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LA LUCE E IL MARTIRIO.
UNO SCRITTO DI PIETRO PAOLO CRESCENZI
E IL CICLO CONTARELLI DI
MICHELANGELO DA CARAVAGGIO
Marco Pupillo
«Crescentia passim lux tenebras vincit»
«Crescentia
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passim lux tenebras
vincit»: così recita
un verso del panegirico composto da Giuseppe Castiglione in occasione della
nomina cardinalizia di Pietro Paolo Crescenzi,
con richiamo al cognome del prelato e all’arma
familiare, dove sono rappresentate appunto tre
lune crescenti (fig. 1).1 Maurizio Calvesi ha suggerito, a proposito di tale componimento: «non
è forse un caso che (...) riprenda proprio quell’immagine “caravaggesca” di luce e ombra che
era corrente nel linguaggio metaforico dell’epoca,
e in particolare negli ambienti filippini e borromaici».2 L’ opuscolo era stato redatto nel 1611, alcuni anni dopo che il prelato era stato coinvolto
nelle vicende della decorazione della cappella
Contarelli, dove i teloni laterali con le Storie di
San Matteo, realizzati da Caravaggio tra 1599 e
1600, risultano fortemente scanditi da luci e ombre, come mai era avvenuto in precedenza nelle
composizioni del pittore lombardo. L’accostamento era stato proposto da Calvesi in un denso
paragrafo sui rapporti della famiglia Crescenzi
con l’ambiente oratoriano e borromaico della capitale pontificia. Si tratta, a quell’altezza cronologica, di un’intuizione critica niente affatto scontata.3 La documentazione sulla cappella emersa
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Fig. 1 – ANONIMO, Ritratto di Pietro Paolo
Crescenzi, 1628, xilografia a colori, Roma, Istituto
Centrale per la Grafica, Gabinetto Nazionale
delle Stampe. Per gentile concessione
del Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e del Turismo
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sino a quel momento (tra 1964 e 1965 Herwarth Röttgen aveva pubblicato i contratti
fondamentali),4 sembrava infatti assegnare ai Crescenzi un ruolo del tutto negativo,
di estrema negligenza quanto al compito di portare a conclusione i lavori nel sacello
e di resistenza, se non di ostilità, nei confronti della novità caravaggesca, imposta da
altri attori di quella vicenda. Poche erano in quel momento le voci dissenzienti da questa vulgata: basterà qui ricordare le evidenze documentarie segnalate da Luigi Spezzaferro a proposito dei reali rapporti dei Crescenzi con Francesco Contarelli, nipote
del cardinale5 e gli studi di Alessandro Zuccari che riconnettevano virtuosamente la
famiglia al milieu dei committenti caravaggeschi, attraverso la prospettiva dei legami
con l’Oratorio romano.6
In quale rilevante misura metafore luministiche popolassero l’immaginario dello
stesso Pietro Paolo Crescenzi lo si può oggi verificare attraverso un suo scritto del 1594,
principale oggetto del presente studio: la prefazione alla riedizione latina del noto trattato dell’oratoriano Antonio Gallonio dedicato agli strumenti di martirio.7
Il Trattato de gli strumenti di martirio
di Antonio Gallonio (1591)
Il Trattato
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de gli strumenti di martirio del Gallonio era uscito in
prima edizione nell’estate del 1591, stampato in concomitanza con l’altra ricerca martirologica dell’oratoriano dedicata alle Sante Vergini romane.8 Come noto, nelle intenzioni dell’autore i due volumi erano parte di un unico
progetto, di cui avrebbe dovuto far parte anche il testo sulle «vergini forestiere», che
invece rimase inedito.9 Il Trattato conteneva una disamina a carattere strettamente tipologico degli strumenti e delle modalità di tortura dei testimoni della fede cristiana.
Il testo era arricchito da un considerevole apparato iconografico composto di 47 tavole,
«le quali», secondo il giudizio dello stesso Gallonio, «danno per gratia del Signore,
grandissima divotione e soddisfattione ad ognuno che le vede».10 Le illustrazioni erano
state incise da Antonio Tempesta, che vi appose la sua sigla (fig. 2), e comprendevano
alcune immagini di trofei realizzati con strumenti di martirio (fig. 3). Come indicato
per la prima volta nel 1649 dall’erudito e bibliofilo francese Raphael Trichet DuFresne,
i disegni spettavano invece a Giovanni Guerra, il cui fratello Giovan Battista, architetto
e progettista di decorazioni, era dal 1583 un membro laico dell’Oratorio, attivo nel
cantiere della Chiesa Nuova come sovrintendente della fabbrica.11
In più d’un caso l’attenzione degli studiosi si è unicamente concentrata sulla minuziosa e distaccata descrizione della meccanica dei supplizi, presente nei testi così
come nelle illustrazioni del volume. Il Trattato è stato così giudicato – senza troppa
fantasia – come «one of the most disturbing illustrated books from the end of the Sixteenth Century» (e ancora come un «horrifyng work»);12 oppure è stato preso in esame
come testimonianza iconografica della secolare pratica della tortura.13 È stato scritto
che «il mite padre filippino» Gallonio appagava il «diffuso voyerismo di massa» di un
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Fig. 2 – ANTONIO TEMPESTA, da GIOVANNI
GUERRA, Scena di martirio, 1591, bulino
(da A. GALLONIO, Trattato de
gli strumento di martirio,
Roma 1591)
Fig. 3 – ANTONIO TEMPESTA, da GIOVANNI
GUERRA, Trofeo con strumenti di martirio, 1591,
bulino (da A. GALLONIO, Trattato
de gli strumento di martirio,
Roma 1591)
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pubblico in cerca di «tecnologia sanguinosa e crudele»; il volume è stato descritto come
un «manuale di ingegneria sacro-sadica, in cui esperti e competentissimi carnefici, fra
tanta variantistica torturatoria more geometrico demonstrata, sospendono con tiranti e
funi i corpi dei martirizzati»,14 e le sue illustrazioni come «centri di fascinazione crudele
più che motivi di edificazione religiosa».15 Anche Leonardo Sciascia, proprietario di
un esemplare reperito sul mercato antiquario parigino, in una bella digressione
letteraria dedicata a Giuliano Briganti ne ha evidenziato «l’intento di atrocemente catalogare».16 La sinistra fascinazione del tema ha prodotto, nelle sue derive estreme, un
bizzarro prodotto editoriale dove le illustrazioni del Tempesta, orfane del testo galloniano, sono affiancate del tutto incongruamente a un Discorso del marchese De Sade
contro la religione cristiana.17
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Chi invece ha preferito occuparsene sul piano dell’analisi storica e nel contesto della
cultura religiosa e figurativa dell’epoca ha rimarcato i rapporti con le raffigurazioni martiriali promosse, con accenti diversi, nello scorcio del secolo XVI soprattutto dalla
Compagnia di Gesù, con maggiore «intento apologetico e persuasivo», e dall’Oratorio.18 Il Trattato risulta in effetti scarsamente comprensibile fuori dagli studi di antiquaria cristiana d’impronta storicista coltivati in ambito vallicelliano, specialmente da
Cesare Baronio.19 Le differenze di procedimento (e anche quelle caratteriali) di quest’ultimo con Antonio Gallonio sono note, ma solido appare il riferimento a una comune sensibilità maturata nell’ambito del Cenacolo filippino.20 Una recente monografia
di Jetze Touber ha messo in luce la complessità della metodologia d’indagine galloniana.21 La ricognizione sul vasto patrimonio di riferimenti specialistici giuridici, medici
e tecnici a cui si appoggiano le ricerche agiografiche del padre oratoriano, ha messo
a fuoco il profilo di uno studioso capace di servirsi con competenza di discipline differenti, mettendole in relazione in maniera originale.
L’edizione latina: De SS. Martyrum cruciatibus (1594)
Il successo
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del Trattato aveva indotto Gallonio a dare alle stampe tre anni
più tardi una seconda edizione, oggi meno conosciuta della
precedente, presso l’officina tipografica che in quello stesso anno era stata allestita nei
locali della Vallicella (fig. 4).22 Il testo era stato tradotto in latino, per favorire la diffusione del volume a livello europeo, e il titolo era stato mutato in De SS. Martyrum
cruciatibus.23 Dedicato a Papa Clemente VIII Aldobrandini, il libro era accompagnato
da un componimento poetico del sacerdote romano Cristoforo Castelletti.24 L’introduzione, un testo di cinque pagine rivolto «christiano lectori», era stata invece affidata
a Pietro Paolo Crescenzi a quel tempo appena ventitreenne, ma colto e brillante, da
poco avviato a una fortunata carriera ecclesiastica che lo avrebbe condotto fino al cardinalato.25 Si può ragionevolmente ipotizzare che l’intervento dell’ecclesiastico fosse
dovuto al fatto che egli aveva – del tutto, o almeno in parte – sostenuto le spese dell’impressione del volume, forse con il sostegno di altri familiari. È un fatto che negli
anni successivi Antonio Gallonio divenne il padre confessore di Pietro Paolo. L’oratoriano d’altra parte aveva una profonda consuetudine anche con gli altri Crescenzi,
i fratelli di Pietro Paolo e, ancora prima, con i loro genitori, Virgilio e Costanza Del
Drago, tra gli aristocratici romani che con maggior convinzione avevano sostenuto
l’Oratorio ai suoi esordi.26 È nella quiete dell’abbazia di S. Eutizio in Val Castoriana
– l’abate commendatario era Giacomo, il primogenito dei Crescenzi – che Gallonio si
ritirò nel 1599 per portare a termine la versione latina della sua Vita di Filippo Neri.27
La nuova impressione del Trattato, di formato più ridotto, non riutilizzava le lastre
incise dal Tempesta. L’apparato illustrativo risultava ridotto a 26 illustrazioni, incise
su legno, anziché su rame, ed escludeva le immagini di trofei. Autore dei disegni era
ancora stato il modenese Giovanni Guerra: lo aveva affermato DuFresne nella testi-
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Fig. 4 – LEONARDO e GIROLAMA PARASOLE,
Frontespizio con la Madonna della Vallicella, 1594,
xilografia (da A. GALLONIO, De SS. Martyrum
cruciatibus, Roma 1594)
Fig. 5 – LEONARDO e GIROLAMA PARASOLE,
Scena di martirio, 1594, xilografia (da A.
GALLONIO, De SS. Martyrum cruciatibus,
Roma 1594)
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monianza prima citata e la notizia sembra confermata da un documento contabile conservato alla Chiesa Nuova, che rivela anche il ruolo avuto nei pagamenti dal fratello
oratoriano Giovan Battista.28
Quanto agli incisori, soltanto due immagini della serie risultano siglate e portano
i monogrammi di Leonardo Parasole e di sua moglie Girolama Cagnucci Parasole (fig.
5).29 Le illustrazioni non presentano difformità stilistiche tali da permettere di distinguere tra mani diverse e possono essere interamente considerate come opera di stretta
collaborazione dei coniugi Parasole, ambedue specializzati nell’arte xilografica. La scelta
si spiega alla luce degli stretti rapporti che questi ebbero tanto con la famiglia Crescenzi
quanto con l’Oratorio: un complesso di relazioni già analizzato compiutamente in altra
sede, che coinvolge non solo le scelte professionali, ma anche gli stessi personali orientamenti spirituali della coppia.30
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Fig. 6 – MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Vocazione di San Matteo,
1599-1600, olio su tela, Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi,
cappella Contarelli
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L’introduzione di Pietro Paolo Crescenzi
Il testo,
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composto da Pietro Paolo Crescenzi in un latino retorico e ridondante, presenta alcuni motivi di interesse.31 L’autore loda innanzitutto la ricerca di verità storica, perseguita da Gallonio, con il suffragio di autorevoli
testimoni, mostrando così di aderire in pieno a quella sensibilità di tipo storico e non
esclusivamente devozionale verso la vicenda delle prime generazioni cristiane, che veniva promossa dall’Oratorio in quegli anni.32 La storia è anzi indicata come la prima
di tutte le virtù: «Videtur enim totius historia virtus ea esse praecipua». Il testo
prosegue esaltando la funzione svolta dalle immagini che ornavano il volume. Il Crescenzi loda le piccole incisioni, rimarcando l’accuratezza della loro realizzazione. Sottolinea come in una simile opera le illustrazioni, ponendo i tormenti sotto gli occhi
stessi del lettore, chiariscano alla sua mente quel che le sole parole del testo avrebbero
potuto lasciare eccessivamente indeterminato o impreciso. Questo interesse del prelato
per le arti visive non può certo meravigliare, considerando l’educazione artistica che
in gioventù, per volontà del padre Virgilio, era stata impartita a lui – così come a tutti
i fratelli – da Cristoforo Roncalli.33 Gli insegnamenti del Pomarancio non fecero di Pietro Paolo un artista en amateur, come era invece avvenuto ai fratelli minori Giovan Battista e Francesco, ma contribuirono senz’altro a formare il suo gusto e a orientare i suoi
interessi.34 Lo mostrerà anni più tardi il rapporto familiare e confidente con un caravaggesco eterodosso come il pisano Orazio Riminaldi, da lui definito «molto mio intrinseco, e de’ miei di casa».35
Nel suo ragionamento il Crescenzi osserva come l’opera del Gallonio abbia fatto
scomparire ogni «caligine» e abbia restituito il «pristinum candorem splendorem(que)»
alla testimonianza dei martiri. La contrapposizione tra il chiarore e la difficoltà di visione, evocata da quest’ultima immagine, è presente anche in un altro punto del testo,
dove si afferma: «Neque vero ferendum diutius videbatur, ut ea ipsa martyrum tormenta, quibus quasi lucis quibusdam instrumentis, Christiana Ecclesia universa clarissimis esset illustrata radijs, in densissimis obscuritatis tenebris iacerent». Energica
ed eloquente è l’immagine dei pochi raggi di luce che provengono dalla testimonianza
dei martiri e che da soli sono bastati a illuminare l’intera Chiesa, mentre giaceva in tenebre di densa oscurità.
Non meraviglia l’impiego di queste metafore luministiche. È una conferma dell’affermazione di Calvesi, posta al principio di questo saggio, sulla loro diffusione nel linguaggio dell’epoca e particolarmente tra gli intellettuali prossimi all’Oratorio.36 S’è già
detto dell’afferenza di Pietro Paolo Crescenzi a questo ambito e non è necessario ritornarci su. Quel che però rende ora significativo questo testo è il fatto che il suo autore,
a soli cinque anni di distanza, risulterà coinvolto in prima persona nella committenza
al Caravaggio delle due tele laterali per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi
con la Vocazione e il Martirio di San Matteo, dove il pittore introduce un uso del tutto
innovativo del rapporto tra luce e ombra, con scoperto intento simbolico (figg. 6-7).
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Fig. 7 – MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO, Martirio di San Matteo,
1599-1600, olio su tela, Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi,
cappella Contarelli
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I Crescenzi e la decorazione della cappella Contarelli, in breve
Le Storie di S.Matteo
segnano una svolta nella
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carriera del Merisi, dal
punto di vista professionale (si tratta delle sue prime opere esposte in una chiesa, avvio della presenza pubblica del pittore nella città pontificia) e anche stilistico, come
si è appena detto.37 Per contestualizzare il ruolo di Pietro Paolo e degli altri Crescenzi
in questo decisivo tornante del percorso caravaggesco è necessario ripercorrere rapidamente – per quanto possibile – l’intricata storia della decorazione della cappella
in San Luigi dei Francesi, una vicenda al tempo stesso nota e controversa.38
Nel testamento del novembre 1585 Matteo Contarelli aveva nominato «heredem
et executorem universalem» Virgilio Crescenzi, «suo strettissimo amico», e quindi
non solo esecutore testamentario, come si ripete abitualmente negli studi sulla cappella, ma anche «herede universale delli pretiosi suppellettili, et delle più rare pitture,
et altre cose che bramar si possono», come recita un importante Avviso da Roma alla
corte di Urbino.39 Il medesimo documento prosegue ricordando che «se però averà
luogo in lui la confidenza (l’eredità) sarà rinonzata ad un figlio di detto cardinale tenuto fin hora in vece di Nipote di Sua Signoria Illustrissima presso à detto Gentil’huomo», con riferimento a Francesco Contarelli, che per tutta la vita mantenne rapporti ottimi e di grande familiarità con i membri di casa Crescenzi, contrariamente
a quel che si è a lungo ritenuto nella letteratura caravaggesca.40
Tra Matteo Contarelli e Virgilio Crescenzi era intercorso un rapporto di completa
fiducia e in più occasioni il nobile romano aveva svolto un ruolo di intermediazione
e consulenza artistica per il cardinale. La gestione dell’ingente eredità si era però rivelata da subito un compito estremamente problematico, per le molte contese legali
sorte intorno a quel patrimonio (lo stesso clero di San Luigi si era rifiutato di considerare valido il testamento e cercava di impugnarlo) così come per il grande scandalo finanziario, scoppiato nell’estate 1586, dovuto alla gestione estremamente disinvolta, per dire così, della Dataria Apostolica negli anni in cui Contarelli aveva
ricoperto il ruolo di Cardinal Datario. Queste circostanze aiutano a contestualizzare
gli indugi di Virgilio riguardo alla decorazione della cappella, ancora spoglia alla
morte del Contarelli.
Quest’ultimo già nel 1565 aveva stipulato con Girolamo Muziano un dettagliato
contratto per un ciclo con le Storie di San Matteo, che prevedeva pitture a fresco sulle
pareti e nella volta e un dipinto a olio per l’altare.41 La prolungata inadempienza del
bresciano aveva però spinto il cardinale nel 1580 ad annullare quel rapporto lavorativo.42 Un anno più tardi, alla presenza di Virgilio Crescenzi, Contarelli aveva stipulato un nuovo contratto con Jacob Cobaert, che vincolava lo scultore fiammingo
a una prestazione d’opera esclusiva, in cambio di un vitalizio.43 Già da qualche tempo
Cobaert era salariato dal cardinale e alloggiava presso una sua residenza nell’area va-
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ticana. La stipula, insieme a molte altre cose, prevedeva l’esecuzione di quattro statue
marmoree con gli evangelisti da collocare nelle cappelle di San Luigi, a discrezione
del prelato, e la disponibilità a realizzare quanto necessario alla decorazione della cappella dedicata a San Matteo. Dopo la scomparsa di Matteo Contarelli, Virgilio Crescenzi aveva stipulato un nuovo contratto con Cobaert, che continuava ad abitare
nella casa con giardino del suo mecenate.44 Lo scultore – un artista non scelto dal
nobile, come si è appena visto, ma “ereditato” insieme ai beni del cardinale – si impegnava a consegnare nel giro di quattro anni «doi statue di marmoro una di san
Mattheo e l’altra del angelo, già sbozzate (…) per la cappella che sta nella chiesia di
San Luigi nominata San Mattheo». Nel 1590 Virgilio aveva fatto apporre sul pavimento della cappella una targa (che in tempi lontani, con la sua data precoce, ha fuorviato alcuni studiosi del Caravaggio) e l’anno successivo aveva stipulato, a pochi mesi
di distanza i contratti con Giuseppe Cesari, non ancora Cavalier d’Arpino, e con lo
stuccatore trentino Stefano Fuccari per la decorazione pittorica e plastica del
sacello.45
Alla fine del 1592 Virgilio Crescenzi era improvvisamente morto e l’onere di ultimare la decorazione era passato ai suoi figli. Diversamente dalle consuetudini delle
famiglie del patriziato romano, entrambi i maggiori, il ventiduenne Giacomo e Pietro
Paolo, più giovane di un anno, avevano intrapreso la carriera ecclesiastica. Nel giugno
1593 Giacomo saldava Giuseppe Cesari per gli affreschi della volta, i due riquadri
con i Profeti e quello raffigurante San Matteo che resuscita la figlia del Re etiope Egippo.
Negli anni seguenti si era verificata una sostanziale stasi dei lavori, giacché il fiammingo – anziano e «imbarbogito», come lo descrive Baglione – che «non havea prattica del marmo e non volea pigliar consiglio, o aiuto da alcuno», non consegnava la
statua, che non riusciva a ultimare, «non lasciandola vedere a persona veruna».46 I
contratti che Giacomo Crescenzi aveva stipulato a gennaio e febbraio 1596 con lo
scultore prevedevano esplicitamente la presenza «d’un giovane che lo aiuti a finire»
ma neanche questo era bastato a sbloccare la committenza.47 L’arpinate, dal canto
suo, non aveva ancora dato inizio agli affreschi per le pareti laterali, neanche dopo
che il banchiere Tiberio Ceuli nel 1597 aveva emesso, su incarico dei figli di Virgilio
Crescenzi, un impegno di pagamento di 400 scudi «per resto et intiero pagamento
della pittura che fa nella cappella di San Matteo», con l’importante clausola che «la
presente duri per un anno prossimo, poi resti di niun valore».48 Le giustificazioni presentate in questo periodo dai Crescenzi «scusandosi or’ su ‘l scultore, or su ‘l
pittore» non erano quindi del tutto pretestuose, come si è cercato di mostrare altrove.
Le proteste della Congregazione di San Luigi si erano però fatte più frequenti a partire dal 1594, sino a che in quello stesso 1597 Papa Clemente VIII «per levar ogni
differenza ha applicata tutta la heredità alla fabrica di S. Pietro», secondo quanto riporta un Avviso.49 È in questa fase di amministrazione controllata dell’eredità che Michelangelo Merisi viene indicato per l’esecuzione delle pitture laterali della cappella.50
Ufficialmente era stato il «reverendo padre Berligherius» – da identificare con il fu-
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turo Cardinale Berlingero Gessi51 – «ex hoc expresse deputatus» dalla Fabbrica di San
Pietro a fare il suo nome, ma Giovanni Baglione (preceduto da Gaspare Celio, come
si è da poco appurato) aveva attribuito la responsabilità della scelta a Francesco Maria
Del Monte, affermando: «Per opera del suo cardinale hebbe in s Luigi de’ Francesi
la cappella de’ Contarelli».52 Non va dimenticato, a questo proposito, che quest’ultimo era uno degli esecutori testamentari nominati da Virgilio Crescenzi.53 È quindi
ragionevolmente ipotizzabile che l’opportunità di una pubblica ribalta offerta da Del
Monte al Caravaggio, da alcuni anni suo protetto, fosse avvenuta in sostanziale accordo con i fratelli Crescenzi.
Nel contratto del luglio 1599 questi ultimi erano rappresentati per la prima e
unica volta da Pietro Paolo (anziché da Giacomo, come era stato sino a quel momento), che si impegnava con la Congregazione di San Luigi al pagamento di 400
scudi per le due tele del Merisi. Nella stipula era affidato a Cristoforo Roncalli, artista
di fiducia dei Crescenzi, il compito di stimare il colore «azzurro et oltramarino» necessario alla pittura.
Nella fase successiva – quella che all’inizio del 1602 vede in rapida successione
la collocazione e la pronta rimozione della statua del Cobaert dall’altare della
cappella e l’affidamento al Caravaggio di una nuova pala, «ad faciend(am) rem gratam ill(ustri) domino Francisco Contarello» – è nuovamente il maggiore Giacomo
a sottoscrivere le stipule notarili a nome della famiglia.54
Il lume caravaggesco: un «affare di contenuto»
La nota frase
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con cui Giovan Pietro Bellori descrive l’evoluzione
formale del linguaggio caravaggesco – «cominciando già Michele a ingagliardire gli scuri» – è riferita, tra le
altre opere, alla Santa Caterina d’Alessandria di Madrid, un dipinto databile al
1599.55 Poche righe più avanti il critico riprende più ampiamente il tema, utilizzando
un’espressione simile: «Ma il Caravaggio (…) facevasi ogni giorno più noto per lo
colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma
tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dare rilievo ai corpi».
Le opere a soggetto religioso realizzate da Caravaggio nel periodo che precede la
committenza Contarelli (al quadro Thyssen, possono essere affiancati la Marta e
Maddalena di Detroit e la Giuditta Barberini), sono il laboratorio in cui il pittore
comincia a sperimentare un utilizzo marcato di luci e ombre.56 Non c’è dubbio, tuttavia, che la svolta coincida con i due laterali della cappella Contarelli, eseguiti tra
1599 e 1600. L’insorgere di un mutamento stilistico così radicale (e gravido di conseguenze per la successiva storia dell’arte europea), ha indotto gli studiosi ad interrogarsi riguardo alla sua natura, se cioè esso sia esclusivamente riconducibile all’interna evoluzione formale del pittore o se piuttosto quell’innovativo uso della luce sia
da connettere con suggestioni esterne di carattere culturale, segnatamente filosofiche
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o religiose. Il discorso è estremamente complesso e affrontarlo in maniera compiuta
comporterebbe di fatto un riesame dell’intera letteratura caravaggesca, partendo dall’immediata reazione di Federico Zuccari che non vi vedeva «altro, che il pensiero
di Giorgione» sino agli studi più recenti.57 Si selezioneranno qui soltanto pochi casi,
utili a esemplificare i differenti approcci al problema.
Decisamente radicale è stata la posizione di Cesare Brandi, attento esegeta dei
valori formali: la sua ricerca dell’episteme caravaggesca estromette ogni componente
religiosa dal formarsi del linguaggio pittorico dell’artista.58 Secondo il critico la questione della luce – definita «luce formante» – fu cruciale nella pittura del lombardo,
la cui crescita stilistica coincise con il progressivo prendere coscienza delle sue potenzialità come mezzo espressivo.59 Brandi giunge ad affermare la totale autosufficienza della ricerca luministica caravaggesca, negandone anche la remota origine nel
proto-naturalismo lombardo, dove l’aveva invece trovata Roberto Longhi, dotandola
così di una rilevante genealogia figurativa.60 Seguendo queste categorie, del tutto avverse a ogni forma di storicismo, ma coerenti con la teorizzazione dell’autonomia
totale del linguaggio artistico, Brandi parla d’una luce che «non deriva da una particolare regione, ma dalle tenebre», aggiungendo che si tratta della «trafila che
subisce l’immagine per trasformarsi in una presenza prepotente ed inafferrabile». Si
tratta, come è evidente, di una posizione priva di spiragli, impermeabile a ogni dialettica.
In realtà, anche tra quanti si sono mostrati propensi a negare un’origine “contenutistica” al luminismo caravaggesco, tanto più di matrice religiosa, quasi nessuno
ha poi sostenuto la totale autonomia stilistica di questa invenzione formale. In questo
senso, risulta molto interessante un sostanzioso brano della monografia longhiana
sul Merisi – si citerà qui dalla sua versione conclusiva del 1968 – dove il lume caravaggesco a più riprese viene messo in relazione con il tema sacro, protagonista della
sua pittura al passaggio del nuovo secolo.
Ricordando la testimonianza del Bellori sugli «oscuri gagliardi», lo studioso scriveva: «La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo è a
spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che ringagliardiscono sono dunque
pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che fortunatamente, nell’occhio di
un grande pittore, porterà con sé anche una forma atta ad incidere rapidamente sul
contenuto stesso. Questo è il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale».61
Longhi individua una correlazione dialettica tra il «grumo drammatico della realtà
più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza»
e «la storia dei fatti sacri, di cui ora s’impadroniva».62 Tale consapevolezza mostra
quanto avvertita e complessa sia stata la posizione dello studioso al riguardo, nelle
sue formulazioni più mature. Certo è che l’affermazione sugli «scuri che ringagliardiscono» come un «affare di contenuto» poco coincide con le divulgazioni stereotipe
del pensiero longhiano date da molti suoi epigoni.
Sull’opposto versante critico talune teorie hanno avuto il limite di voler connet-
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tere il luminismo caravaggesco con
correnti di pensiero troppo specifiche, che difficilmente avrebbero potuto essere nel bagaglio di conoscenze del pittore o dei suoi
committenti. Appartiene senz’altro a
questa categoria uno studio di Carlo
Del Bravo.63 Lo studioso riconosce il
valore simbolico del lume caravaggesco così come proposto da Maurizio
Calvesi (ci si arriverà tra poco), ma
individua nella Scolastica del tardo
Cinquecento e non nell’agostinismo
il sostrato filosofico al quale riferire il
rapporto luce-ombra nel Caravaggio.
Lo studioso ricorda la dura controversia interna sul tema capitale della
Grazia tra le due correnti del tomismo spagnolo, facenti capo rispettivamente al gesuita Luis de Molina e
al domenicano Domingo Bañes.
Quest’ultimo esaltava la Grazia a scapito della volontà dell’uomo e nelle
sue opere «in vari passi svolge
un’analogia fra la Grazia la predestinazione il libero arbitrio, e la luce, o
meglio, per dirla storicamente, fra
quei temi teologici e le teorie aristoFig. 8 – MICHELANGELO MERISI DA
telico-tomistiche sulla luce come
CARAVAGGIO, Martirio di San Matteo (particolare),
1599-1600, olio su tela, Roma,
“atto” che porta a libero compichiesa di San Luigi dei Francesi,
mento le potenzialità dei corpi che ilcappella Contarelli
lumina», con riferimento al De
Anima di Aristotele e alle considerazioni svolte dal filosofo antico sul
rapporto tra luce pura, diafanità e
colorazione. Nei brani degli Scholastica commentaria del Bañes Del Bravo rileva analogie con l’uso della luce nella pittura del Caravaggio. Rimane da stabilire in che
modo, e per quali vie, essi abbiano potuto istigare l’immaginario figurativo del pittore lombardo, e anzi costituire l’innesco di una così radicale rivoluzione figurativa.
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«Lo stimolo e l’urgenza
di comunicare un contenuto simbolico»
La teoria
di Del Bravo non ha avuto molto seguito nei successivi studi caravaggeschi, contrariamente a quella che si proponeva di emendare. Come noto, nel 1971 Maurizio Calvesi aveva osservato che «l’insorgenza del
luminismo caravaggesco risulterebbe inspiegabile senza lo stimolo e l’urgenza di comunicare un contenuto simbolico», mettendo quindi in relazione le inedite scelte luministiche del Merisi con il pensiero di Sant’Agostino, che attraverso il rapporto luceombra illustrava la polarità tra Grazia divina e peccato.64
Non si tratta qui di contrapporre l’agostinismo alla Scolastica o ad altre dottrine
come il naturalismo di Giordano
Bruno o il neo-platonismo di Francesco Patrizi (né chi scrive avrebbe le
competenze per farlo), ma di rilevare
che proprio il carattere semplice e largamente intuitivo di questa metafora –
«basico ed elementarmente religioso»
– ne ha favorito l’impiego in contesti
ed epoche differenti, e ancora al tempo
di Caravaggio. In questo senso lo
scritto composto da Pietro Paolo Crescenzi, può essere considerato un indizio di tale diffusione presso gli ambienti con cui il pittore lombardo fu in
rapporti documentati. Esso offre una
pista d’indagine niente affatto evanescente sul genere di stimoli culturali
che possono aver cooperato a dare origine ai processi creativi e immaginativi
del pittore. Si noti, a questo proposito,
il carattere estremamente “visuale” del
testo crescenziano. Che poi questo personaggio risulti direttamente implicato
nella committenza delle tele Contarelli,
e cioè proprio in quelle composizioni
Fig. 9 – MICHELANGELO MERISI
DA CARAVAGGIO, Martirio di San Matteo
dove «la metafora luministica del Ca(particolare), 1599-1600, olio su tela, Roma,
ravaggio si consolida e prende definichiesa di San Luigi dei Francesi,
tivo assetto di corpo e di stile», è un
cappella Contarelli
fatto che induce a ulteriori domande.
Ci si può infatti chiedere se il giovane
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Fig. 10 – DOMENICO CERRONI (?), Martirio di San Matteo,
1599-1600, affresco, Roma, chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo
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Fig. 12 – LEONARDO e GIROLAMA
PARASOLE, Scena di martirio (particolare),
1594, xilografia (da A. GALLONIO,
De SS. Martyrum cruciatibus,
Roma 1594)
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Fig. 11 – ANTONIO TEMPESTA, da
GIOVANNI GUERRA, Scena di martirio
(particolare), 1591, bulino (da A.
GALLONIO, Trattato de gli strumento
di martirio, Roma 1591)
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Crescenzi abbia contribuito in maniera
più diretta alla formulazione iconografica e stilistica dei dipinti, nei quali
Caravaggio cerca di dare una forma
visuale alla dottrina della grazia illuminante. Pochi dubbi possono esservi sul
fatto che i due, a motivo di quell’incarico, di fatto retribuito da Pietro Paolo
a nome della sua famiglia, ebbero più
occasioni di incontrarsi e parlare. Conviene tuttavia arrestarsi sulla soglia di
questa evidenza, senza postulare dipendenze al momento indimostrabili.
Un’ultima osservazione riguarda le
incisioni delle due edizioni del trattato
di Antonio Gallonio. È un’ovvietà constatare la grande distanza che separa la
pittura del Caravaggio dalle serie incise
da Tempesta e dai coniugi Parasole: si
tratta di opere che sembrano appartenere a mondi figurativi non comunicanti.
Tuttavia, si possono trovare alcune
convergenze nel modo di accostarsi al
tema del martirio, soggetto del laterale
destro della cappella.65 Come si è
detto, il testo dell’oratoriano trattava la
storia dei martiri cristiani senza ricoFig. 13 – MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO,
Martirio di San Matteo (particolare), 1599-1600,
struire le singole vicende dei santi, ma
olio su tela, Roma, chiesa di San Luigi dei
attraverso la disamina tipologica dei
Francesi, cappella
diversi dispositivi tramite i quali essi
Contarelli
erano stati torturati e uccisi. Grande
evidenza allo strumento di martirio,
in questo caso la lunga spada brandita
dal carnefice, si ritrova anche nella composizione caravaggesca (fig. 8). Non è
l’unica lama presente nel dipinto: anche uno dei personaggi posti in secondo piano
sulla sinistra sta per impugnare l’elsa della sua spada per soccorrere il soccombente
Matteo (fig. 9).66 Lo stesso gioco di armi, significativamente, si trova nel Martirio
di San Matteo (fig. 10), attribuibile all’altrimenti sconosciuto Domenico Cerroni,
parte nel ciclo di affreschi fatto eseguire da Cesare Baronio per il proprio titolo cardinalizio dei Ss. Nereo e Achilleo, le cui tangenze con il dipinto caravaggesco sono
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state da tempo messe in luce.67 Lo schema compositivo adottato dal Caravaggio per
il gruppo principale, che vede il carnefice armato in piedi, mentre sta per infliggere
con l’arma il colpo mortale, e la vittima, inerme, ai suoi piedi è presente in diverse
di quelle illustrazioni (figg. 11-12). Va comunque segnalata la grande distanza tra
la devota rassegnazione della schiera dei martiri raffigurati nei testi di Gallonio, passivi ed estatici, e l’altissima invenzione figurativa del Merisi, che umanizza il martirio
di Matteo.
Caravaggio infatti mostra la simultanea convivenza nel santo di opposti sentimenti
davanti alla morte imminente. Il braccio di Matteo, afferrato dal carnefice,
è proteso in avanti e la mano è aperta. Quel gesto esprime allo stesso
tempo il gesto umanissimo di difesa personale e di rivolta di
fronte all’esplosione di brutale violenza del suo persecutore e l’accettazione cristiana del proprio destino di martire: la sua mano con le dita
spalancate è pronta a ricevere la
palma del martirio che un
angelo gli porge
dall’alto
(fig. 13).
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NOTE
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G. CASTIGLIONE, Panegyris de illust.mo et Rever.mo D. D. Petro Paulo Crescentio S. R. E. Presb. Card.
Tituli SS. Nerei & Achillei creato die XVII. Augusti MDCXI ad Sanctissimum D. N. Paulum V Pont.
Max. / Romae Apud Iacobum Mascardum MDCXI. L’esemplare consultato di questo raro testo si trova
presso la Biblioteca Casanatense di Roma.
M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio, Torino 1990, p. 286.
Il volume caravaggesco di Maurizio Calvesi ripubblica un lungo studio uscito in tre parti sulla rivista
«Storia dell’arte», tra il 1985 e il 1988. Per i Crescenzi vedi M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio.
Continuazione della seconda parte (I dipinti), in «Storia dell’arte», 63, 1988, pp. 117-169, in part. pp.
120-123 (I Crescenzi nel loro rapporto con la Congregazione dell’Oratorio e con i Borromeo), ripubblicato
in Le realtà…, cit., pp. 284-287.
H. RÖTTGEN, Giuseppe Cesari, die Contarelli-Kapelle und Caravaggio, e IDEM, Die Stellung der Contarelli-Kapelle in Caravaggios Werk, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 27, 1964, pp. 201-227 e 28,
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1965, pp. 47-68, ripubblicati, in traduzione italiana, in ID., Il Caravaggio. Ricerche e interpretazioni,
Roma 1974, pp. 9-75.
L. SPEZZAFERRO, Caravaggio rifiutato? 1. Il problema della prima versione del «S. Matteo», in «Ricerche di storia dell’arte», 10, 1980, pp. 49-64, in part. p. 52.
A. ZUCCARI, La politica culturale dell’Oratorio Romano nelle imprese artistiche promosse da Cesare Baronio, in «Storia dell’arte», 42, 1981, pp. 171-193, ripubblicato in IDEM, Caravaggio controluce. Ideali
e capolavori, Milano 2011, pp. 19-83, in part. pp. 36-53 (Caravaggio e l’Oratorio di Filippo Neri).
P.P. CRESCENZI, in A. GALLONIO, DE SS. MARTYRUM / CRUCIATIBUS […] Quo potissimum
instrumenta, & modi, quibus ijdem CHRISTI / martyres olim torquebantur, / accuratissime / tabellis expressae describuntur / ROMAE / Ex typographiae Congregationis Oratorij apud / S. Mariam / in Vallicella.
M.D.XCIV. / Superiori permissu., pp. non numm.
A. GALLONIO, TRATTATO / DE GLI INSTRUMENTI DI MARTIRIO, / E DELLE VARIE MANIERE / DI MARTORIARE / USATE DA’ GENTILI / CONTRO CHRISTIANI, / descritte et INTAGLIATE IN RAME. / […] Con le tavole nel fine di tutte le cose più notabili / IN ROMA; Presso Ascanio,
e Girolamo / Donangeli. 1591. / Con Privilegio, & Licenza de’ Superiori. Per una prima informazione
su questo testo e il suo apparato illustrativo vedi M. PUPILLO, in A. COSTAMAGNA a c. di, La
regola e la fama. S. Filippo neri e l’arte, cat. mostra, Roma, Palazzo di Venezia, settembre-dicembre
1995, Milano 1995, pp. 513-514, scheda 69 (con una rassegna delle successive edizioni e della bibliografia precedente).
Vedi G. FINOCCHIARO, La dispersa Historia delle sante vergini forestiere di Antonio Gallonio. Una
vicenda editoriale, in G.A. GUAZZETTI, R. MICHETTI, F. SCORZA BARCELLONA a c. di, Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, Roma 2012, pp. 111-121. Per la biografia e l’opera del filippino vedi S. DITCHFIELD, voce Gallonio, Antonio, in «Dizionario Biografico degli Italiani», 51,
1998, pp. 729-731.
La citazione è tratta da una lettera scritta da Gallonio al padre Talpa a Napoli nel gennaio 1591,
quando il testo era ancora in preparazione e il giudizio è riferito alle prime incisioni realizzate. In
quella lettera Gallonio riferisce del proprio progetto di realizzare «un trattato nel principio diviso in
quindici capitoli de gli instrumenti e modi di martirizzare usati dagli antichi contra i christiani con
le loro figure in rame, che saranno quaranta di numero per lo meno, et al presente ne ho in ordine
ventitré» (vedi A. CISTELLINI, San Filippo Neri. L’Oratorio e la Congregazione Oratoriana. Storia e
spiritualità, 3 voll., Brescia 1989, I, p. 731, nota 17).
L’affermazione del DuFresne compare in un testo che accompagnava l’edizione parigina del 1649 del
testo galloniano (A. GALLONIO, DE SS. MARTYRUM / cruciatibus […] Cum figuris Romae in aere
incisis / PER ANTONIUM TEMPESTAM / ET aliis ejusdem argumenti Libellis / ex museo Raphaelis Tricheti / du Fresne / PARISIIS / M.DC. LIX). Questo il testo: «Figures autem à Ionne Guerra Mutinensis
Sixti V Pontificis pictor delineates Antonius Tempesta Florentinus in aere expressis. Ioanni Guerrae
frater erat Ioannes Baptista Guerra, qui cùm esset architecturae peritissimus prefecit constructioni
templi S. Mariae in Vallicella, quod in Urbe Ecclesiam Novam nuncupat, pertiné atque ad Congregationis Oratoris presbyteros, inter quos Gallonius religiosam vitam ducebat. Anno postea 1594. ne
intra breves Italiae terminos utilis & salutaris scriptionis gloria coërcetur, quae priùs Italicè scripserat,
multis additis & immutatis Latine fecit Gallonius. Figuras quoque addidit à Ioanne Guerra iterum
delineatas, sed in ligno incisas». Per il ruolo di Giovan Battista Guerra alla Vallicella vedi C. BARBIERI, S. BARCHIESI, D. FERRARA, Santa Maria in Vallicella Chiesa Nuova, Roma 1995, ad indicem).
D. FREEDBERG, The Representation of Martyrdoms during the Early Counter-Reformation in
Antwerp, in «The Burlington Magazine», CXVIII, 1976, pp. 128-138, in part. pp. 137-138, da cui
traggo le due citazioni.
L. PUPPI, Lo splendore dei supplizi. Liturgia delle esecuzioni capitali e iconografia del martirio nell’arte
europea dal XII al XIX secolo, Milano 1990, pp. 55-56 e ill. 49-51 (brillante, come al solito, ma con
varie imprecisioni).
P. CAMPORESI, Le officine dei sensi (1985), Milano 1991,2 pp. 164-165.
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15 IDEM, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue (1984), Milano 20174, p. 40.
16 L. SCIASCIA, Stendhal e i “martìri”, in M. BONA CASTELLOTTI et al. a c. di, Scritti in onore di
Giuliano Briganti, Milano, 1990, pp. 269-271; ripubblicato in IDEM, L’adorabile Stendhal, Milano
2003, pp. 47-54, in part. p. 48.
17 Immagini di martirio. Quarantasette incisioni di Antonio Tempesta precedute da un discorso del Marchese
De Sade, s.l., s.d.
18 A. ZUCCARI, Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, Torino 1984, pp. 54-55.
19 Il tema è stato più volte trattato. Mi limito a rimandare a C. CECCHELLI, Il Cenacolo filippino e l’archeologia cristiana, Roma 1938; G. WATAGHIN CANTINO, Roma sotterranea. Appunti sulle origini
dell’Archeologia cristiana, in «Ricerche di storia dell’arte», 10, 1980, pp. 5-14; L. SPERA, Cesare Baronio “peritissimus antiquitatis”, e le origini dell’archeologia cristiana, in Cesare Baronio tra santità…, cit.,
pp. 393-423, con indicazioni bibliografiche. Su Baronio sono fondamentali gli studi pubblicati in
oltre 35 anni da Alessandro Zuccari. Qui segnalo A. ZUCCARI, Fonti antiche e moderne per le iconografie di Baronio, in L. GULIA a c. di, Baronio e le sue fonti, Atti del Convegno Internazionale di
Studi di Sora, 10-13 ottobre 2007, Sora 2009, pp. 867-932; IDEM, Baronio e l’iconografia del martirio, in Cesare Baronio tra santità…, cit., pp. 445-501.
20 J. TOUBER, Baronio e Gallonio: le fonti per il sapere martirologico, in Baronio e le sue fonti…, cit., pp.
389-409.
21 IDEM, Law, Medicine, and Engineering in the Cult of the Saints in Counter-Reformation Rome. The Hagiographical Works of Antonio Gallonio, 1556-1605, Leiden-Boston 2014.
22 Per la breve attività della Tipografia Vallicelliana, che operò tra 1593 e 1595, vedi P. FORMICA, La
tipografia dell’Oratorio (1593-1595), in Messer Filippo Neri, santo. L’apostolo di Roma, cat. mostra, Roma,
Biblioteca Vallicelliana, 24 maggio-30 settembre 1995, Roma 1995, pp. 229-230; M. MENATO,
Le edizioni della tipografia, in ibid., pp. 231-234, e – soprattutto – la recente ed esaustiva ricostruzione
di G. FINOCCHIARO, Cesare Baronio e la Tipografia dell’Oratorio. Impresa e ideologia, Firenze 2005
(in part. le pp. 87-91, che si riferiscono al testo del Gallonio).
23 GALLONIO, De SS. Martyrum cruciatibus…, cit. Il testo fu posseduto da Filippo Neri, come risulta
dal suo inventario post mortem; vedi Archivio della Congregazione dell’Oratorio (d’ora in poi ACO),
C.I.39, Inventarium Bonorum S. Philippi Neri, del 28/05/1595, c. 13r. “De Cruciatib(us)
S(anc)tor(um) Martiru(m) Gallon(ii)”, cit. in C. GASBARRI, L’Oratorio romano dal Cinquecento al
Novecento, Roma 1962, p. 37.
24 L’edizione del 1591 era stata invece dedicata a Olimpia Orsina Cesi duchessa d’Acquasparta. Sul Castelletti vedi G. PATRIZI, voce Castelletti, Cristoforo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», 21,
1978, pp. 671-673. Poligrafo, ricordato per alcune commedie a carattere moralistico, il Castelletti
morì nel 1596 e fu sepolto alla Chiesa Nuova.
25 Sul Crescenzi, secondogenito figlio di Virgilio, vedi di I. POLVERINI FOSI, voce Crescenzi, Pietro
Paolo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», 30, 1984, pp. 648-649.
26 Sui Crescenzi e l’Oratorio rimando a M. PUPILLO, I Crescenzi e il culto di Filippo Neri. Devozione e
immagini dalla morte alla beatificazione (1595-1615), in P. TOSINI a c. di, Arte e committenza nel Lazio
nell’età di Cesare Baronio, Atti del Convegno Internazionale di Studi di Frosinone – Sora, 16-18 maggio 2007, Roma 2009, pp. 165-178. Sui rapporti Gallonio/Crescenzi vedi ora TOUBER, Law, Medicine and Engineering…, cit., pp. 33-34, ma passim.
27 M.T. BONADONNA RUSSO, Introduzione, in A. GALLONIO, La vita di San Filippo Neri pubblicata
per la prima volta nel 1601, ed. critica a cura dell’Oratorio Secolare, Roma 1995, pp. IX-XXII, in part.
pp. XVII-XVIII.
28 Per il testo del DuFresne vedi supra a nota 11. Il documento si trova in ACO, A.III.4, fasc. C, Note
sulle onoranze a S. Filippo dal 1598 al 1613, c. 56v: «A di 24 d’Ottobre 1601 m. Gio: Bat.a Guerra
mi disse che li cento scudi spesi nelle stampe di legno del libro dell’instrumenti de’ Martiri se gl’era
fatti prestare lui et che gli rese à chi gle l’haveva prestati à poco à poco secondo che il P. Ant.o gli
diede à lui, et che non occorreva altra ricevuta di m. Giovanni». Il riferimento alle incisioni in legno,
al trattato dei martiri e al padre Gallonio non lascia dubbi sul fatto che il documento riguardi proprio
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l’edizione del 1594. L’identificazione di «m. Giovanni» con il Guerra è evidentemente solo congetturale, ma ragionevole. Per un errore materiale nella scheda redatta per il catalogo La regola e la fama
(vedi supra nota 8) ho datato il documento al 1591; vedi S. PIERGUIDI, Riflessioni e novità su Giovanni Guerra, in «Studi romani», 48, 2000, pp. 297-321, in part. p. 314.
GALLONIO, De SS. Martyrum cruciatibus…, cit., pp. 44 e 123. Per i monogrammi vedi G.K. NAGLER, Die monogrammisten, 5 voll., München 1858-1879, I, p. 946, n. 2244 e II, p. 968, n. 2714
(Girolama) e IV, p. 410, n. 1256 (Leonardo). Elena Parma Armani, trattando brevemente quella serie
di illustrazioni, attribuiva la paternità delle incisioni ancora ad Antonio Tempesta, ritenendole erroneamente eseguite a bulino su rame; vedi E. PARMA ARMANI a c. di, Libri di immagini disegni incisioni di Giovanni Guerra (Modena 1544-Roma 1618), cat. mostra, Modena, Palazzo dei Musei, Sala
Poletti, 18 marzo-30 aprile 1978, Modena 1978, p. 90. La studiosa peraltro identificava correttamente il monogramma di Leonardo Parasole, mentre non riusciva a identificare quello di Girolama,
che in effetti in quella sede non risulta del tutto identico a quelli proposti dal Nagler, ma leggermente
variato.
M. PUPILLO, Gli incisori di Baronio: il maestro “MGF”, Philippe Thomassin, Leonardo e Girolama Parasole (con una nota su Isabella / Isabetta / Elisabetta Parasole), in Baronio e le sue fonti…, cit., pp. 831866, in part. pp. 839-845.
P.P. CRESCENZI, in GALLONIO, De SS. Martyrum cruciatibus…, cit., pp. non numm.: «PETRUS
PAULUS / CRESCENTIUS / CHRISTIANO LECTORI / Habes amice lector, omnia pene
tormentorum genera, quibus Christianorum hominum tentata simul & aucta fides est, brevi
comprehensa volumine: opus, mea quidem sententia, & ad martyrum praedicationem, & ad piorum
cognitionem egregium: vel quod res tantas, nec satis ad haec usque tempora cognitas, in quibus vel
maxime elucet fortitudo martyrum, patefacit nobis: vel quod puram ac simplicem in docendo
veritatem, falsis explosis opinionibus ostendit. Videtur enim totius historia virtus ea esse praecipua,
si non solum praeclaras eximiasq(ue) res, sed etiam veras ostendat; ita ut legentis animum non tam
rerum maximarum varietas delectet, quam veritas. Iam rei magnitudo patet ipsa per se: nam (ut uno
verbo dicam quod sentio) videtur mihi totius Christianae Ecclesiae per tanta temporum spatia
acerrime bellantis robur ac virtus uno hoc libello, quasi angusta illa quidem, sed eleganter picta regione
contineri; ut nihil fere praeclare gestum in Christiana militia sit, quod non unius huiusce libelli finibus
contineatur. Veritatem porro lectio ipsa declarabit. Sunt enim singula quaeque (id quod inter
legendum passim occurret) tum firmissimis probata rationibus, tum etiam ita gravissimorum
hominum sententijs & auctoritate firmata, ut non mendacium modo, sed ipsius etiam mendacij
suspicionem vitare facillime possint. Neque vero ferendum diutius videbatur, ut ea ipsa martyrum
tormenta, quibus quasi lucis quibusdam instrumentis, Christiana Ecclesia universa clarissimis esset
illustrata radijs, in densissimis obscuritatis tenebris iacerent: eo enim, temporum iniuria, an hominum
incuria dicam? eo inquam deducta res erat, ut martyrum historias recolentes, nomina quidem
tormentorum legeremus, tormenta ipsa non raro cuiusmodi tandem ea essent penitus non
intelligeremus: ita fiebat, // ut quam praecipue sectaremur in martyre constantiam, eodem nos ipsa,
quibus demum tentata rationibus esset, lateret. Itaque discussa tandem aliquando omni prorsus
caligine, summa ANTONII GALLONII opera & industria sunt in pristinum candorem
splendoremq(ue) restituta, singulaq(ue) tabellis accuratissime delineata, ut quam tormenti speciem
lectio peperisset, quasi praesentem oculis pictura proponat: solet enim non parum ad legentis
delectationem confirmandam, augendamq(ue) conferre, si id ipsum, quod rude adhuc & informe ex
sola verborum adumbratione conceperis, habeas ubi sine ulla mentis haesitatione certum possis
inturei. Et sane quem non delectet? Quem non excitet ad pietatem? quem non etiam suae pertaesum
tarditatis & ignaviae ad Christianae pietatis ardorem accendat talium rerum meditatio? preasertim
vero, si ipsis etiam oculis aspiciat tantam veterum christianorum in Christiana fide ac religione tuenda
constantiam?». Il testo poi prosegue soffermandosi in particolare sulle figure dei martiri Lorenzo e
Agata. Ringrazio l’amico Americo Miranda che mi ha aiutato nella comprensione del testo.
La bibliografia indicata a nota 19 può essere utilmente integrata, per quanto riguarda il tema dell’esplorazione delle catacombe, con V. FIOCCHI NICOLAI, San Filippo Neri, le catacombe di S. Sebastiano e le origini dell’archeologia cristiana, in M.T. BONADONNA RUSSO, N. DEL RE a c. di,
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San Filippo Neri nella realtà romana del XVI secolo, Roma 2000, pp. 106-130 e M. GHILARDI, Baronio e la ‘Roma sotterranea’ tra pietà oratoriana e interessi gesuitici, in Baronio e le sue fonti…, cit., pp.
435-487.
G. BAGLIONE, Le Vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII. fino a tutto
quello d’Urbano Ottavo, Roma 1642, pp. 291 e 364. Lo stretto rapporto con i Crescenzi era stato già
ricordato da G. MANCINI, Considerazioni sulla pittura (1617-1621), ed. critica a cura di A. MARUCCHI e L. SALERNO, 2 voll., Roma 1956-571, p. 236: «Dopo venne a Roma et trattandosi da gentilh(uom)o praticò con persone nobili et in part(icola)re co’ SS.ri Crescentij». Questa duratura relazione, che coinvolse anche il procuratore legale Donato Roncalli, fratello del Pomarancio, è stata
analizzata in M. PUPILLO, «allettati dal diletto delle virtù». Giovanni Baglione, i Crescenzi e l’Accademia
di S. Luca, in S. MACIOCE a c. di, Giovanni Baglione (1566-1644), pittore e biografo d’artisti, Roma
2002, pp. 140-159, in part. pp. 146-148.
Come noto, Giovanni Baglione dedica una lunga ed encomiastica biografia a Giovan Battista Crescenzi, ricordando la sua attività artistica e il suo ruolo di consulenza e intermediazione a Roma e
in Spagna (vedi BAGLIONE, Le Vite…, cit., pp. 364-367).
Vedi M. PUPILLO, “molto mio intrinseco, e de’ miei di casa”: Orazio Riminaldi e i Crescenzi, in P. CAROFANO, F. PALIAGA E M. CIAMPOLINI a c. di, Caravaggismo e naturalismo nella Toscana del
Seicento, Atti delle Giornate di Studi di Certosa di Pontignano, 21 maggio 2005 - Casciana Terme,
20-21 maggio 2005, Pontedera 2009, pp. 85-115.
CALVESI, Le realtà …, cit., p. 286.
Per un’informazione generale (superata però in più punti) ci si può ancora rivolgere alle classiche e
solide monografie di M. CINOTTI, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Tutte le opere, con un saggio
critico di G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1983, pp. 525-535 sch. 61a-b-c, e M. MARINI, Caravaggio
«pictor preastantissimus», 20013, pp. 431-445 e 464-468 schede 36-38 e 53-54.
Mi permetto di rimandare in proposito a M. PUPILLO, I Crescenzi, Francesco Contarelli e Michelangelo
da Caravaggio: contesti e documenti per la commissione in S. Luigi dei Francesi, in S. MACIOCE a c. di,
Michelangelo Merisi da Caravaggio. La vita e le opere attraverso i documenti, atti del Convegno Internazionale di Studi di Roma, 5-6 ottobre 1995, Roma s.d. [ma 1996], pp. 148-166 e soprattutto
IDEM, «da’ maligni sommamente lodata». Caravaggio, i Crescenzi e la decorazione della Cappella
Contarelli, in N. GOZZANO e P. TOSINI a c. di, La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi.
Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, Roma 2005, pp. 35-47. L’intero volume risulta utile
per la ricostruzione delle vicende della cappella e ospita un repertorio delle fonti (N. GOZZANO,
La cappella Contarelli nei documeti e nella letteratura artistica, pp. 83-108, in part. pp. 94-108) e
un’accurata edizione dei documenti (F. SIMONELLI, Le fonti archivistiche per la cappella Contarelli:
edizione dei documenti, pp. 117-154).
L’ Avviso del 27 novembre 1585 è pubblicato in PUPILLO, «da’ maligni sommamente lodata»…, cit.,
p. 35.
Vedi PUPILLO, I Crescenzi, Francesco Contarelli…, cit., pp. 152-156, dove si presenta un corpus di
circa 40 documenti che testimoniano, quasi ad annum, l’eccellente stato delle relazioni con i
Crescenzi. Alla morte, nel 1625, Francesco Contarelli nominò suoi esecutori testamentari i fratelli
Giacomo e Pietro Paolo Crescenzi. Come già segnalato, la prima ricognizione in merito spetta a
SPEZZAFERRO, Caravaggio rifiutato?..., cit., p. 52.
SIMONELLI, Le fonti archivistiche …, cit., pp. 117-118, doc. 1. Una recente proposta di identificazione del dipinto di Muziano commissionato da Contarelli in A.G. DE MARCHI, Muziano: il San
Matteo Contarelli e altro (“Recuperi & scoperte”, 3), Roma 2016.
F. NICOLAI, La committenza Contarelli per San Luigi dei Francesi: nuovi documenti sulla cappella di
San Matteo e sulla fabbrica della chiesa, in «Paragone», LXIII (2012), s. III, 105, pp. 60-78, in part.
pp. 75-76. I recenti ritrovamenti documentari di Fausto Nicolai risultano fondamentali per la comprensione delle vicende Contarelli.
Ibidem, pp. 76-78.
SIMONELLI, Le fonti archivistiche…, cit., pp. 127-129 doc. 4.
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MARCO PUPILLO LA LUCE E IL MARTIRIO.
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45 Ibidem, pp. 130-133, docc. 5 e 6. Per Fuccari ora vedi M. PUPILLO, Ancora su Stefano Fuccari. La
carriera di uno stuccatore trentino a Roma tra Cinque e Seicento: documenti e considerazioni, in L. DAL
PRÀ, L. GIACOMELLI, A. SPIRITI a c. di, Passaggi a nord-est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra
arte, tecnica e restauro («Beni Artistici e Storici del Trentino. Quaderni», 20), Atti del Convegno di
Studi di Trento, 12-14 febbraio 2009, Trento 2011, pp. 133-143.
46 G. BAGLIONE, Le vite…, cit., p. 100.
47 SIMONELLI, Le fonti archivistiche…, cit., pp. 133-137 docc. 7 e 8.
48 Ibidem, pp. 138-19 doc. 10.
49 GOZZANO, La cappella Contarelli…, cit., p. 94.
50 SIMONELLI, Le fonti archivistiche…, cit., pp. 140-143 doc. 12.
51 PUPILLO, «da’ maligni sommamente lodata»…, cit., pp. 40-41.
52 BAGLIONE, Le vite…, cit., p. 136. Il testo dell’inedita Vita del Caravaggio composta da Gaspare
Celio, probabile fonte del Baglione, è stato recentemente presentato da Riccardo Gandolfi, autore
dell’importante scoperta d’archivio; vedi R. GANDOLFI, Notizie sul giovane Caravaggio nell’inedita
biografia di Gaspare Celio, in A. ZUCCARI a c. di, Sine ira et studio. Per la cronologia del giovane Caravaggio: estate 1592 – estate 1600. Opinioni a confronto, Giornata di studio, Sapienza Università di
Roma, 1 marzo 2017, atti in corso di pubblicazione. Celio coinvolge nella vicenda anche Prospero
Orsi nel ruolo di suggeritore.
53 SPEZZAFERRO, Caravaggio rifiutato?..., cit., p. 62, nota 23.
54 SIMONELLI, Le fonti archivistiche…, cit., pp. 146-151 docc. 15-17.
55 G.P. BELLORI, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni (Roma 1672), a cura di E. BOREA, Torino 1976, p. 217 (anche per la citazione che segue). Per il dipinto Thyssen vedi S. EBERT-SCHIFFERER, Santa Caterina d’Alessandria, in C. STRINATI a c. di, Caravaggio, cat. mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, 20 febbraio – 13 giugno 2010, Milano 2010, pp. 90-95, con datazione al
1597-1599.
56 A. ZUCCARI, Caravaggio e la questione del disegno, in «Atti e memorie dell’Arcadia», 2, 2013, pp.
101-120, in part. p. 116 dove si parla di un «uso più incisivo e contrastato della luce».
57 BAGLIONE, Le Vite…, cit., p. 137.
58 C. BRANDI, L’«episteme» caravaggesca, in Caravaggio e i caravaggeschi, Atti del colloquio internazionale di Roma, 12-14 febbraio 1973, Roma 1974, pp. 9-17.
59 IDEM, Disegno della pittura italiana, Torino 1980, p. 403, anche per la citazione successiva.
60 Una prima, ampia, rassegna in questo senso in R. LONGHI, Quesiti caravaggeschi: i precedenti, in
«Pinacotheca», 5-6, 1929, pp. 258-230, ripubblicato in IDEM, ‘Me pinxit’ e Quesiti caravaggeschi
1928-1934, Firenze 1968, pp. 97-143.
61 R. LONGHI, Caravaggio (Editori Riuniti, Roma-Dresda 1968), ripubblicato in IDEM, Studi caravaggeschi, tomo I, 1943-1968, pp. 241-291, in part. pp. 257-258.
62 Il brano riprende e aggiorna riflessioni già presenti in R. LONGHI, Il Caravaggio (Martello,
Milano 1952), ripubblicato in Scritti caravaggeschi…, cit., pp. 159-223, in part. pp. 175-176. Vedi
anche R. LONGHI, Il Caravaggio (Alinari, Firenze s.d., ma post 1955), in ibidem, pp. 225-239, in
part. pp. 229-230: «(…) Caravaggio, ormai deciso ad applicarsi, secondo le prevalenti richieste dell’epoca, ai soggetti sacri, elabora il suo nuovo modo di contrasti drammatici espressi dalla opposizione
sempre crescente tra luce ed ombra».
63 C. DEL BRAVO, Sul significato della luce nel Caravaggio e in Gianlorenzo Bernini, in «Artibus et historiae», 7, 1983, pp. 69-77, in part. p. 70 per la citazione.
64 M. CALVESI, Caravaggio o la ricerca della salvazione, in «Storia dell’arte», 9-10, 1971, ripubblicato
in IDEM, Le realtà… cit., pp. 5-79, in part. pp. 29-39, 44-46 e 62-66, da cui traggo le citazioni che
seguono; vedi anche ID., Letture iconologiche del Caravaggio, in Novità sul Caravaggio. Saggi e contributi, Cinisello Balsamo 1975, pp. 75-102, passim. La lettura in chiave agostiniana è stata ripresa
da ZUCCARI, La politica culturale…, cit., pp. 43-44.
65 Da segnalare che il testo galloniano non conteneva alcun riferimento al martirio di San Matteo. Que-
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CARAVAGGIO ALLA FINE DEL RINASCIMENTO
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sto è forse da mettere in relazione con la stessa riluttanza manifestata da Cesare Baronio, tanto negli
Annales ecclesiastici che nel Martyrologium Romanum, a trattare il tema del martirio del santo. Come
è stato osservato, il silenzio dello storico oratoriano era dovuto quasi certamente alla volontà di «evitare un pronunciamento su fonti agiografiche non ritenute degne di considerazione», vedi A. ZUCCARI, Storia e tradizione nell’iconografia religiosa del Caravaggio, in Caravaggio. La vita e le opere...,
cit., pp. 289-308, ripubblicato in IDEM, Caravaggio controluce…, cit., pp. 145-167, in part. p. 149.
66 È stato peraltro notato come la spada – arma di offesa e difesa, ma anche strumento di distinzione
sociale – sia un soggetto ricorrente nella pittura del Caravaggio; vedi F. ROSSI, Caravaggio e le armi.
Immagine descrittiva, valore segnico e valenza simbolica, in IDEM a c. di, Caravaggio. La luce nella pittura
lombarda, cat. mostra, Bergamo, Accademia Carrara, 12 aprile – 2 luglio 2000, Milano 2000, pp.
77-88; A. ZUCCARI, La spada del Caravaggio. Paradigma sociale e iconografico, in L. GULIA, I. HERKLOTZ e S. ZEN a c. di, Società, cultura e vita religiosa in età moderna. Studi in onore di Romeo De
Maio, Sora 2009, pp. 611-644, ripubblicato in IDEM, Caravaggio controluce…, cit., pp. 239-253.
67 A. ZUCCARI, La politica culturale dell’Oratorio Romano nelle imprese artistiche promosse da Cesare Baronio, in «Storia dell’arte», 42, 1981, pp. 171-193, in part. p. 179; l’accostamento è ripreso in CALVESI, Le realtà…, cit., pp. 297-298, dove è ricordata la presenza di più personaggi armati.
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