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RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS figure umanistiche della Institutio vitæ, pp. 511-537), il quale scorge almeno nel Momus e nel De familia un modello di equilibrio tra vita attiva e contemplativa che, dopo la svalutazione operatane dal Petrarca, riabilita le «artes» considerandole come «il piú valido sostegno ai beni interni e alle virtú individuali». Allargando la propria prospettiva, il volume offre infine un panorama sintetico ma preciso, nelle stesse sue articolazioni (e nelle contraddizioni), de L’humanisme florentin et les genres de vie. Pierre Magnard (Ora et labora, pp. 497509) ne traccia una riassuntiva parabola che copre il secolo che va dalla morte del Petrarca (1374) a quella dell’Alberti (1472); Paolo Viti (Leonardo Bruni e la vita civile, pp. 539-559) indugia invece sul Bruni, la cui indiscutibile scelta di una vita attiva (negotiosa et civilis) non si lega alla tecnica o alle arti economiche quanto all’impegno civile e politico repubblicano; e Maria Teresa Ricci (Vie solitaire et vie civile chez Poggio Bracciolini: De avaritia, De vera nobilitate, Contra hypocritas, pp. 561-572) rilegge per l’occasione il Bracciolini, trovandolo su posizioni analoghe a quelle del Bruni e richiamandone, in particolare, la costante polemica contro i monaci, oziosi approfittatori del lavoro altrui. Ma se nel Poggio la critica della vita solitaria permane sfumata, si fa invece decisamente aspra nel Machiavelli che, stando alla relazione di Laurent Gerbier (La critique machiavélienne de l’otium, pp. 573-585), prende di mira le tre principali forme di «otium»: quello religioso, quello filosofico e quello, politico, dei prı́ncipi che trascurano i proprı̂ doveri verso lo Stato; non v’è tuttavia dubbio alcuno sul fatto che all’«otium cum dignitate» da lui subito nel proprio esilio, e alla «puissance de déliaison et de suspension du temps civil» che gli è propria, il Machiavelli debba in ultima istanza la possibilità stessa «de raisonner des actions des anciens, et d’en tirer la matière» dei libri che ce ne hanno conservato il nome e la memoria. Chiude il volume un utile Index dei nomi proprı̂ citati (pp. 619-634). SABRINA FERRARA 0Principi e Signori: Le biblioteche nella seconda metà del Quattrocento, Atti del Convegno di Urbino: 5-6 giugno 2008, A cura di Guido Arbizzoni - Concetta Bianca - Marcella Peruzzi, Urbino, Accademia Raffaello, 2010, pp. VI -430. Il volume raccoglie gli Atti del convegno tenutosi nel Palazzo ducale di Urbino nel giugno del 2008: difficile pensare un luogo piú adatto, dato il tema; e tanto piú in quanto, pressoché in contemporanea, offrendo tra l’altro un’affascinante ricostruzione in 3D della biblioteca stessa, gli ambienti della Biblioteca — 267 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS ducale ospitavano la mostra Ornatissimo codice.1 Arricchito da un pregevole apparato iconografico a colori inserito nel testo, il volume mette a disposizione degli studiosi abbondanti notizie e materiali sulle biblioteche italiche del secondo Quattrocento, con alcuni significativi sconfinamenti nel tempo (la biblioteca di Andrea Doria) e nello spazio (la raccolta di Mattia Corvino). Malgrado l’assenza, lamentata da Guido Arbizzoni nella Presentazione (pp. V s.), di quello di Piero Lucchi sulla Biblioteca malatestiana, i dieci studı̂ ivi raccolti coprono quasi tutte le piú importanti biblioteche del tempo. Il viaggio tra le biblioteche è sostanzialmente coestensivo alla geografia del potere signorile non soltanto per l’ovvio motivo che solo grandi Signori potevano allestire biblioteche di rilievo (laddove ciò implica quasi sempre una preferenza per il codice rispetto alla stampa, nei cui confronti permane una sorta di avversione, addirittura proverbiale nel caso di Federico da Montefeltro), ma soprattutto perché, come emerge da molti dei contributi, legittimazione del potere ed allestimento di una biblioteca sono processi tendenti sempre piú a coimplicarsi. In apertura, il saggio di Ugo Rozzo su La biblioteca visconteo-sforzesca (pp. 3-38) studia la biblioteca dei Signori milanesi ospitata nel castello di Pavia, edificato tra il 1361 e il 1365, e fondata forse, come suggerisce l’autore, anche per emulazione di quella del Petrarca, che nel 1353 aveva riunito a Milano la sua «bibliotheca itala» coi libri lasciati a Valchiusa. La biblioteca procede per addizioni in buona parte dovute all’incameramento di libri in seguito ad azioni militari (le campagne di Gian Galeazzo tra il 1387 e il 1402) o alla punizione di nemici (come Bernabò Visconti, messo a morte nel 1385). Possediamo un inventario del 1426 collegabile a Marziano da Tortona, bibliotecario e precettore di Filippo Maria nonché, probabilmente, primo lettore e commentatore di Dante in una corte. Significativa appare allora la presenza di sei codici completi della Commedia, alcuni risalenti alla fine del Trecento. Non mi soffermo però sulla ricostruzione della personalità culturale di Marziano, ideatore di almeno uno dei tre mazzi di tarocchi viscontei. L’inventario comprende circa 1.000 titoli, e i codici sono descritti con grande precisione, fino ad indicare la fascicolazione, la scrittura, l’impaginazione, etc. Dal momento che sappiamo che il testo venne steso tra il 4 e l’8 gennaio 1426, sembra improbabile che l’analisi sia stata condotta in tempi cosı́ stretti. L’ipotesi di U. Rozzo è che il documento sia la trascrizione di precedenti inventariazioni e, in particolare, sia connesso a quella degli anni 1398-1400, rispetto alla quale nel 1426 mancherebbero tra i 168 e i 175 codici. Nel 1426 i libri presenti sono 988, dei quali 844 in latino. Malgrado ciò, U. Rozzo ritiene di sottolineare che nessuno dei Signori di Milano fu davvero uomo di cultura, per cui 1 Il cui catalogo: Ornatissimo codice: La biblioteca di Federico da Montefeltro, A cura di 3 Marcella Peruzzi, Milano, Skira, 2008, andrà affiancato a quello della mostra newyorkese: Federico da Montefeltro and his library, Edited by Marcello Simonetta, Milano, Y Press, 2007. — 268 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS la biblioteca fu vista soprattutto come instrumentum regni e, dunque, quasi come una Wunderkammer da mostrare agli ospiti famosi [p. 19]. Nel 1459, l’inventario di Facino da Fabriano registra solamente 824 codici; un nuovo incremento si registra solo nel 1469 quando Galeazzo Maria Sforza fa trasferire da Milano 126 codici. Il saggio si sofferma su acquisti mancati (i libri di Giovanni Andrea Bussi) e incameramenti (quelli di Cicco Simonetta) e mostra come la biblioteca, di contro a quando affermato da altri, fosse relativamente disponibile allo studio. Da inventarı̂ del 1488 e 1490 apprendiamo come il numero di codici presenti fosse di 947, alcuni dei quali venivano prestati a tipografi. Nel 1491 la biblioteca viene riordinata da Tristano Calco che ordina anche il restauro di quasi la metà dei manoscritti, mentre nel 1494 essa si giova dell’acquisizione dei libri di Giorgio Merula che l’anno prima aveva procurato i testi da lui scoperti a Bobbio. Sono anni di splendore, nei quali i plutei della biblioteca ospitano fra gli altri Leonardo e Luca Pacioli; con le turbinose vicende politiche degli anni seguenti avviene però la drammatica dispersione della raccolta: nel 1500, metà circa dei volumi segue Luigi XII in Francia, mentre negli anni successivi al 1510 se ne completa lo smantellamento. Buona parte di essa finirà nel castello di Blois assieme a quella degli Aragona, dono ad Anna di Bretagna dei suoi due mariti: Carlo VIII e Luigi XII. Molto stimolante il saggio di Andrea Canova su Le biblioteche dei Gonzaga nella seconda metà del Quattrocento (pp. 39-66). I numerosi membri della famiglia ebbero infatti biblioteche proprie, spesso consistenti e prestigiose: il primo inventario disponibile risale al 1407 e sembra individuare un nucleo originario della biblioteca familiare poi arricchita e dispersa in numerosi rami; i diversi inventarı̂ permettono di verificare i passaggi tra i membri della famiglia fino a quel 1707 in cui il marchese Ferdinando Carlo trasferı́ la biblioteca a Venezia e la vendette. A. Canova dedica attenzione a figure quali il marchese Ludovico e la moglie Barbara di Hohenzollern, donna colta che possedeva una propria raccolta, mentre entrambi erano stati educati alla scuola di Vittorino da Feltre. Una duplice coincidenza, questa, con i duchi di Urbino, giacché Federico fu educato alla stessa scuola e sua moglie Battista Sforza fu precoce e colta lettrice e collezionista di libri, come si vedrà. Difficile render conto delle numerose acquisizioni di A. Canova che, incrociando gli epistoları̂ gonzagheschi con gli inventarı̂, trova conferme o verifica e dà corpo a fantasmi librari. La seconda parte del saggio si concentra sui manoscritti gonzagheschi di Plinio. Si tratta di un capitolo di grande interesse perché consente di documentare e mettere a fuoco gli interessi di figure il cui malcerto profilo culturale pare, talvolta, pregiudizialmente limitativo; soprattutto, esso consente di verificare come l’interesse dei Gonzaga fosse altresı́ rivolto alla correttezza dei codici: nel 1458, Ludovico manda cosı́ all’umanista Nicolò Canal un codice pliniano pregandolo «dove ’l trovarà incorecto, farlo corezerlo» (p. 57); lo stesso Ludovico scrive cosı́ al Plàtina nel 1459 chiedendo una «Georgica ben in littera corsiva [...] ma che la fuse scritta con li ditonghi destesi [...] e le dizione scritte per ortographia corretta» (p. 59); mentre si — 269 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS attende alla stesura del Plinio di Torino si cambia cosı́ antigrafo in corsa, chiedendone a Borso d’Este una copia piú corretta; cosı́, infine, Francesco scrive piú tardi a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici per avere una copia di Plinio, ma non una qualsiasi, sibbene quella «proprio dil Politiano [...] o saltem di una correcta al’exempio di quella» (p. 62). Anche nel caso della biblioteca estense possediamo una copiosa documentazione, qui studiata da Corinna Mezzetti ne La biblioteca degli Estensi: Inventari dei manoscritti e gestione delle raccolte nel Quattrocento (pp. 67-108). Le biblioteche analizzate sono in realtà due: l’una, quella pubblica e, l’altra, quella privata dello «Studio», ad uso del duca. Di quella pubblica possediamo un inventario che già dal 1436 attesta circa 279 volumi in tre lingue, tra le quali, come noto, spicca il francese: è una biblioteca aliena da interessi umanistici, e tale si manterrà nei decennı̂ seguenti; tra i successivi inventarı̂ si segnala quello del 1467, dalla Mezzetti definito un unicum per la completezza dell’informazione; gli inventarı̂ posteriori, tra cui quello di Pellegrino Prisciani del 1488, confermano la sostanziale indifferenza alla rivoluzione umanistica in atto in città. Quest’ultima è però ben percepibile nella biblioteca dello Studio, biblioteca privata dei duchi in cui trovano spazio codici di dedica, manoscritti lussuosamente fatti confezionare, testi umanistici. Siamo negli anni di Ercole I e la sua biblioteca raccoglie circa 500 volumi, la cui lista è allestita nel 1495 da Girolamo Giglioli; tra di essi, i testi spagnoli introdotti da Eleonora d’Aragona. In questo caso, la copiosa documentazione superstite ci mette in grado di compiere valutazioni sull’entità non solo dei fondi ma dei movimenti tra le due biblioteche, nonché dei prestiti e della circolazione dei volumi. Caso a sé è quello di Roma, considerato da Paola Piacentini ne Le biblioteche papali: La Biblioteca vaticana (pp. 109-162), saggio che copre un periodo molto lungo, partendo dal tardo Duecento ed arrivando sostanzialmente ai giorni nostri. Giustamente si parla di biblioteche papali in periodi nei quali si ebbero due papi: con Martino V ed Eugenio IV, ad esempio, sotto il cui regno «si formò il primo nucleo del fondo orientale costituito da circa sessanta codici arabi e copti» (p. 121). Siamo nel 1441. Si trattava però di raccolte legate ad esigenze pratiche; sarà infatti necessario un profondo processo di rinnovamento dell’essenza e della rappresentazione del papato perché si giunga all’idea di una grande biblioteca che rappresenti, come nei casi delle altre Signorie, lo splendore del papa-re – ciò che si avrà con Nicolò V e Sisto IV. Con la collaborazione del Tortelli e di un gruppo di scribi Niccolò dà un eccezionale impulso alla biblioteca, che nel 1455 giunge a contare 1.238 codici, tutti in latino e greco. Curioso è invece che un pontefice umanista come Pio II non pensi ad arricchire la biblioteca papale e si preoccupi soltanto della propria che passa dapprima al nipote, Francesco Todeschini Piccolomini, e poi a Fabio Chigi, per rientrare solo nel 1922 in Vaticana: si tratta per l’appunto degli odierni codd. Chigiani. Nel 1475, con la direzione del Plàtina, si inaugurano i registri di prestito dei libri; l’incremento della biblioteca è vistosissimo (nel 1481 conta 2.800 codici latini — 270 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS e 879 greci) e si vale degli ingressi di raccolte private (quelle di Guillaume d’Estouteville o dell’Argiropulo, ad esempio); si deve cosı́ allargarne lo spazio fisico aggiungendo la Bibliotheca nova. Rimando alle belle pagine dell’autrice per una documentazione non solo dell’entità della raccolta ma anche delle sue trasformazioni architettoniche, della sua decorazione (supportata da un ottimo corredo iconografico) e per informazioni minute su libraı̂, conservatori, custodi. Splendida fu la biblioteca aragonese, la cui storia è ricostruita ne Le biblioteche dei sovrani aragonesi di Napoli (pp. 163-216) da Gennaro Toscano, che sceglie di aprire il suo contributo rievocando la grande impresa in piú di volumi ad essa dedicata da Tammaro De Marinis.2 Suggestiva l’idea per cui Alfonso possa essere stato indotto all’allestimento della biblioteca dal soggiorno a Milano presso Filippo Maria, nel 1435; si vedrà infatti come anche Ottaviano Ubaldini trascorse degli anni alla corte del Visconti, la cui biblioteca sembra in qualche modo un archetipo per due delle piú splendide raccolte quattrocentesche, per l’appunto quella aragonese e quella feretrana di Federico. Dai primi anni Quaranta Alfonso si dedica ad allestire la biblioteca costituendo un gruppo di copisti e miniatori, acquisendo codici e trasferendo il tutto in Castel Nuovo verso la metà del decennio successivo. Ferrante, figlio di Alfonso, si dimostra attento alla cultura locale e al volgare, conformemente agli esiti della cultura contemporanea; per la confezione dei codici si rivolge spesso a Vespasiano da Bisticci, ma i rapporti potevano essere complessi, come dimostrano i 266 volumi dati in pegno ai banchieri fiorentini Pandolfini nel 1481. Le relazioni si intersecano, e cosı́ le storie di libri: il primogenito Alfonso sposa Isabella Sforza; Eleonora, Ercole I d’Este; Beatrice, Mattia Corvino. Viene introdotta la stampa, ma Ferrante continua a commissionare codici, pur non disdegnando incunaboli che vengono poi decorati e miniati dalle maestranze locali. A seguito della Congiura del baroni del 1486 le loro biblioteche confluiscono in quella regia, accanto alla quale ne sorgono altre: il cardinale Giovanni d’Aragona possiede cosı́ circa 50 codici, per la cui decorazione si rivolge ad artisti del calibro del Maestro del Plinio di Londra, o di Gaspare da Padova, che introduce il gusto veneto all’antica. Ma anche Ippolita Sforza ha una biblioteca e, anzi, addirittura uno studiolo suo proprio; il consorte Alfonso non vuole essere da meno e si rivolge al solito Vespasiano da Bisticci; la sua familiarità col cardinal Francesco Gonzaga gli permette di avvalersi di copisti come Bartolomeo Sanvito: nasce cosı́ un codice splendido come il De bello judaico (Valencia, Biblioteca Historica de la Universidad, ms. 836), confezionato tra il 1469 e il 1476-77 a Padova. La penetrazione dei modelli all’antica si rivela anche in codici commissionati per altri sovrani, come l’attuale Urb. Lat. 225 contenente le opere del Pontano, allestito per Federico da Montefeltro. Il saggio si chiude sulla triste nota della dispersione delle 2 La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Verona, Valdonega & Milano, Hoepli, 1947-1969, 6 voll. — 271 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS collezioni, ridimensionando però la notizia del bottino di circa 1.140 volumi fatto da Carlo VIII: G. Toscano dimostra infatti come gli Aragonesi fossero riusciti a mettere in salvo i proprı̂ tesori librarı̂, lasciando alla mercé delle truppe francesi solo doppioni e testi di scarso valore; Isabella riuscı́ a portare con sé a Ferrara moltissimi volumi, trovandosi costretta a venderne un centinaio a Celio Calcagnini. Le traversie della biblioteca si concludono col trasferimento di Ferrante, ultimo duca di Calabria, a Siviglia, ove furono trasportati, e rimasero, 305 codici della biblioteca reale – un nucleo cospicuo, ma drammaticamente inferiore ai piú di 2.000 volumi di cui si componeva la biblioteca. La collezione medicea è affrontata da David Speranzi dall’angolatura specifica dei codici greci: La biblioteca dei Medici: Appunti sulla storia della formazione del fondo greco della libreria medicea privata (pp. 217-264). La Biblioteca laurenziana contava circa 3.000 codici nel 1589, dei quali i manoscritti greci, anche in virtú della loro spesso eccezionale qualità, erano un nucleo cospicuo: già nel 1495 sono 300. D. Speranzi indica nel 1439 e nell’arrivo di Giovanni VIII Paleologo (si ricordino gli affreschi di Benozzo Gozzoli a Palazzo Medici - Riccardi) la concezione dell’idea di una raccolta di codici greci e del parallelo processo di traduzione. Il processo di acquisizione e copiatura fu affidato ad umanisti (Giano Lascaris e Demetrio Calcondila) e copisti (Demetrio Damilas, alla cui mano viene qui ricondotto il Laur. Plut. 55 15 pur rivisto, secondo D. Speranzi, dal Calcondila) di prim’ordine. Lo studio si segnala per molte novità, tra cui la restituzione al Calcondila delle annotazioni al Laur. Plut. 28 5. La raccolta si accresce nel 1477-78, quando Lorenzo di Goro invia da Lucca 67 codici: ai 60 già noti, D. Speranzi aggiunge infatti i Laur. Plut. 57 20, Plut. 81 23, San Marco 314, Plut. 31 32, Plut. 58 22, Plut. 56 6 e Plut. 58 8. Il copista dei due penultimi, che è annotatore degli ultimi due citati, sarabbe Gian Pietro da Lucca, allievo di Vittorino da Feltre: un nome che torna continuamente in queste pagine, e il cui ruolo si dimostra davvero seminale. Entreranno poi nella biblioteca i codici del Filelfo. Nel 1488, con l’arrivo di Taddeo Ugoleto, emissario di Mattia Corvino, con la stampa dei Miscellanea del Poliziano, del De triplici vita del Ficino e dell’Heptaplus del Pico, e con il rinnovato impegno di Lorenzo al Comento, la ricerca di fonti greche si fa pressante e necessita di un impegno sistematico, affidato a Giano Lascaris, grazie al quale affluirono 200 nuovi codici greci. I suoi acquisti sono registrati nel Vat. Gr. 1412, e D. Speranzi si impegna nel riconoscimento di alcuni dei manoscritti ivi indicati. Concludo col ricordo di come, a seguito della discesa di Carlo VIII, parte della biblioteca si disperse, e parte finı́ a Roma nel palazzo del cardinal Giovanni, poi papa Leone X. Informatissimo il saggio di Marcella Peruzzi su La biblioteca di Federico da Montefeltro (pp. 265-304), di cui l’autrice è del resto una delle maggiori esperte, avendo in passato dedicato ad essa una bella monografia.3 Sappiamo molto di 3 Cultura potere immagine: La biblioteca di Federico da Montefeltro, Urbino, Accademia Raffaello, 2004. — 272 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS questa biblioteca, grazie non solo alla sopravvivenza dell’Indice vecchio del 1487, ma al bassissimo suo tasso di dispersione. Ricchissima (circa 900 codici alla morte di Federico), raffinatissima (pressoché esclusivamente composta di manoscritti), aggiornata, moderna, plurilingue (ricca di 82 codici ebraici), capace di spaziare tra ambiti diversissimi, includendo anche i piú prestigiosi umanisti contemporanei. La Peruzzi ricostruisce con abilità le fasi costitutive della biblioteca, di cui sono protagonisti Antonio, Guidantonio e Oddantonio da Montefeltro. La consuetudine con i libri ( Antonio, Guidantonio e la figlia Battista sono poeti in proprio) contraddistingue la corte: Battista Sforza, figlia del Signore di Pesaro, Alessandro, poeta di qualche valore, possedeva una propria biblioteca della quale la Peruzzi rintraccia alcuni pezzi, anche grazie al sussidio di testimonianze coeve come le Iocundissimæ disputationes di Martino Filetico. Ad Urbino si crea uno scriptorium nel quale predominano le figure di Federico Veterani e Matteo Contugi, attivo anche per i Gonzaga, nonché numerosi miniatori – ferraresi, veneti, fiorentini: ne «risulta [...] una sorta di originale osmosi tra quelle diverse culture artistiche» (p. 283). Non potendo rendere pienamente conto dell’informatissimo studio delle dediche a Federico, delle quali l’autrice ricostruisce la successione, e dell’esauriente descrizione del milieu culturale della corte urbinate, mi preme sottolineare come la Peruzzi segnali con intelligenza due aspetti ‘‘ideologici’’ del processo di acquisizione dei codici: da un lato, l’accentuata propensione per manufatti spettacolari con miniature a piena pagina, che si «discosta dalla misurata eleganza dei libri medicei» (p. 288), ed è fatto di per sé significativo per un cliente di Vespasiano da Bisticci; dall’altro, l’acquisto di codici teologici nei quali «è adombrato anche un intento propagandistico, mirante a manifestare la vicinanza di Urbino al Papato» (p. 290). Determinante, del resto, la vicinanza di Ottaviano Ubaldini, parente di Federico, raffinato intellettuale in rapporti con molti umanisti di primissimo piano e, piú tardi, precettore del figlio di lui Guidubaldo, a sua volta collezionista e coltissimo intellettuale. La parte conclusiva del saggio è dedicata alle vicende della biblioteca, già ampliata sotto Francesco Maria II (e trasferita a Casteldurante, oggi Urbania), negli ultimi anni del ducato, allorché col motu proprio del 1657 Alessandro VII trasferisce a Roma i codici (oggi in Vaticana) e le stampe (oggi all’Alessandrina). Di grande utilità le pagine finali, che procedono all’identificazione di alcuni dei codici registrati nell’Indice vecchio e risultati scomparsi. La presenza di un’importante Università e la sostanziale assenza di una Signoria consolidata contraddistinguono la realtà bolognese studiata da Loretta De Franceschi ne Le biblioteche a Bologna nel Quattrocento: Una realtà atipica (pp. 305-361). Biblioteche di umanisti e biblioteche conventuali: queste, le realtà prese in esame. Giovanni Garzoni, Filippo Beroaldo e Vincenzo Paleotti, gli studiosi considerati, sono titolari di nuclei librarı̂ abbastanza contenuti: il Beroaldo possiede 190 volumi, ma prevalentemente a stampa; molto ricca la selezione di contemporanei, in particolare umanisti, scarsamente presenti invece nella biblioteca del Garzoni. L’autrice passa in rassegna 9 biblioteche religiose: i dati sono 18 — 273 — RECENSIONI . RECENSIONS . REVIEWS abbastanza omogenei: biblioteche di circa 20 banchi e patrimonı̂ di un centinaio di volumi; è vero che San Salvatore dall’inventario del 1533 ne possiede 659, ma siamo in piena età della stampa. Parzialmente differente la situazione dei conventi di San Francesco e San Domenico, prevedibilmente piú ricchi di opere: a San Francesco, nel 1421, sono già presenti 649 volumi, divisi in classi, delle quali, per fare un esempio, quella di Medicina e Scienze naturali comprende quasi 90 volumi; anche a San Domenico, come risulta da un inventario stilato presumibilmente nel 1381 i volumi presenti sono numerosi, ben 484, né mancano, nel secolo successivo, le presenze degli umanisti, sia in qualità di traduttori che con opere originali. Diversa la situazione della Biblioteca capitolare presso San Pietro, di cui era stato canonico Tommaso Parentucelli: quando questi è al vescovado, la biblioteca passa dai circa 40 volumi del 1421 a piú di 300 organizzati in 7 classi; in particolare, sono presenti le opere segnalate dallo stesso Parentucelli nel suo canone ma, significativamente, «va rilevata la totale assenza di testi coevi e di opere letterarie italiane anche dei secoli immediatamente precedenti» (p. 356). Non riguardo ad ogni realtà siamo però cosı́ bene informati. A Genova, come mostra Graziano Ruffini in Tra Pallade e Marte: Libri e letture alla corte dei Doria (pp. 363-375), è difficile trovare traccia di biblioteche. L’assenza contemporanea di un prı́ncipe e di un’Università, malgrado uno Studio risulti aperto dal 1471, e la tradizionale vocazione mercantile della città, sembrano aver congiurato a che non si formassero consistenti raccolte librarie. Malgrado una certa desultorietà delle indagini archivistiche, che impone cautela, i dati sono scarsi. Per quanto riguarda i beni presenti nel palazzo di Andrea Doria, che risulta singolarmente dedicatario solo di due operette di Giovanni Politiano, priore della chiesa gentilizia dei Doria, l’inventario redatto nel luglio 1561, circa sette mesi dopo la morte dell’ammiraglio, è del tutto reticente sui libri; un catalogo secentesco attestante circa 3.000 registrazioni di una biblioteca Doria è conservato presso l’archivio di famiglia a palazzo Doria-Pamphilj di Roma, ma è difficile stabilire se rifletta la biblioteca proveniente da Genova. Molto piú nota, e molto piú indagata, la biblioteca di Mattia Corvino, qui presentata da Concetta Bianca (La biblioteca di Mattia Corvino, pp. 377-392). Lo studio di questa raccolta oggi completamente dispersa ferve, e ancora si procede ad individuare e raccogliere i codici corviniani. Nata dall’appropriazione dei volumi degli oppositori politici, tra i quali l’arcivescovo Giovanni Vitéz, umanista e filologo, proseguı́ con una stagione di committenza diretta dei codici, soprattutto a Firenze, alla quale si affiancò l’allestimento di uno scrittoio a Buda. Il modello della biblioteca corviniana andrà cercato in quella aragonese, a prescindere dal matrimonio, nel 1476, con Beatrice d’Aragona. Mattia costruisce una storiografia di corte, che comporta il recupero di testi antichi e alla quale si affianca una produzione encomiastica: evidente, dunque, l’apporto che la costituzione della biblioteca, con il suo corollario di produzione storiografica, reca alla legittimazione di un potere tutt’altro che consolidato. MARCO FAINI — 274 —