soggetti rivelati
59
la questione maschile
archetipi, transizioni, metamorfosi
a cura di Saveria Chemotti
ILPOLIGRAFO
soggetti rivelati
ritratti, storie, scritture di donne
collana di studi coordinata da Saveria Chemotti
59
la questione maschile
archetipi, transizioni, metamorfosi
a cura di
Saveria Chemotti
ILPOLIGRAFO
Atti del Convegno
“La questione maschile.
Archetipi, transizioni, metamorfosi”
Padova, 24-27 marzo 2015
Il volume viene realizzato con un contributo
dell’Università degli Studi di Padova
nell’ambito delle iniziative promosse
dal Forum d’Ateneo per le politiche e gli studi di genere
Copyright © novembre
Il Poligrafo casa editrice srl
Padova
piazza Eremitani - via Cassan,
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ISBN ----
INDICE
Introduzione
Le attività del Forum d’Ateneo
per le politiche e gli studi di genere
Saveria Chemotti
Isole nella corrente. Parole, strumenti, prospettive
per esprimere e rappresentare l’esperienza maschile
Stefano Ciccone
Equivoci, mutanti, ermafroditi:
la questione maschile al tramonto del moderno
Roberto Deidier
L’indicibile maschilità.
Comportamento bisessuale e identità virile
Giuseppe Burgio
Navigando a vista sul disfacimento del concetto di genere
e sugli orientamenti sessuali
Nicla Vassallo
Il maschile e il velo della dea.
In margine a Novalis
Davide Susanetti
La decostruzione di un genere?
Il pater familias nella storia della res publica romana
Francesca Cenerini
Il mannaro: una categoria antropologica
declinata solo al maschile
Sonia Maura Barillari
Cesare Lombroso e il criminale nato:
la scienza medica al servizio dell’ordine sociale
Ida Li Vigni
«...e il babbo è un osso duro».
La considerazione della figura paterna
nella letteratura per l’infanzia
Donatella Lombello
Pinoccchio: burattino, somarello e bambino...
Rappresentazioni dell’identità di genere
Paolo Aldo Rossi
Forme etiche del virile:
il volto dell’altro secondo Emmanuel Lévinas
Bruna Giacomini
«Chi sono io tu non saprai»:
sul mito di Don Giovanni
Umberto Curi
Il divenire molteplice della differenza
Andrea Nicolini
Dio Padre e la mascolinità di Cristo.
Una lettura teologica “maschileplurale”
Benedetta Selene Zorzi
Dai pepla al western all’italiana.
La figura maschile nel cinema popolare degli anni Cinquanta
Giorgio Tinazzi
Convergenze di genere nel mercato del lavoro?
Uomini in professioni “femminili”
Sabrina Perra, Elisabetta Ruspini
El nemigo común es el machismo:
disfare/rifare il genere con l’antisessismo maschile in Spagna
e il caso di Ahige
Krizia Nardini
Il discorso della violenza maschile:
dall’emergenza mediatica alla riflessione degli uomini autori
Cristina Oddone
Modelli maschili nel secondo Ottocento:
il caso della Scuola normale maschile provinciale
di Bologna (-)
Loredana Magazzeni
La mascolinità nell’epoca vittoriana:
il caso di John Addington Symonds
Michele Tondi
Agostino, Damìn, Emanuele: una controstoria corporale
Emanuele Zinato
La mascolinità armata
Carlo Donà
Il maschio selvatico. L’archetipo, il mondo selvatico
e l’ambiente del dono
Claudio Risé
Il “corpo poetico” dell’artista nei Wilhelm Meisters Lehrjahre:
tra Amleto, Edipo e Perceval
Massimo Stella
La costruzione di una possibilità: disertare il patriarcato
Lorenzo Gasparrini
Baritoni egemoni e tenori soccombenti.
L’opera lirica o il trionfo del patriarca
Annamaria Cecconi
Ripensare il maschile a partire dalle fonti della Cina classica:
il “farsi femmina” del Laozi
e il “paradigma materno” del Mengzi
Amina Crisma
La caduta di un mito e la sua metamorfosi
Raffaella Failla
Il maschile: una prospettiva generazionale
Emanuele Caon
Tango. Generazioni
Marzia Banci
Fuori cliché: passaggi di genere tra identificazione e scelta.
Spunti sul film Les garçons et Guillaume, à table!
di Guillame Gallienne (Francia, )
Giulia Zoppi
Modelli di genere e identità virtuali: performance maschili
nelle communities del sesso a pagamento
Giorgia Serughetti
Una prospettiva generazionale
Lara Marrama
Note sugli autori
LA QUESTIONE MASCHILE
ARCHETIPI, TRANSIZIONI, METAMORFOSI
AGOSTINO, DAMÌN, EMANUELE:
UNA CONTROSTORIA CORPORALE
Emanuele Zinato
Il mio intervento riguarda la rappresentazione nella narrativa italiana
dei corpi adolescenti e dei luoghi del controllo sociale, come il collegio, la
palestra, il bordello, in cui il soggetto maschile è chiamato ad adeguarsi
alle pratiche di gruppo, alla logica dominante e coattiva. Il taglio adottato
presuppone l’interpretazione delle scritture letterarie come resistenza,
o possibile dicibilità, di logiche emotive e modelli corporei e affettivi
esclusi dal modello dominante. Tutte e tre le rappresentazioni (desunte
da Agostino di Moravia, Il lanciatore di giavellotto di Volponi e Aracoeli di
Elsa Morante) sono ambientate in epoca fascista, età in cui i riti ginnicofallici e virili di massa per la prima volta assumono una dimensione
sistemica, la cui inedita pervasività sarebbe stata superata, in altre forme,
solo vent’anni dopo, dal “miracolo” e dalla cultura di consumi.
. Il più celebre romanzo breve italiano incentrato sulla fine di un
rapporto fusionale con la madre e sulla traumatica scoperta della sessualità adolescente è di certo Agostino di Alberto Moravia, concepito a
Dedico questo intervento a un mio compagno sconosciuto, un ragazzo che nella
caserma Duca degli Abruzzi di La Spezia è stato violentato in gruppo dai compagni di
camerata e che subito dopo si è ucciso, gettandosi dalla finestra. Quando, nel febbraio ,
sono arrivato come recluta, lui era morto da poco. La sorveglianza era stata raddoppiata
ma del caso non si parlava. Mi vien da pensare, congiungendo indebitamente vita e critica
letteraria, che forse anche quell’ignoto compagno di caserma in camerata avrebbe potuto
incontrare protezione e dolcezza spensierate. Entro una diversa educazione dei sentimenti.
Invece ha incontrato la violenza e la morte. Le citazioni e i numeri di pagina nel testo si
riferiscono rispettivamente ad A. MORAVIA, Agostino, nuova edizione a cura di S. Casini,
con testi di U. Saba e C.E. Gadda, Milano, Bompiani, ; P. VOLPONI, Il lanciatore di
giavellotto, Torino, Einaudi, ; E. MORANTE, Aracoeli, Torino, Einaudi, .
EMANUELE ZINATO
Capri nel . Tutto nel testo, a suo modo perfetto, sembra svolgersi fin
troppo geometricamente: l’idillio tra madre e figlio delle prime pagine,
di abbagliante luce marina, è rotto dall’arrivo dell’ombra del giovane
bagnino e dallo schiaffo della madre. Agostino fugge e oltrepassa una
soglia simbolica e di classe incontrando al Bagno Vespucci i ragazzi del
popolo, che lo educano svelandogli le ragioni oscure del comportamento
della madre e del bagnino. Agostino in poco tempo – contro «le beffe
dei ragazzi e il tormento impuro dei rapporti con sua madre» (p. ) –
decide con fermezza di conoscere il corpo femminile tramite i riti
dell’amore mercenario e si muove con disperata determinazione verso
il bordello. E solo per il furto dei propri risparmi da parte del Tortima
e per la troppo giovane età non consuma il suo intento d’iniziazione.
Ha il tempo, tuttavia, di spiare dalle finestre del villino e di intravedere
furtivamente un’immagine di donna che costituisce una sorta di doppio
del fantasma di desiderio incestuoso:
La camicia della madre ricordava proprio la veste della donna della villa, stessa
trasparenza, stesso pallore della carne indolente e offerta; soltanto che la camicia era spiegazzata e pareva rendere ancora più intima e furtiva quella vista.
Così, pensò Agostino, non soltanto l’immagine della donna della villa non
si frapponeva come uno schermo tra lui e la madre, come aveva sperato, ma
confermava in qualche modo la femminilità di quest’ultima. (p. )
La conclusione sembra dunque attestare un’iniziazione mancata e
una circolarità e fissazione del complesso edipico. C’è tuttavia dell’altro
nel testo. Per uscire dal circolo vizioso e apprezzarne il rimosso ci si
può affidare al lettore più autorevole, attento e acuto di Agostino: Carlo
Emilio Gadda, che – nella sua recensione del – sembra per qualche
verso anticipare gli attuali studi americani sulla maschilità. Gadda,
utilizzando precocemente strumenti psicoanalitici, distingue nel testo
tre momenti: quello edipico del rapporto madre-figlio, quello solidale-narcissico dell’identificazione con la banda dei coetanei e quello
omoerotico, rappresentato dall’esodattilo Saro. L’interesse di Gadda si
rivolge soprattutto a quella che acutamente chiama «ineluttabile somma di coazioni biopsichiche che caratterizza la cosiddetta età crudele
o età sadica» e cioè alla «monellesca masnada dei ragazzotti e ragazzi
che costituisce, sulla spiaggia di Viareggio, una specie di associazione
primitiva e brutalmente acerba ed esclusivamente maschile».
AGOSTINO, DAMÌN, EMANUELE: UNA CONTROSTORIA CORPORALE
Vi sono infatti due splendide sequenze, vero centro del testo,
dedicate alle «coazioni biopsichiche» della banda maschile: il primo
arrivo di Agostino alla tenda rossa, la «tana», e il bagno notturno e
collettivo al canneto.
La prima sequenza è dominata dal rito virile del fumo delle sigarette, e, come in una scena, si mimano grottescamente seduzioni e
amplessi. L’omosessualità sembra confinata nel gruppo alla sola coppia servo-padrone, formata dall’adulto Saro e dall’adolescente nero
Homs, ma – protetta da negazioni e sghignazzanti motti di spirito –
è presente come primum movens di tutti i rapporti interpersonali della
banda. Ciò risulta evidente soprattutto nel terzo capitolo, nella scena
del bagno al canneto. Agostino, turbato perché per l’uscita in barca
con Saro viene da tutti inscritto nel medesimo campo di sottomissione
e contaminazione omoerotica in cui è confinato Homs, s’introduce
nel canneto melmoso e sdrucciolevole, pieno di ranocchi. Saro stesso
sembra «un enorme batrace abitatore del canneto». Spiati da Saro, nella
non riconosciuta complementarità di voyeurismo ed esibizionismo, i
ragazzi si spogliano: «parevano gioiosi di mettersi nudi e si strappavano
i panni urtandosi e interpellandosi scherzosamente» (p. ). Fanno
«cento lazzi osceni, scosciandosi, dandosi delle spinte, toccandosi, con
un’impudenza e con una sfrenata promiscuità che stupiva Agostino».
Il punto di vista sulla scena è di Agostino: e ai suoi occhi, a differenza
dei corpi sgraziati, squallidi e villosi degli altri ragazzi, il corpo di Sandro risulta gradevole e attraente: «biondo all’inguine come in capo,
grazioso e proporzionato». Tutte le emozioni di Agostino davanti alla
scena potenzialmente orgiastica sono del resto ambivalenti, equamente
e indissolubilmente distribuite fra piacere e ribrezzo: «la sua ripugnanza
non era più forte della torbida attrattiva che lo legava alla banda».
Nel canneto, davanti ad Agostino, si consuma il rito di virilità
che contraddistingue ogni giovane comunità maschile (a gradi diversi,
in collegi, caserme, parrocchie, associazioni sportive) e che si nutre
soprattutto di rimozione. È la forza della rimozione, infatti, a rendere
«età crudele o età sadica» l’adolescenza maschile. La mascolinità viene
così a sostituirsi alla maschilità, alla sua neutrale apertura stratifica
A. DI BIASIO, Studiare il maschile, «Allegoria», , , pp. -. In apertura del
saggio appare un celebre passo di Freud: «Tutti gli individui umani, come risultato della
EMANUELE ZINATO
ta e mista, come un costrutto di un dominio culturale che dipende
da rigide pratiche discorsive e da performances corporee. I leader
di questo implacabile processo di acculturazione, impoverimento e
specializzazione erotica, o di «coazione biopsichica», per dirla ancora
con le parole di Gadda, foucaultiane ante litteram, sono di solito i
soggetti meno pensosi, o più immediatamente “prestanti”:
I ragazzi si confrontavano a vicenda, vantando la loro virilità e la loro prestanza. Il Tortima che era il più vanitoso e al tempo stesso, così nerboruto e
sbilanciato, il più plebeo e squallido, si esaltò al punto da gridare ad Agostino:
“E se io mi presentassi un bel mattino a tua madre... così nudo... lei che direbbe?
Ci verrebbe con me?”. (p. )
Il soggetto maschile si dispone così, una volta e per sempre, a
percepire il femminile come qualcosa di talmente diverso da sé da
predisporlo come preda, come accade negli stupri di gruppo, in cui
i giovani maschi sembrano masturbarsi vicendevolmente mediante
il corpo della vittima.
. Il lanciatore di giavellotto () di Paolo Volponi racconta l’adolescenza di Damìn Possanza a Fossombrone durante il fascismo fino
al . Si configura come Bildungsroman alla rovescia. Damìn, il
protagonista, potrebbe sembrare in tal modo un tipico personaggio
della narrativa del primo Novecento: l’adolescente incapace di integrarsi. Una figura alimentata su scala europea da Le diable au corp
di Radiguet o, ancor più, da Tonio Kröger di Thomas Mann, opere
incentrate sul conflitto irrisolto del giovane con la realtà. Dunque,
all’altezza dei primi anni Ottanta, a rivoluzione sessuale già compiuta,
un personaggio apparentemente controtempo.
I due poli tematici presenti in questo romanzo sono il corpo e la
storia: il disastroso apprendistato sentimentale di Damìn e la prima
acculturazione di massa del fascismo interagiscono reciprocamente
tra loro come in un campo di forze. Il titolo complessivo e i titoli
loro disposizione bisessuale ed eredità mista, combinano in sé caratteristiche sia maschili
che femminili, perciò la pura maschilità e femminilità rimangono costruzioni teoriche
dal contenuto incerto», S. FREUD, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica
tra sessi ().
AGOSTINO, DAMÌN, EMANUELE: UNA CONTROSTORIA CORPORALE
parziali comprendono, non a caso, simboli fallici e sanguinari: Il giavellotto, Il pugnale d’argento, La spada del Ras. E il titolo stesso non
è solo denotativo-enunciativo ma anche connotativo-ermeneutico,
come sembra suggerire un preciso luogo del testo, dove nella palestra
il preside della scuola, grottescamente agghindato da maggiore dei
bersaglieri, si complimenta con Damìn per il record sportivo da questi
conseguito nel lancio del giavellotto:
Primato regionale, forse nazionale. Si aspettano ragguagli e conferme. L’emulazione di Omero, l’empito classico versati nel latin sangue gentile. O acontistés... così in greco è detto il lanciatore di giavellotto. O acontistés, che vuol
dire anche lanciatore di dardi, lanciatore di sguardi, lanciatore di desideri,
...lanciatore di se stesso. (p. )
Il giavellotto del titolo allude dunque al destino del protagonista, al suo voyeurismo ossessivo (sguardi), al costante ricorso alla
masturbazione (desideri), alla modalità del suo suicidio (di se stesso).
Ma rinvia anche, con l’evocazione della lingua greca, a connotazioni
arcaiche situate ben oltre la retorica fascista del preside. Del resto il
tema edipico e incestuoso è, come si sa, da sempre tra quelli dotati
di più ampio spettro antropologico e tragico.
Anche questa vicenda prende le mosse dalla fine di un eden materno. Damìn, a nove anni, è ancora immerso in un rassicurante idillio
domestico incentrato sulle figure della madre e del nonno:
Il centro del mondo che ogni giorno cresceva e si illuminava sempre di più
era la splendida figura del nonno, forte e alto, manovrabile, utile anche per
godere ed esercitare meglio la proprietà della madre. La felicità ricorrente che
lo sosteneva in tutto e per tutto era l’immagine di se stesso attaccato al petto
della madre, con una mano ficcata tra le due mammelle e con l’altra protesa a
cercare di toccare la faccia del nonno: la sua bocca e i suoi baffi. (p. )
Il mondo edenico del ragazzino è destinato a una frantumazione, precoce e dolorosa. Egli, ormai adolescente, intuisce in chiesa la
relazione della madre col gerarca fascista Traiano Marcacci, «l’uomo
dal pugnale d’argento», e arrampicato sul fico, assiste nell’orto allo
«spettacolo vero e immenso della colpa della madre» (p. ) condannando il resto della sua vita a un’ambivalenza irrisolvibile fra vergogna
e attrazione mista a odio per lo stesso vincitore Marcacci, «uomo
bellissimo e conquistatore e persino assassino» (p. ). Costretto alla
EMANUELE ZINATO
coazione a ripetere, scruta infinite volte i rapporti sessuali fra la madre
e il suo amante, e trova rivalsa nell’autoerotismo vissuto come rituale
ossessivo. La fissazione si traduce nell’impossibilità di uscire da se
stesso: la metafora del vaso compare nel testo riferita al corpo di Damìn per raffigurare la sua incapacità di «versarsi» negli altri. Mentre
i suoi coetanei, riuniti in bande, spiano le donne al fiume acquattati
fra le canne o avviano la loro iniziazione sessuale nei bordelli, a lui
non è consentito «mettere in scena un’altra donna qualsiasi che non
fosse sua madre, o qualsiasi altro incontro d’amore che non diventasse
subito quello fra la madre e Marcacci» (p. ).
L’immaginario italiano di massa degli anni Trenta, per la prima
volta segnato da elementi di modernità, è narrato in questo libro con
impareggiabile efficacia: costellano infatti la vita psichica di Damìn
i rotocalchi, la letteratura popolare, i fumetti dell’Avventuroso, Tarzan, la regina Luana, i giochi ginnici, il cinema itinerante, l’esotismo
coloniale, le feste rurali.
I luoghi-chiave dell’apprendistato distruttivo di Damìn sono dunque i giochi ginnici e la festa rurale. Ai giochi regionali, ad Ancona, il
ragazzo è accompagnato in corriera dallo stesso Marcacci. È la prima
volta che parte da solo ma lo fa al comando dell’uomo che aveva gli
aveva «rotto e sottratto la madre e la città», e che ora gli impone
«la guida» e «il giudizio nel primo viaggio verso il mondo». La trasferta sportiva è insomma occasione per una verifica e un confronto
corporeo con il maschio adulto e rivale. Damìn prima vomita, poi
riesce a vincere, a «scagliare il giavellotto rovesciando tutto se stesso,
fino a traboccare d’amaro». Gli altri giovani atleti si assentano per
una rapida baldanzosa visita al casino. Damìn, solo, dolente, vive la
vicinanza fisica del virile gerarca in modi ambivalenti, avverte il suo
odore «forte e confidente», quando alza gli occhi finisce sempre per
cercarlo, sente «vicino il peso di quel corpo che era l’oggetto sconcio
dell’amore di sua madre. Avrebbe voluto vederlo meglio e anche
toccarlo. Addirittura ferirlo». (p. )
L’altra sequenza decisiva, quella della festa rurale, è una delle
pagine di Volponi in cui si fa più evidente la qualità visiva, pittorica
e cinematografica della sua scrittura. Vi domina il punto di vista
allucinato di Damìn, isolato e vulnerato dalla volgarità oscena della
«folla enorme dei ballerini»:
AGOSTINO, DAMÌN, EMANUELE: UNA CONTROSTORIA CORPORALE
le massaie rurali smisero di ballare e si buttarono quasi tutte a terra manovrando
le sottane fino ai mutandoni di quel loro sgargiante costume, recuperato in una
falsa tradizione per l’ostentazione di virtù ormai del tutto scordate. (p. )
L’intero episodio del ballo è intervallato da diverse zoomate sulla
roncola, sotto i chiaroscuri della luce lunare, con effetti di alta drammaticità in un superbo crescendo tragico:
Damìn esplose subito dentro l’arco che lo scuoteva, travolto dalla collera già
pronta: proprio per evitare la scena seguente, immancabile, nota, tante volte
vista e più ancora immaginata, con il corpo della donna nudo sulla terra, sotto
quello del maschio assassino: quello di sua madre sotto le membra nere di Marcacci e adesso quello di sua sorella sotto il pallore di quel libidinoso.(p. )
Una possibile reintegrazione e sopravvivenza di Damìn, prima
che divenga fratricida e suicida, avrebbe potuto darsi nella creazione
artistica. Damìn sembra trovare, nel sedicesimo capitolo, poco prima
della festa crudele, una possibilità di superamento dei propri turbamenti nella conquista delle abilità del disegno, durante il periodo
trascorso presso l’Istituto d’arte di Urbino:
Disegnare gli consentiva di poter guardare ancora intorno a sé, di poter sopportare la realtà e anche di comprenderla e conservarla secondo una tendenza che non
la mettesse subito e aspramente in conflitto con quella sua propria interna.
Il disegno restituiva le cose, i brani della giornata e del paesaggio al suo dominio, a una convinzione di se medesimo, in rapporto con quelle scene e oggetti,
che non fosse subito e tutta dolorosa e che non producesse, con gli inciampi
e le associazioni consueti, motivi nuovi di dolore o comunque la spinta al suo
continuo dilagare. Per questo considerava i suoi disegni autonomi e reali,
consistenti tra le sue mani e sotto i suoi occhi come un cibo da strappare e
da contendere. (p. )
Sarà tuttavia il dolore ad avere la meglio sul suo corpo: e forse
così non sarebbe stato se intorno a lui e dentro di lui non vi fosse stato
il dominio di un inconscio collettivo androcentrico. L’itinerario e il
destino di Damìn nel Lanciatore sembrano in tal modo accostabili,
per l’epoca rappresentata e per la formalizzazione tragica dello stile,
all’apocalisse di Emanuele protagonista del coevo Aracoeli (),
il romanzo terminale di Elsa Morante che narra (in prima persona)
un’analoga perdita dell’eden materno e una non meno feroce de
Cfr. P. BOURDIEU, Il domino maschile, Milano, Feltrinelli, .
EMANUELE ZINATO
generazione dell’eros. Occorrerebbe interrogarsi sulla ricomparsa,
apparentemente tardiva, dell’alterità maschile adolescente e del contesto del fascismo in due grandi romanzi italiani dei primissimi anni
Ottanta: per qualche oscura ragione questo regresso tematico doveva
probabilmente rispondere in quell’epoca, e forse ancora nella nostra, a una profonda necessità cognitiva, diagnostica e psicosociale,
un’interrogazione inerente alla maschilità, misurabile con gli specifici
mezzi della letteratura.
. Aracoeli, il romanzo terminale di Elsa Morante, steso a partire dal
e pubblicato nel , è una lunga rimemorazione da parte del
protagonista della fine tragica del proprio stato fusionale, edenico e
originario. Per Emanuele, come si coglie fin dall’incipit, il piacere e
la bellezza sembrano collocati tutti indietro, all’origine, in un “c’era
una volta” prima dell’abbruttimento:
Dal tempo che ero bello, mi torna all’orecchio una canzoncina speciale delle
sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava
allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso
una mia gemellina in cielo.
Il romanzo narra la personale apocalisse del venir meno delle
nenie di culla e dei baci di saliva materni, l’estinguersi del «tempo
che ero bello» in favore della deformità fisica e affettiva che trionferà
nel tempo degli «infelici amori» degradanti.
Eppure, nel moto di degradazione dell’io narrante, si istituisce
al contempo una ricerca del tempo perduto, privata e collettiva, che
passa per i luoghi di controllo sociale. Come accade, ad esempio, per
gli eventi del collegio religioso piemontese avvenuti in piena guerra
mondiale, quando il protagonista è un dodicenne.
Nel muore la neonata Carina, sorellina di Emanuele, dando
avvio alla degenerazione erotica e poi alla morte della madre Aracoeli.
In seguito allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, Emanuele,
rimasto orfano di madre, è condotto in uno squallido collegio dove
conosce tuttavia «una notte di felicità incantata e innocente, mai
più provata dopo la perdita di Aracoeli» (p. ). Il contesto è quello
dell’universo concentrazionario di specie religiosa: la camerata, fiocamente illuminata da icone sacre, è sorvegliata da un uomo gigantesco,
AGOSTINO, DAMÌN, EMANUELE: UNA CONTROSTORIA CORPORALE
detto l’Aquila per il grande naso, che si cura di evitare che i piccoli
maschi incorrano in “atti impuri”.
Nell’unico dormitorio, dai finestroni schermati, la tenebra era malamente
rischiarata da un lumicino detto eterno, dinanzi all’immagine di un agnello
incoronato d’oro. In fondo al dormitorio, di là da una tenda tirata a metà,
c’era il letto del sorvegliante. [...] E faceva, prima, fra i nostri letti, una ronda
regolare (alla quale, certe notti, potevano seguirne altre) per controllare, a
lume di una pila elettrica, che nessuno di noi tenesse le mani sotto le coperte.
Diceva infatti che patire il freddo era sempre meglio che peccare; e che le mani
sotto le coperte erano una tentazione al peccato. (pp. -)
Una notte, un bambino impaurito e balbuziente si avvicina di
nascosto al letto di Emanuele, e chiede piangendo ospitalità perché abituato a dormire con la madre. Il ritratto di questo ragazzino
(il cui cognome è Pennati) lo colloca subito nella schiera dei bimbetti
creaturali morantiani: «il piccolo globo lanuginoso della sua testa»,
i cigli «straordinariamente lunghi, incurvati in alto» (p. ).
Accogliendo, proteggendo e scaldando nel letto quel bambino,
Emanuele diventa maschio materno:
Qua mi usurpò, lentamente, una suggestione inverosimile: come se davvero io
fossi sua madre. Sentivo fra la gola e il petto, la lanugine della sua testa tonda e
l’esiguo solletico dei suoi cigli inumiditi. Il suo fiatino e i miei respiri scaldavano
insieme la nostra cuccia, e il mio petto, attraverso la camicia, toccava il suo torace di passero, coi battiti fiduciosi del suo cuore. Io da quel corpo pigmeo [...]
ricevevo un senso d’ilarità quieta, e insieme di superba responsabilità. Maternità,
non c’era altro nome per quella mia stranezza. Io ero una madre col proprio figlio
piccolo. Però la nostra appartenenza alla specie umana non era necessaria. Piuttosto, io mi ero trasformato in una animalessa (pecora, mucca, rondine, cagna)
che proteggeva il suo cucciolo dall’orrore della società umana. (pp. -)
L’orrore avrà presto la meglio su quella notte d’incanto. Non solo
perché il sorvegliante del collegio scoprirà, dividerà e punirà i due
piccoli maschi trasgressivi, ma soprattutto perché Emanuele adulto è
destinato a rappresentare la negazione accanita, impietosa, malevola,
della celeste creaturalità, è un Useppe andato a male, la cui deformità
è fissata dallo specchio di un lercio albergo spagnolo: «un nudo come
quelli delle pitture di Bacon».
F. FORTINI, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, , p. .
EMANUELE ZINATO
Nella sua disperata ricerca dell’origine, sarà la voce litaniante
che chiede al fantasma materno una reintegrazione regressiva, un
ritorno al regno delle madri, una fagocitazione perturbante («Ma tu,
mamita, aiutami. Come fanno le gatte con i loro piccoli nati male, tu
rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa»).
Ma, in età puberale, almeno una notte di «perfetta allegrezza»
Emanuele l’ha incontrata, un “miracolo”, sciolto dal passato e dal
futuro, esprimibile grazie alla forma utopica della rappresentazione
letteraria, oltre la tirannia del corpo interpretato attraverso i suoi
significati culturali dominanti, duramente performativi:
La notte, dunque, finiva. E io, per dare una sveglia discreta al mio compagnuccio notturno, spensieratamente gli solleticai l’ascella con le dita. (p. )