ANSIE POLITICHE
I CAPITOLO : COSTITUZIONE
Sartori, offrendo una prospettiva d’insieme sul concetto di Costituzione, lancia una critica contro il
costituzionalismo classico, tendente al purismo giuridico e ad un distacco dalla sostanza politica,
proponendo invece come alternativa un costituzionalismo diretto a ricercare la definizione di Costituzione
nell’equilibrio tra esercizio (formale) del potere e controllo (garantista) dello stesso.
ORIGINE DEL TERMINE
Il termine “costituzione” deriva dal latino “constitutio”, istituire, e il suo uso sostantivato, nel diritto
pubblico romano, indicava gli atti amministrativi.
Il termine, vacante e ormai in disuso per tutto il medioevo, è stato poi “riconcettualizzato” nel XVIII
secolo in base all’esigenza di alcuni contesti politici di formalizzare uno scopo “garantista”, ossia volto
alla garanzia del rispetto dei diritti liberali nella limitazione dei poteri dello Stato centrale.
Il principio formale e garantista della costituzione moderna furono ribaditi negli anni della Rivoluzione
americana e , in seguito, dalla Rivoluzione Francese.
Thomas Paine diceva:”un governo senza una costituzione è potere senza diritto(power without right)
COSTITUZIONALISMO INGLESE
Lo “scopo” della Costituzione è stato tuttavia oscurato dalla tradizione degli studi costituzionali
classici, che si sono concentrati soprattutto sul costituzionalismo inglese di tendenza formalista.
La Costituzione inglese è innanzitutto una forma di espressione del “sistema di libertà britanniche”.
Tuttavia, nonostante i costituzionalisti inglese sottolineino che nella loro costituzione il Parlamento è
legibus solutus, ossia onnipotente in quanto non vincolato da una costituzione scritta e fondato sulla
fusione dei poteri, ciò non è del tutto vero.
Prendiamo ad esempio il principio di onnipotenza del Parlamento: fu teorizzato solo da alcuni autori, e
dobbiamo fare attenzione anche alle circostanze storiche in cui tale principio venne affermato, ancor di
più, al fatto che nella terminologia legale inglese “Parlamento” indica congiuntamente il Re, i Lords e i
Comuni che operano in coordinazione come supremo corpo governante nel regno. L’onnipotenza del
parlamento presuppone che i tre corpi, separati e presumibilmente discordi, si mettano d’accordo, e
risulta dunque presente il principio di limitazione.
Inoltre la costituzione inglese non è del tutto informale, in quanto gran parte dei suoi principi sono
formalizzati da diversi documenti storici ed integrati dalle “Rule of Law”. Una costituzione tutta codificata
in un unico documento è soltanto un mezzo. Ciò che realmente importa è il fine. E lo scopo originario del
costituzionalismo inglese (che non esprime mai esplicitamente questo scopo), americano ed europeo, era
identico: disciplinare la forza ricorrendo al diritto secondo un principio “garantista” (termine mai
importato dalla lingua inglese).
Se in Inghilterra costituzione significava il sistema delle libertà britanniche, gli Europei volevano
esattamente la stessa cosa: un sistema di libertà per ogni individuo garantite dallo Stato, che essi
chiamavano “sistema costituzionale”. I popoli del continente volevano un documento scritto, una carta,
che stabilisse in senso garantista la suprema legge del paese.
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LE DUE ACCEZIONI ODIERNE DI “COSTITUZIONE”
Oggi costituzione è diventato un termine usato in 2 significati del tutto diversi: un significato specifico e
garantista in cui costituzione è un sistema di garanzie delle libertà del cittadino, e un significato
cosmico e formale in cui costituzione è qualsiasi forma che uno Stato si dà.
Dopo l’Assolutismo, con la formazione di grandi Stati accentratori, il termine costituzione andava ad
indicare tecniche atte a controllare, limitando, l’esercizio statuale del potere, mentre l’idea che questo
specifico significato garantistico derivi da un significato preesistente, più largo e non specificato, è un
affermazione sbagliata ingenerata dai moderni traduttori di Aristotele. Il termine, intraducibile, di
Aristotele era politeìa intesa come “configurazione”e/o “struttura” della città, senza considerare ulteriori
accezioni più specifiche e tecniche.
CLASSIFICAZIONE DELLE COSTITUZIONI
Esiste una classificazione per distinguere 3 tipi di “costituzione” a)costituzione reali e garantiste
(costituzione in senso proprio); b)costituzione nominale c)pseudo costituzione
b) e costituzioni nominali in quanto si appropriano del nome “Costituzione” sono ”costituzioni
organizzative”, cioè la raccolta delle regole che organizzano ma non limitano l’esercizio del
potere politico in un determinato Stato; esse descrivono un sistema di potere che è senza
limiti e senza controlli.
c) Le pseudo-costituzioni prendono le sembianze di vere costituzioni. Ciò che le rende pseudocostituzioni è che esse non vengono osservate(almeno in ordine alle loro fondamentali
caratteristiche garantiste). In questa categoria rientra ad esempio la Costituzione sovietica
promulgata da Stalin.
A differenza di quanto molti sostengono, Sartori afferma in modo deciso che questi ultimi due tipi di
Costituzione non hanno alcuno scopo educativo, premettendo che l’educazione non è lo scopo
principale di una Costituzione in senso proprio.
Questa classificazione ci permette così di distinguere anche tra il termine “costituzione”, in
un’accezione formalista, e “governo costituzionale”, in senso garantista.
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II CAPITOLO: DEMOCRAZIA
Il termine indica sia
un insieme d’ideali, sia un sistema politico.
La democrazia non si è mai identificata con una specifica corrente di pensiero: essa è un prodotto di tutto
lo sviluppo della civiltà occidentale. Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, “democrazia” ha
assunto un’accezione troppo generale; per questo scomponiamo il concetto quanto più analiticamente
possibile:
CONTESTI E SIGNIFICATI
1. La democrazia come criterio di legittimità . Democrazia è un principio di legittimità per cui il
potere è legittimo soltanto quando deriva dal popolo e si fonda sul suo consenso.
Ma si basa su due interpretazioni: a)che il consenso del popolo può essere legittimato per
presunzione; b)che non esiste consenso democratico, legittimità democratica, senza che esso
venga verificato mediante procedure ad hoc. E questi punti di vista rinviano al significato del
termine popolo: “popolo” può essere inteso come un singolare o plurale, e soltanto nella sua
accezione di una “pluralità discreta” richiede valide procedure di accertamento.
2. Il contesto normativo/prescrittivo. Da un punto di vista normativo, la definizione dei democrazia
deriva dal significato letterale ”potere del popolo”. Vi sono tre diversi approcci normativi:
• oppositivo!il termine democrazia indica ciò che dovrebbe non essere;
• realistico!indica ciò che potrebbe essere;
• perfezionistico! presenta l’immagine della perfetta società che deve essere.
3. Il contesto descrittivo. La descrizione di ciò che è la democrazia nel mondo reale non fa quasi mai
capo alla nozione di popolo. La maggioranza degli autori descrive in senso procedurale la
democrazia come un sistema basato su partiti competitivi nel quale la maggioranza che è al
governo è scelta tramite un’elezione popolare e rispetta i diritti delle minoranze. Altri invece si
sono concentrati in una definizione più strutturale. La discussione è centrata ad ogni modo sui
concetti di rappresentanza, principio maggioritario, opposizione, competizione, governo
alternativo, controllo, e simili; difficilmente sull’idea di un popolo che si autogoverna.
4. Grado e tipo di democrazia. La democrazia è anche un tipo di sistema politico fra altri, che
possiede determinate proprietà che lo distinguono da altri. A volte i requisiti richiesti sono
talmente minimi da includere anche le dittature nominalmente democratiche, costituenti una
democrazia di tipo iniziale. In altri casi il parametro è più preciso e la democrazia viene qualificata
positivamente dalla esistenza di istituzioni rappresentative e di un governo costituzionale, e
possiamo parlare di una democrazia del tipo medio, o normale. Quando i requisiti sono elevati si
parla di una democrazia del tipo avanzato. Le democrazie di tipo anglo-americano adottano un
metro di misura allargato, per cui ”democrazia” indica anche un modo di vivere, una democrazia
sociale, e siccome queste democrazie attendono una massimizzazione dell’eguaglianza, in tal caso
è lecito parlare di democrazia “piena”.
Il concetto di democrazia è quindi piuttosto relativo, in quanto varia in base ai contesti in cui
concretamente si applica.
5.
Le grandezze. Le relazioni dei piccoli gruppi (faccia a faccia) pongono in questione una micro democrazia. Ma il problema diventa di macro-democrazia ogni volta che una collettività è troppo
vasta o troppo estesa da consentire rapporti faccia a faccia. La micro e macro-democrazia non si
somigliano affatto, e l’una non può rimpiazzare l’altra. Esse sono inversamente correlate: di tanto
cresce la estensione di una democrazia, tanto più rappresentative e meno dirette sono le sue
istituzioni.
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6. Significati secondari.
Tutte queste democrazie sono in conclusione secondarie nel senso che presuppongono una
democrazia politica alla quale rinviano e dalla quale dipendono.
a)Democrazia sociale. Questa dizione non deve essere confusa con quella di “democrazia
socialista” che indica, invece, una politica imposta dallo Stato sulla società. La democrazia sociale
consiste innanzitutto in un ethos e un modo di vivere caratterizzato dall’uguaglianza di status.
b)Democrazia economica. Indica una democrazia la cui politica ha per obiettivo primario la
ridistribuzione della ricchezza e l’uguaglianza economica, ed è chiaro che essa presuppone la
democrazia politica. La democrazia economica ,quindi, costituisce la conquista più avanzata di
una democrazia politica; nella prospettiva marxista invece la democrazia economica sostituisce
quella politica.
c)Democrazia industriale. È la micro-democrazia delle industrie. Nella sua forma compiuta si
esprime nell’autogoverno dei lavoratori della propria fabbrica.
d)Democrazia popolare. la caratteristica di questa teoria è di restare tale, e cioè senza
dimostrabile realizzazione pratica.
DEMOCRAZIA GRECA E DEMOCRAZIA MODERNA
La democrazia greca, in Atene nel IV sec a. C., incarna la massima approssimazione possibile del
significato letterale del termine. Quando il demos si radunava in piazza, il sistema ateniese funzionava
come una “assemblea cittadina” nella quale alcune migliaia di cittadini esprimevano i loro sì e i loro no e
queste decisioni venivano prese per acclamazione. La maggior parte delle cariche pubbliche venivano
sorteggiate e la democrazia greca era davvero una democrazia diretta fondata sull’effettiva
partecipazione dei cittadini al proprio governo.
La democrazia moderna è tutt’altra cosa: non è fondata sulla partecipazione , ma sulla rappresentanza;
presuppone la delega del potere, e quindi è un sistema di controllo e di limitazione del governo.
Le persone che sono governate non sono le stesse persone che governano.
Le nostre società politiche sono ”grandi società”, e tanto maggiore è l’estensione e il numero delle
persone che la compongono, tanto meno effettiva e significativa può essere la loro partecipazione.
UTOPIA DEMOCRATICA
La parola democrazia si è affermata in virtù del suo richiamo utopico; nel mondo moderno “democrazia”
vuol essere prima di tutto una parola normativa che non descrive una cosa ma prescrive un ideale.
A cominciare dalla Rivoluzione Francese ci siamo sempre occupati e preoccupati di quel che doveva
essere.
Democrazia possiede un potenziale energico e utopistico che manca alla parola liberalismo.
Democrazia evoca un ideale estremo dalla chiara ispirazione utopica: esso risponde anche all’entrata in
politica di masse sempre crescenti, per cui l’ideale democratico risultava essere un sogno in grado di
mobilitarle e manipolarle al contempo.
La democrazia , il socialismo e il comunismo sono nati da un atteggiamento prometeico contro corrente.
Nel corso del XIX secolo il termine democrazia veniva usato nei circoli progressisti soprattutto come un
ideale oppositivo: la democrazia è il rovescio dell’assolutismo, la cui funzione è quella di opporre, non di
proporre; poi, una volta sconfitto il nemico, il problema diventa di identificare l’eguaglianza, la giustizia e
la libertà al positivo.
SCISSIONE DEL NORMATIVISMO DEMOCRATICO, NORMATIVISMO REALISTICO E
PERFEZIONISTICO
Al cospetto del cosa fare il normativismo democratico si scinde; o si adatta al mondo reale attraverso un
normativismo realistico, oppure lo scavalca proiettandosi in un perfezionismo futuristico. Entrambi questi
modelli presentano dei limiti, il primo nel cinismo disincantato e la rinuncia agli ideali, il secondo invece
cede all’utopia.
Ma il presente è pieno di aspettative che alimentano un perfezionismo democratico, ed inoltre è un dato
di fatto che, affinché la democrazia si affermi e “riesca” nel mondo reale, occorre adottare un
normativismo realistico.
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LA REALTA’
Il dover essere e l’essere della democrazia sono inestricabilmente connessi. Una democrazia esiste nella
misura in cui i suoi ideali e i suoi valori la traducono in realtà, ossia nel rapporto tra realismo e
perfezionismo.
CONDIZIONI FACILITANTI
La letteratura recente sull’argomento ha ricercato le condizioni della democrazia nello sviluppo
economico. I livelli medi di reddito, d’industrializzazione, di urbanizzazione e di istruzione sono assai più
elevati per i paesi più democratici. Tuttavia sono numerose le eccezioni e non è possibile stabilire se la
democrazia è la causa o l’effetto dello sviluppo economico.
La crescita economica è una condizione per la crescita della democrazia, non per il suo avvento.
Strutture intermedie. Una tesi è seguita da Durkheim, è che la democrazia presuppone un macrosistema
di strutture intermedie costituito da sottosistemi autonomi.
Una macro-democrazia politica è tanto più sicura ed autentica, quanto più riflette e presuppone una
“infrademocrazia”.
Leadership. È una variabile scomoda per 2 rispetti:primo per sua elusività e secondo, per la sua incidenza
perturbatrice sui darti oggettivi; orbene, l’effettività di una democrazia dipende in misura decisiva dalla
efficienza e dalla capacità della sua leadership.
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DITTATURA capitolo III
Sartori innanzitutto distingue tra dittatura e totalitarismo, affermando che il secondo non sarebbe altro
che una manifestazione specifica della prima, tentando di formulare le basi per una teoria generale della
dittatura intesa come una particolare forma di Stato e di governo cui ricondurre una vasta e crescente
fenomenologia politica.
EVOLUZIONE STORICA
Per la ricostruzione storica del concetto di “dittatura” non è possibile seguire un percorso già tracciato, in
quanto sono numerosi i capovolgimenti di senso cui è stato sottoposto il concetto, nonché le forme di
dittatura nella storia che hanno rinunciato a definirsi come tali. L’attribuzione dell’ etichetta “dittatura” è il
più delle volte a discrezione dello studioso.
Tuttavia Sartori prova a ricostruire il processo storico di evoluzione del concetto, diviso in 4 fasi :
a) La dittatura romana del V – III sec. a.C. : un istituto repubblicano per fronteggiare situazioni di
emergenza;
Il dittatore per antonomasia al quale implicitamente facciamo riferimento parlando dell’istituto
repubblicano romano, è il dittatore fornito della pienezza dei poteri civili e militari: veniva nominato dai
consoli, o dai tribuni su richiesta del Senato, e spesso, di fatto, su sua designazione. Pur essendo dotato
di imperium maximum, il suo esercizio del potere subiva diverse limitazioni: non poteva abrogare ma al
massimo sospendere gli organi e le funzioni ordinarie dello Stato, e dunque l’esercizio del comando
militare ne costituiva l’aspetto più importante. Inoltre il dittatore militare non poteva durare in carica
oltre i 6 mesi.
Questa limitazione cronologica, insieme alla progressiva trasformazione in senso democratico del sistema,
portarono alla sparizione dell’istituto.
b) La fase degenerativa dell’istituto romano: il settimo consolato di Mario, la dittatura di Silla e
la dittatura di Cesare;
l’istituto romano fu abbandonata nel III sec., il nome ricompare nel I sec. con Silla e successivamente con
Cesare. La stessa dizione della dittatura di Silla rivela che essa sovvertiva lo scopo e la natura
dell’istituto. Lo stesso vale per Cesare: col rendere praticamente illimitata la durata della sua dittatura,
egli toglieva all’istituto quella garanzia e limitazione che gli era essenziale.
c) La fase di latenza che si apre dal momento in cui l’istituto romano venne formalmente
soppresso fino a quando fu riabilitato nel secolo XX;
d) Le dittature del secolo XX, e per esse i nuovi significati del termine.
Tanto la lunga eclissi quanto la recente riesumazione di “dittatura” possono essere spiegate se si tiene
presente che tutta l’elaborazione della teoria politica dell’Occidente è avvenuta prevalentemente all’ombra
del principio monarchico. Ora, il monarca o il principe poteva essere tiranno, non dittatore, perché il
termine dittatore godeva nei secoli delle monarchie di un’accezione esclusivamente storica e avalutativa.
Il termine dittatura ridiventa popolare nel XX sec., e in particolare dopo la guerra del 1914, per connotare
negativamente una degenerazione del sistema repubblicano (non più monarchico).
Nell’uso comune è diventato difficile distinguere tra dittatore, despota e tiranno. Questo non vuol dire che
convenga usare questi termini come sinonimi.
DITTATURA E TIRANNIDE
La dittatura romana era un organo straordinario, mentre la tirannide greca e poi rinascimentale era una
forma di governo. La prima era una sovranità legittima il cui esercizio non era tirannico; la seconda si
riconduceva a una difetto di un titolo o a un esercizio tirannico del potere, o a entrambi.
Tuttavia oggi la differenza sostanziale sembra ridursi a questa: che tirannide ha un sapore antiquato,
laddove dittatura è il termine moderno; che il primo vocabolo si applica anche alle monarchie, il secondo
solo alle repubbliche; e che mentre il termine tirannide designa un modo di esercitare il potere, dittatura
si riferisce piuttosto alla natura di quest’ultimo.
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DITTATURA E DISPOTISMO
In merito alla nozione di dispotismo basti notare che essa fu coniata dai greci per i “barbari”, e quindi per
dire “dispotismo orientale”, dizione sopravvissuta, con le opportune distinzioni del caso, fino ai giorni
nostri.
DITTATURA E ASSOLUTISMO
Il concetto di potestas assoluta, e cioè , di potere sciolto da limitazioni o vincoli, non poteva acquistare un
significato difettivo, fintantoché l’evoluzione del costituzionalismo non avesse indicato una soluzione
istituzionale atta a sottomettere il sovrano alle leggi.
Il caso del vocabolo dittatura è simile. E’ solo dopo un’adeguata esperienza di “governo consentito” che si
avverte che la voce dictare è atta a contraddistinguere un sistema non consentito. E cioè, occorre questa
contrapposizione perché dictare possa qualificare una forma di governo a sé stante.
Ciò premesso, come distinguere oggi dittatura e assolutismo?
Il termine assolutismo mantiene soltanto il significato di un potere sciolto da vincoli, esente da limiti.
E’ evidente che la nozione di assolutismo confluisce senza difficoltà in quella di dittatura: un esercizio
assoluto del potere è una caratteristica del potere dittatoriale. Per questo rispetto la dittatura può essere
definita la forma repubblicana dell’assolutismo.
LA DITTATURA DEL PROLETARIATO
È stato il marxismo a darle importanza e a diffondere la formula di una dittatura di classe o partito,
coltivando così l’idea di una dittatura il cui soggetto sarebbe una collettività (un’idea rimasta ferma nell’
universo delle utopie).
Quando Marx invece l’adoperò per la prima volta il termine dittatura non designava una forma di stato,
piuttosto una fase di transizione in cui lo Stato andava smantellato. Marx ha usato il termine dittatura in
modo del tutto generico e semplicemente per alludere all’uso della forza, in particolare da parte del
proletariato, nel contesto rivoluzionario.
La dittatura del proletariato non poteva che essere provvisoria, per Marx, esattamente per la stessa
ragione per la quale una rivoluzione non può essere eterna: o riesce o non riesce, ma in entrambi i casi
ad un certo momento si esaurisce; per Marx, la condizione essenziale di una dittatura del proletariato è
che lo Stato venga meno.
DEFINIZIONE DI DITTATURA COME FORMA DI STATO
Posto che per dittatura si intenda, oggi, una forma di stato o quantomeno di governo, il problema è di
individuarne le caratteristiche differenzianti le altre forme di governo.
Il metodo più semplice per caratterizzare la dittatura come forma di stato e di governo è quello di
ricorrere a definizioni al contrario. In questa prospettiva la dittatura viene caratterizzata come:
a) governo non democratico; b) governo non costituzionale; c) governo di forza o di violenza.
Si consideri, per cominciare, che dittatura è il contrario di democrazia, tuttavia non ne segue che ogni
sistema non-democratico sia un sistema dittatoriale: infatti una situazione non democratica costituisce
una condizione necessaria, ma non sufficiente per qualificare una dittatura.
Venendo alla seconda antitesi, la dittatura è un governo non-costituzionale in 2 sensi: a) che infrange
l’ordine costituzionale nel momento in cui si impadronisce del potere; b) che il dittatore esercita un
potere non disciplinato e frenato da limiti costituzionali.
Resta la terza caratterizzazione, quella che associa dittatura e violenza. Infatti la forza è una
caratteristica saliente dei sistemi dittatoriali, anche se le dittature non sono necessariamente sistemi in
cui non c’è legge. Piuttosto sono sistemi in cui è il dittatore a dettare legge.
PERSONALIZZAZIONE DEL POTERE
La dittatura è allora sempre e soltanto governo di uno solo? Le dittature sono sempre state espressione di
un potere accentrato che si riconduce, il più delle volte, al potere personale e discrezionale di una sola
persona. Quel che si discute è se questa caratteristica debba essere resa dalla dizione “potere personale”,
o da quella di “accentramento di poteri in un solo organo”. Organo che può essere costituito tanto da una
persona singola, quanto da un corpo collegiale o da un’assemblea. Un organo inoltre, presuppone delle
regole giuridiche. Cosicché parlare del dittatore come di un “organo” equivale a pensare che il dittatore
sia sottomesso all’ufficio o assorbito nell’organo.
Il dittatore non è un organo, o una “persona giuridica”: è in primis una persona fisica. Il che ci riporta alla
osservazione che la personalizzazione del potere è la caratteristica principale di un sistema dittatoriale.
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DITTATURA E SUCCESSIONE
Ogni nuovo regime è tale in quanto viola in qualche modo l’ordine giuridico preesistente. Ma non è
sempre vero che le dittature sono da caratterizzare come sistemi fondati su una acquisizione violenta,
illegittima, o non consentita, del potere.
Tuttavia. Le dittature manifestano una incapacità a sottomettersi a norme attese a disciplinare la
successione al potere. E questa incapacità di “regolarizzare” la propria perpetuazione è un elemento così
tipico, e così costante, delle esperienze dittatoriali, da costituire il marchio distintivo della fattispecie.
Per questo le dittature si possono definire sistemi a durata discontinua, nei quali nessun principio di
successione viene ritenuto vincolante dai successori, e nei quali quindi, non esiste nessuna garanzia di
continuità.
TIPOLOGIE
Conviene distinguere le varie tipologie di dittatura per:
1. INTENSITA’
In ordine alla loro intensità, cioè al loro rispettivo grado di estensione e penetrazione costrittiva. A questa
dicotomia Neumann suggerisce di sostituire la tripartizione tra:
a) dittatura semplice, dove il potere dittatoriale è esercitato tramite l’esercito, la polizia, la burocrazia
e la magistratura;
b) dittatura cesarica, dove il potere dittatoriale si fonda anche sull’appoggio delle masse;
c) dittatura totalitaria, dove al monopolio degli strumenti coercitivi ordinari e alla fascinazione delle
masse si aggiunge il controllo dell’educazione, di tutti i canali di comunicazione.
2. FINALITA’
In ordine alla loro finalità si distingue tra :
a) dittature rivoluzionarie;
b) dittature d’ordine, o paternaliste, o reazionarie, o conservatrici-restauratrici.
3. ORIGINE
In ordine all’origine, cioè alla diversa estrazione professionale del potere dei regimi dittatoriali, si può
distinguere tra:
a) dittature politiche, in cui il personale proviene da una frazione della classe politica;
b) dittature militari;
c) dittature burocratiche o di apparato.
4. IDEOLOGIA
Infine, in ordine al criterio ideologico si deve distinguere tra:
a) dittature che non hanno fondamento o dinamismo ideologico;
b) dittature a contenuto ideologico, che possono essere ulteriormente divise tra un’intensità
ideologica massima e una minima.
Durverger ha proposto di recente una ulteriore distinzione tra dittatura sociologica e dittatura
tecnica. Le dittature “sociologiche” sarebbero quelle giustificate, cioè dittature necessarie, fondate su
esigenze economico-sociali; mentre le dittature “tecniche” sarebbero quelle sprovviste di giustificazione,
e quindi dittature parassitarie.
PROVVISORIETA’ DELLE DITTATURE
Le dittature non sono regimi a durata illimitata, le dittature sono fatte per essere provvisorie. La critica
democratica dei sistemi dittatoriali li dichiara transitori perché mancanti di autentiche fondamenta, e
perché c’è qualcosa di sbagliato nel loro stesso meccanismo di governo. Per contro, i difensori delle
soluzioni dittatoriali fanno un altro discorso: che la dittatura è transitoria perché è una forma di
governo “eccezionale” strettamente collegata a una situazione di emergenza, all’espletamento di una
missione.
Ma su quali basi si può sostenere che le dittature sono forme di governo transitorie?
Una prima ipotesi si fonda sulla premessa che le dittature sono, per definizione, regimi “straordinari” e
“eccezionali”. Che la dittatura sia una forma di governo straordinaria o eccezionale, presuppone che si
intenda per eccezionalità una condizione di eccezione rispetto a un sistema di principi che si concepiscono
normali e necessari, ma una eccezionalità così definita non autorizza previsioni di brevità.
Possiamo poi parlare della concezione costituente della dittatura. Posto che le dittature sono assimilabili a
un potere costituente, e dato che un potere costituente è inevitabilmente seguito da un potere costituito,
ne consegue che una dittatura non può durare.
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EGUAGLIANZA capitolo IV
Sartori scompone il concetto di uguaglianza secondo una progressione storica in 4 voci:
a) eguaglianza giuridico-politica;
è l’eguaglianza sancita da leggi eguali per tutti, dal riconoscimento di eguali diritti e doveri.
b) eguaglianza sociale;
rappresenta l’eguaglianza di “status”, e cioè tutti hanno diritto a essere trattati, nei rapporti sociali, come
eguali.
c) eguaglianza di opportunità;
L’eguaglianza di opportunità consiste di due accezioni.
In una prima accezione eguale opportunità sta per eguale accesso, cioè per eguale riconoscimento in
base alle capacità e quindi al merito.
In una seconda accezione sta per eguali partenze, cioè per eguali condizioni iniziali. Ma essere uguali
nelle opportunità di partenza richiede già un eguagliamento di condizioni materiali.
Dunque, eguagliare nelle opportunità di partenza implica eguali posizioni di partenza materiali (che non
possono non essere anche economiche).
d) eguaglianza economica.
L’uguaglianza economica non procede per gradi, bensì va da un eguagliamento minimo attraverso la
ridistribuzione, ad un eguagliamento massimo attraverso la collettivizzazione forzata.
CRITERI DI EGUAGLIAMENTO
Nella realtà non esiste mai uno stato di uguaglianza totale.
L’uguaglianza, nella realtà concreta, deve sempre essere parametrata a determinate caratteristiche degli
individui.
Gli esseri umani differiscono tra loro per tantissime categorie, ma anche quando non specifichiamo,
riflettiamo soltanto su poche differenze: quelle che vengono percepite, in determinati momenti storici
come rilevanti, evidentemente ingiuste e, implicitamente rimediabili.
Ma supponiamo che una determinata differenza in una determinata caratteristica venga percepita come
ingiusta e rimediabile. Come procediamo per eliminarla? Dipende dai criteri di egualizzazione:
1) criterio di uguaglianza assoluta (lo stesso a tutti) cioè parti eguali a tutti;
2) criterio di uguaglianza proporzionale (lo stesso agli stessi) cioè parti eguali agli eguali, e
diseguali ai diseguali, secondo i sottocriteri seguenti:
2a) eguaglianza proporzionale
2b) parti diseguali alle differenze rilevanti;
2c) a ciascuno in ragione del merito;
2d) a ciascuno in ragione del bisogno.
Il criterio 1 non assume parti eguali a tutti in tutti i campi; ne il criterio 2 assegna tutto in parti eguali agli
eguali.
Il criterio 1 è il principio dello Stato di diritto e dei sistemi giuridici caratterizzati da leggi generali e da
eguaglianza nei confronti della legge. Qui “a tutti” non ammette nemmeno un’eccezione. ( il che
costituisce allo stesso tempo un pregio e un difetto del criterio 1).
Il criterio 2 è i criterio dell’ “eguaglianza proporzionale”. Il suo vantaggio, e allo stesso tempo il suo
tallone d’Achille, stanno nella sua flessibilità, che consente di rendere giustizia a chi ne ha più bisogno.
EGUALE TRATTAMENTO / EGUALE ESITO
Vi sono 2 modi del tutto diversi di concepire l’eguaglianza: o come eguale trattamento, e cioè un
trattamento che sia identico per tutti e imparziale tra tutti; o come eguale esito, e cioè l’arrivare a
risultati, a stati finali, che siano stati d’eguaglianza.
La massima richiesta egualitaria non è “tutti sono da trattare egualmente in tutto”, ma “tutti sono resi (in
esito) eguali in tutto”.
Il sottinteso di eguali trattamenti è che gli esseri umani devono essere trattati egualmente nonostante
siano diversi; mentre il sottinteso di eguali esiti è che gli esseri umani non dovrebbero essere diversi.
Il paradosso è questo: per essere eguagliati (nei risultati), bisogna essere trattati inegualmente.
Una volta stabilito che alcuni gruppi sono svantaggiati rispetto ad altri nelle caratteristiche x,y,z, per
eliminare la disuguaglianza in questione, gli sfavoriti devono essere privilegiati e viceversa.
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Ma se ogni eguaglianza viene conseguita generando altre disuguaglianze, e se questo sviluppo diventa
generalmente avvertito, allora stiamo imboccando un circolo vizioso.
Come massimizzare?
L’uguaglianza è un principio che non cresce seguendo una logica additiva. Il problema è se le singole
eguaglianze stiano tra loro, coppia per coppia, in un rapporto di esclusione o di contraddizione reciproca.
Nell’insieme, le eguaglianze non “fanno armonia”.
Dal fatto che la massimizzazione dell’eguaglianza non si ottiene per somma, discende la conseguenza che
non esiste un’eguaglianza totale, che assume in sé tutte le eguaglianze minori.
La massimizzazione dell’eguaglianza consiste, quindi, in un effettivo controbilanciamento di
diseguaglianze.
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Capitolo 5: Ideologia.
CONTESTI
Il termine ideologia ci pone diverse questioni.
Di fondo va fatta una distinzione tra ideologia del sapere e ideologia politica che ci porta a determinate
domande.
-Ideologia nel sapere, concerne un problema di verità. In quale misura il conoscere è
ideologicamente condizionato o distorto? In questo caso vi è un dibattito epistemologico.
In questo contesto il termine ideologia sta per dottrina ideologica
-Ideologia in politica, determina un problema di efficacia. L’ideologia è parte integrante della
politica? In questo caso invece vi sarà un’analisi funzionale.
In questo contesto il termine ideologia sta per mentalità ideologica (ideologismo).
Vi sono comunque problemi che toccano sia l’ideologia nel sapere che in politica (per esempio discutere di
liberalismo, socialismo o nazionalismo la discussione sarà contemporaneamente di verità e di efficacia).
Sartori descrive l’ideologia premettendone tre caratteri:
1) Storica: La parola ideologia serve a cogliere in una dimensione storica lo sviluppo moderno e
contemporaneo della politica.
2) Falsificabile: Il termine ideologia è falsificabile o comunque non utilizzabile in modo empirico.
Dobbiamo così definirlo a contrario, ovvero stabilire cosa non è ideologia contrapponendo la
politica ideologica a quella pragmatica (non ideologica).
3) Univoca: Alla parola ideologia corrisponderà un unico significato.
Premesso ciò..
Il rapporto tra ideologia e credenza spiega la struttura (come crediamo) e la funzione (perché crediamo)
dell’ideologismo.
IDEOLOGIA COME STRUTTURA DI CREDENZE POLITICHE:
L’ideologia è una articolazione specifica del sistema di credenze, ossia il sistema di orientamento
simbolico che si trova in ognuno di noi, che appartiene alle credenze di matrice politica. Il sistema di
credenze politiche è l’insieme di credenze che orientano il singolo nella politica, e l’ideologia ne costituisce
una struttura specifica.
Non tutti i sistemi di credenze politici dunque sono ideologici.
Vi sono 2 visioni:
1) Ideologismo e pragmatismo sono entrambe possibili strutture di credenza.
2) Le credenze non sono l’elemento discriminante dell’ideologia, in quanto sono presenti anche
nel pragmatismo.
L’elemento che distingue l’ideologia dalla pragmatica è nella struttura, non nell’elemento di composizione
(la credenza).
La credenza si differenzia da opinione e idea, in quanto le opinioni investono un livello superficiale di
adesione mentre le idee vanno pensate ed elaborate.
Le credenze invece sono credute e quindi date per scontate, radicate nel subconscio. Queste inoltre sono
concatenate in un sistema coeso ma non organizzato logicamente.
DIMENSIONE COGNITIVA
Secondo Rokeach , la differenza tra ideologia e pragmatica è da ricercare nelle “autorità cognitive” ovvero
da come ogni individuo si rapporta alle autorità che decidono cos’è vero e cos’è falso. Egli distingue poi la
mente chiusa dalla mente aperta.
Mente chiusa: Stato cognitivo in cui la persona ha un sistema di credenze chiuso, e non saprà valutare
le informazioni valutate. Si affida ad un’autorità assoluta e non è in grado di prendere decisioni.
Questo concetto si ricollega alla mentalità ideologica in quanto dogmatico e rigido.
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DOTTRINARISMO E SCHEMA CULTURALE RAZIONALISTA
Per spiegare il dottrinarismo (s.m. Il seguire rigidamente i principi di una dottrina) dobbiamo coinvolgere
l’ideologia come cultura, focalizzandoci sui modelli culturali che presiedono alla codificazione e percezione
dei messaggi. L’ideologismo è affine al modello culturale del razionalismo, soprattutto per la preminenza
conferita al processo deduttivo, la priorità della teoria sulla pratica e sull’evidenza empirica, ed infine per
la convinzione che i fini prevalgono sui mezzi. Diversamente il pragmatismo proviene da una radice
empirista.
In sintesi l’ideologismo è sia un approccio rigido e dogmatico che una modalità dottrinaria di percepire la
politica secondo dei “principi”.
UNO SCHEMA DI ANALISI
Le credenze variano lungo la dimensione cognitiva (chiuse e aperte) e lungo la dimensione emotiva (alta
o minima intensità o passione).
La differenza tra dimensione cognitiva ed emotiva produce due differenti concezioni di ideologia:
1) ideologismo (forma mentale)
2) passione ideologica (forte attivismo politico)
Per misurare il grado di effettività di una ideologia, ossia il grado con cui essa condiziona le azioni degli
attori sociali e li mobilità verso un determinato scopo, bisogna considerare la combinazione tra i due stati
di forma mentali (aperta-chiusa) e i due di passione ideologica (forte-debole), da cui risultano quattro tipi
diversi di sistemi di credenza (catafratti, inelastici, saldi, flessibili), due tipici del sistema ideologico, due
di quello pragmatico.
Gli elementi di un sistema di credenze possono essere ricchi o poveri, a seconda che siano articolati e
organizzati in un sistema coerente ed esplicitato (Secondo Dhal la ricchezza di un sistema di credenze
deriva dall’ impegno e l’ interesse politico dell’individuo e dall’ educazione formale ricevuta; fortemente
costrittivi (connessi in maniera quasi logica) o debolmente costrittivi (sintassi idiosincratica);
stratificati, ossia differenziati in base al pubblico che li assorbe.
I sistemi di credenze vengono diffusi in pacchetti che vengono accettati in modo acritico e solo un
cittadino attento può comprendere la catena degli eventi, quindi un sistema povero è etero costretto
mentre un sistema ricco è auto costrittivo. Il sistema auto costrittivo è in grado di manipolare il pubblico
di massa. E’ probabile che la massa abbia un sistema di credenze latente e che, quindi, le distinzioni sono
applicate dalle élite.
Alcuni elementi possono essere condivisi (elementi comuni) o al contrario possono distinguersi (elementi
distintivi). Quegli elementi che contano sono quelli centrali. I conflitti politici dipendono da come e quali
elementi distintivi vi sono tra paesi opposti; gli elementi di credenza comune saranno aree di consenso.
Se gli elementi centrali sono chiusi ci sarà una controversia ideologica se sono aperti una
controversia pragmatica.
Per quanto riguarda gli elementi condivisi, se essi sono chiusi e appassionatamente sentiti ci sarà una
coesione ideologica, al contrario ci sarà un consenso pragmatico.
La situazione si complica se un sistema è ideologico e l’altro pragmatico, in quanto chi non è
sensibilizzato all’ideologismo non sente i conflitti con la potenza di un ideologista e ne risulterà un dialogo
tra sordi.
Più un sistema è astratto, più sarà manipolabile. Il potere dei sistemi di credenze aumenta con l’ideologia
e decresce con il pragmatismo. Le ideologie sono sistemi di credenza etero coercitivi ovvero il mezzo delle
élite per manipolare le masse.
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Capitolo 6: Liberalismo
PERDITA’ DI IDENTITA’
“Liberalismo” è un concetto evanescente, che nella storia degli ultimi due secoli è stato sottoposto a
numerosi esperimenti concettuali che hanno dato vita ad altrettante numerose progenie.
Il proposito di Sartori è ricostruire l’identità storica, ormai quasi del tutto smarrita, di tale concetto.
“LIBERALISMO PURO”
Il Liberalismo “puro” è definito da Sartori come un “connubio di teoria e prassi della protezione
giuridica della libertà individuale attraverso lo Stato costituzionale”. Il concetto di libertà
sottinteso da questa definizione coinvolge esclusivamente una libertà esterna o politica, che ha poco a
che fare con la libertà dello spirito e del pensiero, ed è strettamente connessa alla funzione dello Stato
costituzionale in senso garantista.
LIBERALISMO E LIBERISMO
Sartori poi traccia una distinzione tra due concetti spesso ritenuti complementari: liberalismo e
liberismo.
Il rapporto tra i due è sempre mutevole e condizionato dalla realtà storica, ed esistono tanti casi
intermedi in cui i due concetti, nella prassi, entrano in relazione. Per comprendere meglio la natura di
questo rapporto Sartori analizza il caso limite dell’economia comunista.
Innanzitutto smentisce il presupposto per cui il liberalismo altro non sarebbe che una sovrastruttura
ideologica del liberismo economico e della legge del mercato. Infatti il liberalismo, dall’epoca romana fino
alla fine del secolo XVIII, si sviluppa in un contesto in cui il concetto di proprietà non indica
un’accumulazione di beni in vista di un successivo profitto (secondo il concetto di proprietà capitalista),
ma inerisce in modo esclusivo ad un’economia di sussistenza, dove ciò che è posseduto serve solo ad
aumentare le opportunità di vita, e non necessariamente a migliorarle.
In secondo luogo, il liberalismo non può esistere nelle società comuniste non tanto per l’assenza del
mercato, ma piuttosto per l’accentramento del potere nello Stato, che non ha nulla di Costituzionale nel
senso garantista del termine. Se ne ricava che le strutture di mercato altro non sono che
infrastrutture del liberalismo in quanto luoghi di diffusione del potere economico.
LA PROGENIE DEL LIBERALISMO, LA LIBERAL-DEMOCRAZIA
Il liberalismo ha smarrito la propria identità lungo la storia confondendosi con altri termini derivati, che
Sartori indica con il termine “progenie del liberalismo”. La chimera che più si è diffusa nel secolo XX è
stata “liberal-democrazia”. L’invenzione di questo termine risponde alla tendenza di “novitismo” ossia
la costante ricerca degli uomini di nuovi ideali che possano soppiantare e sostituire quelli vecchi. Infatti
“liberalismo”, nel contesto delle democrazie liberali europee del tardo Novecento, aveva ormai vinto, si
era definitivamente stabilito nella prassi consueta, e dunque aveva perso la sua carica ideologica di
novità. Sartori sottolinea la distinzione logica e teleologica tra liberalismo e democrazia:
• Liberalismo segue una logica verticale, esaltando le libertà individuali e proponendo la
limitazione dei poteri dello Stato. Questo concetto si concentra dunque soprattutto sulla forma
che lo Stato deve assumere.
• Democrazie segue una logica orizzontale, concentrandosi sull’eguaglianza della società intera
e l’inserimento del popolo nello Stato. Di conseguenza, la democrazia è più attenta al contenuto
delle norme promulgate dallo Stato, piuttosto che alla sua forma.
Sartori poi precisa che la libertà dl liberalismo gode in ogni caso di una precedenza procedurale
sull’uguaglianza promossa dalla democrazia. Questo perché i cittadini possono anche essere ritenuti
uguali dalle leggi, ma ciò non implica che non siano sottomessi ad un’autorità centrale dispotica e
arbitraria.
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LIMITE ED ETERNA VALIDITA’ DEL LIBERALISMO PURO
Il limite del liberalismo “puro”, in sede storica, si è dimostrato essere soprattutto la sua circoscrivibilità al
solo contesto delle libertà politiche (e così è possibile anche spiegare perché il concetto abbia subito tante
trasformazioni e ibridazioni). Tuttavia riconoscendo questo limite è possibile affermarne anche l’ eterna
validità, essendo il liberalismo l’unica dottrina, teoria o sistema politico che ha realmente funzionato e
rispettato le aspettative nella sua applicazione empirica.
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MERCATO capitolo VII
Sartori afferma che gli unici due sistemi economici effettivamente esistenti siano il sistema di mercato e
di non-mercato, rifiutando qualsiasi categoria intermedia.
MERCATO COME SOTTO-SISTEMA ECONOMICO
Sartori passa dunque a definire il concetto stesso di “mercato”. Questo sarebbe un sotto-sistema del
sistema economico, e più in particolare un sottosistema che appartiene al settore produttivo,
ossia il settore in cui si producono beni (e non necessariamente servizi) da poi rivendere ad un insieme di
consumatori. Questa definizione così precisa e circoscritta non ammette dunque la validità di presunti
sistemi economici misti o impuri, in quanto coloro che utilizzano tali categorie il più delle volte
considerano il mercato come un sistema a sé stante e non come un sottosistema autonomo.
MECCANISMO DI MERCATO E ORDINE SPONTANEO
Il meccanismo di mercato consiste nello stabilire prezzi e costi dei beni economici, e per spiegare il
funzionamento di questo meccanismo Sartori cita il concetto di ordine così come teorizzato da Hayek.
L’ordine è inteso come un sistema in cui le attività degli uomini sono coordinate e adattate l’un l’altra, ed
inoltre ne esistono di due tipi:
1. L’ordine organizzato, in cui le relazioni tra la parti sono prestabilite secondo un piano
preimpostato.
2. L’ ordine spontaneo, entro cui emerge la volontà individuale, la quale plasma un nuovo tipo di
ordine, risultato delle azioni spontanee individuali, che si auto-organizza.
Il mercato, in tal senso, è un ordine spontaneo che “ordina” spontaneamente gli scambi tra gli uomini,
secondo delle leggi di funzionamento intrinseche che partono dal rapporto tra domanda e offerta.
Il mercato come ordine spontaneo possiede dunque tre caratteristiche:
1. Non ha bisogno di amministratori, costituendo un meccanismo auto-regolantesi con le proprie
regole.
2. E’ flessibile.
3. E’ un ordine libero, la cui libertà consiste nelle potenzialità che offre a coloro che decidono di
parteciparvi, in particolare attraverso una libertà di scelta e di scambio.
IL MERCATO COME MENTE INVISIBILE
Il mercato è infine definito da Sartori come una “mente invisibile”, in quanto presenta un basso costo
conoscitivo, per cui le sue regole fondamentali sono facilmente accessibili anche a coloro che non hanno
competenze tecniche, e soprattutto minimizza il costo informativo, poiché produce, autentica o
falsifica le informazioni che riceve con facili segnali di feedback.
IL CAPITALE
Sartori inquadra il “capitale” come una ricchezza per investimento, e non per uso come alcuni
studiosi affermano, volta dunque all’accumulazione e al profitto come condizioni necessarie per la crescita
economica. Il nuovo concetto di capitale come ricchezza per investimento è difatti legata alla rivoluzione
industriale, o rivoluzione della macchina, in cui la tecnologia divenne da un lato una risorsa per
aumentare la produttività sostituendo il lavoro umano, ma sull’altro versante questa comportò dei nuovi
costi per l’imprenditore, che fu così costretto a reinvestire e ad accumulare il plus-valore (non retribuito
sotto forma di valore-lavoro) per la manutenzione o l’acquisto di nuovi macchinari. L’accumulazione del
capitale è, a partire dal secolo XIX, la condizione sine qua non della crescita economica e del benessere
relativo ad essa.
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PARADOSSO DEL MERCATO E LA CRUDELTA’ COLLETTIVISTA
Sartori parla di “paradosso del mercato” riferendosi alla condizione per cui il mercato segue principi
implicitamente collettivisti, forzando l’individuo nel suo meccanismo coercitivo e nelle sue dinamiche
interne, e privilegiando il bene collettivo dei consumatori. Sartori definisce questa caratteristica una
“crudeltà collettivista”
Il mercato diventa allora “individuo-indifferente”, mentre la teoria marxista di converso diventa
individuo-sirvente, in quanto le teorie del valore-lavoro e del plus-valore di Marx rivendicano i soprusi
che i singoli individui devono subire dalle logiche di mercato, svalutandone però allo stesso tempo i
benefici per la collettività nel suo insieme.
Il criterio seguito dal mercato nel distribuire benefici alla collettività è di un’ eguaglianza
proporzionale, che ridistribuisce con criterio meritocratico i profitti soltanto a coloro che si sono
dimostrati più abili a sfruttare la struttura del mercato, la quale consiste nel principio della
concorrenza , le cui potenzialità concorrenziali persistono anche in stato di alta o sotto-competizione
(es: i monopoli).
Sartori infine sovverte il senso comune affermando che lo Stato capitalista per eccellenza è lo Stato
pianificatore e collettivista. Questo sistema politico, infatti, accentra il possesso e dunque la gestione ed il
controllo del capitale sottraendolo alla proprietà privata. Una pianificazione totale di mercato nella storia
non ha mai conseguito i risultati sperati, in quanto la pianificazione manca della funzione fondamentale
del mercato, che consiste nella regolazione del costo dei beni, il cui calcolo è privo di una base economica
solida e si presta facilmente all’arbitrio dell’autorità e a varie inefficienze burocratiche.
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OPINIONE PUBBLICA capitolo VIII
La dizione “opinione pubblica” risale ai decenni che precedono la Rivoluzione Francese del 1789.
La coincidenza non è fortuita. Non si tratta solo del fatto che gli illuministi si assegnavano il compito di
“diffondere i lumi” e pertanto, implicitamente, di formare le opinioni di un pubblico più ampio; ma anche
che la Rivoluzione francese preparava una democrazia in grande, che a sua volta presupponeva e
generava un pubblico che genera opinioni.
Una opinione viene detta pubblica non solo perché è del pubblico, ma anche perché investe oggetti o
materie che sono di natura pubblica: l’interesse generale, il bene comune, e, in sostanza, la res pubblica.
DEFINIZIONE DI OPINIONE PUBBLICA
Un’ opinione è da intendersi alla stregua di uno stato mentale.
Un’opinione viene detta “pubblica”, dunque, quando se ne predicano congiuntamente due caratteristiche:
la diffusione nei pubblici (soggetto), e il riferimento alla cosa pubblica (oggetto).
Quindi, “pubblica opinione” può essere definita così: un pubblico, o una molteplicità di pubblici, le
cui opinioni (stati mentali diffusi in cui si mescolano bisogni, desideri, valori e atteggiamenti)
interagiscono con flussi di informazione sullo stato della cosa pubblica.
Il risultato di questo incrocio tra opinione ed informazione, che, si badi, non implica la conoscenza,
genera un’opinione pubblica, che può variare di grado e i cui fattori di crescita sono molti e contraddittori.
PUBBLICA OPINIONE E DEMOCRAZIA
Il nesso costitutivo tra pubblica opinione e democrazia è di evidente: la prima è il fondamento sostantivo
e operativo della seconda: l’opinione pubblica è appunto il contenuto attraverso cui opera la sovranità
popolare.
Da questa considerazione discendono due definizioni della democrazia: che la democrazia è “governo di
opinione”, che richiede l’opinione pubblica, e che la democrazia è “governo consentito”, governo
fondato sul consenso e sostenuto dalla pubblica opinione.
I concetti di opinione pubblica e di consenso non solo si richiamano l’un l’altro, ma sono combacianti in
quanto descrivono entrambi degli stati diffusi.
Nell’ambito della democrazia rappresentativa eleggente, sottolinea Sartori, l’unico requisito richiesto
all’ opinione pubblica è il principio di autonomia e indipendenza, in quanto l’elezione chiede di esprimere
la propria preferenza per chi dovrà scegliere, e quindi si demanda la decisione delle singole issues a
soggetti terzi.
Diversamente, una democrazia diretta partecipante non si accontenta della sola partecipazione
elettorale, ma chiama i cittadini ad esprimere una scelta, non più un semplice voto.
La differenza sostanziale tra democrazia eleggente e partecipante è dunque l’istituto del referendum.
Il nodo da sciogliere tuttavia è sulla qualità dell’opinione pubblica. A differenza della democrazia
rappresentativa, la democrazia diretta, per un concreto attuarsi, richiede che l’informazione dell’opinione
pubblica debba trasformarsi in vera e propria conoscenza, e qualsiasi richiesta di superamento dell’
istituto della rappresentanza deve porsi questo problema, per certi versi irrisolvibile.
PUBBLICA OPINIONE AUTONOMA ED ETERONOMA
La pubblica opinione che fa da architrave alla democrazia è un’opinione autonoma “nel” e “del” pubblico.
Questa tuttavia è stata messa in crisi, dalla propaganda totalitaria e anche dalla nuova tecnologia delle
comunicazioni di massa. Un’ opinione pubblica autonoma può quindi, attraverso adeguati strumenti,
essere resa eteronoma. In entrambi i casi è un’opinione che si colloca materialmente nel pubblico, ma l’
opinione eteronoma risulta essere la contraffazione e la negazione di una opinione autonoma.
FONTI E PROCESSI DI FORMAZIONE DELL’OPINIONE PUBBLICA
Le opinioni attingono da due fonti: da messaggi informanti , ma anche da identificazioni.
Nel primo contesto ci imbattiamo in opinioni che interagiscono con informazioni, nel contesto di gruppi di
riferimento è facile imbattersi, invece, in “opinioni” precostituite senza informazione.
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L’opinione pubblica “al negativo” è quella che resiste ai flussi informativi recanti messaggi informativi,
ancorandosi invece alle identificazioni con i gruppi di riferimento. La versione “al positivo invece denota
la disposizione ad accogliere i flussi informativi e lasciarli interagire con le proprie opinioni.
Le opinioni sono il frutto di processi di formazione.
Una prima raffigurazione dei processi di opinione è il bubble- up, che rappresenta la formazione della
pubblica opinione come un ribollire delle opinioni del corpo sociale verso l’alto.
A questa immagine Deutsch contrappone il cascade model, un processo discendente “a cascata” i cui
salti sono intervallati da vasche nelle quali le acque si rimescolano ogni volta. Questo modello dimostra
analiticamente come esistano, nei processi di formazione dell’opinione pubblica, influenzanti e
influenzati, e che alle origini delle opinioni diffuse ci sono sempre piccoli nuclei di individui.
Nel modello di Deutsch i livelli o serbatoi della cascata sono 5: in alto sta la vasca nella quale circolano le
idee delle elitès economiche e sociali, seguita da quella nella quale si incontrano e scontrano le elitès
politiche e di governo. Il terzo livello è costituito dalla rete delle comunicazioni di massa, e in buona
sostanza dal personale che trasmette e diffonde i messaggi. Un quarto livello è dato dai leader d’opinione
a livello locale. Infine, il tutto confluisce nel demos, nel serbatoio dei pubblici di massa.
Ad ogni livello ricomincia un ciclo completo di circolazione delle opinioni che rimescola tutto; infatti
nessuno dei livelli è monolitico e solidale, per cui in ogni serbatoio ci sono voci contrastanti e dialettiche
orizzontali tra i suoi membri (la classe politica esemplifica bene queste caratteristiche).
Inoltre, per quanto l’andamento di una cascata sia discendente, tuttavia Deutsch sottolinea la continua
presenza di feedbacks, di retroazioni di salita, analoghe al modello del bubble-up.
Il fatto è che Deutsch elabora il suo modello in riferimento alla politica estera, un settore che interessa ad
ogni modo un pubblico di nicchia. Ma se in sede di affari esteri il cascade model può riassorbire il bubbleup , il caso è diverso quando passiamo a considerare settori e problemi che toccano il pubblico da vicino.
Qui il fenomeno di un’opinione pubblica che autenticamente emerge e si impone dal basso, non si impone
affatto come una sottospecie dell’andamento a cascata.
Resta da mettere a fuoco il ruolo e la collocazione, ai vari livelli della cascata, degli intellettuali in senso
lato: per ragioni quantitative, il fermento dell’intelletto si distribuisce a tutti i livelli, sia pure in piccoli
nuclei di élites intellettuali, più o meno massificate.
CONDIZIONI DELL’ AUTONOMIA DELL’OPINIONE PUBBLICA
I processi di formazione dell’opinione che abbiamo descritto si applicano soltanto alle liberaldemocrazie, e
questo perché un’opinione che sia autenticamente del pubblico presuppone i principi della libertà di
pensiero, libertà di espressione e libertà di organizzazione.
La struttura delle organizzazioni di massa che caratterizza le liberaldemocrazie è una struttura di tipo
policentrico, anche se il grado di policentrismo varia di paese in paese.
Quindi, per essere sufficiente il policentrismo dei media deve essere un policentrismo equilibrato e non
necessariamente egualitario, il cui unico requisito è che non ci sia una sola voce predominante e
soverchiante le altre.
ETERONOMIA DELLA OPINIONE PUBBLICA NEI TOTALITARISMI
Nel mondo contemporaneo, resta un nutrito gruppo di paesi ad alta tecnologia di comunicazioni, che non
soddisfa le condizioni del policentrismo ed è, invece, a struttura unicentrica.
L’eteronomia dell’opinione si manifesta dunque in modo emblematico nel caso opposto alla democrazia: le
dittature totalitarie. Il totalitarismo si caratterizza principalmente nell’invasione totale della “sfera privata”
del cittadino. In queste condizioni egli è esposto a una propaganda ossessiva e indottrinante che
impedisce l’accertamento del vero; l’opinione “nel” e “del” pubblico democratica è soppiantata ad
un’opinione esclusivamente “nel” pubblico.
Ciò premesso, cerchiamo di cogliere più da vicino la differenza che passa tra l’opinione del pubblico che
caratterizza le democrazie, e l’opinione nel pubblico che troviamo nei totalitarismi.
L’informazione nei sistemi democratici tende a rispettare un criterio di verità, mentre nei sistemi
totalitari l’informazione è del tutto orientata a supportare la causa, e a mobilitare per essa i cittadini.
Così un flusso di informazioni si capovolge nel suo opposto, in un flusso di disinformazione e
mistificazione.
Potremmo dire allora, che la cascata con retroazioni di Deutsch si trasforma in una cascata di paura senza
alcuna retroazione né tantomeno rimescolamento intermedio.
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STRUTTURA, COMPONENTI E GRADO DI INFORMAZIONE DELL’ OPINIONE
L’opinione pubblica non è un singolo insieme unitario, piuttosto è l’insieme di opinioni di molti ed
eterogenei pubblici. I molti pubblici emergono quando la distribuzione delle opinioni circa un determinato
problema più complesso e controverso è bimodale o plurimodale.
Converse, studiando i comportamenti elettorali, si concentra sulle modalità con cui le opinioni,
interagendo con il flusso di informazioni, interagiscono tra loro formando un sistema di credenze (più
aperto e incline ad accogliere informazioni contrastanti) oppure delle ideologie (caratterizzate da una
chiusura più marcata, ma allo stesso tempo da una maggiore stabilità e convinzione delle opinioni)
Tuttavia, esaminando i dati che risultano dalle inchieste sondaggistiche, il grado di informazione generale
della popolazione, e quindi dell’opinione pubblica, risulta statisticamente molto scarso (se non nullo)
anche sui temi più sensibili.
PROPAGANDA E PUBBLICITA’
Nonostante spesso siano confuse, la propaganda e la pubblicità hanno due identità ben distinte.
Innanzitutto la propaganda, a differenza della semplice pubblicità commerciale, è sospinta da una fede in
ciò che sta proponendo. E’ dunque conseguenziale che la manipolazione propagandistica aumenti con
l’aumentare della polarizzazione ideologica del paese in questione.
Inoltre la propaganda, proprio per la sua radice ideologica, agisce innanzitutto nei luoghi privilegiati della
socializzazione, come la scuola, i libri di testo e gli addetti alla trasmissione del sapere. Non è poi da
trascurare che la propaganda politica gode di un margine di inganno maggiore rispetto alla pubblicità,
in quanto le menzogne proposte non possono essere facilmente smascherabili dal pubblico, oltre ad avere
una portata più ampia rispetto al semplice consumo di beni.
OPINIONE PUBBLICA E COMPORTAMENTI DI VOTO
Per capire davvero il comportamento di voto rispetto alle opinioni occorre una sequenza di tipo
causale.
1) preferenze di issue;
2) percezioni di issue;
3) voto per il partito “vicino” in soluzioni di issue.
Questa sequenza si dà quando una o due questioni acquistano una particolare visibilità e spaccano
un’opinione pubblica.
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PARLAMENTO capitolo IX
Sartori studia l’ istituzione del parlamento secondo due fattori: la sua composizione e la sua
funzione.
COMPOSIZIONE
Sartori concentra la propria attenzione innanzitutto sul fenomeno, relativamente recente, della
professionalizzazione della politica. Oggigiorno la maggioranza dei politici che affollano lo
scenario sono perlopiù appartenenti alla categoria di politici semi-professionisti, in quanto non
provengono primariamente dalla carriera partitica e continuano parallelamente a svolgere una
professione privata extra-parlamentare. Tuttavia nel Parlamento italiano, registra Sartori, c’è un
ampio e crescente processo di professionalizzazione, che può essere inteso in due accezioni
diverse: innanzitutto in un’accezione positiva, il termine ha una valenza funzionale e denota
l’acquisizione graduale di competenze mirate e specialistiche alla materia politica;
diversamente, in un’accezione negativa, professionismo in senso stretto indica un vero e proprio
mestiere politico che non ne presuppone nessun altro.
PROFESSIONALIZZAZIONE FUNZIONALE
L’acquisizione di competenze attraverso lo svolgimento della professione politica inerisce tanto
il come, relativamente alle cariche di governo e alle mansioni negoziali, strategiche ed
operative che tale ruolo prevede, tanto il cosa, che invece fa riferimento soprattutto alla
funzione deliberativa del Parlamento.
I criteri individuati da Sartori per misurare l’esigenza della specializzazione in un sistema
politico sono principalmente due: il criterio di assegnazione e i tempi di permanenza dei
singoli parlamentari all’interno delle commissioni legislative. Nel caso italiano, fa notare il
politologo, la svalutazione del ruolo dei ministeri, attraverso il fenomeno ad esempio del
“massacro dei ministeri”, e delle commissioni parlamentari, denota l’emergere sempre più
evidente di un professionismo politico di sussistenza causato dall’assenza di professioni
alternative.
PROFESSIONALIZZAZIONE IN SENSO STRETTO E PARTITOCRAZIA
La professionalizzazione di mestiere è spiegata dalla necessità di porzioni sempre più ampie
della classe politica di ottenere una sistemazione economica che, per quanto legata ad un ruolo
precario e responsabile, sostituisca una professione fuori dal parlamento.
Gli effetti di questo fenomeno sono riscontrati da Sartori innanzitutto nel tradimento del
principio di rappresentanza e in uno spiccato e malcelato opportunismo. Inoltre non è da
ignorare la forte dipendenza che, in dinamiche del genere, si sviluppa tra il singolo
parlamentare ed il partito, in funzione di un’eventuale rielezione o risistemazione che supplisca
l’incarico politico. I capi di partito, in questa situazione, occupano una posizione dirigenziale nei
confronti dei funzionari di partito.
Conseguenza del fenomeno di dipendenza partitica, Sartori mette a fuoco la questione della
partitocrazia, ossia un sistema di potere intra-parlamentare in cui il partito esercita una forte
pressione sul suo gruppo parlamentare. Più nel dettaglio, questo potere consiste nel sostituire la
rappresentanza civile, ossia che proviene da un legittimazione consensuale del popolo, ad una
rappresentanza burocratica e di apparato.
La prima manifestazione della partitocrazia si registra in sede elettorale: qui il partito esercita il
proprio potere scegliendo le candidature e ordinando le liste di preferenza, e dal semplice
condizionamento si passa ad una vera e propria subordinazione dei funzionari. Ad ogni modo la
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piena realizzazione della partitocrazia avviene solo nel momento in cui ai vertici del partito si
stabilisce una efficiente leadership, come è avvenuto nel caso italiano durante la transizione
dalla prima alla seconda Repubblica.
La misurazione del potere partitocratico può avvenire attraverso l’analisi della composizione del
personale parlamentare in base ai criteri del curriculum e della estrazione partitica e sindacale.
FUNZIONE
Il Parlamento, afferma Sartori, è da considerarsi come un sistema di ruoli, codificati ed
istituzionalizzati in una rete di aspettative reciproche. Tuttavia egli mette in luce la
progressiva perdita di senso che ha subito nell’ultimo secolo la funzione dell’istituzione
parlamentare.
La ricostruzione di questo processo degenerativo avviene in sede storica, ed in particolare nella
storia di formazione delle assemblee legislative.
L’istituto moderno del Parlamento nasce in Inghilterra tra la fine del XVII° secolo e l’inizio del
XIX°. I caratteri del Parlamento inglese di quei secoli, diviso in Camera dei Comuni e Camera dei
Lord, è innanzitutto rappresentativo, seppur in modo virtuale, in quanto non si tratta di una
rappresentanza elettiva, ma ugualmente orientata a difendere gli interessi di una o più
collettività rispetto al potere centrale. Il Parlamento infatti è fin da subito una controparte ed
un interlocutore privilegiato del sovrano.
Il Parlamento rispetta il fondamento di ciò che Sartori definisce “governo della legge”, ossia si
costituisce come un organo esterno allo Stato (il sovrano) e che esercita una funzione di
controllo sul potere legislativo del monarca. Questo potere non consisteva nella facoltà di
formulare e emanare leggi, creando il diritto, ma in una valutazione ed un giudizio razionale
sulle norme prima della relativa approvazione. Parallelamente il diritto era rinnovato e
codificato da giuristi qualificati a partire dall’impianto preesistente del diritto romano e degli
usi e consuetudini.
Gradualmente il Parlamento cominciò nei secoli a trasformarsi in un organo interno allo Stato,
fino all’introduzione del principio del “King in the Parliament”, per cui il Re entrava in
Parlamento e avveniva una coordinazione dei poteri tra gli organi in cui il Re eseguiva e il
Parlamento votava e approvava.
Arrivati a questo punto dell’evoluzione, avviene uno slittamento funzionale del Parlamento.
L’assemblea legislativa, a partire dalla fine del XIX° secolo, si apre al suffragio universale ed
annulla l’antica distinzione tra diritto e politica, per cui la legislazione diventa una prerogativa
della politica e non è più dunque richiesta l’intermediazione del personale giurisperito. Nel
“governo dei legislatori” il controllo non avviene più valutando la norma, ma intervenendo su di
essa, snaturandola. La funzione legislativa di controllo soppianta il controllo della
legislazione. Il Parlamento delle democrazie occidentali si confonde sempre più con il Governo,
fino a non distinguere il controllo legislativo dal controllo politico.
Tale stato di confusione di ruoli legittima la nascita di un sottosistema partitico e della
partitocrazia come surrogato della divisione dei poteri. Il sistema politico che sopravvive su
questa visione delle funzioni dei propri organi, afferma Sartori, svuota di senso lo Stato di diritto
garantista, che non può più delimitare il confine tra coloro che amministrano ed i loro
controllori.
RUOLO DEL PARLAMENTARE
Ma per quale motivo, si domanda Sartori, la classe politica italiana attuale non prende atto di
questa disfunzione legata ai ruoli politici? Purtroppo la scarsa lungimiranza di cui sono accusati i
politici non è del tutto una loro colpa. Il ruolo del parlamentare è afflitto da un male invisibile,
che Sartori identifica nel surménage cronico della classe politica. Questa condizione consiste in
un sovraccarico psicologico ed intellettuale a causa dell’elevata dispersione delle attività extraparlamentari cui gli stessi politici sono chiamati a rispondere. L’attività ipertrofica e spasmodica
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dell’occupazione parlamentare implica infatti un’ assenza di tempo da dedicare alla riflessione
sui temi, le issues, parlamentari. Dunque si assiste ad un progressivo fenomeno di estenuazione
dei membri della classe politica, che spiega anche il motivo per cui l’attuale e malato sistema
politico prosegua ormai solo per inerzia e consuetudine.
POLITICA capitolo X
Sartori evidenzia la profonda crisi d’identità che oggi vive la parola “politica”, in quanto non se
ne coglie più il reale significato.
EVOLUZIONE TERMINOLOGICA
Per quasi due millenni la parola politica è caduta in disuso, tuttavia si è sempre pensato a
“questioni politiche”, ossia al problema del dominio dell’uomo sull’uomo.
A partire dall’ antica Grecia, fino al Rinascimento, il termine politica si è sviluppato sempre
nell’ambito etico-politico. Rispetto alla terminologia impiegata oggi, l’animale politico e
l’animale sociale aristotelici non sono parti di una diade, ma si escludono reciprocamente nella
misura in cui l’uno intende l’altro.
Inoltre in passato “politica” non ha mai un’accezione verticale, ossia incentrata su un ordine al
di sopra della collettività dei cittadini, piuttosto possiede un’accezione orizzontale e sempre
parallela al concetto di collettività. Fino a Macchiavelli, dunque, l’idea di “politica” non
possiede alcuna autonomia.
AUTONOMIA DELLA POLITICA
Le tesi con cui la politica afferma la propria autonomia sono quattro: la diversità, intesa come
condizione necessaria ma non sufficiente di autonomia, l’ indipendenza, per cui la politica
segue le proprie leggi, l’ autosufficienza, che collima con l’idea di autarchia della politica, e la
causalità, ossia la politica è causa prima, causa di sé stessa e di altri fenomeni correlati.
DIVERSITA’ DELLA POLITICA
Il primo a sottolineare la diversità della politica da altri ambiti è Machiavelli, e lo fa riferendosi
in particolare al rapporto con la religione e la morale. Queste due dimensioni infatti, sono meri
strumenti della politica, la quale se ne può servire a proprio piacimento. Inoltre, sempre
secondo l’intellettuale fiorentino, la politica segue le sue leggi interne, secondo un principio di
autosufficienza.
La diversità da un altro concetto con cui tradizionalmente la politica è stata confusa, la società,
è da riscontrare nell’ emancipazione storica di quest’ultimo termine. Inizialmente “società”
inteso come corpo autonomo fu concettualizzato nella teoria dei contrattualisti, ed in
particolare da Locke, in cui la società non era altro che il polo contraente il patto con l’ autorità
dello Stato. Tuttavia questa definizione riduce ancora la società a finzione giuridica, mentre
furono i liberisti del XVIII° secolo a descrivere una realtà sociale autonoma, svincolata dalle
leggi dello Stato e operante secondo delle leggi interne. Si tratta pur sempre di una società di
stampo economico, ma risulta in pieno assimilabile ad un società pura nel senso moderno.
L’ultima tappa di questa emancipazione avviene nel XIX° secolo con Auguste Comte, padre della
disciplina sociologica, il quale rivendica il primato degli studi sulla società su tutte le altre
discipline. Il presupposto di tale rivendicazione è la convinzione della supremazia della
dimensione sociale su ogni aspetto della vita umana, incluso il sistema politico.
DEFINIZIONE DELLA POLITICA
Sartori tenta di definire la politica a partire dal “comportamento politico” . Questo non può
essere spiegato attraverso un’analisi delle sue motivazioni (in quanto sono molteplici i moventi
che spingono il comportamento cosiddetto politico) ma sulla base del contesto entro cui tale
comportamento si svolge.
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Il contesto dell’ agire politico è il sistema politico. Per sistema politico non si intende solo una
struttura verticale che agisce al di sopra della collettività, piuttosto questo concetto ha una
forte ubiquità: esso si muove sia sul piano verticale che su quello orizzontale. Infatti, spiega
Sartori, con la massificazione della politica avvenuta nel XX° secolo, il sistema politico si apre
alle masse e dunque ad una pluralità di collettività e poliarchie eterogenee che svolgono il ruolo
di attori politici. Le decisioni politiche diventano così decisioni collettivizzate sovrane che si
caratterizzano per l’ estensività territoriale ed il potere coercitivo (basato sul monopolio
dell’uso legale della forza).
Inoltre, l’ubiquità determina tre tesi di collocazione della politica come oggetto disciplinare: l’
eteronomia, l’ autonomia e la diluzione.
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RAPPRESENTANZA cap.XI
TEORIA DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA COME RESPONSABILITA’
Sartori distingue la teoria della rappresentanza a seconda che questo concetto faccia
riferimento a tra tipi diversi di idea: l’idea di mandato, in senso giuridico-legale, l’idea di
rappresentatività, di matrice sociologica, ed infine, l’idea di responsabilità, che risulta essere
la più adatta per descrivere una rappresentanza politica vera e propria. Quest’ultima, pur
godendo di una certa autonomia, è strettamente connessa con le altre visioni dello stesso
concetto.
RAPPRESENTANZA ED ELEZIONE
In tal senso, l’istituto dell’ elezione svolge una funzione fondamentale: il suo compito è
garantire e controllare la rappresentanza politica, in assenza di una funzione di revoca
immediata, tipica invece del mandato. L’elezione è così il ponte che collega i rappresentati con i
rappresentanti. Nella rappresentanza elettiva, unica forma concreta e realizzabile nello Stato
moderno, l’elezione deve ad ogni modo possedere un significato ed esprimere un’ intenzione
rappresentativa da parte degli elettori, in modo che questi esercitino una aspettativa
vincolante nei confronti dei rappresentanti scelti.
STORIA DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA
Il concetto moderno di rappresentanza politica si consolida durante la Rivoluzione francese. I
costituenti del 1790 infatti, oltre ad affermare il principio garantista attraverso il rifiuto del
mandato imperativo che regolava il potere monarchico dell’ Ancien Régime, sancirono il
principio della sovranità della nazione. L’idea di nazione produce così una unificazione di
volontà nella volontà nazionale, intesa come una volontà collettiva che unisce in un corpo
unico la volontà dei rappresentati e dei rappresentanti, non più distinti in base al vincolo della
rappresentanza legale del mandato.
GOVERNO RESPONSABILE
Nel momento in cui l’ Assemblea rappresentativa diventa un organo interno dello Stato, il
Parlamento diventa l’espressione della volontà nazionale, e al suo interno si gioca il delicato
equilibrio che attraversa tutti i sistemi di rappresentanza moderni: quello tra una
rappresentanza orientata ad una responsabilità personale e dipendente, in cui il
rappresentante deve rispondere di un potere che gli è stato affidato da un corpo elettivo, ed
un’altra incentrata su una responsabilità funzionale ed indipendente, che invece fa
riferimento ad un ruolo più autonomo del corpo dei rappresentanti nell’agire in vista di un bene
comune e per questo funzionale alla ragione di Stato. In termini di un “governo responsabile”,
la distinzione tra rappresentanza personale e funzionale si traduce nella distinzione tra un
governo ricettivo, che rappresenta rispecchiando i rappresentati, ed un governo effettivo, il
cui scopo è governare.
Sartori ricorda a tal proposito che un governo funzionale è anche un governo che presenta un
margine di indipendenza più ampio nelle sue scelte e tende maggiormente all’efficienza,
tuttavia persiste ancora la condizione, inevitabile, per cui, in determinate circostanze, un
Parlamento è chiamato a scegliere tra queste due opzioni, senza soluzioni di compromesso.
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FATTISPECIE DI RAPPRESENTANZA
I sistemi rappresentativi esistenti oggi appartengono a due fattispecie specifiche che fanno
riferimento a due esperienze storico-politiche: la fattispecie inglese e la fattispecie francese.
La fattispecie inglese funziona attraverso un sistema elettorale a collegio uninominale che
favorisce la produzione di un sistema bipartitico ed un governo improntato all’ imperativo della
funzionalità.
La fattispecie francese, invece, adotta un sistema elettorale proporzionale che facilita il
multipartitismo ed un governo ricettivo.
Confrontando questi due sistemi opposti notiamo che la minore rappresentatività del sistema
inglese è compensata da una maggiore chiarezza nel riconoscimento della responsabilità
politica, la quale risulta facilmente imputabile al partito che governa.
PROBLEMI DI RAPPRESENTANZA
La rappresentanza è un concetto che oggi porta alla luce diverse problematiche.
Il primo problema inerente alla rappresentanza concerne la scala. Infatti, con la massificazione
della politica, l’aumento dell’elettorato e la correlativa estensione del suffragio, insieme con la
crescente complessità ed estensione dello Stato contemporaneo, la rappresentanza ha
progressivamente visto ridursi la sua effettività. Tuttavia, se consideriamo il meccanismo della
rappresentanza in senso tecnico come un dispositivo garantista di limitazione del potere
sovrano, allora ne riconosciamo ugualmente l’utilità.
Tuttavia questo ragionamento non risolve un’ altra questione, relativa alla rappresentanza
individualistica e incentrata sull’ identità del soggetto votante. Innanzitutto bisogna chiarire
che il voto può esprimere le opinioni di un individuo, quanto l’essere, in termini di
appartenenza comunitaria, o la sua volontà. La prima interpretazione, l’unica che possieda
un’accezione individualistica, è inapplicabile alla scala dei sistemi politici e di rappresentanza
moderni. Le restanti invece sono chiaramente tendenti ad una visione collettivistica della
rappresentanza, e risultano molto più applicabili alla politica contemporanea.
Poiché tutti i sistemi elettorali oggi adottano un criterio di ripartizione territoriale dei seggi,
bisogna concentrarsi sul cosa venga rappresentato in funzione dei territori. Se l’intenzione di
voto è spiegata dualisticamente in base agli ideali o al puro interesse, il principio della
rappresentanza dovrebbe scoraggiare la seconda modalità, ed il criterio più utile a questo scopo,
cioè che funziona da maggiore deterrente per un voto egoistico, è quello della divisione
territoriale. In sintesi possiamo affermare che nel Parlamento sono rappresentati, in diverse
proporzioni e combinazioni, interessi multiformi e provenienti da gruppi, comunità e
appartenenze diverse, il cui unico criterio di selezione è la forza con cui si impongono
nell’agenda politica.
Le modalità con cui si svolge la rappresentanza, il “come”, dipende innanzitutto dal modo con
cui viene costruita l’infrastruttura politica e soprattutto il rapporto tra sistema elettorale e
sistema partitico , ed in secondo luogo dal quello che Sartori definisce “stile di
rappresentanza”, ossia gli orientamenti e i comportamenti dei rappresentanti in base alla
concezione che essi hanno del loro ruolo.
Ad ogni modo, nelle democrazie moderne, i cittadini sono sempre rappresentati mediante e dai
partiti. Questa constatazione così basilare pone la problematica del ruolo dei partiti, da un lato
mediatori della rappresentanza, dall’altro esecutori di questa. Nei sistemi partitici moderni, in
particolare quelli più strutturati, spesso i funzionari di partito devono rispondere a quello che
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Duverger chiama “doppio mandato”, ossia la divisione della responsabilità da una parte verso
l’elettorato e dall’altra verso il partito che gestisce le nomine dei funzionari.
SOCIETA’ LIBERA cap. XIII
DEFINIZIONE DI SOCIETA’ LIBERA
Sartori definisce la società libera come una società, in termini di un insieme strutturato di
gruppi e organizzazioni, capace di svolgere un’ autoregolazione. In altre parole si tratta di una
società che possiede meccanismi endogeni di retroazione (feedbacks) per risolvere
conflittualità e disfunzioni interne, seppur è doveroso notare che la società libera è un sistema
nel cui interno esiste un equilibrio dinamico, per cui le trasformazioni avvengono sempre
attraverso riequilibramenti tra forze controbilancianti. Nel momento in cui emerge una forza
soverchiante su tutte le altre, tale equilibrio si rompe e la società perde così il suo status di
libertà. Ad ogni modo Sartori specifica che un assetto costituzionale non è necessariamente
indicatore privilegiato di libertà, ma piuttosto è necessario che questo presenti una struttura in
cui le forze si bilancino reciprocamente, una situazione che si riassume nella formula libera
società in libero Stato.
ISTITUZIONI DELLA SOCIETA’ LIBERA
All’interno della società libera (in un libero Stato) assume una funzione capitale il ruolo di
istituzioni quali i partiti ed i sindacati. I primi sono convenzionalmente lo strumento principale
per aggregare e collegare la domanda politica della società allo Stato (secondo un principio di
rappresentanza). I sindacati invece sono stati tradizionalmente intesi come un attore più
economico che politico-istituzionale. Tuttavia questa esclusione non ha ragion d’essere nelle
democrazie odierne, in cui lo Stato politico diventa sempre più uno Stato industriale e prende
parte attiva nei conflitti economici. La conseguenza è che i sindacati, nello svolgimento della
loro funzione di rappresentare gli interessi dei lavorati, interagiscono sempre più con lo Stato
politico. Se ne ricava che la distinzione tra partiti e sindacati è di tipo funzionale: i partiti
“aggregano”, mentre i sindacati “articolano” gli interessi, in altri termini i partiti sono i
portavoce dell’interesse generale, mentre i sindacati di interessi più legati alla sfera economica.
Sartori prende successivamente in considerazione il caso italiano, denunciando la confusione di
ruolo tra partiti e sindacati, e classificando questa tendenza come una degenerazione del
sistema che non fa altro che esasperarne la conflittualità.
Nelle moderne società post-industriali, afferma Sartori, il potere del sindacato è
temporaneamente il più forte, in quanto il suo potenziale di ricatto nei confronti dello Stato è
maggiore rispetto a quello dei partiti, visto e considerato soprattutto il superiore potenziale di
organizzazione e mobilitazione che le organizzazioni sindacali possiedono nelle società
industriali. Nelle società post-industriali, tuttavia, il potere che Sartori definisce potere del
lavoro è concentrato nelle mani di coloro che controllano la tecnologia e i servizi ad essa legati.
In sintesi, il potere del lavoro non coincide con il sindacalismo.
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CRISI DELLA SOCIETA’ LIBERA NELLA SOCIETA’ POST-INDUSTRIALE
Sartori riconosce poi che le società libere delle democrazie-liberali sono ovunque in estrema
difficoltà. Questa è da ricondurre a tre motivazioni principali: la prima è il crescente ed invasivo
intervento di misure di razionalizzazione e programmazione da parte dell’ amministrazione
pubblica; la seconda è il sovraccarico di domanda di cui soffrono gli apparati decisionali, e la
relativa incapacità di conversione in azioni concrete; il terzo è la tecnologia, la quale, creando
un vincolo di interdipendenze nella società, ne aumenta di conseguenza la vulnerabilità. Su
questo terzo aspetto si concentra la riflessione di Sartori sulle società squilibrate moderne.
Il politologo innanzitutto chiarisce il concetto di società post-industriale. Questo tipo di società
si caratterizza in primis per la progressiva centralizzazione dei conflitti, in cui il conflitto
economico è difficilmente separabile dal conflitto politico e viceversa. Sull’altro versante la
società post-industriale è soprattutto una società di servizi, non solo perché il settore
economico dei servizi ha soppiantato quello manifatturiero, ma anche perché è una società che
si regge sull’insieme dei servizi, e dunque sui beni immateriali, che produce e allo stesso tempo
consuma. La sua sopravvivenza è strettamente legata all’erogazione di tali servizi. L’uomo
diventa così totalmente sostituito nelle sue funzioni di comando da automi ed elaboratori, ed
inoltre, nota Sartori, c’è una costante moltiplicazione di centri di comando nevralgici, regolati
da elaboratori complessi, la cui distruzione è tanto (potenzialmente) facile, quanto distruttiva
negli esiti. A tal proposito Sartori, nell’individuare la causa principale di squilibrio nelle società
odierne, parla specificamente di progressione esponenziale della esagerazione del danno,
ossia una sproporzione tra la facilità con cui infliggere danno e la massimizzazione del suo costo.
TECNICHE DECISIONALI Capitolo XIV
DECISIONI COLLETTIVE
Molte decisioni possono essere di gruppo, collettive, o collettivizzate.
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Una decisione di gruppo presuppone un gruppo concreto di individui che interagiscono faccia a
faccia e che sono significativamente partecipi delle decisioni che vanno a prendere.
Una decisione collettiva rinvia ad un insieme più esteso del gruppo e impossibilitato ad agire
come un gruppo concreto. La collettività in questione può essere l’insieme dei cittadini di uno
Stato, o una collettività più piccola, territoriale o di altra natura. Una decisione collettivizzata
è, infine, una decisione sottratta alla competenza di ciascun individuo nel senso che chi decide,
decide “per altri” e, al limite, per tutti, senza necessariamente che il gruppo collettivo di
destinazione prenda parte alla decisione.
Le decisioni individuali, di gruppo e collettive, sono decisioni qualificate dai rispettivi titolari.
Per contro, le decisioni collettivizzate sono qualificate dalla loro destinazione.
Per esempio, le decisioni di natura politica sono tipicamente decisioni collettivizzate, e per
essere tali devono presentare le seguenti caratteristiche:
1. di essere sovrane, prevalenti rispetto a tutte le (eventuali) altre;
2. di valere erga omnes (nei confronti di chiunque), investendo, al limite, l’intera
collettività dei cittadini di uno Stato;
3. di essere corredate, al limite, dalla massima forza cogente (o sanzionabilità).
Il punto da fermare è, dunque, che il più delle volte le decisioni collettivizzate vengono prese da
altri per noi. Un quesito preliminare è perché tanti settori di decisione vengano collettivizzati. Il
criterio con cui si collettivizza una specifica area di decisioni è il calcolo del consenso. Il
consenso è, in questi termini, una moneta di scambio, in particolare dello scambio politico, in
cui il cittadino “presta” il suo consenso per ottenere vantaggi che coincidono col cosiddetto
“bene comune”. Ciò premesso, riproponiamo la domanda: quand’è che conviene collettivizzare
le decisioni? E in che modo?
COSTI DECISIONALI E RISCHI ESTERNI
Per rispondere dobbiamo distinguere tra: costi/rischi esterni e costi decisionali.
I costi esterni sono le conseguenze che arrivano in capo ad ogni individuo dall’esterno, per
decisioni non prese da lui. Questi sono soprattutto di due tipi: costi di oppressione, ingiustizia,
arbitrio, privazione; e costi di spreco, e cioè di incompetenza, inettitudine, inefficienza. Le
decisioni collettivizzate hanno un alto potenziale di rischio per i “terzi” che le subiscono senza
prenderle. Il rischio, essendo potenzialità, c’è sempre.
I costi decisionali sono “interni”, e cioè i costi di coloro che partecipano alla decisione. Il costo
decisionale può essere un costo di “fatica”, un costo di tempo investito o perduto durante o
dopo l’iter decisionale, o ancora un costo monetario relativo alle infrastrutture realizzate.
VARIABILI NEI COSTI
Le variabile più importante nel calcolo dei costi sono: il modo di formazione del gruppo
decidente (relativa ai costi esterni), il numero dei decidenti e le regole decisionali adottate
(questi ultimi afferenti ai costi decisionali interni)
Il numero dei decidenti sta in relazione diretta con i costi decisionali, mentre è in relazione
inversa con i rischi esterni: se aumentiamo un corpo decidente è per diminuire quest’ ultimo
tipo di rischi.
Quando il numero dei decidenti supera il piccolo gruppo, e dunque la regola dell’unanimità, che
attribuisce a tutti un potere decidente e di conseguenza un potere di veto, raggiunge un costo
decisionale troppo alto, la soluzione sarebbe ricorrere a regole maggioritarie. Queste si
articolano in base alle caratteristiche o al grado della maggioranza, più in particolare essa può
costituirsi come: qualificata, assoluta (51%) o relativa.
Va da sé che queste 3 maggioranze comportano un costo decisionale diverso.
In realtà le tecniche rappresentative di formazione del corpo decidente consentono una caduta
vertiginosa dei costi-rischi esterni, mentre le regole decisionali consentono solo di rallentare la
salita dei costi decisionali. Pertanto la vera chiave del problema sta nelle tecniche
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rappresentative di trasmissione controllata del potere, l’unico criterio che rende possibile
l’effettivo calcolo della collettivizzazione, minimizzando i rischi esterni senza aumentare
eccessivamente i costi decisionali.
CRITERI DI APPLICAZIONE REALE
Le circostanze, o variabili, che condizionano l’applicazione nel mondo reale di questo schema
teorico sono tre: la materia del contendere: materia del contendere/importanza alle decisioni;
la cultura politica; la soggettività delle percezioni.
MATERIA DEL CONTENDERE
La materia del contendere ci interessa per questo rispetto: la maggiore o minore importanza,
oppure la maggiore o minore gravità delle decisioni. Le decisioni di gravità-importanza massima
verranno dette “capitali”; quelle di minore o secondaria importanza verranno dette “noncapitali”.
Per quanto nessuno contesti che alcune decisioni siano più gravi e importanti di altre, questa
valutazione non è mai del tutto oggettiva. La gravità di una questione è misurata in base alla
portata dei suoi effetti sulla popolazione complessiva e al tempo in cui questi si manifestano.
L’aumento di gravità delle questioni fa salire parallelamente il costo decisionale.
CULTURA POLITICA
Passando alla seconda variabile – la cultura politica – questa nozione, ci interessa soltanto per
questo rispetto: se una società politica sia, come tale, consensuale o conflittuale. Se una
comunità accetta i medesimi valori di fondo allora diciamo che possiede una cultura politica
consensuale.
Di tanto una collettività è concorde, di altrettanto si restringe l’area dei rischi esterni; ne
consegue che una collettività omogenea e consensuale si può permettere una riduzione del
numero del numero dei decidenti e delle regole di formazione, e quindi minori costi decisionali.
Il sistema elettorale maggioritario risulta funzionale in questi casi, mentre nel caso di una
società politica più frammentata e con molte minoranze al
suo interno risulterebbe più equo un sistema proporzionale.
SOGGETTIVITA’ DELLE PERCEZIONI
Per soggettività delle percezioni si intende una soggettività irriducibile e costitutiva nella
valutazione dell’importanza delle questioni.
Spesso l’opinione pubblica valuta l’urgenza di un problema ricorrendo ad una valutazione
esclusivamente soggettiva su temi che non hanno una urgenza considerevole, mentre in altri
settori i costi decisionali che si decide di arrogarsi sono del tutto sproporzionati ai rischi esterni
potenziali. Tutto ciò significa, ricorda Sartori, che gran parte delle nostre tecniche decisionali
risultano spesso irrazionali.
VALUTAZIONE ESITI
La valutazione dell’esito delle decisioni collettivizzate si svolge prendendo in considerazione tre
elementi:
1. tipo di esito: a somma nulla o a somma positiva;
2. tipo di situazione decisionale: discontinua o continua,
3. distribuzione della intensità delle preferenze.
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TIPO DI ESITO E TEORIA DEI GIOCHI
Somma nulla e somma positiva sono dizioni che derivano dalla teoria dei giochi. In senso stretto,
la teoria dei giochi è una teoria matematica intesa a stabilire il comportamento ottimale dei
partecipanti nei cosiddetti giochi strategici, e cioè quando l’esito non dipende dall’azione di un
singolo attore ma dall’incontro di due o più attori. Un gioco si dice a somma nulla quando una
parte guadagna esattamente quello che la controparte perde, e dunque il giocatore che
partecipa può solo vincere o perdere.
Un gioco si dice a somma positiva quando tutti possono guadagnare cooperando tra loro.
I giochi a somma negativa sono quei giochi in cui non ci sono né vincitori né vinti.
SITUAZIONI DECISIONALI
Un situazione decisionale discontinua come ad esempio l’elezione o il referendum presentano
una struttura di alternative che si riflette in decisioni discrete. In una situazionale decisionale di
questo tipo ognuno vota o decide da solo e frammentariamente; un’altra caratteristica delle
situazioni decisionali che coinvolgono i grandi numeri è che l’universo dei decidenti non è mai lo
stesso: c’è chi diserta o si astiene, chi muore, e chi vota per la prima volta.
In altre occasioni invece, troviamo un gruppo durevole al quale viene sottoposto un flusso di
decisioni, e cioè una serie di questioni che sono connesse e che si susseguono nel tempo. In tal
caso abbiamo una situazione decisionale continua caratterizzata dal fatto che nessuno dei
decidenti decide in isolamento, e le unità collettive cui appartengono gli individui decidenti
sono dette comitati.
DISTRIBUZIONE DELLE INTENSITA’ DELLE PREFERENZE
Le intensità delle preferenze è in molti casi distribuita in modo ineguale: c’è chi sente meno
l’urgenza di certe questioni, così come c’è chi la sente di più.
In questo caso la regola maggioritaria rende eguali delle intensità diseguali (in quanto il 49 %
può essere più sentito, per quanto frammentario e in minoranza, del 51%).
COMITATI
I comitati sono unità decidenti piccole (formate da non più di trenta persone), disperse e
soprattutto poco visibili ai più. La scarsa visibilità tuttavia non toglie che in qualsiasi sistema
politico gran parte delle decisioni nascono all’interno di un comitato.
Un sistema di comitati è costituito da piccoli gruppi istituzionalizzati e durevoli, e quel conta al
loro interno è l’aspettativa della permanenza. Le due condizioni che deve rispettare un sistema
di comitati per essere tale sono la stabilità degli organi decidenti e il flusso continuo di
questioni da decidere.
Il sistema funziona su un meccanismo di compensazioni reciproche differite (quel che un
membro del gruppo concede oggi, gli verrà ricambiato domani), e questo aspetto implica che c’è
una diseguale distribuzione di preferenze interna al comitato. Il sistema dei comitati trova la sua
forza nel fatto di essere un sistema di concreti incentivi e vantaggi. È per questo che nei
comitati non si procede, di solito, a maggioranza, ma si raggiungono compromessi sanzionati
dall’accordo unanime.
Finora ho richiamato le regole tacite di funzionamento di un solo comitato; senonchè ogni
comitato è inserito in una fitta rete di altri comitati, e spesso una decisione non diventa
esecutiva senza il nulla osta o l’appoggio di altri comitati collaterali e sovraordinati.
Occorre pertanto capire il funzionamento di questo sistema nel suo insieme, come sistema: un
sistema di comitati funziona sulla base di scambi o pagamenti interni differiti, condizionati da
pagamenti collaterali esterni.
COMITATI E DEMOCRAZIA
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Un sistema di comitati opera all’interno di qualsiasi sistema o regime politico; il che solleva il
problema della compatibilità tra sistema di comitati e democrazia.
Solo un piccolo gruppo, e in particolare un comitato, può discutere, esaminare e vagliare;
secondo, un sistema di comitati è tanto più necessario quanto più si deve far ricorso alla
divisione del lavoro, e per essa alla specializzazione delle competenze. Solo il piccolo gruppo
consente una partecipazione autentica.
Un sistema di comitati che opera all’interno di un sistema democratico acquista caratteristiche
proprie. Una prima differenza è questa: quanto più un sistema politico si democratizza, tanto
più i comitati si moltiplicano. La crescita dei comitati esprime esigenze pluralistiche di
decentramento e moltiplicazione dei centri decisionali. Inoltre, i comitati sono occasione di
partecipazione, dove “partecipare” vuol dire “prendere parte”.
Ma il vero tratto distintivo del sistema di comitati che opera all’interno di un sistema
democratico è l’esistenza di comitati rappresentativi.
Se i comitati che agiscono in nome e per conto dei rappresentati sono ben piazzati, ne basta uno
per percorso; tutto dipende, dunque, da come e con quale ruolo comitati vengono formati.
In quest’ottica il sistema di comitati rivela la sua positività democratica, ma non tutti i problemi
possono essere risolti mediante tecniche decisionali a somma positiva, infatti, di tanto aumenta
la numerosità del corpo decidente, di altrettanto di deve votare e applicare un qualche principio
maggioritario.
Alla fine di tutto ciò non si vuole né si può sostenere che la proliferazione di un sistema di
comitati rappresentativi costituisce una risposta adeguata ai problemi della democrazia
partecipativa, e la pluralizzazione dei comitati raggiunge così un limite di tollerabilità
funzionale, oltre il quale quello che si guadagna in sede di “partecipazione decentrata” si
perde, in sede di efficienza, e anche di senso di efficacia.
Riassumiamo e concludiamo:
un sistema decisionale onnivalente deve mirare a soddisfare 5 esigenze:
1. attribuire a tutti, singolarmente intesi, uno stesso peso decidente;
2. tener conto della diseguale intensità delle preferenze individuali;
3. produrre esiti a somma positiva;
4. minimizzare i rischi esterni;
5. tener bassi i costi decisionali.
Nessuna tecnica decisionale singola soddisfa queste esigenze. La soluzione d’insieme va dunque
cercata in una utilizzazione razionale di sistemi e corpi decidenti diversi, tale che ciascuno di
questi trovi il proprio correttivo e completamento nell’altro. Non esiste il sistema decisionale
per antonomasia.
VIDEOPOTERE, cap. XV
Sartori intende il video-potere, il potere dell’immagine trasmessa dalla televisione, come una
forza inarrestabile che trasforma innanzitutto le modalità cogenti e percettive dell’uomo.
Questa forza, nel momento in cui diventa video-politica, rivoluziona il modo stesso di fare
politica.
Il paese in cui la video-politica si è ormai consolidata del tutto sono gli Stati Uniti. Qui, il
sistema delle telecomunicazioni non è regolato da norme e vincoli particolari, per cui si
presenta un elevato pluralismo dell’offerta. Diversamente, in Europa, la partitocrazia ha da
sempre arginato il fenomeno del video-potere, in quanto il video-potere è utile soprattutto ad
una politica di immagine, personalistica ed individualistica, come quella presente negli Stati
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Uniti (dove i partiti non sono altro che organizzazioni formali, contenitori di personalità ed
ideologicamente inconsistenti).
La televisione enfatizza innanzitutto il localismo. Questo perché, nonostante la televisione sia
un potente mezzo di comunicazione e, di converso, di collegamento tra persone, spazi e tempi
diversi, allo stesso tempo la realtà figurativa che passa sullo schermo, la realtà “fotoprendibile”, è necessariamente ed inevitabilmente circoscritta ad una dimensione locale. Il
villaggio globale di Mcluhan è dunque una costellazione formata da miriadi di villaggi diversi,
ognuno con le proprie caratteristiche. La globalità di questo villaggio consiste nella fusione, o
omogeneizzazione di gusti, stili di vita, ecc. che tuttavia agisce solo da contrappunto alla visione
localistica, ma non la sostituisce. Tra i due poli del localismo e del globalismo, puntualizza
Sartori, scompare il bene comune.
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