[go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu
LA CATENA DELLE CAUSE Determinismo e antideterminismo nel pensiero antico e contemporaneo a cura di Carlo Natali e Stefano Maso Contributi di: Barbara Botter - Vincenza Celluprica Silvia Fazzo - Matteo Giannasi Jean-Baptiste Gourinat - Fritz-Gregor Herrmann Francesca Guadalupe Masi - Stefano Maso Pierre-Marie Morel - Carlo Natali Yamina Oudai Celso - Luigi Perissinotto David Sedley - Robert Sharples Cristina Viano - Diego Zucca ADOLF M. HAKKERT – EDITORE – AMSTERDAM 2005 ISBN 90-256-1200-8 In copertina: elaborazione al computer. In evidenza Democrito, Aristotele, Epicuro, Cicerone. Volume pubblicato con i fondi del MURST. © Copyright 2005 by Adolph M. Hakkert Editore – Amsterdam LEXIS EINZELSCHRIFTEN a cura di V. Citti e P. Mastandrea I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI. XVII. XVIII. XIX. C.O. Pavese, Il grande partenio di Alcmane, 1992 V. Citti, Eschilo e la lexis tragica, 1994 E. Turolla, Studi oraziani, 2000 F. Boldrer, L’elegia di Vertumno (Properzio 4.2), 1999 J. Robaey, La riparazione di un oblio: da Dante a Mallarmé, 1998 Antiaristotelismo, a cura di C. Natali e S. Maso, 1999 P. Trovato, Riveduto e corretto, (in preparazione) L. Spina, La forma breve del dolore, 2000 G.F. Nieddu, Dall’oralità alla scrittura (in preparazione) Xenophon, Socrate’s Defence, Introd. and comm. by P. Pucci, 2002 M. Steinrueck, La pierre et la graisse, 2002 A. Maddalena, Studi sul pensiero greco, 2001 J. Robaey, La tradizione dell’antico in Mallarmé, Proust, Baudelaire, 2001 C. Miralles, Elegia e giambo, (in preparazione) M. Untersteiner, Commento alle ‘Coefore’, 2002 E. Bona, Vita Sancti Caesarii Episcopi Arelatensis, 2001 Plato Physicus, a cura di C. Natali e S. Maso, 2003 H. Kuch, Euripides, Mit einer Prosa-Ûbertragung der ‘Medea’, 2003 P. Ferrarino, La cosiddetta contaminazione nell’antica commedia romana, edd. L. Cristante - C. Marangoni - R. Schievenin, 2003 XX. Tradizione testuale e ricezione letteraria antica della tragedia greca, Atti del convegno Scuola Normale Superiore, Pisa 14-15 Giugno 2002, a c. di L. Battezzato, 2003 XXI. S. Nannini, Analogia e polarità in similitudine, Paragoni iliadici e odissiaci a confronto, 2003 XXII. G. Moretti, Enciclopedia allegorica (in preparazione) XXIII. P. Cipolla, Poeti minori del dramma satiresco, testo critico, trad. e comm., 2003 XXIV. Decimo Magno Ausonio, Mosella, introd., testo, trad. e comm. a c. di A. Cavarzere, con una appendice di L. Mondin su La data di pubblicazione della ‘Mosella’, 2003 XXV. G. Bona, Scritti di letteratura greca e di storia della filologia (in preparazione) XXVI. Alessandro di Afrodisia, Commento al de Caelo di Aristotele, Frammenti del libro I, a c. di A. Rescigno (in preparazione) XXVII. F. Benedetti, Studi su Oppiano (in preparazione) XXVIII. R. Reggiani, Satyrica (in preparazione) XXIX. La catena delle cause. Determinismo e antideterminismo nel pensiero antico e in quello contemporaneo, a cura di C. Natali e S. Maso, 2005 XXX. M. Taufer, Jean Dorat e la filologia classica (in preparazione) XXXI. A. Galistu, L’Eschilo di Adrian Tournebus (in preparazione) XXXII. M.G. Strinati, La ‘Vera historia’ di Luciano. Un volgarizzamento dal greco del secondo Quattrocento (in preparazione) XXXIII. XXXIV. V. Citti, Studi sul testo delle ‘Coefore’ (in preparazione) SOMMARIO 9 Elenco degli autori Prefazione Introduzione Carlo Natali e Stefano Maso Carlo Natali e Stefano Maso 11 13 DEMOCRITO E PLATONE 19 Pierre-Marie Morel Democrito e il problema del determinismo. A proposito di Aristotele, Fisica II, 4 21 Fritz-Gregor Herrmann Plato's answer to Democritean Determinism 37 ARISTOTELE 57 Vincenza Celluprica Il determinismo logico nel De interpretatione IX di Aristotele 59 Diego Zucca Il caso e la fortuna sono cause? Aristotele, Phys. II 4-6 75 Barbara Botter Il giusto mezzo tra necessità e finalismo nella scienza della natura di Aristotele 99 Cristina Viano Virtù naturale e costituzione fisiologica. L’etica aristotelica è un determinismo materialista? 131 Carlo Natali Perché Aristotele ha scritto il libro III dell’Etica Nicomachea? 145 7 FILOSOFIA ELLENISTICA E ROMANA 165 Francesca Guadalupe Masi L’antideterminismo di Epicuro e il suo limite: il libro XXV del PERI FUSEOS 167 Robert W. Sharples Ducunt volentem fata, nolentem trahunt 197 Jean-Baptiste Gourinat Prediction of the future and co-fatedness: two aspects of Stoic Determinism 215 David Sedley Verità futura e causalità nel De fato di Cicerone 241 Stefano Maso Clinamen ciceroniano 255 Silvia Fazzo Aristotelismo e antideterminismo nella vita e nell’opera di Tito Aurelio Alessandro di Afrodisia 269 RIFLESSI MODERNI DI UN PROBLEMA ANTICO 297 Matteo Giannasi Libertà e determinismo: una prospettiva contemporanea 299 Yamina Oudai Celso L’eterno ritorno tra Nietzsche e gli Stoici 329 Luigi Perissinotto «Non v’è un ordine a priori delle cose». Una breve nota su volontà e fatalismo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein 359 Bibliografia 367 Indice degli autori moderni 409 Indice analitico 415 8 ELENCO DEGLI AUTORI Barbara Botter, Università di Venezia – Ca' Foscari Vincenza Celluprica, CNR – Roma Silvia Fazzo, Università di Trento Matteo Giannasi, Università di Venezia – Ca' Foscari Jean-Baptiste Gourinat, CNRS, Paris – Centre « Léon Robin » Fritz-Gregor Herrmann, University of Wales – Swansea Francesca Guadalupe Masi, Università di Venezia – Ca' Foscari Stefano Maso, Università di Venezia – Ca' Foscari Pierre-Marie Morel, Université de Paris I – Panthéon-Sorbonne Carlo Natali, Università di Venezia – Ca' Foscari Yamina Oudai Celso, Università di Venezia – Ca' Foscari Luigi Perissinotto, Università di Venezia – Ca' Foscari David Sedley, Cambridge University Robert Sharples, London – University College Cristina Viano, CNRS – Paris Diego Zucca, Università di Venezia – Ca' Foscari 9 PREFAZIONE Negli anni 2002-4 si è tenuta all’Università «Ca’ Foscari» di Venezia una serie di incontri seminariali su Causalità e determinismo nel pensiero antico, nell’ambito delle attività del Dottorato di Ricerca in Filosofia dell’Università di Venezia e delle cattedre di Storia della filosofia antica e di Storia della filosofia tardo-antica. Hanno presentato relazioni E. Bellinelli, B. Botter, V. Celluprica, M. Giannasi, F.G. Masi, S. Maso (due volte), A. Nagy, C. Natali (tre volte), Y. Oudai, I. Zanuzzi, D. Zucca. Hanno accompagnato i lavori del seminario tre giornate internazionali di studio sul Determinismo nel pensiero antico e nel pensiero contemporaneo (25.10.2002, 23.10.2003, 26.3.2004), tenutesi nei locali del ‘Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze’, con interventi di B. Botter, S. Fazzo, J.-B. Gourinat, F.G. Masi (due volte), P.-M. Morel, C. Natali, Y. Oudai, L. Perissinotto, D. Sedley, R.W. Sharples, C. Viano. Ha fattivamente collaborato all’organizzazione del seminario C. Buffon. Il presente volume è frutto sia del seminario sia delle giornate di studio che lo hanno accompagnato, e ne costituisce in parte la testimonianza. Per varie ragioni non è stato possibile pubblicare tutti gli interventi; i curatori esprimono il loro vivo rammarico per questo. Carlo Natali ha diretto i lavori del seminario ed ha organizzato le giornate di studio che lo hanno accompagnato. Stefano Maso ha curato in particolare il presente volume. Questa raccolta di saggi costituisce uno dei frutti delle ricerche svolte dall’unità di Venezia nell’ambito dei progetti di interesse nazionale «Dottrine causali e determinismo nella tradizione aristotelica e nel dibattito con le scuole rivali» diretto dal prof. E. Berti e «Desiderio, ragione, volontà e debolezza del volere nel pensiero antico e in quello contemporaneo» diretto dal prof. C. Natali. I curatori ringraziano i direttori dei «Supplementi di Lexis» per aver accolto anche questo lavoro nella loro collana. 11 12 INTRODUZIONE «Se ogni evento ha una causa, e il legame tra causa ed effetto è necessario, nulla può avvenire diversamente da come accade». Nel mondo greco si è presentata, fin da un tempo molto antico, questa forma di determinismo, chiamato abitualmente «determinismo causale», in opposizione, o quanto meno a differenza, di altri tipi di determinismo (logico, temporale, teologico). Oggi questa posizione è vista con una certa simpatia da parte della critica contemporanea, quella che, influenzata da presupposti filosofici di tipo scientistico, fa dipendere la comprensibilità di un fenomeno dalla possibilità di porlo in relazione di dipendenza da altri eventi, secondo un collegamento nomologico, causale o comunque di dipendenza necessaria. Il modello delle scienze cosiddette «dure», come fisica e matematica, si è imposto come il tipo standard di razionalità in una certa parte della filosofia contemporanea, e vi è la tendenza a ridurre tutte le scienze che trattano livelli più complessi di realtà a questo modello basilare. Così anche nella storiografia filosofica odierna si tendono a rivalutare forme varie di determinismo, «soft» o «compatibilista» ed a rigettare nell’irrazionale, al di fuori della sfera della spiegazione accettabile, le tendenze opposte. Ogni forma di dualismo, e di distinzione tra un livello fisico degli eventi, ed un livello in cui gli eventi non sono predeterminati dalle leggi del mondo fisico, perché dipendenti dalle scelte e dall’azione umana, viene inteso come un tipo di irrazionalismo e come una via impercorribile per la riflessione più seria. Ciò avviene perché, come tutti, anche gli storici della filosofia antica sono figli del loro tempo, e in alcuni contesti culturali, specie nel mondo di lingua inglese, si percepisce fortemente l’influsso dei presupposti filosofici di tipo scientistico cui facevamo accenno prima. Anche il tentativo recente (Bobzien) di ridurre il dibattito tra determinismo e indeterminismo ad un episodio piuttosto limitato nel tempo, originato nel II secolo d.C. e spentosi presto, tende a ridurre l’importanza dello scontro tra determinismo causale e posizioni opposte ad esso. Ma a tale tentativo si può avanzare l’obiezione di avere seriamente sottostimato l’importanza della riflessione aristotelica sulla causa, la necessità e la contingenza degli eventi futuri e delle scelte umane. Per contro, in questo volume la tesi comune, che emerge in modo autonomo dai contributi dei vari autori e senza che vi sia stata una concertazione precedente, è che il determinismo di tipo causale abbia fatto una prima apparizione con il 13 pensiero degli Atomisti antichi, e in particolare con Democrito, abbia generato reazioni in Platone, e poi soprattutto in Aristotele ed Epicuro, per venire riaffermato dagli Stoici e sfociare nel grande dibattito tra deterministi ed antideterministi dell’età imperiale. Si tratta, come si vede, della riproposizione di un quadro storico tradizionale, con una serie di revisioni ed affinamenti che lo rendono più storicamente preciso e filosoficamente accettabile. In astratto si potrebbe dire che le principali posizioni che si opposero al determinismo causale nel mondo antico furono due: quella che postula l’esistenza di un movimento senza causa, tradizionalmente attribuita ad Epicuro, e quella che ammette l’esistenza di cause prime, non dipendenti da altro, e di serie causali limitate, tradizionalmente attribuita ad Aristotele, ripresa, su basi diverse, da Cicerone, e poi riesposta in forma nuova da Alessandro di Afrodisia. Tutte queste attribuzioni sono state messe in dubbio dalla critica moderna, e si è giunti a volte ad affermare che Aristotele sia stato un filosofo più determinista di Crisippo anche se, forse, lo è stato involontariamente. Anche l’attribuzione agli Stoici di un determinismo causale rigido come quello descritto all’inizio è stata criticata, da molti autori che hanno tentato di rendere meno inaccettabile al senso comune la posizione stoica, e di trovare un compromesso tra determinismo e capacità umana di influenzare in modo originale il corso degli eventi. Contro questi tentativi si era levata, già nel II secolo d.C. la polemica di Alessandro di Afrodisia. Ma la posizione stoica per qualche verso rimane più gradita ad un certo gusto moderno, di quella aristotelica e di quella epicurea. In effetti le tesi sostenute dai difensori delle due posizioni prima descritte potrebbero venire sottoposte a gravi e importanti obiezioni. La prima tesi, quella che ammette un movimento senza causa, può essere accusata di ammettere l’esistenza del non essere e di violare il divieto parmenideo, per cui del non essere non si può né parlare né pensare; un tale argomento si trova effettivamente tra i ragionamenti deterministici criticati da Alessandro d’Afrodisia. Nel caso della seconda tesi, quella che ammette cause prime non causate, per non essere ridotta alla prima, secondo alcuni è necessario postulare l’esistenza una causa prima che sia anche causa di sé stessa; e tale nozione pare oltrepassare i limiti della scienza e della comprensibilità. A nostro parere però questa obiezione non vale sempre: la nozione di causa sui non si trova in Aristotele e nella tradizione aristotelica, che, pur ammettendo cause motrici prime non causate da altre cause motrici, si basa invece sulla messa in questione della stessa nozione di causa, e procede ad una riformulazione del sistema delle cause, per cui la causa prima di un movimento non è causata da altre cause motrici, eppure non è un evento che nasce dal nulla, né è incomprensibile. Nel volume che qui presentiamo il concetto di causa è ovviamente al centro dell’attenzione. Esso si apre con lo studio di Morel su Democrito, in cui si attribuiscono a Democrito stesso sia il principio di causalità, per cui ogni evento ha una causa, sia l’idea che lo stesso effetto segua le stesse cause. Si tratta, per Morel, di una visione rigidamente determinista, cui non fa ostacolo il fatto che a volte l’automaton, lo spontaneo, venga identificato con la necessità: si tratta 14 infatti del movimento caotico del tutto da cui hanno origine i singoli mondi. Il saggio di Herrmann propone un utile completamento a questo lavoro indicando come in Platone l’importanza attribuita alla nozione di causa possa derivare anche da una opposizione alla visione democritea del cosmo. La sezione su Aristotele è improntata all’idea che secondo questo autore le catene causali non sono infinite, ma hanno delle interruzioni. Ciò è spiegato nei saggi di Celluprica, Zucca e Natali. Come dirà poi più tardi Alessandro di Afrodisia, le catene di causalità efficiente si interrompono, sia nel caso dell’accidente, quando l’incontro fortuito di due catene fisiche produce un risultato inaspettato, sia nel caso della deliberazione umana. In questi due casi le cause finali e formali permettono di rendere conto dell’evento senza predeterminarlo, infatti la forma e il fine non necessitano ciò che dipende da loro, né lo costringono a comportarsi in un modo prestabilito. La specifica funzione della causa finale rispetto a quella materiale ed al movimento meccanico della natura è indagata da Botter, che richiama motivi platonici nella sua descrizione della biologia aristotelica, e da Viano, che mostra come la rilevanza dei fattori materiali nella costituzione dell’anima sensitiva e del carattere non porti Aristotele a un determinismo psicologico. In ambito aristotelico anche la nozione di necessità prende una curvatura particolare, e mentre nel suo saggio Celluprica si basa fortemente sulla distinzione tra necessità, per così dire, di fatto, propria degli eventi contingenti accaduti nel passato, e necessità assoluta, Botter da parte sua indaga i vari livelli di necessità nel mondo della biologia aristotelica, mentre Zucca riporta l’evento casuale alla nozione di accidente. Anche Epicuro, secondo Masi, rifiuta l’idea che vi siano catene infinite di cause. Nel suo studio sul libro XXV del peri phuseôs l’autrice sostiene che la capacità della mente di interrompere le catene continue dei movimenti atomici deve essere compresa, in generale, sulla base della capacità di ogni insieme di reagire sui propri componenti determinandone il comportamento, ed anche sulla base della capacità della mente di filtrare gli stimoli esterni attraverso una propria capacità interpretativa. Secondo Maso, Cicerone non rende pienamente giustizia alla teoria epicurea, quando individua nel clinamen un movimento senza causa. Il clinamen, invece, deriverebbe dalla natura stessa dell’atomo, secondo Maso, che ripercorre le varie formulazioni di questa teoria nei vari passi di Cicerone dedicati a Epicuro. Restando per un attimo su Cicerone, ricordiamo che Sedley descrive la sua posizione come rivolta ad ammettere l’idea che non vi è alcun evento senza causa, ma in modo da non trarre da ciò conseguenze deterministiche. Il futuro è necessario, per Cicerone, ma non causalmente necessario, e tra eventi necessari in assoluto ed eventi contingenti vi sono tipi diversi di necessità. È curioso notare come la posizione che Aristotele assume nel De interpretatione sulla validità delle proposizioni contingenti al futuro sia attribuita da Cicerone a Epicuro, e criticata come un errore logico, mentre Cicerone, secondo Sedley, accetta una logica dei tempi che è opposta a quella che Celluprica attribuisce ad Aristotele. 15 La posizione degli Stoici è descritta da Sharples e Gourinat in modo coerentemente deterministico; discutendo varie posizioni contemporanee che tendono ad annacquare il rigoroso determinismo stoico, i due autori mostrano come il tema del ‘cane legato al carro’ e il tema della validità della divinazione trovino la loro migliore spiegazione in una interpretazione deterministica dello Stoicismo. Alessandro nel De fato raccoglie tutti gli argomenti in favore del determinismo, li discute, contrapponendo a loro delle confutazioni, e propone una sua interpretazione del fato che lascia spazio a deliberazioni non predeterminate e ad eventi fisici non necessitati da ciò che li precede. Fazzo non discute queste tesi, ma tenta di ricostruire alcuni aspetti dello sfondo storico dell’opera di Alessandro, che operò in un momento in cui la corte imperiale apprezzava particolarmente l’astrologia e la divinazione. Passando al pensiero moderno, dobbiamo anzitutto osservare che l’heimarmenê dei Greci (cioè il destino, il sistema ordinato della serie causale) è principalmente sentita come il luogo del «determinare», come la prospettiva nella quale la serie causale determina meccanicisticamente ciò che segue. Ciò che è destinato lo è in quanto è determinato. Ma i moderni, come gli antichi, devono in qualche modo circoscrivere l’oggetto della loro riflessione, cosicché alla perfetta determinabilità del Tutto va corrispondendo la concezione di un «cosmo perfetto», illimitato ma statico. Un cosmo cioè che qualsiasi osservatore in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento vede allo stesso uniforme modo. Solo in tali condizioni di «perfezione» è infatti possibile conoscere in un certo istante determinato (t1) la posizione di tutti i corpi e tutte le forze che su di essi agiscono, per cui risulterebbe possibile «prevedere» lo stato dell’universo nell’istante successivo (t2). Più recentemente grossi dubbi sulla validità della visione deterministica della realtà sono via via sorti: lo stato della natura in un dato istante non sembra poter determinare «in modo univoco» il suo sviluppo futuro. Da ultimo la meccanica quantistica, strettamente e indissolubilmente legata al concetto di probabilità, ha posto fine in modo deciso al pensiero precedente e il punto cruciale con il quale si scontra la visione deterministica della realtà risulta essere il principio d’indeterminazione di Heisenberg. Ovviamente l’attuale concetto di indeterminazione non ha nulla a che fare con la prospettiva antideterministica rintracciabile in alcune anse del pensiero antico, principalmente come si è detto in Aristotele ed Epicuro. Ma proprio in virtù della distanza prospettica esistente è consentito leggere in modo aggiornato e, presumibilmente, più fondato il problema delle implicazioni causali postosi un tempo. In particolare il saggio di Giannasi mostra come molti temi del pensiero antico si ritrovino con importanti modifiche, ma non tali da renderli irriconoscibili, nel pensiero contemporaneo. Ma l’importanza del suo contributo non è solo in questo: esso è utile soprattutto per indicare alcuni pregiudizi propri di parte della filosofia contemporanea di impostazione più scientista, favorevole ad un determinismo astratto di cui non si trova traccia nelle scienze vere e proprie, ma che può avere influenzato anche alcuni degli studi moderni sul pensiero 16 antico. La presenza di contributi sul pensiero moderno in questo volume non è dovuta solo al gusto di ricercare come, e in che misura, i pensatori di oggi ripetano temi ed argomenti già sfruttati dai loro predecessori greci e romani: essa proviene soprattutto dalla necessità di rilevare i presupposti filosofici generali che possono avere influenzato molta della storiografia contemporanea. I contributi di Oudai e Perissinotto mostrano come nei secoli XIX e XX si sia sviluppata una decisa tendenza critica verso il determinismo causale, che ha coinvolto lo stesso principio di causalità, messo in questione sia da Nietzsche che da Wittgenstein. Con un’argomentazione di sapore epicureo, Wittgenstein afferma che usare le leggi naturali come principi che rendono possibile prevedere immancabilmente gli eventi futuri è lo stesso che porre le leggi di natura al posto della divinità e del Fato dei poeti. Da parte sua, Nietzsche non vede difficoltà ad accettare l’idea di un flusso necessario degli eventi, purché questo sia concepito come un movimento materiale eterno e sprovvisto di senso, non inquadrato in una serie di leggi naturali stabilite dalla scienza. Nella scelta tra l’accettazione del determinismo e il rifiuto del principio di causalità questi autori propendono per la soluzione più scettica, la critica del principio di causalità. Ma, come diceva Ricoeur, un riesame della nozione di causa, ridotta dal pensiero moderno ad essere solo una versione impallidita della causa efficiente aristotelica, potrebbe aiutare a concepire il mondo della natura come comprensibile alla ragione umana senza necessità di cadere in una qualche forma di determinismo. Nella discussione moderna sul determinismo fisico, dei due ambiti contrapposti da Aristotele all’idea di una necessità fisica inderogabile, il caso e la deliberazione, solo il secondo rimane oggetto di analisi, mentre gli eventi casuali non sono considerati più un buon controesempio da opporre alle visioni deterministiche del cosmo. Il tema della deliberazione, invocato da Aristotele nel De interpretatione, poi analizzato nell’Etica Nicomachea, poi implicitamente ripreso, almeno in parte, da Epicuro nella sua descrizione della capacità della mente ad autodeterminarsi, risulta essere centrale anche nelle riflessioni contemporanee sul determinismo, e Giannasi presenta alcune posizioni di autori che rigettano il tentativo, troppo frivolamente intrapreso da molti e differenti gruppi di filosofi, di ridurre la libertà di scelta e di azione dell’uomo ad un puro punto di vista soggettivo, cui non corrisponderebbe nulla nella sfera degli eventi. Una teoria dell’agire umano che renda comprensibile la nozione di scelta e di azione sensata, che renda possibile una vera deliberazione come decisione non predeterminata di quale strada prendere tra molte aperte, è tuttora un compito che la filosofia si pone; essa cerca di svolgere questo suo compito, come accadeva nel mondo greco-romano, in fecondo dibattito con l’epistemologia più avanzata del proprio tempo. C.N. - S.M. 17 18 Stefano Maso CLINAMEN CICERONIANO1 È luogo comune recepito fin dal lontano passato ritenere che Epicuro e la sua dottrina fossero fortemente avversati da Cicerone. La cosa non è contestabile. Tuttavia è importante osservare come non immediatamente l’avversione si fosse tradotta in pregiudizievole rifiuto e come essa non dipendesse, di per sé, né da cattiva conoscenza né da fraintendimento dell’Epicureismo. Cicerone in realtà risulta vicino all’ambiente epicureo fin dalla giovinezza: anzi, nonostante la sottolineatura del ruolo decisivo che a suo dire ebbero per lui sia lo Stoicismo sia l’Accademia2, occorre ricordare che il suo primo maestro fu l’epicureo Fedro: «(Phaedrus), qui cum pueri essemus, antequam Philonem cognovimus, valde, ut philosophus, postea tamen, ut vir bonus et suavis et officiosus probabatur», ad fam. 13.1.23. Siamo verosimilmente prima dell’87, prima di quando, per evitare le conseguenze della guerra mitridatica, vari protagonisti dell’ambiente culturale greco (tra i quali Filone, Posidonio e Diodoto) si trasferirono a Roma. Inoltre, poiché Cicerone ricevette la toga virile nel 90, a non più tardi del 90 può alludere il «cum pueri essemus»: aveva allora sedici anni. 1 Ho avuto modo di discutere alcune delle idee presentate in queste pagine con Carlos Lévy, Anna Maria Ioppolo e Carlo Natali che qui intendo ringraziare sinceramente. 2 Cic., nat. d. 1.3.6: «Nos autem nec subito coepimus philosophari nec mediocrem a primo tempore aetatis in eo studio operam curamque consumpsimus, et cum minime videbamur tum maxime philosophabamur; quod et orationes declarant refertae philosophorum sententiis et doctissimorum hominum familiaritatem, quibus semper domus nostra floruit, et principes illi Diodotus Philo Antiochus Posidonius, a quibus instituti sumus» (“Per quanto poi mi riguarda, non sono stato conquistato di recente dalla filosofia, né fin dalla giovinezza a essa ho dedicato poco tempo e poca dedizione: anzi, quando meno sembrava che lo facessi, tanto più in essa massimamente mi sono impegnato. Lo testimoniano le orazioni piene di sentenze filosofiche e la familiarità con gli uomini più dotti dalla cui frequentazione da sempre la nostra casa ricevette prestigio; in particolare i maestri Deodoto, Filone, Antioco, Posidonio, dai quali sono stato istruito”). 3 «Fedro, che conobbi da ragazzo prima ancora di Filone, ebbi modo di saggiarlo anzitutto come autentico filosofo, in seguito come uomo virtuoso, gentile e affidabile». Clinamen ciceroniano Questa nuova proposta di datazione combacia con le risultanze epigrafiche relative a Fedro4; inoltre consente di esaltare la serie di elementi forniti da ad fam. 13.1.2 e ad Att. 5.11.6 (lettere entrambe del luglio 51): in tale specifica evenienza Cicerone, evocando la figura del vecchio maestro, intendeva garantire la propria credibilità di mediatore in campo epicureo. Qual era il problema? Si trattava di esercitare una forte pressione su C. Memmio, l’influente uomo politico cui Lucrezio aveva dedicato il proprio poema filosofico-didascalico ispirato alla dottrina di Epicuro: grazie a lui avrebbe dovuto esser possibile bloccare la costruzione di una villa ad Atene progettata proprio nel luogo in cui sorgeva l’antica casa di Epicuro. A sollecitare la mediazione era stato l’epicureo Patrone, amico di Cicerone; ma anche Attico non era rimasto indifferente e aveva brigato presso Cicerone. Insomma l’Arpinate è da più parti reputato persona affidabile e sembrerebbe aver buone carte da giocare nei confronti di C. Memmio proprio perché, dati alla mano, era ritenuto non estraneo all’ambiente epicureo: fin da giovanissimo seriamente l’aveva studiato e se ne era interessato. Non solo. Sappiamo per certo infatti che Cicerone aveva frequentato assiduamente la scuola di Fedro pure durante il suo primo viaggio ad Atene tra il 79 e il 77, anche se a quella data egli sembra non subire già più il fascino accattivante dell’Epicureismo. Per Cicerone non è come per Attico che ci dice: «At ego, quem vos deditum Epicuro insectari soletis, sum multum equidem cum Phaedro, quem unice diligo, ut scitis, in Epicuri hortis», fin. 5.3; quell’Attico che, stando a Cicerone, «valde diligit Patronem, valde Phaedrum amavit», ad fam. 13.1.5. Per Cicerone la conoscenza accurata della filosofia epicurea è importante («omnes mihi Epicuri sententiae satis notae sunt», fin. 1.16) ma non appare risolutiva: piuttosto è fonte di discussioni addirittura con il medesimo fedele amico Attico («cotidie inter nos ea quae audiebamus conferebamus, neque erat umquam controversia quid ego intelligerem, sed quid probarem», ibid.)5. Al punto che nel De natura deorum (scritto nel 45 ma significativamente ambientato nel 77/76, al rientro dal viaggio di formazione ad Atene) leggiamo che: «Phaedro nihil helegantius nihil humanius, sed stomachabatur senex si quid asperius dixeram, cum Epicurus Aristotelem vexarit contumeliosissime, Phaedoni Socratico turpissime male dixerit, Metrodori sodalis sui fratrem Timocraten, quia nescio quid in philosophia dissentiret, totis voluminibus conciderit, in 4 Le deduzioni di Raubitschek [1949], p. 98, non escludono per nulla tale evenienza. Cfr. la cronologia ciceroniana recentemente proposta da Marinone [1997], pp. 53-54. Si veda poi Lévy [2001], p. 64. Per la ricostruzione della biografia di Fedro cfr. Erler [1994], p. 273. 5 fin. 5.3: «E io, che voi siete soliti ritenere un affiliato della scuola epicurea, mi sento molto a mio agio con Fedro, l’unico che amo – lo sapete – tra gli appartenenti al giardino di Epicuro». ad fam. 13.1.5: «Predilesse fortemente Patrone, fortemente amò Fedro». fin. 1.16.1: «Tutte le affermazioni di Epicuro mi sono sufficientemente note»; «Ogni giorno confrontavamo tra di noi quanto avevamo ascoltato, e non c’era mai disaccordo su quanto io capissi, ma su quanto approvassi» 259 Stefano Maso Democritum ipsum quem secutus est fuerit ingratus, Nausiphanem magistrum suum, a quo <non> nihil didicerat, tam male acceperit»6. Cosa significa? L’epicureo Fedro – importante nella fase della formazione umana e filosofica di Cicerone – sembra successivamente non entusiasmare più. Ci si può chiedere se si tratti di una «scomparsa» dovuta puramente al carattere dell’uomo o non piuttosto all’inadeguatezza della sua proposta filosofica. In un certo qual modo infatti si avverte il limite autentico della proposta di Fedro, quel limite che costituisce il versante più attaccabile del pensiero epicureo e che può essere così riassunto: il dogmatismo della teoria epicurea e le sue assunzioni assiomatiche lasciano spazio nullo alla dialettica scientifica e, soprattutto, alla rielaborazione retorica che l’avvocato Cicerone esige. Ma, com’è noto, non dipende solo da questo limite il progressivo distacco e rifiuto dell’Epicureismo, soprattutto in riferimento ad alcuni punti dottrinali riguardanti la teologia, la politica, la paideia. In queste pagine si vuole mettere a fuoco il versante della fisica e, in particolar modo, affrontare la questione del clinamen. Sappiamo che la teoria del clinamen costituisce il cuore della tesi epicurea relativa alla fisica; è noto a tutti poi che di essa siamo informati principalmente dal testo di Lucrezio, mentre l’epistola ad Herodotum non ne tratta. A spiegare ciò, tra le ipotesi più interessanti vi è ora quella di David Sedley: l’epistola, da collocare tra i testi più antichi di Epicuro, «coprirebbe» solo i libri I-XIII del Perì phýseos, mentre è molto probabile che il filosofo abbia teorizzato il clinamen in un secondo momento, allorché affronta la questione del determinismo. E al determinismo è appunto dedicata la seconda parte del trattato (libri XVIXXXVII); più in particolare, il candidato migliore per ospitare la teoria del clinamen sembra essere il libro XXV, tra i più conosciuti in ambiente epicureo e di cui possediamo la consistente (circa un terzo) porzione finale. Va aggiunto che la sicurezza con cui Lucrezio introduce la dottrina del clinamen, attribuendola al Maestro, lascia sospettare che egli potesse servirsi di materiali epicurei a noi oggi mancanti; perché non proprio la prima parte del libro XXV? Anche per questo – ma poi, più in generale, per focalizzare meglio il senso di quanto Lucrezio ci ha trasmesso – Sedley ipotizza addirittura una collocazione originale di tale dottrina da parte del poeta romano: in De rerum natura 2.216-93, dopo aver enumerato il peso e gli urti (pondus / plagae), prima di presentare la tesi dell’equivelocità (corpora ... semper simili ratione ferentur, 298-299) del movimento atomico, il poeta collocherebbe strategicamente la dottrina del clina6 nat. d. 1.33.93: «Nessuno era in realtà più elegante e affidabile di Fedro, ma da vecchio si arrabbiava se avevo detto qualcosa di particolarmente duro, anche se Epicuro aveva attaccato Aristotele in modo davvero offensivo, aveva oltraggiato Fedone, l’allievo di Socrate, e aveva scritto un bel po’ di volumi contro Timocrate, il fratello del suo compagno Metrodoro, per non so quale dissenso nel campo filosofico. Anche nei confronti del medesimo Democrito, del quale seguì l’insegnamento, si è dimostrato ingrato; quanto al suo maestro Nausifane, del quale non c’è nulla che non avesse fatto proprio, lo trattò in malo modo». Su Fedro quale kaqhghthv" cfr. Griffin [1989], p. 6. 260 Clinamen ciceroniano men7. Così facendo la fisica atomica e le sue implicazioni deterministiche troverebbero una coerente sistemazione. Tuttavia, al di là dell’apparente somiglianza tra il dettato lucreziano e l’interpretazione ciceroniana, è possibile ottenere una ricostruzione sicura della dottrina di Epicuro relativa al clinamen? Fino a che punto il dichiarato anitiepicureismo di Cicerone si manifesta? E ancora: Cicerone a quale dottrina epicurea si rapporta? Già Michael Erler, in un significativo articolo del 1992, rilevava come l’approccio di Cicerone all’Epicureismo testimoniasse una ricezione di questa dottrina nell’ambiente romano per lo più corretta, anche se non sempre ortodossa. Come dire: la proverbiale «immodificabilità» del pensiero epicureo risulta attenuata nel I secolo a.C., e sembra affiorare una sorta di mediazione rispetto agli interessi e alle aspettative della società romana dell’epoca. Non soltanto Lucrezio8, ma soprattutto Filodemo di Gadara gioca al riguardo un ruolo decisivo. Proprio le nozioni più critiche della dottrina afferenti alla religione, alla concezione dello Stato, all’educazione e alla formazione del cittadino risultano adattate a un nuovo contesto sociale e culturale, e si spiegano così opere quali: de pietate, de rhetorica, de adulatione, de dis, ad contubernales9. Tuttavia di questo sembra non esserci traccia nelle prese di posizione critiche di Cicerone. È come se il rifiuto della posizione epicurea fosse sostenibile solo estremizzando l’intenzione teoretica del caposcuola greco. Una sorta di intolleranza che si manifesta ora come seria opposizione ora come superficiale ridicolizzazione. Quest’ultima modalità appare documentata esemplarmente nell’epistola a Trebazio del 53, nella quale con ogni evidenza Cicerone combatte un Epicuro che non c’è più: «indicavit mihi Pansa meus Epicureum te (scil. Trebatium) esse factum. O castra praeclara! Quid tu fecisses, si te Tarentum et non Samarobrivam misissem? ... Sed quonam modo ius civile defendes cum omnia tua causa facias, non civium? ... Quod ius statues ‘communi dividundo’ cum commune nihil possit esse apud eos qui omnia voluptate sua metiuntur? Quomodo autem tibi placebit ‘Iovem lapidem’ iurare cum scias Iovem iratum esse nemini posse? Quid fiet porro populo Ulubrano si tu statueris politeuvesqai non oportere?»10. 7 Sedley [1998], pp. 126-28 e 145-48. Anche Englert [1987], pp. 48-62, riteneva che l’introduzione del clinamen corrispondesse a una fase più tarda della dottrina di Epicuro. Sedley [1976], pp. 45-46, seguendo Bignone [1973], II, pp. 414-30, aveva a suo tempo dimostrato come tale fase fosse successiva alla scrittura dell’ep. ad Herodotum (307/6 a.C.). 8 Sul questo ruolo di Lucrezio cfr. Ioppolo [1998], pp. 1106-14; in particolare sulla tematica politica ha indagato Fowler [1989], pp. 120-50. 9 Di questa nuova situazione si occupa il volume miscellaneo curato da Clara Auvray-Assayas e Daniel Delattre [2001]. 10 ad fam. 7.12.1-2: «Il mio amico Pansa mi informa che sei diventato epicureo. O, quale meraviglia il servizio militare! E che avresti combinato se ti avessi mandato a Taranto invece che a Samarobriva? ... Ma come farai ora a sostenere il diritto civile, se in ogni occasione farai riferimento al tuo interesse e non a quello dei cittadini? ... Quale norma giuridica applicherai nella ‘divisione della proprietà comune’, se non può esistere nulla di comune per coloro che calcolano tutto in riferimento al proprio piacere? Come ti sarà possibile giurare sulla ‘statua di Giove’, 261 Stefano Maso È ovvio che la dottrina epicurea, nel I secolo a.C., non è più così rigida come sembra qui tratteggiarla Cicerone: tuttavia non si può non cogliere l’intenzionalità della mossa di Cicerone che, per opporsi a una linea filosofica di cui ben conosce i tratti qualificanti, si limita a evocare di essa solo i punti più deboli, vale a dire i più invecchiati e non più adeguati al nuovo sentimento sociale e politico. Nell’epistola a Trebazio non si affronta la questione base della fisica: il materialismo atomistico e le sue implicazioni nell’ambito della interpretazione deterministica della realtà. Ebbene, anche in questo caso Cicerone si muove scorrettamente? La teoria atomistica prevede l’esistenza dei corpi e l’esistenza del vuoto: è proprio questa condizione che consente il movimento. Opponendovisi, nel primo libro del De natura deorum Cicerone, per bocca di Cotta, propone la tesi stoica (ma forse anche anassagorea o platonica): lo spazio è tutto occupato da corpi, «corporibus autem omnis obsidetur locus»; il «ciò che è», cioè la realtà nella sua pienezza, proprio perché è non può non ‘essere’, e perciò non esisterà né l’«assenza di ‘essere’» (ita nullum inane) né l’atomo ‘indivisibile’ che occorrerebbe teorizzare come corpo non annichilentesi nel vuoto (nihil esse individuum potest)11. Certo Cicerone è consapevole di quanto sia provocatoria la sua proposta e precisa – sempre per bocca di Cotta – che si sta limitando a richiamare le affermazioni anapodittiche di molti fisici: non è in grado di decidere se esse siano vere o false, tuttavia gli appaiono più verisimili di quelle epicuree: «Haec ego nunc physicorum oracla fundo, vera an falsa nescio, sed veri [simile] tamen similiora quam vestra», nat. d. 1.66. Quanto è contrapposto non è giustificato a dovere, tuttavia, pur costituendo una semplice alternativa non necessariamente più valida dell’altra, è poi invece assunto come soluzione vincente rispetto a una dottrina di cui occorre «vergognarsi» (flagitia). Come si intuisce, l’argomentazione di Cotta/Cicerone è artificiosa; eppure egli non esita a «mascherarne» la debolezza spostando senza soluzione di continuità il piano della riflessione: ed ecco l’Arpinate slittare dal piano teorico-fisico a quello del gioco retorico e pretendere infine di giustificare tutto tramite il richiamo al «buon senso comune», al «verosimile». Si osservi: l’abilità del retore è tale che addirittura riesce ad attribuire all’avversario (all’epicureo) la paternità di quelle deboli e artificiose soluzioni che egli medesimo, invece, sta praticando. Cotta/Cicerone accusa gli Epicurei: «Hoc persaepe facitis, ut, cum aliquid non veri simile dicatis et effugere repre- quando sarai convinto che Giove non può essere adirato con nessuno? E che accadrà infine ai tuoi concittadini di Olubra, se stabilirai che non ci si deve occupare di politica?». L’epistola è del febbraio 53. C. Trebazio Testa fu un giurista amico e protetto di Cicerone. Su di essa – e sul suo tono canzonatorio – richiama l’attenzione Erler [1992], pp. 310-21. 11 nat. d. 1.65. 262 Clinamen ciceroniano hensionem velitis, adferatis aliquid quod omnino ne fieri quidem possit», 1.6912. Gli Epicurei, cioè, si difenderebbero dalle obiezioni spostando l’attenzione da un elemento all’altro, da un piano all’altro, introducendo perfino iperboliche argomentazioni; ma così facendo aggiungono assurdità ad assurdità. Ovviamente l’assurdità di cui qui si parla deriverebbe dall’incapacità di rilevare la connessione tra le parti e di cogliere il senso del tutto, proprio come però di assurdità si potrebbe parlare a proposito di ogni posizione che, al contrario, pretendesse di adagiarsi simpliciter sul piano del «buon senso». Esattamente quello che, in questo frangente, sembra fare Cotta/Cicerone, allorché – sprovvisto di soluzioni incontrovertibili da contrapporre – dovrebbe accontentarsi solo di criticare i limiti della teoria atomistica. Insomma – rovesciandogli contro quanto egli medesimo rimprovera a Epicuro – si può proprio dire che Cicerone meglio avrebbe fatto a «concedere ciò che era oggetto di discussione piuttosto che insistere con tanta impudenza»13! È nella spiegazione del movimento che la teoria fisica epicurea sembra raggiungere la problematicità estrema: «si atomi ferrentur in locum inferiorem suopte pondere, nihil fore in nostra potestate, quod esset earum motus certus et necessarius, (scil. Epicurus) invenit quo modo necessitatem effugeret, quod videlicet Democritum fugerat: ait atomum, cum pondere et gravitate directo deorsus feratur, declinare paululum»14. Il moto di caduta rettilineo dovuto al peso di per sé non può che comportare l’assoluto determinismo, la presenza della necessitas nella sua radicalità, per di più con una conseguenza sconvolgente sul piano dell’etica: nulla più potrebbe risultare in nostro potere, perché il movimento atomico sarebbe assolutamente sicuro e necessario. Di qui l’introduzione del clinamen, un escamotage che Cicerone non si perita di definire «vergognoso»: hoc dicere turpius est quam illud quod vult non posse defendere (nat. d. 1.70). Come dire: la soluzione proposta da Epicuro è più vergognosa dell’ammissione dell’errore; il tentativo di evitare le gravissime conseguenze sul piano etico gli appare addirittura indifendibile. Ma è proprio così? È o non è di fatto contraddittoria la soluzione fisica (il clinamen) proposta da Epicuro? Abilmente Cicerone sorvola su questo e non discute la possibilità di interpretare invece come «necessaria» l'introduzione di un fattore di «casualità» che consenta all'atomo di essere appunto quel qualcosa che ha la possibilità di aggregarsi casualmente. Il fatto di «aver la possibilità» significa complicare il 12 «Molto spesso fate così: quando sostenete qualcosa di inverosimile e volete evitare le contestazioni, adducete un qualche elemento assolutamente impossibile». 13 nat. d. 1.69: «Ut satius fuerit illud ipsum de quo ambigebatur concedere quam tam inpudenter resistere». 14 ibid.: «se gli atomi si muovessero verso il basso a causa del loro peso, nulla sarebbe più in nostro potere, dato che il loro moto sarebbe certo e necessario; ma allora Epicuro trovò il modo di evitare tale soluzione deterministica, cosa che evidentemente era sfuggita al medesimo Democrito: dice infatti che l’atomo, quando si muove in linea retta dall’alto in basso per il peso e la gravità, declina un poco». 263 Stefano Maso quadro di riferimento meccanicistico non limitandosi all'osservazione di un dato di fatto testimoniato dall'esperienza, ma considerando il contesto spazio-temporale che lo consente e lo determina. Stando invece al dettato di Cicerone, l'atomo di Epicuro non è un ‘quid materiale’ che «cade» perché dotato di due proprietà: (a) il peso che continuamente lo fa precipitare in linea retta e (b) il clinamen che occasionalmente si manifesta interferendo inevitabilmente con il ‘cadere rettilineo’15; piuttosto è immaginato come una particella (corpusculum) che manifesta una condizione di perenne, per quanto piccola, deviazione (declinare paululum). E proprio per ciò si tratta di una condizione esplicitamente contraddittoria e indifendibile, essendo il moto rettilineo (directo deorsus) senz’altra mediazione abbinato a quello non rettilineo (declinare paululum), quasi dovesse dar luogo a una linea ‘perennemente deviata’, cioè ‘curva’. Questo appunto, come si è visto, dice il testo ciceroniano: «(Epicurus) ait atomum, cum pondere et gravitate directo deorsum feratur, declinare paululum», nat. d. 1.69. Ma si controlli la versione di Lucrezio, 2.217-220, a prima vista analoga, che Cicerone ha di sicuro davanti agli occhi16: Corpora cum deorsum rectum per inane feruntur ponderibus propriis, incerto tempore ferme incertisque locis spatio depellere paulum, tantum quod momen mutatum dicere possis17; I corpi, quando cadono verticalmente nel vuoto trascinati in basso dal loro proprio peso, in un momento del tutto imprecisato e in un luogo indefinito si sviano un poco dal loro percorso, di così poco che appena appena lo diresti mutato. Il testo di Lucrezio distingue: (a) il peso che continuamente fa precipitare in linea retta (cum deorsum rectum … ferentur); (b) la deviazione (depellere paulum); (t) il momento/spazio univocamente individuabile – pur se del tutto imprecisato – nel quale interviene (b), la deviazione. Incerto tempore ferme incertisque locis segnala infatti con ogni evidenza l’impossibilità di individuare il momento preciso o i momenti precisi in cui si verifica la deviazione, non la negazione del momento o dei momenti in cui imprevedibilmente essa accade. Lucrezio sottolinea – senza ombra di dubbio – l’occasionalità della deviazione. E l’affermazione di questa occasionalità indeterminabile consente di tenere insieme due moti altrimenti inaccostabili, quello rettilineo e quello da questo deviato. Ebbene, lessicalmente Cicerone riprende Lucrezio, ma dalle sue parole 15 Cfr. Aetius 1, 23, 4, 319 D. = [157] Arr.: «Epicuro individuò due tipi di moto: quello in base al peso e quello in base alla deviazione», jEpivkouro" duvo ei[dh th'" kinhvsew", to; kata; stavqmhn kai; to; kata; parevgklisin. 16 Nel 54 Cicerone scriveva al fratello Quinto: «Lucreti poemata ut scribis ita sunt, multis luminibus ingenii, multae tamen artis», ad Quint. fr. 2.9, 3. 17 Cfr. 2.259-60: declinamus item motus nec tempore certo / nec regione loci certa, «Deviamo l’andamento del moto non in un istante preciso né in uno spazio determinato». Cfr. Giussani [1896], pp. 125-82; Furley [1967], pp.169-83. 264 Clinamen ciceroniano la (a) caduta (cum pondere et gravitate directo deorsus feratur) sembra da sempre accompagnarsi alla (b) deviazione (declinare paululum)18. Non c’è traccia della (t) «occasionalità» di un momento – o di una serie di momenti – imprecisati ma assolutamente distinguibili. Non c’è traccia cioè di quanto avrebbe permesso di aggirare dall’interno la contraddizione altrimenti rilevabile in Epicuro. Sottile – a mio parere oltre i limiti della correttezza interpretativa, dato che intenzionalmente sono omessi il ‘momento’ e il ‘luogo’ della deviazione – appare dunque Cicerone allorché replica, per bocca di Cotta, alla tesi epicurea. A ciò si aggiunga che nel De fato (scritto qualche mese dopo il De natura deorum) di nuovo è esaminato il problema del moto: questa volta Cicerone ricorre a una ricostruzione più complessa della dottrina di Epicuro, sempre però per dimostrarne l’inconsistenza. Secondo Cicerone, Epicuro introdurrebbe un terzo tipo di moto distinto dal ‘pesare’ e dalla ‘spinta ricevuta’ (cioè dal ‘moto rettilineo’ e dal ‘moto deviato per contatto’): ‘il deviare di pochissimo’ dal proprio asse; «tertius quidam motus oritur extra pondus et plagam, cum declinat atomus intervallo minimo – id appellat ejlavciston», § 22. Ma, esattamente, di che si tratta? Walter G. Englert19 ritiene che, in Epicuro, l’introduzione del ‘terzo moto’ corrisponda realmente a una fase più tarda dell’elaborazione della dottrina, in risposta agli argomenti sostenuti da Aristotele in Physica VIII: una fase che, come si è visto, dovrebbe essere successiva alla scrittura dell’Epistola ad Erodoto. Quanto ad ejlavciston (vocabolo che, anche se con altro significato, risale già a Epicuro: cfr. Herod. 59 e 62)20, estremamente importante è l’attestazione di Filodemo, il quale parla delle «deviazioni di atomi ridotte al minimo», ta;" ejp j ejlavciston paregklivsei" tw'n ajtovmwn, de sign. 36, 12-13. Per cui, è probabile da un lato che fonti dossografiche di varia provenienza, confluite poi nei Placita, fossero a disposizione di Cicerone e gli avessero fatto conoscere l’interpretazione materialistica di ejlavcista espressa per primi da Senocrate e Diodoro Crono21; dall’altro, che l’interpretazione filodemea costi18 Cfr. analogamente fin. 1.19: «si omnia deorsum e regione ferrentur ... (Epicurus) declinare dixit atomum perpaulum, quo nihil posset fieri minus». 19 Englert [1987], pp. 48-62. 20 In Herod. 58-59 to; ejlavciston è connesso alla dimensione/grandezza (mevgeqo") e, per analogia a quanto è percepibile con i sensi (to; ejn th/' aijsqhvsei), va pensato come dotato della più ridotta (mikrovthti) consistenza possibile: mevgeqo" e[cei hJ a[tomo", kata; th;n ejntau'qa ajnalogivan. L’atomo è insomma l’indivisibile senza parti; se riusciamo a immaginare anche la piccolezza massima (ejlavcista) eccolo rappresentare da sé la misura prima delle dimensioni: e[ti te ta; ejlavcista kai; ajmerh' pevrata dei' nomivzein tw'n mhkw'n to; katamevtrhma ejx auJtw'n prw'ton ... paraskeuavzonta. Nessun dubbio dunque che ejlavciston in Epicuro si riferisca a un corpusculum, non a una deviazione. Anche Diodoro Crono definì ejlavcista i corpi indivisibili (ajmevrh swvmata), Sext., P.H. 3.6.32 (cfr. Giannantoni [1980], pp. 125-27). 21 Secondo Giannantoni [1980], pp. 125-27, il primo a definire ejlavcista i corpi indivisibili (ajmevrh' swvmata) risulterebbe Diodoro Crono, cfr. Sext., P.H. 3.6. Cfr. però Xenocr. fr. 265 Stefano Maso tuisse la matrice dell’uso determinato geometricamente che vorrebbe farne Cicerone. Tuttavia la presentazione che ne fa questi (e che qui si sta discutendo) lascia perplessi: sembra proporre qualcosa che, dal punto di vista della teoria, in effetti plausibilmente distingue una deviazione ‘causata da contatto fisico / plaga’ da una deviazione ‘incausata’. Ma, dal punto di vista della meccanica epicurea, l’operazione non mi pare funzioni come Cicerone vorrebbe per due motivi: (1) non è chiaro in base a cosa sarebbe possibile distinguere in Epicuro (oltre al moto di caduta rettilinea) una ‘deviazione’ da una ‘deviazione piccolissima / ejlavciston’: pura e semplice differenza quantitativa?22; (2) la supposta ‘deviazione piccolissima / ejlavciston’ sarebbe essa sola, per Epicuro, ‘incausata’?23. Se così fosse, non si tratterebbe più di semplice differenza quantitativa rispetto alla ‘deviazione’. Ma di che si tratterebbe? Come dovrebbe configurarsi il quadro di riferimento base della fisica epicurea? A questo punto forse sarebbe meglio (e Cicerone avrebbe fatto meglio) attenersi alle sole due tipologie di moto davvero attestate in Epicuro: la ‘caduta dovuta al pesare’ e la ‘deviazione’ occasionale che da sempre (cioè nel corso temporale del cadere) si manifesta e che può, a sua volta, determinare scontri e ulteriori deviazioni. In pratica lo spostamento attribuibile ai colpi ricevuti (plagae) altro non dovrebbe intendersi, in Epicuro, che come la conseguenza della deviazione, non una causa! In questa direzione sembra essersi mosso Carlo Giussani quando, oltre un secolo fa, scriveva che: «Ab aeterno gli atomi hanno la tendenza a cadere, ma ab aeterno declinano, e quindi ab aeterno il moto di caduta è trasformato nel democriteo moto impulsionis»24. Due soli moti cioè, ma di qui poi le spinte e gli scontri. Tuttavia Cicerone è convinto che Epicuro, grazie all’introduzione di questo terzo tipo di moto (ejlavciston), ritenga evitata la «necessità del fato» la quale, altrimenti, lo spingerebbe a riparare su posizioni deterministiche strettamente stoiche: «Epicurus declinatione atomi vitari necessitatem fati putat», de fato 22. 148 (Isnardi Parente) che ritroviamo poi in Aët. 312 (Diels): Xenokravth" kai; Diovdwro" ajmerh' ta; ejlavcista wJrivzonto. 22 Di questo, per di più, Cicerone medesimo è consapevole. In fat. 46 si chiede: «cur minimo declinent intervallo, maiore non?». 23 Si noti l’esitazione che trapela dalle parole di Cicerone allorché precisa a proposito del terzo moto che Epicuro medesimo, se non a parole, di fatto è costretto ad ammettere il suo accadere senza causa: «quam declinationem sine causa fieri si minus verbis, re cogitur confiteri», fat. 22. 24 Giussani [1896], p. 130. Non è chiaro tuttavia se Giussani pensi a una situazione di «perenne deviazione» oppure a un’interminabile serie di «occasioni» di deviazione. Questa seconda interpretazione appartiene di sicuro a Furley [1967], pp. 28-43, che tra l’altro è attento alle prospettive della fisica contemporanea. Infine interviene Asmis [1990], pp. 275-91, la quale tenta di spiegare la relazione tra moto e volontà dapprima rivalutando la posizione di Giussani, quindi rimarcando con nettezza la differenza tra plaga e clinamen. Su quest’ultimo punto mi pare però importante ribadire che plaga, per Epicuro, è pura conseguenza del clinamen. 266 Clinamen ciceroniano Ma occorre capire bene il senso di questa convinzione: Cicerone si è reso conto di quali fossero i problemi e ha intuito quale risultasse il contesto tematico all’interno del quale si muoveva Epicuro, ma non può ammettere la soluzione puramente meccanicistica dell’atomismo, poiché questa avrebbe escluso, a suo parere25, l’introduzione di un moto volontario. Perciò egli tenta di rilevare solo quanto nella dottrina di Epicuro, se abilmente isolato, finisce per rendere contraddittoria la soluzione atomistica. Riprendo allora quanto si è intravisto poc’anzi. Lucrezio ha mostrato con chiarezza che Epicuro risolve la potenziale contraddizione tra ‘moto rettilineo’ e ‘moto deviato’ introducendo l’«occasionalità» della deviazione, cioè – tecnicamente – l’elemento tempo26. «Accade», in momenti imprecisati, che si verifichi una deviazione. Ciò appartiene alla natura stessa dell’atomo. È una soluzione «interna» (cioè ancora legata alla prospettiva meccanicistica) che per di più consente di evitare davvero la necessità del fato27. «Epicurus declinatione atomi vitari necessitatem fati putat», come appunto afferma Cicerone. E di questo non c’è dubbio, anche se Cicerone, con tale sottoli25 Non così, ovviamente, pensa Lucrezio, 2.251-260, in seguito all’introduzione del fattore (t) tempo: Denique si semper motus conectitur omnis / et vetere exoritur <motu> novus ordine certo / nec declinando faciunt primordia motus / principium quoddam quod fati foedera rumpat,/ ex infinito ne causam causa sequatur / libera per terras unde haec animantibus exsistat,/ unde est haec, inquam, fatis avulsa voluntas / per quam progredimur quo ducit quemque voluptas,/ declinamus item motus nec tempore certo / nec regione loci certa, sed ubi ipsa tulit mens?; «Infine, se ogni moto è legato ad altri, / e quello nuovo sorge dal moto precedentemente in ordine certo / se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche / inizio di movimento che infranga le leggi del fato, / così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, / donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, / donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, / in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, / e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, / né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente?», (trad. L. Canali, 1990). 26 Conferma ciò lo specifico significato che riveste, in Herod. 62, il termine ejlavciston, allorché Epicuro descrive spostamenti atomici secondo «minime unità di tempo continuato»: kata; to;n ejlavciston sunech' crovnon. Cfr. Englert [1987], pp. 16-22. 27 Credo che Epicuro parli sempre solo di due soli tipi di moto: in ad Herod. 61 essi sono precisati come (a) quello che è conseguente al peso, hJ kavtw dia; tw'n ijdivwn barw'n, e (b) quello che dipende dagli urti, hJ eij" to; plavgion dia; tw'n krouvsewn forav. Nella ‘seconda fase’ dell’elaborazione del suo pensiero, al posto del moto (b) è introdotta la parevgklisi", che va considerata come ‘causa’ degli urti. Così non risulta mai esistita la pretestuosa distinzione che Cicerone attribuisce a Epicuro tra ‘deviazione’ e ‘deviazione piccolissima / ejlavciston’. Quanto alla centralità del tempo, a ciò sembra dedicato, oltre ai §§ 62 e 72-73 di ad Herod., il pap. 1413 (= [37] Arr.); per un verso il tempo è considerato una rappresentazione (fantasiva, [37], 31); per un altro, è qualcosa che accompagna (parepovmenon [37], 44) gli accadimenti, probabilmente nel senso suggerito da Demetrio Lacone di suvmptwma sumptwmavtwn (Sext., adv. math. 10, 219). In particolare: «Sono accadimenti le cose cui il tempo si accompagna: ... i moti e la quiete», sumptwvmata ou\n tau't j e[stin oi|" crovno" parevpetai ... kinhvsei" te kai; monov", ibid. 224. I primi passi in questa direzione sono stati mossi da Furley [1967], nel capitolo «The weight and the swerve of atoms», pp. 227-37, dove la posizione di Epicuro è studiata in stretta dipendenza da quella di Aristotele, per cercare di precisare il senso del determinismo epicureo. 267 Stefano Maso neatura, si riprometteva in realtà di evidenziare sarcasticamente l’inconsistenza della soluzione epicurea. Orbene, anche per Cicerone è fondamentale evitare la necessità del fato28, ma non si deve ricorrere ad un’attaccabile soluzione puramente materialistica che implicherebbe un qualche moto senza causa (cioè la deviazione casuale): secondo Epicuro infatti se (a) gli atomi si muovessero perpendicolarmente, ad perpendiculum, e se (b) un atomo non venisse mai spinto da un altro, numquam depellatur, ecco che non si toccherebbero mai l’un l’altro, ne contingat quidam alia aliam, e nulla si aggregherebbe; invece, proprio introducendo una deviazione senza causa, declinatione sine causa (il ‘terzo moto’), si determina la realtà degli aggregati. Cicerone rifiuta questa prospettiva che egli – occorre ribadirlo – attribuisce ad Epicuro e in pratica propone agli Epicurei di ripiegare sul moto volontario dell’anima (animi motum volontarium) che già Carneade aveva suggerito, e che potrebbe costituire una vera affidabile alternativa alla fittizia deviazione: «nam cum (Epicurei) docere<n>t esse posse quendam animi motum volontarium, id fuit defendi melius quam introducere declinationem, cuius praesertim causam reperire non possent», fat. 2329. Anche Carneade infatti, come Cicerone, risulta essersi radicalmente opposto alla prospettiva meccanicistica epicurea; anzi, è proprio dalle pagine del De fato30 che ricaviamo come la sua dottrina fosse presente a Cicerone. Secondo Carneade, gli Epicurei non sanno appunto trovare una causa fisica per la deviazione: il che è enunciato in fat. 23 «cuius (scil. declinationis) praesertim causam reperire non possent», e poi ribadito in fat. 47-48: «Ita cum attulisset nullam causam, quae istam declinationem efficeret, tamen aliquid sibi dicere videtur, cum ita dicat, quod omnium mentes aspernentur ac respuant; (...) tamen declinationes istae numquam explicarentur»31. Potremmo chiederci quale dottrina epicurea avesse in mente Carneade, in particolare se la dottrina del clinamen fosse all’epoca così perspicua quanto lo fu in seguito, grazie al contributo di Lucrezio. E se poi, come credo probabile, proprio questa era stata la situazione – e quindi anche a Carneade i termini del problema dovevano essere perfettamente chiari – allora sarà 28 Su questo punto è esplicito il riconoscimento dell’identità di scopo con la dottrina epicurea: «Hanc Epicurum rationem induxit ob eam rem, quod veritus ne, si semper atomus gravitate ferretur naturali ac necessaria, nihil liberum nobis esset», fat. 23. Provocatorio era stato il filosofo greco: ad Menoec. 134: «Meglio sarebbe credere ai miti degli dèi piuttosto che esser schiavi del destino dei fisici», h] th/' tw'n fusikw'n eiJmarmevnh/ douleuvein. 29 «Se gli Epicurei avessero mostrato che esiste un moto volontario dell’anima, sarebbe stato loro più semplice difendere questa tesi piuttosto che introdurre la deviazione, della quale poi non sono in grado di trovare la causa». 30 Cfr. in partic. fat. 23-24, 31-33, 47-48. Su Carneade, per la problematica gnoseologica cfr. Ioppolo [1986], pp. 93-216; per quella etica e teologica cfr. Nonvel Pieri [1978], pp. 32-79. 31 «E così, senza aver addotto alcuna causa che abbia provocato tale deviazione, tuttavia (Epicuro) è convinto di aver detto qualcosa di significativo, mentre invece ha detto qualcosa che qualsiasi persona dotata di intelligenza rifiuta e respinge; (...) e tuttavia queste deviazioni dalla perpendicolare mai potrebbero essere spiegate». L’ultima serie di paragrafi del De fato (46-49), staccata dalla parte precedente da una lacuna e mutila alla fine, va a mio parere ricondotta al pensiero di Carneade, che qui però non è citato. Lo confermerebbe il parallelo tematico con i §§ 23-24. 268 Clinamen ciceroniano significativo dedurre che la fallacia interpretativa di Cicerone ha la stessa base della fallacia che possiamo attribuire a Carneade. Entrambi non sono cioè in grado di concepire l’«occasionalità» della deviazione quale dato appartenente alla natura stessa dell’atomo; come dire: entrambi non sanno cogliere nella sua pienezza il senso davvero radicale del meccanicismo epicureo. Per Carneade possiamo solo ipotizzare tale limite dottrinale, mentre in Cicerone esso è, come abbiamo visto, sintomaticamente evidenziato dall’eliminazione del fattore tempo (t). Lasciando nel vago l’istantaneità e l’occasionalità della deviazione, Cicerone non riesce per nulla a cogliere che l’impulso alla deviazione istantanea e casuale appartiene alle caratteristiche costitutive dell’atomo, proprio come la caduta libera. Certamente egli prescinde dal peso e dall’urto («extra pondum et plagam», fat. 22), ma non arriva a capire la cooriginaria appartenenza alla natura dell’atomo dell’eterna necessaria ma occasionale possibilità di deviazione32. Un’appartenenza grazie alla quale, nell’Epicureismo, è da sempre tolta quella contraddizione che invece Cicerone (e prima di lui Carneade) intendeva rilevare prendendo l’avvio dalla propria scorretta lettura. Grazie a un passo del libro I del De finibus è infine possibile schematizzare un quadro di riferimento che contempli le distinte concezioni di clinamen che Cicerone è riuscito via via a prefigurarsi. Sappiamo già che l’interpretazione ciceroniana del clinamen può avere le seguenti configurazioni: (1) un unico moto dove si incontrano la caduta e la deviazione, un moto cioè perennemente deviato e quindi curvo: directo deorsus + declinare paululum (nat. d. 1.69). Oltre a quanto più sopra si è detto, si osservi che rispetto a questa configurazione già Lucrezio aveva messo in guardia, là dove lasciava intuire che, qualora si superasse la soglia dell’infinitesimale, il susseguirsi di deviazioni ci costringerebbe a immaginare movimenti obliqui (uno spazio curvo?) che la realtà manifesta rifiuta: Quare etiam atque etiam paulum inclinare necessest corpora; nec plus quam minimum, ne fingere motus obliquos videamur et id res vera refutet. Perciò è sempre necessario che i corpi deviino un poco ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. (243-45; trad. Canali, 1990) 32 Che Cicerone non riesca a conciliare i due aspetti della natura dell’atomo è confermato dall’implicazione ritenuta impossibile che chiude il testo mutilo del De fato: «Nam si atomis, ut gravitate ferantur, tributum est necessitate naturae, quod omne pondus nulla re inpediente moveatur et feratur necesse est, illud quoque necesse est, declinare, quibusdam atomis vel, si volunt, omnibus naturaliter ...» (“Infatti se agli atomi per necessità naturale è stato attribuito il moto in virtù del loro pesare – poiché è inevitabile che ogni peso, se non lo impedisce alcun ostacolo, si muova e cada –, anche quest’altro attributo è necessario: il deviare. E ciò ad alcuni atomi o, se vogliono, a tutti secondo natura ...”). 269 Stefano Maso (2) un’occasionale ‘deviazione piccolissima / ejlavciston’ senza causa da aggiungere al cadere rettilineo e al moto deviato (fat. 22). A ciò si può aggiungere la considerazione che: (3) tale moto di deviazione si verifica tutto in una sola volta e costituisce l’evento originario che dà inizio alla serie di aggregazioni; oppure che: (4) può trattarsi di una diffusa serie di deviazioni di tipo ‘non ejlavciston’. Precisa Cicerone all’epicureo Manlio Torquato: «Homo acutus (scil. Epicurus) … declinare dixit atomum perpaulum, quo nihil posset fieri minus; ita effici complexiones et copulationes et adhaesiones atomorum inter se, ex quo efficeretur mundus omnesque partes mundi, quaeque in eo essent … ipsa declinatio ad libidinem fingitur (ait enim declinare atomum sine causa …)», fin. 1.1933. Il quadro va così inteso: il tranquillo flusso ininterrotto degli atomi verso il basso a un certo momento imprevedibile e insieme occasionale devia di botto dalla rotta di caduta. Ciò può succedere tutto in un momento (situazione 3), ma allora «si omnes atomi declinabunt, nullae umquam cohaerescent (se tutti gli atomi deviassero, nessuno di loro mai si aggregherà)», fin. 1.20. Oppure può verificarsi casualmente (situazione 4) l’interferenza di chi devia con chi continua a cadere in linea retta: «aliae declinabunt, aliae suo nutu recte ferentur (alcuni devieranno, altri per propria spinta continueranno a muoversi in linea retta)», fin. 1.20. Il che da un lato non può risolversi nel riconoscimento di compiti (provincias) diversi attribuiti agli atomi, altrimenti ci si troverebbe a non poter sostenere la loro perfetta casualità di movimento: «erit hoc quasi provincias atomis dare, quae recte, quae obliquae ferantur», ibid. Dall’altro può produrre al massimo uno scontro disordinato di atomi (turbulenta concussio), non certo lo spettacolare ordinato apparato dell’universo: «eadem illa atomorum … turbulenta concussio hunc mundi ornatum efficere non poterit», ibid. Sia la configurazione (3) che la configurazione (4) risultano perciò assurde, se si sta al proposito che esplicitamente Cicerone ha manifestato: cioè dimostrare la necessità di un moto volontario che rifletta una scelta non determinatamente segnata. Come si vede, nessuno dei quattro scenari ricostruibili attraverso l’interpretazione di Cicerone è di per sé adeguato: non funziona né (1) un unico moto perennemente deviato/curvo [discreto deorsus + declinare paululum], né (2) l’introduzione di un terzo moto meccanico [ejlavciston], né (3) l’ipotesi che la deviazione accada una sola volta in origine [si omnes atomi declinabunt], né (4) l’idea che la deviazione casuale ‘non ejlavciston’ sia diffusa [atomorum turbulenta concursio]. 33 «Epicuro, quell’uomo d’ingegno acuto, affermò che l’atomo devia di pochissimo, con uno scarto il più ridotto possibile; e così si hanno le aggregazioni, i congiungimenti e le unioni degli atomi tra di loro, da cui deriva l’universo con tutte le sue parti e quanto in esso vi si trova. (…) La medesima deviazione è immaginata a piacere (dice infatti che l’atomo devia senza causa…)». 270 Clinamen ciceroniano È facile allora ricavare, procedendo da queste basi, l’inadeguatezza della fisica epicurea. In essa il movimento sarebbe concepito come non vincolato al determinismo ma, insieme, come non volontario. Per la forma mentis ciceroniana si è di fronte, com’è prevedibile, ad assurdità patenti che implicano il rifiuto globale della dottrina epicurea: dottrina che invece mirava a includere il fattore di «casualità» nella struttura necessitata del mondo atomistico, così da determinare lo spazio alla possibile occasionale deviazione e, per una via complessa ma di cui si scorge lo sviluppo, alla libertà dell’agire. Credo peraltro che Cicerone fosse ben consapevole della debolezza interna della propria interpretazione, frutto inequivoco della vistosa trascuratezza esegetica che si è in queste pagine sottolineata; egli doveva possedere invece gli strumenti di comprensione adeguati e conosceva, per così dire dall’interno, la dottrina epicurea sul movimento. Si trattava evidentemente di contribuire anche in questa occasione alla programmatica svalutazione dell’Epicureismo. Operazione che riflette più l’atteggiamento «critico tradizionale» fondato su elementi teorico-dottrinali che non quello «paradossalmente elogiativo» (e, in fin dei conti, irridente) rilevato recentemente con grande acutezza da Carlos Lévy sul versante dell’etica34. Ma forse non sarà inopportuno chiedersi – se non addirittura sondare – se i diversi ambiti dottrinali (fisica ed etica) dell’Epicureismo non siano di per sé più o meno sensibili all’una o all’altra di queste modulazioni critiche. 34 Cfr. Lévy [2001] e Ferrary [2001]. 271