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BIBLIOTECHE E CONTESTI

Comunicazione al Convegno Nazionale 'Il futuro del Servizio Bibliotecario Nazionale' in occasione dei vent'anni della Rete Bibliotecaria di Romagna, Organizzato dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna e dal Ministero per i beni culturali. Ravenna, 12 e 13 dicembre 2006. IL contributo verte principalmente sulla connessione tra biblioteche e musei

BIBLIOTECHE E CONTESTI Sono veramente dispiaciuto per non avere ascoltato nella giornata di ieri gli interventi che si sono succeduti, tutti ad altissimo livello, sia politico amministrativo che scientifico e tecnico. Le mie potranno essere, tutt’al più, delle annotazioni marginali, di un parabibliotecario periferico, di campagna, si potrebbe dire, o, per essere più precisi, di spiaggia, balneare. Il fatto è che ho cominciato a lavorare nel ramo (si dice così, credo, nell’idioma dei piazzisti), ormai più di trent’anni fa a Cattolica, ridente cittadina della costa adriatica nonché estremo lembo di quella Romagna di cui Ravenna è capitale: cittadina definita dai suoi abitanti “regina dell’Adriatico”, così come si leggeva nelle cartoline illustrare del Ventennio. Per inciso, oggi anche la biblioteca, insieme al piccolo museo e dopo il teatro (che si sarebbe dovuto chiamare “teatro della biblioteca”) è da poco sussunta entro la sigla di un’Istituzione comunale detta “della Regina”, per cui colgo l’occasione per felicitarmi per questa nobilitazione quanto meno terminologica. Dicevo degli inizi del mio lavoro e di tempi in cui questo si svolgeva secondo modalità che non si rimpiangono. Era già molto se in periferia si applicavano le RICA (per non parlare di FRBR, di “functional requirements for bibliographic record) e se in qualche modo trovavano ricetto i principi di Parigi, se si adottavano schede internazionali. Quanto alle sedi...meglio lasciar perdere. Però il quadro prospettico era diverso: prendevano vita le Regioni e questo sembrava, per le deleghe specifiche detenute (che comprendevano, come dovrebbe essere anche oggi, le biblioteche, gli archivi e i musei degli enti locali) che si aprissero nuove dimensioni quantitative e qualitative per la lettura, per la conoscenza, per la dimensione pubblica e civile della cultura. Mi si scuserà se qui approfitto per rendere omaggio alla figura di Giuseppe Guglielmi, critico letterario, poeta, raffinatissimo traduttore, grande operatore culturale che partecipò alla fondazione dell’Istituto per i beni culturali di questa Regione, della sua Soprintendenza ai beni librari e documentari e dunque di SBN in Romagna. Fu anche tra i propiziatori, proprio a Cattolica, di quel piccolo centro culturale che avrebbe dovuto integrare le funzioni di una biblioteca, di un museo, di un teatro costruiti ex novo. Il progetto, di Pier Luigi Cervellati, fu steso nel 1979 e compiuto, con il teatro, nel ’96. Il complesso, al momento della sua ideazione, e del suo avvio (insomma prima dell’età per così dire “monarchica”, cioè della Regina) si chiamava “centro culturale polivalente”: denominazione quasi anonima, vagamente burocratica, quasi un ricalco di una legge regionale del ’77 “per la creazione di servizi culturali polivalenti”, ma con un bel marchio identificativo, ora cassato (una sorta di gesto segnaletico, una crocetta racchiusa in un cerchio dipinti a mano), ideato da Massimo Dolcini, uno dei più importanti grafici contemporanei prematuramente scomparso; ribadirei che quella legge, la 28/77, rimane ancora l’unica tra quelle fin qui promulgate dalla nostra Regione, per quello che mi risulta, che abbia sovvenuto significativamente le strutture bibliotecarie. Così avvenne per Cattolica e per la sua biblioteca e il resto, che proprio Guglielmi avrebbe volentieri chiamato biblioteamus, un acrostico ironicamente congiuntivale. Del resto non poteva essere diversamente. Basta rileggere quel breve testo pubblicato da Giuseppe Guglielmi in L’Emilia Romagna (a cura del medesimo e di Franca Cantelli, 1974) che mi è capitato recentemente di riprendere e meditare e che trovo ricco di suggestioni, anche per il presente, forse anche per il futuro. Propongo dunque qualche passo da questo breve saggio, titolo Le biblioteche. “se una stessa matrice non solo storica ma anche ideologica lega i musei alle biblioteche [...] una tipologia verificatasi ben presto divaricante venne ad accentuare man mano, nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, il carattere meramente funzionale, e quindi non organico, improprio, del museo come della biblioteca, divenuti ben presto corpi separati tra loro, e cosa ancor più grave, corpi staccati dal tessuto sociale, finanche dalla dinamica della vita culturale delle stesse municipalità. Questo fenomeno di separatezza di specie tra loro omogenee, oltre che dal contesto sociale che le aveva prodotte, questa istituzionalizzazione di tipologie diversificanti sino a divenire diverse se non opposte, come se la raccolta di cose d’arte costituisse problemi di catalogazione e sistematizzazione, nonchè di funzione, radicalmente diversi da quelli che si pongono per il documento, la stampa, il manoscritto, l’incunabolo e il libro [...] Si tratta di un serpente bibliografico gigantesco ben vivo [...] E qui gettiamo un seme stimolante e per noi essenziale, quasi una proposta di programma per un catalogo unico regionale che in primis coinvolga le amministrazioni, i direttori d’istituto, gli schedatori e tutti i gruppi di interesse, identificabili tra gli studiosi delle più vaste discipline[...]”. Qui siamo alla “profezia del catalogo unico”, che, pur tra infinite difficoltà, si sta realizzando, se non unitariamente, in forme non incompatibili tra loro, grazie proprio all’IBC, alle persone che più tardi saranno premiate e alla loro capacità di coniugare sapienza biblioteconomica e tecnoctronica (come la chiamava Guglielmi) cucendo rapporti tra le insidie dei frammnentati e complessi livelli politico amministrativi: ora, per certi aspetti ben oltre le aspettative della metà degli anni ’70, i programmi che sono in via di approntamento o già avviati ci offrono risorse quasi infinite e ubiquitarie, lungo una linea di programma immane la cui attuazione non cessa di implicare il superamento di separatezze consolidate. E mi piace ricordare che Antonio Paolucci, storico dell’arte e ormai storico direttore degli Uffizi, riminese, e già ministro per i beni culturali, ripete sempre, come ne abbia la minima occasione, che “il museo è una biblioteca di oggetti” Ma per chi e per cosa tutto questo enorme carico procedurale ed acribisticamente sottile: certo, per gli studiosi e, diremmo noi, in senso generale, per il pubblico, anche per quello che si caratterizza, sono sempre parole di Guglielmi, per “l’impetuosa crescita della popolazione scolastica e universitaria” che pone il problema di “nuovi spazi, nuove acquisizioni [...] e soprattutto una nuova biblioteconomia” nel momento in cui la grande biblioteca tradizionale subisce “l’assalto di masse sempre più numerose di studenti che spinti da una fame funzionale connessa a bisogni pratico-intellettuali, vi bivaccano in turni permanenti [...] Del resto - aggiunge Guglielmi – è proprio della nostra scuola indurre bisogni transitori quanto impellenti, trascurando ogni impresa di formazione a vantaggio di un’informazione rapida e d’accatto”. Trent’anni dopo sul punto il problema non sembra cambiare nei suoi termini essenziali: il contesto degli studi nel cui sistema generale si collocano le biblioteche è descritto molto bene da Luciano Canfora. “Ci fu un tempo in cui, nelle Università, l’insegnamento era la prosecuzione della ricerca, e viceversa. Al contrario, nell’epoca recente, tutta l’organizzazione del tempo dovuta alle infauste riforme dell’ultimo decennio è ancorata al concetto opposto: essere l’insegnamento mera elargizione di conoscenze manualistiche. Le quali vanno inoltre contenute in un angusto tempo (donde il conio del grottesco concetto di “modulo”) e nello “spazio” (donde la delimitazione del numero di pagine da far deglutire agli studenti)” (1). Se questo è il contesto, ci si chiede allora, come oggi le biblioteche possano concorrere al soddisfacimento di quel “diritto di conoscere” che Guglielmi segnalava, fin dagli anni ’50 del secolo scorso, quale emblema delle imprese organizzative di cui era parte, come quel Consorzio per la pubblica lettura della Provincia di Bologna nei cui scopi essenziali abitava un movimento per la “socializzazione o descolarizzazione della cultura” quale compito da attribuire alla biblioteca. Tuttavia, forse è scontato, ma è bene sempre tenerlo a mente, non esiste “la” biblioteca, ma almeno tante forme di biblioteca quante sono le ragioni sociali, pubbliche e private, che le governano. Per quanto riguarda poi quelle di ente locale, ad onta di una superutenza da parte del pubblico, sono sempre a rischio di quella marginalità di cui parla Sergio Conti nell’ultimo bollettino AIB (3, 2006) che, a suo parerre, sarebbe il frutto di una carente cognizione di un “profilo di comunità” da costruire. Sul punto chi scrive ritiene che il difetto di “impatto” consista piuttosto nella prevalente svalutazione delle biblioteche (e di altri istituti pubblici di cultura, la cui sussistenza non comatosa sarebbe suggerita dal dettato costituzionale) da parte proprio di chi dovrebbe metterle al centro (o se non al centro, almeno ai bordi) di quel processo complesso il cui senso risiede nella produzione e circolazione di testi, di qualunque natura e da qualunque supporto siano veicolati . Ministri, assessori regionali, provinciali, comunali sembrano maggiormente attratti dai numeri che provengono da altre statistiche, quelle ad esempio di lodabilissime nottate bianche o rosa, in cui sono conteggiati come partecipanti anche i semplici passanti di ogni tipo e natura (anche animale) e forse anche i dormienti o aspiranti alla quiete notturna. Quanto agli operatori delle civiche biblioteche, essi si ingegnano di proporre modelli che talora possono inconsapevolmente concorrere alla supposta svalutazione e alla conseguente marginalità degli istituti da loro accuditi: vuoi per arroccamento tecnicistico, vuoi per sociologico ammaliamento della sirena aggregativa ammodernata nelle forme del più accattivante design, ivi compreso l’arrotondamento degli spigoli onde i piccini e gli sprovveduti non si feriscano. Insomma si incappa sempre in manie unidirezionali, con oblio del testo, del suo acquisto, trattamento, conservazione e, ove possibile, valorizzazione. Ovviamente, non si può dare un modello univoco di biblioteca, basti pensare alla fatica di definire uno standard minimo condiviso. Nel caso delle universitarie, specialmente di quelle a vocazione tecnoscientifica, l’emersione del testo, per lo più affidato alla rete tramite le riviste elettroniche, si celebra quotidianamente nelle aule in cui i professori parlano della loro disciplina e rinviano a quel deposito del loro sapere che è il libro, digitale o cartaceo che sia. Addirittura, qualche autorevole esponente del mondo universitario teorizza che una nuova biblioteca di ateneo, urbano o suburbano o quasi urbano che sia, possa e forse debba consistere semplicemente in uno o più saloni cablati e dotati di computer. Per questa via sarebbe senz’altro favorito il recalcitrante studente deglutitore, armatissimo cultore del “taglia/copia/incolla”. Con buona pace delle “arti liberali”, di quelle che dovrebbero rendere l’uomo libero. Credo utile, considerando il sistema della conoscenza nel tempo presente e la potenza e il ruolo dei grandi media e della rete, oltre che della scuola in ogni ordine e grado, che il recupero di un operare che definirei di nobile artigianalità, non nuoccia alla permanenza in vita di quei testi di cui lamentiamo la triste deglutizione: le biblioteche, specie quelle dei comuni, potrebbero tornare o continuare ad essere uno dei luoghi in cui si esercitano le arti dell’esercizio critico, a partire dal contesto e oltre il contesto, fuori dall’ovvio precotto quotidiano, quasi degli scriptoria postmoderni in cui fabbricare la cognizione del presente che si vuole globalizzato e decostruito a un tempo. Forse, oltre a una nuova biblioteconomia, e a un’etica della biblioteca, di cui si parlerà domani a Modena, potrebbe esserci lo spazio per una nuova disciplina critica che si muova oltre la dimensione dell’edificante, cioè una filosofia della biblioteca, opportunamente articolata: una filosofia in cui trovi spazio non solo la storia della biblioteca, ma anche l’analisi della sua fenomenologia, delle scienze logico matematiche implicate, ma anche di quelle dette umane, antropologiche, psicologiche, semiotiche e, certo, anche architettoniche, nonchè, infine, in omaggio allo spirito borgesiano che anima ogni buon bibliotecario, una filosofia che sia ontologia della cultura di noi che conveniamo, un po’ assurdamente, di chiamarci post moderni. Marcello Di Bella Dicembre 2006 1) L. CANFORA , I consigli di Tristano, in Essere e divenire del “Classico”, Atti del convegno Internazionale, Torino – Ivrea 2003.