assí como los triunfadores solían levarla. Creo que su intención fue pensar como católico y devoto, que la corona y señal de victoria era honra devida a sólo Dios, que la dava, y no a hombre ninguno mortal». Edición facsímil de la obra de Antonio Beccadelli: Libro de los dichos y hechos elegantes y graciosos del sabio rey Don Alonso de Aragón, cur. A. Montaner, Saragossa 1997, ff. 117-118 (es tracta d’un facsímil de la traducció castellana de Juan de Molina, impresa a Saragossa el 1552, que conté el relat de El triumpho 165 JOAN DOMENGE MESQUIDA deveniment sembla que actuaren amb llibertat. L’il·lustrador de les Gesta el representa amb una corona de difícil tipologia precisa d’escatir i precisar107 (Fig. 19). En un relleu circular amb el perfil del divus Alfons, el rei apareix amb la corona dels raigs solars108 (Fig. 21). Els assessors d’Alfons podien conèixer aquest tipus de corona a través de les medalles d’August o a partir de representacions del Deus sol invictus, com les que proliferaren a partir d’Aurelià i Constantí. Igualment, els models antics que tingueren a mà els artífexs pogueren induir-los a representar aquest tipus d’insígnia. En canvi, el pintor del cassone adapta la tradicional corona de florons al damunt d’una prominent garlanda o xapellet (Fig. 22). Encara que en els textos no se’n parli – o no s’hi posi un accent especial – és probable que Alfons portés els altres dos atributs de la dignitat reial, el pom i el ceptre; almenys escultors i pintors els representen. Al relleu de l’arc, el rei aguanta un gran pom amb la mà esquerra i és possible que dugués un ceptre a la mutilada mà dreta109. Només la fantasiosa crònica napolitana “retrata” el sobirà amb tots aquests atributs i amb altres joies. Parla d’un riquíssim fermall en forma de rosa voltada de robins «que valia un regne» i d’un collar amb un penjoll en forma d’ermini, acompanyat d’un mot. Però aquí l’ignot cronista es confon amb el que després seria la insígnia de l’ordre de l’Ermelino fundada per Ferran de Nàpols l’any 1465110. El gran collar que porta el vencedor en el relleu del Castellnou no és altre que el de les gerres i el griu (Fig. 23). No sabem si realment el duia el dia de la celebració, ja que cap dels cronistes no hi fa esment, però quan es va esculpir l’arc, ell o els seus assessors degueren creure convenient incorporar l’empresa del pare al retrat, no sols pel seu valor dinàstic, sinó també perquè Alfons revitalitzà aquesta societat i concedí la divisa a molts cavallers. Al cap i a la fi, malgrat l’abundància de testimonis, textuals i figuratius, no acabem de saber realment quina fou la imatge d’Alfons, ni com es del Rey). Facio, d’una manera més resumida, ve a dir el mateix. Cfr. B. Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, ed. D. Pietragalla, Alessandria 2004, p. 310. 107. La mida diminuta de la corona, així com la juxtaposició dels colors del dosser (or i vermell), fan difícil assegurar quin tipus de corona volgué representar l’i·lustrador. En tot cas, si era aquella de florons, aquests tenen una presència més discreta que en les corones que Pisanello traçà per a la realització de medalles. Agraeixo la disponibilitat de la Dott.ssa. L. Giachino, que ha intentat esbrinar la tipologia de la corona a partir de la miniatura original. 108. «Alfonso vi è raffigurato come un eroe dell’antichità, con corazza e diadema ad otto punte». Pane, Il Rinascimento cit., vol. I, p. 131, fig. 98. 109. A la miniatura també porta ceptre i al cassone ambdós atributs, representats de manera molt sòbria. 110. Sobre l’orde i els seus estatuts, cfr. Vitale, Araldica cit. 166 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM volgué presentar al napolitans en aquella cèlebre diada111. Si fem cas als cronistes més fidels al sobirà, sembla que fou una imatge austera o continguda, sobretot pel gest simbòlic d’evitar la corona. Però si ens refiem d’altres cròniques i de les representacions figuratives, hom té la impressió que el monarca vencedor no volgué prescindir d’atributs i ornaments que li atorgaven una dignitat i magnificència especials. 7. Un magnífic tresor que superava el dels sobirans del seu temps Conquerit el regne de Nàpols, es torna a activar de valent el consum sumptuari. El resum de les cèdules de la tresoreria112 i els documents servats en arxius catalans evidencien que Alfons no cessà d’encarregar i comprar, tant arreus de capella i vaixella, com joies per al guarniment personal i pedres precioses de gran valor. Els documents també ens fan avinents els noms dels orfebres, italians i catalans, que estigueren al seu servei, així com els d’alguns marxants de procedències diverses que seduïren el sobirà amb esplèndides obres. És probable que Alfons pogués recuperar algunes peces de la capella venudes per a la campanya bèl·lica; fins i tot, no va deixar de fer encàrrecs durant els anys difícils. Precisament el 1437 demanava a l’argenter Bernat Llopart que s’afanyés a enllestir certes obres «com molt desigem haver les coses que’ns ha obrades per ornament de nostra capella»113. Després de la victòria, l’interès per disposar d’un aixovar litúrgic renovat es concreta en comandes constants als seus orfebres de confiança114 i amb 111. J. V. García, La cort d’Alfons cit., p. 42, comenta que, poc abans de l’entrada triomfal, Alfons procurà redimir les joies que tenia empenyorades «car ja a penes no basta temps per al que volem fer de les dites joyes». Però si la data de les lletres on s’expressa aquest desig és correcte (setembre del 1443), el triomf ja s’havia celebrat i les joies se sol·licitarien per a altres usos. 112. Realitzats, abans que es perdés la documentació original, per C. Minieri, Alcuni fatti di Alfonso d’Aragona dal 15 aprile 1437 al 31 maggio 1458, in «Archivio Storico per le Provincie Napoletane», 6 (1881), pp. 1-36, 231-258, 411-461. 113. Madurell, Documents culturals cit., doc. 126. Sobre la trajectòria d’aquest argenter, vegeu el recull de notícies documentals a: Dalmases, Orfebreria cit., II, pp. 88-91. 114. A tall d’exemple, Paolo di Roma realitza un portapau, dos canelobres i dues ampolletes (1441-1442) i Pietro Torralba un servei eucarístic (calze i patena) descrit amb tot detall (1443), encara que no sabem si era per a la capella pròpia o per a alguna ofrena reial (Minieri, Alcuni fatti cit., pp. 28, 31, 238). Anys després, el català Berenguer Palau s’encarrega d’adobar i d’afegir pedres i perles a una mitra (1453) i de realitzar dues naus d’argent que el rei volia oferir, com a ex-vots, a les esglésies de l’Annunziata i de Sant Antoni de Nàpols (1456). Ibid., pp. 423 i 443. Probablement per error, en el primer cas Minieri parla de Bernardo Palau i no de Berenguer. L’argenter degué retornar després a Catalunya, car el 1457 Alfons volia que es desplacés a Nàpols per a la realització d’algunes obres d’or i argent que li eren necessàries 167 JOAN DOMENGE MESQUIDA alguna selecta compra, com un bell reliquiari en forma de sepulcre o monument, tot guarnit de balaixos, safirs i altres pedres fines115. Giovanni Pontano, en fer memòria de la pompa i solemnitat de les celebracions sacres, lloa la quantitat d’imatges que hi havia a la capella reial, especialment un conjunt dels dotze apòstols116; és difícil dir si el rei havia recomprat les figures que vengué el 1431 o n’havia encarregat de noves, un cop recuperades la pau i l’estabilitat. En tot cas, el gust del sobirà per les escultures d’argent es confirma altre cop l’any 1449, amb el pagament de més de 900 lliures al «feel argenter» Bernat Llopart per tres imatges dels sants Mateu, Felip i Macià. Sis anys després, el rei encara tenia negocis amb aquest mestre que tant admirava, per bé que les lletres conservades semblen indicar tibantors entre el client i l’artífex, motivades per la demora de Llopart a complir amb els encàrrecs reials. El 1455 estava obrant les figures de sant Macià i de l’àngel custodi; pareix que hi hagué l’intent de treure-les-hi de les mans, car el rei ja tenia un sant Macià – obrat pel mateix Llopart uns anys abans – i confiava poder delegar la realització de l’àngel custodi a algun orfebre napolità. Però les dificultats de Llopart per restituir el que se li havia avançat degué obligar a replantejar la decisió: «Atès que les imatges són molt avançades… que s’acabin ab tota perfecció», mana el rei. Però ara, que no es parla d’un sant Macià sinó d’un sant Bernabé, Alfons formula una curiosa exigència, ben representativa del seu tarannà enginyós i pragmàtic. Ordena que sant Bernabé sigui convertit en sant Lluc evangelista i, endemés, que el símbol evangèlic (el bou) pugui ser reemplaçat pel lleó de sant Marc quan s’escaigui, de manera que la figura serveixi per a ambdós evangelistes117. Un altre orfe(Madurell, Documents culturals cit., docs. 150-152). Poc després de la mort del sobirà, Palau torna a ser a Barcelona. Sobre la seva obra documentada, cfr. Dalmases, Orfebreria cit., II, pp. 112-115. 115. Es va comprar el 1456, però no es diu qui fou el venedor. Minieri, Alcuni fatti cit., p. 453. 116. Pontano, I trattati cit., p. 107. Beccadelli, Dels fets cit., p. 253, insisteix també en luxe dels ormeigs litúrgics: «[...] en los apparells per al servir de Déu, era tanta la sua esplendor, que jamés fon rey qui ab tan riques i tan brocades i tan ponposes vestidures honràs lo servey e lo sacrifici divinal. Car de hor, de argent, de perles, de margarites de pedres, tot resplendeix; tot és brodat quant per al mester del sacrifici s’aparella». 117. Madurell, Documents culturals cit., docs. 132, 141-149. Lletres com aquestes resulten de gran interès per entreveure singulars processos de comanda artística, estires i arronses entre promotors i mestres, així com les vicissituds d’algunes obres. Sobre “l’ús polític” de les imatges religioses per part del rei, cfr. S. Romano, Alfonso d’Aragona e Napoli, in “Napoli è tutto il mondo”. Neapolitan art and culture from humanism to the Enlightenment, cur. L. Pestilli et al., Pisa-Roma 2008, pp. 37-55. 168 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM bre català de renom, Francesc Artau o Ortal, a Nàpols estant, també contribuí a completar aquest conjunt de sacres figures amb l’obratge d’un sant Gregori (1453)118. No sabem si la «imatge de sant Joan, tota d’or e de belle figura» que el mercader Jaume Alemany tenia venal per 500 ducats va acabar, finalment, a l’oratori reial d’Alfons119. La capella també es beneficiava d’escollits regals, com els que els consellers de la ciutat de Barcelona decidiren fer-li de manera gens desinteressada, tot sigui dit. L’any 1451 el volgueren agraciar – i persuadir perquè vingués prest a visitar els seus regnes – amb dues peces excepcionals: una imatge d’or de santa Eulàlia, patrona de la ciutat, i «una bella e gran concha d’argent» que pogués servir de banyera, gallonada i amb les divises del rei, «ço és, los mills, libres e sitis perillosos». Els documents sobre aquestes peces són abundants i excepcionals120; ara només recordarem la bona rebuda dels regals per part del sobirà, tot deixant que siguin les mateixes lletres les qui ens ho relatin. A començament del 1452 les obres «eren ab bon salvament arribades» a Nàpols, la qual cosa fou motiu de satisfacció per part del monarca, atesa la proximitat de la festa de santa Eulàlia, el 12 de febrer. Al Castellnou tot es va preparar «per veure e acceptar lo present», fent mans i mànegues perquè ningú ho veiés abans del rei. Finalment, acompanyat pels ambaixadors de Catalunya i atra gent notable es féu la cerimonial ofrena; es comenta que primer va voler veure la santa. «De la gran contentació e pler que lo dit senyor ha hagut del dit present no es poria descriure». Les alabances del rei i del seus curial foren unànimes: «Fonch aquí dit que lo present era magníffic e molt bé obrat, e que paria que Barchinona ho tremetia». La imatge de santa Eulàlia pogué lluir tres dies després en la solemne celebració de la festivitat de la patrona barcelonina, més esplendorosa que la de Nadal, es diu. S’estrenaren nous draps de ras, acabats d’arribar de Flandes, i sobre l’altar es disposà un entarimat amb graons on, per voler del rei, destacava a dalt de tot la imatge d’or de santa Eulàlia, acompanyada per «tots los apòstols e 118. Minieri, Alcuni fatti cit., p. 428. L’activitat del mestre es documenta entre 1426 i 1460. Cfr. Dalmases, Orfebreria cit., II, pp. 25-27. El seu sojorn a Nàpols va ser, com a molt, del 1453 al 1455. 119. Sembla que el rei no estava disposat a pagar aquesta quantitat i Beccadelli, arran de la feta, posa en boca del sobirà la dita: “No ets tu groser ni desembles a la natura de tos besavis venent tan cara la ymatge del dexeble, pux tos antecesós, per trenta dinés veneren la del Mestre”. Beccadelli, Dels fets cit., p. 123. 120. Permeten conèixer tot el procés: des de la decisió dels consellers fins a l’agraïment del rei pels regals rebuts. Per a un comentari més detallat i per a les referències bibliogràfiques pertinents vegeu: Domenge, Las joyas emblemáticas cit., pp. 105-107. 169 JOAN DOMENGE MESQUIDA àngels, e altres joyells que lo dit senyor per arreament de la sua capella té». Alfons romangué «molt pus content de la visió de la dita ymatge», més que uns dies abans quan la va rebre, i va confessar als missatgers barcelonins que «feya vergonya a totes les altres imatges, tant era bella e soberga», o sigui, eclipsava la resta de les figures. L’èxtasi dels assistents davant de la santa Eulàlia fou quelcom miraculós, car «tots qui la miraven enamoraven e pur lo dit Senyor nuncha ne partia los ulls». En la lletra d’agraïment, el rei no sols destaca que cada obra és «en sa spècia de singular perfecció e bellesa», sinó que en destaca la dignitat, la qual cosa contribueix a dignificar tant el qui rep el regal (el rei) com els qui l’han ofert: els consellers barcelonins, en representació de la ciutat. És exactament la mateixa idea que Giovanni Pontano expressa en el seu tractat De magnificentia: «Principio munera ipsa et dante et accipiente digna esse debent»121. El capellà d’Alfons, M. Miralles, parla en el seu dietari de les solemnitats i els honors que el rei féu a l’emperador Frederic III i a la seva esposa Elionor de Portugal – neboda d’Alfons – quan visitaren Nàpols l’any 1452 (Fig. 25). L’endemà de Pasqua, «foren fetes moltes magnificències, e fon parat lo gran tinel, ab molt gran multidut (sic) de vexella d’or e d’argent». Dos dies després els oferia un altre gran tiberi en una devesa als afores de Nàpols, a l’aire lliure, amb tendes molt belles parades per a l’ocasió; en les taules no minvaven mai les vitualles i en dues fonts hi rajava vi blanc i vermell «hon anaven nadant per les dites fonts copes, taces, anaps e gots, tots d’argent»; també fou parat «hun gran tinel, e molt alt, a totes parts cubert de noble vexella e bella, d’or e d’argent»122. No ha de sorprendre, doncs, que per poder ostentar veritables tresors d’orfebreria de taula com aquests, davant d’uns visitants tan honorables, Alfons hagués de recuperar peces empenyorades o realitzar nous encàrrecs i compres123. Precisament, els grans dispendis sumptuaris del final del seu regnat semblen ser per a sofisticades peces de vaixella, com les que compra a un marxant francès resident a Nàpols, Guillaume le Mason, a la darreria del 121. Pontano, I trattati cit., p. 117. 122. Miralles, Crònica i dietari cit., pp. 211-212. Facio, Rerum gestarum cit., pp. 462, 464, també parla d’aquesta sortida campestre, fa memòria del meravellós tinell i esmenta que, abans de deixar Nàpols, el rei els féu grans dons, sense detallar-los: datis ei atque Heleonorae amplissimus muneribus. Beccadelli, Dels fets cit., p. 259, ho narra de manera concisa i conclou, clar i llampant, “que may tan triada ni sumptuosa spesa rey per altre rey se lig ni scriu ni·s trova aver fet”. 123. Pontano, I trattati cit., p. 130, recorda també els atuells de metalls nobles i l’esplendor dels convits: «Rex Alfonsus et cados et dolia et situlas ex argento habuit, crateres etiam ex auro, toralia et mappas e tela conquisitissima. Itaque eius mensis nihil splendidius; nam de coetero apparatu post dicemus». 170 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 1455: tres salers d’or, no sols enriquits amb diamants, robins i perles, sinó també amb capricioses imatges – en un cas, figures d’homenets i d’animals; en un altre, un elefant esmaltat de blanc –; per fer-se’ls seus, hagué de desemborsar uns 12.000 ducats. Alfons en pagà altres 2.200 al mateix marxant per dos vasos de cristall amb muntures d’or i pedres precioses124. En els darrers anys del regnat, el sobirà sembla perseguir aquests objectes d’altíssims preus, més que no pas interessar-se per la vaixella d’argent de caràcter més utilitari125. La recerca d’allò més nou, diferent i singular també es posa de manifest l’any 1450 quan envia tres missatgers a Flandes a comprar paraments tèxtils per a la cambra i els comana que mirin de trobar «càntares o altres vexells d’argent de stranya fayçó» per a ornament del tinell reial126. Bartolomeo Facio, a part de lloar les excel·lents vaixelles, recorda un altre episodi que s’esdevingué durant la visita i la recepció imperials, fetes amb reial sumptuositat i pompa. Després del convit, Alfons conduí l’emperador a una zona més privada del palau i, una a una, li mostrà les nombroses perles i gemmes – de diversos tipus i de gran valor – que tenia entre els seus tresors127. Les despeses sumptuàries ratifiquen que els orfebres més sol·licitats de la cort, bé de Nàpols, bé de Barcelona i València, continuaven rebent comandes i que s’efectuaven compres importants als marxants. El seu desig de controlar personalment les obres era tan gran que demanava a l’orfebre Joan de Pisa fer «en sculptura de fust, un patró de cert joiell» que Francesc Pujol havia de portar a Nàpols per tal que ell directament el pogués escrutar128. El que realment crida l’atenció és la comanda de collars emblemàtics – o senzillament de gerretes – per distribuir a personalitats eminents, mem124. El valor d’aquests objectes d’or, amb gemmes i perles, no es pot comparar, per exemple, amb el d’una copa d’argent que li va vendre un mercader alemany, Ren Prechit di Nicola, per poc més de 332 ducats. Minieri, Alcuni fatti cit., pp. 434, 439442. Cfr. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 425. Segons aquest autor, el cognom del marxant alemany és Becket. Hem esmentat abans que les mostres conservades de “vaixella d’or” són realment escasses. Vegeu la nota 96. 125. Se sap que Guido Antoni obrava l’any 1455, a part de moltes altres peces de joieria, «un bacile, due bicchieri, una zuccariera, una caffettiera e sei tazze di argento bianco, dorate le tazze negli orli e nei fondi». Minieri, Alcuni fatti cit., p. 436. Segons E. i C. Catello, Guido procedia d’una família de mestres sienesos, treballà molt per a seca establerta a Gaeta i fou l’orfebre predilecte d’Alfons. E. Catello - C. Catello, L’oreficeria a Napoli nel XV secolo, Nàpols 1975, p. 117; Patroni, Banchieri cit., p. 51. 126. García, La cort d’Alfons cit., p. 37. Vegeu la nota 23. 127. «…qua magnificentia cunctos sui temporis reges antecessit, singillatim ostendit», afegeix el comentarista. Facio, Rerum gestarum cit., p. 460. 128. García, La cort d’Alfons cit., p. 36. 171 JOAN DOMENGE MESQUIDA bres de la cort i visitants il·lustres. Cal recordar que el 1446-1447 el duc de Borgonya i el rei Alfons s’intercanviaren llurs divises; en un bust conservat a Viena el rei porta un soberg collar de l’orde del Toisó d’or129 (Fig. 24) i en un lletra del 1447, Felip el Bo comunica a Alfons que ha rebut «amprisiam suam, stole et ydrie, sive jarre… ad presens una cum capitulis, monili, sive collari aureo ipsarum ydriarum, aut jarrarum, aut grifone pendente, ac fascia, sive stola alba, iuxta capitula dicte amprisie…»130. Si bé la documentació no ha revelat l’obratge d’aquestes insígnies enviades al duc, sí que evidencia que l’any 1451 l’orfebre Francesco Antignano di Capua era remunerat per un collar de les gerres i Guido Antonio rebia 1.500 ducats per altres quatre collars d’or131. Els comptes permeten suposar que els collars es lliuraven conjuntament amb l’altre distintiu de l’orde, l’estola blanca132. Tot sembla indicar que, per raons polítiques, diplomàtiques o personals, el rei vivifica l’orde paterna de la gerra i el griu, lliurant-ne les insígnies a moltes persones de l’entorn curial, segurament amb el propòsit de fidelitzar-les o de reconèixer, amb elements carregats de simbolisme, els serveis i suports rebuts133. Aquest seria el cas del cavaller Joan Sabastida; en la seva efígie funerària llueix un imponent collar amb les gerres que s’alternen amb flors – com en un dels collars documentats del jove Alfons – i un griu immens que penja d’una cadena (Fig. 26). Les mostres d’afecte i valoració d’Alfons i Maria pels serveis que Sabastida els havia prestat són diverses, com també ho són les recompenses en càrrecs i “privilegis”. La condecoració cavalleresca del collar de les gerres i el griu no seria més que l’expressió simbòlica de la gratitud i reconeixement reials.134 129. Catello-Catello, L’oreficeria cit. 130. Mira-Delva, A la búsqueda cit., pp. 459-460. 131. L’any 1455 en fabricava cinc més per a patges de la cort i altres cavallers. L’activitat de Guido Antoni sembla realment frenètica durant aquest any, car rep comandes de joiells de tota casta. Minieri, Alcuni fatti cit., pp. 435-437. 132. Diverses representacions pictòriques mostren cavallers de l’orde amb l’estola i un fermall en forma de gerreta; per exemple Heinrich Blarer (Lightbown, Mediaeval cit., p. 272) o G. F. Capodilista, en aquest cas, en combinació amb la divisa imperial del dragó. Cfr. Sigismundus rex et imperator, Mainz 2006 (cat. exp.), pp. 344-345. També és oportú recordar que V. da Bisticci recull l’anècdota comentada a la cúria romana de què Frederic III entrà a Nàpols com a emperador i en sortí com a cavaller de l’estola (Fig. 25). Cfr. Vitale, Araldica cit., pp. 39-40. 133. L’empresa sobreviu a la mort del sobirà, malgrat la creació de l’ordre de l’ermini per part del seu successor Ferran, el qual es va servir de la “vella” divisa per mostrar la pertinença de la dinastia napolitana a la història i tradició dels Trastàmares. Cfr. Vitale, Araldica cit., p. 50 134. Per a la carrera comercial i política de Sabastida, cfr. M. Del Treppo, Els mercaders catalans i l’expansió de la corona catalano-aragonesa al segle XV, Barcelona 1976, 172 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM Juntament amb els marxants que venien vaixella de luxe, els mercanti di preziosi genovesos també es campaven prou bé a la cort de Nàpols. L’any 1456, Simone Calder seduí Alfons amb dos balaixos encastats en muntures d’or fi, valorats en 1.800 ducats, i Alacchese Spinola – un home de negocis hàbil i de refinada cultura – li va vendre per 3.000 ducats un bell diamant135. En realitat, no era la primera vegada que Spinola mercadejava amb Alfons; tres anys abans havia venut una joia tan bella al rei, que ho considerava un regal més que no pas una compra136. Gràcies a les cartes que l’humanista genovès G. Bracelli escrivia a Spinola, per adreçar-les al rei de Nàpols, se sap que després de la venda del diamant, li oferí un extraordinari balaix del qual cantava alabances: «Color enim ex rupe, ut aiunt veteri, iocundum quendam fulgorem ita emittit, ut sine incredibili quadam voluptate oculus eum contemplari non possit». Tanmateix, la gemma s’escapà de les mans del mercader, el qual amb astúcia sabé captivar novament la curiositat del príncep amb una altra raresa: uns braçalets que havien pertangut a una reina de Granada137. No sabem si acabaren a la cambra d’Alfons, però l’oferiment de Spinola permet sospitar que el rei no sols es movia per peces de gran preu, sinó per objectes rars i peculiars que enriquien un nodrit tresor custodiat a la torre nomenada – no casualment – dell’oro. *** Dèiem, en començar, que Facio es desfà en elogis cap a Alfons, situa el seu tresor per damunt del que posseïren altres reis del seu temps i descopp. 517-528 i N. Coll Julià, Nova identificació de l'escriptor i poeta Romeu Llull, in «Estudios Históricos y Documentos de los Archivos de Protocolos» 5 (1977), pp. 278-279. El monument funerari – molt ben documentat en la comptabilitat de la seva vídua, Caterina Llull, c. 1472 – era destinat a la capella familiar de la catedral de Siracusa i es conserva, actualment, a la Galleria Nazionale di Palazzo Bellomo. Cfr. Matteo Carnilivari / Pere Compte, 1506-2005, Palermo 2006 (cat. exp.), pp. 200-201. 135. Minieri, Alcuni fatti cit., pp. 451-452. 136. Com a agraïment, va concedir a Spinola el privilegi de posar les armes reials a la porta d’una casa que estava construint a Gènova. Cfr. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 424; García, La cort d’Alfons cit., p. 40. El nom del mercader varia segons les fonts: Alacchese, Lucchesi, Eliano. 137. Spinola recomanava que en lloc de substituir les dues perles que portaven, es mantinguessin les originals affinchè avesse l’ornamento muliebre quale veramente, nella sua origine. Cfr. C. Braggio, Giacomo Bracelli e l’umanesimo dei liguri del suo tempo, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», 23 (1890), pp. 72-73; G. Petti Balbi, Circolazione mercantile e arti suntuarie a Genova tra XIII e XV secolo, in Tessuti, oreficerie, miniature in Liguria XIII-XV secolo, Bordighera 1999, pp. 45-46. 173 JOAN DOMENGE MESQUIDA breix el delit del rei a mostrar les riqueses als il·lustres visitants de la cort de Nàpols. Per la seva banda, G. Pontano gosa comparar-lo amb un personatge mític per les seves col·leccions d’objectes sumptuaris, pedres i perles, com fou el duc de Berry. Pocs anys després, Tristano Caracciolo reincideix en què superà els prínceps del seu temps en l’arreplegada de gemmes i perles138. La historiografia recent, basada en aquestes visions, però també en la documentació d’arxiu, confirma l’encís que Alfons tingué per les joies durant tota la seva vida i les sumes prohibitives que estava disposat a pagar a l’hora d’adquirir un joiell o una pedra d’especial bellesa139. També ens demanàvem si els comentaris dels seus panegiristes eren exagerats. El cert és que, malgrat totes les peces trasmudades, empenyorades, venudes o foses, el tresor d’Alfons, en els darrers anys de vida, devia ésser espectacular. Si bé no tenim un inventari – com el de la seva joventut – que permeti confirmar-ho, les compres i encàrrecs documentats són prou eloqüents. Tanmateix, cal assenyalar que els “seus” humanistes el volgueren presentar com un model d’equilibri, piadós, i alhora amant de les belleses i de les riqueses; per això incidiren constantment en la seva gran devoció, sobreposant-la a altres aspectes de la personalitat reial, segons un ideal d’home virtuós ben recurrent en el seu temps140. Igualment volgueren perfilar una imatge de sobrietat – «en lo vestir de sa real presona (sic) fos molt moderat hi poc husàs luxurioses vestidures», diu Beccadelli141 – difícil de creure, si fem cas als dispendis que va fer en robes caríssimes i diligentment ornamentades. Cal constatar, però, que els bustos d’Alfons esculpits durant l’etapa napolitana – potser per fidelitat als cànons estètics i simbòlics del moment – el presenten més aviat amb austeritat i contenció, lluny de la imatge opulenta i enfarfegada que hauria pogut donar amb les joies i ornaments que posseí. Fos com fos, el repàs al seu consum sumptuari reflecteix una inclinació inequívoca a la fastuositat i unes inversions quantioses en objectes d’altís138. «Gemmas, margaritas, carbunculos, ceteraque id genus pretiosa enumerare vanum esset, cum constet iis rebus reliquos suae tempestatis anteisse principes». T. Caracciolo, De varietate fortunae (1509). Cfr. A. Ryder, El reino de Nápoles en la época de Alfonso el Magnánimo, València 2008 (ed. orig. Oxford 1976), p. 96. 139. Ryder, Alfonso el Magnánimo cit., p. 424; García, La cort d’Alfons cit., p. 40. 140. Segons Vespasiano da Bisticci, Alfons llegia freqüentment les Sagrades Escriptures, feia tot allò que pertany al bon cristià, era piadosíssim envers els pobres, religiosíssim en escoltar tres misses per dia, molt diligent en totes les coses relatives al culte diví, i un llarg etcètera. En definitiva, «faceva assai di questi atti piatosi et vôlti alla religione, che tutti erano di buon exemplo». Vespasiano da Bisticci, Le vite, ed. A. Greco, Firenze 1970, I, pp. 83-88. 141. Beccadelli, Dels fets cit. p. 251. 174 LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM sim valor. Com els altres poderosos del seu temps, Alfons maldà per tenir draps rics i sofisticats arreus d’orfebreria per ostentar poder, esplendor i dignitat; per marcar diferències i per exhibir la preeminència. Fou ben conscient que el valor material i la brillantor – tant de l’or com de les gemmes més preuades de la natura – contribuïen a reforçar l’aura de majestat règia davant dels seus similars i súbdits, i per això hi destinà quantioses inversions. Però, tot i l’ús pragmàtic que féu sovint dels objectes preciosos, no podem descartar un delit i un gust especials per orfebreries, gemmes i perles de gran preu. ABSTRACT The Sumptuary Image of Alfonso: Documented, Represented, and Imagined Jewelry During the long reign of Alfonso the Magnanimous, the king almost continuously treasured precious metal objects. Most of these items were decorated with gemstones and pearls, which made them even more valuable. Royal accounting records and other documentary sources reveal Alfonso’s large expenditures in personal ornaments, “arnesia sacra” to solemnize his chapel, and golden and silver tablewear to impress his guests. In addition to his own purchases and commissions, the king also owned items that he had inherited or was given as a gift. Gold ornaments with embedded gemstones contributed to grant majesty, splendor, and dignity to Alfonso and his court, and projected an image of the king’s power. Monetary needs, however, prompted by his military campaigns and expensive courtly live often forced the king to pawn his precious goods. He ended up redeeming some, but many others never went back to the Royal chamber. Given their dispersion, only through many documents and a few images can we now evoke the treasures that Alfonso’s panegyrists glossed. Joan Domenge Mesquida Universitat de Barcelona domenge@ub.edu 175 Lluís Cabré AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO Tra i 128 componimenti lasciatici dal cavaliere valenciano Ausiàs March (1400-1459), i quali furono editi criticamente per la prima volta da Amadeu Pagès esattamente un secolo fa1, ce ne sono cinque o sei indirizzati, o in ogni caso relativi ad Alfonso il Magnanimo (poesie 30, 72, 106, 108, 122a, 122b). Già nel 1865, infatti, Manuel Milà i Fontanals, il caposcuola della filologia romanza ai tempi della Renaixença catalana, aveva letto la poesia 72 («Paor no·m sent que sobreslaus me vença») come un panegirico del Magnanimo, e sempre allo spirito di questa rinascita ottocentesca dobbiamo l’esaltazione romantica della figura del poeta-soldato proposta da Joaquim Rubió i Ors nel suo esame complessivo, sebbene alquanto approssimativo, della figura di March: Plácenos figurar á Ausías March… pelear en Nápoles á la sombra de las barras aragonesas… y tomar parte y ganar fama de animoso en los gloriosos hechos de armas que terminaron con la conquista de la poderosa ciudad del Mediodía de Italia. Mas ¿cuánto tiempo permaneció el trovador soldado en aquel bello país de las artes y las ciencias y en la corte del ilustrado y generoso monarca…?2 La realtà è che non possediamo alcun dato documentale che dimostri la presenza di March a Napoli, e dunque non deve sorprendere più di tanto che la critica contemporanea lo abbia ritratto spesso come un poeta isolato, assente dalla corte, che decise di non prendere parte, dal 1432 in poi, 1. A. Pagès, Les obres d’Auzias March, Barcelona 1912-1914. Tutti i riferimenti all’opera di March provengono, con grafia modernizzata, da Ausiàs March, Poesies, ed. P. Bohigas, rivista da A.-J. Soberanas - N. Espinàs, Barcelona 2000. Si veda anche l’antologia Ausiàs March, Páginas del Cancionero, ed. C. Di Girolamo, trad. J. M. Micó, Madrid-Valencia 2004. Il testo della seconda edizione critica di March (Obra completa, ed. R. Archer, Barcelona 1997) è disponibile online all’indirizzo web: www.rialc.unina.it (consultazione realizzata il 31 Agosto 2014). Il presente contributo fa parte del Progetto FFI2014-53050-C5-4-P finanziato dal Ministero dell’Economia spagnolo. 2. J. Rubió y Ors, Ausías March y su época, Barcelona 1882, p. 36. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 LLUÍS CABRÉ alla conquista del regno di Napoli, preferendo invece restare a Valencia o nelle sue terre di Beniarjó presso Gandia. Questa affermazione, in realtà, appare oggi altrettanto romantica quanto quella di Rubió i Ors, perché – come risulta evidente – un poeta “cortigiano” ha bisogno, per poter essere definito tale, di una corte. È proprio per questo che ritengo che una qualsiasi indagine approfondita dei rapporti tra l’opera lirica di Ausiàs March e la figura di Alfonso d’Aragona debba partire non soltanto dall’esame dei documenti d’archivio, ma anche dall’opera stessa di March, come ha dimostrato con successo l’analisi condotta recentemente da Jaume Torró sulle poesie 122a e 122b, la quale ha messo in evidenza il rapporto diretto tra questi componimenti e le mansioni di March come falconiere reale3. Procederò quindi, in primo luogo, a riassumere la documentazione conosciuta per poi passare, in un secondo momento, all’analisi degli aspetti delle poesie di March che ci tramandano l’immagine di Alfonso. Come vedremo, oltre a quelli di March ho preso in considerazione anche altri testi poetici in castigliano, catalano e italiano; poiché esulano dallo scopo del presente contributo, non ho proceduto, invece, ad analizzare le relazioni tra queste manifestazioni in volgare e la storiografia latina coeva, da Chaula (1424) e Pelegrí (1443) fino al Facio e al Panormita (1455). 1. Il servizio prestato al re e le poesie 122a, 122b e 108 Ausiàs March nacque da Pere March (c. 1338-1413), il quale, poeta egli stesso, ricopriva l’incarico di procuratore generale del cugino del re Pietro il Cerimonioso, cioè Alfonso d’Aragona, conte di Denia, marchese di Villena e primo duca di Gandia4. Dal 1415 Ausiàs è documentato al servizio di Alfonso il Giovane, secondo duca di Gandia, ed è proprio al seguito di questi che Ausiàs, diciassettenne, si recò a Valencia alla corte del futuro Magnanimo. Per età e per posizione sociale, ebbe l’opportunità di servire il re in due spedizioni militari: quella che salpò nel 1420 alla volta della Corsica e della Sardegna e quella che, partita nel giugno del 1424, si diresse finalmente verso le coste dell’odierna Tunisia per conclu3. J. Turró Torrent, Ausiàs March, falconer d’Alfons el Magnànim, in Actes del X Congrés internacional de l’Associació Hispànica de Literatura Medieval, cur. R. Alemany et alii, I, Alacant 2005, pp. 521-538. A proposito delle relazioni cortigiane del poeta, si veda anche L. Cabré - J. Torró, Dona Teresa d’Híxar o Llir entre cards: para la cronología de la obra de Ausiàs March, in «Bulletin of Hispanic Studies», 89 (2012), pp. 91-102. 4. Per la documentazione relativa a March si vedano: J. J. Chiner Gimeno, Ausiàs March i la València del segle XV (1400-1459), València 1997; J. Villalmanzo, Ausiàs March: colección documental. Documenta Ausiàs March, València 1999; e Turró, Ausiàs March cit. 178 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO dersi con la distruzione di Gerba e delle isole Kerkenna. Dopo la scomparsa del secondo duca, avvenuta nel 1424, March passò al servizio di re Alfonso, forse già l’anno successivo: quel che sappiamo con certezza dalla documentazione d’archivio è che già nell’aprile del 1426 March deteneva il titolo di falconiere reale, e che poco più tardi divenne falconiere maggiore, carica che ricoprì almeno fino al 1430. Fu al fianco di Alfonso, quindi, dalla gioventù del re – data sulla quale torneremo più oltre – e vi rimase certamente almeno fino a quando la corte di Alfonso non lasciò Valencia. Come già accennato, infatti, nel 1432 non si imbarcò presso Els Alfacs per prendere parte alla spedizione italiana di Alfonso, e dunque non partecipò né alla battaglia di Ponza, né all’assedio di Napoli del 1442 né ad alcuna ulteriore campagna. Dal 1432 in poi, insomma, la relazione tra March e il re divenne necessariamente epistolare. Comunque vi sono testimonianze, posteriori di alcuni anni al 1432, che dimostrano l’esistenza di questa relazione tra March e il re a proposito della falconeria. Secondo diversi documenti datati tra il 1442 e il 1446 Alfonso, da Napoli, richiedeva l’invio di alcuni falconi addestrati da March: il re, avendo di nuovo tempo da dedicare alla sua grande passione, reclamava nuovamente i servigi del suo antico falconiere. Entrambi coltivarono questa passione durante tutta la vita. Dall’inventario dei beni della casa valenciana dove morì, sappiamo che il poeta vi conservava qualche libro, armi e «arreus de falcons», appunto “equipaggiamento per falconi”5. La ripresa della relazione con il Magnanimo ebbe anche delle ripercussioni poetiche. March compose infatti due richieste al re per l’invio di altrettanti falconi (poesie 122a e 122b). Amadeu Pagès le considerò due redazioni diverse della stessa poesia, ma in realtà si tratta di due componimenti completamente autonomi, e anche i falconi sono diversi. Nella prima poesia («Tots los delits del cos he ja perduts», 122a), March chiede al sovrano un falco pellegrino «lo qual té mon Suar», “che è in possesso del mio Suar”6. Il tono faceto del testo rivela una certa familiarità: il poeta vi afferma che se non otterrà il falcone, si vedrà costretto a tornare a quelle occupazioni del passato che, a causa dell’età, ormai non gli si confanno: «Ja l’edat a mi no [é]s cominal; / seré jutjat de tots per galant vell» (vv. 18-19). Alfonso era più anziano di qualche anno, e per5. A. Pagès, Auzias March et ses prédécesseurs. Essai sur la poésie amoureuse et philosophique en Catalogne aux XIV et XVe siècles, Paris 1912, pp. 112-116. 6. Pagès, Les obres cit., II, p. 306, corresse «te nom Suar», però il verso potrebbe riferirsi al nome di un addestratore: si veda X. Dilla, En passats escrits. Una lectura de la poesia d’Ausiàs March, Barcelona 2000, p. 279. Nel 1447 «lo honorable en Manuel Suau, ciutadà de Valencià» mandò un girfalco al re (Chiner, Ausiàs March cit., p. 244). 179 LLUÍS CABRÉ ciò è stato ipotizzato che questa poesia dovesse essere anteriore alla sua relazione con Lucrezia d’Alagno7. Certamente il tema satirico del senex luxuriosus sarebbe risultato inadeguato se già allora Alfonso fosse stato invaghito di Lucrezia, anche nel caso in cui il loro fosse, come sosteneva la propaganda cortigiana, un amore casto. La poesia, in conclusione, dev’essere stata scritta tra il 1440 (se consideriamo i 40 anni come la soglia della vecchiaia) e il giugno del 1449, data d’inizio della relazione del re con Lucrezia. Posteriore all’incontro con Lucrezia dovrà essere, invece, la seconda richiesta («Mon bon senyor, puix que parlar en prosa», 122b). Evitando ogni riferimento scomodo all’età, March vi elogia, come altri poeti, la virtù di Lucrezia (v. 78) e l’amore singolare del re («un fènix hom dona semblant requer», v. 37). In questo caso March chiede un girfalco, il più pregiato tra i rapaci da caccia, e lo fa in versi perché «parlar en prosa / no·m val en vós» (vv. 1-2). È possibile che una richiesta precedente, non esaudita, fosse stata espressa da March in una lettera, e che per questo motivo egli tenti nuovamente con una richiesta in versi. Risulta evidente, in ogni caso, che le poesie 122 e 122b sono due componimenti scritti, malgrado alcuni versi identici, per occasioni diverse. Entrambi confermano la continuità della relazione tra il poeta e il re, corroborata anche dai documenti risalenti agli anni 1442-1446, e la cronologia di queste poesie – databili rispettivamente a prima e dopo il giugno del 1449 – non se ne deve allontanare poi molto8. Le due poesie, come abbiamo già accennato, testimoniano anche la familiarità di Ausiàs March con il re: nella seconda il poeta afferma, in tono certamente umoristico, che «si m’és manat, jo passaré nedant» (122b, v. 76), riferendosi ovviamente al tragitto Valencia-Napoli9. E ci raccontano, oltretutto, della diffusione dell’opera di March a Napoli: la minaccia giocosa di un eventuale ritorno alla dissolutezza amorosa del passato (122a) e l’esposizione delle sue idee sull’amore (122b), infatti, non avrebbero avuto alcun senso se March non avesse dato per scontato che il lettore conosceva la sua produzione anteriore10. 7 Turró, Ausiàs March cit., I, p. 528. 8. Pagès, Auziàs March cit., p. 110, ipotizzò che i vv. 31-32 di 122b facessero riferimento alla visita di Lucrezia a Callisto III nel 1457, però si tratta di un’interpretazione forzata. Cfr. March, Obra completa cit., p. 642; March, Páginas del Cancionero cit., p. 527. 9. A proposito del senso dell’umorismo del re, si veda A. Ryder, Alfonso the Magnanimous, King of Aragon, Naples, and Sicily 1396-1458, Oxford 1990, p. 310. 10. L. Cabré, Aristotle for the Layman: Sense Perception in the Poetry of Ausiàs March, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 59 (1996), pp. 48-60 (a p. 50, nota 16). 180 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO La poesia 122b, in effetti, contiene una sintesi delle idee di March sull’amore. Qui il poeta opera una distinzione tra amore puro o angelico, amore carnale e amore composto o umano, che nella migliore delle ipotesi può arrivare a essere onesto: se ne deduce che proprio quest’ultimo doveva essere l’amore che sentiva il re per Lucrezia, il quale soddisfaceva le due nature dell’amore composto, ovvero «senys e raó», “sensi e ragione” (v. 78)11. Uno dei pericoli dell’amore, spiega scolasticamente March, risiede nel desiderare l’impossibile («en lo finit volent los infinits», v. 45), ma questo non avviene nel caso dell’amore onesto: «D’amor honest hom no carregarà / tant, que d’aquest senta l’extrem d’excés» (vv. 64-65). Questo è il tema della poesia 108 («No·m clam d’algú qu·en mon mal haja culpa») indirizzata «A tutti coloro» che seguono le «cose mondane» («A tots aquells que en lo món han mesura / de abraçar totes coses mundanes», vv. 97-98), e, in particolare, «a Voi, mio signore» (v. 101). La poesia espone, in dodici ottave, l’errore in cui cade chi segue l’appetito dei sensi. Non bisogna volere ciò che non si può ottenere, avverte March, sia contro Dio che contro la ragione (strofe I-V). Questo principio si applica quindi all’amore con tono di disinganno (strofe VI-VIII): l’eccesso è colpa del soggetto (vv. 61-62), il quale, pur essendo «ben amant», ignora la natura dell’amore e l’essere delle donne (vv. 41-48), di modo che «Foll és aquell qui·l vent fermar volia» (v. 64). March conclude (strofe IXXII) affermando che in amore è certamente raccomandabile essere prudenti e assicurarsi di non essere sospinti dalla prima conoscenza verso l’appetito incontrollato. Risulta interessante analizzare, a questo punto, in che modo quanto appena detto sia adeguato al destinatario. Recita la dedicatoria: «Vós, mon senyor, haveu ciença vera, / i els apetits mals a vós no contrasten: / mostrau a molts, qui ho saben e no ho tasten, / si·l passionat ha la raó sencera» (vv. 101-104). In questo signore capace di controllare gli appetiti negativi, legati come abbiamo appena visto all’amore, dobbiamo riconoscere senz’altro il re Alfonso innamorato virtuosamente di Lucrezia, il quale, pur trovandosi «passionat», possiede ancora «la raó sencera»12. Il testo appare ancora una volta posteriore al giugno del 1449. La «ciença vera» del signore non può essere altro che il dominio morale delle passioni. Tenendo presente che March conclude il componimento con un con11. Per le idee di March sull’amore si veda L. Cabré - M. Ortín, Lectura de la poesia d’Ausiàs March, in Literatura medieval, II, Segles XIV i XV, dir. L. Badia, Barcelona 2014, pp. 381-384. 12. Ritengo improbabile, proprio per questo motivo, che la poesia fosse dedicata al Principe di Viana, possibilità sostenuta da Bohigas in March, Poesies cit., p. 388. 181 LLUÍS CABRÉ gedo contenente un contemptus mundi generale («Fugir del món és la dreta carrera», v. 97), la dedicatoria assume ancor più i caratteri di un elogio dell’eccezionalità del re. La poesia riassume la volontà di esibire sapienza morale e di encomiare quella del re. Si tratta, insomma, di un’ulteriore testimonianza della relazione tra March e Alfonso, in questo caso senza alcuna richiesta di circostanza. 2. Le poesie 30 e 72: Alessandro, Giulio Cesare e Cesare Augusto Da un punto di vista storico le poesie 30 e 72 sono certamente le più interessanti. I poeti cortigiani si facevano eco della propaganda politica del re, e pur non essendo colti cronisti in latino dovevano certamente riflettere l’immagine voluta dal loro signore, forse anche schematicamente ma certamente in un modo molto più immediato di quanto potesse fare la storiografia ufficiale. Entrambe le poesie sono caratterizzate dall’evocazione di un Cesare. La poesia 30 («Vengut és temps que serà conegut»), riferita al «nostre gran senyor» (v. 45), descrive infatti un’impresa rischiosa («Ans del perill», v. 9; «emprenent risc», v. 10) che richiede coraggio ma che porterà alla fine a ottenere «honor e senyoria, / faent venir los cèsars en record» (vv. 9-11). Certo, il termine cesare aveva un valore generico adatto a qualsiasi condottiero o imperatore13, però è innegabile che, quando si parla di conquiste, le prime che vengono in mente sono quelle di Alessandro e di Giulio Cesare, vite parallele così come figure cavalleresche dell’arazzo del Neuf Preux, che oggi possiamo ammirare al Metropolitan Museum of Art, The Cloisters, di New York. Del protagonista del componimento 72 sappiamo che nonostante un esercito numericamente modesto («e despocat de nombre de gents d’armes, / les multituds d’aquelles ha fet retre», vv. 2930) ha dato prova di grandi gesta militari, richiamando così alla mente le conquiste di Alessandro Magno (lo stesso motivo, non a caso, si ritrova anche all’inizio della cronaca di Ramon Muntaner e nel prologo del Tirant lo Blanc). Il poeta Carvajal, residente a Napoli, scrisse un’epistola in prosa nella quale fa dire alla regina Maria di Castiglia che Alfonso è un «famoso e moderno César», mentre lei stessa si definisce «muger de César Alfonso el Magno»14. La cronologia non esclude che allora March conoscesse già il background ideologico che nutrì la cronaca di Gaspar Pelegrí, 13. Per esempio, in questo elogio del re: «que César emperador, / des qu éste [Alfonso] nació, non suena» (VI, vv. 44-45), in Carvajal, Poesie, ed. E. Scoles, Roma 1967, p. 74. 14. Carvajal, Poesie cit., pp. 96-98. 182 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO nella quale Alfonso viene comparato in più di un’occasione a Giulio Cesare e Alessandro (I 1, X 213)15, né tantomeno occorre tornare sulla nota predilezione del re per il De bello civili o sul ruolo centrale di Giulio Cesare nell’iconografia della celebrazione del trionfo di Alfonso tenutosi il 26 di Febbraio del 144316. Non saprei dire esattamente quando prese piede il soprannome di «Magnanimo», ovvero «colui che si ritiene degno di grandi imprese», ed è virtuoso e degno d’onore (Etica a Nicomaco, IV 7, 1123b-1124a), però alcune tracce sono piuttosto precoci, e forse non sarà del tutto superfluo tenere presente che il re Pietro II d’Aragona, detto il Grande, colui che divenne una sorta di capo ghibellino dopo Benevento e Tagliacozzo, era già stato esaltato a suo tempo dal cronista Bernat Desclot come un novello Alessandro, e che il suo epitaffio presso il monastero di Santa Maria de Santes Creus lo definiva appunto come magnanimus17. Tornando ad Alfonso, possiamo osservare come già nel 1420, nella sua Loor del rey Alfonso en el viaje de Nápols, il poeta Pedro de Santa Fe parli della «pura magnifiçençia» del re, e poi ancora nel 1423, congratulandosi per la Destruçión de Nápols, tessa le lodi del re e la conquista di Ischia anteponendo i suoi meriti a quelli di Alessandro, Giulio Cesare e Scipione attraverso la figura retorica del taceat (vv. 1-4, 25-32)18. L’accostamento a questi tre personaggi antichi aveva certamente lo scopo di metter in risalto l’eccellente curriculum bellico del re. Come scriveva March, appunto, «emprenent risc, hom ha dels bons paria», cioè «affrontando il rischio, possiamo porci all’altezza dei grand’uomini» (30, 15. Gaspare Pellegrino, Historia Alphonsi primi regis, ed. F. Delle Donne, Firenze 2008, pp. 68 e 310. Cfr. il proemio di Bartolomeo Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, ed. D. Pietragalla, Alessandria 2004, p. 2. 16. Si veda, ad esempio, F. Delle Donne, Politica e letteratura nel Mezzogiorno medievale, Salerno 2001, pp. 147-177 (spec. pp. 155-156). 17. «Petrus quem petra tegit gentes et regna subegit / Fortes confregitque crepit cuncta peregit / Audax magnanimus sibi miles quisque fit unus…», in P. de Bofarull y Mascaró, Los condes de Barcelona vindicados, Barcelona 1836, II, p. 245. Sul ruolo ghibellino di Pietro il Grande si veda M. Cabré, El trobador de Pere el Gran, in «Mot So Razo», 4 (2005), pp. 59-68. 18. A. M. Álvarez Pellitero, Cancionero de Palacio. Ms. 2653, Biblioteca Universitaria de Salamanca, Salamanca 1993, p. 275 e pp. 281-282: «Todos los conquistadores / qu’ien de passar et passados, / poetas e trobadores, / cállense sus actos loados / …Alexander virtuoso / si ante vos se fallase, / mas cobarde c’animoso / yo creo que s’estimasse; / e Çéssar poco fiasse / d’ordenanças percebidas / e Çipio sus verdes bridas / bien tengo que refrenasse». Cfr. M. de Riquer, Alfonso el Magnánimo visto por sus poetas, in Estudios sobre Alfonso el Magnánimo con motivo del quinto centenario de su muerte, Barcelona 1960, pp. 175-196 (alle pp. 177-183). 183 LLUÍS CABRÉ v. 10). E, in quel brano dell’epistola già ricordata di Carvajal nel quale l’autore fa dire alla regina Maria, parlando del marito, «quando fuiste en África, donde por áspera e sanguinosa batalla venciste e por armas sobraste al potente rey de Cartago», non è difficile vedere un riferimento a Scipione e Annibale19; e anche allusioni, rispettivamente, ad Alessandro e Giulio Cesare nelle affermazioni «con la sancta victoria triunfando tornaste en Grand-Grecia» (per estensione, il Regno di Napoli) e «despojaste del reino al gálico rey»20. La fortitudo, ovvero la virtù bellica, deve però essere sempre accompagnata dalla sapientia, e cioè dalle lettere, come sottolinea il marchese di Santillana nella Comedieta de Ponza: «Éste [Alfonso] desd’el tiempo de su püeriçia / amó las virtudes e amaron a él / …Sintió las visiones de Ezechïel / con toda la ley de sacra doctrina; / pues ¿quién sopo tanto de lengua latina?, / ca dubdo si Maro eguala con él» (st. XXVI)21. È interessante osservare come immediatamente dopo Santillana offra una descrizione dettagliata di quelle discipline nelle quali il re supera persino coloro i quali «se coronan del árbol laureo» (st. XVIII): tra queste troviamo, accanto alle discipline tradizionali del trivium e del quadrivium, anche la filosofia naturale, la poesia, l’eloquenza22. Il tema della virtù e della saggezza in età precoce, lo ritroviamo sia nella cronaca del Pelegrí23 che nella poesia 72 di March: «ell és aquell qui en sa joventut tendra / sobrà en aquells qui saviesa colen» (72, vv. 27-28). Questo passo di March, in realtà, richiama più l’episodio di Gesù al Tempio (Lc II 46-47) che l’istruzione giovanile di Alessandro resa celebre da Plutarco in poi (II, IV 8). Bisogna tenere presente, per capire meglio questo passaggio, che Santillana era coppiere del giovane re Alfonso e che March conosceva il re già dal 1417. Questi due elementi associati dell’immagine del re – cioè il valore del conquistatore e la saggezza che lo ha contraddistinto già dalla giovane età – non sono però sufficienti per dare ragione fino in fondo del vero valore 19. Sulla fama di Scipione presso la corte catalana si veda M. Ferrer, «Petrarch’s Africa in the Aragonese court: Anníbal e Escipió by Antoni Canals», in Fourteenth-Century Classicism: Petrarch and Bernat Metge, ed. L. Cabré - A. Coroleu - J. Kraye, London-Torino 2012, pp. 43-55. 20. Carvajal, Poesie cit., pp. 96-98. 21. Marqués de Santillana, Obras completas, ed. A. Gómez Moreno - P. A. M. Kerkhof, Barcelona 1988, p. 173. Per quanto riguarda la passione di Alfonso per la teologia e la sua conoscenza del latino si veda Ryder, Alfonso the Magnanimous cit., pp. 311-8. 22. Santillana, Obras completas cit., p. 173. 23. Pellegrino, Historia Alphonsi cit., p. 68: «Huic autem puerili etate prudencia, gravitas, vis animi et corporis, ita omnia grata fuere, quippe excelso remigio onus sceptri mature servabat» (I.1). Cfr. ibid., p. 171 (V.350). 184 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO della poesia 72 di March (riprodotta in appendice), la quale rappresenta l’elogio forse più bello tra quelli composti per Alfonso in lingua volgare. Procediamo quindi ad analizzarla brevemente in modo da poterne cogliere, in primo luogo, l’aspetto retorico e, successivamente, il valore politico. L’eloquenza può essere osservata nell’utilizzazione dei topoi caratteristici dell’encomiastica, come il sobrelaus, o “lode esagerata” (v. 1), e l’ineffabilità (vv. 6-8), e persino nella captatio in cui si afferma che la materia trattata, piuttosto che delle abilità di March (vv. 35-36), sarebbe degna di quelle di un poeta classico (vv. 33-34). Non è da escludere che l’impiego di quest’ultimo topos possa anche nascondere un certo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore in volgare, o che comunque esprima la necessità di contare sull’avallo della ben più autorevole storiografia latina24. Come possiamo osservare, la retorica di March, centrata sulla fama universale del re, pervade tutto il componimento, dal primo all’ultimo verso. La ragione per la quale l’autore non corre il rischio di incorrere in una “lode eccessiva”, come afferma con tono iperbolico nell’incipit, è la natura stessa di colui che «totes llengües lloen» (v. 2), ovvero quella di un «eternal ésser» (v. 3) dotato di una perfezione soprannaturale (vv. 4-5). Nella conclusione il poeta non fa che amplificarne l’universalità. Il fragore della «trompa», cioè la fama del re, raggiunge infatti i confini del mondo dove viene udita non solo dagli «indians» (v. 38, in riferimento al noto topos dell’India, il luogo remoto per antonomasia) ma da tutti quei popoli che abitano i quattro punti cardinali: «oen-la aquells qui són a Tramuntana / i els de Ponent, e de Llevant los pobles» (vv. 39-40)25. Le strofe centrali (II-IV) sono riservate normalmente alla descrizione delle virtù ex corpore ed ex animo del protagonista. Pur affrontando il tema, la realtà è che il tono con il quale vengono presentate le virtù del destinatario dell’elogio risulta piuttosto enigmatico, almeno fino a quando March, nei versi 23-24, scrive «Clar lo nomén ab aquesta altra ensenya: / com de tot cert és dels hòmens pus savi», ovvero, «Adesso lo rivelo aper24. Cfr. Ryder, Alphonso the Magnanimous cit., p. 326. Sulla topica cortigiana si veda, ad esempio, Juan de Andújar, Loores al señor rey don Alfonso («La buena memoria del rey don Fernando»), st. 7, in Cancionero castellano del siglo XV, ed. R. Foulché-Delbosc, Madrid 1915, II, pp. 210-211; Santillana, Comedieta de Ponza, st. LXII, in Id., Obras completas cit., p. 187. Nel sonetto XIII Santillana si mostra dispiaciuto che «segund los grandes fechos e gloriosa fama del rey de Aragón non ay oy poeta alguno, estorial ni orador que d’ellos fable» (Obras completas cit., p. 60). 25. Si tratta di un altro topos piuttosto comune negli elogi di Alfonso. Si veda il ritornello della Canción a madama Lucrecia: «a quien fa temblar la tierra / desde Poniente a Levante», in Juan de Tapia, Poemas, ed. L. Giuliani, Salamanca 2004, pp. 77-78. 185 LLUÍS CABRÉ tamente con questo segno: / questi è certamente l’uomo più savio del mondo»26. Perché il poeta sente il bisogno di usare ensenyes o indicazioni di qualche cosa occulta? La risposta è che lo fa perché sta scrivendo un testo di carattere profetico, e per questo non cita mai il sovrano ma si limita invece a fornire indizi sul protagonista della profezia, la quale annuncia l’avvento di un monarca che sconfiggerà le divisioni e la tirannia, portando la pace universale. Così afferma lo stesso March nella parte centrale del poema: «E Déus veent la perllongada honta / que·ls grans senyors en contra d’Ell cometen, / tenints ab fraus e tirannes maneres / les parts del món, los pocs e grans realmes, / ha dat poder al justificat home / que en breu espai haja la monarchia» (vv. 17-22)27. Il «justificat home» è l’uomo reso giusto dalla Grazia divina e dotato di virtù soprannaturale che abbiamo già incontrato all’inizio del componimento; il resto non è altro che il frutto di una amplificatio della fama meritata del re per la sua virtù; una virtù redentrice che purifica dal peccato («cascú si justifica», vv. 11-12) persino quei sudditi che a essa dirigono i propri pensieri; una virtù che «per los migs va» (v. 15) aristotelicamente. La «monarchia» rappresenta, naturalmente, l’imperium universale o «unicus principatus et super omnes in tempore», secondo la definizione dantesca (Monarchia, I 2), del quale il popolo romano fu il depositario e che, sempre seguendo Dante, deve portare la felicità terrena indipendentemente dal Papa, che deve occuparsi invece unicamente di quella celeste, anche se l’imperatore, malgrado l’autorità divina, gli deve comunque portare rispetto (Monarchia, III 15). La scelta di un re universale è fondata sulla virtù e sulla saggezza, e questo spiega l’elogio di March della saggezza dimostrata da Alfonso già dalla sua «joventut tendra». Riassumerà questo concetto il cognato di March, Joanot Martorell, nel capitolo 172 del Tirant lo Blanc: «E mireu los romans, qui del món hagueren monarquia, car dreta virtut de cor proceeix de saviesa»28. 26. Secondo A. M. Alcover - F. de B. Moll, Diccionari català-valencià-balear, Palma de Mallorca 1980, «ensenya» vale infatti come senyal, ovvero come quella indicazione che consente di riconoscere o scoprire una cosa. 27. È facile comprendere cosa abbia spinto molti filologi a dibattere per un secolo sulla natura cristologica di questo componimento; l’idea che questo poema rappresenti un semplice elogio di Alfonso è oggi comunemente accettata. Una sintesi di questo dibattito si trova in March, Páginas del Cancionero cit., p. 468, e in V. Fàbrega i Escatllar, Ausiàs March i les expectatives apocalíptiques a la Catalunya medieval: un comentari al cant 72, in «Els Marges», 54 (Dic. 1995), pp. 98-104 (a p. 98), che ancora propende per un’interpretazione in chiave cristologica. 28. Joanot Martorell, Tirant lo Blanc, ed. M. de Riquer, Barcelona 1979, p. 591. Citato da Archer, in March, Obra completa cit., p. 142. 186 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO Una datazione del poema di March posteriore alla cerimonia trionfale del 26 febbraio 1443, come già proposto da Costanzo Di Girolamo29, trova conferma nelle evidenti somiglianze con due elogi coevi, opera di Bernat Miquel e Dionís Guiot. Nel primo di questi troviamo infatti un riferimento alla «nova conquesta», ovvero alla recente presa di Napoli, una lode della «magnitat» del re e di altre virtù di provenienza aristotelica, nonché la riaffermazione dell’unità di un dominio assoluto: «pensar no·s pot ne·s deu / que lo bastó [‘lo scettro del comando’] no haja monarchia / més que Cèssar, car vós signant [‘comandando con lo scettro’] se veu / los enemics perdre la senyoria» (vv. 29-31). La poesia di Guiot è eminentemente profetica e tramanda la immagine di Alfonso come «senyor del imperi / universal» (vv. 19-20)30. Anche l’epistola di Carvajal alla quale abbiamo già fatto riferimento più sopra fa dire alla regina Maria che suo marito, «reinando en Italia pacificamente», ha portato la «universal paz… en la grande e rigurosa militante Italia»31. La monarchia di Alfonso è un attributo ripreso molto spesso dai poeti posteriori sul quale non mi soffermerò in questa sede32. Varrà la pena sottolineare, in ogni caso, che il personaggio storico al quale Ausiàs March associa la figura di Alfonso, come suggerito dal verso 16 dell’elogio «en temps dels déus, en vida l’adoraren» («ai tempi degli dei pagani, lo avrebbero adorato in vita»), non sembra essere Giulio Cesare quanto piuttosto Cesare Augusto. Il poeta Juan de Andújar lo scrisse in 29. March, Páginas del Cancionero cit., p. 469. 30. Su Bernat Miquel, si veda: Lluís de Requesens et al., Sis poetes del regnat d’Alfons el Magnànim, ed. J. Torró, Barcelona 2009, pp. 107-112. Su Dionís Guiot si vedano: M. de Riquer, Poesía catalana en elogio de Alfonso el Magnánimo, in Saggi e ricerche in memoria di Ettore Li Gotti, III, Palermo 1962, pp. 97-103; Id., Història de la literatura catalana. Part antiga, III, Barcelona 1964, pp. 64-65. Secondo Riquer il contenuto di questa poesia farebbe riferimento ai progetti di Alfonso per l’organizzazione di una crociata sorti in seguito alla caduta di Costantinopoli nel 1453. Jaume Torró, Poetes del regnat d’Alfons IV el Magnànim, in Literatura medieval cit., II, pp. 343-344, ritiene, invece, che questa risalga all’epoca del conflitto tra il re e Eugenio IV, e ha proposto la cerimonia del 26 di febbraio come stimolo per la composizione del poema. 31. Carvajal, Poesie cit., p. 96. La datazione è controversa: sono stati presi in considerazione, infatti, sia l’anno 1454 che il 1445; si veda la sintesi di Scoles in Carvajal, Poesie cit., pp. 25-29. 32. Per esempio Carvajal, Poesie cit., p. 106; Pere Torroella, Obra completa, ed. F. Rodríguez Risquete, II, Barcelona 2011, pp. 91 e 95, che commentano l’elogio a Lucrezia («Maravilla a los absientes») nel quale troviamo i versi: «Aqueste a cuya grandeza / el universo se omilla» (vv. 81-82) e «Pues tal senñora y senñor / el mundo haver no podría, / pido aquel Superior, / aconpanyados d’Amor, / vos dexe la monarchía» (vv. 101-105). 187 LLUÍS CABRÉ modo inequivoco: «En vós es señor la grant providencia / del César Augusto» (st. 8)33. Converrà fare, a questo punto, un piccolo passo indietro. Come ha sottolineato Alan Ryder, fino alla conquista di Napoli e forse anche oltre Alfonso era visto principalmente come un re di guerra34; per presentarlo invece come un pacificatore, soprattutto dopo l’investitura ottenuta da Eugenio IV in seguito ai trattati di Terracina del giugno 1443, la propaganda reale lo associava alla stirpe di quel Giulio Cesare che aveva posto fine alle Guerre Civili, come ha dimostrato Fulvio Delle Donne interpretando la cronaca di Gaspar Pelegrí, allestita appunto dopo Terracina, ed evidenziando i parallelismi tra Alfonso ed Enea e più in generale con l’Egloga IV di Virgilio35. Mi sia concesso di suggerire che questa immagine di pacificatore dell’Italia meridionale – parlo di immagine perché una vera e propria pace no prese corpo fino all’elezione di Niccolò V nel 1447, e nell’Italia del Nord fino alla Pace di Lodi nel 1454 – non esclude che la propaganda vi abbia potuto sovrapporre la figura di Ottaviano, anch’egli appartenente, seppure per via materna e per adozione, alla gens Iulia, il quale aveva portato la pace universale a tutto l’impero e che proprio per questo era stato adorato in vita. L’inizio di una nuova età dell’oro, identificata secondo la nota interpretazione della quarta Egloga virgiliana proprio con la pax augustea, trova un’eco anche nella prima Egloga, quando il pastore Titiro (alter ego di Virgilio) esprime la propria riconoscenza per la pace portata da un dio: «deus nobis haec otia fecit» (I, v. 6; per capire il senso della rivelazione di Titiro, si vedano i versi 6-45). Come suggerito da Di Girolamo36, è probabile che alla base di quel verso – sorprendentemente così poco cavalleresco – nel quale Ausiàs March afferma che la fama della virtù del re ha raggiunto persino «aquells qui vaques e bocs guarden» (72, v. 26) vi sia precisamente l’ambientazione pastorale di questa egloga virgiliana. 33. Loores al señor rey don Alfonso, in Foulché-Delbosc, Cancionero castellano cit., II, p. 211. 34. Ryder, Alfonso the Magnanimous cit., p. 252. 35. Delle Donne, Politica e letteratura cit., pp. 165-166; Id., «Introduzione», in Pellegrino, Historia Alphonsi cit., pp. 16-29. Cfr. F. Tateo, La storiografia umanistica nel mezzogiorno d’Italia, in La storiografia umanistica, Atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), I.2, Messina 1992, pp. 509-512. Si veda anche G. Abbamonte, I modelli classici nei racconti di guerra di Bartolomeo Facio, in La battaglia nel Rinascimento meridionale, cur. G. Abbamonte et alii, Roma 2011, pp. 123-135 (a pp. 133-134). 36. March, Páginas del Cancionero cit., p. 469. 188 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO Appare ovvio che nella celebrazione di un trionfo i punti di riferimento fossero soprattutto Alessandro e Giulio Cesare, e che proprio quest’ultimo fosse il referente per la divinizzazione di una famiglia, che venne parallelamente estesa alla monarchia aragonese; ed è altrettanto naturale che Cesare fosse visto come il modello ideale del condottiero, vittorioso, che riporta la pace in Italia. Quasi a voler riassumere tutti gli elementi analizzati sino ad ora, verso il 1451-1452 Angelo Galli compose il seguente elogio di Alfonso: «Questo è quel re che tucti gli altri avanza / et, per tirarlo Dio a sumo honore, / Ytalia imperatore / intende farlo…» (vv. 80-83); questo fatto si spiega con l’appartenenza del re alla casa d’Aragona, la quale discende dagli dei e «per vertú se fan lor semidei» (v. 75); Alfonso supera quel «Cesar… che vinse el mondo» (v. 91), perché ha vinto «cum pochi Ragonesi et pochi Spani» (v. 94) e oltretutto è «el piu savio re de’ cristiani» (v. 14); una volta ottenuto il «sepolchro sancto» (v. 89) – Alfonso assunse il titolo di re di Gerusalemme in quanto erede dei sovrani angioini – Lucrezia potrà diventare signora «de tutto l’universo» (v. 87)37. In questa immagine del re vengono sovrapposti al ricordo di Giulio Cesare trionfante motivi di provenienza alessandrina, come la vittoria ottenuta con forze numericamente inferiori a quelle del nemico, e motivi religiosi, come appunto la proverbiale saggezza del re cristiano che proprio per questo è degno di ottenere l’impero; allo stesso tempo vi possiamo ritrovare sia la divinizzazione della dinastia familiare che la promessa del dominio universale. La poesia 72 di March corrisponde precisamente a questa rappresentazione del re, la quale risulta ben attestata già a partire dal 1442-1443: qualora non rappresentasse soltanto il riflesso di una propaganda che si scriveva anche in latino, questo componimento potrebbe essere considerato come la manifestazione di una particolare interpretazione in chiave universale del cesarismo di Alfonso analoga a quella di Augusto, pacificatore universale e già adorato in vita. 3. La magnanimità cristiana (dalla poesia 30 alla 106) Come abbiamo già accennato, la poesia 30 parla di un’impresa ardita (vv. 9-10), forse quella napoletana, seguita dalla memoria delle gesta dei Cesari (vv. 11-12), le quali rappresentano appunto quei «fets passats» che ispirano i «grans afers» del «nostre gran senyor» (vv. 41-45). È piuttosto probabile, soprattutto a giudicare dal contenuto del verso 45, nel quale viene descritto il popolo che «festejant», cioè celebrando qualche vittoria, 37. Angelo Galli, Canzoniere, ed. G. Donni, Urbino 1987, pp. 368-377 (n. 269, «Savia, gentile, gratiosa et bella»). 189 LLUÍS CABRÉ guarda il signore con timore riverenziale, che la composizione di questa e della poesia 72 risalgano allo stesso periodo. In questa sede mi limiterò a sottolinearne solamente un aspetto, e cioè la fortitudo, o il valore militare. Nella poesia 30 questa virtù è caratterizzata secondo i precetti riservati nell’Etica aristotelica ai guerrieri e a tutti coloro d’animo nobile capaci di grandi gesta, che pur non essendo temerari non hanno paura di dare la propria vita per una causa superiore (Etica IV 8, 1124b): esattamente come possiamo osservare nell’esordio della poesia 30, quando March afferma che il pericolo di morte è la prova del coraggio e che il rischio esalta il guerriero all’altezza dei Cesari (vv. 1-14), infatti, può dirsi coraggioso soprattutto chi «sta senza paura di fronte ad una morte gloriosa, e di fronte a tutte le circostanze che costituiscono un rischio di morte immediato, innanzitutto la guerra» (Etica, III 9, 1115a). In linea con la dottrina aristotelica (Etica, II 5-6, 1106a-1107a), sempre secondo March, la virtù risiede in un punto medio tra la paura e la temerarietà (vv. 31-32; cfr. 72, 15). Il vero coraggio, non a caso, sta alle manifestazioni estreme dei vizi – la temerarietà dell’avventato («l’home testard qui no tembrà morir», v. 25) e la codardia (v. 15; cfr. Etica, II 7, 1107b, e III 9, 1115a) – come la magnanimità sta alla vanità del «parencer» (v. 17) e alla pusillanimità dell’uomo «de cor flac» (v. 37; cfr. Etica, IV.9, 1125a). March certamente doveva essere al corrente dell’interesse del re per l’Etica e per la filosofia morale cristiana (come già accennato parlando della poesia 108), e dunque non si lascia sfuggire l’occasione di introdurre nelle sue poesie un’allusione quasi personale: nel poema 30, quando conclude che la virtù deve essere esercitata indipendentemente dalle inclinazioni, favorevoli o meno, della Fortuna (30, vv. 49-60); nel componimento 72, quando ricorda che l’uomo è responsabile unicamente di quegli atti derivati dal libero arbitrio, indipendentemente dalla Fortuna (vv. 41-44). In entrambe possiamo leggere un tacito riferimento alle avversità del passato (il tradimento della regina Giovanna di Napoli o i fatti di Ponza, per esempio), delle quali l’uomo virtuoso non deve preoccuparsi. La poesia 106 («Lo tot és poc ço per què treballam»), una lunga esposizione sul bene e sulla virtù considerata tradizionalmente come un generico componimento di carattere morale, è priva di destinatario, e dunque non possiamo sapere con certezza se March la compose pensando al re. Quel che risulta evidente, soprattutto analizzandola a fianco delle poesie 103 e 104, è che queste formano un insieme di tre testi satirici strettamente legati tra loro. Mentre la 103 critica la brama insaziabile di ricchezza e la 104 è diretta contro chi abbandona la virtù alla ricerca di beni effimeri come la fama e l’onore, la 106 tratta entrambi questi temi, e in 190 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO particolare la contrapposizione tra il binomio ricchezza e onore e il summum bonum: solo verso la fine del componimento l’attenzione della satira si concentra sull’onore (v. 417) e soprattutto sulla fama e sulla gloria dei potenti (esp. vv. 449-488), quasi si trattasse di una sorta di breve speculum principis. È difficile pensare che il poeta non avesse il re per lo meno in mente, particolarmente quando nella conclusione finisce per riassumere il tutto in un’unica virtù: «Magnànim és qui lo món té en menyspreu, / e molt mesquí lo qui·l pensa servir» (vv. 477-478). Questa magnanimità non è più quella delle gesta dei Cesari, ma una virtù eminentemente cristiana, un contemptus mundi opposto alla gloria falsa: «Glòria està en conèixer a si / ple de virtuts e no lloat de folls» (vv. 461-462)38. Se questa lettura risultasse essere corretta, i versi di March fornirebbero un’ulteriore interpretazione della figura di Alfonso. Le poesie 122a e 122b hanno messo in luce la familiarità e persino l’umorismo che caratterizzava il rapporto tra il poeta e il suo signore, e allo stesso tempo dimostrano la conoscenza delle opere di March da parte del re. La poesia 108 sottolinea il fascino di entrambi per la filosofia morale. Il componimento 72 rappresenta un brillante esempio di eloquenza con la quale il poeta esalta profeticamente il monarcha. La poesia 30, certamente legata alla precedente, mette l’accento sul coraggio, inteso alla luce dell’Etica aristotelica e legato agli esempi dei condottieri antichi, e sul disprezzo della Fortuna. La 106, dal canto suo, si presenta come un trattato di filosofia morale cristiana, un avvertimento al potente che forse si adatta agli ultimi anni di vita del re: nella Visión sobre la muerte del rey don Alfonso, composta da Diego del Castillo alla morte del sovrano, fa la sua apparizione Atropo per ricordare la vanagloria del re agonizzante, cioè, la gloria immortale, come se il re fosse Giulio Cesare o Alessandro, e la fama popolare; ed anche la «preminencia de tu monarchia», la ricchezza e «la presunción de muy entendido»39. Queste sei poesie sono insomma testimoni di una relazione letteraria che si dovette estendere, per lo meno, durante tutta la decade degli anni ‘40 del Quattrocento. 38. Il contemptus cristiano è in parte fondato sull’Etica, IV 7, 1124a. 39. Foulché-Delbosc, Cancionero castellano, cit., II, p. 217. 191 LLUÍS CABRÉ APPENDICE: POESIA I 72 DI AUSIÀS MARCH Paor no·m sent que sobreslaus me vença lloant aquell qui totes llengües lloen, guardant honor a aquell eternal ésser on tota res en ell és pus perfeta que en si no és, obrant quant pot natura; ans he paor que mon parlar no cumpla en publicar part de sa justa fama, tal com requer i els mèrits seus l’atracen. II L’hom envejós son ofici reposa, car d’egualtat ab ell negú pareja; en ell pensant, cascú si justifica, tallant de si l’amor a sa persona. Tant són en ell les virtuts manifestes que és d’ira cec l’hom qui bé no les veja: per los migs va, que en los estrems no toca. En temps dels déus, en vida l’adoraren. III E Déus, veent la perllongada honta que ·ls grans senyors en contra d’Ell cometen, tenints ab fraus e tirannes maneres les parts del món, los pocs e grans realmes, ha dat voler al justificat home que en breu espai haja la monarchia. Clar lo nomén ab aquesta altra ensenya: com de tot cert és dels hòmens pus savi. IV Per ço que mills a totes gents se mostre, mostrant-la [a] aquells qui vaques e bocs guarden: ell és aquell qui en sa joventut tendra sobrà en aquells qui saviesa colen, e, despocat de nombre de gents d’armes, les multituds d’aquelles ha fet retre. Tot quant pot fer virtut de fortalesa dins un cos d’hom, en lo seu ho demostra. V En gran defalt és lo món de poetes per embellir los fets dels qui bé obren: nós freturants de bella eloqüença, l’orella d’hom afalac no pot rebre. D’aquest valent una gran trompa sona que ·ls indians ab un poc no eixorda; 192 4 8 12 16 20 24 28 32 36 AUSIÀS MARCH E ALFONSO IL MAGNANIMO oen-la aquells qui són a Tramuntana i els de Ponent, e de Llevant los pobles. VI Foll és aquell qui fa juí en los hòmens segons que d’ells la Fortuna ordena. Aquells afers que no són en l’arbitre, colpa no hi cau, si vénen per contrari. 40 44 ABSTRACT Ausiàs March and Alfonso the Magnanimous This article reassesses the relationship between Ausiàs March (1400-1459) and King Alfonso the Magnanimous, as portrayed in six of March’s poems (30, 72, 106, 108, 122a, 122b), five of which were probably penned in the 1440s or little after. March had been Alfonso’s falconer major from 1426, and ever since he was in familiar terms with his lord, as shown in poems 122a and 122b. Poems 30 and 72 ara instrumental to praise Alfonso as a new Cesar, as the conqueror of Naples and the future universal rex, following the steps of Alexander, Julius Cesar and Augustus. Poems 108, 30 and 106 witness to March and Alfonso’s shared interest in Aristotle’s Ethics and Christian values, with particular attention to courage and magnanimity. Lluís Cabré Universitat Autònoma de Barcelona lluis.cabre@uab.cat 193 Francisco Javier Rodríguez Risquete «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS No resulta gens fàcil parlar de La nau de Lleonard de Sos després que el mestre Martí de Riquer sentencià en la seva Història de la literatura catalana que el poema fa navegar els lectors més predisposats pel mar de l’ensopiment. Malgrat el greu obstacle que suposa aquest judici, tractaré de mostrar que el poema, gens estudiat i mai editat com cal, ofereix nombrosos atractius i, fins i tot, algunes notes d’originalitat. La composició que ens ocupa és explícitament datada per l’autor el 14 de novembre de 1448, dia que ofereix algunes dificultats. Aquesta és almenys la data en què s’esdevé l’acció relatada en el poema. Per ço emprenguí de fer molt gran viatge secretament navegant per la mar, pensant tingués en perills heretatge; e recollí’m dilluns aprés dinar, catorze jorns de noembre comptar. Veia la gent allí per la marina; quaranta-vuit era lo canelar, segons mon jui quan més hi pens e afina. E mai correu qui en sabuts jorns camina, bascà més fort mancant-li temps comptat que féu a mi lo cor de basca fina imaginant anar desesperat de tan gran fet saber la veritat1. S’hi descriu el viatge del protagonista des de Barcelona fins a la cort de Nàpols, en una nau al·legòrica, amb la finalitat de conèixer el rei Alfons, que ha esdevingut l’encarnació de l’Honor. L’obra presenta nombrosos problemes que no és possible tractar en el breu espai d’aquesta comunicació, per bé que d’alguns dels seus enigmes se n’han ocupat especialistes del 1. M. Baselga Ramírez, El Cancionero catalán de la Universidad de Zaragoza, Saragozza 1896, p. 81. Regularitzo la grafia, puntuo i esmeno. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE valor de Martí de Riquer2, Jordi Rubió3 i Anna Maria Compagna4. Tots ells han escrit pàgines de gran preu per comprendre millor la transmissió, el sentit i la intenció de l’obra. 1. EL POETA I LA TRANSMISSIÓ TEXTUAL DE «LA NAU» Lleonard de Sos descendia d’una família de funcionaris de la casa del mestre racional, pertanyent a l’estament dels ciutadans barcelonins, que en aquesta època havia passat al dels cavallers. Era nét de Lleonard de Sos, lloctinent del mestre racional, i d’Angelina de Gualbes, i fill de Jaume de Sos, ciutadà de Barcelona, i de Violant de Relat. El 1414 Jaume de Sos era menor de vint-i-cinc anys i major de vint-i-dos; suposant que s’hagués casat a l’edat habitual, entre els vint-i-un i els vint-i-cinc anys, el seu primogènit i hereu podria haver nascut entre el 1412 i el 1416 i, per tant, hauria tingut entre trenta-dos i trenta-sis anys quan compongué La nau. Féu testament a Florència durant el mes de juny de 1461 i consta que havia defallit abans del març de 1463. Prengué part en l’empresa de la conquesta del regne de Nàpols5. Fou uixer d’armes d’Alfons IV el Magnànim, i a la mort del rei continuà al servei de Ferran I de Nàpols. Estigué casat amb Isabel Beneta, que el sobrevisqué almenys uns quaranta anys, filla i hereva universal de Rafael d’Olzinelles, escrivà de ració de la reina Maria de Castella6. Des de J. Rubió i Balaguer, es té notícia d’un viatge de Lleonard de Sos de Barcelona a la cort d’Alfons el Magnànim l’abril de 1448, que llavors es trobava prop d’Alberese (Grosseto) en guerra contra Florència7, per portar un missatge de les corts8. Gairebé tota la seva obra 2. M. de Riquer, Història de la Literatura Catalana, III, Barcelona 1964, pp. 22-26. 3. J. Rubió i Balaguer, Història de la Literatura Catalana, I, Barcelona 1984, pp. 315317. 4. A. M. Compagna, «La nau» de Lleonard de Sors entre corrents medievals i humanístics, in Miscel·lània Germà Colón, III, Barcelona 1995 («Estudis de llengua i literatura catalanes», 30), pp. 47-67. 5. Fonti Aragonesi, I, Napoli, 1957, p. 104: pagament de dues llances a Lleonard de Sos (18 de juliol de 1440). 6. N. Coll Julià, Compañías mercantiles barcelonesas del siglo XV y su estrato familiar, in «Estudis Històrics i Documents dels Arxius de Protocols», 9 (1981), pp. 54-56; F. J. Rodríguez Risquete - J. Torró Torrent, La poesia després d’Ausiàs March, in Història de la Literatura Catalana, dir. À. Broch, Literatura Medieval, II, Segles XIV-XV, dir. L. Badia, Barcelona 2014, pp. 421-425. 7. A. Giménez Soler, Itinerario del rey don Alfonso V de Aragón y I de Nápoles, Saragozza 1909, pp. 251-252. 8. Alfons IV el Magnànim comunica als representants de les corts i de la Generalitat que ha rebut llur missatge per mitjà de l’«amat uixer d’armes nostre en Lleonard 196 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS ha pervingut gràcies al Cançoner de Saragossa. El primer problema és la seva transmissió manuscrita i la integritat textual. La nau s’ha conservat en un únic manuscrit, el Cançoner de la Universitat de Saragossa, dins de la secció dedicada en exclusiva a les obres de Lleonard de Sos9. En l’estat en què el coneixem, consta d’un pròleg en prosa i de set capítols en vers, cadascun dels quals acaba amb un poema líric complet10. En total, són 1217 versos que serveixen per a relatar un viatge mig real mig fictici que dugué l’escriptor fins a la cort d’Alfons el Magnànim a Nàpols. Malauradament, l’amanuense sembla haver incorregut sovint en alguns errors de còpia. Les hipometries són els més evidents, per bé que no els únics, i els seus hàbits gràfics, força peculiars, fan difícil interpretar determinades paraules del text. Per sort, sembla que el poema és complet. D’altra banda, quan el còdex fou enquadernat, la cisalla escapçà nombroses rúbriques que sovint contenien el nom d’autor de molts poemes. Això és el que s’esdevé amb La nau, que és mancada de rúbrica general i de les rúbriques dels dos primers capítols i del poema que ve després. La manca d’aquestes rúbriques ha induït alguns errors: Riquer creia que el pròleg en prosa era el primer capítol del poema, però sabem que no és així; a més, alguns editors o estudiosos han donat a entendre que el poema copiat just després de La nau en formava part, però podem afirmar amb seguretat que és un poema independent. Per tant, a causa de la pèrdua d’aquestes rúbriques, en sentit estricte, el manuscrit no ens diu ni que el títol triat per Sos fos aquest, ni tan sols que Sos en fou l’autor. Sortosament, un dels poemes lírics inserits al final d’un capítol de l’obra també fou copiat, com a poema independent, per un dels amanuenses del Cançoner de l’Ateneu (203v-204r)11. És la peça que comença Vós feu, Amor, l’enamorat amar. La rúbrica de l’Ateneu diu: «ffeta per mossèn leode Sos», Arxiu de la Corona d’Aragó (ACA), Cancelleria, reg. 2657, f. 49v: al campament reial prop de la Fontana Viva, 8 d’abril de 1448. Pocs dies després el rei el recomana al papa en les gestions que havia de fer a la cort de Roma de caràcter privat sobre una causa entre Angelina de Gualbes, muller de quondam Lleonard de Sos i àvia del poeta, i Manuel de Rajadell, ACA, reg. 2540, f. 86v-87r: al campament reial prop d’Alberese d’Acquaviva, 11 d’abril 1448 (docs. cits. per Rubió i Balaguer, Història de la Literatura cit., p. 317). 9. Saragossa, Biblioteca de la Universidad, Ms. 210, ff. 109r-156r; La nau ocupa els ff. 111r-134v. Cfr. J. Torró Torrent, El Cançoner de Saragossa, in Translatar i transferir. La transmissió dels textos i del saber (1200-1500), cur. A. Alberni, L. Badia, L. Cabré, Santa Coloma de Queralt 2010, pp. 379-423. 10. Baselga, El cancionero cit., pp. 78-117. 11. F. J. Rodríguez Risquete, El Cançoner de l’Ateneu (Biblioteca de l’Ateneu de Barcelona, Ms. 1), in Translatar i transferir cit., pp. 425-473. 197 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE nart de sos, cavaller, la qual era en lo quart capítol de la hobra de la nau»12. Aquest testimoni indirecte confirma, doncs, l’autoria i ens fa saber que aquest poema narratiu era conegut amb el nom de la seva imatge més poderosa: la nau. Si aquest no era el títol escollit per l’autor, almenys era el títol amb què els contemporanis coneixien l’obra. És interessant observar que el text de l’Ateneu no conté cap variant important respecte al Cançoner de Saragossa, i que fins i tot s’hi reprodueix amb molta fidelitat la grafia d’aquest manuscrit, sobretot al principi del poema. És un detall que ens servirà per al que diré tot seguit. Fa pocs anys vaig voler mostrar que el Cançoner de Saragossa podria haver incorporat un petit cançoner d’autor de Lleonard de Sos en què les poesies seguien un ordre calculat13. En efecte, en aquest cançoner, els poemes de Sos apareixen en una secció compacta, els poemes majors se situen a l’inici i al final de la secció, i els poemes amorosos dibuixen una història sentimental, una mena de seqüència amorosa. També vaig mostrar que en la còpia no intervingué l’autor, entre altres coses perquè l’amanuense féu servir un antígraf amb poemes intercalats d’altres persones, que integrà en la seva còpia, tot desdibuixant el cançoneret inicial. Si aquesta hipòtesi és correcta, com sembla, hi ha dos fets que em semblen fora de tot dubte: que l’autor o el compilador tenia La nau en alta estima, ja que és la peça que encapçala aquesta col·lecció, i que el text transmès pel Cançoner de Saragossa és de millor qualitat del que hom podria sospitar en tractar-se d’un testimoni únic, ja que podria derivar d’un cançoneret autorial. El fet que el poema copiat per separat al Cançoner de l’Ateneu sembli un simple descriptus d’aquell, fins i tot en un nivell estrictament gràfic, és un argument a favor del que hem dit. La còpia conservada es troba a l’inici de la transmissió. 2. EL GÈNERE I L’AL·LEGORIA El poema revela una enorme ambició literària. Malgrat ésser escrit íntegrament en vers, és encapçalat per un pròleg en prosa, seguit de set parts (que l’autor anomena Capítols), cadascuna de les quals es clou amb un poema líric estròfic. Els seus 1217 versos el converteixen en un dels poemes més extensos del segle XV català. Tant al pròleg en prosa com al primer capítol, Sos exposa la intentio de l’obra (conèixer Honor en la figura del rei 12. Un segon amanuense corregeix Obra sobre ffeta, i ess sobre era. 13. F. J. Rodríguez Risquete, El cancionero de Lleonard de Sos, in Actas del IX Congreso Internacional de la Asociación Hispánica de Literatura Medieval (A Crunha, 18-22 septiembre de 2001), cur. C. Parrilla, M. Pampín, III, La Coruña 2005, pp. 455-463. 198 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS Alfons, i saber qui i com pot assolir-lo), i de seguida embarca al vaixell després de vèncer la por dels perills del viatge. Aquest primer capítol es clou amb una poema estròfic, que és una oració a Déu abans de posar-se a dormir per suplicar-li que l’ajudi i el guiï durant el viatge. Al segon capítol, s’adorm i quan es desperta ja és en alta mar, i presenta les diferents virtuts que portaran el vaixell a bon port. Pus acabat haguí lo dessús dit, sobrat per son qui turmentat m’havia, prengué repòs lo meu pobre esperit fins que lo sol demostrà que era dia, e despertat viu que fèiem gran via sens veure al món de neguna part terra; per ço cridí com home qui somia: «A on anam ne la nau on aferra? Som gent de pau o volem per mar guerra? Digau, jovent, per vostra gran bondat, que el turment gran de passió em soterra, pus sostenc mal no molt acostumat». Lo patró venc, qui dormia al costat d’aquell meu trast, e dix-me: «Què us turmenta que en tan curt temps vos siau oblidat? Lo mal de mar me pens que us desatenta o vós pensau en ço que no us contenta, que solament ahir vos recollís ja no us record?…». «Mas no em direu, mon senyor, si us plau vós, lo vostro nom e la vostra manera, perquè millor mon pensar se repòs, pus que no en tinc sabuda vertadera?…». «Tothom me diu pel nom Discreció. Lo meu notxer és dit Juí de Raó, qui no es parteix mai de ma companyia; e Veritat nos serva lo timó, molt justament regeix a qui l’hi fia. Los mariners, qui res no els partiria mai del sou meu, són los Bons Nodriments e Bons Costums presos en minyonia, ab gran maror se demostren sabents. Los gabiers he triats molt valents, Esforç la u, Gosar qui l’acompanya, pus són tenguts per acostats parents…14 14. Baselga, El cancionero cit., pp. 83-84. 199 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE El patró és Discreció, el nauxer Juí de Raó, el timoner Veritat, els mariners Bons Nodriments i Bons Costums, el gabiers Esforç i Gosar, els fadrins Bones Intencions, el calafat Paciència, fill de Prudència i Adversitat, el mestre d’aixa Pau, el barber Amor, l’escrivà Liberalitat i altres personatge al·legòrics com Franquesa, Caritat, Misericòrdia i Pietat, de poc protagonisme. El poema que segueix és un elogi de Discreció. Al tercer capítol, Sos dialoga amb Veritat, que lloa al poema corresponent. Ja fa quatre dies que naveguen, des que salparen de Barcelona; ja han passat la desembocadura del Tíber i aviat veuran la muntanya de Somma i trobaran Honor. Lo vent se tenc, que mai un poc girà volta del coll ni balcà quatre jorns, ni per les nits altres camins tirà. La nau mai pres per la mar alguns borns, e en mi diguí: «No darem massa torns si ens dura més lo vent en tal potència, ni desitjar calrà fresc pa de forns, i menys tractar cartes ab gran sciència; que mariner sens gran suficiència trobarà prest quant navegat haurem ab tan bell temps ab nau de consciència. No es pot tardar que en terra ens trobarem. En poc espai viatge espatxarem si Déu nos vol conservar aquest vent… Nosaltres som ja passada la foç que diu la gent en aquell riu de Roma. Refiu en Déu prest vos darem socors e us mostrarem la muntanya de Soma, on pot trobar cascú més bona poma que en altre lloc que jamés haja vist…15 Si tenim en compte que es recolliren dilluns al vespre, hem d’entendre que el capítol tercer succeeix un divendres. El capítol quart, en canvi, és dominat per Amor, amb qui la discussió deriva cap a vessants cortesans i de teoria de l’amor i s’esdevé un diumenge. El poema final és adreçat al personatge al·legòric Amor. Al cinquè capítol, Sos arriba un dilluns de bon matí a les costes de Nàpols. Tota la tripulació al·legòrica li fa saber que l’acompanyarà demà fins a la presència d’Honor, «qui és en aquella força (‘castell’)». Liberalitat és el primer de baixar i anar-hi a parlar, i al cap de poc torna amb la notícia que el rei és fora la ciutat, a causa d’una «mortaldat» segons la rúbrica del capítol cinquè. La tripulació decideix que Pau l’a15. Baselga, El cancionero cit., pp. 89-90. 200 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS companyi fins al seu estatge. Aquella nit reposen tots dos ben allotjats en Terra de Lavoro i, per alleujar el dolor, canta un poema de consol amorós. En aquell punt lo sol hac declinat, Pau me tragué de nau no pererós. Aquella nit nos reposam ambdós ben alleujats en Terra de Lavor. Entrenyorí’m de tots aquells senyors així dient per alleujar dolors: «Car és a mi lo mal que pas d’amor més que altre algú enamorat que sia…16 Al capítol sisè, la veu dominant és la de Pau, que guia el protagonista a través de la cort d’Alfons el Magnànim a Scafati17. Al capítol darrer, Sos s’encomana a la Mare de Déu mentre dialoga amb el rei, i acaba amb una composició lírica posada en boca del monarca. La nau és un poema al·legòric i conceptual en lloança del rei d’Aragó i de les Dues Sicílies, com l’anomena la rúbrica del cinquè capítol, però encara és quelcom més. En inaugurar-lo amb un proemi en prosa, i en dividir-lo en seccions anomenades capítols, perfectament rubricades i delimitades, Sos presenta el seu poema com un tractat moral, que emula la divisió i els procediments d’un text expositiu sobre les virtuts i els vicis. La presència del pròleg en prosa, que conté la dedicatòria, no és pas excepcional en la poesia del segle XV. També l’emprà Bernat Hug de Rocabertí per encapçalar la seva Glòria d’Amor, poema al·legòric de caire ben diferent però també dividit en seccions o cants, a la manera italiana18. Allò que més sorprèn, però, és la inserció de poemes lírics independents al final de cada capítol. El recurs no és exactament equiparable al que trobem en els poemes col·lectius o amb citacions, com el Breviari d’amor de Matfré Ermengau, la Passio amoris de Jordi de Sant Jordi19, el Conort de Francesc Ferrer20 o el Tant mon voler de Pere Torroella21, que insereixen fragments 16. Baselga, El cancionero cit., pp. 104-105. 17. El rei durant aquests dies consta a la ciutat de Nàpols, ni tampoc es té notícia de cap pestilència, cfr. Giménez Soler, Itinerario cit., pp. 256-257; Compagna, La Nau de Lleonard de Sors cit., pp. 54-55. 18. The Gloria d’Amor of Fra Rocaberti. A Catalan Vision-Poem of the 15th Century, ed. H. C. Heaton, New York 1916. 19. M. de Riquer i L. Badia, Les poesies de Jordi de Sant Jordi, València 1984, pp. 265-281. 20. Francesc Ferrer, Obra Completa, ed. J. Auferil, Barcelona 1989, pp. 217-253. 21. Pere Torroella, Obra Completa, ed. F. J. Rodríguez Risquete, I, Barcelona 2011, pp. 349-394. 201 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE lírics d’altres poetes en el decurs del fil narratiu. En el cas de Sos, es tracta de poemes estròfics complets, redactats per l’autor mateix i situats sempre al final de cada secció. Sos emprà el mateix procediment al seu poema dedicat a Alfons de Cardona, comte de Reggio, també de tipus al·legòric, escrit abans de 1452, en una data potser propera a la de composició de La nau. El recurs recorda el que empraren diferents poetes francesos del segle XV, com Froissart o Grandson, que inseriren poemes estròfics complets seguint el fil conductor d’una narració extensa i versificada. És el cas de Grandson, molt conegut pels poetes catalans de l’època, que compongué Le Livre messire Ode intercalant balades, complantes, cançons i lais en el discurs narratiu en vers22. També és el cas de Froissart, que a la fórmula ja coneguda sumà la utilització profusa de l’al·legorisme, com tothom pot comprovar en La Prison amoureuse23 o en L’Espinette amoureuse24. Són, com he dit, models que pogueren fornir la fórmula a Sos, però de cap manera es pot afirmar que fossin les seves fonts directes d’inspiració. L’assumpte del poema és l’assoliment de l’honor per mitjà de l’exercici de les virtuts. És important no confondre, a propòsit d’això, el símbol principal de l’obra (la nau) amb l’assumpte central (l’honor). La nau en què viatja el protagonista no és pas una nau d’honor, sinó una nau de virtuts o, tal com diu Sos mateix, una nau de consciència. És el vehicle que permet arribar fins a l’honor, no pas l’honor en si. A Honor correspon un símbol diferent: el rei Alfons i el seu hostal. Més d’una vegada, el poema parla de l’hostal d’Honor, el palau d’Honor o fins i tot el castell d’Honor, però mai de la nau d’honor, sinó la nau de consciència, com hem vist. L’al·legoria de la nau és l’aspecte menys original de l’obra. En efecte, Sos mateix prescindeix de la descripció física del vaixell, i ens n’ofereix una exposició abstracta, centrada exclusivament en els seus tripulants, que són símbols de virtuts, com hem vist. Res no sabem del tipus de vaixell, ni de les parts que el conformen, ni del seu aspecte, ni tan sols del valor moral dels diferents elements estructurals que eren tan freqüents en altres al·legories nàutiques: el timó, les veles, l’àncora, la tempesta, el port de salut… Per a Sos, els únics elements al·legòrics vàlids són aquells que es poden personificar, aquells que poden intervenir directament en el discurs i establir un diàleg amb el narrador. Això, ho demostra no solament el protagonisme quasi exclusiu dels tripulants, sinó la pròpia figura d’Honor, que no és un lloc o un palau, com manava la tradició, sinó una per22. A. Piaget, Oton de Grandson, sa vie et ses poésies, Lausanne 1941, pp. 381-478. 23. Jean Froissart, La Prison amoureuse, dir. A. Fourrier, Paris 1974. 24. Jean Froissart, L’Espinette amoureuse, dir. A. Fourrier, Paris 1972. 202 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS sona, el rei Alfons. És possible que aquesta decisió respongui a les mateixes exigències que trobarem en el teatre barroc dels segles XVII i XVIII: la personificació de les virtuts permet el joc dramàtic, de manera que, en transformar-se en actors i no solament en simples objectes, les possibilitats literàries es multipliquen. És així com Sos podrà acompanyar-se de diferents guies morals que l’orientaran durant el seu periple: Veritat, Discreció, Amor, Pau i, finalment, Honor. Alhora, el caràcter dialògic, és a dir dramatitzat, del poema fa possible inserir-hi un excurs polèmic entre Sos enamorat i el personatge Amor, discussió que repeteix alguns dels tòpics de la poesia amorosa del segle XV i que doten el poema narratiu d’un cert dinamisme i varietat. L’al·legoria nàutica, d’altra banda, compta amb una llarga tradició: els comentaristes de la Bíblia desenvoluparen la imatge de la nau de l’Església; els clàssics profans, la de la nau de l’Estat. En ambdós casos, es tractava de metàfores referides a institucions col·lectives. La variant més freqüent entre els escriptors en vulgar, que és la que segueix Lleonard de Sos, és aquella que identifica la nau amb la persona, l’ànima o la consciència. Dante encunyà «navicella del mio ingegno» (Purg. I, 2) en una derivació de la metàfora nàutica aplicada a l’escriptura25. Caterina de Siena parla de la «navicella dell’anima» i Petrarca escriu «regg’anchor questa stanca navicella» (206, 39) («que Laura guiï aquesta cansada fràgil nau de la meva vida»). La variant que la identificava amb la persona o l’ànima podia ésser moral, com s’esdevé en el nostre poema, o bé amorosa, tal com la trobem en les nombroses naus d’amor que ens han llegat les literatures castellana, francesa i italiana de la tardor medieval. Una altra volta la tradició francesa ens mostra que la nau com a metàfora de la consciència i de les virtuts era una al·legoria molt freqüent al segle XV. En trobem exemples en Charles d’Orleans, que dedicà a l’assumpte els poemes Nef d’Esperance, amb un protagonisme evident del personatge de la Paix (com la Pau de Lleonard de Sos), i Nef de Bonne Nouvelle26. També es troba en altres autors de finals de segle, que ens llegaren títols com la Nef des dames vertueuses o la Nef des princes, entre d’altres. No es tracta, aquí, de delimitar els models concrets, tal vegada inexistents, sinó de comprovar la tradició del model poètic. 25. E. R. Curtius, Literatura europea y Edad Media Latina, I, México -Madrid-Buenos Aires 1976, pp. 189-193; J. Torró, Ausiàs March no va viure en temps d’Ovidi, in Estudis de Filologia Catalana. Dotze anys de l’Institut de Llengua i Cultura Catalanes. Secció Francesc Eiximenis, cur. J. Valsalobre, A. Rafanell, Barcelona 1999, pp. 186-188. 26. D. Poirion, La nef d’espérance. Symbole et allégorie chez Charles d’Orleans, in Mélanges de langue et de littérature du Moyen Âge offerts à Jean Frappier par ses collègues, ses élèves et ses amis, cur. J. Ch. Payen, C. Régnier, II, Ginevra 1970, pp. 913-928. 203 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE D’altra banda, la segona imatge central del poema és aquella de l’Honor, xifrada no pas en un objecte o un espai sinó en una persona, i extensible en tot cas al lloc que aquesta habita: un palau, un castell, un hostal o, com en el poema de Sos, un campament militar. Com en el cas de la nau de virtuts, l’hostal d’honor també era de moda al segle XV. Potser no trobarem gaires exemples a la literatura hispànica, però són nombrosos per tota Europa: recordem, si més no, la House of Fame que Chaucer compongué al segle XIV, o The Palis of Honoure escrit per Gavin Douglas a les darreries del segle XV. A la literatura francesa, al segle XIV Jean Froissart és autor d’un Temple d’Honneur27; al segle XV, Jean Molinet escriví un Trosne d’Honneur i un Temple de Mars28. A la fi del mateix segle en trobem més exemples: Octovien de Saint-Gelais escriví Le séjour d’Honneur29, i Jean Lemaire de Belges és autor d’un Temple d’Honneur et des Vertus i un Palais d’Honneur féminin, d’inspiració clarament humanística. En tots els casos, el plantejament és similar al que adopta Lleonard de Sos. Examinem, només com a exemple, Le séjour d’Honneur de Saint-Gelais: el poema, estrictament moral, és ambientat en el marc del somni, que fa possible la visió al·legòrica. L’autor emprèn un viatge a la recerca d’Honor, i aquesta aventura, plantejada com una peregrinació espiritual a través de les topografies de la virtut, el duu fins a l’Illa de Vana Esperança, on intervenen la Sensualitat i la Raó personificades. A diferència del poema de Sos, el de SaintGelais proposa una renúncia del món i l’adopció de la vida religiosa com a camí per a assolir l’Honor. En qualsevol cas, els paralel·lismes, propiciats per les convencions del gènere, són evidents. 3. HONOR Amb tots aquests exemples, no tracto en cap cas de cercar models o fonts d’inspiració, sinó de comprovar la validesa de la fórmula al segle XV. En el cas de La nau de Sos, aquesta concepció de l’honor, que deixa de banda la visió exclusivament cavalleresca o militar per concentrar-se en la virtuosa o moral, podria ésser un signe de modernitat, tal com suggerí Anna Maria Compagna. En efecte, Sos sembla partir de la definició aristotèlica de l’honor, molt divulgada al segle XV: honor est praemium virtutis, l’honor 27. Jean Froissart, «Dits» et «Débats», ed. A. Fourrier, Ginevra 1979, pp. 22-43, 91-127. 28. Jean Molinet, Les Faictz et dictz de Jean Molinet, ed. N. Dupire, 3 vols, Paris 1936-1939. 29. Octovien de Saint-Gelais, Le séjour d’Honneur, ed. F. Duval, Ginevra 2002. 204 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS és el premi de la virtut, o aquella altra també vagament aristotèlica: l’honor és la reverència en testimoni de la virtut, definició que Sos aplica al capítol VI: En tenda entram on estava el consell: homes hi vem que sciència vera mostren tenir en llur subtil cervell. Aprés estec un pavalló vermell historiat, que mai rei tal n’ha hagut. Crec en lo món no sia fet tan bell. E Pau me dix, qui no volc estar mut: «Per vós bé pens és clarament sabut que honor és fer a algú reverença segons mèrit de la sua virtut. Bé ho ha comprès la vostra intel·ligença»30. En aquesta època era coneguda entre els nostres escriptors la notícia que hi havia a Roma dos temples prop de la Porta Capena, l’un de dedicat a Virtut i l’altre a Honor, que estaven connectats de tal manera que, segons la tradició, calia entrar pel primer per tal d’accedir al segon. Es pot llegir en les Genealogie (III 40) de Boccaccio i s’explica en el De dictis et factis Alphonsi regis (I 9) del Panormita. L’ensenyament és clar: a l’Honor, s’hi arriba a través del conreu de les virtuts. És exactament la mateixa concepció virtuosa que domina en el debat epistolar que mantingueren, pocs anys després, els poetes Pere Torroella, Romeu Llull i Francesc Alegre, a qui Sos segurament coneixia31. Per contra, Pere Torroella representa en aquest debat el punt de vista de la cavalleria o militar. En efecte, a finals dels anys 70, tres dècades després de la composició de La nau, el poeta barceloní Romeu Llull, que s’havia criat a Nàpols des de ben jove, demanà a Torroella i Alegre una figura o imatge que li permetés «la idea d’honor comprendre e imaginar». Alegre respongué amb una llarga lletra en què descrivia un arbre d’Honor sota l’aparença d’un xiprer: la terra en què creix és l’ànima, la tanca que l’envolta és la Vergonya, que no és ben bé una virtut sinó «lloable passió»; la terra és regada per tres safareigs plens d’aigua, que són Enteniment, Voluntat i Memòria. El primer safareigs pren l’aigua d’un riu anomenat Estudi de Ciències, que ix de la font intulada Fe. El segon, s’omple de Desigs de Virtuts, que pren d’un riu anomenat Diligència de Treballs, que neix de la font Ardent 30. Baselga, El cancionero cit. pp. 106-107. 31. Romeu Llull, Obra completa, ed. J. Torró, Barcelona 1996, pp. 222-234; Pere Torroella, Obra completa cit., II, pp. 245-258. 205 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE Caritat. El tercer s’omple de records de virtuosos actes, que pren del riu Imitació de Virtuosos Exemples, que neix de la font és Esperança. L’aigua d’aquests tres safareigs rega la soca del xipre anomenada Desig d’Honor, o virtut amativa d’Honor. Per aquest procediment de resseguir la sica, les arrels, les branques i els fruits s’ordenen les virtuts cardinals i morals. Alegre ho resumeix amb aquestes paraules: «ab tal fingir clarament se amostren lo nombre tot de les virtuts, que són teologals, intel·lectuals, morals e cardinals»32. Aquestes virtuts coincideixen amb les virtuts morals que establí Gil de Roma al seu De regimine principum. Al seu torn, Torroella respon amb la definició aristotèlica de l’honor com a premi de la virtut i prefereix les etimologies que relacionaven «honos» i «onus», i «vis», «vir» i «virtus», i la figura dels temples romans d’Honor i Virtut, presents en els historiadors clàssics i divulgats per sant Agustí i Boccaccio33. El poema de Sos encaixa força bé amb aquesta mena de literatura cortesana, que enfocava el tema de l’honor des de la perspectiva ètica i cristiana, com una conseqüència del conreu de les virtuts del bon príncep i del bon creient. Coincideix també en l’ús de l’al·legoria com a figmentum capaç de representar visualment conceptes purs o massa abstractes, difícils o impossibles d’expressar per mitjà del llenguatge literal. Sos mateix emprarà, a més de la imatge del vaixell i de l’hostal ja vistos, la de l’arbre d’honor, insinuada breument en dues ocasions tal com farà in extenso Francesc Alegre anys després. Al capítol tercer, en efecte, la Veritat diu al protagonista i narrador que les virtuts són les arrels i les bones accions són les branques («car los fets mir, e la intenció prima / guanya granment qui fa de si la cima, / car és forçat virtuts sien les rels, / rames bons fets, que altra mescla no rima»34). Al capítol cinquè, Discreció esmenta el fruit i l’escorça d’Honor («Lo barber vol e l’escrivà me’n força / que jo us mostre demà per tot lo dia / Honor qui és dins en aquella força. / No us calrà pus oir “puja!” ni “orsa!” / per arribar on se reposa Honor. / Ací veureu lo seu fruit e l’escorça / ni quals valents han la sua favor»35). Són, com he dit, imatges i recursos propis dels ambients del nostre poeta. El poeta expressa els seus objectius, la intentio de la seva obra, al pròleg en prosa i al capítol primer. La veritable intenció del tractat, que és el poema narratiu que ens ocupa, és pràctica. Sos vol fer un acte de servei als seus contemporanis i revelar-los una veritat amagada: qui és Honor i quin és el 32. Pere Torroella, Obra completa cit., II, p. 250. 33. Pere Torroella, Obra completa cit., II, p. 254-256. 34. Baselga, El cancionero cit., p. 91. 35. Baselga, El cancionero cit., p. 102. 206 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS camí per arribar-hi. La conclusió del proemi just abans d’iniciar el relat del viatge diu: E com la intenció de la mia següent obra sia Honor cercar, coneixent en los hòmens general cobdícia de honrats ésser, per avís d’aquells, distinguint aquell, trobaré vostra excel·lència per mitjà d’oficials ordenats en nau qui, en tal guisa com per vostres ordonades virtuts han portat a vós en ésser Honor, conduiran a mi fins a veure vostra mercè, perquè, tornat, narrar puga com se pot esdevenir veure honor ne quines gents saben lo passatge guiar pus dret e necessari, a fi que per no saber no romanga d’ací avant la nau, qui fa tostemps semblant viatge, e de pelegrins no s’umple. E jo, escapat de tot perill e tornat, diga: Benedicite, omnes gentes Domini, Domino; benedicite, omnes populi Domini, Domino36. En compondre el poema, Sos esdevindrà un d’aquells savis subtils que ell mateix esmenta quan descriu la cort d’Alfons el Magnànim. Lleonard de Sos d’ambaixador polític es converteix en enviat d’un missatge moral, en gairebé un profeta que revelarà als contemporanis quina és la via per arribar a l’Honor, i en què consisteix aquest Honor. El poema és, des d’aquest punt de vista, una revelació, i el poeta en serà el profeta perquè així ho ha volgut el rei. Els versos finals són prou eloqüents. En ells, el monarca presenta Honor com una virtut miraculosament encarnada en la seva persona, a la manera d’un nou Messias, i encomana al poeta que transmeti el seu missatge als altres homes, sempre que en siguin dignes: Per tals mitjans és vist Honor en terra, del cel permès estec jo dir-ho puga. Porfidiar contrària Fortuna causa sovent atal cosa s’atenga, prosperitat atals hòmens percaça… Torna tan prest per contar la manera fent molts venir si tant veus que es desitja, pus que les pot mantenir ab mesura37. Aquest són els primers i darrers versos del poema que clou el capítol setè i tota La Nau. Sos ofereix el seu poema com un acte de servei. La seva resposta a la sol·licitud del rei de «contar la manera» és el poema mateix, sorgit per un manament del monarca des dels versos de la pròpia obra. La nau, en efecte, és la guia curativa i purgativa que cal recórrer per assolir les virtuts del rei Alfons, i per tant per conèixer el veritable honor, que és el premi de les virtuts. La nau, per tant, és el missatge d’un ambaixador històric, però és també una revelació sotmesa a 36. Baselga, El cancionero cit., p. 80. 37. Baselga, El cancionero cit., pp. 112-113. 207 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE l’escrutini de la Veritat personificada, i també un camí de perfecció per als qui llegiran el text. L’autor insisteix en moltes ocasions en el caràcter inefable de la seva visió, tant al pròleg, on és un dels motius centrals, com al llarg del poema. El text, com hem vist, desenvolupa un figmentum destinat a fer intel·ligibles abstraccions i realitats sobrenaturals per mitjà de la paraula i la imaginació. En aquest sentit, el poema té trets propis d’una revelació, que se serveix de símbols per tal de traduir l’inexpressable, és a dir, la naturalesa semidivina d’un rei que és l’encarnació d’una idea. El rei, en efecte, és descrit sovint com un fet miraculós a la terra que resulta inabastable per al coneixement dels homes. L’exaltació monàrquica d’Alfons el Magnànim, que sobrepuja els antics cèsars i emperadors estava a l’ordre de dia38. Sos ho fa al pròleg en prosa, on equipara el monarca amb els grans conqueridors de l’Antiguitat: E car entre·ls humans de vós, sacra e real Majestat, se meresca fer gesta per coneguda virtut vostra, pus clarament és demostrat per grandíssim e viril treball de vostra real persona, ardiment, saviesa e despesa d’innumerable quantitat ab espaventables perills, no solament tant com los presents reis, prínceps, senyors e conquistadors, mas sens comparació més que los passats de qui llargament infinits eloqüents han escrit, vós no sol alt, insigne e sens par per vostros honorosos e recordables actes, mas pròpia Honor siau tornat no és de meravellar tan apoquit, sens força, vinga així voluntari en parlar aquella part de vostra estima que a l’enginy de mon entendre pot ésser acomanada, pus que s’adormen aquells a qui més pertinent seria descriure la vostra cavalleria i més que real empresa, sabent tant bé de Fortuna adversa defendre-us per constància, acompanyada de singular aptesa, que, ben amansada la sua fúria, vos atorga ésser monarca39. Al capítol setè i darrer, el poeta expressa el temor reverencial que sent davant la presència del rei Alfons transformat en Honor i mentre parla amb ell. S’encomana a Déu i a Maria i, durant aquest espai de temps, elevant amb el pensament una pregària a Maria on, com aquell que passa el rosari, canta i medita els misteris de la Redempció des de l’Anunciació fins a la Passió, Mort i Resurrecció, l’Ascensió, la Pentecosta i finalment l’Assumpció. El punt inicial de la comparació sembla ésser el torbament de Maria davant l’anunci de l’arcàngel i la reflexió interior sobre el significat de la salutació angèlica: 38. Cfr. en aquest mateix volum el comentari de Lluís Cabré a Paor no em sent que sobreslaus me vença (72) d’Ausiàs March. 39. Baselga, El cancionero cit., p. 79. 208 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS Esforçà’m Déu, aidà’m Verge Maria, dic-ne al pensar, mentre que així parlava. Mare de Déu, del Pare filla, aimia d’Esperit Sant, ella molt reclamava. Jo contemplí l’àngel la saludava… Lo dessús dit en mon cap se maneja tot aquell temps que parlava ab Honor… Aquell gran rei, com viu s’era acabada ma raó, dix en gest d’home secret lo qui us segueix en manera gosada…40 Sos diu aquí per comparació que, així com el Verb prengué de Maria aquella naturalesa humana completa que en el ventre de Maria ha unit a si i Maria concebé i parí no un home sinó Déu com a home, i el Verb residia en Crist i era custodiat en la seva persona com en un temple, de semblant manera Honor ha davallat a la terra i s’ha encarnat en el monarca gràcies a la mediació de les virtuts del monarca i Honor resideix i és custodiat en la persona del rei Alfons. No és estrany, doncs, que davant d’aquesta visió el llenguatge resulti insuficient. Al pròleg en prosa, el nostre poeta enyora la comunicació intel·lectual dels àngels, capaços de mostrar i entendre els conceptes purs, com ara la idea d’Honor, sense necessitat de paraules. Ja que això no és possible, el poeta emprarà el recurs al·legòric. D’acord amb la tradició, el vehicle idoni per a aquest trànsit espiritual és la visió en somni. Sos, malgrat que en cap moment presenta el seu periple nàutic com una visió de la imaginació, manté una certa fidelitat vers aquest element tradicional. Després d’embarcar-se a Barcelona al capítol primer, el protagonista dorm profundament i, en despertar-se a l’inici del cant segon, es troba totalment desorientat, fins al punt que no recorda ni on és ni quin és el destí de la nau. Aquest somni profund, acompanyat d’un episodi d’amnèsia, és el trànsit perfecte entre la realitat i l’al·legoria, ja que a partir d’aquell moment el món de la veu narrativa es mou en coordenades purament simbòliques. Alhora, en tractar-se d’un somni ambigu, del qual el protagonista desperta de seguida, es manté la historicitat del relat, que es mou en tot moment en un equilibri ambigu entre l’ambaixada històrica i l’espiritual, entre el monarca efectiu i el monarca divinitzat, entre les virtuts personificades que dialoguen amb el protagonista i les dades concretes, llocs i dates, pròpies d’un diari nàutic. Aquesta visio, que com veiem és i no és una visió en somnis, mena al protagonista per una via espiritual de purificació, tot seguint el mateix 40. Baselga, El cancionero cit., pp. 111-112. 209 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE itinerari que recorregué el rei per tal de convertir-se en Honor, i de la mateixa manera com el ferro canvia la seva forma sense deixar d’ésser ferro, com diu Sos al pròleg. Si el rei patí una metamorfosi, Sos també haurà de sotmetre’s a una transformació per acostar-se al rei i contemplar la idea que representa. Si bé pens lo que jo sé veure de vostros grans mèrits menor demostració de llur mateixa visió en los més dispondria, si gràcia divina no satisfeia al meu insaciable desigar, puga dir los vostros grans actes e, clarament provant, mostrar segons he dit com sou en Honor transformat i Honor en vós, perquè los desigants aconseguir aquell camí sàpien on trobar la puguen. És feta aquesta transformació en tal forma com lo ferro, per continuat estar dins foc és vist tornar brasa en color e calor, no departint de sa primera essència, e no solament en si mateix roman aquella matèria, mas encara inspirant als circumstants forneix de ço que té major abundància. Així vostra majestat, per continuat estar en obres honoroses, ja tornades en vós hàbit, lo vostro ofici e de honor és conegut u41. Aquest camí purgatiu té com a finalitat el control de les passions, com la por o l’amor, i l’assoliment de la tranquil·litat de l’ànima, xifrada en la Pau que protagonitza bona part del poema. Lleonard de Sos repeteix diverses vegades que el protagonista del poema està torbat per diferents passions, però que alhora té el ferm propòsit de purgar-les per tal d’assolir l’equilibri exacte entre les diferents potències de l’ànima. Així, abans d’emprendre el seu viatge, escriu: Esmava cert ma joventut perdera, menys del perill que em veia aparellat. Continent fiu de torbada manera, mas lo desig no volc tornar arrera, tant los contrasts no em donaren passió: si no, bé pens tot lo fet se desfera42. Poc després, es compara amb aquell que «sent mal venir e sospira», i gairebé a cada capítol insisteix en el motiu dels perills del viatge i dels desassossecs anímics, la inquietud de les passions, que el protagonista haurà de superar per arribar fins a Honor. Només la intervenció de Déu, la Mare de Déu o les Virtuts li permeten apaivagar aquests turments. És el que s’esdevé a l’inici del segon capítol, just després d’adreçar una cançó a Déu, que li permet aconsolar-se i dormir: 41. Baselga, El cancionero cit., p. 80. 42. Baselga, El cancionero cit., p. 81. 210 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS Pus acabat haguí lo dessús dit, sobrat per son, qui turmentat m’havia, prengué repòs lo meu pobre esperit fins que lo sol demostrà que era dia43. Tot seguit, el patró Discreció li demana quin és el motiu del seu turment, i reapareixen sovint les paraules passió, gran dolor i major dan. El discurs de Discreció, que ocupa bona part del capítol segon, és tota una lliçó moral que el narrador haurà de fer seva abans de continuar el seu viatge. Diu Discreció, que en tot moment té present l’estat d’alteració del protagonista, que la paciència, la prudència i l’adversitat són el bàlsam per controlar les passions de l’ànima, i assenyala, doncs, que aquest domini és el camí correcte cap a les virtuts. No és gens estrany, doncs, que després del seu discurs, ja entrats al capítol tercer, el narrador observi que els vents contraris han donat pas a un vent regular, potent i favorable. Aquests vents anuncien l’aparició de l’esperança en l’ànim del protagonista. És la primera i única vegada en què un element de la naturalesa és convertit en símbol del poema, malgrat que de manera una mica forçada, ja que en cap moment dels dos primers capítols s’havia afirmat que el temps fos tempestuós o contrari. Malgrat la millora experimentada pel narrador, encara li resta molt de camí per recórrer. Encara mostrarà tristesa i enuig al capítol tercer, i només després de les paraules de Veritat trobarà una mica de repòs. És en aquest context, el del domini de les passions i l’assoliment d’un estat de pau interior, que fa sentit l’aparició del motiu amorós i els patiments de l’enamorat, especialment al quart capítol de l’obra. En efecte, Sos es presenta com un enamorat no correspost, que és víctima, doncs, de la desconeixença de la dama i de la concupiscència, que és una forma d’impaciència. Ell mateix resumeix els retrets tòpics dels enamorats durant la seva discussió amb Amor: Mes dir jo us vull, de què em veig en gran pressa, com debatem en algun lloc per cas, que diuen molts vós donau mala endreça en ço que es deu per vós obtenir ras. Tot ben amant deu gonyar a son pas que sia amat de la persona amada, e com sovent tal juí se torn atràs vós sou injust, açò és cosa provada44. 43. Baselga, El cancionero cit., p. 83. 44. Baselga, El cancionero cit., p. 96. 211 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE Tot seguit, l’Amor personificat defensa un model d’amor honest i desinteressat, basat més en l’amistat, la conversa sàvia i les virtuts que no pas en el desig sensible, un amor en què l’equilibri i la proporció recompensin la paciència del bon enamorat. Sos, que abans de discutir amb Amor sobre aquest assumpte es trobava «a tres dits de l’extrem», és a dir, a un pas de la mort, com els enamorats arquetípics, reacciona davant de les paraules d’Amor i accepta els seus consells sobre l’amor correcte, ordenat i honest. D’aquesta manera, la seva rectificació i el conreu d’una experiència amorosa honesta, tranquil·la i plàcida demostren el seu correcte domini de les passions i el fan digne de l’honor que tant s’afanya a cercar. En tot moment, en la discussió passada trobem conceptes, i fins i tot imatges, propis d’Ausiàs March i d’alguns dels poetes amorosos més destacats de l’època, com Pere Torroella i la seva aposta per un amor controlat per la raó i basat en les virtuts, o bé com Romeu Llull i els seus poemes sobre la placidesa de l’amor matrimonial. Quan, al capítol cinquè, el protagonista fa peu a Nàpols, ja està gairebé alliberat de les congoixes i els desordres interns que tant l’havien turmentat en el passat. Aquest serà, doncs, el moment propici per a l’aparició del personatge de Pau, que li farà de guia i representarà la tranquil·litat de l’ànima que està a punt d’assolir. Al final d’aquest capítol, el narrador canta una cançó d’absència amorosa que, a primer cop d’ull, no sembla tenir relació amb el contingut de la secció en què es troba. És la balada que comença: Car és a mi lo mal que pas d’amor més que altre algú enamorat que sia. Car és a mi sentir-me congoixar l’esperit dins per l’entrenyor qui em guia. Car és a mi l’esmortir si venia, pus són absent de la qui em fa sospirar. Qui sap, amant, son esforç esforçar trobant-se lluny de grans béns que tenia?45 Si llegim amb cura el passatge i tenim present l’evolució purgativa del protagonista, però, comprovarem que sí que compleix una funció: el narrador, acompanyat per Pau, ha abandonat el vaixell, i tots dos dormen al camp. Com que troba a faltar les virtuts que l’han guiat durant el trajecte («entrenyorí’m de tots aquells senyors»), canta una cançó per «alleujar dolors». El poema, doncs, actua com a cura anímica i consolida la fràgil pau interior que el poeta havia anat conquerint, de manera lenta i pro45. Baselga, El cancionero cit., p. 105. 212 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS gressiva, al llarg del seu viatge. A més, a l’enyorança pels companys de la nau correspon una cançó basada en els tòpics de l’absència amorosa. Finalment, la balada implica l’acceptació voluntària de les penalitats de l’amor (explícita en l’anàfora «Car és a mi»), i això indica que el poeta ha assimilat perfectament les lliçons prèvies de l’Amor personificat. L’endemà, ja al capítol sisè, el cant curatiu i el repòs nocturn en companyia de Pau tenen l’efecte d’apaivagar per complet els sentits i les potències de l’ànima del narrador, de manera que, per fi, el protagonista experimenta l’harmonia que tant havia cercat: Així com prest sol·licita el senyor als servidors com veu la matinada, despertà Pau començant la claror d’aquell matí tota nostra bergada. Los meus cinc senys tingueren despertada; la virtut llur al primer mot cregueren; en si concords en aquella jornada ésser los viu, gent de seny paregueren; los tres poders de l’ànima vingueren aprés d’aquests grandament pacifics, seguint a Pau, e los dos no volgueren res contra u, ans foren tots units46. És ara, i només ara, quan el narrador és capaç de controlar les seves passions (la por, l’angoixa, la impaciència, el desordre amorós), que és hàbil per ingressar a la cort del monarca i per contemplar l’Honor que representa. Aquesta gradació, que com veiem consisteix en la purificació progressiva del protagonista i la seva plena integració entre els tripulants de la nau de virtuts, mostra que Sos no va deixar a l’atzar l’estructura ni el disseny del poema. 4. ESTRUCTURA DEL POEMA Aquest poema narratiu comença com qui diu amb una endreça a Déu, origen de totes coses, amb el poema del prímer capítol («Déu qui en tu estaves poderós / ans de crear àngels, cels, elements…»). A continuació, el personatge Discreció fa possible el coneixement de la Veritat, també personificada. Com diu Lleonard de Sos, la Veritat procedeix del cel, perquè és nom de Déu, do de Déu («Jo vinc del cel, on la perfecció / del Creador 46. Baselga, El cancionero cit., p. 106. 213 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE me vol e em festeja, / e só d’aquells qui han devoció / en sa virtut llunyant de de tota enveja / …Nunca em partesc dels aventurats cels / si bé em davall en la natura humana»47). Ell és origen de tota veritat com Crist afirma davant Ponç Pilat (Jn 18, 37) i sant Tomàs d’Aquino diu amb la fórmula lapidària: Déu és «ipsa summa et prima veritas». Totes les virtuts tenen el fonament i la guia en la Veritat («Cert, Veritat, jo us graesc la resposta, / pus que tant ver haveu respost i bé. / Bonesa fa qui per senyor vos té, / verificant vostra raó disposta. / Disponga’s, doncs, tothom en ésser tal / com plau a vós lo vertader que sia. / …No té pocs béns qui us és ver parcial, / pus les virtuts segueixen vostra via…»48). Llavors és quan apareixen les figures d’Amor i d’Humilitat, estretament lligades. L’aparició d’Amor permet a Sos jugar a l’ambigüitat, ja que és presentat com a caritas, però sobretot com a eros, i això fa possible una llarga digressió sobre matèria sentimental que podria semblar impertinent en aquest poema. L’opció de Sos per l’amor honest i virtuós, fonamentat en l’equilibri de les potències de l’anima i el control de les passions, serveix per integrar l’amor en el seu camí de perfeccionament, que conclourà amb l’aparició final de Pau, és a dir, el repòs de l’ànima. Tampoc la figura d’Alfons el Magnànim no és deixada a la ventura. El rei és, a l’inici del poema, una figura absent que Sos només pot conèixer després d’un viatge ple de riscos, com repeteix el poema més d’una vegada. En arribar al regne de Nàpols, el monarca es fa present de manera indirecta, a través dels seus dominis, que poc després adquireixen una fesomia més concreta en la descripció del seu campament. La cort itinerant d’Alfons és, en aquest sentit, un indici que anticipa tot allò que representarà el monarca en persona, gràcies als seus cavallers (la fortalesa), als seus savis (la sapiència), als seus religiosos (la fe) i als seus músics, gossos i ocells de caça (les aficions). Per fi, Sos contempla el monarca, que no és descrit físicament. Un altre cop, es fa present mitjançant indicis, com podien ésser el tron reial o les Virtuts al·legòriques que l’acompanyen (les quatre cardinals i les tres teologals). El poema final, posat en boca del rei mateix, és el clímax de l’obra, la coronació d’aquest procés ascendent que ens apropa a un rei inefable, des de l’absència inicial fins a la seva irrupció a través de la paraula directa. L’estratègia narrativa de Sos consisteix en l’equilibri entre la impaciència del protagonista per conèixer Honor i la postergació d’aquest objectiu: no és estrany, doncs, que el protagonista digui més d’una vegada que té pressa per arribar fins a Nàpols. Quan finalment hi arriba, la notícia que el rei és fora de la ciutat endarrereix la trobada, que 47. Baselga, El cancionero cit., pp. 91-92. 48. Baselga, El cancionero cit., p. 92-93. 214 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS només arriba després d’una nit d’espera i la detallada descripció de la cort reial. Finalment, la qüestió sobre si l’honor només es possible entre els homes de paratge és formulada amb insistència als capítols primer, quart, cinquè i sisè. Lleonard de Sos fou adobat a cavaller, però descendia d’una família de paratge. 5. LA CULTURA DEL POETA No entraré a discutir si la cultura de Lleonard de Sos és medieval o humanística en essència. És, sens dubte, una discussió pertinent, però que pot introduir més distorsions en la lectura dels seus versos que no pas aclariments sobre el seu valor històric o literari. Malgrat tot, no em puc resistir a esmentar tres passatges, ni que sigui molt per sobre, que mostren els horitzons culturals del poeta barceloní. El primer correspon a un fragment del pròleg, on llegim: És cert mester lo vostre fat no semblar al de Meleagre, e que els tions no cremats sostenints vostro viure fossen en poder de altros famosos prínceps. Si no, prest se veuria, obeint les induccions d’enveja, ells furiosament bufant cremar aquells per termenar vostra claríssima vida. És cert vós no ésser Cupido, per mà dels déus crucificat en la murtera, per esperar la pietat que Venus devallant en los inferns ne aconseguí49. Les referències clàssiques i mitològiques són un motiu ornamental molt freqüent en els textos de l’època, i per tant no són especialment sorprenents. Sí que sorprèn, en canvi, el relat sobre Cupido, citat aquí, de manera molt forçada, com a exemple de desgràcia, en contrast amb el destí d’Alfons el Magnànim. El relat correspon al motiu del Cupido cruciatus, que fou relativament conegut a partir del segle XVI, però que és molt rar en l’època i en els cercles barcelonins de Lleonard de Sos. El motiu prové del poeta Ausoni, que al segle IV hi dedicà un poema de 103 versos en què descriu com les dones que patiren per culpa de Cupido, entre les quals Ariadna, Pasífae, Sèmele i fins i tot la seva mare Venus, es vengen del déu penjant-lo d’una murtera. Finalment, les dones decideixen no executar la seva venjança i alliberen Cupido amb la intercessió de Venus. Com conegué el nostre poeta aquest mite? No ho sabem, però podem sospitar que devia sentir-lo en alguna tertúlia napolitana o de la mà d’algun aficionat a la lectura d’Ausoni i altres poetes llatins poc freqüents en els cercles habituals de Sos. 49. Baselga, El cancionero cit., p. 79. 215 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE L’altre fragment, que correspon al capítol quart, dedicat a l’amor, és el següent: E no hi culpau si jo no estic de pensar mal per una amar susara, dir-vos qui és ne si la tinc per cara. Bé ho sabeu vós qui em feu pensar tostemps en sos cabells i en sa gentil cara, e més en ço qui ab ella mora ensemps. Saber té molt, si bé és jove de temps, e en lo seu gest par que sia deessa. Juno, Pallas, Venus totes ensemps li han tramès lo pom com a mestressa50. En un text tan àrid, conceptual i poc propens a les imatges com és La nau, aquests versos són una sorpresa per als lectors atents. La descriptio puellae és, a diferència d’altres descripcions del poema, gratament visual, i sembla fora de tot dubte que és d’inspiració estilnovística: ho fan pensar no només els cabells i la cara, sinó també l’adjectiu gentil, l’equilibri entre la bellesa física i les virtuts espirituals («ço qui ab ella mora ensemps») i el tòpic del puer senex, que apareix en altres poetes catalans sempre per inspiració petrarquesca. Els termes gest i deessa, que per uns instants podrien fernos pensar en Ausiàs March, van acompanyats d’una referència mitològica al judici de Paris. És una referència interessant perquè sembla calcada sobre aquells versos de la Comedieta de Ponza, del Marquès de Santillana, que mossèn Avinyó va glossar al Cançoner de Vindel i que el mateix Avinyó, coneixedor de Petrarca, incorporà al seu poema Socors de les muses51. No deu ser casualitat que el poema de Lleonard de Sos incorpori, com a una manifestació de les novetats literàries que havia conegut a Itàlia, les referències al Cupido cruciatus d’Ausoni o la descripció estilnovística o petrarquesca de la seva dama. Tampoc no sembla casualitat que, al capítol segon, acumuli citacions d’Horaci, Boeci, Terenci i Sèneca, o que el parlament final del Magnànim estigui inspirat, en bona part, en la secció De felicitate dels Fets i dits memorables de Valeri Màxim. En contrast amb aquests signes de modernitat i assimilació de nous estímuls literaris, destaca el següent fragment, en què Lleonard de Sos recorda els serveis del monarca a la Cristiandat quan envià un exèrcit de 50. Baselga, El cancionero cit., p. 96. 51. R. Ramos - F. J. Rodríguez Risquete - J. Torró, Mossèn Avinyó, the “Cancionero de Vindel” ant the “Cançoner llemosí del siglo XV”, in «Digital Philology. A Journal of Medieval Cultures», 3, 1 (Spring 2014), pp. 150-151. 216 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS 4000 homes a Tívoli per garantir la seguretat del conclave que escollí Nicolau V el 1447: No us par fes més Costantí donant dot tan opulent a l’Església Santa com féu aquest, qui volc se fes per vot elecció de qui ens cobrés sa manta. Cobdiciós d’aquest fet molt s’espanta que en tal poder dins en Tívoli estant, gents d’armes prou, infanteria tanta, lo papa mort, fes ço que fera sant52. Lleonard de Sos fa referència, com és evident, a la donació de Constantí, el famós decret dels volts de l’any 300 en virtut del qual l’emperador Constantí I el Gran reconegué el papa Silvestre com a sobirà de l’Imperi Romà d’Occident. El caràcter apòcrif d’aquest document, però, fou demostrat per Lorenzo Valla el 1440, és a dir, uns vuit anys abans de la redacció de La nau, i justament en el període en què Valla està al servei d’Alfons el Magnànim en qualitat de secretari. És que potser Lleonard de Sos no n’estava al corrent? És una possibilitat, però cal tenir en compte que Valla escriví el seu text justament per encàrrec del rei Alfons, ja que afavoria els interessos estratègics del monarca a Itàlia. Veiem, doncs, que el mateix poeta que esmenta el motiu del Cupido cruciatus d’Ausoni i desenvolupa una descriptio puellae de sabor inequívocament estilnovista, ignora o sembla ignorar un text crucial que devia ésser tema de conversa freqüent a la cort del monarca53. Els tres exemples, en qualsevol cas, ens permeten fer-nos una idea dels horitzons, les possibilitats i els límits de la poesia de Lleonard de Sos. 6. CONTEXT HISTÒRIC El poema també s’ha de llegir en el seu context històric immediat. Si és cert, com diu Sos, que el compongué a finals de 1448, segurament coincidint amb una ambaixada documentada del poeta a la cort de Nàpols, tot just havien transcorregut cinc anys des de l’entrada trionfal del monarca català a la ciutat, que tingué lloc el febrer de 1443. Després de la conquesta del nou regne, el rei Alfons tenia la necessitat de legitimar-se a ell 52. Baselga, El cancionero cit., p. 108. 53. Cfr. G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla donazione di Costantino, Roma 1985. 217 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE mateix i al seu successor Ferran davant dels seus súbdits i dels regnes i territoris veïns. Són prou conegudes les ambicions personals del monarca després de la conquesta de Nàpols, que el dugueren a mantenir conflictes permanents pel control d’Itàlia amb els genovesos, els venecians, els estats pontificis i el ducat de Milà. L’amenaça turca, d’altra banda, afegia tensions externes que Alfons el Magnànim també hagué d’afrontar. Lleonard de Sos, en aquest context d’afermament de l’autoritat reial al territori tot just conquerit, pretén compondre un ambiciós poema que, sota l’aspecte d’un tractat moral, atorgui legitimitat al monarca i el presenti com a dux Italiae i com a protector de la Cristiandat. Al seu pròleg, Lleonard de Sos es dol, justament, que cap escriptor hagi immortalitzat les virtuts del rei, malgrat que «entre els humans de vós… se meresca fer gesta». El nostre poeta, davant del silenci dels escriptors més aptes, es presenta humilment com un escriptor incapaç que s’ha vist obligat a escriure un llibre superior a les seves forces. Bona part del text està pensada, en efecte, per transmetre una determinada imatge del rei, que parteix de la rectitud moral però s’estén a altres consideracions purament propagandístiques. Potser el millor exemple sigui el passatge en què el poeta recorda la participació del rei en el conclave de 1447, molt recent en la memòria de l’escriptor. L’episodi enalteix el rei com a príncep cristià, capaç de sacrificar els seus interessos per afavorir els de l’Església, tal com Constantí havia fet amb la seva polèmica donació. La imatge del monarca com a príncep militar, d’una banda, i com a monarca cristià, de l’altra, troba un correlat exacte en les autoritats i personatges esmentats en el poema, ja que Lleonard ha sabut mantenir un bon equilibri entre les referències clàssiques i mitològiques i aquelles bíbliques o cristianes. Aquesta imatge s’intensificarà pocs anys després, arran de la desfeta de Constantinoble i dels projectes de croada d’Alfons el Magnànim. La imatge del rei, que és el protagonista absent fins al capítol final, també respon a la propaganda oficial. Ja hem vist que un dels personatges més destacats del poema és Pau, la pau interior personificada. No és sobrer recordar que la pau també formava part de la imatge pública del nou monarca, que féu escriure a les portes de Nàpols el lema Pacificus, i que encunyà moneda amb la inscripció Triumphator et Pacificus. També la descripció del tron encaixa amb la simbologia oficial. Alfons és descrit en una cadira vermella, el color de la reialesa, envoltat per les quatre virtuts cardinals i les tres teologals, i és presentat tothora com a vencedor de la Fortuna. Aquesta representació coincideix força bé amb el llibre esculpit a l’arc del triomf del Castell Nou de Nàpols, en què el rei apareix represen218 «LA NAU» DE LLEONARD DE SOS DE BARCELONA A NÀPOLS tat sobre un carro, al costat del siti perillós, a les regnes d’uns cavalls guiats per Fortuna, i emparat per les mateixes virtuts cardinals i teologals que són descrites al poema de Sos54. Vull acabar reprenent unes paraules de Sos que podem aplicar perfectament al seu poema. Sos afirma que el Magnànim és l’exemplar (ço és, el model, l’arquetip) que cal seguir. També La nau és un poema exemplar en molts sentits. Ho és perquè, sota el vestit de l’al·legoria i l’excusa de la lloança, La nau no només proposa un programa moral, sinó també un exemplar o model literari dominat per la varietat: varietat en els registres i les tipologies, amb mostres de narrativa, descripció, exposició i diàleg polèmic; varietat en la mètrica, que exhibeix models de lai estròfic, balada, cançó i versos estramps, a més dels decasíl·labs narratius que vertebren tota l’obra; varietat en els assumptes: morals, religiosos i amorosos, i també en els recursos expressius, posats de manifest en els poemes independents del final de cada capítol, on Sos intenta dominar els jocs retòrics més exigents inspirats en els models de prestigi: l’escola tolosana i el trobar ric. La nau, doncs, vol ésser una proposta genèrica d’un tractat moral amb excursos lírics, però sobretot vol ésser una proposta literària sense precedents en la literatura catalana del moment. 54. Vegeu J. Domenge, La gran sala de Castelnuovo. Memoria del Alphonsi regis triumphus, in Le usate leggiadrie. I cortei, le cerimonie, le feste e il costume nel Mediterraneo tra il XV e XVI secolo. Atti del convegno, Napoli, 14/16 dicembre 2006, cur. G. T. Colesanti, Montella 2010, pp. 290-342. 219 FRANCISCO JAVIER RODRÍGUEZ RISQUETE ABSTRACT La nau by Lleonard de Sos, from Barcelona to Naples This essay offers an interpretation of the allegorical dream-vision entitled La nau (“The Ship”), by Lleonard de Sos (1412/16-ante 1463). Uixer d’armes of Alfonso the Magnanimous and server of Ferrante, Sos probably composed the poem during an embassy to Naples. It tells the story of a journey between Barcelona and Naples during the month of November, 1448. In it the Ship represents Conscience, the Crew several Virtues. Once the ship lands, Peace escorts the poet to Scafati, where Sos gets to talk to the King, a personification of Honor and a repository of Christian princely Virtues. La nau thus functions both as an eulogy and a moral treatise. This study also examines the poem’s French models and political context: Alfonso’s image (triumphator et pacificus) as it emerged after the election of Pope Nicholas V in 1447. The author’s culture reflects his contact with Neapolitan humanistic circles. Francisco Javier Rodríguez Risquete Institut de Llengua i Cultura Catalanes - Universitat de Girona frodriguez.risquete@gmail.com 220 Jaume Torró Torrent IL ROMANZO CAVALLERESCO TRA LA LETTERATURA ANTICA E I ROMANZI CAVALLERESCHI E D’AVVENTURA FRANCESI E BORGOGNONI Nell’ambito della letteratura ispanica i romanzi Curial e Güelfa, di autore anonimo1, e il Tirant lo Blanc di Joanot Martorell2 sono stati considerati tradizionalmente, soprattutto a partire dagli studi di Martí de Riquer, due «novel·les cavalleresques», romanzi cavallereschi3. La denominazione «novel·la cavalleresca» compare per la prima volta nell’Historia general de las literaturas hispánicas, diretta da Guillermo Díaz-Plaja, nei titoli dei capitoli La novela caballeresca, sentimental y de aventuras di Pere Bohigas e La novela caballeresca di Jordi Rubió4, però fu Martí de Riquer che la fissò e la diffuse, alcuni anni dopo. Gli autori di questi due romanzi d’avventura e di cavalleria inventano e narrano una storia a partire da spunti artistici caratterizzati dalla verosimiglianza, e nel far questo si distanziano nettamente sia dai romanzi arturiani in versi di Chrétien de Troyes e dai posteriori romans in prosa del ciclo arturiano (Lancelot-Graal o Vulgata arturiana, Meliadux-Guiron le Courtois e Tristano), sia dai romanzi come l’Amadís de Gaula5 e da altri 1. Anònim, Curial e Güelfa, ed. L. Badia - J. Torró, Barcelona 2011. Per la traduzione italiana: Anonimo, Curial e Guelfa, introduzione di A. Ferrando Francès, traduz. italiana di C. Calvo Rigual e A. Giordano Gramegna, Roma 2014. 2. Joanot Martorell, Tirant lo Blanc i altres escrits, ed. Martí de Riquer, Barcelona 1990. Per la traduzione cinquecentesca del Tirant lo Blanc di Lelio Manfredi: Tirante il Bianco, ed. A. Annicchiarico et alii, Roma 1984; per quella moderna: Joanot Martorell, Tirante il Bianco, traduz. italiana di P. Cherchi, Torino 2013. 3. Per la definizione del termine novel·la cavalleresca, cfr. M. de Riquer, Història de la literatura catalana, II, Barcelona 1964, pp. 575-602. 4. P. Bohigas Balaguer, La novela caballeresca, sentimental y de aventuras, Barcelona s. d. (estratto del capitolo dell’autore in Historia general de las literaturas hispánicas, II, Pre-renacimiento y Renacimiento, Barcelona 1953, pp. 187-236); J. Rubió Balaguer, Literatura catalana, in Historia general de las literaturas hispánicas, III, Barcelona 1953 (ediz. catalana in Obres Completes de Jordi Rubió i Balaguer, I, Història de la Literatura Catalana, Barcelona 1984). 5. Garci Rodríguez de Montalvo, Amadís de Gaula, ed. Juan Manuel Cacho Blecua, Madrid 1987-1988. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 JAUME TORRÓ TORRENT libri di cavalleria successivi, molto popolari durante il regno dei Re Cattolici e dell’Imperatore Carlo V, conosciuti con la denominazione «novelas de caballerías», cioè romanzi di cavalleria. Martí de Riquer ricordava, allo stesso tempo, anche le biografie di cavalieri quali Jacques de Lalaing6, Jean le Meingre7 e Pero Niño8, le quali narrano le avventure e le prodezze di personaggi realmente esistiti, autentiche cronache della vita dei grandi capitani contemporanei, diventando egli stesso un magnifico narratore della cavalleria del XV secolo. Ciò che intendeva dire, in qualche modo, era che questi libri costituivano lo specchio letterario degli autori del Curial e Güelfa e del Tirant lo Blanc. Se i cavalieri in carne e ossa si sforzavano di aderire agli ideali cavallereschi rappresentati, mantenuti e alimentati dalla letteratura, mentre i loro cronisti, allo stesso tempo, si sforzavano di adattare le avventure dei loro eroi agli schemi e ai modelli della letteratura cavalleresca, nei nostri romanzi la relazione tra la letteratura e la realtà è inversa: vi osserviamo, infatti, la trasposizione di un cavaliere immaginario nella realtà contemporanea, in una geografia nota e in un momento storico concreto. Alberto Varvaro9, ridefinendo meglio questo concetto così pertinente all’ambito ispanico e soprattutto attribuendo un nuovo valore all’etichetta novel·la cavalleresca, ha ricollocato i due grandi romanzi nell’ambito della narrativa e del romanzo d’avventura francese della fine del XIV e del XV secolo, la quale ebbe due grandi epicentri di formazione e sviluppo: il primo in Provenza presso la corte angioina, nel quale era preminente la tematica amorosa e a cui appartengono sia il Paris e Viana che Antoine de La Sale con il suo Petit Jean de Saintré; e il secondo presso la corte di Borgogna, soprattutto durante il regno di Filippo il Buono, nel quale si privilegiavano le avventure cavalleresche e a cui appartengono veri e propri romanzi storici come il Baudouin de Flandre. Questa cornice più ampia, di respiro europeo, ci consente di recuperare un altro romanzo catalano che Riquer aveva classificato invece come orientale, ovvero la Història de Jacob Xalabín10. Si tratta di un’immaginaria 6. Le livre des faits du bon chevalier messire Jacques de Lalaing, traduz. in francese moderno di Colette Beaune, in Splendeurs de la cour de Bourgogne. Récits et chroniques, ed. D. Régnier-Bohler, Paris 1995, pp. 1193-1409. 7. Le livre des fais du bon messire Jehan le Maingre, dit Bouciquaut, mareschal de France et gouverneur de Jennes, ed. D. Lalande, Paris-Genève 1985. 8. Gutierre Díez de Games, El Victorial: Crónica de don Pero Niño, ed. Rafael Beltrán Llavador, Salamanca 1997. 9. A. Vàrvaro, El Tirant lo Blanch en la narrativa europea del segle XV, in «Estudis Romànics», 24 (2002), pp. 149-167; Id., La novela europea en el siglo XV, in La novel·la de Joanot Martorell i l’Europa del segle XV, cur. R. Bellveser, I, Valencia 2011, pp. 305-317. 10. Història de Jacob Xalabín, ed. A. Pacheco, Barcelona 1964. Per la traduzione italiana: La storia di Jacob Xalabín, introd. N. Puigdevall, ed. e traduz. A. M. Com- 222 IL ROMANZO CAVALLERESCO storia d’amore tra il principe, realmente esistito, Yakup Çelebi, figlio di Murad I, ed Erguis, figlia del principe di Palazia, l’antica Mileto. L’ambientazione storica del romanzo è interamente contemporanea, e la cornice geografica e nobiliare è verosimigliante e ancora oggi verificabile. In definitiva, in questa epoca e in questa particolare area, il realismo narrativo diventa l’elemento specifico del racconto romanzesco, dove per realismo s’intende l’inserzione di vicende militari e amorose immaginarie in una cornice realistica, come una geografia conosciuta, spesso mediterranea, in un contesto contemporaneo o storicamente piuttosto accurato, con una combinazione nella quale l’impresa cavalleresca assume la stessa importanza della felicità in amore. Sul tema sono tornati, più recentemente, Rafael Beltran11, Rafael Ramos12, Lola Badia e chi scrive13. I rapporti della Corona d’Aragona con gli Angiò in questi anni furono decisivi: dal matrimonio tra Violante d’Aragona e Luigi II d’Angiò nacquero, infatti, Luigi III d’Angiò, Renato e Maria d’Angiò, che andrà in sposa a Carlo VII di Francia. Nel Curial e Güelfa si parla per ben tre volte di Angers, ed è proprio in questa città che Curial andrà a rifarsi una vita intellettuale e morale al ritorno da una prigionia di sette anni a Tunisi, prima di diventare un grande condottiero al servizio dell’imperatore alla frontiera con i Turchi e di ottenere il successo amoroso e il principato di Aurenja (Orange) come ricompensa per la vittoria di un torneo, indetto dal re di Francia presso Lo Puèi de Velai (Le Puy-en-Velay, nell’Alvernia). L’importanza delle relazioni tra Alfonso IV il Magnanimo e la corte di Borgogna, invece, è testimoniata nell’ambito pittorico, negli arazzi, nella musica, nella lirica e nelle intense relazioni diplomatiche. S’è avanzata l’ipotesi, contraddetta da J. Paviot14, che Jan Van Eyck avesse partecipato all’ambasciata inviata da Filippo il Buono a Valencia nel 1427, per trattare con il re d’Aragona il matrimonio dell’infanta pagna, Alessandria 2010; A. M. Espadaler, La història de Jacob Xalabín i altres novel·les breus, in Història de la Literatura Catalana, dir. À. Broch, Literatura Medieval, III. Segle XV, dir. Lola Badia, Barcelona 2015, pp. 35-52. 11. R. Beltrán Llavador, “Tirant lo Blanc” i les biografies militars i cavalleresques en l’Europa del segle XV, in Joanot Martorell i la tardor medieval, cur. E. Mira, Valencia 2011, pp. 61-72. 12. R. Ramos, A vueltas con la “Crónica del rey don Rodrigo”, in «Tirant. Butlletí informatiu i bibliogràfic de novel·la de cavalleries», 16 (2013), pp. 353-367. 13. Curial cit., pp. 36-49. 14. J. Paviot, La vie de Jan van Eyck selon les documents écrits, in «Révue des Archéologues et Historiens de l’art de Louvain», 23 (1990), pp. 83-93; Id., Les relations de la Couronne d’Aragon avec la Bourgogne et l’Empire germanique au XVe siècle, in La novel·la de Joanot Martorell i l’Europa del segle XV, cur. R. Bellveser, I, Valencia 2011, pp. 41-58. 223 JAUME TORRÓ TORRENT Eleonora con il duca di Borgogna15. In ogni caso, gli storici dell’arte sono concordi nel far risalire a questi anni la conoscenza del grande pittore fiammingo da parte di Alfonso il Magnanimo. Infatti, a seguito delle sue relazioni amichevoli con il duca di Borgogna, il nome e la fama di Jan van Eyck erano giunti alle orecchie del re, il quale, nel 1431, mandò Lluís Dalmau, pittore della «casa del senyor rei», nelle Fiandre16. Quindi la predilezione di Alfonso per la pittura fiamminga nacque nell’epoca in cui essa cominciava ad associarsi sempre più con il potere. Gli storici della letteratura concordano nel ritenere che l’autore di Curial e Güelfa conoscesse l’ambiente della corte napoletana di Alfonso IV il Magnanimo. Tra i cavalieri rivali di Curial, ad esempio, appare un Boca de Far. La stirpe napoletana dei Bocca de Faro è documentata per la prima volta in relazione con il re Alfonso a Ischia, nel 1433. Un certo Pietro Bocca de Faro, cameriere reale, divenne castellano di Santa Severina e San Mauro in Calabria, e lo stesso Melcior de Pando fu rapportato alla famiglia dei Pandone, conti di Venafro, e a Giovannantonio Pandone o Porcellio de’ Pandoni, segretario di Alfonso il Magnanimo e poeta laureato, il quale scrisse, tra le altre opere, un Triumphus Alfonsi regis in occasione dei festeggiamenti del 144317. Anche la stirpe de Pando è ben documentata tra i sudditi italiani di Alfonso. Già dagli studi di Bohigas, la voce narrante del romanzo è associata a Melcior de Pando, amministratore di Güelfa18. Alcuni critici hanno proposto persino che il romanzo stesso sia stato scritto presso la corte napoletana19. Pur trattandosi di un’afferma15. L. Tramoyeres Blasco, El pintor Luis Dalmau. Nuevos datos biográficos, in «Cultura Española», 6 (1907), pp. 553-580; W. H. James Weale, Hubert and John Van Eyck. Their Life and Work, London-New York 1908, pp. 11-12. 16. R. Cornudella, Alfonso el Magnánimo y Jan van Eyck. Pintura y tapices flamencos en la corte del rey de Aragón, in «Locus Amoenus», 10 (2009-2010), pp. 39-62. 17. Curial cit., pp. 541 e 566; L. Badia - J. Torró, El Curial e Güelfa i el “comun llenguatge català”, in «Cultura Neolatina», 74 (2014), pp. 203-204; D. Coppini, Un’eclisse, una duchessa, due poeti, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, Roma 1985, pp. 333-373; V. Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Firenze 2006, pp. 10-16; A. Iacono, Epica e strategie celebrative nel «De proelio apud Troiam» di Porcelio de’ Pandoni, in La battaglia nel Rinascimento meridionale. Moduli narrativi tra parole e immagini, Roma 2011, pp. 269-290. Il Triumphus di Porcellio è pubblicato in V. Nociti, Il trionfo di Alfonso I d’Aragona cantato da Porcellio, Rossano 1895. 18. P. Bohigas, Curial e Güelfa, in Actes del Tercer Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes, cur. R. B. Tate, A. Yates, Oxford 1976, pp. 219-234 (ried. in Aportació a l’estudi de la literatura catalana, Barcelona 1982, pp. 295-319); Curial cit., pp. 17-19; J. Torró, El manuscrit del Curial e Güelfa, els pròlegs i el Filocolo, in «Revista de Literatura Medieval», 24 (2012), pp. 269-272. 19. R. Miquel i Planas ed., in Curial e Guelfa, Barcelona 1932, p. XLI, e recente- 224 IL ROMANZO CAVALLERESCO zione suggestiva, non è da escludere che si tratti, invece, di un caso analogo a quello del Tirant di Joanot Martorell, iniziato soltanto dopo il rientro da Napoli, dove il cavaliere e scrittore risiedette dal 1450 sino alla morte del sovrano. Il romanzo Guillem de Vàroic, riutilizzato nella prima parte del Tirant, potrebbe invece risalire proprio al periodo napoletano: si tratta di un adattamento più o meno libero del Gui de Warewic anglo-normanno, un romanzo storico con una geografia e un contesto conosciuti. Sia come sia, appare evidente che l’ambiente della corte di Alfonso il Magnanimo risultò decisivo nel conferire a questi due romanzi la loro forma letteraria. Cercherò di illustrarlo con due esempi. Nel Curial e Güelfa, quando il protagonista vede in sogno Ettore sul monte Parnaso, il narratore dice: E, dormint, oí grans crits e fonc-li vijares que es despertàs (emperò ell dormia així fort que no l’hagueren despertat lleugerament), e fonc-li mostrat en aquell somni Hèctor, fill de Príam, lo qual ell tota la sua vida veure havia desitjat; e la paor que d’ell hagué fonc tanta que si Honorada, sa mare, fos estada present, dins lo seu ventre, si pogués, o almenys davall les sues faldes, vergonyosament fugint, esglaiat, se fóra amagat de por20. E in un’altra occasione dice: Però com Curial veés prop la darrera dea Hèrcules, fill de Júpiter e d’Alcmena, lo qual mentre visqué fonc lo pus fort e pus savi del món, e el veés vestit de pell de lleó, ab aquella espaventable cara, hac molt gran por; e null temps havia haüda paor sinó d’Hèctor, fill de Príam, e ara l’hac d’aquest21. L’anonimo descrive la paura di Curial davanti a Ettore comparandola con quella che provò Astianatte alla vista del padre con l’elmo lucente, sormontato dalla criniera di cavallo che ondeggiava come una fiamma: mente ripresa parzialmente da A. Ferrando, Joan Olzina, secretari d’Alfons el Magnànim, autor del Curial e Güelfa?, in «Estudis Romànics», 35 (2013), pp. 443-463. 20. Curial cit., III 10, 3, p. 427. «Dormendo, sentì grandi grida, e gli sembrò di svegliarsi; ma lui dormiva così profondamente che non l’avrebbero svegliato facilmente. In quel sogno gli apparve Ettore, figlio di Priamo, che aveva desiderato vedere in tutta la sua breve vita; e la paura che sentì alla sua vista fu tanta, che se sua madre, Onorata, fosse stata presente e fosse stato possibile, fuggendo vergognosamente terrorizzato, si sarebbe nascosto dalla paura nel suo ventre o almeno sotto la sua gonna». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 486. 21. Curial cit., III 26, 5, p. 487. «Ma, appena Curial vide, vicino all’ultima dea, Ercole, figlio di Giove e di Alcmena, che mentre visse fu il più forte e il più saggio del mondo, e lo vide vestito con la pelle di leone e con quello spaventoso viso, sentì molta paura; e non aveva mai avuto paura, tranne di Ettore, figlio di Priamo, ed ora l’ebbe di costui». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 566. 225 JAUME TORRÓ TORRENT proprio come Astianatte si rifugia presso la nutrice, così Curial, se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe certamente corso a rifugiarsi nel ventre materno o sotto le sue vesti: ὣς εἰπὼν οὗ παιδὸς ὀρέξατο φαίδιμος Ἕκτωρ: ἂψ δ᾽ ὃ πάϊς πρὸς κόλπον ἐϋζώνοιο τιθήνης ἐκλίνθη ἰάχων πατρὸς φίλου ὄψιν ἀτυχθεὶς ταρβήσας χαλκόν τε ἰδὲ λόφον ἱππιοχαίτην, δεινὸν ἀπ᾽ ἀκροτάτης κόρυθος νεύοντα νοήσας22. Nel Tirant, nell’episodio dell’assedio di Rodi, dopo che il protagonista è approdato al porto per rifornire la città di provvigioni, una volta rotto l’assedio della flotta genovese, troviamo che il gran maestro di Rodi manda quattrocento forme di pane appena sfornate e altri viveri al sultano del Cairo. Com lo Mestre hagué oïda missa, vingué a veure al Rei, e a Felip e a Tirant, e parlaren molt sobre la guerra e deliberaren moltes coses en útil de la ciutat, les quals deixe de recitar per no tenir prolixitat. Un cavaller de l’orde, molt antic, qui era vengut ab lo Mestre, dix les següents paraules: – A mi par, senyors, que puix la senyoria vostra ha ben proveït, que la ciutat estarà ben fornida per alguns dies, que mon senyor lo Mestre fes un present al gran Soldà de moltes e diverses maneres de vitualles per fer-li perdre l’esperança que té de prendre’ns per fam. E ara que saben que aquesta nau és venguda e a pesar llur és entrada, coneguen que estam molt ben proveïts de totes coses e, per voler-los fer més plaer los ne volem fer part –. Per tots los magnànims senyors fon lloat e aprovat lo consell de l’ancià cavaller e de continent ordenaren que li fossen tramesos quatre-cents pans calents així com eixirien del forn, vi e confits de mel e de sucre, tres parells de pagos, gallines e capons, mel, oli e de totes les coses que havien portades. Com lo Soldà véu tal present, dix als seus: – Cremat sia tal present e lo traïdor qui el tramet. Açò serà causa de fer-me perdre ma honor e tot l’estat que tinc –. Emperò ell lo rebé ab cara afable e féu gràcies al mestre del que tramès havia23. 22. Iliade VI 466-470. «Così disse lo splendido Ettore, e tese le braccia a suo figlio, ma il bambino piegò la testa piangendo nel seno della nutrice, terrorizzato dalla vista del padre; lo spaventava il bronzo e il cimiero coi crini di cavallo, che vedeva oscillare terribilmente in cima all’elmo». Traduzione di G. Paduano, Torino 1997, p. 199. 23. Joanot Martorell, Tirant lo Blanc cit., cap. 105, pp. 326-327. «Il Maestro, dopo che sentí messa, andò a vedere il Re [di Sicilia], Filippo e Tirante, e parlarono molto della guerra e decisero molte cose utili per la città ma che io tralascio di raccontare per non essere prolisso. Un cavaliere dell’ordine, molto anziano, che era venuto con il Maestro, disse le seguenti parole: “A me pare, signori, che, siccome la Signoria Vostra ci ha molto approvvigionato e la città sarà ben rifornita per alcuni giorni, il Signor Maestro dovrebbe fare un regalo di molti e diversi tipi di vettovaglie al Gran Sultano per fargli perdere la speranza di prenderci per la fame. E ora che sanno che 226 IL ROMANZO CAVALLERESCO A proposito di questo stratagemma, Cingolani ha segnalato il parallelismo con un episodio narrato da Valerio Massimo (VII 4, 3), nel quale si racconta l’astuzia dei Romani, i quali, assediati dai Galli Senoni e rifugiatisi sul Campidoglio, dall’alto delle mura lanciarono pane e altri alimenti verso i nemici24. Costoro, persuasi dall’abbondanza di viveri, decisero di desistere dall’assedio della città. Così racconta Tito Livio: Indutiae deinde cum Romanis factae et conloquia permissu imperatorum habita; in quibus cum identidem Galli famem obicerent eaque necessitate ad deditionem vocarent, dicitur avertendae eius opinionis causa multis locis panis de Capitolio iactatus esse in hostium stationes25. Allora Furio Camillo sopraggiunse con un esercito e dopo sei mesi cacciò i Galli dalla città e ne fece strage. Lo stesso stratagemma è ricordato anche nei Commentarii de bello civili di Cesare riguardo alla guerra di posizione con Pompeo, in particolare quando Cesare sbarra il passo a Pompeo verso Dyrrhaquium (Durazzo), con i due eserciti afflitti da una grave carestia: Est autem genus radicis inventum ab eis qui fuerant in operibus, quod appellatur chara, quod admixtum lacte multum inopiam levabat. Id ad similitudinem panis efficiebant. Eius erat magna copia. Ex hoc effectos panes, cum in conloquiis Pompeiani famem nostris obiectarent, vulgo in eos iaciebant, ut spem eorum minuerent26. questa nave è venuta e, nonostante la loro presenza, è entrata, sappiano anche che siamo molto ben provvisti di tutte le cose, e per volergli dare ancora maggior soddisfazione, vogliamo fargliene parte”. Il consiglio dell’anziano cavaliere fu lodato e approvato da tutti i magnimi signori, e subito ordinarono che fossero mandati al Sultano quattrocento pani caldi cosí come uscivano dal forno, vino e dolci di miele e di zucchero e tre paia di pavoni, galline e capponi, miele, olio e un po’ di tutto quello che avevano portato. Quando il Sultano vide tale presente disse ai suoi: “Si bruci questo regalo e il traditore che lo manda. Esso rischia di farmi perdere l’onore e tutta la reputazione che ho”. Tuttavia egli lo ricevette con viso cordiale e rese grazie al Maestro che glielo aveva mandato». Traduzione di Cherchi cit., pp. 224-225. 24. S. M. Cingolani, Clàssics i pseudoclàssics al Tirant lo Blanc, in «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», 45 (1995-1996), pp. 376-379. 25. Liv., V 48, 4. «Quindi i Galli Senoni fecero una tregua coi Romani, e con l’autorizzazione dei comandanti si iniziarono conversazioni, nelle quali i Galli ricordavano spesso ai Romani la fame, e li invitavano ad arrendersi cedendo a questa necessità; si dice che allora per farli ricredere da questa opinione in più punti sia stato gettato del pane dal Campidoglio sui posti di guardia nemici». Traduzione di L. Perelli, Torino 1974, pp. 910-911. 26. Caes., Civ., III 48. «Da quelli che erano stati occupati nei lavori di fortificazione, fu trovato anche un genere di radice, chiamata chara, che, mescolata al latte, alleviava molto la carestia. Ne facevano una specie di pane, e ve n’era abbondanza. 227 JAUME TORRÓ TORRENT Svetonio, dal canto suo, narra che essendo capitati alcuni di quei pani in mano a Pompeo, li fece sparire «ne patientia et pertinacia hostis animi suorum frangerentur»: Famem et ceteras necessitates, non cum obsiderentur modo sed et si ipsi alios obsiderent, tanto opere tolerabant, ut Dyrracchina munitione Pompeius, viso genere panis ex herba, quo sustinebantur, cum feris sibi rem esse dixerit amoverique ocius nec cuiquam ostendi iusserit, ne patientia et pertinacia hostis animi suorum frangerentur27. Le fonti di questo stratagemma potrebbero essere Valerio Massimo, Livio, Cesare, Svetonio o addirittura altri autori. La critica ha tenuto in considerazione solo Valerio Massimo, ritenendo che la sua lettura da parte di uno scrittore medievale fosse più probabile; tuttavia, il ricordo del commiato di Ettore dal figlio Astianatte, nel sesto libro dell’Iliade, dovrebbe metterci in guardia. D’altra parte, la reazione del Sultano del Cairo coincide con quella di Pompeo, raccontata da Svetonio. È molto probabile che frammenti di Livio o di Cesare fossero letti e commentati durante una delle quotidianae lectiones di Alfonso il Magnanimo28. In tali occasioni, il re si faceva accompagnare da familiari e cortigiani, tra cui v’erano nobili, cavalieri e gentiluomini, ossia gli uomini d’arme e i segretari e professionisti della parola e della penna, i quali, dotti in grammatica, oratoria e diritto intervenivano e dibattevano quando qualche passaggio attirava l’attenzione del sovrano, o se ne rendeva necessario un commento. A queste letture, che come sappiamo avvenivano domi bellique, e cioè Quando nelle conversazioni i pompeiani trattavano i nostri da affamati, questi gettavano loro in quantità i pani fatti di tale materia per abbassare la loro speranza». Traduzione di A. La Penna, Torino 1993, p. 641. 27. Svet., Iul., 68. «Sopportavano così di buon animo la fame e le altre privazioni non solo quando erano assediati, ma pure quand’essi stessi cingevano d’assedio altri, che Pompeo, avendo visto, durante il blocco di Durazzo, quella specie di pane fatto di erba di cui si nutrivano, disse che stava facendo la guerra con degli animali feroci e diede ordine che subito lo togliessero dalla vista e non lo mostrassero a nessuno perché la capacità di sopportare e la tenacia del nemico non demoralizzassero i suoi soldati». Traduzione di I. Lana, Torino 1952, p. 71. 28. Cfr. J. Ametller i Vinyas, Alfonso V de Aragón en Italia y la crisis religiosa del siglo XV, III, Girona 1903-1928, pp. 105-109; L. Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, ed. O. Besomi, Padova 1973, pp. 59-60, 184-185; B. Facio, Invective in Laurentium Vallam, ed. E. I. Rao. Napoli 1979, pp. 78-81; L. Valla, Antidotum in Facium, ed. M. Regoliosi, Padova 1981, pp. XXIV-XXVI, 13-16, 225-228, 304-306; Antonio Beccadelli el Panormita, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, versió catalana del segle XV de Jordi de Centelles a cura d’Eulàlia Duran, text llatí a cura de Mariàngela Vilallonga, Barcelona 1990, pp. 94, 104, 110, 144-145, 264-265. 228 IL ROMANZO CAVALLERESCO tanto a palazzo come nella tenda del re, partecipavano sia Catalani e Aragonesi, sia Siciliani e Napoletani, sia uomini formatisi nella cultura medievale, sia uomini formatisi nella nuova cultura umanistica, che si stava allora imponendo nelle corti signorili e nelle cancellerie degli stati italiani. Per quanto riguarda la citazione dell’Iliade, non possiamo fornire altra spiegazione se non quella di una conoscenza “per sentito dire”, analoga a quella di cui parla Curial durante il suo viaggio ad Atene, Tebe e sul Parnaso dalla doppia cima. Entrat, adoncs, Curial en la sua galera, començà a navegar. E volgué veure aquella ciutat antiga, noble e molt famosa que donà lleis a Roma [i. e. Atene], e mirà aquell estudi famós en lo qual la ciència de conèixer Déu s’aprenia [i e. l’Accademia]. E així com aquell qui era home scientífic e qui nulls temps lleixava l’estudi, alegrà’s molt de les coses que li foren mostrades e dites. Anà més e viu aquella ciutat que primerament murà Cadmo, de la qual tant escriví Estaci en lo seu Tebaidos. Viu los sepulcres d’Etíocles e Polinices, cruels germans fills d’Èdipo e de Jocasta. Anà més, e viu aquells monts de Nisa e Cirra, e viu los llorers consagrats a Apol·lo, déu de sapiència e moltes coses antigues, e les vinyes consagrades a Baco, déu llur de ciència, e moltes coses antigues, les quals de paraula havia oïdes29. Valla tradusse i primi diciassette canti dell’Iliade proprio negli anni trascorsi presso la corte del Magnanimo30: è logico supporre che quando venne letto il passaggio in questione, l’immagine dell’elmo e della criniera di Ettore dovesse carpire l’attenzione di cavalieri e gentiluomini. L’autore del Curial, presente alla lettura del frammento, ne conservò in mente e successivamente lo utilizzò nel suo romanzo, forse ricercandolo in qualche libro o forse semplicemente sfogliando la propria memoria, come sembra indicare la duplicazione «dins lo seu ventre, si pogués, o almenys davall les sues faldes», che traduce la lezione latina «in sinum se nutricis infudit»31. 29. Curial cit., III 10, 1, pp. 426-427. «Entrato, dunque, Curial nella sua galera, cominciò a navigare e volle vedere quella città antica, nobile e famosissima, che dette le leggi a Roma, e guardò quello studio famoso nel quale s’impara la scienza di conoscere Dio. E così, essendo un uomo scientifico che non abbandonava mai lo studio, si allietò molto delle cose che gli furono mostrate e riferite. Proseguì ancora e vide quella città che prima fondò Cadmo, della quale scrisse molto Stazio nella sua Tebaide; vide i sepolcri di Etiocle e Polinice, crudeli fratelli, figli di Edipo e di Giocasta. Continuò ancora e vide quei monti chiamati Nisa e Cirra, e vide gli allori consacrati ad Apollo, dio della sapienza, e le vigne consacrate a Bacco, loro dio di scienza, e molte cose antiche, delle quali aveva udito parlare». Traduzione di Calvo e Giordano cit., pp. 485-486. 30. E. Psalidi, Appunti per un’edizione critica della traduzione dell’Iliade, in Pubblicare il Valla, cur. M. Regoliosi, Firenze 2008, pp. 421-432. 31. Traduzione di Lorenzo Valla, Biblioteca Universitària de València, ms. 413, ff. 229 JAUME TORRÓ TORRENT Joanot Martorell inizia il prologo del Tirant lo Blanc con una citazione di Cicerone sulla storia come maestra di vita, esaltazione della virtù, vita della memoria, messaggera della gloria e voce dell’immortalità: «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis»32. Era questo un luogo comune degli storici greci e latini ripetutamente citato nella storiografia medievale e umanistica. La definizione ciceroniana contribuì a fare dello storico l’oratore per eccellenza e a sottolinearne la necessaria padronanza degli strumenti della retorica e della letteratura. Con questa definizione di Cicerone e della storia come magistra vitae per cominciare un romanzo cavalleresco, Joanot Martorell si colloca all’interno di un’ampia tradizione di storici esperti dell’arte retorica, ovvero oratori. Anche Polibio se ne serve nell’introduzione per ricordarci che la storia è maestra di tutto ciò che dipende dalla ragione, ma lo è pure di quanto non dipende da essa, bensì dalla Fortuna e dal Caso, vale a dire i rovesci della sorte. Si tratta di un motivo che non sfuggì a Leonardo Bruni, che infatti lo riprende nei prologhi delle opere storiche, e che arriva fino alla traduzione della Primera guerra púnica di Francesc Alegre33. Com evident experiència mostra, la debilitat de la nostra memòria, sotsmetent fàcilment a oblivió no solament los actes per longitud de temps envellits, mas encara los actes frescs de nostres dies, és estat doncs molt condecent, útil e expedient deduir en escrit les gestes e històries antigues dels hòmens forts e virtuosos, com sien espills molt clars, exemples e virtuosa doctrina de nostra vida, segons recita aquell gran orador Tul·li34. 62v-63r: «Sic locutus Hector utranque manum filium amplexaturus extendit. Ille aversans patrem atque exclamans in sinum sese nutricis infudit. Expaverat enim clausam patris galea faciem, micantemque ferro bucculam, terribilesque super conum et motu ipso minaces cristas. Ad quam formidinem pater ac mater cachinnos sustulerunt. Mox Hector dempta capiti galea humique deposita filium iam nihil timentem postquam osculatus est atque in manus sumpsit». 32. Cic., De orat., II 36. 33. Cfr. P. Bescós Prat, Francesc Alegre: “La primera guerra púnica”, 1472. Estudi i edició crítica, tesi doctoral, dirigida per M. Morrás i Jaume Torró, Universitat Pompeu Fabra 2011. Barcelona, Biblioteca Universitària, Ms. 85; New York, Hispanic Society of America, Ms. HC387/4327. 34. Tirant cit., prologo, p. 115. «Come l’esperienza mostra chiaramente, la debolezza della nostra memoria lascia facilmente nell’oblio non soltanto i fatti invecchiati per il corso del tempo, ma anche quelli attuali dei nostri giorni. Pertanto è stato molto opportuno, utile e conveniente mettere per iscritto le gesta e le storie antiche degli uomini forti e virtuosi, perché sono specchi chiarissimi, esempi e insegnamento di virtú per la nostra vita, secondo quel che dice quel grande oratore Tullio». Traduzione di Cherchi cit., p. 5. 230 IL ROMANZO CAVALLERESCO Subito dopo, Joanot Martorell abbatte la separazione tra i poeti epici e gli storici antichi, e a fianco dei grandi eroi e condottieri dell’antichità ricorda i giudici e i re d’Israele, i Maccabei e, in fine, Lancillotto e i cavalieri del ciclo arturiano. Llegim en la Santa Escriptura les històries e sants actes dels sants pares, del noble Josuè e dels Reis, de Job, Tobias e del fortíssim Judes Macabeu. E aquell egregi poeta Homero ha recitat les batalles dels grecs, troians e de les amazones; Titus Lívius, dels romans: d’Escipió, d’Aníbal, de Pompeu, d’Octavià, de Marc Antoni e de molts altres. Trobam escrites les batalles d’Alexandre e Dari; les aventures de Lançalot e d’altres cavallers; les faules poètiques de Virgili, d’Ovidi, de Dant e d’altres poetes…. E moltes gestes e innumerables històries són estades compilades per tal que per oblivió no fossen delides de les penses humanes35. Segue lo schema dei nove prodi, però appare evidente che tutti questi eroi sono considerati a partire dalla volontà di cantare e scrivere le gesta, le battaglie dei grandi condottieri che ci hanno preceduto e di rendere la loro gloria immortale. Alessandro Magno portava con sé il suo biografo e segretario Callistene di Olinto, Pompeo Magno si faceva accompagnare da Teofane di Mitilene e Cicerone era ansioso di trovare uno storico o poeta che celebrasse il suo consolato, nonché la sua persona. Anche i grandi capitani medievali si facevano accompagnare da araldi in grado d’impugnare la penna e di diventare cronisti delle loro gesta, come successe a Pero Niño, il maresciallo Boucicaut o Jacques de Lalaing36. Nel Tirant lo Blanc si leggono e s’interpretano le battaglie del protagonista37. L’autore del Curial compara, nel prologo al terzo libro, il suo eroe con Alessandro, Pirro, Scipione, Annibale e Giulio Cesare e riconosce esplicitamente che il protagonista non era né un condottiero di vasti eserciti né un gran conquistatore: Veritat és que aquest noble e valerós cavaller, del qual s’escriu lo present llibre, no fonc gran capità ne gran guerrer e conquistador, així com diríem d’Alexandre, Cèsar, Anníbal, Pirro o Escipió o altres molts, los quals per llur indú35. Tirant cit. prologo, p. 115. «Leggiamo nelle Sacre Scritture le storie e i santi fatti dei santi padri, del nobile Giosuè e dei Re, di Giobbe e di Tobia e del fortissimo Giuda Maccabeo. Quell’egregio poeta Omero ha cantato le battaglie dei Greci, dei Troiani e delle Amazzoni; Tito Livio quelle dei Romani, di Scipione, di Annibale, di Pompeo, di Ottaviano, di Marco Antonio e di molti altri. Troviamo scritte le battaglie di Alessandro e di Dario, le avventure di Lancillotto e di altri cavalieri; le favole poetiche di Virgilio e di Ovidio, di Dante e di altri poeti… E molti altri fatti e innumerevoli storie sono stati compilati in modo che l’oblio non li cancellasse dalla memoria degli uomini». Traduzione di Cherchi cit., p. 5. 36. Cfr. R. Beltrán, Tirant lo Blanc de Joanot Martorell, Madrid 2006, pp. 129-134. 37. Cfr. cap. 119, p. 377; cap. 282, p. 801. 231 JAUME TORRÓ TORRENT stria, mesclada emperò ab cavalleria, conquistaren los uns quaix tot, los altres grans trossos o partides del món. Emperò no he trobat, en allò poc que he llegit, per bé que ho haja volgut encercar, que algun d’aquests nomenats haja meses les mans cos a cos en tants e tan estrets juís e llices e ab tants e tan valents cavallers com Curial féu38. Tuttavia, era un eroe dei duelli, nei quali superava tutti gli antichi, compresi Ercole, gli eroi omerici e coloro che vennero dopo. Come Joanot Martorell, l’autore del Curial non faceva alcuna distinzione tra storici e poeti: si per ventura fossen estats escrits per Tito Lívio, per Virgili, Estaci o algun altre gran poeta o orador, foren estats llegits, recordats e tenguts en gran estima per hòmens de reverenda lletradura39. L’autore si esclude così dalla cerchia di chi è degno d’essere considerato poeta e oratore, e pertanto non ritiene la propria opera meritevole dell’ispirazione delle Muse: E si serà lícit a mi usar de ço que los altres qui escriviren usaren o han usat, ço és, invocar les Muses, certes jo crec que no. Abans entenc que seria cosa supèrflua, car elles no apareixerien ne es mostrarien a mi per molt que les apellàs en subsidi e favor mia, car no han cura sinó hòmens de gran sciència e aquells segueixen, encara que no sien demanades… D’altra part elles se tenen per menyspreades si són meses en obres ínfimes e baixes, car no solen seguir sinó los molts alts e sublimes estils, escrits per solemnes e molts grans poetes e oradors40. 38. Curial cit., III 1, 6, pp. 393-394. «È vero che questo nobile e valoroso cavaliere, sul quale si scrive questo libro, non fu un gran capitano, né un gran guerriero o un conquistatore, così come potremmo dire di Alessandro, Cesare, Annibale, Pirro, Scipione o di molti altri che, per il loro ingegno, combinato però con la cavalleria, conquistarono gli uni quasi tutto, gli altri grandi parti o zone del mondo. Non ho trovato, però, in quel po’ che ho letto, nonostante l’abbia cercato, che qualcuno di questi nominati abbia lottato corpo corpo in tanti e così ardui casi e lizze, e con tanti e così valorosi cavalieri come fece Curial». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 444. 39. Curial cit., III 1 7, p. 395. «Se per caso fossero stati scritti da Tito Livio, Virgilio, Stazio o da qualche altro gran poeta ed oratore, sarebbero stati letti, ricordati e stimati da grandi uomini di lettere». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 445. 40. Curial cit., III 1, 5, p. 393. «E, benché mi fosse lecito usare ciò che gli altri che scrissero usarono, o hanno usato, cioè invocare le Muse, di sicuro non credo che lo farei; prima penso che sarebbe una cosa superflua, perché loro non apparirebbero, né si mostrerebbero a me, nonostante le invocassi molto in aiuto e favore mio, perché si preoccupano solo di uomini di grande scienza e li accompagnano anche se non sono state chiamate… D’altra parte, si sentono denigrate se sono collocate in opere infime e modeste, perché sono solite accompagnare solo gli altissimi e sublimi stili, scritti da solenni e grandissimi poeti ed oratori». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 443. 232 IL ROMANZO CAVALLERESCO Invece, nel sogno sul Parnaso, Curial è definito da Apollo: «poeta molt gran e solemne orador» davanti a Omero e a Virgilio, ed è incoronato dallo stesso dio: «Millor e pus valent entre los cavallers e major de tots los poetes e oradors qui vui són»41. Quindi ne dobbiamo dedurre che lo scrittore del Curial e Güelfa si annovera fra i grandi poeti e oratori perché le Muse l’accompagnano sebbene, per rispetto e venerazione, non le abbia invocate. Occorre ricordare che il primo poeta medievale a essere incoronato «poeta et historiographus» fu Albertino Mussato, nel 1315, davanti al Senato e all’Università di Padova42. La definizione rimandava probabilmente alle due forme del dictamen in versi e in prosa, così come veniva distinto in tutti i trattati fino al XIV secolo e oltre. Nei documenti della Cancelleria di Alfonso, Valla è appellato sempre orator, d’accordo con la sua mansione. La rubrica «Laurentii Valla poete laureati» della lettera che comunica al viceré di Sicilia Ruggero Paruta la rinuncia dei benefici siciliani a favore di Michele de Palma è di gran lunga più tarda e risale a quando si stilarono gli indici dei registri, nel secolo XVI43. Nell’unica e decisiva battaglia nella quale interviene come comandante degli eserciti, cioè quella contro i turchi, l’autore del Curial ricorda Tito Livio, Sallustio, e Cesare: Llegit he en Tito Lívio la victòria que hac Anníbal dels romans e puis la que Escipió hac dels africans e, semblantment, la de Catilina, e no res menys la de 41. Curial cit., III 11, 9-10, p. 436; III 12, 1, p. 438. «Il migliore e più valoroso dei cavalieri e il più importanti di tutti i poeti ed oratori esistenti oggi». Traduzione di Calvo e Giordano cit., p. 501. 42. M. Zabbia, Mussato Albertino, in Dizionario biografico degli Italiani, 77, Roma 2012, ad vocem. 43. Archivio della Corona d’Aragona, Cancelleria, reg. 2832, f. 179 (Accampamento presso il bosco di Presenzano, 26 aprile 1439). Pubblicato da M. Fois, Il pensiero cristiano di Lorenzo Valla nel quadro storico-culturale del suo ambiente, Roma 1969, pp. 173-175. Nei due libri conservati del tesoriere Mateu Pujades leggiamo: «Item doní a miçer Lorenço de Valle, orador romà, qui ha càrrech de ordenar les gestes del senyor rey, los quals li eren deguts ab albarà de scrivà de ració scrit en lo camp real de la Silvia de Anania [i. e. Anagni] lo derrer dia del proppassat mes de deembre per rahó de la terça del salari o provisió de ccc ducats que lo dit senyor li mana donar dels emoluments e drets de la sua cambra. E són per la tanda e paga de Nadal proppassada segons en lo dit albarà se conté que cobre. C ducats»; Archivio Reale di Valencia, Mestre racional, reg. 8791, f. 273v (gennaio 1447). La stessa annotazione e concetto dovette leggere C. Minieri Riccio, Alcuni fatti di Alfonso V d’Aragona dal 15 aprile 1437 al 31 maggio 1458, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 6 (1881), p. 252, nella cedola di tesoreria di dicembre 1446, pubblicata con le seguenti parole: «Alfonso fa pagare ducati cento per rata della sua annua pensione di ducati 300, a Lorenzo Valla oratore romano, il quale à l’uffizio di suo istoriografo per registrare le sue gesta». 233 JAUME TORRÓ TORRENT Júlio e Pompeio, mas jo crec que si ell aquesta hagués sabuda, no haguera escrites aquelles per majors. Aquests no combatien per tirania, sinó solament per la fe de Jesucrist, la qual ardia en los cors dels cristians. Aquí no anava lo fet solament dels cossos, mas cossos e ànimes juntament, e cascú batallava de la sua llei44. Il suo eroe supera tutti gli altri perché i prodi pagani combattevano per la vittoria, mentre Curial si batte invece in difesa della fede. È dunque nel contesto delle quotidianae lectiones di Alfonso il Magnanimo che conviene situare la peculiarità del Curial e Güelfa e del Tirant lo Blanc nel genere del romanzo d’avventura, caratterizzato dalla combinazione tra impresa cavalleresca e felicità amorosa in una cornice storica e geografica precisa, propria della fine del XIV e di buona parte del XV secolo. Entrambi gli autori, infatti, non soltanto conobbero ma tennero anche conto, durante la stesura dell’opera, di un clima culturale nel quale l’Eneide e le opere di Tito Livio, Cesare e Quinto Curzio Rufo venivano lette dal re e dagli uomini d’armi che lo accompagnavano ora alla stregua di specula principis, ora come trattati di cavalleria e di guerra contenenti esempi di buon governo e di eminenti capitani, di scontri in campo aperto per la conquista o difesa di città e castelli, di battaglie e assedi per mare e per terra. L’Eneide è il racconto, impreziosito dall’inserimento di favole poetiche, delle avventure di Enea dalla partenza da Troia fino al suo arrivo nel Lazio. Nell’epica l’eroe è il protagonista, e il racconto della guerra si concentra sulle prodezze e sui combattimenti individuali di Enea, Pallante, Turno, Mezenzio, Camilla o su episodi particolari come la caduta di Troia, gli amori di Didone ed Enea o il duello tra Enea e Turno, con la vittoria finale e la lotta per Lavinia e il regno dei Latini. Il Curial, certamente non a caso, si chiude con un torneo nel quale “en un jorn per sos mèrits obtengué principat e muller”45. Ma più importante ancora dei versi dell’Iliade, o la prossimità tra l’episodio dell’amore di Didone ed Enea con quello di Curial e Camar nel regno di Tunisi, è la volontà manifesta di imitare e di emulare il racconto di Virgilio fin dove lo consentono le lingue e le letterature romanze del XV secolo, e di arricchire le avventure cavalleresche e 44. Curial cit., III 32, 9, p. 507. «Ho letto in Tito Livio la vittoria che ebbe Annibale sui Romani e dopo quella di Scipione sugli Africani, ed ugualmente quella di Catilina e non meno quella di Giulio e Pompeo, ma credo che, se lui avesse conosciuto questa, non avrebbe descritto quelle come le più grandi. Questi non combattevano contro la tirannia, ma solo per fede di Gesù Cristo, che ardeva nei cuori dei cristiani. Qui non c’era solo il fatto dei corpi, ma dei corpi e delle anime insieme, ed ognuno combatteva in difesa della propria legge». Traduzione di Calvo e Giordano cit., pp. 592-593. 45. Curial cit., III 39, 4, p. 528. 234 IL ROMANZO CAVALLERESCO gli amori di Curial con episodi poetici propri di Omero e Virgilio seguendo in questo Dante, Petrarca e Boccaccio. L’anonimo autore del Curial innesta nella narrazione cavalleresca le favole poetiche proprie dell’epica, fondamentalmente i sogni e gli interventi degli dei, che abbelliscono e strutturano il romanzo. Il lettore deve interpretare in modo naturalistico questi interventi, come nella lettura antica dell’Eneide. Nella parte finale del secondo libro, la Fortuna e gli Infortuni invocano Giunone e gli dei. Si nominano Eolo e i venti tempestosi, che «in carceri e in catene frena in vasto antro» nella isola di Lipari, Nettuno che agita i mari, facendo urlare le acque e fuggire i pesci, Plutone, che «obre la gola i llança flames e pedres per la boca de Volcano e de Mongibell, crema jardins e vinyes en Sicília», e Venere Ciprea. Giunone, a nome di tutti gli dei, sentenzia che «Curial vaja per lo món pobre, exiliat e sens honor» e perda Lachesi e il favore di Güelfa46. A partire da questo momento, Curial comincia a commettere funesti errori nelle questioni amorose. Se fino a quel momento Venere aveva protetto l’amore di Curial e Güelfa e, in sogno, aveva messo in guardia Curial sui pericoli dei sentimenti che Lachesi gli suscitava, adesso gli Infortuni ingannano Curial e gli consigliano, in sogno, la peggiore delle decisioni47. All’inizio del terzo libro, la Fortuna maledice Nettuno, Giunone e Dione, madre di Venere Ciprea. A qualsiasi lettore attento, la collaborazione di queste tre divinità richiamerà alla memoria l’inizio dell’Eneide. Curial naufraga davanti alle coste di Tunisi, come Enea davanti a Cartagine. Sopravvive insieme a un amico ed entrambi sono venduti come schiavi a Faraig, un cavaliere tunisino che li destina alla coltivazione dei campi di una sua proprietà a mezza lega da Tunisi. Camar, la figlia di Faraig, s’innamora di Curial, però un giorno il re di Tunisi la chiede in sposa. Camar, disperata, si suicida per preservare il suo amore e la sua castità. Se il lettore attento avrà riconosciuto l’Eneide, e le apre una finestra nel testo di Curial e Güelfa, chi conosce le Confessioni di sant’Agostino forse ricorderà come il Padre della Chiesa s’emozionava a scuola, leggendo ed esponendo gli amori di Didone ed Enea e che una delle questioni trattate nei commenti scolastici era: «utrum verum sit quod Aenean aliquando Carthaginem venisse poeta dicit, indoctiores nescire se respondebunt, doctiores autem etiam negabunt verum esse» (1.13.22). Le favole poetiche avvolgono e determinano le avventure cavalleresche e amorose fin dall’inizio del romanzo, al principio timidamente e, di vol46. Curial cit., II 44, pp. 368-371. 47. Curial cit., II 48, pp. 379-382. 235 JAUME TORRÓ TORRENT ta in volta, con maggiore energia. Il principale maestro nei rimandi narrativi alla mitologia e ai poeti latini e volgari fu Boccaccio. Se nel Filocolo fin dall’inizio Marte e Venere, genitori di Cupido, proteggono gli amanti, l’anonimo sostituisce il dio della guerra con san Marco e riduce l’intervento di Venere a un sogno ammonitore sui sentimenti che la donzella Lachesi ha risvegliato in Curial48. Man mano che il romanzo procede, il deus ex machina assume maggior protagonismo. A volte è opportuno fare un’interpretazione astrologica, come accade con l’apparizione di Marte nel prologo del libro secondo e con alcuni interventi di Venere. In altre, è la stessa glossa di Servio a Virgilio che ci offre l’indizio per interpretare l’apparizione di Giunone, Nettuno ed Eolo: Giunone, ossia l’aria, per opera di Giove, ossia il fuoco, gonfiandosi per l’evaporazione dell’acqua dei mari e formando nubi e tempeste, provoca il naufragio di Enea e Curial davanti alle coste di Tunisi. Joanot Martorell è di gran lunga meno poetico e i suoi modelli “ascoltati” vanno invece cercati nelle letture degli autori storici. La cornice letteraria del Tirant, presieduta dall’imprevedibilità della fortuna e degli infortuni nella storia degli uomini, richiama direttamente Polibio e la storiografia umanistica. Non dimentichiamo Leonardo Bruni nel prologo e nell’epilogo del De primo bello Punico49, né il De bello Italico adversus Gothos, che dedica proprio ad Alfonso il Magnanimo50, né tantomeno il prologo di Facio ai Rerum gestarum libri di Alfonso. La storia è uno specchio del potere della Fortuna prospera e avversa, che in uno stesso giorno può portare il cavaliere o il condottiero alla vittoria definitiva contro l’infedele o procurargli la morte. Il tema delle avversità della Fortuna nel Tirant cominciò ad attirare in particolare l’attenzione della critica, da quando Jaume J. Chiner, Albert G. Hauf, Lola Badia e Josep Miquel Manzanaro lo rapportarono con la biografia familiare e personale di Joanot Martorell, con la presunta povertà e la conseguente disillusione, al termine della sua esistenza, che l’avrebbero spinto a una visione disincantata della cavalleria e al pessimismo morale51. 48. Curial cit., I 15, pp. 167-168. 49. Polybius historicus, De primo Punico bello ex Graeco in Latinum traductus per Leonardum Aretinum, Brescia 1498; Polybius historicus, De primo bello Punico, Venezia 1504. 50. Leonardi Aretini, De bello Italico adversus Gothos, Foligno 1470. 51. J. J. Chiner, Batalla a ultrança per Joanot Martorell, in «A Sol post. Estudis de Llengua i Literatura», 2 (1991), pp. 121-123; A. G. Hauf, “Tirant lo Blanch”: algunes qüestions que planteja la connexió corelliana, in Actes del Novè Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes (Alacant-Elx, 8-14 de setembre de 1991), cur. R. Alemany, A. Ferrando, L. B. Meseguer, II, Barcelona 1993, pp. 69-116; A. G. Hauf, Nota 236 IL ROMANZO CAVALLERESCO Oggi sappiamo che, poco dopo l’arrivo di Pietro conestabile di Portogallo e dei Portoghesi nella Catalogna in rivolta contro il proprio re, Joanot Martorell tornò alla fedeltà di Giovanni II d’Aragona e si guadagnò la fiducia del sovrano in nuove missioni, come avevamo ipotizzato52. D’altra parte, Josep Pujol ha sottolineato l’aspirazione degli strumenti retorici ai livelli stilistici più elevati, con il particolare impiego delle lamentazioni di Joan Roís de Corella e del Seneca tragico nei capitoli conclusivi del Tirant, coerentemente con l’esaltazione finale delle gesta del protagonista culminate con la morte accidentale, e degli amori di Tirant e Carmesina, con il tragico epilogo e la morte per amore della principessa di Costantinopoli, sulla scia della Història de Leànder i Hero di Corella, secondo la manifestazione dei rovesci della Fortuna e della forza ineluttabile di quanto sfugge alla ragione umana53. Infatti, la grandezza e il mistero dell’uomo si mettono in gioco nella sua fiducia nelle capacità della ragione e della virtù e nella accettazione dell’incertezza, ossia la Fortuna e il Caso. Possiamo affermare, citando Polibio, che la storia è maestra nel lógos e nella týche. Joanot Martorell risolse tutto ciò retoricamente, accettando e adattando al volgare schemi letterari colti, che presentavano la storia come l’opera oratoria più elevata, fin dove era capace di comprendere tali strumenti e modelli e di esporli in un testo romanzo sulle gesta del personaggio inventato di un grande capitano. Proprio per questo, Tirant lo Blanc è anche un romanzo del condottiero che va a cercare la Fortuna, elemento che può ricordare l’Eneide («in manibus Mars ipse viris», X 280; «audentis Fortuna adiuvat», X 284), anche se in realtà Virgilio mette queste parole in bocca a Turno. Quando Alfonso il Magnanimo, dopo la spedizione africana, torna a Trapani con l’intenzione di fare rotta verso Barcellona, dove aveva mandato parte della flotta, sopraggiunge una grande bonaccia che gli impediintroductòria, in Joanot Martorell (Martí Joan de Galba), Tirant lo Blanch, ed. A. Hauf, Valencia 2008, pp. 27-39; L. Badia, El “Tirant”, la tradició i la moral, in Tradició i modernitat als segles XIV i XV. Estudis de cultura literària i lectures d’Ausiàs March, València-Barcelona 1993, pp. 129-138; J. M. Manzanaro Blasco, L’altra protagonista: Fortuna versus Tirant, in «Revista de lenguas y literaturas catalana, gallega y vasca», 5 (1996), pp. 89-108; J. M. Manzanaro Blasco, Fortuna en el Tirant lo Blanch i en el Curial e Güelfa, Alacant 1998. 52. J. Torró, Els darrers anys de Joanot Martorell o en defensa del «Tirant», la novel·la cavalleresca i la cort, in La novel·la de Joanot Martorell i l’Europa del segle XV, cur. R. Bellveser, II, València 2011, pp. 573-599; A. Soler, Joanot Martorell cavaller habitador de la ciutat de València. Nous documents sobre els darrers anys de l’autor del “Tirant lo Blanc”, «eHumanista/IVITRA», 5 (2014), pp. 494-495. 53. J. Pujol, La memòria literària de Joanot Martorell, Barcelona 2002, pp. 183-213. 237 JAUME TORRÓ TORRENT sce la navigazione e il ritorno in Catalogna, perché la Provvidenza ha stabilito che resti in Sicilia e conquisti il regno di Napoli. Facio ascrive l’episodio al fato («ut fato quodam datum esse videretur non esse fas ei ex Italia discedere cui regnum Neapolitanum destinatum esse», IV 42) e proietta sulla struttura narrativa la fine del terzo libro e il quinto dell’Eneide54. Nella tenda di Alfonso il Magnanimo il cercare la Fortuna doveva ricordare piuttosto i Commentarii de bello civili di Cesare, come possiamo supporre dall’imitazione di questi schemi nei Rerum gestarum Alfonsi regis libri di Bartolomeo Facio55 e dalla venerazione del re per il personaggio di Cesare. La Fortuna, naturalmente, ha un ruolo da protagonista anche nel Curial e Güelfa. Se Omero e Virgilio servirono all’autore come modelli per le favole poetiche, non mi sembra del tutto illogico ipotizzare che siano stati proprio Tito Livio e gli storici antichi a suggerire a Joanot Martorell la combinazione tra diversi registri letterari, come ad esempio l’alternanza tra lettere di battaglia e lettere d’amore, orazioni e ambascerie, consigli di governo presso la corte o sul campo di battaglia, l’arte della guerra fatta con stratagemmi e astuzie e l’arte del buon governo fondata sulla prudenza e sulla conoscenza dell’animo umano, come avevamo già proposto alcuni anni fa56. Per tutti questi elementi è fondamentale il precetto ciceroniano che vede nell’historia un opus oratorium maxime, che nel Curial e Güelfa ritroviamo nella denominazione «poetes e oradors», e nel Tirant lo Blanc nel prologo. Il modo in cui il precetto viene assunto differenzia il Guillem de Vàroic dal Tirant lo Blanc, ossia l’intenzione di rivestire le gesta dell’elocutio con la prosa d’arte e di ornarle con ragionamenti e orazioni dalla figura sententiae della sermocinatio o ethopoeia57. Tan54. B. Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, ed. D. Pietragalla, Alessandria 2004, pp. 132-137; G. Abbamonte, I modelli classici nei racconti di guerra di Bartolomeo Facio, in La battaglia nel Rinascimento meridionale. Moduli narrativi tra parole e immagini, cur. G. Abbamonte, J. Barreto, T. d’Urso, A. Perricioli Saggese, F. Senatore, Roma 2011, pp. 131-135; F. Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l’invenzione dell’umanenismo monarchico. Ideologia e strategie di legittimazione alla corte aragonese di Napoli, Roma 2015. 55. Cfr. B. Facio, Rerum gestarum cit., commento, pp. 561-584; Abbamonte, I modelli classici cit., pp. 130-131. 56. J. Torró, Joanot Martorell, escrivà de ració, in «L’Avenç», 273 (ottobre 2002), p. 17. 57. Cfr. Pujol, La memòria literària cit.; M. Ferrer, Petrarch’s «Africa» in the Aragonese Court: «Anníbal e Escipió» bay Anto-ni Canals, in Fourteenth-Century Classicism: Petrarch and Bernat Metge, cur. L. Cabré, A. Coroleu, J. Kraye, London-Torino 2012, pp. 43-55; Joan Roís de Corella, Obres completes, I, Obra profana, ed. J. Carbonell, Valencia 1973; Pere Torroella, Obra completa, ed. F. J. Rodríguez Risquete, II, Barcelona 2011, pp. 145-259. 238 IL ROMANZO CAVALLERESCO tomeno credo sia casuale che Tirant, dovendo arringare i suoi soldati prima della battaglia del fiume Trasimeno (cap. 156) contro il Sultano e il Gran Turco, s’ispiri proprio a una orazione del De coniuratione Catilinae di Sallustio58. Sia l’autore del Curial che quello del Tirant, così come Boccaccio, sono educati nell’arte dello scrivere medievale, e come lui, con gli strumenti della retorica medievale, imitano soprattutto quei libri che narrano le gesta dei cavalieri e dei condottieri antichi, in un ambiente in cui convivono uomini medievali e uomini formatisi nella nuova cultura umanistica, la quale aspirava proprio a emulare gli antichi. La volontà dei loro autori d’imitare i “poeti e oratori” e la considerazione del libro quale opus poeticum o oratorium nel tempo, nel luogo e nella cultura degli uomini della cerchia di Alfonso il Magnanimo, sono gli elementi che maggiormente distinguono questi romanzi rispetto alla Història de Jacob Xalabín e al resto della letteratura cavalleresca francese e borgognona della loro epoca. 58. Cingolani, Clàssics i pseudoclàssics cit., pp. 377-379. ABSTRACT The Chivalric Romance between Ancient Literature and the French and Burgundian Chivalric and Adventure Romances This essay identifies the features that singularize the two greatest chivalric romances written in Catalan – Curial e Güelfa, of unknown author, and Tirant lo Blanc, by Joan Martorell – within the cultural context of Alfonso the Magnanimous’s court. In this intellectual milieu, men educated in Medieval Latin and vernacular letters lived side by side with others trained in the studia humanitatis. Mostly following in the footsteps of Boccaccio, the author of Curial e Güelfa transformed the tradition of French (especially Angevin and Burgundian) chivalric romances of the late fourteenth century, and a good part of the fifteenth, into a high poetic product in imitation of both modern writers (the troubadours, Bernat Desclot, Dante, and Petrarch) and ancient authors (Homer, Virgil). Joanot Martorell, on the other hand, in correspondence with Cicero’s famous definition of historia as magistra vitae (De oratore II 36), favored a conception of his writing as opus oratorium that turned Tirant lo Blanc into an exhibition of rhetoric registers and literary genres. Jaume Torró Torrent Universitat de Girona 239 Rafael Beltran PHILIPPE DE BOURGOGNE A L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES: L’IMAGE DU ROI ET L’EPIQUE DE LA CROISADE DANS LE ROMAN «LES TROIS FILS DE ROIS»* Les trois fils de rois1 est un long roman français anonyme pas très connu, écrit au XV siècle qui narre l’histoire de trois jeunes princes: Phelippe, Onffroy et David, respectivement fils des rois de France, d’Angleterre et d’Écosse qui viennent à l’appel à la détresse envoyé par Alphons, le roi de Sezille (Sicile et Naples), menacé par les Turcs. Alors que tous les trois luttaient sous de fausses identités – pour différentes raisons – ils finissent par vaincre les sarrasins en révélant finalement leurs identités. Onffroy et David deviennent rois de leur terre d’origine, et Phelippe, après avoir vaincu dans un tournoi, se marie avec Yolente, qui est la fille d’Alphons et l’héritière de l’Empire germanique1. Il faut resituer cette œuvre dans un contexte de romans français ayant des trames vraisemblables ou réalistes. Ces trames sont attachées, comme nous allons le constater plus tard, aux politiques expansives des royaumes européens sur la Méditerranée. La mer n’était pas le territoire habituel des aventures des chevaliers de la matière de la Bretagne. Les bois, les fleuves, les palaces ou les châteaux qui peuplent cette matière arthurienne sont des eléments à caractère continental alors que la géographie maritime, elle, est souvent exclue2. Cependant, l’irruption retentissante du monde byzantin et oriental dans l’histoire et dans les lettres de la Couronne d’Aragon, ainsi que dans les comtés flamands, à partir de l’Empire latin d’Orient explique, parmi d’autres raisons, la présence d’une vraie mer, bien qu’épique et romanesque, dans leurs littératures. * Cet article appartient au «Proyecto de Investigación» FFI2014-51781-P, «Parnaseo (Servidor Web de Literatura Española)», intégré dans le «Programa estatal de fomento de la investigación científica y técnica de excelencia del Ministerio español de Economía y Competitividad». 1. Les trois fils de rois, ed. G. Palumbo, Paris 2004. 2. C. Alvar, El rey Arturo y su mundo. Diccionario de mitología artúrica, Madrid 1991, pp. 284-285. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 RAFAEL BELTRAN Constantinople est tombée définitivement le 29 mai 1453 et l’information de cet événement fut un vrai choc pour l’Europe entière. La nouvelle arrive ensuite à Naples, où se trouvait le roi Magnanime, qui dirigeait depuis cet endroit la Couronne d’Aragon. Rapidement l’idée de reconquête se retrouve identifiée aux idéaux médiévaux de Croisade, et certains états commencent des opérations navales pour libérer la capitale byzantine. Les papes Nicholas V, en 1453, Calixte III, pape valencien, en 1455, et, plus tard, Pie II en 1466, élaboreront des bulles afin de lever des fonds pour ces entreprises. L’attention de Calixte III, durant son court pontificat (1455-1458) était de se centrer sur les tentatives de récupération de Constantinople. Suite à sa prise, le duc de Bourgogne, Philippe le Bon, donne le banquet du Faisan à Lille le jour du 17 février 1454, au cours duquel il jure de lancer une nouvelle croisade, parole qu’il ne tiendra jamais. La mer des récits du XIV et du XV siècle continuera à être, enfin, cette petite-grande Méditerranée. La mer de l’échange commercial et de la guerre, la mer achéenne et troyenne, phénicienne et carthaginoise, chrétienne et musulmane, de la conquête et de l’ambition pour soutenir et agrandir les voies du commerce et les possibilités d’acquisition de richesses matérielles. Il était logique que les livres de chevaleries françaises, et surtout les bourguignons, à l’instar des livres catalans se penchèrent sur la mer. Le duché de la Bourgogne continentale était un corps qui était avide d’étendre ses bras aux deux mers, en cherchant le vieux lien entre l’atlantique (la Normandie et les Pays-Bas) et la méditerranée (Genève, Marseille), le lien commercial qui avait déjà guidé la division de l’Empire d’Occident après Charlemagne. Et pour consolider ce pont il avait besoin de l’aide de la flotte d’Aragon, pour ainsi être en concurrence avec le pouvoir génois, qui contrôlait la sortie à la Méditerranée. Aragon avait la porte ouverte vers le prochain Orient, mais il gagnait l’accès commercial en Flandre, qui continua après à d’être vital dans les empires de Charles V et de Philippe II3. L’Orient, représentation exacte d’une réalité historique et géopolitique, fondamental depuis le Cligès de Chrétien de Troyes, qui fonde le topos lit3. Cfr. J. Paviot, La politique navale des ducs de Bourgogne 1384-1482, Paris 1995; et J. Paviot, Les ducs de Bourgogne, la croisade et l’Orient (fin XIVe siècle-XVe siècle), Paris 2003. De ma part, j’ai traité el sujet dans divers travaux, surtout R. Beltran, El diàleg poètic entre les divises de Tirant i Carmesina i els diàlegs emblemàtics dels ducs de Borgonya, in La novel·la de Joanot Martorell i l’Europa del segle XV, cur. R. Bellveser, II, Valencia 2011, pp. 451-483; et El mariscal Boucicaut, Guillaume du Chastel i Pere de Cervelló al Curial e Güelfa i al Jehan de Saintré: connexions històriques i literàries, in Estudis lingüístics i culturals sobre «Curial e Güelfa», novel·la anònima del segle XV en llengua catalana, cur. A. Ferrando, Amsterdam 2012, pp. 157-200. 242 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES téraire de Constantinople, sera crucial en tant qu’espace expansif de croissance du héros dans beaucoup de petits romans chevaleresques français, parmi lesquels certains se traduisent et se diffusent avec succès sur la Péninsule du XIV au XVI siècle4. Paris, le protagoniste du roman idyllique Paris et Vienne – qui pourrait être d’origine catalane – expose ses revendications en Orient, et son déguisement de maure joue un rôle décisif dans sa rencontre avec Viana; Paris réside à Genève et le couple concerté de sa bien-aimée Viana, fille du dauphin du duché de Viana, est avec le duc de Bourgogne. Dans Pierre de Provence, où Pierre est l’héritier du comte de Provence et Magalona est fille du roi de Naples, on mentionne au détail près et avec une extraordinaire exactitude les toponymes français et ceux de la Méditerranée. Le fils d’Olivier, dans Olivier de Castille, lutte en croisade contre les turcs. Partonopeus de Blois – le Partinuplés castillan, le Partinobles catalan –, dans le roman homonyme qui recrée le mythe d’Amour et Psyqué, est le neveu du roi de France, mais il deviendra l’empereur de Constantinople puisque sa bien-aimée, l’infante Melior, est la fille de l’empereur. Enrique, fi de Oliva bat à Miranbel, l’amiral des musulmans, et il se marie avec Mergelina, fille de l’empereur Manuel de Constantinople; une fois reconstruite son histoire de famille en France, il retourne dans son nouveau foyer et dans sa nouvelle patrie conquise. Il y a du réalisme géographique et il y a de grandes doses de vraisemblance historique dans tous ces textes, qui, toujours nés en France, avec de nombreux manuscrits et de nombreuses éditions, se popularisent sur la péninsule ibérique, comme nous le démontrent les traductions en castillan, en catalan ou dans les deux langues5. Ponthus et Sidonie a été un des romans ayant le plus de succès en France (28 mss. conservés), cependant il n’a pas été traduit ni en catalan ni en castillan. Mais le valencien Luis Vives l’a inclus, ainsi que Floire et Blanchefleur, Pierres de Provence, Paris et Vienne, Canamor y Turián et d’autres encore, dans le répertoire des romans pernicieux pour l’éducation des femmes. Ponthus et Sidonie en inspirerait un autre: Clériadus et Méliadice qui narre 4. Cfr. G. Doutrepont, La littérature française à la cour des ducs de Bourgogne. Philippe le Hardi, Jean sans Peur, Philippe le Bon, Charles le Téméraire [1909], Genève 1970; C. Brown-Grant, French Romance of the Later Middle Ages: Gender, Morality and Desire, Oxford 2009. 5. Cfr. A. Varvaro, El «Tirant lo Blanch» en la narrativa europea del segle XV, in «Estudis Romànics», 24 (2002), pp. 149-167, et La novela europea en el siglo XV, in La novel·la de Joanot Martorell cit., I, pp. 305-317, dans lesquelles il explique parfaitement le «réalisme narratif» de ces itinéraires des brefs romans chevaleresques. Les versions castillanes se retrouvent, en réédition moderne, in Historias caballerescas, ed. N. Baranda, Madrid 1995. 243 RAFAEL BELTRAN comment le fils du roi de Galice, étant enfant, se défait de l’attaque contre La Corogne, qui est prise par le sultan de Babylone. Le roi de Bretagne l’accueille et Clériadus tombe amoureux de sa fille avec laquelle il se marie après avoir surmonté toute sorte de difficulté. La Galice, la Bretagne, la France et l’Angleterre forment une géographie reconnue, même si dans ce cas – exceptionnellement – non méditerranéenne. Ce sont des récits qu’on nous raconte – comme on dit dans Don Quijote – «el padre, la madre, la patria, los parientes, la edad, el lugar y las hazañas, punto por punto y día por día, que el tal caballero hizo o caballeros hicieron» (I, cap. L). On fait référence à la mer, parce que sans mer, il n’y aurait pas eu ni d’histoires ni de légendes en Bourgogne et à Aragon. Il se produira la même chose avec les biographies chevaleresques françaises, de vrais romans basés sur des légendes de lignages qui bien que remplis de fantaisie sont situés dans une méditerranée qui permet la croissance du héros6. Le protagoniste d’une de ces biographies, Gilles de Chin, devient croisé en luttant au service du roi de Jérusalem. Acre, Tripoli, Aleppo sont la géographie de ses conquêtes; les géants n’y manque pas, ni le lion qui devient son fidèle compagnon, comme dans Ivain ou Le chevalier du lion de Chrétien de Troyes, où les dimensions géographiques sont toujours acceptables. Dans Gillion de Trazegnies, quatre-vingt-dix pour cent des aventures se passent en Orient, fondamentalement au service du sultan d’Egypte. Ici, Rhodes, Nicosie ou Babylone (Le Caire) dessinent cet «autre espace» dans lequel le héros flamand recompose son histoire et purge son abandon de la terre natale, où il laissa sa femme, qui, comme une nouvelle Pénélope flamande, a résisté avec fidélité à ses prétendants. Gilles de Chin ou Gillion de Trazegnies sont des fondateurs de lignages historiques qui sont apparentés d’une manière pas du tout fortuite à leur passé légendaire dans l’Empire latin d’Orient que soutenaient leurs ancêtres flamands à partir de la quatrième croisade. C’est cependant, dans les deux grands romans chevaleresques catalans Tirant lo Blanc et Curial e Güelfa, surtout dans le premier, qu’on nous présente un voyage de guerre en Orient beaucoup plus détaillé et réaliste. Tirant, qui est breton, réalise dans la fiction l’impossible utopie d’un maintien d’une Byzance chrétienne, gouvernée par des occidentaux. Jusqu’ici les vraisemblances avec Esplandián, le fils d’Amadís de Gaula, et avec d’autres projets littéraires, répèteront le même schéma. Mais Joanot Martorell, l’auteur du roman, a vécu avec la mer depuis l’enfance, dans sa Valence natale. Lui et sa famille ont lutté sur la Méditerranée, et il vécut 6. Le genre est étudié d’une manière exhaustive par E. Gaucher, La biographie chevaleresque. Typologie d’un genre (XIIIe-XVe siècle), Paris 1994. 244 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES plusieurs années à Naples près du roi Alphonse le Magnanime. Les deux héros, Tirant et Curial, comme le font les protagonistes des biographies bourguignonnes contemporaines entre 1440 et 1460, choisissent l’Orient pour parvenir à leurs objectifs et s’inclinent vers le passé glorieux de ce même Orient. Si les flamands, à présent bourguignons, récupèrent le passé légendaire de la première moitié du XIII siècle, Tirant, et Curial, eux, essaient de s’observer dans le reflet d’un passé glorieux de l’expansion de la Couronne d’Aragon pendant la deuxième moitié du même siècle. C’est comme si la présence de la mer, dans ces romans chevaleresques, était vraiment liée au réalisme, à la vraisemblance, comme si les auteurs de ces œuvres étaient conscients de leur responsabilité idéologique, d’autant plus que les trajectoires de leurs personnages étaient exposées à l’interprétation symbolique et politique7. C’est ainsi que la trame de Les trois fils attire l’attention, même si elle est fictive, parce qu’elle fait référence à une alliance entre la France, l’Angleterre, l’Écosse et Aragon d’une manière très originale au moment où il fallait affronter le danger musulman et turc; de même que Naples est le centre où tout se déroule au lieu de la Constantinople classique, cette trame accorde finalement à ses protagonistes des noms très révélateurs de personnages principaux des couronnes d’Aragon, de Naples et de Sicile (Alphons, au lieu d’Alphonse le Magnanime), de France (Charles, au lieu de Charles VII) et du duché de Bourgogne (Phelippe, au lieu de Philippe le Bon). L’œuvre fait partie de cette quinzaine de romans chevaleresques français du Quattrocento qui furent assez populaires à leur époque, mais qui furent pratiquement oubliés, ou plutôt moins aimés par l’histoire de la littérature et par les critiques postérieures. Même s’il fut condamné sévèrement par Gaston Paris comme une «production insipide», Les trois fils eut une grande diffusion: nous avons conservé neuf manuscrits, plus une traduction en anglais moyen, en ajoutant aussi onze éditions publiées entre 1501 et 15798. L’ensemble de différents romans où l’on inclus Les trois fils, œuvres très dispersées, presque toutes anonymes – quelques unes seraient traduites en castillan et en catalan, et publiées à partir de paramètres génériques spécifiques comme de brèves histoires de chevalerie – coïncide dans la présentation des arguments faisant référence à la lutte des chrétiens contre les 7. Cfr. R. Beltrán, Memoria histórica y de ficción: las biografías militares y caballerescas en la Europa del XV y los referentes realistas de «Tirant lo Blanc» y «Curial e Güelfa», in Cartografies de l’ànima: identitat, memòria i escriptura, cur. I. Grifoll, J. Acebrón et F. Sabaté, Lleida 2014, pp. 217-230. 8. Les trois fils cit., p. 67. 245 RAFAEL BELTRAN musulmans. On doit également souligner dans ces œuvres un relatif réalisme, autant dans l’anthroponymie comme dans la toponymie, qui a été mis en relation spéciale avec la vraisemblance des romans de chevalerie catalans9. Palumbo a relié Les trois fils avec cette fiction catalane contemporaine. Il s’agirait d’un lien avec celles qu’il nomme «historical fictions» ou «proses d’armes et d’amours», dans lesquelles il mélangerait des éléments de romans, d’épopée et de chronique qui auraient dans le Tirant lo Blanc leur chef-d’œuvre: Les trois fils constituent donc un intéressant exemple des historical fictions et de proses d’armes et d’amours composées à la moitié du XVe siècle, dans lesquelles se mélangent les éléments du roman, de l’épopée et de la chronique… Ce nouveau genre, nommé ‘novela caballeresca’ par M. de Riquer naît et s’affirme en France entre 1430 et 1460. Il trouvera ensuite ailleurs, avec le Tirante el Blanco, son chefd’œuvre et sa consécration10. L’exploration de quelques éléments constitutifs du récit de Les trois fils vaut vraiment la peine. En premier lieu, nous résumeront les détails de son argumentation. Suite à l’appel au secours d’Alphons, roi de Sicile et de Naples, pas soutenu pas son père, le roi Charles de France alors qu’il est pris par les Turcs, le prince Philippe décide d’aller à son secours en secret, couvert par l’anonymat. Lors de son premier combat en Espagne – où règne Albato, beau-père d’Alphons – il réussit à sauver Ferrant, le sénéchal du roi de Sicile, qui était venu chercher de l’aide en Espagne pour son royaume, et a capturé Fierabras, roi de Perse et frère du Grand Turc. Un deuxième appel au secours convainc le roi de France sous la condition que le roi d’Écosse envoie l’un de ses fils. Le roi d’Écosse accepte et envoie son fils David, qui dirige une expédition mais qui sera anéantie par une tempête. David est fait prisonnier par les Turcs mais finit par obtenir sa libération alors que ceuxci s’approchent de la ville de Sessa – près de Naples – et projettent de la prendre d’assaut. Le prince écossais est accueilli à Sessa par les Chrétiens. Pendant ce temps, troisièmement, Onffroy, le fils du roi d’Angleterre, décide lui aussi de partir au combat contre les Turcs, mais son expédition est capturée par les sarrasins et tous sont vendus comme esclaves. Turcs et Chrétiens négocient une trêve, et, durant un échange de prisonniers, les Chrétiens parviennent à reprendre sans le savoir le prince anglais, qui comme ses homologues écossais et français n’a révélé son identité à personne. Il était alors connu sous le prénom de Ector. Le Grand Turc se fâche avec son frère Fierabras, qui décide de retourner en Perse et d’abandonner la guerre. Au même moment, les trois princes sont nom9. M. de Riquer, Aproximació al «Tirant lo Blanc», Barcelona 1990; et «Tirant lo Blanc»: novela de historia y de ficción, Barcelona 1992. 10. Les trois fils cit., pp. 77-78. 246 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES més par le roi Alphons officiers de la princesse Yolente. À la fin de la trêve, le Grand Turc prend Naples d’assaut, bataille durant laquelle Philippe est pris par les Turcs tandis qu’Orkais, fils du Grand Turc, est capturé par les Chrétiens. Dans sa rage, l’empereur turc décide de capturer Philippe, mais au dernier moment, les Chrétiens parviennent à le récupérer, ce qui démoralise les Turcs et cause beaucoup de mécontentement. Pendant un banquet, les Chrétiens jurent sur un paon qu’on apporte qu’ils reconquerront le royaume et tueront le Grand Turc. Orkais, lui, jure de rendre au roi de Sicile toutes les terres prises par son père. Ayant appris cela, le Grand Turc est découragé et décide de repartir, mais il sera tué par les Chrétiens qui tenteront contre lui une dernière attaque. Le roi de Sicile recouvre ses terres et sera ensuite élu successeur de l’empereur germanique. Celui-ci décide alors d’organiser un tournoi de trois jours réservé aux gens de lignage royal, dont le vainqueur obtiendrait la main de sa fille Yolente. Alors libéré en échange d’une trêve de trois ans, Orkais retourne en Turquie et tente de convertir son peuple à la religion chrétienne. Bien que personne ne sache encore qu’ils sont princes, Onffroy, David et Philippe retournent dans leur royaume avec la promesse de revenir servir la princesse lors du tournoi. Puis, Orkais se fait baptiser (sous le prénom de Charles) pour pouvoir participer au tournoi, tandis que les princes anglais et écossais (maintenant devenus rois par la mort – très opportune – de leurs pères) reviennent et prouvent, à la surprise générale, qu’ils sont bien de sang royal. Cependant, Philippe demande à son oncle le duc de Bourgogne, qui, depuis la mort du Roi Charles, règne en France en tant que successeur de son défaint frère, faute de ne pas avoir retrouvé son neveu et donc fils du roi Charles durant les sept premières années, de prendre les armes de France pour le tournoi mais qu’il se substituera à lui juste au moment du tournoi, ce qu’ils font. Le chevalier aux armes de France vaincra tous ses opposants et le roi de France se révèlera être, à la surprise générale, le jeune Philippe, qui épouse Yolente, fille du roi de Sicile, tandis que David et Orkais épousent les sœurs d’Onffroy et Onffroy épouse la sœur d’Orkais, qui accepte de se convertir au christianisme. Ils célèbrent leur mariage dans la cour d’Angleterre et dans la cours d’Écosse. Phelippe et Yolente retournent à Paris. Yolente héritière de la couronne de l’impératrice de l’Empire Germanique, à la mort de son père. Les deux invitent à Paris la famille Tolédane qui avait accueilli Phelippe lors de son premier voyage en Espagne. À la fin du roman, l’auteur anonyme nous dit que les trois rois auront chacun un belle lignée et il renvoie aux chroniques nationales pour faire le suivi de cette descendance. Cependant, il ajoute que les musulmans abandonnent la foi chrétienne lorsqu’Orkais décède. Et sa veuve, la sœur d’Onffroy, qui n’a pas eu de fils héritiers, doit retourner en Angleterre pour y passer ses derniers jours. Un manuscrit original de Les trois fils aurait été offert ou bien à Philippe Le Bon, duc de Bourgogne ou bien à Jean V seigneur de Créquy (c. 1395-1474) – chevalier de la première promotion de l’ordre du Toison d’Or (1431) et ambassadeur du duc au roi d’Aragon. Suite à cela, le duc 247 RAFAEL BELTRAN demanderait à son greffier David Aubert, lié à la cour bourguignonne, qu’il fasse une copie du roman. Comme Palumbo dit: David Aubert, on le sait, est sans doute l’un des écrivains les plus riches du XVe siècle – au sens de plus prolifique du terme. Il a posé sa signature sur presque soixante-dix manuscrits, ce qui représente un total de 13.528 folios. Bien qu’à des titres divers, son nom est associé à des œuvres de toutes sortes: des textes religieux comme des proses chevaleresques, des traités scientifiques, des chroniques et des annales11. Aubert a participé à l’élaboration de copies manuscrites comme celle d’Olivier de Castille, Perceforest ou encore Les cents nouvelles nouvelles, qu’il signa; il le fit d’une manière tellement rapide qu’on finit par lui attribuer la paternité littéraire de quelques unes de ces œuvres12. Cependant, autant Straub que Palumbo, qui propose comme date plausible de composition de Les trois fils la décennie entre 1454 et 1463, ils excluent la responsabilité pleine d’Aubert dans la création de cette œuvre (Les trois fils, pp. 65-67). Aubert obéissait à la commande fréquente du duc pour la copier, mais il introduisait, comme il était habitué de le faire, une série de variations stylistiques, ainsi que le prologue dédicacé au duc. Dans tous les cas, en prenant en compte le bilan avec lequel Palumbo termine son examen de l’œuvre la plus longue et personnelle, les Chroniques et Conquestes de Charlemaine, nous devons prendre en compte sa participation, même si celle-ci fut moindre. Parce que ce bilan revendique la facette d’un vrai historien: Entre les deux extrêmes d’un Aubert romancier et d’un Aubert historien, mieux vaut, peut-être, avancer prudemment une formule de compromis. Certes, il serait difficile d’affirmer que David Aubert est le Jacques Le Goff ou le Georges Duby de son temps. Mais serait-il trop osé de considérer l’escripvain des ducs comme le Gaston Paris ou le Paul Meyer de l’automne du Moyen Âge? Tout compte fait – et ce n’est pas négligeable – ses Chroniques et Conquestes pourraient être rebaptisées assez légitimement Histoire poétique de Charlemagne au XVe siècle, ou, encore, Charlemagne dans la littérature française du Moyen Âge13. Ce qui est vrai c’est que le contenu du roman de Les trois fils est difficile à comprendre si on ne prend pas en compte le contexte historique de l’œuvre. Voyons les relations onomastiques les plus évidentes avec des per11. G. Palumbo, David Aubert historien? Le récit de la bataille de Roncevaux dans les «Croniques et Conquestes de Charlemaine», in «Moyen Âge», 112 (2006), pp. 585-602. 12. R. Straub, David Aubert, escripvain et clerc, Atlanta-Amsterdam 1995; S. López Martínez-Morás, David Aubert innovador. A propósito de un itinerario épico en las «Croniques et conquestes de Charlemaine», in «Revista de literatura medieval», 23 (2011), pp. 195-208. 13. Palumbo, David Aubert historien? cit., p. 602. 248 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES sonnages de l’époque, dont la plus grande partie est contemporaine: le roi Alphons correspond logiquement à Alphonse IV (1396-1458), roi d’Aragon et de Sicile, et entre 1442 et 1458 roi de Naples. Le roi Charles de Les trois fils correspond à Charles VII de France (1403-1461) et le roi Frederich à Frédéric III d’Habsbourg (1415-1493), empereur depuis 1440 du Sacré Empire Romain Germanique. Le nom du sénéchal et bras droit d’Alphons dans le roman, Ferrant, coïncide avec Ferran ou Ferrante (14231494), fils du roi Magnanime, qui le succèderait comme roi de Naples à sa mort en 1458. Onffroy, le prince anglais, coïncide avec le nom du duc Humphrey de Gloucester (1390-1447), le plus jeune des fils d’Henry IV d’Angleterre – et donc frère du successeur de la couronne, Henry V –, lutteur à Agincourt (1415), considéré un humaniste et mécène des lettres; il ne fut pas roi, mais il arriva à être régent. Le David de la fiction, comme prince et après comme roi d’Écosse, il devait faire penser nécessairement à David II Bruce (1324-1371), roi d’Écosse, contemporain de Philippe VI et d’Edouard III d’Angleterre; sa vie militaire fut remplie d’épisodes chevaleresques, parmi eux on en trouve des maritimes et aussi la tentative d’organiser une expédition contre les infidèles. Yolente, la fille d’Alphons de Sicile, se correspondrait, par voisinage géographique et généalogique, avec Yolande d’Aragon (1381-1442), femme de Louis II d’Anjou, rois titulaires de Naples, avant la conquête d’Alphonse IV d’Aragon. L’auteur propose un «anachronisme conscient», où s’entrecroise l’actualité historique et la fiction épique, en établissant des plans qui munissent le récit d’une plus grande profondeur; en plus, cela fait que les lecteurs ou les auditeurs soient aussi raffinés en sachant faire la différence entre les deux aspects et ainsi en profiter en les combinant. L’emploi d’une onomastique réelle mais imprécise contribue à l’effet d’un espèce de trompe-l’œil historique, un effet de piège ou d’illusion avec lequel on trompe quelqu’un en le lui faisant voir ce qui n’est pas avec un artifice artistique permis. Il serait inutile d’essayer de trouver une correspondance stricte avec des personnages, un espace et un temps réels, mais à la fois il est difficile d’éviter le défi que propose l’auteur ou dans lequel il embrouille le récepteur dans un jeu où les devinettes et les codes y sont permis. Les romans utilisent délibérément des noms très connus pour leur créer un espace où peuvent se dérouler des actions plausibles. Le sujet des noms est, sans doute, encore plus complexe dans Les trois fils, parce que le roman joue avec l’incognito des trois princes, qui ne se révèlent que vers la fin. Phelippe, pour maintenir l’anonymat lorsqu’il s’enfuit en cachette de son foyer, a utilise un étrange surnom de «le Depourveu» (littéralement, «le Dépourvu» ou peut être «l’Imprévu» ou 249 RAFAEL BELTRAN «l’Inattendu»). Sous ordre de Yolente, il remplacera, par la suite, ce nom par «le Surnommé». Onffroy changera également de nom. Il recevra celui d’Ector, «le gentil Ector» ou «le preu Ector». Quant à l’écossais David, il utilisera le nom un peu moins facile d’Athis, peut être inspiré par Atys, chevalier athénien du Roman de Thèbes et de la Thébaïde de Stace, et protagoniste du curieux roman versifié Athis et Prophilias, qui est en relation avec le Roman de Thèbes. Les déguisements d’incognito obéissent, bien sûr, aux stratégies narratives qui facilitent l’avancement des trames entrecroisées. Mais, pourquoi avec ces noms? Michelle Szkilnik les a mis en relation avec les Neufs Preux: Hector, Alexandre le Grand et César représentent la première triade, celle de l’antiquité païenne, dans la liste des Preux14. David, Judas Maccabée et Josué représentent la deuxième triade, celle des héros bibliques. Phelippe, en conséquence, représenterait la chrétienté dans la troisième triade, en relayant à Arthur de Bretagne, à Charlemagne et à Godefroi de Bouillon. Le remplacement de Charlemagne par Phelippe semble très significatif, puisque Phelippe devient le nouvel empereur du Saint-Empire romain germanique. Orkais, dorénavant, se fait appeler Charles, après sa conversion. Et Charles était le nom du père de Phelippe, c’est à dire du roi de France, qui avait refusé au début du livre d’aider la Sicile. Dans l’avis de Szkilnik, il paraît évident que l’auteur voulait proposer un nouveau héros dans la liste des Preux, et qui déplacerait le roi de France. Phelippe – bien évidemment, Philippe de Borgogne –, mais pas le roi de France, Charles VII, est le nouveau leader, le nouveau Charlemagne. Le manque d’historicité affecte l’argument, basé dans le besoin de croisade face à la menace des turcs. Toutes les allusions faites envers les différentes cours européennes peuvent recevoir des échos des circonstances politiques du XV siècle, et concrètement de celles qui tournent autour de la chute de Constantinople en 1453, même si dans quelques cas on a le souvenir des personnages, comme David II d’Écosse, qui s’enracinent dans le cœur de l’histoire du siècle d’avant, le XIV. Mais on ne peut pas établir le parallèle exacte avec des événements historiques datés et moins lorsqu’on met au premier plan un argument basé dans le schéma – en trois exemples, dans ce cas, et disposé à travers la technique de l’entrelacement – du jeune qui sort de la maison, accomplit quelques aventures et conquêtes, et qui retourne rempli de gloire en ayant démontré, en dépit de l’incognito, sa nature exceptionnelle; un argument orné de motifs lit14. M. Szkilnik, Three new worthies: «Les Trois fils de roi», in «Electronic Antiquity», 14 (2010), pp. 109-126. 250 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES téraires qui montrent des naufrages, des tournois et l’occultation des identités, l’anagnorisis, la recherche de la gloire, l’aide face aux sarrasins, le mariage avec l’infidèle convertie, une mort de chagrin (celle du roi Charles, à cause de l’absence du fils), etc.15. L’utilisation du schéma de l’exile-retour semble fructifère dans la création narrative, puisqu’il permet, comme dans le récit épique, l’accumulation de toute une série de péripéties distrayantes et connexes les unes des autres; des changements du destin qui, même s’ils sont variés, évitent l’invraisemblable et rejettent le fantastique, en cherchant une apparence de vérisme. L’auteur se sert de ce cadre de réussite garantie pour construire un récit pseudo-historique qui idéalise le projet de croisade de Philippe le Bon et qui traduit en langage romanesque les peurs de la Chrétienté face à l’avancement des turcs. La prétention ou l’apparence de vérisme se confirme à la fin de l’œuvre, lorsque l’auteur invite à continuer à lire dans les chroniques nationales la continuation de l’histoire, avec les détails sur la chance des descendants des héros du roman. De toute façon, les antécédents qui composent le récit ne sont pas, naturellement, dans l’historiographie, mais dans l’épique et le roman. La tradition épique qu’hérite le roman lui insuffle l’haleine religieuse, propre des textes sur les croisades tardives, que Les trois fils possède comme caractéristique particulière. Pour le lecteur ou l’auditeur médiéval, la mention de Fierabras, roi de Perse et frère du grand turc dans Les trois fils, s’associerait immédiatement avec le souvenir du personnage épique qui défie Charlemagne, qui lutte contre Olivier, on le capture et termine comme un homme saint (saint Florent). Son histoire, à partir de la chanson de geste de Fierabras – chronologiquement antérieur à la Chanson de Roland – eut aussi une version dans la compilation que mena à bien David Aubert des Chroniques et conquestes de Charlemaine16. Le rôle de Fierabras, qui représente le stéréotype du géant infidèle, noble et vaillant, converti à la chrétienté, est incarné aussi par le personnage d’Escariano dans Tirant lo Blanc. Escariano, roi de la Grande Ethiopie, se rend à Tirant, comme Fierabras à Olivier dans la tradition épique. Il est baptisé par le propre Tirant, et alors les autres rois infidèles lui prennent le royaume et l’octroient au fils du roi de Perse. Par instigation de Tirant, il se mariera avec la reine de Tlemcen, Maragdina, qui faisait la cour à Tirant. Escariano défendra toujours Tirant, en arrivant même à tuer son propre frère, roi de Bougie, en pensant qu’il l’avait offensé. Mais Fie15. Les trois fils cit., pp. 68-69 16. Palumbo, David Aubert historien? cit., pp. 285-287. 251 RAFAEL BELTRAN rabras n’est pas le seul qui se convertit dans Les trois fils, son neveu Orkais le fait aussi. Le frère du Grand Turc, Fierabras, et son fils, Orkais, sont, donc, des personnages positifs, contrairement au premier, le Grand Turc, et ils confirment dans le domaine de la fiction les objectifs ambitieux et chimériques de conversion religieuse palpables dans l’esprit des projets fracassés de croisade du XV siècle. Orkais se fait ami des trois jeunes princes et se convertit au christianisme. De prime abord, il semble vouloir se convertir par simple convenance dans l’espoir de pouvoir obtenir la main de Yolente, mais on verra que l’on transmet l’idée finale et qu’il existe une sincère conviction dans cette conversion religieuse. L’épique et le roman s’embrassent constamment dans l’œuvre. Le capitaine de la place de Feude, qui avait conquis Fierabras avant de se faire capturer au début de Les trois fils, s’appelle Olivier – comme la célèbre paire de France, étant le rival principal de Fierabras dans la chanson de geste – et c’est le frère de Ferrant, sénéchal du roi de Sicile. Mais Ferrant, dont le nom coïncide avec le fils bâtard d’Alphonse le Magnanime, coïncide aussi avec le nom du cheval d’Olivier dans Fierabras: «le blanc Ferrant d’Espaigne». L’auteur de Les trois fils, soupçonne Szkilnik, «seems to have used names found in Fierabras, but redistributed them with humorous fantasy»17. La conversion au Christianisme d’Orkais se réalise non seulement par amour et par convenance, comme nous avons pu le constater mais aussi par conviction religieuse. De plus, Orkais arrive à marier sa propre sœur avec son ami Onffroy, ou Ector, roi d’Angleterre. Au début elle ne voulait pas, elle se montrait assez réticente et elle resistait la tête haute. Sa loyauté envers sa foi, ses contradictions et ses doutes sont, de ce fait, appréciés: «il fault que la loy ou j’ay esté nourrie et que tant de notables rois et princes tiennent, que je la delaisse. Que devendra mon ame?»18. La sœur d’Orkais est éduquée dans le mystère de la foi par «deux ou trois des plus notables clercs qu’il sceut trouver, et tout le jour les fis parler a sa suer et luy declairer et donner a entendre le mistere de la foy Jhesu Crist»19. Ce préalable et nécessaire endoctrinement, qui fait que la conversion des païens soit un peu plus vraisemblable, s’explique dans d’autres textes européens. Escariano avoue ainsi à Tirant que lorsqu’il était petit, il avait eu trois frères franciscains chez lui, des maîtres en théologie, qui ont essayé de le convertir, et que «conech bé que la ley crestiana és més noblea 17. Szkilnik, Three new worthies cit., pp. 114-115. 18. Les trois fils cit., p. 429. 19. Ibid., p. 430. 252 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES e millor que la nostra»20. De cette façon, Escariano met Tirant au pied du mur, en lui demandant «quina cosa es la trinitat» et d’autres questions délicates sur la foi. C’est pour cela que Tirant doit s’excuser: «yo no y sé molt, però yo us diré lo que n’é aprés en lo temps de ma puerícia…». Et alors: «lo millor que sabé e pogué, li declarà de nostra fe tot lo que hun crestianíssim e devot cavaller y pot entendre, en tal manera que lo rey ne restà molt content y aconsolat» (cap. 327, p. 1175). La sœur d’Orkais, enfin convaincue, est baptisée et se marie avec Ector. Dans Tirant, Maragdina accepte de changer de religion, en réalité pour pouvoir se marier avec Tirant. Maragdina manifeste son amour à Tirant, qui invoque comme excuse, parmi d’autres raisons, qu’il sert une autre femme. Il invoque également la différence de religion. Mais cette deuxième excuse n’est pas un problème pour Maragdina, qui dit qu’elle accepterait de changer la sienne. Il existe, néanmoins, des contradictions dans les arguments échangés entre les deux, parce que Maragdina demande à Tirant qu’il devienne musulman («si tu deviens maure, ma demande s’accomplira»), mais lui comprend avec intérêt le contraire: «la bonne intention est que la reine devait se faire chrétienne» (cap. 324). Il y a, sans doute, une reconduction des impulsions érotiques féminines. Tirant profite de la décision prise, pour la baptiser tout de suite. Il doit le faire lui-même, à cause du manque d’un ministre prêtre qui réalise les offices religieux du mariage avant qu’elle ne s’en repentisse. Une fois baptisée, il la convainc de se marier avec Escariano. Après le baptême d’Escariano, il y aura toute une série de baptêmes dans sa famille, de capitaines, plus les baptêmes des familles de ceux-ci… jusqu’à six mille en un jour. Escariano jure fidélité et fraternité d’armes avec Tirant (serment réciproque). C’est alors qu’un frère valencien arrive en mission de sauvetage des captifs. Avec son aide, Tirant entreprend un travail évangélisateur qui le mène à baptiser exactement quarente-quatre-mille-trois-cent-vingt-sept maures (cap. 328-330). On est presque sûr qu’aussi bien le modèle de la sœur d’Orkais que celui de Maragdina, était à Floripes, sœur de Fierabras dans la chanson de geste, amoureuse de Gui de Bourgogne. Le père de Fierabras, Balan, qui meure décapité après avoir refusé le baptême dans la chanson de geste, anticipe la figure du Grand Turc dans le roman. Mais aussi dans Tirant, Escarià décapite le «Cabdillo» lorsque celui-ci refuse le baptême. Le «Cabdillo», qui avait accueilli et protégé Tirant, après son naufrage sur les côtes africaines (cap. 301), il refuse la conversion, en exprimant de 20. J. Martorell (M. J. de Galba), Tirant lo Blanch, ed. A. Hauf, Valencia 2004, cap. 309, p. 1123. 253 RAFAEL BELTRAN façon imprudente son désir de sauvegarder la foi – «dexar-nos viure en nostra ley» – et que «los crestians que són novaments fets dexassen lo babtisme que dieu ésser sant» (cap. 333, p. 1192). Et son obstination exaspère tellement le nouveau converti Escariano que celui-ci lui donne un coup d’épée brutal qu’il parvient à le tuer en lui faisant sauter la cervelle. Son exécution, face à la conversion d’Escariano/de Fierabras, est le corrélat de la décapitation de Balan dans l’épique. Pour Szkilnik, le motif de la conversion n’est pas un simple cliché dans Les trois fils, il contribue avant tout au sens religieux du roman. En effet, l’argument de la trame – comme c’est le cas dans Jehan de Saintré, Curial e Güelfa ou Tirant lo Blanc – dérive sur une situation finale harmonieuse, idéale et utopique, dans laquelle Orkais représente la cession volontaire et pacifique des turcs convertis au christianisme. Bien que le roman confirme, dans son épilogue, que sur les terres musulmanes, lorsque Orkais meure, la foi chrétienne est abandonnée jusqu’à présent: «Aprés la mort du Turc [Orkais], la loy de Jhesu Crist n’y fut exaulcee ne maintenue, prisee ne amee, comme ancoires appert aujour-d’hui» (p. 448). De telle façon que la paix entre chrétiens et sarrasins, obtenue après autant de péripéties, semble éphémère. D’une façon ou d’une autre, cette fin décevante correspondrait à la fin sceptique de Tirant, où, après la mort de l’empereur, et après celle de Tirant et Carmesina, le machiavélique Hipòlit hérite de l’emprire grec. Celui-ci est parvenu au trône par ses mérites sexuels, en se couchant avec l’impératrice et en parvenant à se marier avec elle. Paysage familier peu propice à un avenir politique encourageant dans l’ancienne Byzance. Le cadre géopolitique du roman renvoie de toute évidence à la situation historique et politique de la moitié du XV siècle. Et le choix du royaume de Naples et de Sicile comme lieu de l’action témoigne de l’existence, à la cour de Bourgogne, d’un «mythe napolitain», alimenté par l’entente politique entre le duc Philippe et Alphonse le Magnanime sur la question orientale. Comme dit Palumbo: …la représentation de ce royaume comme frontière de la Chrétienté traduit surtout, dans le langage à la fois «exagéré» et «simplifié» de l’épopée, la peur de la Chrétienté face aux attaques sarrasines provenant de l’Est. De même, les ambassadeurs du roi Alphons à la recherche d’ aide, les hésitations des rois à intervenir, l’esprit chevaleresque de Phelippe son certes des stéréotypes narratifs, mais aussi des réalités contemporaines21. Les trois fils exalte et rend hommage dès le début jusqu’à la fin à Philippe le Bon, duc de Bourgogne. Le futur roi de France porte le nom de 21. Les trois fils cit., p. 73. 254 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES l’historique duc de Bourgogne dans le roman. On loue à celui qui a appuyé l’œuvre et on se souvient du rôle du leadership dans les aspirations de croisade. Gaston Paris à déjà suggéré que Les trois fils semblent représenter justement l’épopée encouragée par Philippe le Bon au moment où il lançait son défi aux Turcs. À propos, Palumbo dit: C’est probablement dans l’intention de soutenir ce projet longtemps rêvé par le duc de Bourgogne, qu’il faut chercher la véritable source d’inspiration de l’auteur. L’invention littéraire fournit, en effet, un miroir complaisant et flatteur au souhait du duc de défendre le monde chrétien et aux prétentions chevaleresques de la noblesse bourguignonne. Si Philippe le Bon lançait en vain ses appels à la croisade et aspirait à devenir le défenseur de la Chrétienté, il ne réussit toutefois jamais à atteindre son but. Par contre, dans cette interprétation romanesque de la réalité, le jeune Philippe parvient à mener à bien cette entreprise tant désirée par le duc de Bourgogne. La réalité, comme dans un rêve, est ainsi transfigurée par le philtre littéraire et devient bien plus agréable et séduisante22. Phelippe devient le neuvième Preux, primus inter pares des deux autres représentants des Neufs dans le roman, Ector et David. Les valeurs de l’antiquité sont surpassées par celles des chevaliers de la chrétienté, parce que Phelippe n’est pas seulement destiné à imiter les anciens héros, mais aussi à les remplacer, avec une alternative qui ne rompt pas le continuum de la gloire chevaleresque. En mettant les trois héros des Neufs, l’auteur veut redéfinir le concept de prouesse, en remplaçant le leadership militaire de l’épique par un autre religieux: des héros païens (Hector), juifs (David) et chrétiens (Phelippe). L’émulation d’Hector le Troyan et d’Alexandre le Grand s’explicite même avant la sortie de Phelippe: «Se vous empreniés cestuy voyage, vous auriés toute la sieulte du monde. Chascun seroit joyeulx de soy mettre soubz vous. Oncques Hector de Troyes ne Alexandre n’eurent la renomme que vous auriés aprés vostre mort!»23. Et ce qui est différent à cette nouvelle chevalerie c’est que ses nouveaux héros ne luttent pas pour la gloire, le butin ou la conquête matérielle, sinon pour «la garde et la deffense de la foy»24, «pour sa sainte foy [de Notre Seigneur Jhesus] maintenir»25. C’est pour cela aussi, à la différence des héros épiques, orgueilleux, fiers et sûrs d’eux-mêmes, ceux du roman sont humbles et jusqu’à un certain point résignés. L’emprunte de l’émulation hagiographique est évidente. Lorsque le 22. Ibid., p. 74. 23. Ibid., p. 93. 24. Ibid., p. 124. 25. Ibid., p. 88. 255 RAFAEL BELTRAN père de Phelippe, le roi Charles, refuse d’envoyer son fils à en Sicile, il s’enferme dans sa chambre et il fait faire lire les histoires de saints et de martyrs qui souffrirent et qui au final finissent par trouver à la gloire éternelle: se retray en une petite chambrette a part et aucuns de ses plus privez avec luy, ausquelz il fist lire plusieurs histoires et vies de sains, servans a la foy crestienne, par lesquelles histoires il veoit les paines et travaulz que les sains, appostres et martirs, avoient souffert pour acquerre la gloire pardurable26. À partir de ces lectures il se produit tout un processus de réflexion («estant en son lit, continuellement pensoit… luy revenoit en ramembrance les histoires qu’il avoit ouy lire ung petit avant son couchier»), qui le mène à choisir la voie de la salvation, «la gloire pardurable», le chemin des martyrs, moralement supérieur au chemin de la persécution de la gloire mondaine: Bien eureuz seroie se je pouoie faire ung change, c’est de la couronne mortelle a celle immortelle, si te prie, vray Dieu, que tu m’y voeulles aidier. Je n’y sçay voye que par laissier cestuy paiis et m’emploier en ton service27. Il va en Espagne très soumis, et là-bas, à Tolède, il est protégé et soigné par un couple de bourgeois et ce sera alors, et ainsi d’accommodant et obéissant, lorsqu’il se mettra au service de Ferrant, qui voit Phelippe comme un élu presque messianique: «Et si pensoit en son coeur que s’en armes et vaillances il avoit autant de vertus qu’il a bon cops et belle maniere, ce seroit la plus parfaitte chose que Nostre Seigneur Dieu eust fait naistre puis le temps de sa passion» (p. 106). Et plus tard il sera décrit «comme ung angle en beaulté et comme ung saint Jeorge en vaillance» (p. 168)28. Szkilnik a été celui qui a attiré l’attention sur l’intérêt spécial de Les trois fils à l’heure de détecter un «nationalisme vraisemblable» dans la fiction européenne, comme celui qu’on apprécie dans Jehan de Saintré ou dans Tirant lo Blanc même si c’est un autre modèle. Et c’est précisément en faisant référence à Tirant lo Blanc, que Szkilnik se souvient d’un épisode de cette œuvre qui peut-être – suggère-t-elle – une inspiration pour Joanot Martorell, grâce à l’argument de Les trois fils: Dans Tirant le Blanc, le choix du prénom Philippe pour désigner le jeune prince de France qui accompagne Tirant à Rhodes, son départ en catimini de la cour de France, son arrivée en Sicile, le fait qu’il s’éprend de l’infante, comme le héros 26. Ibid., p. 93. 27. Ibid., p. 94. 28. Szkilnik, Three new worthies cit., pp. 121-123, offre plus d’exemples de messianisme, autant de Phelippe, que de ses compagnons David y Athis. 256 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES des Trois fils de roi, sont des éléments troublants. Joanot Martorell aurait-il pu connaître le roman français composé sans doute très peu de temps avant le sien? Dans un tel cas, il aurait volontairement parodié, car le Philippe de Tirant lo Blanc n’est pas d’emblée comme son homonyme un chevalier incomparable par ses manières et sa prouesse29. Dans la section des aventures de Tirant en Sicile (caps. 98-116), qui aboutit avec la campagne militaire de Tirant pour porter secours à l’île grecque de Rhodes, le nom du fils du roi de France est, rappelons-nous, exactement Phelip, comme Phelippe du roman de Les trois fils. Son père, le roi de France est aussi réticent à collaborer et à aider dans la campagne de libération de Rhodes que le roi Charles du roman français. Et, en plus, la Sicile est l’endroit central d’une série d’épisodes dont les acteurs principaux sont Tirant et Phelip, mais aussi le roi de Sicile et sa fille, l’infante Ricomana, qui est très intelligente et dégourdie. Il vaut la peine de s’arrêter un peu plus dans l’argument de ces chapitres30. Tirant, en voyant que la demande d’aide prévue par le maître de Rhodes, qui est assiégé par le sultan du Caire, a échoué et qu’en plus le roi de France ne s’en occupe guère (on insiste sur son indolence), décide d’entreprendre la campagne lui-même, sans aucun appui royal. C’est pour cela qu’il achète «una grossa nau», dont il arme et ravitaille, et il convainc au cinquième et plus jeune des fils du roi, Phelip, «qui era un poch ignorant e tengut en possessió de molt groçer», pour qu’il l’accompagne. Comme nous avons vu, dans Les trois fils, Phelippe, devant les réticences de son père, après avoir réfléchi, parle avec celui-ci. Après avoir compris que son père n’était pas disposé à aider, il décide de s’échapper du foyer en incognito pour aller porter secours au roi de Naples; mais pas sans avoir réuni de l’argent pendant un mois pour pouvoir subsister hors du foyer durant au moins deux ans (caps 2-3; pp. 92-97). Le Phelip du roman catalan s’échappe de son foyer en incognito comme le Phelippe de Les trois fils: c’est alors qu’il les trompe, leur demandant la permission «de anar fins a Paris per veure la fira, que stava a dos jornades de allí». Il est vrai que le Phelip «grosser» de Tirant n’est pas précisément, du moins au début, un chevalier irréprochable par sa vaillance et courtoisie comme son homonyme français; au contraire, ces épisodes confirment sa 29. M. Szkilnik, «Jean de Saintré» ou le rêve d’une internationale chevaleresque, in La novel·la de Joanot Martorell cit., I, pp. 385-401. 30. Pour un examen plus profond de cet épisode dans le roman catalan, voir R. Beltrán, La princesa que no sabia l’endevinalla: models rondallístics a l’episodi de Felip i Ricomana al «Tirant lo Blanc», in El cuento folclórico en la literatura y en la tradición oral, cur. R. Beltrán et M. Haro, Valencia 2006, pp. 57-87. 257 RAFAEL BELTRAN maladresse et son manque total de manières courtoises. La partie comique de ces épisodes joue avec les difficultés de Tirant pour essayer de cacher cette inaptitude devant Ricomana, qui se montre méfiante dès le début. À la fin, comme dans un fabliau, c’est la tromperie qui triomphe et Ricomana doit se rendre à l’évidence (erronée): Phelip est noble et intelligent, il est seulement «grosser» d’apparence. Mais le personnage de Phelip subit une transformation postérieure, qui ne semble pas tout à fait logique dans le roman. Déjà à Rhodes, où ils iront ensemble, l’infant français se comporte avec vaillance; ensuite, le personnage disparaît du roman, mais vers la fin il réapparaît comme roi après la mort de son beau-père et il sera un des appuis principaux pour Tirant au moment de récupérer définitivement Constantinople et vaincre les turcs. Son passé maladroit et désastreux a été oublié. Enfin, il semble qu’il y a des coïncidences claires, étonnantes ou déconcertantes entre les deux Phelip, celui de Tirant et celui de Les trois fils. Le même choix du nom de Phelippe pour désigner le prince de France qui est le protagoniste des épisodes, la sortie en cachette de la cour de France, l’arrivée en Sicile, où les deux tomberont éperdument amoureux de l’infante, la tromperie du garçon à son départ, les préparatifs économiques, l’erreur avec le nom ou le surnom (dans le cas de Les trois fils), ou avec le vrai caractère du chevalier (dans celui de Tirant) avec lequel les respectives infantes doivent batailler, le rôle de l’infante qui doit se décider dans le choix de ses prétendants, etc. À la question qui a été posée autour de si: «Joanot Martorell aurait-il pu connaître le roman français composé sans doute très peu de temps avant le sien?», je pense qu’il faut répondre oui. Un « oui » qui tout simplement laisse place à cette possibilité. Les rapports hypothétiques entre les deux œuvres ne font qu’agrandir leurs mystères interprétatifs. Ainsi, dans l’épisode de Rhodes de Tirant lo Blanc, articulé avec celui de Felip en Sicile et basé sur le siège historique de l’île effectué par le sultan d’Egypte en 1444, il est étonnant qu’à aucun moment Martorell ne fasse pas allusion à la participation des bourguignons, comme Geoffroy de Thoisy, le chevalier chrétien le plus connu à Rhodes, et qui fut, sans doute, pour Martí de Riquer, le modèle de Tirant dans ces épisodes31. Mais c’est vrai que Martorell montre toujours ses arrière-pensées envers la maison de Bourgogne (ici, tout simplement il l’ignore). Il montre, en revanche, une défense enthousiaste de celle de son ennemi, la maison de France. Ainsi, en Angleterre, Tirant vainc et tue le duc de Bourgogne, qui sur le plan historique ne pouvait pas être plus que Philippe le Bon (1419-1467), du moins au moment de l’écriture du roman 31. De Riquer, Aproximació cit., pp. 127-130. 258 PHILIPPE DE BOURGOGNE À L’AIDE D’ALPHONS DE NAPLES valencien (1460-1465). Même si tout l’épisode dans lequel on intègre la mort du duc de Bourgogne sous la main de Tirant (caps. 68-73), il semble y avoir une quantité d’absurdités gigantesques, si nous le lisons depuis un point de vue purement historique. Il illustre, en ce sens, les difficultés à lire ces romans clés. Les rois de Frison et de Pologne (frères) se trouvent à Rome avec les ducs de Bavière et de Bourgogne; les quatre étaient arrivés séparément et ils décidèrent de participer en incognito aux fêtes et aux tournois organisés par le roi en Angleterre, où ils rencontrèrent Tirant, qui était déjà en train de se faire connaître comme un bon chevalier. Les quatre chevaliers se présentent avec un luxe et une somptuosité jamais vus, en émerveillant à tout le monde. Ils portent quatre lions dociles, apprivoisés, qui sont les messagers de leurs demandes pour pouvoir combattre. Tirant accepte l’offre et lutte un après l’autre contre les quatre, et il réussit à les vaincre quelques jours après. L’épisode mérite un examen plus profond, parce que les deux rois et les deux ducs qui sont vaincus par Tirant sont seulement identifiés au début, c’est ainsi que nous ne savons pas le nom de celui avec lequel la rage de Joanot Martorell s’acharne le plus, même s’il ne serait pas surprennant que se soit le propre duc de Bourgogne. Je mentionne l’épisode des quatre rois dans Tirant lo Blanc pour conclure, parce qu’il illustre les défis d’interprétations qui peut supposer le fait de mettre en relation les deux romans, le catalan et le français. Il illustre aussi le défi d’une interprétation univoque des figures du roi d’Aragon, Alphonse, et du duc de Bourgogne qui soient derrière les protagonistes des deux romans. Si on accepte que Martorell put avoir connu Les trois fils et put avoir essayé de ridiculiser ou de parodier à son personnage principal – Phelippe – avec l’histoire de cet autre fils du roi français, aussi Phelip, mais beaucoup moins doué, pourquoi ne pas accepter d’autres parodies basées sur le même livre? La péripétie des quatre chevaliers, rois et ducs, qui se pointent en incognito aux fêtes d’Angleterre, pourrait décrire d’une façon minuscule et ridicule jusqu’à l’absurde, la trajectoire des quatre personnages de Les trois fils – Phelippe, Onffroy, David, ainsi qu’Orkais – qui se pointent aussi en incognito à la guerre de Sicile. En tenant compte du personnage protagoniste bourguignon de Les trois fils, de la création d’autres fictions de l’époque – bourguignonnes, catalanes et, en moindre nombre, castillanes –, et, au delà, dans le domaine de l’historique-politique, des bonnes relations générales entre les cours de Bourgogne et Aragon (face à la France et à la Castille) durant ces décennies, l’investigation sur de possibles et nouvelles connexions ne fera qu’ouvrir, mais aussi résoudre des mystères, en favorisant la compréhension de ces estimables projets littéraires dans le panorama du roman européen du XV siècle. 259 RAFAEL BELTRAN ABSTRACT Philip of Burgundy to the Rescue of Alfonso of Naples: The Image of the King and Crusades Epics in the Romance Le trois fils de rois The anonymous French romance Les trois fils de rois features an original alliance between the kingdoms of France, England and Scotland, whose princes help the King of Naples and Sicily fight against his Turkish enemy. While this anonymous romance, starring the French prince Phelippe, certainly exalts the figure of Philip the Good, Duke of Burgundy, the protagonist of an episode of the Catalan romance Tirant lo Blanc is yet another young French prince named Phelip, who wins the hand of the princess of Sicily. This essay explores the image of King Alfonso of Aragon in the fictional context of Tirant lo Blanc and the possibility that its author had known the Les trois fils de rois. Rafael Beltran Universitat de València rafael.beltran@uv.es 260 Rafael Ramos PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL, AUTORE DELLA «CRÓNICA SARRACINA»* Nel primo periodo del regno di Alfonso il Magnanimo, a ridosso del 1430, vide la luce una delle opere maggiormente criticate della letteratura castigliana medievale: la Cronica del rey don Rodrigo, oggi più nota come Crónica sarracina. È facilmente comprensibile come l’opera, non appena uscita, abbia ricevuto una valanga di critiche se consideriamo che, nella sua epoca e nel suo contesto culturale, costituì una vera e propria rivoluzione letteraria. In una cornice cronachistica ben nota ai lettori – la storica caduta dell’impero visigotico per mano dei musulmani nell’VIII secolo, com’è narrata nella Crónica del moro Rasis –, proliferava un’abbondanza di personaggi ed episodi puramente romanzeschi: tornei spettacolari, delicate avventure amorose, imprese cavalleresche condotte per mezza Europa, campagne militari nel nord Africa, profezie, meraviglie, apparizioni, sogni inquietanti… Sebbene all’apparenza si presentasse come una cronaca, subito si rivelava come un’opera fantastica. Era, insomma, un esempio del nuovo stile di invenzione romanzesca che, dalle corti di Francia e di Borgogna, s’era imposto, nel corso della prima metà del XV secolo, un nuovo tipo di narrazione in cui la realtà storica coesisteva con una buona dose di fantasia, e che alimentò romanzi quali Le Petit Jehan de Saintré nella letteratura francese, o Curial e Güelfa e Tirant lo Blanc in quella della Corona d’Aragona. Naturalmente, a fianco di questi titoli la singolarità della Crónica sarracina sbiadisce; tuttavia, proprio dal confronto emerge ciò che fin dal principio volle essere: un’opera di finzione scritta secondo i nuovi modelli della narrativa europea. Invece, se considerata esclusivamente nell’ambito della letteratura castigliana, la sua eccezionalità spicca: non rientrava nei canoni tradizionali della invenzione medievale e ciò spiega perché nella sua epoca la si leggesse quasi unanimemente come un’opera di carattere storico. Di fatto, fra il XV e il XVII secolo, molti * Questo studio è stato reso possibile unicamente grazie al generoso aiuto di Francisco J. Rodríguez Risquete e Jaume Torró. L’immagine di Alfonso il Magnanimo tra letteratura e storia, tra Corona d’Aragona e Italia. La imatge d’Alfons el Magnànim en la litteratura i la historiografia entre la Corona d’Aragó i Italia A cura di F. Delle Donne e J. Torró Torrent, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2016 RAFAEL RAMOS storici la trattarono e la citarono come una delle tante fonti cronachistiche, mentre altri, al contrario, ne denunciarono l’assoluta mancanza di verosimiglianza1. Sebbene nessuno fra i molti manoscritti ed edizioni dell’opera giunti fino ai giorni nostri riporti il nome dell’autore, oggi esso è noto perché fu apertamente menzionato, per quanto in maniera assai differente, da due scrittori suoi coevi. Così, Enrique de Villena, nell’Epístola a Suero de Quiñones, datata fra il 1430 e il 1434, ne citò il nome e fece riferimento a uno degli episodi più famosi dell’opera, quando il vento arrebató los obispos del real del rey don Rodrigo e alçólos en el arrebatado torvellino hasta que los perdieron de vista, e levó el capirote del mesmo rey a las tiendas de los moros, hasta çerca donde Muça, su capitán, estava prefigurando el çercano vençimiento, según en la Estoria gótica Pedro de Corral ha escrito2. È il caso di sottolineare che Enrique de Villena, oltre ad attribuire esplicitamente a Pedro de Corral la Crónica sarracina (che denomina Historia gótica), vi rimanda in modo abbastanza neutrale, come a un’opera ben conosciuta da tutti i suoi lettori e a pari condizioni di altre creazioni poetiche ampiamente accettate in quanto tali nella sua epoca, quali l’Eneide di Virgilio o la Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne. Anche Fernán Pérez de Guzmán cita il nome dell’autore, nel prologo della sua Generaciones y semblanzas, una raccolta di biografie di grandi personaggi contemporanei, ultimata fra il 1450 e il 1455. Tuttavia, la sua menzione risulta senz’altro molto più pungente e rivela una durezza che potrebbe interpretarsi come frutto di uno scontro personale: Algunos que se entremeten de escribir e notar las antigüedades son onbres de poca vergüeça e más les plaze relatar cosas estrañas e maravillosas que verdaderas e çiertas, creyendo que non será avida por notable la estoria que non contare cosas muy grandes e graves de creer, ansí que sean más dignas de maravilla que de fe, como en otros nuestros tienpos fizo un liviano e presuntuoso onbre, llamado Pedro de Corral en una que se llamó Corónica Sarrazina, otros la llamavan del rey Rodrigo, que más propiamente se puede llamar trufa o mentira paladina, por lo qual si al presente tiempo se platicase en Castilla aquel muy notable e útil ofiçio que en el tiempo antiguo que Roma usava de grant poliçía e çivilidad, el qual se 1. Sulla questione, si veda R. Ramos, A vueltas con la «Crónica del rey don Rodrigo, in «Tirant: Butlletí informatiu i bibliogràfic de la literatura de cavalleries», 16 (2013), pp. 353-367. Si consultino, altresì, gli studi di R. Beltrán e di J. Torró in questo stesso volume. 2. Enrique de Villena, Obras completas, ed. P. M. Cátedra, I, Madrid 1994, p. 348. Cfr. Pedro de Corral, Crónica del rey don Rodrigo, postrimero rey de los godos (Crónica sarracina), ed. J. D. Foguelquist, I, Madrid 2001, pp. 610-618. 262 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL llamava çensoria, que avía poder de esaminar e corregir las costunbres de los çibdadanos, él fuera bien digno de áspero castigo3. Lasciando da parte il tono apparentemente dettato da irritazione personale, è importante sottolineare che, a quanto pare, Pérez de Guzmán considerò l’opera come un testo esclusivamente storico – e, di conseguenza, come falsamente storico, mendace –, e non come un testo romanzesco. Quest’aspetto è di particolare importanza, perché in qualche modo determinò l’interpretazione della Crónica sarracina per i quattro secoli successivi. Altrettanto importante è segnalare che il brano, grazie al prestigio intellettuale di chi lo scrisse, fu posteriormente riutilizzato da altri autori nel giudicare criticamente il compito degli storici, perpetuando, in tal modo, il duro attacco contro il presunto cronista Pedro de Corral4. Questo nome, ovviamente, appariva privo di qualsiasi altro particolare che ne permettesse una sicura identificazione. Di fatto, i Pedro de Corral documentati nella prima metà del XV secolo, che avrebbero potuto scrivere la Crónica sarracina, sono più d’uno. In mancanza di altre indicazioni, bisognava rintracciare nella sua opera indizi che rendessero possibile un’identificazione più concreta. Da un lato, doveva trattarsi di una persona che aveva familiarità tanto con le nuove tendenze della letteratura proveniente dalla Francia e dalla Borgogna, quanto con le correnti umanistiche propagatesi dall’Italia, così come dimostra l’amplia descrizione di Mérida, sulla scia della «laus urbis»5. Al gusto classicheggiante, proprio 3. Fernán Pérez de Guzmán, Generaciones y semblanzas, ed. J. A. Barrio, Madrid 1998, pp. 60-61. L’asprezza della critica risulta evidente se pensiamo che non sempre fu tanto severamente censurata dall’autore la mancanza di storicità di un’opera. Cfr., a tal proposito, la sua opinione sulla fantastica Historia del Santo Grial così come la riprese dal Mare historiarum di Giovanni Colonna (libro VI, cap. 108) «En el imperio de León, año del señor de DCCXXX, fue en Bretaña a un hermitaño fecha una maravillosa revelación según se dize, la qual diz que le reveló un ángel de un grial o escudilla que tenía Joseph Abarimatia en que cenó Nuestro Señor Jhesu Christo el jueves de la cena, de la qual revelación el dicho hermitaño escrivió una estoria que es dicha del Santo Grial. Esta historia no se halla en latín sino en francés, e dízese que algunos nobles la escrivieron, la qual, quantoquier que sea deletable de leer e dulce, empero por muchas cosas estrañas que en ella se cuentan, asaz dévele ser dada poca fe» (Mar de istorias, Valladolid 1512, f. 43v). 4. Cfr. Lope de Barrientos, Refundición de la Crónica del Halconero, ed. J. de M. Carriazo, I, Madrid 1946, pp. 3-4; Ambrosio de Morales, Crónica general de España, Alcalá de Henares 1577, f. 196r-v; Duarte Nunes de Leão, Descrição do reino de Portugal, Lisboa 1610, f. 155r-v, et alii. Paradossalmente, persino uno dei manoscritti della Crónica sarracina include nel suo prologo questo frammento di Fernán Pérez de Guzmán (Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo del Escorial, ms. X. I. 12). 5. Á. Gómez Moreno, España y la Italia de los humanistas: primeros ecos, Madrid 1994, pp. 282-284. Cfr. Corral, Crónica del rey don Rodrigo cit., II, pp. 271-273. 263 RAFAEL RAMOS di un gentiluomo aggiornato sui nuovi orientamenti culturali, per quanto formato secondo la tradizione medievale, bisogna sommare una buona conoscenza della lingua catalana, nonostante la natura innegabilmente castigliana. Infatti, per costruire alcuni passaggi di grande tensione drammatica rielaborò frammenti delle tragedie di Seneca, a partire dalla traduzione catalana (databile intorno alla fine del XIV secolo), e dell’Africa di Petrarca, sulla base della versione contenuta nell’Escipió e Anibal di fra Antoni Canals (datato fra il 1399 e il 1410)6. Tutti elementi, questi, che riconducono al circolo dei gentiluomini castigliani nell’ambiente degli infanti d’Aragona. Date le caratteristiche, prende corpo la figura di Pedro de Corral, originario di Valladolid, fratello di Rodrigo de Villandrando (c. 1386-1457) che era stato eletto da Giovanni II conte di Ribadeo. Quest’ultimo personaggio è più conosciuto del primo, in quanto godette di notevole fama come capitano di una compagnia di ventura al servizio della Francia nella Guerra dei Cent’anni, prima di ritornare in Castiglia7. Al seguito di tale fama è giunta fino a noi l’unica notizia a tutt’oggi nota sul fratello, riportata da Jerónimo Zurita e datata 1431: Avía también ofrecido Rodrigo de Villandrando al rey de Aragón por medio de un hermano suyo, que se llamava Pedro de Corral, de servirle con que no fuese contra la persona del rey de Castilla, y que contra todos los que servían al rey de Castilla emprendería cualquier cosa8. 6. M. de Riquer, El «Africa» de Petrarca y la «Crónica sarracina» de Pedro de Corral, in «Revista de bibliografía nacional», 4 (1943), pp. 293-295; J. Pujol, El «Escipió e Anibal» de Antoni Canals y la traducción romance de las tragedias de Séneca en la «Crónica sarracina» de Pedro del Corral, in «Boletín de la Real Academia Española», 82 (2002), pp. 275-307; Ramos, A vueltas con la «Crónica del rey don Rodrigo» cit., pp. 360-364. Cfr. Corral, Crónica del rey don Rodrigo cit., I, pp. 346-347, 635-652; II, pp. 26-28, 52-54, 238-239, 358-367. Per il contesto culturale, si veda M. Ferrer, Petrarch’s «Africa» in the Aragonese Court: «Anníbal e Escipió» by Antoni Canals, in Fourteenth-Century Classicism: Petrarch and Bernat Metge, cur. Ll. Cabré - A. Coroleu - J. Kraye, London-Torino 2012, pp. 43-55. 7. J. Quicherat, Rodrigue de Villandrando, l’un des combattants pour l’indepéndance française au quinzième siècle, Paris 1879; A. M. Fabié, Rodrigo de Villandrando, conde de Ribadeo, Madrid 1882; F. Monatte, Rodrigue de Villandrando: l’oublié de la guerre de Cent Ans (1388-1448), Paris 2013. Fernando del Pulgar gli dedicò un particolareggiato ritratto nel suo Claros varones de Castilla, ed. R. B. Tate, Oxford 1971, pp. 33-38. 8. Jerónimo Zurita, Anales de la Corona de Aragón, ed. Á. Canellas López, V, Zaragoza 1980, p. 775. La breve notizia di Zurita passò, senz’altre aggiunte, agli storici posteriori, che si limitarono a riportarla. Cfr. «Pedro de Corral, nombrado por Zurita» (Luis de Salazar y Castro, Tabla genealógica de la familia de Villandrando, condes de Ribadeo, Biblioteca de la Real Academia de la Historia, ms. 9/321, f. 51r); «Pedro de 264 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL Questa stringata menzione, sebbene conferisca una stirpe all’autore della Crónica sarracina, non fornisce oltre al nome notizie sulla sua persona. Soprattutto, però, non chiarisce di cosa si occupasse nella corte aragonese, ossia l’ambiente in cui poté avere accesso ai testi utilizzati come modelli per la sua opera. Le ricerche sulla sua persona si fermavano qui, bloccate per oltre un secolo su quest’aspetto, finché non è stato possibile completare i dati grazie a un certo numero di documenti localizzati nell’Archivio della Corona d’Aragona e nell’Archivio del Regno di Valencia. In essi emerge un Pedro de Corral attivo nelle varie corti degli infanti d’Aragona, legato all’infante Giovanni e a Diego Gómez de Sandoval, fra il 1422 e il 1444. Quest’ultimo merita qualche cenno, poiché sarà un personaggio cruciale nella maggior parte dei documenti che menzioneremo di seguito. Diego Gómez de Sandoval (1385-1455) fu uno degli uomini di fiducia dell’infante Ferdinando d’Antequera, fin dalla sua giovinezza; questi nel 1411 gli conferì la dignità di adelantado (governatore militare) di Castiglia. A capo di un potente esercito, sostenne l’ascesa al trono d’Aragona dell’infante Ferdinando, e fu ricompensato per le sue imprese militari con la signoria di Lerma, nel 1412. Accompagnò l’infante Giovanni nella spedizione di Sicilia del 1415-1416 e, da allora, rimase al suo fianco. Ritornato in Castiglia, ricevette la signoria di Portillo, nel 1423, e la contea di Castro, nel 1426. Insieme allo zio Sancho de Rojas (1372-1422), arcivescovo di Toledo, capeggiò il partito castigliano dell’infante Giovanni, contro le pretese dell’infante Enrico d’Aragona, suo fratello. Comparve sempre al suo fianco nei conflitti castigliani, finché si vide costretto ad abbandonare la Castiglia, nel 1430, perdendo i feudi nel regno. A titolo di risarcimento, l’anno seguente ricevette la contea di Denia e diversi possedimenti a Valencia, in Aragona e in Catalogna. Fu al seguito dell’infante Giovanni in Italia e, al suo fianco, cadde prigioniero nella battaglia di Ponza (1435). Tornato in Castiglia nel 1439, dopo aver ricevuto il perdono del re e recuperato i suoi beni, subito riprese ad assecondare i progetti dell’infante Giovanni contro Álvaro de Luna, fino alla sconfitta di Olmedo (1445), in cui fu fatto prigioniero. In quell’occasione perse nuovamente i suoi feudi, che però riuscì a recuperare quasi per intero l’anno succesCorral, hermano de don Rodrigo de Villandrando (Zurita, t. 3, f. 207)» (Luis de Salazar y Castro, Tabla genealógica de la familia de Villandrando, condes de Ribadeo, Biblioteca de la Real Academia de la Historia, ms. 25, f. 207v); «Pedro de Corral, que llevó cartas a su hermano a Francia» (Luis de Salazar y Castro, Tabla genealógica de la familia de Corral, vecina de Valladolid, Biblioteca de la Real Academia de la Historia, Madrid, ms. 9/306, f. 219r). 265 RAFAEL RAMOS sivo, dopo i trattati di pace. A seguito di un ennesimo atto di ribellione, fu ancora una volta mandato in esilio nel 1448, in Aragona, ove di lì a pochi anni morì9. Si conservano tre poemi a suo nome («Oh, qué fuerte despedida» ID439, «Si pensáis que soy mudable» ID636 e «Asesar en hora mala» ID637), raccolti nei canzonieri del circolo degli infanti d’Aragona, quali il Cancionero de Gallardo (MH1) e il Cancionero de Herberay des Essarts (LB2); inoltre, su sua richiesta, Alonso de Cartagena scrisse il Doctrinal de caballeros (1444 c.), pertanto se ne può dedurre che fosse incline alle lettere. A partire da queste basi, i nuovi documenti, riportati in appendice e commentati a seguire, consentono di cominciare a tracciare un’immagine di Pedro de Corral, e cioè a conoscere gli ambienti politico culturali in cui si mosse, i vari circoli di potere con cui ebbe rapporti, le instabilità politiche che lo riguardarono… insomma, i vari elementi che possono aver influito nella genesi e nell’interpretazione della sua opera. È curioso, da questo punto di vista, come qualche piccolo particolare coincida con il poco che già si sapeva di lui. Così, se Jerónimo Zurita ne aveva menzionato l’attività diplomatica nelle relazioni fra Rodrigo de Villandrando e Alfonso il Magnanimo, proprio come messaggero dell’infante Giovanni o di Diego Gómez de Sandoval appare nella maggior parte dei documenti riportati in appendice; se si ipotizzava che avesse scritto la Crónica sarracina poco prima del 1430, proprio in quegli anni la sua presenza è attestata in Castiglia. È auspicabile che in futuro, con il ritrovamento di ulteriori documenti, i dati inizino a incastrare con maggiore perfezione, per quanto con quelli che è stato possibile riunire fino a oggi sia già stata raggiunta una buona approssimazione. I documenti 1 e 2, datati Napoli 13 gennaio 1422 (in realtà potrebbero considerarsi lo stesso documento diretto a due diversi destinatari), presentavano Pedro de Corral nelle funzioni di ambasciatore dell’infante Giovanni e di Diego Gómez de Sandoval, adelantado di Castiglia, dinanzi al re Alfonso. Significativamente, del messaggero si dice che possiede una lettera credenziale, ossia una presentazione personale che gli conferisce pieni poteri per parlare in nome dei due mittenti. Si tratta, senza dubbio, di una manifestazione di grande fiducia, riservata solo ai servitori più intimi. Sebbene non venga esplicitato né il contenuto del messaggio trasmesso da Pedro de Corral (ridotto a «todo lo que el dito Pedro nos ha 9. I. García Rámila, Estudio histórico-crítico sobre… D. Diego Gómez de Sandoval, Adelantado Mayor de Castilla y primer Conde de Castro (1385-1455), Burgos 1953; A. Franco Silva, El linaje Sandoval y el señorío de Lerma en el siglo XV, in «Anales de la Universidad de Cádiz», 1 (1984), pp. 45-62. 266 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL quesido explicar de part vuestra» e a «las otras cosas que el dito Pedro nos ha explicado»), né la risposta del re (limitata a quello «que éll vos porá recitar más largament»), il fatto che alla fine del 1421 l’infante Giovanni e l’adelantado di Castiglia mandassero un messaggio comune ad Alfonso d’Aragona, un messaggio, oltretutto, consegnato alle parole che avrebbe trasmesso un ambasciatore di massima fiducia, e non a un semplice documento scritto, induce a pensare che il contenuto dovesse avere relazione con la convulsa situazione politica castigliana in quei frangenti. Effettivamente, il 14 luglio del 1420 l’infante Enrico d’Aragona, sostenuto da alcuni membri dell’alta nobiltà, sequestrò il re Giovanni II di Castiglia, a Tordesillas (Valladolid) e lo tenne in suo potere fino al 29 novembre dello stesso anno, quando egli riuscì a fuggire da Talavera de la Reina (Toledo) in compagnia di Álvaro de Luna. Fin dal principio, sia l’infante Giovanni che Diego Gómez de Sandoval si opposero al colpo di stato e si allearono con i fautori di Giovanni II di Castiglia, che aiutarono adeguatamente. Il conflitto fu sul punto di trasformarsi in una guerra civile, infatti, nel corso del 1421, l’infante Enrico si trincerò nelle sue fortezze di Ocaña (Toledo) e di Montiel (Ciudad Real) e cominciò a radunare un esercito. Inutilmente la madre, la regina vedova Eleonora, e i fratelli, l’infante Giovanni e l’infante Pietro, insistettero perché desistesse dai suoi propositi. A sua volta, Álvaro de Luna dilatò le negoziazioni durante tutto il tempo, e la strategia debilitò la posizione degli infanti d’Aragona, indicati come ambiziosi istigatori della crisi e responsabili del suo prolungarsi, intanto che cresceva il potere del favorito di Giovanni II. In tale contesto, è molto probabile che il messaggio segreto dell’infante Giovanni e dell’adelantado di Castiglia al re Alfonso, trasmesso da Pedro de Corral, fosse una consultazione diplomatica mirata alla ricerca di una soluzione negoziata al conflitto. Alla fine, il 13 giugno 1422, Enrico d’Aragona si recò a Madrid e comparve dinanzi a Giovanni II. Consapevoli di quanto sarebbe successo, non erano presenti né l’infante Giovanni né il conte di Castro né l’arcivescovo di Toledo, i grandi difensori del partito aragonese. Il giorno seguente fu arrestato. L’accusa non era il colpo di stato commesso nel 1420, bensì presunti accordi con il re di Granada ai danni del re di Castiglia. Pertanto, fu confinato nel castello di Mora (Toledo). La moglie e i sostenitori dell’infante ribelle fuggirono in Aragona e chiesero la protezione del re Alfonso. Naturalmente, il conflitto castigliano non terminò con l’episodio del confino. Di fatto, Alfonso il Magnanimo non poteva tollerare la reclusione del fratello, perciò, quando ritornò dalla prima spedizione napoletana, a dicembre del 1423, si prodigò con ogni mezzo per risolvere il conflitto. Il 1424 fu tutto un susseguirsi di ambasciate: l’Aragona reclamava l’im267 RAFAEL RAMOS mediata liberazione dell’infante Enrico e la Castiglia l’espatrio dei ribelli esiliati. Di fronte ai reiterati rifiuti di entrambi i sovrani, nella primavera del 1425 stava per scoppiare una guerra fra i due regni. In tale circostanza, il Magnanimo concentrò il suo esercito alla frontiera, nelle vicinanze del Moncayo, e convocò tutti i suoi sostenitori castigliani, compreso l’infante Giovanni, affinché lo raggiungessero alla metà di luglio. Bastò questa superba esibizione di forza perché Giovanni II consentisse a negoziare e, in fine, a firmare il Trattato di Araciel, il 3 settembre 1425, a seguito del quale l’infante Enrico fu liberato ed i suoi sostenitori poterono ritornare in Castiglia. In questo contesto, il particolare appello che il re Alfonso fece all’infante Giovanni perché comparisse dinanzi a lui spiega l’origine del documento 3, datato Saragozza 12 agosto 1425, nel quale, significativamente, appare nuovamente Pedro de Corral come ambasciatore. Richiamato tanto severamente dal fratello, Giovanni non poteva eludere l’incontro né occuparsi delle altre sue faccende. Oltretutto, doveva spiegare personalmente al re perché aveva permesso che s’imprigionasse l’infante Enrico. Perciò, dalla Castiglia mandò un messaggio ad Alonso de Morales, suo tesoriere e procuratore nel regno di Valencia, il quale si trovava a Saragozza per seguire i problemi della successione del ducato di Gandia, che reclamava per sé. Nel messaggio gli chiedeva «que anàs en Catalunya per rahó que… se informàs de alguns dubtes al dit senyor». Poiché Alonso de Morales annotò le sue spese il 12 agosto ed egli stesso specificò che «en lo qual viatge stech un mes e quinze jorns», dato fondamentale per la sua relazione spese, bisogna dedurre che Pedro de Corral gli consegnò il messaggio gli ultimi giorni di giugno. Poco prima doveva essersi allontanato dalla cerchia dell’infante Giovanni, il quale i primi di settembre sarebbe diventato di fatto re di Navarra, titolo con il quale il suo tesoriere si riferiva già a lui nelle proprie annotazioni. È importante sottolineare, in questo senso, che proprio negli anni in cui si suppone che Pedro de Corral stesse scrivendo la Crónica sarracina si può documentare la sua presenza in Castiglia, nei circoli più intimi dell’infante Giovanni. Il documento possiede, inoltre, un’altra peculiarità. Sebbene la lettera con cui Alfonso reclamava con tanta perentorietà la presenza del fratello minore al suo fianco sia andata perduta, se ne conosce il contenuto grazie alla Crónica di Álvar García de Santa María, ripresa da Jerónimo Zurita: Andados los tratos movidos por parte del rey don Carlos de Navarra, antes que se rompiesen, el secretario que dijimos que estaba en Cigales con los otros mensajeros del rey de Aragón, buscó tiempo cómo sin peligro suyo nin escándalo mostrase al infante don Juan, por ante escribano público, una carta abierta del rey de 268 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL Aragón, firmada de su nombre e sellada con su sello, que contenía en efecto que por cuanto él tenía de ver e librar sobre algunas cosas muy árduas que mucho acataban a su servicio e al bien público de sus reinos, para lo cual entendía llamar a los tres estados de sus reinos, por ende, que llamaba al infante, so la fidelidad que le debía, que dentro ciertos días fuese personalmente donde quier que él estuviese, para ser con él en sus cortes, certificándole que, si lo non ficiese, que le pronunciaría haber incurrido en las penas de aquellos que non obedescen a su rey nin van a su llamamiento10. Curiosamente, il contenuto della lettera sembra intravedersi anche nel seguente terzo documento. Si tratta di una semplice voce nella relazione delle spese sostenute da Alfonso de Morales mentre si occupava della successione del ducato di Gandia; tuttavia, nella sua parte conclusiva si percepiscono alcune espressioni simili a quelle utilizzate nella precedente citazione: «llamaba al infante, so fidelidad que le debía, que dentro ciertos días fuese personalmente donde quier que él estuviese» sembra determinare «li manàs sots pena de la feeltat que vingués a ell». Che l’influenza sia vera o no, tutto, in definitiva, mostra l’importanza dell’ordine del Magnanimo. A questo punto, nella documentazione si verifica un vuoto di oltre quindici anni, durante i quali, a tutt’oggi, non è emerso nessun riferimento sicuro a Pedro de Corral. Almeno, a un Pedro de Corral identificabile senza ombra di dubbio con l’autore della Crónica sarracina. Certamente, la ricerca non si arresta, ed è auspicabile che in futuro si possa colmare questa lacuna. Sebbene sia attestato un Petro del Corral, che nel 1435 ottiene i diritti sulla tassa di reale tafureria (baratteria, i diritti di banco di gioco d’azzardo) di Alghero11, è impossibile per ora stabilire che si tratti dello stesso personaggio. Certo è che, fra il 1434 e il 1435, l’in10. Álvar García de Santa María, Crónica de Juan II, ed. A. Paz y Meliá, I, Madrid 1891, p. 364. Cfr. anche la versione data da Zurita della stessa circostanza: «Antes desto, García de Falces secretario del rey de Navarra – que estaba en Cigales con los embajadores del rey de Aragón – tuvo forma cómo sin peligro suyo mostró al infante don Juan delante de un escribano público una carta abierta del rey, en que le decía que por haber de deliberar sobre algunas cosas muy arduas que tocaban al bien público de sus reinos le mandaba por la fidelidad que le debía que dentro de ciertos días se viniese para él donde quiera que estuviese para hallarse con él a sus cortes, certificándole que si no lo hiciese declararía haber incurrido en las penas de aquellos que no obedecen a su rey ni van a su llamamiento» (Anales cit., V, p. 637). 11. Il nobile Joan Pardo de la Casta, cavaliere, e Bernat Sellent alias Pujades, rispettivamente governatore e luogotenente del procuratore reale di Capo di Logudoro, nel regno di Sardegna, concessero a «Petro del Corral, habitatori dicte ville Algueri» i diritti sulla tassa di tafureria reale di Alghero per la durata di un anno, in cambio di 397 lire che egli s’impegna a pagare, offrendo come garanti la moglie Benedetta, lo 269 RAFAEL RAMOS fante Giovanni e Diego Gómez de Sandoval abbandonarono la Penisola Iberica e si stabilirono in Italia meridionale, al seguito delle campagne del re Alfonso d’Aragona; però, fintanto che non s’approfondisca la ricerca, è preferibile lasciare il documento in sospeso. Comunque, anni dopo, il 24 novembre 1443, i documenti 4 e 5 presentano nuovamente Pedro de Corral come ambasciatore dell’infante Giovanni d’Aragona e nell’orbita di Diego Gómez de Sandoval, ormai con il suo titolo di conte di Castro. Ancora una volta si tratta di documenti quasi identici, che contengono praticamente la medesima informazione, rivolta però a due diversi destinatari. In questo caso, si riferiscono al lungo conflitto fra il conte di Castro e il re Alfonso d’Aragona per la restituzione dell’honor (con ciò s’intende un territorio che, pur dato in usufrutto a un signore, dipende direttamente dalla corona12) di Huesa e Segura, che comprendeva i borghi di Anadón, Blesa, Cortes, Huesa, Josa, Maicas, Minuesa, Plou, Salcedillo e Segura (tutti a nord dell’attuale provincia di Teruel). Precedentemente, tali domini erano appartenuti a Federico d’Aragona, conte di Luna (c. 1400-1438), a cui furono confiscati insieme a tutti i beni dopo la ribellione contro la corona, nel 1430, in piena guerra contro la Castiglia13. Quando Diego Gómez de Sandoval, a causa del risoluto appoggio agli infanti d’Aragona, fu a sua volta spossessato dei suoi feudi in quel regno, ricevette i suddetti territori dal re Alfonso. Per quanto si deduce dalla documentazione posteriore, nel suo caso si trattava di una concessione provvisoria, in attesa di recuperare i propri domini in Castiglia, dopo di che essi sarebbero ritornati alla corona14. Prova ne sia che, non appena il conte di Castro ebbe ricevuto il perdono reale, e con esso la restituzione dei suoi feudi, il 17 dicembre 1438 furono venduti, insieme ad altri borghi, al segretario del re Joan Olzina dietro pagamento di 34.000 fiorini d’oro15. Ciononostante, ignorando l’accordo, Diego scalpellino Pasqual Pellicer, Manuel de Lizón e l’ebreo Iuceff Brunell, abitanti «dicte ville Algueri» (Alghero, 3 ottobre 1435; Archivio di Stato di Cagliari, Antico Archivio Regio: Arrendamenti, infeudazioni, stabilimenti, vol. BD9, ff. 92v-93r). 12. L. G. de Valdeavellano, Curso de historia de las instituciones españolas: De los orígenes al final de la Edad Media, Madrid 1968, p. 388. Si veda, a proposito, la specificazione fatta da Zurita a proposito della partecipazione di Diego Gómez de Sandoval alle corti di Alcañiz del 1436, in qualità di signore dell’honor di Huesa, infatti «no era barón dél sino solamente heredado» (Zurita, Anales cit., VI, p. 128). 13. Cfr. Archivio della Corona d’Aragona (d’ora in avanti, ACA), Cancelleria: Curie, reg. 2684, ff. 32v-33v. 14. Zurita, Anales cit., VI, p. 57. 15. S. Gisbert, Historia de la honor y común de Huesa, in «Revista del Turia», 1 (1881), pp. 204-205, 216-217, 225-226, 239-240, 248-249, 260-261, 273-274, y 2 270 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL Gómez de Sandoval non li restituì alla Corona d’Aragona. Alfonso il Magnanimo, negli anni che seguirono, in più di un’occasione chiese la riconsegna dei domini e la restituzione dei documenti con i quali gli erano stati conferiti. L’insistenza del re è perfettamente comprensibile in quanto, verso il 1443, non solamente il conte di Castro aveva recuperato i suoi possedimenti, ma la sua posizione in Castiglia sembrava più forte che mai. Fra il 1441 e il 1444, gli infanti d’Aragona, a capo di una potente lega di nobili e con il tacito consenso del principe delle Asturie, avevano allontanato dal potere Álvaro de Luna e recluso Giovanni II nel castello di Tordesillas. I feudi di Diego Gómez de Sandoval, quindi, sembravano ben garantiti. Niente faceva presagire che qualche mese dopo, Álvaro de Luna si sarebbe coalizzato con il re di Castiglia e il principe delle Asturie, e che insieme avrebbero sconfitto gli infanti d’Aragona nella battaglia di Olmedo. Le due missive qui presentate vanno lette come ulteriore episodio nell’ambito dell’aspra e prolungata disputa fra il conte di Castro e il re Alfonso a causa dei suddetti possedimenti, della quale si conservano molte altre testimonianze16. Nella prima lettera, Alfonso risponde a una precedente lettera di Pedro de Baeza, amministratore del conte di Castro, che sembra (1882), pp. 282-284 (per il citato atto di vendita, cfr. ACA, Cancelleria: Itinerum, reg. 2770, ff. 82v-97r). 16. Si vedano, per esempio, i seguenti documenti: [1] Alfonso d’Aragona risponde a una lettera del conte di Castro mandata per mezzo di Pedro de Baeza e si sorprende che non gli siano stati restituiti i documenti con cui aveva conferito l’honor di Huesa e la baronia di Segura. Nel documento annesso, ordina a mossèn Lluís Aguiló d’intervenire nella questione (Aversa, 28 novembre 1440; ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2650, f. 118r). [2] Alfonso d’Aragona consegna una lettera credenziale a mossèn Rodrigo de Lizón, suo cameriere, presso il conte di Castro e il principe Enrico di Castiglia, affinché tratti in suo nome. Nelle istruzioni che seguono, si richiede al conte la restituzione del documento con cui gli furono conferiti i domini (Masseria della Regina-Somma Vesuviana, 28 maggio 1442; ibid., ff. 162v-163v). [3] Alfonso d’Aragona consegna a fra Lluís Despuig, commendatore di Perputxent, dell’Ordine di Montesa, una lettera credenziale presso il conte di Castro. Inoltre, gli si danno istruzioni affinché esiga dal conte il documento con cui gli fu conferito l’honor di Huesa e Segura, poiché deve restituirlo (Accampamento reale presso Pentoma, 2 ottobre 1442; ACA, Cancelleria: Curie, reg 2652, f. 15). [4] Alfonso d’Aragona risponde a una lettera mandata dal conte di Castro per mezzo di Pedro Dantas e insiste perché venga restituito il documento con cui gli furono conferiti quei domini (Napoli, 24 maggio 1443; ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2690, f. 24v). [5] Alfonso d’Aragona risponde a una lettera mandata dal conte di Castro per mezzo di fra Lluís Despuig e gli dice che non prenderà nessuna decisione su quei domini finché non gli venga restituito il documento con cui furono conferiti (Accampamento reale presso la selva di Vairano, 13 luglio 1443; ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2650, f. 174v). 271 RAFAEL RAMOS aver ottenuto l’appoggio del re di Navarra per difendere la sua posizione; nella seconda, risponde a una lettera simile, inviatagli dal fratello, lo stesso re di Navarra. In entrambi i casi, Alfonso insiste nelle sue richieste («por diversas letras e embaixadas havemos declarada nuestra intención… e en aquella perseveramos»), e sembra persino dare cenni d’impazienza per il ritardo con cui procede la questione che, all’epoca, durava da oltre quattro anni senza soluzione («últimamente li havemos scripto de nuestra propia mano con algún sentimiento de impaciencia por non fazer en ello el dever enta nós, e speramos saber si por aquella letra lo havía fecho»). Tuttavia, l’aspetto importante per il presente lavoro è che in entrambe le lettere viene esplicitamente indicato che l’ambasciatore di Giovanni d’Aragona, all’epoca in Castiglia, era Pedro de Corral. Molto probabilmente, bisogna leggere il documento 6, datato Napoli 5 settembre 1444, come diretta conseguenza dei fatti riportati nei documenti 4 e 5. In esso il re Alfonso ordina a tutti gli ufficiali reali di Sicilia di disporre i mezzi necessari affinché Pedro de Corral riceva da Pedro de Baeza la percentuale che gli spetta dell’imposta dei quattro grani, concessa anni addietro al conte di Castro. L’imposta comportava che il beneficiario poteva riscuotere quattro grani per ogni salma di frumento esportata dalla Sicilia17. Infatti, durante il regno del Magnanimo, furono frequenti queste prebende, con cui si ricompensarono i grandi servigi resi alla corona18. Anche se nella stessa data il conte di Castro smise di percepire questa rendita (probabilmente a seguito delle reiterate manifestazioni di disubbidienza ad Alfonso, di cui abbiamo detto su), che fu assegnata a Pero Vaca19, in realtà, tale spossessamento segnò l’inizio di un processo di reclami da parte degli eredi di Diego Gómez de Sandoval, che si prolungò fino al XVI secolo20. 17. Il grano era una moneta locale di scarso valore: 20 grani equivalevano a 1 tarì e 30 tarì a un’oncia, pertanto un’oncia valeva 500 grani. La salma era un’unità di misura per aridi e vino, che nel primo caso equivarrebbe a 344,41 litri. Cfr. M. Gual Camarena, El primer manual hispánico de mercaderías (Siglo XIV), Barcelona 1981, p. 297; C. Alsina Català - Ll. Marquet i Ferigle - G. Feliu i Montfort, Pesos, mides i mesures dels Països Catalans, Barcelona 1990, s. v. 18. J. Sáiz Serrano, Caballeros del rey: Nobleza y guerra en el reinado de Alfonso el Magnánimo, Valencia 2008, p. 310. 19. Alfonso il Magnanimo comunica a Pere Llobets, luogotenente del maestro portolano del regno di Sicilia, che in futuro sarebbero passate «al amat nostre mossèn Pero Vaca» le rendite sui quattro grani, fino allora percepite dal conte di Castro (Castel Nuovo di Napoli, 5 settembre 1444; ACA, Cancelleria: Comune Sicilie, reg. 2845. f. 177v). 20. Franco Silva, El linaje Sandoval cit., p. 54; J. I. Tellechea Idígoras, Doña María de Guevara, monja cisterciense ¿luterana?, Madrid 2004, p. XII. 272 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL In questa circostanza, vale la pena evidenziare che, nonostante la quantità percepita possa apparire ridicola, l’imposta offriva un’ingente rendita. Se già Cicerone, citando le parole di Catone il Censore, si riferì alla Sicilia come «nutricem plebis Romanae» (II in Verrem, II 5), nel XV secolo si sarebbe potuto affermare lo stesso per tutta la Corona d’Aragona: «i quattro grani per salma esportata, anche in un’annata di bassa esportazione, davano una cifra notevole. Per es. nel 1431-32… l’esportazione di frumento per fuori regno non era stata inferiore a 23.487 salme, dandogli un provento di onze 155.25.12»21. Grazie ai sei documenti a tutt’oggi individuati, ai quali è auspicabile se ne aggiungano prossimamente altri, si rivela un’immagine molto più nitida di Pedro de Corral. Non solo è fuor di dubbio la sua appartenenza alla corte dell’infante Giovanni, ma soprattutto emergono alcune importanti caratteristiche: i suoi frequenti viaggi e l’attività di ambasciatore, caratteristiche in comune con un altro grande scrittore romanzesco del XV secolo, ossia Joanot Martorell22. Si conferma, inoltre, che il suo cognome era «de Corral», e non «del Corral» con cui tanto frequentemente appare in alcuni studi contemporanei. Tuttavia, al di là dei dati personali, occorre cominciare a chiedersi fino a che punto questi scarsi documenti possano gettare luce sulla Crónica sarracina, oltre al fatto che consentono, come abbiamo visto, di situare Pedro de Corral nel circolo castigliano dell’infante Giovanni d’Aragona proprio negli anni in cui dovette essere scritta, ovvero fra il 1425 e il 1430. Sebbene al momento in questo campo possano solo avanzarsi ipotesi, non mancano questioni interessanti, che meriterebbero uno studio minuzioso. Così, bisogna considerare che la Crónica sarracina è strutturata in due ampie parti. Nella prima si narra il crollo del regno visigotico nella Spagna devastata dalle guerre civili e facile preda per la conquista musulmana. Nella seconda, invece, si narrano le origini della ripresa, con la figura dell’infante Pelayo e le prime vittorie cristiane. In tal senso, occorre ricordare che le origini mitiche dei los Sandoval, della stirpe del conte di Castro, nel corso dei secoli XVI e XVII vennero ricondotte a questo medesimo contesto, in quanto sarebbero discesi da un mitico cavaliere chiama21. C. Trasselli, Sul debito pubblico in Sicilia sotto Alfonso V d’Aragona, in «Estudios de historia moderna», 6 (1956-1959), pp. 69-112 (cit. in p. 79). 22. Cfr. J. J. Chiner Gimeno, El viure novel·lesc: Biografia de Joanot Martorell, Alcoi 1993; J. Villalmanzo, Joanot Martorell: Biografía ilustrada y diplomatario, Valencia 1995; J. Torró, Els darrers anys de Joanot Martorell, o En defensa del «Tirant», la novel·la cavalleresca i la cort, in La novel·la de Joanot Martorell i l’Europa del segle XV, cur. R. Bellveser, II, Valencia 2011, pp. 573-600. 273 RAFAEL RAMOS to Sando Cuervo, compagno di Pelayo, e suo valoroso aiutante in queste prime campagne23. Solamente quando si disporrà di un’edizione affidabile della Crónica sarracina, costituita filologicamente a partire dai manoscritti conservati e non sul lacunoso incunabolo del 1499, molto danneggiato, sarà possibile valutare se essa apporta particolari sufficienti a stabilire una relazione diretta fra entrambi i fatti. Nonostante, a oggi, la questione non possa andare oltre la pura ipotesi, che dovrebbe essere sviluppata in modo più saldo, non succede lo stesso con altri indizi offerti dai documenti fin qui reperiti. Per quanto pochi, ci mostrano Pedro de Corral sempre nell’orbita dell’infante Giovanni. Da questo punto di vista, le aspre parole dedicategli da Fernán Pérez de Guzmán acquisiscono maggior significato. Così come si è già indicato in qualche occasione, il furibondo attacco poteva essere solamente interpretato come frutto di astio personale, provocato da uno scontro di carattere politico. Ovviamente, data l’impossibilità di vincolare con certezza Pedro de Corral a un circolo di potere, le cause dello scontro potevano solo essere supposte; di qui l’ipotesi che l’attacco di Fernán Pérez de Guzmán, noto sostenitore dell’infante Enrico d’Aragona, fosse originato dall’appartenenza di Pedro de Corral, così come del fratello Rodrigo de Villandrando, alla fazione di Álvaro de Luna e del re Giovanni II di Castiglia24. La comparsa di questi documenti, al contrario, lo collocano nel circolo dell’infante Giovanni d’Aragona, suo altro grande avversario, e magari al corrente delle trattative che avrebbero condotto in prigione l’infante Enrico, nel 1422 (come potranno forse dimostrare i documenti 1 e 2). Si tratta di un campo in cui solo a partire da ora è possibile iniziare a fare ricerca. 23. Cfr., per esempio, fra Prudencio de Sandoval, Decendencia de la casa de Sandoval, duques de Lerma, in Crónica del ínclito emperador de España Alfonso VII, Madrid 1600; Pedro Salazar de Mendoza, Crónico [sic] de la casa de Sandoval, dividido en XXII elogios, 1600, Madrid, Biblioteca de Real Academia de la Historia, ms. 9/198 bis, e Madrid, Biblioteca Nacional de España, ms. 3277; Alonso López de Haro, Discursos genealógicos de la nobilísima y antigua casa de Sandoval, 1614, Madrid, Biblioteca de la Real Academia de la Historia, ms. B/80; Diego Matute de Peñafiel, Prosapia de Cristo, Baeza, 1614; Marco Antonio Palau, Diana desenterrada: Antiguas memorias y breve recopilación de los más notables sucesos de la ciudad de Denia, 1643, Valencia, Biblioteca Valenciana, ms. 501-1, et alii. 24. È un’ipotesi che attraversa tutta la tradizione critica della Crónica sarracina, dal classico studio di R. Menéndez Pidal, Floresta de leyendas heroicas españolas: Rodrigo, el último godo, I, Madrid 1925, p. XCIX, fino al recente lavoro di M. S. Brownlee, The Possibility of Historical Time in the «Crónica sarracina», in Rethinking the New Medievalism, cur. R. H. Bloch - A. Calhoun - J. Cerquiglini-Toulet - J. Küpper - J. Patterson, Baltimore 2014, pp. 100-114. 274 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL APPENDICE DOCUMENTALE ACA: Archivio della Corona d’Aragona, Barcellona. ARV: Archivio del Regno di Valencia, Valencia. 1 1422. 01. 13 – Napoli Il re Alfonso d’Aragona risponde a un messaggio dell’infante Giovanni inviato per mezzo di Pedro de Corral, il quale ne ha riferito le richieste, grazie a una lettera credenziale. Lo stesso ambasciatore riporterà la risposta al re. El rey d’Aragón e de Sicilia. – Muyt caro e muyt amado ermano: Vuestra letra havemos recebida por manos de Pedro de Corral e hoýdo todo lo que el dito Pedro nos ha quesido explicar de part vuestra en virtut de la creyença a aquell por vós comandada. Respondémosvos que havemos havido gran plazer como por aquella somos stado certificado de vuesra buena sanidat et stamiento. E, por quanto sabemos qu’ende havredes plazer, vos significamos que somos bien sano por gracia de Nuestro Senyor e en buena disposición de nuestra persona, e nuestros afferes de las partes d’aquá toman de día en día gran augmento de prosperidat. E sobre las otras cosas que el dito Pedro nos ha explicado, havemos informado aquell de nuestra intención segunt que éll vos porá recitar más largament. E sea, muyt caro e muyt amado ermano, vuestra continua protección la Santa Trinidat. – Dada en el Castiello nuevo real de Napols, dius nuestro siello secreto a XIII días de janero del anyo de la natividad de Nuestro Senyor mil CCCC e XXII. – Rex Alfonsus. – A nuestro muyt caro e muyt amado ermano el infante don Johán, duch de Monblanch e de Penyafiel. – Nicholaus Aymerich ad relationem Ffrancisci d’Arinyo secretarii. Probata. ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2671, f. 196r 2 1422. 01. 13 – Napoli Il re Alfonso d’Aragona risponde a un messaggio di Diego Gómez de Sandoval, “adelantado mayor” di Castiglia, inviato per mezzo di Pedro de Corral, il quale ne ha riferito le richieste, grazie a una lettera credenziale. Lo stesso ambasciatore riporterà la risposta al re. El rey d’Aragón e de Sicilia. – Adelantado: Vuestra letra havemos recebido por manos de Pedro de Corral e hoýdo todo lo que el dito Pedro nos ha quesido explicar de part vuestra en virtut de la creyença por vós a aquell comandada. Vos respondemos que sobre las ditas cosas havemos informado de nuestra intención el dito Pedro, el qual más largament vos lo recitará. E, porque sabemos qu’ende havredes plazer, vos significamos que somos bien sanos por gracia de Nuestro Senyor e en buena disposición de nuestra persona, e nuestros afferes de las partes d’aquá toman de día en día gran augmento de prosperidat. – Dada en el Castiello nuevo real de Napols a XIII días de janero del anyo mil CCCC XXII. – Rex Alfonsus. – Al noble e amado nuestro mossén Diego Gómeç de Sentdoval, ade275 RAFAEL RAMOS lantado mayor de Castiella. – Nicholaus Aymerich ad relationem Francisci d’Arinyo secretarii. Probata. ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2671, f. 196v 3 1425. 08. 12 – Saragozza L’infante Giovanni d’Aragona invia Pedro de Corral dalla Castiglia a Saragozza, con lettere per Alfonso de Morales, suo procuratore e tesoriere, il quale si trova lì per seguire i problemi della successione del ducato di Gandia. Nelle lettere gli chiede che sbrighi alcuni affari in suo nome in Catalogna, poiché egli deve presentarsi dal re Alfonso. Ítem met en data què despès per ço. Lo dit molt alt senyor rey de Navarra tramès al dit mossèn Alfonso, qui era en Çaragoça per la rahó damunt dita, a Pedro de Corral ab letres sues, ab les quals lo dit senyor manava al dit mosssèn Alfonso que anàs en Catalunya per rahó que lo dit mossèn Alfonso se informàs de alguns dubtes toquants al dit senyor, com lo senyor rey de Aragó li manàs sots pena de la feeltat que vingués a ell per subvenir-lo per la presó del Maestre; per los quals dits dubtes lo dit mossèn Alfonso anà a la ciutat de Barchinona e en altres parts de Catalunya per informar-se de aquells. En lo qual viatge stech un mes e quinze jorns, en lo qual ensemps ab VII cavalcadures e dos rapaços, despès cascun jorn quatre florins comprens de la caixa. De Çaragoça, a XII d’agost del dit any de M CCCC XXV. ARV, Mestre Racional, reg. 9374, f. 98r 4 1443. 11. 24 – Minturno Il re Alfonso d’Aragona risponde a una lettera di Pedro de Baeza, inviata per mezzo di Melcior de Ribelles, su certi possedimenti che donò al conte di Castro quando perse i suoi domini in Castiglia. Afferma che lo stesso ha risposto a Giovanni, re di Navarra, il quale gli aveva mandato una lettera simile attraverso Pedro de Corral. El [rey] d’Aragón e de Sicilia. – Mossén Pedro: Vuestra letra de VIII de julio havemos recebida con mossén Melchior de Ribelles, a la qual vos respondemos que por diversas letras e embaixadas havemos declarada nuestra intención al muy illustre rey de Navarra, nuestro muy caro e muy amado ermano, e al conde de Castro, sobre los afferes en la dicha vuestra letra contenidos, e en aquella perseveramos. Convién a saber que en todas maneras queremos cobrar la carta que le fiziemos de lo de Huesa e Segura con otra carta de reconoscimiento que nos faga en cómo es verdat que la dicha donación de Huesa éll nos devía restituir e reintegrar lugo qu’ell dicho conde cobrasse sus tierras en Castilla, e otro nengún partido no’nde queremos escuxar que primero no hayamos las dichas dos cartas e assinde havemos scripto al dicho rey de Navarra respondiendo a la letra que nos trahía Pedro de Corral. – Dada en Traieto a XXIIII de noviembre del anyo mil CCCC XXXXIII. – Rex Alfonsus. – Dirigitur Pedro de Baeça, militi. – Martorell. ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2653, f. 18v 276 PRIMI DOCUMENTI SU PEDRO DE CORRAL 5 1443. 11. 24 – Minturno Il re Alfonso d’Aragona risponde a una lettera di Giovanni, re di Navarra, inviata per mezzo di Pedro de Corral, su certi possedimenti che aveva donato al conte di Castro quando perse i suoi domini in Castiglia. Illustríssimo rey, nuestro muy caro e muy amado hermano: Por muchas e diversas letras e embaixadas podéys haver conoscido nuestra voluntad en querer haver e cobrar en todas guisas la carta que fiziemos al conde de Castro de lo de Huesa e de Segura con la regoneixença de la verdat, que fue qu’éll cobrando sus tierras en Castilla nos tornasse aquellas que le diemos, e en este propósito siempre entendemos persevera e non escuxarne partido ninguno fasta que essas dos cartas cobremos, por las quales últimament li havemos scripto de nuestra propria mano con algún sentimiento de impaciencia por non fazer en ello el dever enta nós, e speramos saber si por aquella letra lo havrá fecho; en otra guisa, nos haya por escusados si provehímos a nuestros afferes. E esto vos respondemos quanto a la letra que nos trahía Pedro de Corral. E sia, illustríssimo rey, nuestro muy caro e muy amado hermano, vuestra guarda la Sancta Trinidat. – Dada en Traieto a XXIIII de noviembre del anyo mil CCCC XXXXIIII. – Rex Alfonsus. – Dirigitur Regi Navarre. ACA, Cancelleria: Curie, reg. 2653, f. 19r 6 1444. 09. 05 – Napoli Il re Alfonso ordina a tutti gli ufficiali e funzionari di Sicilia che dispongano ogni mezzo necessario affinché Pedro de Baeza, amministratore del conte di Castro, paghi a Pedro de Corral la parte corrispondente delle rendite sull’imposta dei quattro grani concessagli dal succitato conte. Petri de Corral Alfonsus etc. – Magnifico nobilibus dilectis consiliariis et fidelibus nostris viceregii, magistro iustitiario vel eius locumtenentibus ac iudicibus nostre regie magne curie magistris quoque rationalibus et magistro portulano regni Sicilie ultra Farum, eorumque locatenentibus ad quem seu quos presentes pervenerint et pertineant quomodolibet infrascripta, salutem et gratiam. Dicimus et mandamus vobis expresse quatenus fideli nostro Petro de Corral absque dilatione aliqua seu intervallo solvatis et integre satisffaciatis seu solvi et integre satisfieri faciatis atque per iustitiam mandetis de… comitis de Castro in isto regno precepto seu occasione gratie quam sibi fecit dictus comes de Castro super iurem quatuor granorum compellendo Petrum de Baeça, militem, procuratorem dicti comitis compulsionibus debitis et necessariis ad dictam solutionem facendam, et non contrafaciatis quavis causa cum sic fieri velimus ac omnino iubeamus. – Data in Castello nostro novo Neapolis die quinto mensis septembris, octavo indicionis, anno Domini Mº CCCCº XXXXIIIIº. – Rex Alfonsus. – Dominus rex mandavit mihi Johanni Olzina. Probata. ACA, Cancelleria: Comune Sicilie, reg. 2845, f. 177v 277 RAFAEL RAMOS ABSTRACT First Documents of Pedro de Corral, author of the Crónica sarracina This article sets Pedro de Corral’s Crónica Sarracina against the background of the true-to-life chivalric fiction which was produced in the courts of Bourgogne and Anjou, and was often related to dinastic legends. It reveals the first documents found about the novelist Pedro de Corral, which are dated between 1422 and 1444, and located in the Arxiu de la Corona de Aragó and the Arxiu del Regne de València. They all present Corral as a server of the Infante John of Aragon and Diego Gómez de Sandoval, Count of Castro. As well, several documents reveal that Corral sometimes acted as a trusted messenger in the presence of King Alfonso of Aragon. Rafael Ramos Universitat de Girona rafael.ramos@udg.edu 278 J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 2. 1. 3. 4. 1. Rilegatura con motivi mudejar, Plutarco, Vitae parallelae, Bibliothèque Nationale de France, ms. Latin 5832 (© Bibliothèque Nationale de France). 2. Bottega di Manises (Valencia), Piatto con le armi di Maria di Castilla, sposa di Alfonso il Magnanimo, Sèvres, Cité de la Céramique, MNC 3107.2, cm. 44×7,8, v. 1415 (© RMN-Grand Palais (Sèvres, Cité de la céramique) / Martine Beck-Coppola). 3. Bottega di Manises (Valencia), Ceramica con la devisa del Libro, Valencia, Museo nacional de cerámica, v. 1420 (© Valencia, Museo nacional de cerámica). 4. Pavimento con Ercole, il “Pontano” e il ritratto di Giovanni Pontano, Napoli, Cappella Pontano, ca. 1492 (© Autore). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 5. 6. 7. 8. 5. Rogier van der Weyden, San Giorgio e il dragone, Washington, National Gallery of Art, Ailsa Mellon Bruce Fund, 1966.1.1, cm. 14,3×10,5, ca. 1432-1435 (© Washington, National Galley of Art). 6. Cristoforo Maiorana, San Giorgio e il dragone, in Vesperale di Ferdinando I di Napoli, Valenza, Biblioteca Històrica, ms. 391, f. 19, ca. 1491 (© Valenza, Biblioteca Històrica). 7. Jean Bourdichon e Giovanni Todeschino, San Giorgio e il dragone, in Horae all’uso domenicano, dette Horae di Federico di Napoli, Bibliothèque Nationale de France, ms Latin 10532, f. 374, ca. 1496-1501 (© Bibliothèque Nationale de France). 8. Colantonio, Isabella di Chiaramonte in preghiera con Eleonora e Alfonso, predella del Polittico di San Vincenzo Ferrer, Napoli, Museo di Capodimonte (dalla chiesa di San Pietro Martire), ca. 1458-1460 (© autore). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 9. 10. 12. 11. 9. Rogier van der Weyden, Guigone de Salins in preghiera, verso del pannello destro del Giudizio universale, Beaune, Hôtel-Dieu, 1446-1452. 10. Sedia ardente, Codice di Santa Marta, Napoli, Archivio di Stato, Museo Storico, 99 C. I., f. 9, ca. 1440-1450, dettaglio (© Archivio di Stato, Napoli). 11. Motivo della Sedia ardente, Simone Martini, Giustiniano cacciato dal suo trono da una lingua di fuoco perché non ha voluto ricevere san Martino, Assisi, basilica inferiore, Capella di San Martino, ca. 1313-1318 12. «Maître des cleres femmes», Castigamento di Brumante, in Lancelot-Graal, Bibliothèque Nationale de France, ms Fr. 120, f. 474, 1405 (© Bibliothèque Nationale de France). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 13. 15. 16. 13. Pisanello, medaglia VENATOR INTREPIDVS, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ca. 1448 (© autore). 14. Alfonso in preghiera sotto San Giorgio e il dragone, Breviario di Martino I d’Aragona, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Rothschild 2529, f. 444 v, ca. 14201430 (© Bibliothèque Nationale de France). 15. Leonardo Crespí, Alfonso ha una visione di Dio, Libro d’ore di Alfonso il Magnanimo, Londra, British Library, ms. Add. 28 962, f. 78r, cm. 5×3, 5, ca. 1439-1442 (© British Libray). 16. Leonardo Crespí, Alfonso V rivendica il trono napoletano, in P. Rossellus, Descendentia…, 1436-1437, Valencia, Biblioteca Històrica, ms. 394, f. 1, post 1437 (© Valencia, Biblioteca Històrica). 18. 17. Pisanello, Ritratto di Alfonso, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 481, recto, ca. 1440-1450 (© Louvre, Département des arts graphiques). 18. Pisanello, Studi di rapaci, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 481, verso, ca. 1440-1450 (© Louvre, Département des arts graphiques). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 17. J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 19. 20. 21. 22. 19. Ritratto di Alfonso, Francesco Filelfo, Orationes, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 118, f.1, ca. 1460-1470 (© Biblioteca Apostolica Vaticana). 20. Pisanello, medaglia TRIVMPHATOR ET PACIFICVS, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ca. 1448 (© autore). 21. Bottega napoletana di Pisanello, Prova di medaglia, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ca. 1450 (© Autore). 22. Seguace di Piero della Francesca?, Alfonso il Magnanimo, ca. 1458-1460, Parigi, Musée Jacquemart-André (© Musée Jacquemart-André). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 23. 24. 25. 26. 23. Colantonio, Polittico di San Vincenzo Ferrer, 190×88 cm., Napoli, Capodimonte (dalla chiesa di San Pietro Martire), ca. 1458, dettaglio (© museo di Capodimonte). 24. Pere Garcia, San Vincenzo Ferrer, Vergine e donatori, Barcelona, Museu Nacional de Arte de Catalunya (dal convento di Cervara), 170×126 cm., ca. 1456 (© Barcelona, Museu Nacional de Arte de Catalunya). 25. Joan Reixach, Vincenzo Ferrer, collezione privata (dal covento domenicano di Valenza), 113×47 cm., ca. 1460-1470. 26. Joan Reixach, Vincenzo Ferrer, Valencia, Cattedrale, museo, ca. 1455-1459 (© Valencia, museo della Cattedrale). J. BARRETO . LA MATRICE VALENCIANA DELLA POLITICA ARTISTICA ALFONSINA 27. Cristoforo Faffeo, Maria con Gesù, angeli e santi, Vallo della Lucania (Salerno), Museo Diocesano (dalla collegiata di Santa Maria Maggiore a Laurino), 1482, dettaglio (© Salerno, Museo Diocesano). J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 1. 3. 2. 4. 1-2. El rei Alfons, ben vestit i ben enjoiat, fent oració a la cambra i a la capella. Salteri i Llibre d’Hores d’Alfons el Magnànim, c. 1443. London, British Library, ms. Add. 28962, f. 14v i 281v. 3. Bernat Martorell, Retaule de Sant Pere de Púbol, 1437. El personatge representat en darrer pla, en l’escena de la caiguda de Simó el Mag, porta un opulent collar de fulles. Girona, Museu d’Art, inv. 289. 4. Atribuït a Marçal de Sax: Retaule de Sant Jordi del Centenar de la Ploma, c. 1410. Sant Jordi, que lluita al costat de Jaume I, duu un xapellet guarnit amb tres plomes. London, Victoria & Albert Museum, inv. 1217-1864. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 5. 6. 7. 8. 5. Retrat del poeta Oswald von Wolkenstein en el seu Liederhandschriff B, c. 1432. A més del gran collar de les gerres, amb el griu com a penjoll, porta l’estola blanca decorada amb dos fermalls: la gerra amb lliris i la divisa de l’orde imperial del dragó. Innsbruck, Universitätsbibliothek. 6. Mino da Fiesole: Relleu amb el bust d’Alfons el Magnànim, c. 1450. Porta un collar amb elements ornamentals (gerres?). París, Louvre. 7-8. Imatges dels reis Joan I d’Aragó i Martí I d’Aragó “l’Humà”, amb corona, ceptre i pom. Rotlle Genealògic de Poblet, c. 1400. Catalunya, Monestir de Poblet. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 9. 10. 9. Segell reial d’Alfons el Magnànim, entronitzat, amb corona, ceptre i pom armes reials al peu (flanqueja des pergrins) i «ab letres entorn». Barcelona, Arxiu de la Corona d’Aragó. (F. de Sagarra, 1915). 10. Inicial amb el rei Alfons, envoltada amb les divises del mill (repetida a la part superior), el llibre obert (a l’angle inferior de l’esquerra) i el siti perillós (a l’angle inferior de la dreta). Breviari del rei Martí l’Humà, c. 1400. Paris, BNF, Ms. Rotshchild, f. 444v. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 11. 12. 11-12. Atribuït a Guido Mazzoni: Bust de Ferran I de Nàpols o del seu fill Alfons II. Porta un collar amb les divises del Magnànim (mill, llibre obert, siti perillós) i amb les de Ferran (muntanya de diamants i ermini). Napoli, Museo di Capodimonte, inv. AM 10527. Anvers i detall del revers. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 13.-14. 15. 16. 13-14. Divises de la reina Maria de Castella, esposa del Magnànim: l’olla o “apurador” i la mata de safrà. Relleus del sepulcre de la reina. València, claustre del monestir de la Trinitat. 15. Segell de la reina Maria, amb les armes d’Aragó i Castella, flanquejades per les divises de la mata de safrà i l’apurador. Archivio Histórico Nacional de Madrid C. 5/13. 16. Rajola amb la divisa de l’apurador, envoltada pel títol “Virtut apurar no·m fretura sola”. Museo Nacional de Ceràmica y Artes Suntuarias “González Martí”, València. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 17. 18. 17. Pere Garcia de Benavarri: Retaule de sant Joan. Al costat esquerre d’aquesta escena del banquet d’Herodes es veu el tinell amb la vaixella d’or i argent, c. 1470. Barcelona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, inv. 64060. 18. Convit aristocràtic amb la taula luxosament parada i amb una gran varietat de peces de vaixella exposades al tinell de l’esquerre, segle XV. Paris, BNF, Ms. fr. 9002, f. 148v. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 19. 21. 20. 22. 19. El rei Alfons en l’entrada triomfal a Nàpols (1443). Porta corona i ceptre; el carro, amb dosser, és estirat per una quadriga de cavalls blancs. Lorenzo Valla, De Rebus Gestis Ferdinandi I. Città del Vaticano, BAV, ms. Vat. Lat. . 123v. 20. Relleu amb la representació de l’entrada triomfal d’Alfons a Nàpols (1443). Té la mà dreta mutilada, porta el pom a l’esquerra i s’asseu en una cadira coberta de draps rics. Napoli, Castelnuovo. 21. Agostino di Duccio: Medalló del rei Alfons amb la inscripció «Divus Alphonsus rex», c. 1455-1457. London, Victoria & Albert Museum. 22. Maestro del Trionfo d’Alfonso, Cassone nuziale, c. 1450-1465. Al final de la comitiva es representa Alfons coronat, amb ceptre i pom. Napoli, col·lecció privada. J. DOMENGE MESQUIDA . LA IMATGE SUMPTUÀRIA D’ALFONS EL MAGNÀNIM 23. 24. 25. 26. 23. El rei Alfons amb el collar de les gerres i el griu. Relleu de l’entrada triomfal a Nàpols (1443), Napoli, Castelnuovo. 24. Fra Giovan Angelo da Montorsoli: Bust d’Alfons el Magnànim amb el collar de l’orde del Toisó d’or, creat pel duc de Borgonya, Felip el Bo, c. 1541-1543. Wien, Kunsthistorisches Museum, inv. 5441. 25. Còpia de Hans Burgkmair “el vell”, a partir d’un original perdut, c. 1468. Retrat l’emperador Frederic III, amb el collar de les gerres i el griu (el títol del filacteri diu “Per bon amor”). Wien, Kunsthistorisches Museum, inv. 4398. 26. Sarcòfag del cavaller Joan Sabastida. Al damunt de l’armadura, porta un xapellet amb plomes i un gran collar de les gerres i el griu, c. 1472. Siracusa, Galleria Nazionale di Palazzo Bellomo.