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IL RILIEVO INSOLITO irrilevabile irrilevante irrilevato I testi dei saggi raccolti in questo volume sono inediti o rielaborati da articoli precedentemente pubblicati dall’autore in riviste specializzate (“Casabella”, “Domus”, “Edilizia Militare”, “L’Industria delle Costruzioni”, “Paesaggio Urbano”, “Parametro”, “Rassegna di Architettura e Urbanistica”, “XY, dimensioni del disegno”) Grafica della coperta Federica Botti ISBN 88-85962-68-8 © 2001 QUATTROEMME srl 06087 Perugia, via Cestellini, 17 Indice 7 Prefazione di Roberto de Rubertis IL RILIEVO INSOLITO 11 119 Costruzione dei muri di terra battuta Un inedito manualetto ottocentesco 125 Il fattore T Il surplus estetico delle stratificazioni architettoniche 133 Plan equal section Il fascino dell’ipogeo Introduzione IRRILEVABILE 25 Disegni per il cinema La matita come medium tra la memoria e il set 141 La rappresentazione della complessità La complessità della rappresentazione 35 Il disegno dell’anima Le arti figurative nella poetica di Giacomo Leopardi 147 Sign-city L’architettura della pubblicit(t)à 159 41 Il disegno come autointerpretazione Architoons di Stanley Tigerman La stabilità dell’effimero Il ponte sul Reno di Giulio Cesare 45 Di-segni di pixel Arata Isozaki: from Mannerism to Picturesque 49 Il disegno denso Progettare è fatica 61 Il disegno ideativo Sketches di James Stirling 67 Il piacere del disegno Sull’eclettismo grafico di Vittorio De Feo 73 Sogni e disegni di design Aldo Rossi: dieses ist lange her 79 La voce del disegno Razmataz di Paolo Conte IRRILEVANTE 87 Accumulazioni caotiche Le ridondanze espressive della periferia 97 L’architettura della scienza I teatri anatomici a struttura lignea 109 La conquista delle città murate Risalite meccaniche per i centri storici IRRILEVATO 167 L’ambiguità come maniera Architetture perugine di Galeazzo Alessi 175 Anomalie geometriche Il quartiere Lemitone di Aversa 183 Il disegno nascosto Ipotesi sulla genesi formale dei ceri di Gubbio 195 Ibridazioni tipologiche Il palazzo dei Priori di Perugia 207 O’ luog Le corti rurali dell’agro casertano 215 La necessità della libertà espressiva Architetture umbre di Giuseppe Nicolosi 227 Le ragioni dell’iconografia storica Il palazzo Della Penna di Perugia 233 Le suggestioni della complessità Il palazzo Trinci di Foligno 239 La vitalità delle strade Dalla via dell’Acquedotto di Perugia alla Circumvallazione esterna di Napoli Prefazione Non c’è settore dell’attività umana che oggi non lanci segnali allarmanti sui limiti che manifesta il pianeta. Limiti nell’erogazione delle risorse, nella possibilità di smaltimento delle scorie, nella disponibilità ad accogliere mutamenti ambientali e in ogni altra operazione collegata con il sempre più rapido sviluppo tecnologico. I limiti si manifestano attraverso una quantità di indizi la cui raccolta e valutazione richiede capacità d’indagine e di analisi mai sufficientemente evolute, vista la crescente urgenza di disporre di informazioni adeguate alla progressiva complessità del mondo e alle sue altrettanto progressive necessità di trasformazione. L’ambiente costruito è uno dei campi nei quali i limiti si sono resi evidenti in tempi piuttosto recenti. Non è molto antica la consapevolezza di quanto il territorio sia un bene non rinnovabile e di quanto, conseguentemente, sia essenziale conoscerne la consistenza, lo stato di salute e la dinamica evolutiva. Si sa che il tradizionale strumento per la conoscenza dell’ambiente costruito è il rilievo, ma si sa anche che gli interessi finora manifestatisi in questo campo hanno riguardato in prevalenza gli episodi eccellenti dell’architettura; questo in conformità con gli indirizzi di una tradizione culturale ben attenta a registrare le emergenze qualitative, ma incerta nel cogliere le influenze che la preesistenza esercita globalmente sull’attività umana; disorientata quindi nel formulare le diagnosi e le previsioni necessarie a guidare correttamente l’attività progettuale in un mondo il cui equilibrio dipende da un numero sempre più vasto di fattori. Che il rilievo vada quindi reimpostato, non solo nelle procedure e nella metodologia, ma nei suoi stessi obiettivi, è argomento che va ormai affacciandosi di prepotenza sulla scena delle discipline del disegno; va infatti crescendo l’interesse per una sua estensione a un arco di conoscenze più vasto, in grado di coinvolgere la storia, ma anche l’ecologia, la progettazione, ma anche l’informatica, la geometria, ma anche il genius loci. Ne consegue un “nuovo rilievo” il cui compito è la descrizione critica della complessità dei fattori che condizionano la realtà urbana, l’ambiente naturale e l’intero spazio antropico nel quale devono programmarsi gli interventi di trasformazione e di adeguamento richiesti dalle necessità di sopravvivenza e di benessere dell’uomo. Non c’è dubbio che questo nuovo rilievo finirà per coinvolgere temi assolutamente inesplorati che, secondo paradigmi tradizionali, potrebbero apparire irrilevabili, ovvero altri, finora trascurati e considerati irrilevanti, o altri ancora che, pur essendo noti, sono negletti, accantonati e quindi irrilevati; temi che, al contrario, oggi si rivelano d’estremo interesse per un’indagine a tutto campo sulla complessità della preesistenza e ai quali va posta nuova e massima attenzione se, come premesso, è nuovo il modo con cui ci si intende occupare dei processi di sviluppo. Paolo Belardi in questo nuovo rilievo si muove a suo agio. Gli è naturale spostarsi dai territori, eruditi ma scontati, della misurazione tradizionale a quelli impervi e rischiosi di un’esplorazione senza limiti, dove è possibile perdersi, ma che non può essere elusa se l’obiettivo è, in modo primario, l’allargamento d’orizzonte delle conoscenze sul mondo. Il suo rilievo deve essere perciò necessariamente innovativo e non può che porsi come una scorreria in campi, magari incongrui, ma unificati dalla volontà di spingersi in una interdisciplinarità dove mettere a confronto proficuo procedure d’indagine anche molto eterogenee. È dunque giustamente un rilievo insolito e vale come sollecitazione a volgere lo sguardo oltre la frontiera dei templi canonici dell’architettura, verso un coacervo di luoghi, situazioni, ipotesi, suggestioni, conoscenze, e riflessioni riguardanti una realtà complessa, nella quale gli eventi s’intrecciano con le interpretazioni, le osservazioni con i progetti, l’iconografia con l’allegoria e la ricerca con il fascino dell’ignoto. Proprio per il fatto di essere insolito, a questo rilievo, così esteso nelle pertinenze e così audace nelle procedure, non può chiedersi ancora quella completezza di impianto teoretico che è usuale oggi per il rilievo delle cattedrali; vi si possono però cogliere gli slanci verso mire imprevedibili, le intuizioni su tematiche aliene, le affascinazioni, gli stupori, le scoperte e soprattutto la capacità di far scoccare scintille tra territori lontani, e talora opposti, del sapere. L’assetto sistematico della metodologia, se mai sarà possibile per un’attività che si caratterizza più per le proiezioni in avanti che per le rimeditazioni definitorie, verrà forse dopo. Ora è il tempo della sperimentazione e dell’invenzione. Roberto de Rubertis Il rilievo insolito Dall’alto Lipari è facto cusì (Jerome Maurand, 1544). La cattedrale di Cefalù nel suo intorno (Giuseppe Samonà, 1978). Pagina seguente Perugia, palazzo dei Priori: rilievo a vista (Giovan Battista Cavalcaselle, 1864). Introduzione Ciò che mi uccide nella scrittura è il fatto che spesso è troppo corta. Quando la frase termina, quante cose sono restate fuori! Jean Marie Le Clézio Con un eloquente disegno a penna, conservato nella Bibliothèque Inguimbertine di Carpentras, Jerome Maurand, testimone oculare dell’assedio turco di Lipari del 1544, registra lo scenario bellico da un’imbarcazione alla fonda, alterando la reale morfologia del centro eoliano, per rimarcarne l’articolazione intorno a un porto ritagliato da due promontori, e accrescendo le dimensioni del convento di San Bartolo, per porre in risalto la posizione guadagnata dalle artiglierie di Khayr alDin1. A ben guardare, il disegno di Maurand presenta molte affinità con lo schizzo estemporaneo in cui Giuseppe Samonà, raffigurando anch’egli dal mare il centro storico di Cefalù, inquadra di scorcio l’antica Kefaloídon, per sottolineare il crescendo del profilo mare-abitato-rocca, ed enfatizza la mole della cattedrale normanna, per precisarne il ruolo di misura paesaggistica2. Entrambi i rilievi a vista, infatti, seppure distanti, sia temporalmente che culturalmente, sono in qualche modo accomunati dalla disinvoltura nella pratica di artifici rappresentativi che, con la propria licenziosità, comprovano il carattere necessariamente tendenzioso dell’attività di rilevamento, sempre e comunque subordinata alle finalità contingenti: il resoconto di un evento storico in fieri nel caso di Lipari e l’analisi ambientale nel caso di Cefalù. Parimenti, in una pergamena dei primi del XIV secolo, conservata nella Fondation de l’Oeuvre Notre-Dame di Strasburgo, l’anonimo autore, per raffrontare soluzioni esemplari cui ispirarsi nella costruzione di un nuovo coro nella cattedrale del capoluogo alsaziano, registra sul recto la pianta del coro della cattedrale di Parigi e sul verso la pianta del coro della cattedrale di Orléans, schematizzando con scarne circonferenze la sezione dei pilastri e trascu- rando la rappresentazione delle scale inglobate nei piloni perché inessenziali nell’estrapolazione dei principi compositivi3; mentre Giovan Battista Cavalcaselle, durante una ricognizione al Collegio del Cambio di Perugia, descrive, con un eidotipo denso di notazioni, il fronte principale del palazzo dei Priori di Perugia, omettendo altresì la rappresentazione delle botteghe medievali e delle trifore del primo livello a vantaggio degli elementi architettonici capaci di scandire le successive fasi edificatorie: l’“entrata grande”, l’“arco” e la “cappella ove è il G. Manni”4. Al di là delle di omogeneità grafiche, tutti i disegni sopracitati, nel momento in cui tendono a “caratterizzare piuttosto che copiare”5, chiamano implicitamente in causa la lucida distinzione operata da Coleridge tra fancy e imagination. “La fancy [infatti] raccoglie elementi che restano esterni gli uni agli altri: è un potere di aggregazione e semplice ricombinazione; l’imagination, invece, forma esseri nuovi e vivi, in 12 Il rilievo insolito Rovine d’una Galleria di Statue nella Villa Adriana a Tivoli (Giovan Battista Piranesi, 1767). virtù di un potere di unificazione e totalizzazione organica”6. E il rilievo, da sempre, affonda le proprie radici nell’imagination piuttosto che nella fancy, perché, più che riguardare il mero assemblaggio di misurazioni metriche, comporta la “ricerca dell’identità dell’oggetto attraverso l’identità del soggetto”7 esplicata attraverso la selettività dei processi cognitivi8; segnatamente nelle occasioni in cui la conoscenza, “liberando la mímesis dall’unica e vieta funzione tardo-accademica di copia dell’immagine”9, prelude alla modificazione10. Infatti, se da un lato l’uomo afferra nelle cose solo ciò che per lui ha interesse11, dall’altro “solo ciò che è percepito è riconosciuto come esistente”12; e la capacità di percepire ciò che gli altri non rie- Introduzione scono neppure a vedere costituisce l’incipit canonico dell’atto inventivo. La leggenda narra che Laszlo Biro ebbe l’idea della penna a sfera osservando, a Budapest, le palle lanciate da alcuni giocatori che, quando attraversavano una pozzanghera, lasciavano dietro di sé una scia bagnata: una scena di vita quotidiana vista in ogni tempo e luogo. Eppure solo nella mente di Biro quell’immagine, debitamente rilevata (ovvero selezionata, fissata e relazionata a un elemento apparentemente estraneo come Carcere d’invenzione (Giovan Battista Piranesi, 1750). 13 la penna), ha innescato la scintilla dell’idea che ha rivoluzionato il mondo della scrittura. Così per la mela di Isaac Newton e per i secchi d’acqua di Enrico Fermi. Ma così anche per i reperti archeologici di Giovan Battista Piranesi, per la nave transoceanica di Le Corbusier e per i palazzi rinascimentali di Robert Venturi: Piranesi, ritraendo le rovine di Villa Adriana, concepisce in nuce la complessità lumistico-spaziale delle Prigioni; Le Corbusier, interpretando il piroscafo Aquitania 14 come una “macchina per abitare”, formula le premesse tipologiche dell’Unité d’Habitation; Venturi, schizzando caricaturalmente la facciata di palazzo Rucellai, teorizza di fatto l’indipendenza fra apparato decorativo e involucro architettonico. “Nell’invenzione umana c’è combinatoria [ammette Umberto Eco] [...], perché anche quando parliamo di intuizione, c’è un gioco di sinapsi e dendriti che fanno i loro scambi ferroviari; ma c’è poi la capacità fulminea di selezione e decimazione. E qui siamo in una selezione […] che io chiamerei «pertinentizzazione»; cioè la capacità, dato un miliardo di elementi a disposizione, di «pertinentizzarne» solo dieci o un milione. Quindi non è più una pura combinatoria, ma una combinatoria di enne elementi pertinenti”13, dove assurge a protagonista la capacità individuale di stabilire quelle “imprevedibili connessioni”14 in cui Jules-Henri Poincaré ravvisa il Dna euristico. In questo senso, la tradizionale distinzione tra disegno inteso come registrazione di un dato (disegno di rilievo) e disegno inteso come ideazione (disegno di progetto) mostra la corda del proprio essere15. Il disegno, infatti, in quanto codifica di Il rilievo insolito modelli interpretativi della realtà, è al contempo luogo privilegiato per la conoscenza dell’esistente e luogo deputato all’anticipazione del futuro; perché, così come l’operazione del rilevare risente delle posizioni culturali che influenzano la raccolta critica dei dati, neppure l’atto ideativo è mai completamente affrancato dalla cultura che lo induce. Illuminante, in proposito, la teoria avanzata da Farouk El-Baz sull’origine delle piramidi e delle sfingi egizie16. Secondo il docente della Boston University, infatti, alcune tribù nomadi, attraversando intorno al 3000 a.C. l’oasi di Kharga, furono suggestionate dal paesaggio del Sahara Occidentale, punteggiato da banchi calcarei modellati dagli agenti atmosferici in guisa di piramidi e di leoni pietrificati, tanto da interpretarle come manifestazioni soprannaturali. Così queste tribù, integrandosi con le comunità stanziali nella valle del Nilo, introdussero le proprie icone sacre tra cui, per l’appunto, la “collina piramide” e il “leone accovacciato”. I fenomeni erosivi non sono peculiarità esclusive del Sahara Occidentale, ma, dando credito all’ipotesi di Farouk El-Baz, solo i nomadi egizi, forse anche in virtù dell’attitudine all’astrazione propria del “pensiero selvaggio”17, sono stati capaci di guardare ad essi con l’occhio della poesia. Il fatto è che il rilievo, quando riesce a cogliere l’indicibile, propone interpretazioni che, di per sé, contengono in nuce gli embrioni stessi dell’innovazione. Anche e soprattutto nel caso del fraintendimento, deliberato e no. “Per secoli e secoli migliaia di persone hanno guardato cavalli galoppare, hanno assistito a corse ippiche e cacce, hanno posseduto pitture e stampe sportive con cavalli lanciati alla carica nelle battaglie in corsa dietro ai segugi. Nessuno fra tanti sembra aver mai notato come «effettivamente appaia» un cavallo in corsa. Pittori e incisori li hanno sempre rappresentati con le zampe protese, quasi librati in alto nell’impeto della corsa, così come li dipinse il celebre pittore francese Géricault in una famosa rappresentazione delle corse di Epsom. Circa ottant’anni fa, quando la macchina fotografica fu abbastanza perfezionata da consentire istantanee di cavalli in rapido movimento, fu dimostrato che pittori e pubblico avevano avuto torto: nessun cavallo lanciato al galoppo si è mai mosso al modo che a noi pare «naturale». Esso ripiega alternativamente le zampe via via che si staccano dal suolo, e se riflettiamo per un momento Introduzione Derby at Epsom (Jean-Louis-Théodore Géricault, 1821). Capannelle (Roma), Derby 1994: ripresa fotografica della fase finale. Pagina precedente Firenze, palazzo Rucellai: rilievo a vista (Robert Venturi, 1966). 15 ci rendiamo conto che non potrebbe fare diversamente. Eppure quando i pittori cominciarono a valersi di questa nuova scoperta dipingendo i cavalli in movimento esattamente come sono in realtà, tutti criticarono i quadri perché sembravano sbagliati”18. Addirittura “da un lapsus può nascere una storia”19 sostiene Gianni Rodari, echeggiando le teorie di Viktor Sklovskij sulle virtualità poetiche dell’errore creativo20; come nel romanzo Les enfants du capitaine Grant di Julius Verne, dove un misterioso documento, scolorito dall’acqua, è diversamente interpretato in base a come, di volta in volta, viene risolta la questione della lingua utilizzata dal viaggiatore che lo ha occultato in una bottiglia; mentre Gioacchino Rossini, in una lettera a Louis Engel, confessa: “stavo scrivendo il coro in sol minore e, a un tratto, intinsi la penna nella bottiglia del medicinale invece che nell’inchiostro: feci una macchia e, quando l’asciugai con la sabbia, prese forma di un bequadro: cosa che mi dette lì per lì l’idea di quello che avrei ottenuto se avessi mutato il sol minore in sol maggiore. Ecco che tutto l’effetto del pezzo, se alcuno ce n’è, è dovuto a quella macchia”21. Così in architettura, dove il fraintendimento, sia volontario che involontario, dischiude spesso orizzonti inediti. “Quando – ad esempio – Raffaello disegnò l’interno del Pantheon, non riprodusse la realtà ‘quale si vede’, ma introdusse alcune variazioni sulla disposizione delle colonne che costituiscono un vero e proprio fraintendimento della realtà. Lo spazio avvolgente dell’interno dell’edificio ne è riuscito, però, meglio rappresentato e l’artificio non ha comunque impedito che tale disegno divenisse uno dei più imitati, tanto che a tutt’oggi viene considerato come uno dei più belli ed efficaci del suo genere. Le innumerevoli difficoltà che fino ad allora si erano incontrate nelle rappresentazioni degli spazi avvolgenti e nella resa grafica degli edifici a pianta circolare in genere hanno fatto sì che la fortuna critica di questo disegno sia stata dettata dall’impressione spaziale che produce piuttosto che dal rigore documentale sul quale noi invece saremmo più propensi a riporre la nostra attenzione”22. Parimenti, quando Ugo Tarchi intraprese il rilievo della basilica di San Francesco di Assisi, era precipuamente interessato agli aspetti stilistici; tuttavia, evidenziando nella sezione longitudinale il fuoriasse tra le campate della navata inferiore e le campate della navata superiore, finì 16 Il rilievo insolito Roma, Pantheon: prospettiva dell’interno (Raffaello Sanzio, s.d.). con l’alimentare le teorie storico-critiche avverse all’unitarietà progettuale del sacro convento. È quindi in virtù di altrettanti fraintendimenti che Raffaello e Tarchi hanno condizionato il modo di “vedere” il tempio romano e di “leggere” la basilica assisiate. Ma non è tutto. Ogni cultura, infatti, presenta un proprio rilievo (ovvero un modo autonomo di osservare e registrare la realtà), determinato dalle attenzioni che la caratterizzano e dalle intenzioni che la motivano. A cominciare dal grado di precisione23. Nel film The Englishman Who Went Up a Hill, But Came Down a Mountain, diretto da Christopher Monger, è nar- rata la storia di una piccola comunità del Galles d’inizio Novecento che, orgogliosa della propria condizione montanara, si mobilita per aumentare di 20 piedi la cima dell’altura che sovrasta il paese, in modo che la stessa raggiunga quota 1000 e possa così essere qualificata “monte” e non “collina” dai geografi incaricati dell’aggiornamento cartografico. Addirittura, nella sequenza conclusiva, il parroco del paese si fa seppellire sulla vetta per contribuire, con la propria salma, al raggiungimento dell’obiettivo prima che i topografi reali rilevino ufficialmente l’altezza dell’ex collina. In questo caso, l’ordine di grandezza del rilievo è il fathom, pari a quasi due metri. Miche- 17 Introduzione langelo, durante i ripetuti sopraluoghi alle cave di Carrara e Seravezza, era solito documentare con scrupolosi disegni le sagome dei blocchi di marmo prescelti per le proprie sculture, marchiandoli con i tre cerchi incrociati e chiosandone puntualmente sia la forma che le dimensioni. In questo caso, l’ordine di grandezza del rilievo è il braccio fiorentino, cioè pochi decimetri. Nel 1999, al termine del Gran Premio della Malesia di Formula Uno (vinto in coppia da Eddie Irvine e Michael Schumacher), Jo Bauer, delegato tecnico federale a Sepang, misurò con un calibro i deflettori al carbonio delle due Ferrari, riscontrando che gli stessi erano ridotti di un centimetro rispetto alle prescrizioni regolamentarie all’epoca vigenti. Conseguentemente le vetture della scuderia di Maranello vennero squalificate a vantaggio della McLaren di Mika Hakkinen. In seguito, però, il Tribunale d’Appello Fia, riunitosi a Parigi, ribaltò la sentenza, sulla scorta di una linea difensiva fondata su una diversa modalità di rilevamento, effettuata da Adrian Newey con un misuratore laser capace di evidenziare come la larghezza mancante non fosse di 10 millimetri, ma bensì di 7,5 millimetri; quindi all’interno delle tolleranze dimensionali consentite. In questo caso, l’ordine di grandezza del rilievo è la frazione di millimetro. Ma c’è dell’altro. Nella bozza di studio per una sintesi di Pisa, Gerardo Dottori sovrappone in una visione prolettica il battistero, la cattedrale e la torre pendente, eleggendo l’unitarietà compositiva della piazza dei Miracoli a emblema civile. Mentre Curzio Malaparte, imputando la rudezza del popolo umbro all’austerità dell’habitat, appalesa le contaminazioni tra artificio e natura del centro storico di Peru- Assisi (Pg), basilica di San Francesco: sezione longitudinale (Ugo Tarchi, 1940). 18 Il rilievo insolito gia: “guardate la pietra di cui son fatte le case dei perugini, sia quelle nobili di Porta Sole, sia quelle povere di Porta Sant’Angelo: che è una pietra liscia e lucente, di un colore chiaro fra l’argento e l’avorio, e non ammuffisce, non prende macchie, né l’aria, fredda o calda, la rode, e il vento non vi può dar di capo, per non doverselo rompere, ma vi scivola sopra, ne scantona alla svelta, senza smussare gli spigoli. Talché, in certe giornate ventose, se ti metti al riparo contro un muro, senti il fiume del vento scorrere silenzioso sulla pietra chiara, e appena appena fa stormire le foglie di acanto, dei capitelli, le fronde di quercia, le ghiande, i ramicelli di mirto, appena appena arruffa le penne di ferro dei grifi appollaiati sui portali dei palazzi”24. Difficile, anche con gli strumenti tecnologicamente più avanzati, approntare un rilievo geometrico capace di restituire con pari efficacia la monumentalità della piazza pisana e la solennità dell’acropoli perugina. Perché, nei segni di Dottori e nelle parole di Malaparte, il grado di precisione non è più meramente quantitativo, ma squisitamente qualitativo. Ha realmente senso, quindi, continuare a identificare la precisione di un rilievo con la sola corrispondenza metrica? D’altra parte, quali sono i modelli figurativi più idonei alla rappresentazione di rilievo? Il modello pittorico, che fissa le impressioni visive, quello letterario, che evoca le qualità ineffabili, o quello geometrico, che restituisce le relazioni spaziali? E ancora: con quali tecniche rappresentare un paesaggio sonoro, fatto di eventi uditi, e come misurare una tenda ber- Rilievi di blocchi di marmo con annotazioni autografe (Michelangelo Buonarroti, 1517). A destra Studio per Sintesi di Pisa (Gerardo Dottori, 1933). Pagina seguente Ricostruzione del progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma (Manfredo Tafuri, 1989). Roma, chiesa di San Giovanni dei Fiorentini: schizzi di studio (Antonio da Sangallo il Giovane, 1518). Introduzione 19 l’analisi etimologica scioglie l’ambiguità latente. Il termine “rilievo”, infatti, inteso come conoscenza profonda25, non esiste nel vocabolario italiano, ma riassume al proprio interno molti dei significati più ricorrenti (“una prominenza di una superficie del terreno”, “il risalto di una pittura”, “un errore”, “una cosa che emerge dal contesto”, “il risultato di una delimitazione, di una disposizione, di una misurazione” ecc.)26, caso per caso ampliandoli o negandoli. Al limite è in qualche modo utile rispolverare la variante dialettale toscana (in genere misconosciuta) secondo cui, per “rilievi”, s’intendono gli “avanzi alimentari”, “i resti” ovvero ciò di cui ci sbarazziamo, che ignoriamo o scartiamo. Nondimeno gli scarti, sia nel senso di oggetti scartati sia nel senso di oggetti che scartano, rappresentano un elemento evidentemente anomalo, ma che, debordando dal codice, prefigura ambiti di ricerca originali. Ed bera, di giorno in giorno assemblata in luoghi diversi? Difficile rispondere esaustivamente a siffatti quesiti (peraltro enucleati tra i tanti possibili); ma anche velleitario, perché, anteponendo la speculazione all’azione, la trama del ragionamento rischierebbe di rimanere soffocata dall’intrecciarsi di ulteriori fili nel cui novero appare improbo individuare il capo da tirare per trarre una qualche conclusione. C’è, infatti, il filo di ferro che àncora il rilievo al progetto. C’è poi il filo elastico che, al contempo, avvicina e allontana il rilievo dalla precisione. C’è, infine, il filo sottile, ma solido, che serra in un tutt’uno soggetto e rilievo. Ma forse non c’è nessun filo da tirare e nessuna conclusione da trarre. Piuttosto risalta la contraddittorietà endemica di un’attività, quale quella del rilievo, cui viene richiesto l’assolvimento di due funzioni sostanzialmente divergenti: da un lato fornire misurazioni oggettive e grafici imparziali; dall’altro selezionare informazioni orientate tanto dall’individualità dell’osservatore quanto dalle ragioni accidentali. Nondimeno, nella maggior parte dei casi, le due posizioni appaiono incommensurabili; al punto che neppure 20 è proprio in questo rapporto circolare, tra scarto del rilievo e rilievo dello scarto, che si apre l’orizzonte del rilievo insolito, cioè di un atteggiamento culturale vocato a lumeggiare quanto rimosso dalla cultura ufficiale, perché spurio rispetto agli interessi istituzionali27, e, quindi, confinato nel limbo dell’irrilevabile, dell’irrilevante o dell’irrilevato. Laddove, ad esempio, sono ritenute irrilevabili le forme dell’ideazione o l’ermeneusi delle immagini infografiche, sono considerate irrilevanti la portata estetica delle periferie o le declinazioni dell’habitat ipogeo, sono lasciate irrilevate le ragioni formali delle macchine folcloristiche o il climax pittoresco delle architetture spontanee. D’altra parte Howard Burns, commentando le ricostruzioni grafiche eseguite da Manfredo Tafuri relativamente al progetto di Antonio da Sangallo il Giovane per la chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini, non si limita a decodificare il disegno accreditato dall’autore come maggiormente convincente (“Questo”), ma esplora anche le ipotesi scartate, derivando da esse spunti critici preziosi28. Perché è soprattutto nelle pieghe obliate del residuale che gli strumenti della rappresentazione (dalla matita al mouse, dalla penna alla camera digitale), accordando senso a quanto apparentemente insensato, riescono a coniugare l’attività del rilevare con quella del rivelare29 verità non previste, qualità inattese e relazioni insospettate. Esiste forse un rilievo più produttivo del Voyage autour de ma chambre di François-Xavier de Maistre, dove l’erudito autore, recluso nella fortezza di Fenestrelle, anima poco a poco gli arredi che lo circondano e, contaminandoli con i ricordi dell’infanzia, costruisce con essi un panorama interiore fantastico30? Note Cfr. M. De Cunzo, V. de Martini, A. Raffa (a cura di), Lipari è facto cusì, Salerno 1994, pp. 43-44. 2 Cfr. R. Napolitano, Il segno e la figura. Il rilievo della Cattedrale di Cefalù di Giuseppe Samonà, in Descrizione e progetto, Napoli 2001, pp. 2333. 3 Cfr. M. Borgherini, Disegno e progetto nel cantiere medievale. Esempi toscani del XIV secolo, Venezia 2001, pp. 18-20. 4 Cfr. F.F. Mancini, I restauri ottocenteschi, in F.F. Mancini (a cura di), Il 1 Il rilievo insolito Palazzo dei Priori di Perugia, Perugia 1997, pp. 67-72. 5 N. Goodman, I linguaggi dell’arte, Milano 1991, p. 34. 6 J. Starobinski, Azione e reazione. Vita e avventura di una coppia, Torino 2001, pp. 199-200. 7 F. Purini, Nel Disegno, Roma 1992, p. 56. Sulla soggettività del rilievo cfr. R. Penta, Soggettività ed oggettività della conoscenza dello spazio fisico. L’esperienza del dettaglio, in A. Baculo et al., Città/Architettura Architettura/Dettaglio, Napoli 1984, pp. 41-48; L. Sacchi, L’idea di rappresentazione, Roma 1994, pp. 45-72; F. Quici, Il disegno cifrato. Ermeneusi storica del disegno d’architettura, Roma 1996. 8 “Vedere un oggetto significa sempre compiere un’astrazione e ciò perché il vedere consiste nel cogliere elementi strutturanti anziché nel registrare indiscriminatamente tutti i dettagli” (R. Arnheim, Il pensiero visivo, Torino 1974, p. 82). 9 V. Ugo, Mimesi, in R. de Rubertis et al. (a cura di), Temi e codici del disegno di architettura, Roma 1992, p. 21. Secondo Vittorio Ugo, “se la mímesis, oltre ai dati percettivi e metrici, registra anche quelli strutturali e teorici e ne costruisce un modello rigoroso e generalizzabile, allora la sua valenza di fulcro, di mediazione fra costruzione e teoresi, di ‘traduzione che conserva le relazioni’ e di momento euristico e ‘critico’ (cioè selettivo, prima che cruciale) del pensiero e della progettazione dell’architettura sarà garantita”. Sulla verosimiglianza cfr. anche U. Dante, Il Verosimile nelle Arti Visive. Dalle pitture rupestri alle immagini virtuali, L’Aquila 1999. 10 In proposito cfr. R. Boeri, M. Bonfantini, M. Ferraresi (a cura di), La forma dell’inventiva, Milano 1986; R. Boeri et al. (a cura di), Il pensiero inventivo, Milano 1988; M. Bertoldini (a cura di), L’atto progettuale. Struttura e percorsi, Milano 1991. 11 Cfr. E.H. Gombrich, L’immagine e l’occhio, Torino 1985. 12 R. de Rubertis, M. Clemente, Percezione e comunicazione visiva nell’architettura, Roma 2001, p. 11. In proposito cfr. anche C. Maltese, Per una storia dell’immagine, Roma 1989, pp. 8-18; H. Hohenegger, Il lato complice. Implicazioni angolari, Città di Castello 1998, pp. 10-11. 13 U. Eco, L’inventiva si può anche inventare, in R. Boeri, M. Bonfantini, M. Ferraresi, op. cit., p. 240. 14 Cfr. J.H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, Roma 1968. 15 In proposito cfr. R. de Rubertis, Il disegno dell’architettura, Roma 1994, pp. 11-12. 16 Cfr. V. Dominici, A.H. Schuster, Ecco le rocce che ispirarono Sfinge e Piramidi, “Corriere della Sera”, 4 marzo 2001, p. 29. 17 Cfr. C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano 1964. 18 E.H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Torino 1966, p. 12. 19 G. Rodari, Grammatica della fantasia, Torino 1973, p. 34. Prosegue Rodari: “Un magnifico esempio di errore creativo è quello che si trova, secondo il Thompson (Le fiabe nella narrazione popolare, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 186), nella Cenerentola di Charles Perrault: la scarpina della quale, in origine, sarebbe dovuta essere di «vaire» (una sorta di pelliccia); e Introduzione solo per una fortunata disgrazia divenne di «verre», cioè di vetro. Una scarpina di vetro è sicuramente più fantastica di una qualunque pantofoletta di pelo, e più ricca di seduzioni, anche se figlia del calembour o dell’errore di trascrizione”. 20 Cfr. V. Sklovskij, Teoria della prosa, Torino 1976, pp. 169-172. 21 Lo stralcio della lettera citata di Gioacchino Rossini, desunto dal testo originale pubblicato da Wystan Hugh Auden in The Dyer’s Hand and other essays, è riportato integralmente da Ambrogio Borsani (A. Borsani, La fabbrica di scintille. Cultura e storia della creatività, Milano 2000, pp. 36-37). 22 R. de Rubertis, Il disegno dell’architettura, cit., p. 132. 23 Sul concetto di precisione nel rilievo cfr. ivi, pp. 24-28. 24 C. Malaparte, Maledetti toscani, Milano 2001, p. 29. 25 Cfr. M. Docci, Il rilievo come conoscenza profonda, in A. Soletti (a cura di), Il rilievo dall’architettura concreta al suo modello immateriale, Perugia 1996, pp. 27-31. 26 Cfr. N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna 1959, voce rilievo. 27 Cfr. in proposito R. de Rubertis, Editoriale, “XY, dimensioni del disegno”, 38/39/40, 2000, p. 3. 28 Cfr. H. Burns, “Questo”: disegni e studi di Manfredo Tafuri per la ricostruzione di edifici e contesti urbani rinascimentali, in A. Bedon et al. (a cura di), “Questo”: disegni e studi di Manfredo Tafuri per la ricostruzione di edifici e contesti urbani rinascimentali, Vicenza 1995, pp. 11-19. 29 Cfr. M. De Simone, Disegno, rilievo, progetto, Roma 1990, pp. 219-233. 30 “Durante il carnevale del 1790, il Maistre si buscò quarantadue giorni di arresti, per aver partecipato a un duello. Costretto, quindi, ad aggirarsi fra quattro mura, sentendo, a poco alla volta, crescere in sé l’uggia per le cose che lo attorniavano, cercò un antidoto nel tentar la scoperta di un più profondo significato di quelle medesime cose, nel cercar di carpirne e di ascoltarne la voce” (A. Zorzi, Nota, in F.X. de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera e spedizione notturna intorno alla mia camera, Milano 1954). 21 Irrilevabile Disegno preparatorio per Amarcord (Federico Fellini, 1973). Pagina seguente The Favourite (John William Godward, 1901). Il mistero di Galatea: fotogramma (Giulio Aristide Sartorio, 1918). Disegni per il cinema La matita come medium tra la memoria e il set “L’importante sarebbe fare dei film come se si fosse un pittore. Dipingere un film, sentire fisicamente il peso della pittura sulla tela. Non essere seccato da nessuno. Lasciar stare una tela incompiuta e incominciarne un’altra. Fare autoritratti sempre più piccoli”. L’appassionata rivendicazione di Scorsese, pubblicata nel maggio del 1986 sulle pagine di “Libération”, segna una tappa miliare nella storia del cinema, rimarcando il carattere fondamentalmente privato di un ambito disciplinare che, pur necessariamente soggetto alle ferree leggi del mercato, contamina da sempre il Dna di tutte le altri arti visive; a cominciare dalla pittura. Non a caso, riprendendo un’acuta notazione di Jacques Aumont, “se oggi la pittura assilla il cinema non è tanto per il ritorno di problemi pittorici che improvvisamente il cinema abbia a cuore di trattare, quanto invece per il ritorno di una figura un po’ dimenticata – per l’appunto – quella dell’artista-pittore”1. D’altra parte, fin dagli esordi del muto, “la settima musa” coinvolge in prima persona le avanguardie artistiche d’inizio Novecento, saggiando le potenzialità espressive dell’antiteatro. Così, seppure le aspirazioni cinematografiche di Picasso e di Kandinskij non si concretizzano e se del film-dipinto Rythme coloré di Léopold Survage rimangono solo alcuni disegni preliminari, Fernand Léger firma la regia di Le ballet mécanique, Salvador Dalì collabora con Luis Buñuel alla sceneggiatura di Un chien andalou, mentre Man Ray e Marcel Duchamp girano a due mani Anémic cinéma; addirittura Oskar Fischingler, nel filmato Komposition in blau, sperimenta la trascrizione visuale della musica. In modo assolutamente analogo, in Italia, gli albori della cinematografia vedono impegnati non solo gli artisti più inclini all’innovazione e alla manipolazione spazio-temporale (Virgilio Marchi, Duilio Cambellotti, Enrico Prampolini ecc.), ma anche un pittore ancorato alla tradizione figurativa come Giulio Aristide Sarto- 26 Schema di regia per Aleksandr Nevskij (Sergej Ejzenstejn, 1938). Pagina seguente Bozzetti dei costumi per Senso di Luchino Visconti (Piero Tosi, 1954). Disegno preparatorio per Palombella rossa di Nanni Moretti (Giancarlo Basili, 1989). rio che, con Il mistero di Galatea, trasferisce sullo schermo il carattere apollineo del climax preraffaellita. Nondimeno, nonostante l’altissimo livello figurativo autonomo raggiunto dai film d’autore, la cinematografia cede frequentemente alle tentazioni citazioniste, attingendo continuamente, e copiosamente, al migliore patrimonio pittorico: Carl Theodor Dreyer a Rembrandt per il consulto degli scienziati-medici in Dies Irae, Pier Paolo Pasolini al Pontormo per la messa in quadro della deposizione ne La ricotta, Akira Kurosawa a Piero della Francesca per le solenni sequenze belliche di Ran. Così come appaiono stretti i legami che serrano il cinema all’architettura2. Spesso e volentieri, infatti, i registi approfittano delle architetture d’autore per conferire alle proprie opere un surplus este- Irrilevabile tico (Jean-Luc Godard, nel film Le Mépris, utilizza la residenza caprese di Curzio Malaparte), coinvolgendo architetti affermati nell’allestimento scenografico (Robert Mallet Stevens ne L’Inhumaine di Marcel L’Herbier) o addirittura prefigurando scenari futuribili di alto contenuto immaginifico3 (da Metropolis di Fritz Lang a The Sixth Day di Roger Spottiswoode). C’è però dell’altro. Infatti, le contaminazioni tra cinema, pittura e architettura, vanno ben al di là della mera riproposizione iconografica, chiamando in causa la stessa formazione artistica di molti registi; formazione che, di per sé, chiarisce le ragioni del frequente ricorso al disegno come sismografo euristico. Se i cahiers de voyage di Erich von Stroheim (che era solito disegnare anche a letto, lasciando cadere sui cuscini le mine delle matite) abbondano di schizzi di uniformi militari propedeutici ai curatissimi allestimenti epici4, Sergej Ejzenstejn (i cui celeberrimi montaggi sono sempre preceduti da meticolosi schemi operativi5) inizia la propria attività affrescando con grafiche propagandistiche i convogli ferroviari diretti al fronte; mentre Nicholas Ray si laurea in architettura studiando alla scuola wrightiana di Taliesin West. Parimenti Tim Burton, Wim Wenders e David Lynch nascono come pittori prima ancora che come registi cinematografici: Burton viene assunto giovanissimo dalla Walt Disney come disegnatore, Wenders lavora a lungo a Parigi come incisore e Lynch, dopo aver collaborato come graphics printer presso l’atelier di Roger La Pelle, s’iscrive alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia. Ma è con Peter Greenaway che la triade architettura-cinema-pittura trova un’imprevedibile ibridazione intellettuale, suffragata dall’impiego del disegno come preziosa chiave diagrammatica del pensiero. Il regista gallese, infatti, intraprende la propria carriera come architetto-pittore, ispirandosi ai ready-made di Ronald Kitaj e aderendo al movimento della land art. Confessa in proposito Greenaway: “molti dei miei primi film rappresentavano di fatto una scusa per mettere su celluloide i miei disegni o i miei quadri; l’esempio più evidente è A Walk Trough H: The Reincarnation of an Ornithologist, una specie di mostra filmata dei miei quadri, concepiti e organizzati per spiegare una storia: i quadri sono venuti prima, il film dopo”6. In effetti la comprensione dei sofisticati film di Greenaway non può prescindere dalla cono- Disegni per il cinema 27 scenza di un’attività grafica che, peraltro, è oggetto di ripetute esposizioni nei musei più prestigiosi (dal MOMA di New York al Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra al Fortuny di Venezia) e i cui esiti vincolano rigidamente la realizzazione delle riprese cinematografiche7. Ad esempio la scenamadre del film Drowning by numbers, incentrata su una fanciulla che salta la corda, è anticipata da una lunga teoria di disegni preparatori, mentre lo stesso titolo allude al painting by numbers: una tecnica grafica tutto sommato anomala, per lo più frequentata dai cultori dell’enigmistica ed elevata a espressione artistica dalla pop art, in cui “un disegno viene suddiviso in tante zone contrassegnate da numeri, ognuno dei quali corrisponde a un colore; riempiendo correttamente tali zone – colore dopo colore – si ottiene un quadro sufficientemente compiuto”8. Tuttavia, nonostante l’insospettabile confidenza con la pratica disegnativa propria di alcuni maestri della cinematografia internazionale (Ernst Lubitsch, Alfred Hitchcock, Hirozaku Kore-eda, Ridley Scott9 ecc.), sono soprattutto i registi italiani, forse perché depositari di una lunga tradizione progettuale fondata sulla rappresentazione, ad appoggiarsi sistematicamente alla matita come tramite tra la sceneggiatura e il fotogramma: sia per mettere a fuoco le ambientazioni scenografiche sia per pianificare le riprese sia per fissare il carattere dei protagonisti. Esemplare, in proposito, la scarna planimetria abbozzata da Michelangelo Antonioni per stabilire la posizione e la consequenzialità delle diciassette cineprese utilizzate per filmare l’esplosione della villa nello spettacolare epilogo di Zabriskie Point. Come pure appaiono significativi i disegni approntati dai collaboratori alla regia durante le diverse fasi di lavorazione: dai bozzetti redatti da Piero Tosi per i costumi del film Senso di Luchino Visconti agli appunti schizzati di proprio pugno da Umberto Eco per concordare con Jean-Jacques Annaud la trasposizione cinematografica de Il nome della rosa fino agli acquerelli dipinti da Giancarlo Basili per mettere a fuoco l’immagine della desueta piscina intorno a cui ruota la vicenda di Palombella rossa di Nanni Moretti. Ma ancorpiù risaltano i casi emblematici di Marco Bellocchio, Ettore Scola e Federico Fellini, i cui disegni apparten- 28 Irrilevabile Disegno preparatorio per Il principe di Homburg (Marco Bellocchio, 1984). Pagina seguente Disegno preparatorio per Che ora è (Ettore Scola, 1989). Caricatura di Totò (Federico Fellini, 1990). Disegni per il cinema gono a buon diritto alla sfera progettuale, perché, più che a comunicare agli altri le proprie volontà, servono all’autore per verificare le proprie intenzionalità. Laddove, mentre il carattere più evidente dei disegni di Bellocchio è il dinamismo (poiché in essi “lo squilibrio, la sproporzione, la deformazione dei tratti fisici, non tendono mai alla caratterizzazione psicologica e tanto meno alla caricatura, ma postulano precisamente l’azione, in atto o in potenza”10), i disegni di Scola e di Fellini, perpetrando il genere satirico, affondano le proprie radici nell’attività giovanile del primo come illustratore del periodico umoristico “Marc’Aurelio” e del secondo dapprima come contitolare della “Bottega per il ritratto dei villeggianti riminesi” e, successivamente, come vignettista della “Domenica del Corriere”. D’altronde Ettore Scola non fa certo mistero di come certe soluzioni registiche e certe inquadrature gli siano state suggerite dalla pratica del disegno (su tutte il ritratto intimistico di Mastroianni-padre e di Troisi-figlio che, seduti su una banchina del porto di Civitavecchia, scrutano in silenzio l’orizzonte marino): “l’abitudine di sporcare la carta ce l’ho avuta sempre, fin da piccolo. Ho ancora a casa i libri con i bordi delle pagine pieni di chiose disegnate, di personaggetti, di scarabocchi. Ancora adesso, quando parlo, quando scrivo, disegno sempre. Non sono disegni logici collegati a un ragionamento, piuttosto mi aiutano a pensare. È un tic, un automatismo […] Ricordo che per il mio primo film – Se permettete parliamo di donne – tracciai una specie di story-board per mio uso (abitudine che poi ho perso, ora mi limito a schizzare dei disegnetti da dare al costumista o al truccatore): prima di andare a girare, mi disegnavo le inquadrature, così potevo decidere fin dalla sera prima dove mettere la macchina da presa e cosa dire ai macchi- 29 nisti”11. Disegni, quelli di Scola, ancora inesplorati, ma il cui corpo tradisce la vocazione sperimentalista dell’autore, rimanendo in bilico tra autografico e allografico. Al pari dei celeberrimi “pastrocchi-scarabocchi”12 di Federico Fellini che, pur consacrati dalla critica come genere autonomo, costituiscono in realtà un’elaborazione onirica provvisoria, battistrada della successiva traduzione cinematografica. A ben guardare, infatti, tutti gli elementi della poetica felliniana sono già contenuti in nuce nei caratteristici disegni caricaturali: sia in quelli eseguiti per il cinema, quasi sempre corredati da istruzioni per i collaboratori, sia nei curiosi “ritratti a memoria” del Totò-marionetta e del Mollica-bambino. Perché Fellini, “per costruire la carne e le ossa dei suoi film, basati su gente fatta di carne e di ossa, […] amava ricorrere ai suoi sogni d’infanzia, aggiun- Story-board per Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet (Federico Fellini, 1992). Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet (Milo Manara, 1992). 32 Irrilevabile Disegno preparatorio per E la nave va (Federico Fellini, 1983). gendo il pepe del divertimento all’ansia della sceneggiatura e del montaggio”13. Illuminante, in proposito, la vicenda de Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet: un film rimasto irrealizzato, ma di cui rimane il fumetto disegnato ad acquatinta da Milo Manara in base allo story-board schizzato di getto dallo stesso Fellini che, con uno straordinario esercizio di remote- control, “ha utilizzato il pennello del fumettista esattamente come avrebbe fatto con il suo direttore della fotografia; solo che al posto dei fari del cinema c’era tutta la gamma possibile dei grigi e un barattolo d’acqua”14. Raramente, come negli “scarabocchi” del regista riminese, il disegno dimostra la propria capacità evocativa, prefigurando, con pochi tratti di pennarello, 33 Disegni per il cinema un’affascinante “irrealtà virtuale”, fatta di cose che non ci sono più, ma anche di cose che, forse, non ci saranno mai. Eppure, nonostante le attenzioni riservate dalla critica alla sua produzione grafica15, Fellini ha sempre teso a minimizzare: “non ho mai tentato di fare un disegno che non fosse una sintesi caricaturale. In questo senso dico che non so disegnare in un’altra maniera che non sia un appunto grafico che tende a esprimere sinteticamente il tipo, l’aspetto, il connotato più evidente di un personaggio [...] Disegnare per me è un modo per cominciare a intravedere un film, una specie di filo d’Arianna, un medium che dalla memoria mi porta sul set”16. Quanto, cioè, avocato da Scorsese con la sua rivendicazione. Note J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Venezia 1991, p. 181. Sul rapporto tra cinema e pittura in genere cfr. anche P.M. De Santi, Cinema e pittura, “Art Dossier”, 16, 1987; mentre, sul ruolo svolto in campo cinematografico dalle avanguardie artistiche, cfr. M. Franco, Il cinema come musica, in F. Cerami (a cura di), Corto Circuito 1996, Roma 1996, pp. 61-64. 2 Sul rapporto tra cinema e architettura cfr. D. Albrecht, Designing Dreams. Modern Architecture in the Movies, New York 1986; J.A. Ramirez, La arquitectura en el cine. Hollywood, la edad de oro, Madrid 1986; A. Doolaar, A house located North by Northwest. Modern architecture and cinema, “Docomomo Journal”, 14, 1995, pp. 48-53. 3 Cfr. D. Albrecht, D. Neuman, Film Architecture: Set Designs from Metropolis to Blade Runner, New York 1996. 4 Gli appunti di viaggio di Erich von Stroheim sono stati raccolti ed esposti nella mostra “Lo spirito di Erich. Frammenti inediti dai suoi archivi privati” (Sacile, palazzo Flangini Biglia, 14-21 ottobre 2000), organizzata da Joseph von Stroheim in occasione delle “Giornate del cinema muto”. 5 Cfr. P.M. De Santi (a cura di), Ejzenstejn: dai bozzetti teatrali ai disegni per il cinema, Pisa 1980. 6 P. Greenaway, www.petergreenaway.net/ita/frameFore.html. 7 Id., Paura dei numeri. 100 pensieri sul cinema, Milano 1996, p. 44. 8 Ivi, pp. 16-17. 9 Nota in proposito Sylvain Despretz: “Ridley Scott si serve degli storyboard come un pittore classico si serve dello studio dei bozzetti [...] Ridley è un ottimo illustratore e riesce a trasmettere le sue idee con semplici disegni che noi chiamiamo ridleygrammi” (K.H. Martin, Il gladiatore nell’arena, “Cinefex Italia”, 1, 2001, p. 134). 10 P. Bellocchio, Introduzione, in A. Franchina (a cura di), Marco Bellocchio. Disegni per il cinema, Roma 1998, pp. 5-6. 1 E. Scola, Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini, Roma 1996, pp. 31, 64. 12 V. Mollica, Fellini. Parole e disegni, Torino 2000, p. 93. 13 M. Pasi, Addio Romagna bella, in Federico Fellini & Dario Fo. Disegni geniali, Milano 1999, p. 19. 14 V. Mollica, op. cit., p. 66. 15 Cfr. in proposito P.M. De Santi, I disegni di Fellini, Roma-Bari 1982; G.M. Gori (a cura di), Federico Fellini. Disegni anni 30-70, Rimini 1994; L. Tornabuoni, Federico Fellini, Milano 1995. 16 V. Mollica, op. cit., pp. 93-94. 11 Conte Giacomo Leopardi (Luigi Lolli, 1826). Il disegno dell’anima Le arti figurative nella poetica di Giacomo Leopardi Contrariamente all’atteggiamento riduttivo spesso ostentato negli scritti, in realtà gli orientamenti del pensiero estetico di Giacomo Leopardi tradiscono un forte interesse per il disegno e per le arti figurative in genere; soprattutto per quanto concerne il sempre controverso rapporto tra poesia ed espressione iconica1. Peraltro l’artificiosità dell’indifferenza di Leopardi per il linguaggio figurato risulta particolarmente evidente dalle pagine dello Zibaldone, laddove l’autore, pur punteggiando il proprio diario intellettuale con molteplici riflessioni e notazioni di carattere estetico, omette nell’appendice delle Polizzine a parte le voci più significative, quali “pittura”, “scultura” e “architettura”; nonostante le stesse siano riportate più volte nel testo, così come evidenziato da Walter Binni in una celebre sistematizzazione analitica dell’opera leopardiana2. Addirittura, nell’indice strutturato da Binni, compare anche la voce “disegno”, segnatamente in una riflessione del 12 luglio 1820 in cui Leopardi distingue le pertinenze disciplinari della rappresentazione e della letteratura: “Il racconto è uffizio della parola, la descrizione del disegno (eseguito in qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più facile di questa al parlatore. E questa è una delle primarie cagioni per cui era falso ed assurdo quel genere di poesia poco fa tanto in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano descrittiva. Perché quantunque il poeta o lo scrittore possa bene assumere anche l’uffizio di descrivere, è da stolto il farne professione, non essendo uffizio proprio della poesia, e quindi non è possibile che non ne risulti affettazione e ricercatezza, e stento, volendolo fare per istituto e per argomento, lasciando stare la noia che deve nascere dalla lettura di una poesia tutta diretta a un uffizio proprio di un’altra arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado qualunque studio, e stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non appartenendole, non può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le appartengono, nelle quali nessuno biasima che [la] poesia si ravvolga tutta intera”3. Così come, in una nota di pochi giorni successiva, Leopardi non risparmia una critica pungente ad Albrecht Dürer per le cui stampe avverte un sensibile disagio, in quanto “lo stento e l’accuratezza manifesta del taglio dà un colore uguale e monotono alla più gran varietà di oggetti imitati”4. D’altra parte, quando Leopardi s’interessa delle arti figurative, lo fa sempre in funzione dei rapporti instaurati con l’espressione poetica; né potrebbe essere diversamente, visto che il poeta recanatese non nasconde la propria predilezione per il genere letterario: “o pittura, o scultura [...] se non esprime passione [...] è sempre posposta a quelle che l’esprimono [...] e le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute infime tra le belle, e le meno dilettevoli”5. Eppure la formazione intellettuale di Leopardi, nonostante la perentoria sentenza con cui Francesco De Sanctis liquida l’argomento (“aveva il gusto poco educato alla scultura e alla pittura”6), non appare carente di occasioni di apprendimento dei fondamenti figurativi; soprattutto nel campo del disegno e dell’architettura. Infatti, oltre ai frequenti contatti con il canonico Carlo, un prozio dilettante di architettura, artefice dei lavori di rinnovamento della facciata e dello scalone del palazzo di famiglia, la nutritissima biblioteca del padre Monaldo (circa ventimila volumi, tutti visionati da Giacomo negli anni dello “studio matto e disperatissimo”), pur sprovvista di una sezione riservata alle arti figurative7, comprende molti saggi e trattati specifici, quali ad esempio la Storia delle arti del disegno di Johann Joachim Winckelmann e le Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni di Giovan Pietro Bellori. Inoltre Leopardi, sempre in età adolescenziale, è avviato alla pratica disegnativa dal gesuita messicano Francesco Serrano la cui presenza a Recanati è evidentemente legata a quella dell’altro gesuita Giuseppe Mattia de Torres, già precettore del padre Monaldo, di cui riman- 36 Irrilevabile Giacomo, a differenza dei fratelli Carlo e Paolina, sia affascinato dalla ritrattistica; perché le radici di tale interesse sono in buona parte riferibili alla sua conoscenza di un raffinato saggio dell’olandese Pietro Camper (Dissertation physique sur les différences réelles que presentent les traits du visage chez les hommes de différents ages sur le beau etc.). Scrive infatti Leopardi nel 1821: “un ritratto, ancorché somigliantissimo (anzi specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall’imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che reale, e la troviamo più bella se è bella, o al contrario. Non per altro se non perché vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che incredibilmente accresce l’acutezza de’ nostri organi nell’osservare e nel riflettere, e l’attenzione e la forza della San Luigi Gonzaga (Giacomo Leopardi, 1809). A destra San Francesco Saverio (Giacomo Leopardi, 1809). Pagina seguente Disegni araldici (Giacomo Leopardi, 1810). gono, nel palazzo di famiglia, alcune sanguigne che, per l’appunto, “furono la fonte di apprendimento del disegno da parte di Giacomo e la fonte di talune immagini poetiche, pensieri e ricordi”8. E il giovane Leopardi, seppure ancora in età adolescenziale, si dimostra pronto a captare qualsiasi indizio istruttivo, tanto da produrre a sua volta due disegni a penna oltremodo pregevoli, raffiguranti san Luigi Gonzaga e san Francesco Saverio, protettori ufficiali della famiglia9. Né è un caso il fatto che Il disegno dell’anima nostra mente e facoltà, e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni. (Osservate in tal proposito ciò che dice uno stenografo francese, del maggior gusto ch’egli provava leggendo i classici da lui scritti in istenografia)”10. D’altra parte Leopardi, pur riconoscendo nell’imitazione “il fonte del diletto nelle arti”11, non manca di polemizzare con i romantici, rei di confondere imitazione e verosimile, sostenendo che “se la sentenza dei romantici fosse vera, andrebbe fatto molto più conto delle balie che dei poeti, e un fantoccio vestito d’abiti effettivi con parrucca, viso di cera, occhi di vetro, varrebbe assai più che una statua del Canova o una figura di Raffaello”12. Inoltre, nella autografoteca del palazzo di famiglia, sono conservati i disegni araldici di due uccelli che impreziosiscono il frontespizio e l’ultima pagina dell’indice del saggio pubblico tenuto l’8 febbraio del 1810; mentre un fregio ornamentale e un finalino fiorito chiudono la favola I Filosofi e il Cane. Questi brevi scritti rivelano una particolare cura tipografica13 per cui, come nota Maria Corti, “una raccolta di versi era prima di tutto un ‘libretto’, un oggetto rettangolare con frontespizio ornato di disegni geometrici o floreali a penna, fornito di data e luogo di composizione, cui seguiva una pagina bianca con la sua brava epigrafe oraziana [...] indi fogli pieni di scrittura ordinata, titoli fioriti di maiuscole, qua e là fregi; come ex libris l’uccello o il cigno o l’albero in fiore, che possono esplicitarsi quali ingenui segni iconici di libertà, poesia, natura”14. Tutto lascia ragionevolmente supporre che, così come altri grandi letterati (Victor Hugo, Marcel Proust, Pier Paolo Pasolini ecc.), Leopardi avrebbe conseguito risultati eccellenti anche nel campo del disegno. Casomai, nel caso del poeta recanatese, va considerato che, presumibilmente, la vocazione letteraria settoriale rimanda a quella propensione gerarchica, peculiare del primo romanticismo, il cui nodo concettuale è rappresentato proprio dalla ricerca della pratica artistica in grado di esprimere più compiutamente la nuova sensibilità. E Giovanni Carsaniga dimostra che, nel tessuto ideativo della poetica leopardiana (sia nelle due canzoni sepolcrali che nei Canti), sono presenti tracce significative di ascendenza iconica15. Attento a ogni fermento culturale, infatti, Leopardi non è certo insensibile al dibattito contemporaneo sulle interrelazioni tra arti figurative e arti letterarie; al punto da citare 37 38 testualmente, nella Crestomazia poetica, un passo di Paolo Beni in cui sono enucleati elementi di convergenza (“disegnare” e “colorire”) tra la pittura e la poesia. Ma ancor di più va considerato il rinnovamento estetico propugnato in un illuminante passo dello Zibaldone: “Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come gli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce, il riflesso di detta luce in luoghi dov’ella diventi incerta e impedita, e non bene si distingua [...] dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne siano indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti in cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista [...] è piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso”16. Come non pensare agli effetti luministici del vedutismo di Turner o del Canaletto? Ma, ancorpiù, come non correlare “quei luoghi dove la luce si confonde colle ombre” alle inquietanti carceri di Piranesi o ai solenni paesaggi di Schinkel? Non solo. Le considerazioni di Leopardi si spingono oltre, fino a rivelare interesse per l’ottica (“è facile comprendere come l’anima percepisca le diverse sensazioni dei colori poiché le particelle, che hanno maggiore velocità e maggiore mole, commuovendo più fortemente la retina eccitano nell’anima la sensazione di un colore più vivo quale è il rosso e così viceversa”17) e per l’illusionismo (“l’altezza di un edifizio o di una fabbrica qualunque [...] è piacevole sempre a vedere, tanto Irrilevabile che si perdona in favor suo anche la sproporzione. Come in una guglia altissima e sottilissima. Anzi quella stessa sproporzione piace, perché dà risalto all’altezza e ne accresce l’apparenza”18). Più volte peraltro Leopardi, riprendendo il relativismo estetico teorizzato da Francesco Milizia con il principio di “convenienza”, parla dell’assuefazione, interpretandola come una vera e propria percezione guidata in virtù della quale cessa la neutralità del paesaggio e, contestualmente, ha origine un atto comunicativo biunivoco tra l’oggetto e l’osservatore. Quest’ultimo, infatti, proprio perché dotato dell’attività di assuefazione, attribuisce sentimenti e valutazioni soggettive a tutti gli elementi percepiti. “Studiando ed assimilando lo spettacolo della natura, l’uomo lo introduce subito nel suo mondo, lo trasforma e lo interpreta a modo suo. Così il paesaggio ordinario – ad esempio un colle, una siepe e il profilo degli Appennini (gli elementi cioè de L’Infinito) – ottiene un valore semantico supplementare, prodotto dall’uomo che percepisce i dati della realtà esterna mediante il suo intelletto, la sua sensibilità, la sua esperienza”19; ed è proprio per l’assuefazione che “amiamo la regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagioni, solchi ec. e ci dorremo della regolarità di una catena di montagne ec. [...] La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti e due ci piacciono, ma purché non sieno fuori di luogo”20. Presumibilmente Leopardi non ha una conoscenza diretta delle tendenze estetiche tedesche dell’epoca21, ma le sue enunciazioni trovano sorprendenti affinità con le speculazioni di Schiller e di Schlegel, propugnando la tesi della natura come entità soggetta a processi riflessivi individuali: “mi pare che in natura non ci sono quasi altro che i lineamenti del bello, come sono l’armonia, la proporzione e cose tali che secondo il solo lume naturale debbono trovarsi in ogni cosa bella: e che l’ombreggiare gli oggetti dipenda tutto dalle nostre opinioni [...] Presso noi non disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e colorite. Il contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa affatto greggia e rozza”22. Per Leopardi cioè l’espressione artistica, soprattutto quella rappresentativa, “non è più un organo della natura, ma un’appendice del pensiero”23. E, a ben guardare, la straordinaria perizia grafica dimostrata da Leopardi nelle opere giovanili, al pari del 39 Il disegno dell’anima paziente lavoro “di lima”24 sempre praticato nella produzione letteraria, confermano l’intendimento, tipicamente leopardiano, di volere innanzi tutto sentirsi padrone della tecnica in ogni campo dello scibile, con il fine evidente di affrancare lo spirito creativo da eventuali condizionamenti e limitazioni; un intendimento che, di per sé, lumeggia il saldo cordone ombelicale esistente tra i segni e le parole del poeta recanatese. Note Cfr. in proposito A. Frattini, Leopardi e le arti figurative, in A. Franceschetti (a cura di), Letteratura italiana e arti figurative, II, Firenze 1988, pp. 783-795. 2 Il riferimento è alla riedizione dello Zibaldone di Giacomo Leopardi curata da Walter Binni (G. Leopardi, Zibaldone, ed. W. Binni, Firenze 1969), indicata d’ora in poi, per brevità, con la sigla Zib. 3 Zib., I, p. 79. 4 Ivi, p. 89. 5 Ivi, pp. 611-612. 6 F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, Bari 1953, p. 198. 7 “L’attenzione di Monaldo, il padre, strenue sanfedista e ricercatore infaticabile di antichi volumi, si appuntò sui grandi testi classici, sulle opere di erudizione storica, filologica e letteraria, e fu spesso attratta più dagli apologisti e dai teologi del pensiero cattolico che dal mondo dell’arte e della pittura in particolare” (F. Pugnaloni, Recanati, Ancona 1992, p. 31). 8 F. Foschi, Un prete messicano, in G. Torres, Breve dialogo sopra la storia della città di Recanati, Camerino 1985, p. 16. 9 Cfr. in proposito F. Cacciapuoti (a cura di), Giacomo Leopardi, Napoli 1987, p. 32. 10 Zib., I, p. 379. 11 Ivi, p. 4. 12 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in F. Flora (a cura di), Le poesie e le prose, II, Milano 1973, p. 489. 13 “Quasi tutti sono ben rilegati in pergamena e carta elegante, il testo è scritto con grande pulizia e diligenza, le righe sono tracciate col lapis, la calligrafia è tonda e sicura, molto chiara. Giacomo dedicava a queste sue opere delle cure davvero tipografiche” (R. Weiss di Lodrone, Leopardi, Milano 1938, pp. 41-42). 14 M. Corti (a cura di), Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, Milano 1972, p. XXI. 15 Cfr. G. Carsaniga, Su una probabile fonte iconografica di Leopardi: “Amore e morte”, e le due canzoni sepolcrali, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, VIII, 3, 1977, pp. 1183-1200. 16 Zib., I, pp. 483-485. 1 G. Leopardi, Dissertazioni filosofiche, Montepulciano 1983, pp. 130-138. Zib., I, p. 588. 19 K. Wojtynek, Lo spazio addomesticato nell’Infinito di G. Leopardi, in A. Franceschetti, op. cit., p. 805. 20 Zib., I, p. 88. 21 M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano, Napoli 1985, p. 14. 22 Zib., I, pp. 6-7. 23 M.A. Rigoni, op. cit., p. 15. 24 “Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov’è? Disse la Dea: La lima è consumata; or facciam senza” (G. Leopardi, Scherzo, in F. Flora, a cura di, Canti con una scelta di prose, Verona 1966, p. 397). 17 18 New York City 1 (Stanley Tigerman, 1982). New York City 2 (Stanley Tigerman, 1982). Pagina seguente Career Collage (Stanley Tigerman, 1983). Il disegno come autointerpretazione Architoons di Stanley Tigerman Così come la maggior parte dei progettisti contemporanei affermati, anche Stanley Tigerman affianca alla produzione architettonica corrente un’attività grafica solo apparentemente autonoma1; perché al contrario, analizzandone gli esiti cronologicamente, è possibile non solo ricostruire il divenire intellettuale dell’autore, ma anche ripercorrere le tappe salienti della storia dell’architettura degli ultimi trenta anni. I disegni di Tigerman, infatti, sono caratterizzati da un personalissimo stile caricaturale, sovente ai limiti del genere fumettistico (da qui il curioso neologismo architoons coniato da Volker Fischer2), che, unitamente alle opere e ai rari scritti teorici, dà voce alla vis poetica dell’autore, appalesando un atteggiamento ironico per cui, così come nell’attività progettuale (basti pensare alla Architects’ Weekend House, dove Tigerman contamina metaforicamente il vernacolo della farmhouse con la rivisitazione stilizzata della chiesa fiorentina di Santa Maria del Fiore), il carattere ludico della cultura quotidiana americana (quella stessa che ha dato vita a Disneyland e all’Epcot Center) si fonde con le suggestioni storicistiche assimilate nei frequenti soggiorni di studio nella vecchia Europa. In uno schizzo del 1971, ad esempio, quasi rivendicando il carattere al contempo pratico e teorico del mestiere di architetto, Tigerman accosta liberamente gli strumenti professionali tradizionali (righello, compasso, filo a piombo ecc.) e alcuni reperti della storia dell’architettura (cinte murarie, torri, scalinate, fontane ecc.), miracolosamente sopravvissuti al naufragio della tradizione disciplinare. Il carattere vagamente piranesiano della composizione simula una sorta di disordinato appunto estemporaneo e, con la propria carica allusiva, rimanda ai disegni di Aldo Rossi e di John Hejduk, dove le invenzioni formali e le citazioni autobiografiche si fondono in un tutt’uno. Non a caso, nel disegno, compare anche uno spezzone di trave bullonata “a doppio T”: un’immagine ricorrente nei disegni di Tigerman, che peraltro, come l’icona del San Carlone per Rossi o la capigliatura della Medusa per Hejduk, rappresenta un vero e proprio marchio poetico che, di per sé, ammette il debito con la lezione miesiana. Ma, più ancora, gli esordi di Tigerman sono segnati da un’accesa passione per la pop art. Al punto che, in un disegno del 1976, Tigerman include, all’interno di una sorta di promontorio geografico ideale, una selezione delle proprie architetture su cui, alla maniera di Robert Venturi, campeggiano grandi scritte pubblicitarie e tra le quali risalta la celebre Hot Dog House, realizzata ad Harvard nel 1975 e rinomata per la stravaganza dell’impianto, caratterizzato da due pareti semicircolari di ferro corrugato che, così come nel celebre panino imbottito, “schiacciano” l’ingresso. Né, d’altra parte, i disegni di Tigerman misconoscono i primi fermenti postmoderni. In una vignetta dal titolo sintomatico (Versus: an American Architect’s Alternatives) gli alfieri alati dell’astrazione combattono contro i guerriglieri della realtà, equipaggiati con insegne militaristiche di stampo pseudo-nazista (gli angeli, pala- 42 Dall’alto Otdogho (Stanley Tigerman, 1976). Versus: an American Architect’s Alternatives (Stanley Tigerman, 1983). Pagina seguente Lakeside (Stanley Tigerman, 1983). London/Chicago (Stanley Tigerman, 1983). Irrilevabile dini della rinnovata creatività postmoderna, e i demoni, difensori a oltranza del funzionalismo retrivo, sono ricorrenti nei disegni di Tigerman degli anni settanta). Non solo. La tavola con i dieci comandamenti, ritratta in primo piano, è spezzata e, conseguentemente, l’antagonismo degli opposti sembrerebbe insanabile. Ma così non è, perché l’architettura presenta sempre e comunque aspetti contraddittori di cui, soprattutto in un’epoca di “pensiero debole”, non rimane che prendere atto: “initially it seemed that the most reasonable design methodology I could offer was one that presented and gave form to both sides of an argument, thesis and antithesis, rather than privileging one in particular”3. Così i frammenti lapidei della tavola, in caduta libera sul globo terrestre (verso cioè destinazioni imprecisate e comunque imprevedibili), assumono le forme stilizzate degli archetipi disciplinari: il timpano, la serliana, la volta ecc. Parimenti un significato del tutto particolare è quello assunto da una copiosa serie di disegni eseguiti tra il 1982 e il 1983, raffiguranti altrettante città statunitensi (New York, Boston, Cincinnati, Houston, Miami, Chicago, Lakeside), graficizzate da Tigerman nello stile disinibito della cartografia medievale; dove cioè, contaminando viste planimetriche e alzati assonometrici in una rappresentazione sinottica, la volontà di espressione e di comunicazione prevale sulla mera riproduzione topografica naturalistica. Ancora una volta i disegni di Tigerman anticipano sorprendentemente i prodromi del movimento decostruttivista, prefigurando spaccati urbani caratterizzati dalla convivenza dialettica di episodi architettonici autonomi e frammentari in cui le tradizionali antinomie (bello/brutto, sopra/sotto, pieno/vuoto ecc.) appaiono sovvertite e in cui la riconoscibilità delle forme urbane è demandata all’episodicità di nuovi interventi che, pur concepiti per le periferie, sono sradicati e trapiantati nei centri delle rispettive metropoli (“ridotti” alla mera configurazione geografica): “ultimately it was the concept of disjunction implicit in rupture that informed much of my work”4. Ma ancorpiù i disegni di città (in cui la decodificazione delle autocitazioni fa parte integrante dell’allusivismo ludico di Tigerman) costituiscono altrettanti enunciati teorici in nuce. Basti pensare al disegno Lakeside in cui è ritratto il busto 43 Il disegno come autointerpretazione monumentale dell’architetto-demiurgo, intento a osservare la realtà disomogenea che lo circonda. Il dominio sul territorio dei progettisti si è concluso con il tramonto dei grandi maestri (dai quali possiamo riprendere manieristicamente solo alcuni segni, come ad esempio gli occhiali alla Le Corbusier, non già i contenuti); un messaggio, questo, ribadito con uno schizzo del 1983 in cui, manifestando un’evidente insofferenza per ogni rigidezza storicistica, Tigerman accosta, in una sorta di elenco manualistico, alcune tipologie esemplari: un’antica villa romana, una chiesa gotica, uno schema urbanistico settecentesco di Thomas Jefferson ecc. Ma, ancora una volta, la celebrazione cede il passo alla rampogna. La sequenza, infatti, è suggellata dallo schema planimetrico del campo di concentramento di Dachau, ripreso ironicamente in un successivo disegno dove lo stesso è rappresentato in guisa di macabra acropoli modernista. E, forse non a caso, l’angelo-architetto di Lakeside, che emerge da una colonna classica in disfacimento, impugna una penna stilografica (la teoria) nella mano destra e una matita (il mestiere) nella sinistra. Il disegno, questo il monito della metafora, non va inteso come rinuncia arrendevole (perché i confini tra astrazione intellettuale e architettura disegnata sono spesso labili), ma va piuttosto recuperato come autointerpretazione ovvero come occasione, preziosa e irrinunciabile, per conoscere se stessi; anche se il braccio dell’angelo che impugna la matita è spezzato e gronda sangue, mentre la penna stilografica, assumendo le sembianze di un bisturi chirurgico, è pronto a perpetrare quella crudele vivisezione critica che Tigerman, con il proprio impegno di architetto militante, rigetta da sempre. Note Cfr. J. Hejduk, Afterwords, in S. Mollmann Underhill (a cura di), Stanley Tigerman. Buildings and projects 1966-1989, New York 1989, pp. 256268. 2 Cfr. V. Fischer, Stanley Tigerman Architoons, Berlin 1988. 3 S. Tigerman, Introduction, in S. Mollmann Underhill (a cura di), op. cit., p. 9. 4 Ivi, p. 11. 1 Ibaragi (Giappone), centro civico di Tsukuba: prospettiva infografica dell’edificio in rovina (Arata Isozaki, 1979). Apollo Temple IV (Roy Lichtenstein, 1964). Pagina seguente Fukuoka (Giappone), torri gemelle: prospetto (Arata Isozaki, 1989). Sin City (Frank Miller, 1994). Di-segni di pixel Arata Isozaki: from Mannerism to Picturesque Nell’ultimo scorcio del XX secolo, uno dei fondamenti del disegno, quello della riconoscibilità, è entrato in crisi; soprattutto in conseguenza della diffusione, nella pratica rappresentativa, dei mezzi di riproduzione meccanica oltre che, più recentemente, a seguito della penetrazione capillare dei personal computer all’interno degli studi di progettazione. Tuttavia, seppure la “rivoluzione Letraset”1 prima e l’uso di software specifici poi, almeno negli epigoni del professionalismo cor- rente, hanno effettivamente indotto una qualche omologazione iconica, la standardizzazione stilistica delle rappresentazioni architettoniche contemporanee più avanzate è solo presunta: perché non è certo improbo distinguere le immagini infografiche firmate da Norman Foster rispetto a quelle prodotte da Peter Eisenman o da Bernard Tschumi. Ma è soprattutto l’opera grafica di Arata Isozaki a sottolineare le potenzialità espressive della computergrafica, dimostrando inequivocabilmente come ormai la personalizzazione 46 Dall’alto Barcellona (Spagna), Palau Sant Jordi: prospettiva infografica (Arata Isozaki, 1983-90). Il mondo di Edena. I giardini di Edena (Moebius, 1994). della rappresentazione non sia ulteriormente demandabile alla singolarità del tratto, ma vada piuttosto riferita alla libera combinazione dei sempre più raffinati mezzi espressivi disponibili e, con essi, alla suggestione delle allusioni. Scorrendo la produzione grafica più recente di Isozaki2, infatti, oltre al palese rimando di molte vedute prospettiche alla laconicità silente delle piazze di Giorgio De Chirico oltre che alle astrazioni geometriche di Sol Lewitt, risalta un chiaro riferimento agli stilemi più consolidati della pop art; soprattutto perché molte immagini sembrano compendiare, conformemente alle ragioni della deno- Irrilevabile minazione coniata nel 1958 da Lawrence Alloway, i due concetti, apparentemente incommensurabili, di massa e di élite. Ad esempio Isozaki, intendendo esaltare il carattere rovinoso del centro civico di Tsukuba3, riprende gli stilemi di una celebre opera di Roy Lichtenstein, Apollo Temple IV (laddove il simbolo della cultura classica, disegnato con campiture nette, è “drammatizzato” dal forte contrasto luce-ombra), ma soprattutto utilizza tecniche disegnative che affondano le proprie radici nel mondo dei comics. Gran parte della più recente produzione infografica di Isozaki, infatti, sia per la nitidezza del segno sia per il carattere vagamente caricaturale4, chiama in causa la maniera dei fumettisti (di Moebius, ma anche di esponenti della scuola americana come Mike Mignola e Frank Miller) e il mondo dei cartoons (basti pensare ai renderings che illustrano il progetto dell’edificio direzionale della Walt Disney Company di Orlando, “un mondo narrativo dove tutto è possibile”5). Ma l’uso che Isozaki fa dell’elaboratore elettronico, ben lungi dal confondere il mezzo con il fine, è sostanzialmente ludico: “in parte piacere e in parte fantasia, non certo intenzione metabolica di fare città tecnocratiche” 6. Nondimeno il “freddo nitore delle immagini anodine”7 di Isozaki potrebbe infondere nell’osservatore distratto l’impressione di una ricerca lineare, priva di scarti e di asperità. Ma così non è. Perché, a ben guardare, l’ispirazione grafica di Isozaki spazia liberamente dal minimalismo all’high-tech, dal tardorazionalismo al postmoderno; con un atteggiamento, citazionista ed eclettico8 (peraltro ben sintetizzato dallo slogan coniato da Hajime Yatsuka: from Mannerism to Picturesque9), che pratica i margini interstiziali del dualismo omologazione/personalizzazione e trova le proprie radici in una logica compositiva fondata sul convincimento “che tutto il linguaggio architettonico è ormai stato scoperto e che l’architetto non ha più il compito di inventare nuovi mezzi per inverare l’architettura, bensì solo quello di utilizzare le forme tratte dalla storia dell’architettura, da civiltà lontane nel tempo e nello spazio, di modo che, ibridate secondo modalità innovative e inserite in nuovi contesti, che ne vedono sconvolte scale e proporzioni, diano origine a una nuova forma espressiva”10. Note Di-segni di pixel Cfr. J. Sainz, La infografia architettonica, “XY, dimensioni del disegno”, 14/15, 1992, p. 15. 2 Le immagini infografiche di Arata Isozaki sono state raccolte in occasione della mostra “Arata Isozaki. Architecture 1960-1990”, allestita nella primavera del 1991 presso il Museum of Contemporary Art di Los Angeles. 3 In un articolo pubblicato nel maggio del 1964 su “Kentiku-Bunka”, Isozaki “si sofferma sulla differenza tra gli spazi barocchi europei, scanditi dal contrappunto di luci e ombre, e quelli giapponesi monocromatici e dominati dall’oscurità, ove la luce appare come effimero balenio. Ne deriva l’idea di spazio tenebroso che ha evidenti assonanze con quella di città invisibile” (Y. Doi, Arata Isozaki e la cultura giapponese, in Arata Isozaki. Opere e progetti, Milano 1994, p. 24). 4 “L’immagine fumettistica riproduce alcune caratteristiche dell’oggetto reale rispetto al modo in cui normalmente lo percepiamo. Riproduce per esempio (per mezzo di linee) i contorni e le ombre, e nonostante questi siano solo una piccola parte degli aspetti che di fatto percepiamo, sono evidentemente sufficienti – in un contesto adeguato – a darci un’idea della figura” (D. Barbieri, I linguaggi del fumetto, Milano 1991, pp. 17-18). 5 A. Isozaki, Per un’architettura dell’incertezza, “Domus”, 752, 1993, p. 24. 6 M. Franklin Ross, Arata Isozaki: paradossalmente manierista, in B. Barattucci, B. Di Russo, Arata Isozaki: architetture 1959-1982, Roma 1983, p. 193. 7 F. Dal Co, Prefazione, in Arata Isozaki. Opere e progetti, cit., p. 7. 8 Cfr. C. Dardi, Premessa, in B. Barattucci, B. Di Russo, op. cit., pp. 7-9. 9 Cfr. H. Yatsuka, Arata Isozaki after 1980: from Mannerism to Picturesque, in Arata Isozaki. Architecture 1960-1990, New York 1991, pp. 18-23. 10 G. D’Acunto, Geometria ed illusione nell’opera di Arata Isozaki, in Nuovi orizzonti e programmi del disegno e della didattica, Genova 2001, p. 99. 1 47 Il disegno denso Progettare è fatica Una notazione di Alvaro Siza, secondo cui “il disegno, oltre al valore di strumento di comunicazione e di analisi, offre la possibilità di captare atmosfere con una carica liberatoria che ci disinibisce da idee preconcette aprendoci a impreviste esplorazioni”1, lumeggia con acutezza il carattere sperimentale del disegno2 (inteso nell’accezione più ampia: dagli schizzi ai grafici esecutivi, dai modelli plastici alle simulazioni computerizzate) e, con esso, gli stretti legami che, da sempre, saldano il binomio disegno/progetto3 fino a fare convergere le due componenti in quell’unità pressoché indissolubile che è l’architettura. D’altra parte la molteplicità dei vincoli (standard normativi, condizionamenti morfologici, leggi statiche ecc.) unitamente all’inafferrabilità delle suggestioni soggettive (etiche, letterarie, filosofiche ecc.) fanno sì che non sia realisticamente possibile concepire un qualsiasi progetto, cioè una strutturazione logica di operazioni consequenziali, senza praticare quel singolare processo di feed-back per cui le costruzioni grafiche garantiscono all’immaginazione un supporto temporaneo per la formulazione di idee che, una volta ordinate in schemi sintetici, rifluiscono nuovamente nel pensiero attraverso il complesso meccanismo della percezione4. In questo senso il ruolo demiurgico di un’attività, quale la disegnativa, naturalmente astratta5 e che “implica sempre una elaborazione critica, un fondamento culturale, un procedimento progettuale del quale fa parte integrante” perché “rinvia ad una forma piuttosto che ad una immagine”6, è reso con immediatezza dalla cultura anglosassone mediante l’uso del vocabolo design che, al pari dell’italiano “disegno”, affonda le proprie radici etimologiche nel latino designare7 (il cui significato più arcaico, non a caso, è proprio quello di raffigurare), quindi nel verbo semplice signare (segnare, tracciare, ma anche stabilire, esprimere) e, soprattutto, nella preposizione de ad esso anteposta (che nello specifico va intesa come rafforzativo del “com- Leça da Palmeira (Portogallo), Restaurante Boa Nova: schizzi di studio (Álvaro Siza, 1960). Pagina precedente Partitura del Prometeo: appunti di studio (Luigi Nono, 1984). 50 Irrilevabile faello10 per poi essere teorizzata dal Vasari, è proprio il mezzo attraverso il quale il prodotto intellettuale, l’idea, non solo viene elaborata, ma anche comunicata prima agli interlocutori e, successivamente, agli esecutori. In questo senso il disegno è il protagonista di un dialogo, riflessivo nel primo caso ed estensivo nel secondo. A differenza di quanto avviene nel campo musicale, infatti, il disegno non costituisce solo un linguaggio codificato, un memorandum atto a fissare e comunicare un’ispirazione o una suggestione, quanto piuttosto il luogo privilegiato per il divenire stesso dell’elaborazione creativa. Al punto tale che, trascrivendo lo spartito di una composizione musicale come Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini o, al limite, un testo letterario come la Divina Commedia di Dante Alighieri, si producono copie che “sono” a tutti gli effetti l’opera rossiniana e il poema dantesco. Se invece si esegue la copia di uno schizzo di Francesco di Giorgio Martini o di Carlo Scarpa (ovvero di espressioni che rientrano a pieno titolo nella categoria che Nelson Goodman definisce “schema denso”11) si producono dei falsi, delle riproduzioni, perché in questo caso lo schizzo presenta tutte le caratteristiche autografiche del manoscritto originale. È questa una condizione particolarissima per cui il disegno di progetto, presentando uno statuto epistemologico forte- piersi di un’azione, un alto grado di essa”8). Almeno in origine, quindi, la figura del “disegnatore” coincide con quella del “designatore”, con quella cioè di colui che “sceglie dopo avere attribuito senso alle cose”9. Un’accezione questa che, a ben guardare, il termine “disegno” conserva tuttora pienamente anche nella lingua italiana allorché esprime un proposito ovvero un programma finalizzato a un insieme di volontà coordinate (disegno di legge, disegno divino, disegno criminale ecc.); considerando peraltro che, in architettura, il disegno precede la costruzione, perché il lavoro di progettazione, a differenza di quanto avviene in altri settori artistici nei quali si agisce direttamente sull’opera (pittura, scultura ecc.), si esplica in forma mediata. E il disegno, secondo una metodologia che prende le mosse da Raf- 51 Il disegno denso mente articolato, è al contempo autografico e allografico12 e si colloca a cavallo tra conoscenza13 e comunicazione14, tendendo tuttavia incessantemente a debordare dai limiti imposti dalla rigida corrispondenza cartesiana tra segni e relative dislocazioni spaziali; il che in qualche modo legittima l’interpretazione del disegno come parte integrante del progetto, se non addirittura come suo sostituto. L’architettura, infatti, nella fase progettuale non esiste ancora per se stessa, anzi in realtà non è nemmeno rappresentata dal disegno, in quanto “esiste” solo in esso. In questo senso, il disegno, vero e proprio manifesto di intenzioni (e quindi crogiuolo di tendenze), non solo anticipa, descrivendole, molte delle qualità fisiche dell’opera, ma soprattutto si propone come attesa di un compimento15: un vero e proprio programma concettuale che, al pari di uno scritto teorico, carica il progetto di significati altrimenti difficilmente trasferibili nella realtà costruttiva16 o, più ancora, un viatico concettuale rispetto al quale l’effettiva realizzazione si configura come ulteriore potenzialità piuttosto che come pregiudiziale necessità. È allora evidente che il disegno rappresenta qualcosa di più che un semplice strumento operativo esterno alla figura del progettista, proponendosi, al contrario, come una sorta di protesi mentale atta a consentire l’effettualità del pensiero. Se da un lato, infatti, la concretezza disciplinare rende “il disegno di architettura uno strumento rappresentativo di ‘altro’ (dello spazio architettonico) e non spazio esso stesso”17 e seppure “non è solo il disegno che fa nascere l’idea”, in quanto questa scaturisce anche “dall’osservazione e dal modo in cui la mente rimette insieme le cose”18, è altrettanto vero che “lo schizzo, codice genetico di ogni progetto – e con esso ogni altra tecnica rappresentativa utilizzata nel processo creativo – è la configurazione ‘araldica’ dell’idea, anzi è l’idea vera e propria, unica”19. Non a caso, da sempre, la pratica del disegno a schizzo contrassegna non solo l’attività euristica degli architetti, ma anche quella dei musicisti (Beethoven, Lennon, Schönberg), dei poeti (Proust, Stendhal, Ungaretti) e dei registi (Ejzenstejn, Fellini, Greenaway). Ma non è tutto. Quando Michelangelo, ormai prossimo alla morte, intima la distruzione di tutti i suoi disegni, sancisce di fatto “l’autonomia del disegno, inteso come opera d’arte, rispetto alla strumentalità del disegno, inteso come informazione per la costruzione di un oggetto”20, tradendo di fatto il carattere privato Dall’alto Dessiné sans lumière (Victor Hugo, 1865). Appunti con i titoli per Funf Orchesterstucke op. 16 (Arnold Schönberg, 1912). Pagina precedente Schizzi di studio per un arco trionfale (Baldassarre Peruzzi, 1536 ca). Venezia, ingresso dello I.U.A.V.: schizzi di studio (Carlo Scarpa, 1966). 52 di una pratica che consente, step by step, il fascinoso transfert delle intuizioni mentali in enunciati formali sintetici, simulacri bidimensionali di una realtà tridimensionale a venire. E questo carattere mediale del disegno investe non solo l’invenzione, ma anche la conoscenza dell’esistente, quindi il rilievo inteso come esercizio di apprendimento. Basti pensare al Livre de portraiture di Villard de Honnecourt, che fissa e in un certo senso regola le conoscenze dell’architettura medievale, agli appunti del Bramante e di Louis Kahn, che influenzano causalmente i rispettivi itinera creativi, o ad alcuni schizzi giovanili di Robert Venturi, come ad esempio quelli relativi alla strip di Las Vegas, che presentano in nuce i fondamenti teorici dell’autore. Disegno e progetto quindi, pur rimanendo entità distinte, si alimentano a vicenda, dando luogo a un intreccio di significati. Laddove, se il progetto trova nel disegno un irrinunciabile strumento costitutivo, perché capace di un’organica prefigurazione, a sua volta il disegno (poiché il mezzo non è mai indipendente dalle modalità di attuazione) concorre in misura determinante a definire il significato più profondo di un’idea progettuale: “il disegno si riferisce all’edificio e l’edificio si riferisce al disegno, ma non si imitano l’un l’altro [perché] uno è un’idea per l’altro”21 rimarca Michael Graves. Avviene così che il tipo di disegno adottato (per tecnica e scala di rappresentazione), fornendo implicitamente l’interpretazione che lo stesso progettista avanza sul proprio lavoro, costituisce di per sé una specifica scelta compositiva. Ad esempio la veduta d’angolo, caratteristica di molte prospettive di Giuseppe Terragni e di Enrico Del Debbio, esalta la monumentalità degli impianti, mentre le assonometrie di Theo Van Doesburg e di Gerrit Thomas Rietveld, di chiara eredità meccanicistica, perseguono l’esplicazione dei congegni spaziali; così come le architetture high-tech di Norman Foster e di Richard Rogers abbondano di particolari costruttivi che esauriscono nel loro assemblaggio il proprio mondo compositivo, mentre i disegni di Aldo Rossi, riconoscendo qualità architettonica alla suggestione dei rimandi più che alla specificità dei dettagli, rinunciano a priori al controllo esecutivo. Nondimeno gli esiti progettuali dipendono strettamente dal tipo di rappresentazione utilizzata22. “Il mio disegno impedisce la libera manipolazione dei pensieri, imponendo esso stesso graficamente una solu- Irrilevabile Appunti costruttivi e sistemi di misurazione (Villard de Honnecourt, 1235 ca). Pagina seguente Perspectivische Ansicht der Rotunde des Museums (Karl Friedrich Schinkel, 1831). zione precostituita”scrive Mel’nikov, denunciando la non neutralità del disegno e palesandone la forte incidenza sul progetto in quanto “partecipe delle interne volontà contenute in esso”23. Ogni architettura risente necessariamente del predominio di una particolare tecnica disegnativa: se la stessa ortogonalità di strumenti quali riga e squadra segna inequivocabilmente molte scelte compositive, talora addirittura inibendo la libertà creativa24, è altrettanto evidente che qualsiasi architettura tradisce una sorta di dipendenza genetica dagli strumenti utilizzati nell’ideazione. In altri termini “occorre imparare a camminare nei disegni degli architetti”25, interpretandone criticamente i risvolti iconologici, perché non si possono comprendere pie- Il disegno denso 53 54 Irrilevabile di fondazione teorica: dalla ricostruzione dell’antico Campo Marzio di Piranesi (che rivela le virtualità compositive e interpretative della giustapposizione) alle classificazioni di Durand (che elevano l’analisi tipologica a metodo progettuale), dalla capanna primitiva di Eisen nel frontespizio del trattato dell’abate Laugier (manifesto dell’origine naturale dell’architettura) al teatro di Besançon riflesso nell’occhio di Ledoux (per cui l’unità non è più nella natura, ma nella mente dell’uomo), dal grattacielo in forma di colonna dorica di Adolf Loos per il concorso del Chicago Tribune (che apre le porte dell’architettura namente gli artifici illusionistici del Borromini nella galleria prospettica di palazzo Spada a Roma senza avere presenti le interrelazioni pianta-sezione o il raumplan loosiano senza l’ausilio della sezione, così come non si può cogliere il dinamismo scultoreo delle architetture di Frank Gehry senza considerarne l’ossessiva manipolazione di modelli plastici o il folding di Peter Eisenman senza approfondirne le forbite ricerche geometriche elaborate al computer26. Peraltro il disegno si propone a tal punto come momento di conoscenza da costituire spesso un vero e proprio luogo di fondazione teorica27. Basti pensare a come molte rappresentazioni (di Ledoux, Sant’Elia, Cernikov ecc.), pur non trovando alcuna traduzione costruttiva concreta, hanno segnato la produzione creativa d’intere generazioni28. “Esistono disegni – infatti – che oltre a esprimere con evidenza il senso di quanto da essi figurato, contengono una affiorante significazione teorica (che diviene pertanto allegoria analogica), di solito demandata alla stesura scritta del testo”, così come esiste un serrato rapporto di commistione tra pittura e architettura il cui intreccio è evidentemente riferibile al fatto che “la sostanza della rappresentazione tende a rivelarsi come ‘luogo’ delle relazioni tra parti che solo il segno consapevole tiene insieme ed è capace di indicare anche se sottese”29. E, in questo singolare gioco a incastro, risalta il montaggio mentale incarnato da alcune tappe miliari che segnano il cammino del disegno come luogo 55 Il disegno denso A sinistra Disegno di studio per un edificio (Antonio Sant’Elia, 1914). In basso Studium für ein imaginäres kapitell (Gerd Neumann, 1980). Pagina precedente Berlino (Germania), progetto di ristrutturazione e ampliamento del Reichstag: prospettiva dell’aula assembleare (Santiago Calatrava, 1992). Weil-am-Rhein (Germania), Vitra Design Museum: sezioni (Frank Gehry, 1987). 56 Irrilevabile A sinistra Atlantis (Leon Krier, 1987). In basso Venezia, ponte dell’Accademia: schizzo di studio (Gian Carlo Leoncilli Massi, 1985). Pagina seguente Progettare è fatica (Carlo Aymonino, 1980). alla componente ironica) alle visioni neomeccanicistiche del gruppo Archigram (che annullano le distanze tra artificio e natura). Così come un celebre disegno di Gerd Neumann, Studium für ein imaginäres kapitell, suggella l’affermazione del postmodern, di un movimento che cioè, pur rischiando talora di confondere il mezzo con il fine30, ha riportato l’espressione grafica al centro degli interessi disciplinari; addirittura ricucendo, contestualmente alla reidentificazione del luogo e al recupero della memoria storica, le fila del rapporto tra disegno e progetto31; laddove, negli esiti della “architettura disegnata”, “la ricerca di valori [diventa essa stessa] valore della rappresentazione”32. In opposizione al carattere “eroico” del moderno, infatti, in cui il vigore propositivo e gli intenti di rinnova- 57 Il disegno denso spesso sopravanzato i contenuti delle proposte. Ma gli aforismi di Maurizio Calvesi (“l’architettura disegnata non è più progetto, ma pura immagine”35) e di Massimo Scolari (“l’architettura si confronta con l’architettura e la pittura con la pittura: un bravo architetto che dipinge un brutto quadro diventa un cattivo pittore”36), sottolineando i limiti congeniti nella rappresentazione onirica, hanno ben presto ricondotto il disegno di architettura all’interno dei perimetri disciplinari canonici; quasi a ricordare che l’opera grafica, prima ancora che uno spensierato divertissement, magari strumentale per l’affermazione pubblicistica, rimane un impegnativo atto di conoscenza in cui anche la manualità comporta un ineludibile sforzo fisico, esemplificato da un eloquente disegno di Carlo Aymonino, Progettare è fatica, in cui gli schizzi di studio dell’autore, aggrovigliati come in genere sono convulse e scomposte le prime idee progettuali, grondano sangue. Note A. Siza, Il progetto come esperienza, “Domus”, 746, 1993, p. 17. Sul carattere sperimentale del disegno cfr. F. Orsini, I presupposti perduti. Creatività e norme in architettura, Milano 1990; G. Nardi, Il progetto euristico in architettura, in M. Bertoldini (a cura di), L’atto progettuale. Struttura e percorsi, Milano 1991, pp. 131-140. 3 Cfr. M. Brusatin, voce disegno, progetto, in Enciclopedia, IV, Torino 1978. 4 “Questa fase di passaggio dall’idea al disegno non è né immediata né lineare: ha bisogno al contrario di progredire in successive approssimazioni fino alla definizione finale. La consuetudine al disegno quindi, inteso non solo come rappresentazione, ma come attività da cui nasce l’architettura, è parte integrante del progettare” (G. Rosa, A. Sajeva, Architetti romani: un dibattito, “Casabella”, 449, p. 19). Quello del disegno di progetto è in effetti un percorso ciclico, punteggiato da continui ripensamenti. Infatti “non solo lo schizzo, ma ogni fase del lavoro progettuale può essere letta come un testo da interrogare che pone domande ed esige risposte. Un testo che mostra l’oggettivarsi di un pensiero, ove la mano traduce l’atto mentale in rappresentazione e questa rappresentazione si pone in una dimensione interlocutoria, mostrando carenze e inadeguatezze, sollecitando nuove idee” (M. Zappelli, Filosofia della ricerca ed euristica del progetto, in M. Bertoldini, a cura di, op. cit., p. 149). 5 Sul carattere fondamentalmente astratto della rappresentazione cfr. G. Ciucci, Rappresentazione dello spazio e spazio della rappresentazione, 1 2 mento sociale soppiantano la tradizione accademica del “bel disegno”, il postmoderno prima e il decostruttivismo poi adottano codici grafici raffinatissimi, che se nelle espressioni più illuminate ampliano l’esperienza dell’osservatore, negli epigoni giungono a forzare i meccanismi cerebrali che li sottendono oltre le soglie dell’incomprensibilità33; al punto che, sull’onda di un dilagante collezionismo, i margini tra architettura e pittura diventano sempre più labili34. “Non costruisco, perché sono un architetto”: l’eco di questo paradossale slogan, lanciato da Leon Krier negli anni settanta, è a lungo aleggiato sulle “architetture di carta” ovvero su quelle preziose tavole, elaborate in occasione di concorsi regolarmente disattesi, in cui le forme di presentazione hanno 58 “Rassegna”, 9, 1982, pp. 7-24. 6 V. Ugo, Rappresentare/Costruire, “XY, dimensioni del disegno”, 10, 1989, pp. 77-86. 7 Cfr. N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna 1959, voce disegnare. 8 Cfr. F. Calonghi, Dizionario Latino-Italiano, Torino 1950, voce designare. 9 F. Purini, Il disegno e il rilievo, in G. Ciucci (a cura di), Guida alla Facoltà di Architettura, Bologna 1983, p. 113. 10 Nel cantiere di San Pietro a Roma “Raffaello organizza un processo progettuale”, formalizzato nella lettera a Leone X del 1519, “che permette e probabilmente anche prevede l’intervento di figura, di attori diversi nelle staccate fasi del processo” (A.C. Quintavalle, Note sul disegno, in Progetti e assonometrie di Alberto Sartoris, Roma 1982, p. 9). Raffaello, infatti, “oberato com’era da numerosi altri impegni, aveva dovuto escogitare un metodo atto a chiarire le sue intenzioni architettoniche per poter assicurare la continuità dei lavori anche in sua assenza” (W. Lotz, Studi sull’architettura italiana del Rinascimento, Milano 1989, p. 30). 11 Secondo Goodman, l’identità e l’unicità dell’opera è legata al tipo di simbolizzazione particolare che agisce all’interno del linguaggio adottato. Lo spartito musicale, ad esempio, è caratterizzato da un sistema notazionale, cioè da un sistema costituito da un insieme di caratteri cui corrisponde un significato univoco. Nello schizzo, invece, che si avvale per l’appunto dello “schema denso” in cui “nessun tratto può essere considerato come contingente, nessuna deviazione come insignificante”, non è possibile distinguere tra segni rilevanti e segni irrilevanti (cfr. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, Milano 1976, pp. 99-103). 12 “Il progetto nasce come schizzo, cioè come momento autografico ove tutto è essenziale, lo schizzo si avvicina in questo senso a una rappresentazione pittorica in quanto privo di un preciso e univoco ‘sistema di differenziazione sintattica e semantica’. Altrettanto però non si può dire per il progetto esecutivo che si avvale di un sistema notazionale, l’identità del progetto deve poi confrontarsi con la realizzazione del progetto. Si passa da un codice più personale a un sistema rigido e condiviso”. Il disegno di progetto “si situa in questo modo al confine tra un disegno pittorico e altri tipi di rappresentazione grafica strettamente notazionali come per esempio i diagrammi” (M. Zappelli, op. cit., p. 143). Cfr. in proposito anche M. Scolari, La questione del Disegno, “Casabella”, 486, 1982, pp. 38-39; F. Purini, Nota introduttiva a “Arti elettroniche” di L. Taiuti, “XY, dimensioni del disegno”, 14/15, 1992, p. 45. 13 Il carattere conoscitivo del disegno è puntualizzato da Ungers con una notazione personale. “Disegno molto. Le immagini, certo, vengono elaborate interiormente, e in seguito verificate con il disegno [...] Disegnare è come scrivere o creare le parole per un poeta. Disegnando si possono scoprire cose nuove” (O.M. Ungers, Dall’imago al progetto, “Domus”, 735, 1992, p. 18). 14 Il disegno, infatti, “non intende dare forma sensibile alla verità, ma intende parlare della verità, della ricerca continua dei suoi accadimenti: pos- Irrilevabile siamo dire che il rappresentare dà forma non ad un compimento, ma a un’attesa” (P. Derossi, Pensieri nelle cose e cose nei pensieri, Milano 1993, p. 139). 15 “Per gli antichi maestri [...] il disegno era soltanto un mezzo per farsi capire dall’artigiano esecutore” (A. Loos, Parole nel vuoto, Milano 1972, p. 246). Il ruolo comunicativo del disegno, ad esempio, è ben testimoniato dagli intensi carteggi intercorsi tra Galeazzo Alessi e i suoi assistenti di cantiere durante i lavori di costruzione della basilica di Santa Maria Assunta in Carignano a Genova. Annota, infatti, l’Alessi in una missiva del 25 agosto 1567 ad Angelo Doggio, suo fiduciario nel cantiere genovese: “Ho recevute le vostre lettere insieme con il disegno l’altro giorno mandatovi, con una copia che diti haver levata dalla cuppola ch’è sopra il tabernaculo, e parendomi molto differente l’una dall’altra vi generava confusione. Acciò voi vediate quanto sia poca la differenza ch’è tra essi, ve li rimando tutti e doi disegnati in uno stesso foglio” (S. Varni, Spigolature artistiche nell’Archivio della Basilica di Carignano, Genova 1877, pp. 37-39). 16 “Aggiungerò anche che tutta la costruzione analogica di un mondo prefigurato attraverso il disegno ha contagiato perfino il mondo dei grandi committenti, che guardano il loro edificio un po’ come i turisti guardavano Roma cercandovi qualcosa di Piranesi! Guardano se l’edificio realizzato corrisponde in qualche modo alla bella prefigurazione che l’architetto gli aveva mostrato prima. Quindi la realizzazione diventa in qualche modo un termine di confronto rispetto alla capacità restitutiva che i disegni degli architetti hanno acquisito in termini anche illustrativi” (P. Nicolin, Pluralismo e narratività, in E. Calvi, a cura di, Oltre la linea... dell’avanguardia, Milano 1992, p. 76). 17 A. Anselmi, Disegno di architettura e Architettura disegnata, “Abacus”, 21, 1990, p. 22. 18 A. Siza, op. cit., p. 17. 19 F. Purini, Vincenzo Giuseppe Berti e allievi nello studio di Franco Purini e Laura Thermes, “Parametro”, 192, 1992, p. 62. 20 G. Caronia, Ritratto di Michelangelo architetto, Roma-Bari 1985, p. 147. 21 M. Graves, Intervista a Michael Graves, “Costruire in Laterizio”, 36, 1993, p. 535. 22 “Anche il disegno è un metodo per sviluppare la ricerca architettonica. Non mi riferisco qui a belle descrizioni prospettiche e simili. Penso invece alle questioni della tecnica e al rapporto che gli antichi maestri coltivavano con le varie tecniche” (A. Rossi, Alcuni miei progetti, in A. Ferlenga, a cura di, Aldo Rossi. Architetture 1959-1987, Milano 1987, p. 14). 23 M. De Simone, Disegno Rilievo Progetto, Roma 1990, p. 192. 24 Sui limiti congeniti nel disegno “a riga e squadra”, appare fondamentale la posizione polemica di Bruno Zevi: “Con la riga e la squadra, il tavolo da disegno e il tecnigrafo, risulta difficile ed estenuante riprodurre un episodio urbano medievale come la piazza del Campo a Siena. Servendosi di questi strumenti, si concepiscono soltanto architetture scatolari, facilmente rappresentabili col meccanismo del sistema prospettico” (B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura, Torino 1973, p. 28). E ancora: “Armato di Il disegno denso riga a T, l’architetto non pensa più l’architettura, ma solo il modo di rappresentarla. La lingua prospettica ‘lo parla’, costringendolo a progettare in termini di prismi e di ordini prismatici sovrapposti” (ivi, p. 34). 25 F. Purini, Luogo e progetto, Roma 1976, p. 31. 26 Osserva in proposito Peter Eisenman, sottolineando il passaggio della progettazione dal paradigma meccanico a quello elettronico: “la modifica del rapporto tra proiezione prospettica e spazio tridimensionale cambia anche la relazione tra il disegno progettuale e lo spazio reale. In questo senso, i disegni hanno scarso rapporto con lo spazio oggetto della progettazione. Ad esempio, non è più possibile disegnare una linea che indichi una relazione dimensionale con un’altra linea entro lo spazio del progetto, per cui le linee disegnate non hanno più nulla a che fare con la ragione, il rapporto tra la mente e l’occhio” (P. Eisenman, Oltre lo sguardo. L’architettura nell’epoca dei media elettronici, “Domus”, 734, 1992, p. 20). 27 Nota in proposito Tadao Ando: “La linea tracciata con un preciso intento [...] può, in certi casi, cambiare il mondo. Con ciò intendo un mondo di dimensione spirituale, in cui uno stimolo intellettuale può produrre una nuova coscienza percettiva” (T. Ando, Sul progetto di architettura, “Domus”, 738, 1992, p. 17). 28 “Potrei lamentarmi che molti miei progetti non sono stati realizzati e che alcune costruzioni sono state effimere: ma per la prima osservazione dirò che in questo mi trovo riunito ai grandi architetti” (A. Rossi, Premessa, in G. Braghieri, a cura di, Aldo Rossi, Bologna 1981, p. 7). 29 M. De Simone, op. cit., p. 160. 30 “È indubbio che la progettazione dell’architettura trova la propria origine e il proprio sviluppo nello strumento del disegno; com’è indubbio che, quando lo strumento prevarica la finalità cui è preposto, si ha fenomeno di eretismo” (G. Canella, Disegno di architettura e Architettura disegnata, “Abacus”, 21, 1990, p. 22). 31 Presentando una raccolta di disegni di architetti della Scuola Romana degli anni settanta, Maldonado osserva che “il filo unificante è la preoccupazione per una architettura nella quale progetto e disegno costituiscono una unità creativa inscindibile, una vera e propria unità di reciproca influenza e sostegno” (T. Maldonado, Architetti romani, “Casabella”, 449, 1979, p. 9). 32 F. Moschini, Il disegno tra utopia e teoria: le linee portanti della ricerca, “XY, dimensioni del disegno”, 10, 1989, p. 34. In proposito cfr. anche G. Muratore, Disegno, immagine, progetto, “Casabella”, 449, 1979, pp. 10-17. 33 “I veri disegni architettonici, che possono essere anche i più difficili da interpretare, non seguono i codici convenzionali. Direi che, secondo me, i disegni che non servono per la presentazione del lavoro sono i più interessanti, perché non finalizzati... I veri disegni architettonici servono a evocare l’esperienza mancante o l’equivalente dell’esperienza di un’architettura assente – laddove – si tratta dell’esperienza non esistente che queste evocano nell’osservatore” (D. Libeskind, Tra metodo, idea e desiderio, “Domus”, 731, 1991, p. 18). 34 Non a caso la corrente postmoderna si è consolidata intorno ad alcune iniziative espositive incentrate sull’architettura disegnata, come ad esempio le 59 mostre “Assenza/Presenza” (Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, 1978), “La presenza del passato” (Arsenale di Venezia, 1980), “Images et immaginaires d’architecture” (Centre George Pompidou di Parigi, 1984). Peraltro, proprio intorno alla fine degli anni settanta, vengono istituite gallerie e istituzioni che si occupano stabilmente di disegni di architettura: tra queste “in Italia il ‘Centro di Documentazione’ di Parma, [...] la ‘A.A.M.’ di Francesco Moschini a Roma e ‘Disegni di Architettura’ di Antonia Jannone a Milano. A New York agiscono stabilmente in questo settore la Castelli e la Max Protecht. La Germania ha istituzionalizzato anch’essa in un museo questo interesse” (F. Purini, Disegno di architettura e Architettura disegnata, “Abacus”, 21, 1990, p. 24). 35 M. Calvesi, Prego esca dallo specifico, “L’Espresso”, 42, 1980, p. 177. 36 M. Scolari, Considerazioni e aforismi sul disegno, “Rassegna”, 9, 1982, p. 83. Venezia, padiglione Electa: schizzi di studio (James Stirling, 1989). Il disegno ideativo Sketches di James Stirling Lavoro in modo soprattutto intuitivo. Il mio è un processo mentale in cui esploro, facendo schizzi e disegnini, le differenti possibilità. Poi, quando si capisce che cosa si vuole ottenere, si comincia a farci sopra delle teorie. È una combinazione tra quello che viene fuori dalla mia matita e quello che, nello stesso tempo, sto pensando. James Stirling Il progetto di architettura nasce per lo più come schizzo; ovvero come concentrato d’intenzioni all’interno del quale non è possibile stabilire un ordine logico dei diversi grafismi (in genere decodificabili solo per catene di associazioni soggettive) e in cui le regole della geometria descrittiva soggiacciono continuamente a licenze espressive che tendono a contaminare tecniche rappresentative anche disomogenee. E James Stirling non si è certo sottratto a questa prassi, avviando sistematicamente la propria attività progettuale con schizzi intricati (e intriganti) dove “la forma germina dal topos”1; veri e propri stillicidi di ricordi, tracciati istintivamente su supporti cartacei anche occasionali, in cui i vincoli esterni e le memorie storiche, accavallandosi e intrecciandosi senza soluzione di continuità, si risolvono in schemi planimetrici o, al limite, in piccole assonometrie volumetriche eseguite di getto, ma capaci di consentire, attraverso un incessante processo a feedback, la precisazione dell’idea nelle sue linee programmatiche essenziali; rimandando alla fase comunicativa l’eventuale approntamento di modelli plastici o l’informatizzazione dei dati. Stirling, infatti, redigendo schizzi autografi carichi di citazioni (“scarabocchi [...] grandi circa un centimetro [...] una specie di interazione fra pensieri quasi inconsci e le forme che assumono i piccolissimi disegni”2), si è sempre impegnato in prima persona nell’atto inventivo, riconoscendo nella discontinuità ideativa l’unica vera garanzia per fuggire l’impasse manieristico; tanto da essere considerato “un mago che tutte le volte tira fuori dal cappello qualcosa di nuovo [...] di sorprendente”3. Peraltro, dall’analisi del rapporto tra i minuti schizzi preliminari e le idee che contrassegnano le architetture di Stirling, al di là dell’evoluzione dei diversi stilemi che ne hanno accompagnato la lunga attività professionale, risalta un denominatore che, in qualche modo, ne unifica tutto l’iter poetico: una caparbia operazione di decomposizione degli strumenti linguistici ereditati dai maestri del movimento moderno attraverso il recupero, talora anche spregiudicato, di “parole” che, una volta estrapolate dal contesto originale, sono rimontate in testi originali e innovativi in cui, secondo i dettami della lezione derridiana, anche le pause assumono la valenza di contenuto. Stirling, infatti, nella sua lunga attività, ha rivisitato trasversalmente e ha contaminato ludicamente, senza cioè pregiudizi gerarchizzanti, l’intero repertorio storicistico, mettendo a punto, sia da un punto di vista formale sia in chiave squisitamente tipologica, soluzioni architettoniche assolutamente innovative in cui l’adeguatezza funzionale anticipa la definizione materica; in base cioè a un processo eclettico puntualmente evidenziato proprio dagli schizzi di studio. Basti pensare ai disegni preliminari degli House studies, del Queen’s College di Oxford e della Dredsner Bank di Marburgo; prove tangibili di come, al di là delle contingenze localistiche e nonostante le inevitabili difformità epocali (le declinazioni stilistiche di Stirling hanno oscillato dagli influssi lecorbusieriani all’high-tech, dal postmodern al decostruttivismo), le composizioni stirlinghiane presentano un comune perno strutturante, riconoscibile nel sistema delle comunicazioni pedonali sia orizzontali che verticali, intorno al quale si avvitano, non senza contraddizioni e compiacimenti ironici, corpi edilizi per lo più disomogenei, spesso di forma libera e, soprattutto, funzionalmente autonomi; il che recupera in nuce il signifi- 62 Irrilevabile In alto Aix-en-Provence (Francia), rilievo a vista di un edificio claustrale (James Stirling, 1950); Düsseldorf (Germania), Museum für Nordrhein Westfalen: schizzi di studio (James Stirling, 1975). A sinistra Oxford (Gran Bretagna), Queen’s College: schizzi di studio (James Stirling, 1966). Pagina seguente Stoccarda (Germania), Neue Staatsgalerie: schizzo di studio (James Stirling, 1977). Berlino (Germania), Wissenschaftszentrum: assonometria (James Stirling, 1979). Il disegno ideativo 63 cato più pregnante della lezione di Louis Kahn, segnatamente la nota distinzione tra “spazi serviti” e “spazi serventi”. E, da questo punto di vista, appaiono particolarmente emblematici gli schizzi relativi a tre concorsi museali, elaborati intorno alla metà degli anni settanta per altrettante municipalità tedesche. La suggestiva metafora urbana del Museum für Nordrhein Westfalen di Düsseldorf, ad esempio, è organizzata intorno a un percorso che fin dai primi schizzi, snodandosi irregolarmente tra le diverse parti dell’edificio, sfocia in una corte centrale rotonda, che solo successivamente Stirling, rispolverando un rilievo giovanile, appuntato durante un viaggio in Provenza, impreziosisce con la presenza, al contempo monumentale e vernacolare, di quattro cipressi che ne sanciscono il carattere claustrale. Così come, nel Wallraf Richartz Museum di Colonia, il pastiche storicistico (lo ziggurat conico, la foresta pilastrata di Karnak, la basilica palladiana, il filare alberato toscano ecc.) è unificato da una promenade architecturale che struttura le diverse componenti. Mentre, nella 64 Irrilevabile Neue Staatsgalerie di Stoccarda, il sistema dei percorsi pedonali, oltre a garantire il libero attraversamento del lotto d’intervento, complica lo spazio con una serie articolata di scorci prospettici, imprevedibili e sorprendenti, che sdrammatizzano la monumentalità della rotonda ipetrale di shinkeliana memoria. Parallelamente sono i disegni preparatori del Wissenschaftszentrum di Berlino a confermare la naturale propensione di Stirling per la contaminazione irriverente (al punto che Colin Rowe lo ha definito architect-bricoleur4), laddove un intervento concepito unitariamente simula giustapposizioni e dislocazioni planimetriche altrimenti peculiari dei tessuti sedimentati, mentre quelli per il padiglione Electa a Venezia, densi Dall’alto Milton Keynes (Gran Bretagna), Olivetti Headquarters: schizzi di studio (James Stirling, 1971). Liverpool (Gran Bretagna), Tate Gallery in the North (Albert Dock): schizzi di studio (James Stirling, 1982). A destra Cambridge (Ma.-USA), Arthur M. Sackler Museum: schizzi di studio (James Stirling, 1979). Il disegno ideativo di appunti e di notazioni estemporanee in calce agli stessi, testimoniano la metamorfosi dello stesso da chiosco a vaporetto: “la più esplicita ammissione del fascino che Stirling ha sempre avvertito per l’architettura navale”5 insieme con le prime idee approntate per la Tate Gallery in the North (Albert Dock) di Liverpool. D’altra parte, indugiando solo raramente sull’inserimento paesaggistico (nella Andrew Melville Hall di Saint Andrews), sull’equilibrio volumetrico (nella Woolton House di Liverpool e nella S iemens AG di Monaco) o sui dettagli costruttivi (nell’Engineering Building di Leicester e nel progetto per le Townhouses di New York), la mano di Stirling ha sempre preferito soffermarsi a riflettere sulle sezioni, perché luogo deputato a controllare non solo l’illuminazione naturale, ma anche e soprattutto gli scorci visuali introspettivi, continuamente cangianti e di sapore vagamente voyeuristico: così nella Olivetti Headquarters a Milton Keynes, nella Clore Gallery di Londra e nella ristrutturazione di palazzo Citterio a Milano. In definitiva, scorrendo anche sommariamente la copiosa produzione degli schizzi stirlinghiani, risaltano architetture caratterizzate da equilibri instabili, in oscillazione tra polarità divergenti6: tra formale e informale, tra seriale e originale, tra monumentale e popolare, tra regolare e accidentale. Il risultato sono architetture supportate da una continua, sofferta ricerca che, senza concedersi alle facili declinazioni formalistiche, punta decisamente su una sorpresa tipologico-spaziale sottolineata, negli elaborati grafici finali, da quella visualizzazione assonometrica che, come ben lumeggiato da Costantino Dardi, “con la sua mancanza di un orizzonte di riferimento, con la sua grafia spoglia da implicazioni contestuali [...] indica l’attitudine dell’opera a porsi come oggetto”7. E i disegni di studio, rigorosamente redatti a penna su carta e assolutamente scevri da tentazioni autocelebrative, sono la prova più convincente di un procedimento concettuale in cui, a ben guardare, lo schizzo assolve sempre il ruolo di un vero e proprio strumento vocato al rilievo delle idee. Perché, in architettura, “i progetti cominciano a svilupparsi tra la mano e la testa”8. Note 1 C. De Seta, La storicità dialettica di Stirling, in A. Izzo, C. Gubitosi (a 65 cura di), James Stirling, Roma 1976, p. 24. 2 J. Stirling, L’architettura in un’epoca di transizione, “Domus”, 741, 1992, p. 17. 3 Cose di Stirling. Sunand Prasad e Satish Grover intervistano James Stirling, in R. Maxwell (a cura di), James Stirling. Scritti di architettura, Milano 1988, p. 243. 4 C. Rowe, James Stirling. A Highly Personal and Very Disjointed Memoir, in P. Arnell, T. Bickford (a cura di), James Stirling. Buildings and Projects, New York, 1984, p. 16. 5 F. Dal Co, Introduzione, in F. Dal Co (a cura di), Padiglione del libro Electa della Biennale di Venezia, Milano 1991, p. 15. 6 Cfr. J. Stirling, Le aspirazioni e gli effetti sull’architettura, in R. Maxwell, op. cit., p. 153. 7 C. Dardi, Lettura di James Stirling, “Lotus International”, 6, 1969, p. 123. 8 Cose di Stirling. Sunand Prasad e Satish Grover intervistano James Stirling, in R. Maxwell (a cura di), op. cit., p. 249. Le avventure di Michel Vaillant. San Francisco Circus (Jean Graton,1969). Stazione di servizio tipo Esso: prospettiva (Vittorio De Feo, 1970). Pagina seguente Dar es Salaam (Tanzania), sede degli uffici Tanu: prospettiva dell’aula assembleare (Vittorio De Feo, 1971). Roma, chiesa dei Santi Patroni Martiri di Selva Candida: sezione prospettica (Vittorio De Feo, 2000). Il piacere del disegno Sull’eclettismo grafico di Vittorio De Feo Raramente, come nel caso di Vittorio De Feo, è possibile stabilire una precisa correlazione fra attività di ricerca e sperimentazione progettuale, fra incursioni storiografiche e tecniche rappresentative; laddove all’anticonformismo degli interessi disciplinari (che, nel corso degli ultimi quaranta anni, spaziano liberamente dal costruttivismo russo al barocco romano, da Robert Venturi ad Andrea Pozzo) corrisponde l’evidente eclettismo grafico. I disegni di De Feo, infatti, “testimoniano un processo creativo continuamente tentato dall’universo totale della rappresentazione, che mescola le carte delle arti, della tecnologia e della narrazione, senza mai perdere di vista il proprio oggetto primario che è – e rimane – l’architettura”1; sfuggendo cioè le secche paludose del “disegno di architettura” e riaffermando implicitamente la necessità del “disegno per l’architettura”. Il che, parafrasando una considerazione dello stesso De Feo2, comporta, nonostante le reciproche influenze e connessioni, un approccio profondamente diverso, indotto dalle differenti finalità dei due generi: nel primo caso il disegno stesso (per la pubblicistica), nel secondo l’architettura (per la città); senza quindi rischiare di confondere il mezzo con il fine. Dall’analisi cronologica dei disegni di De Feo, infatti, deriva un’immediata considerazione: mentre il rigore degli elaborati mongiani (piante, prospetti e sezioni) conferisce agli stessi, al di là delle differenze compositive, un carattere sostanzialmente omogeneo (con un forte contrasto tra il “nero” dei pieni e il “bianco” dei vuoti, di sapore vagamente accademico), sono proprio le diverse soluzioni adottate nelle vedute prospettiche a svolgere un ruolo esplicativo, svelando i soggettivismi e i riferimenti autobiografici occasionali. Nonostante gli intervalli temporali, infatti, non sono riscontrabili differenze sostanziali fra le rigorose piante della biblioteca comunale di Nocera Inferiore, del complesso teatrale di Forlì e del 68 palazzo della Provincia di Pordenone; mentre appare sensibile lo scarto, ad esempio, fra la prospettiva della sede dell’assemblea nazionale dei Tanu a Dar es Salaam e quella della chiesa dei Santi Patroni Martiri di Selva Candida a Roma. Rappresentazioni, queste, che non solo attingono copiosamente dal repertorio storico (dal chiaroscuro piranesiano all’illusionismo barocco), ma testimoniano anche una profonda attenzione per l’espressione artistica in genere. Infatti, mentre le prime prospettive di Vittorio De Feo tradiscono un carattere neorealista (dalle vedute del progetto per un quartiere di 5.000 abitanti nell’area dei mercati generali a quelle del circolo RAI a Roma), già il progetto per una stazione di servizio ESSO, che assume il marchio aziendale come matrice morfologico-figurativa, comprova l’interesse dell’autore per l’ibridazione disciplinare (nello specifico tra architettura e comunicazione pubblicitaria). Tanto che la prospettiva di concorso s’ispira programmaticamente al mondo dei fumetti, in particolare alle strips di Jean Graton per le avventure di Michel Vaillant. D’altra parte la verifica delle potenzialità espressive insite nel rapporto fra rappresentazione architettonica e comics (rapporto privilegiato dalla capacità del fumetto di riflettere attentamente la realtà sociale, di rinnovarsi di pari passo con le altre arti coetanee quali cinema, fotografia Irrilevabile Dall’alto Roma, circolo aziendale Rai: prospettiva (Vittorio De Feo, 1963). Le avventure di Tintin. Lo scettro di Ottokar (Hergé, 1987). Pagina seguente Venezia, padiglione Italia: prospettiva (Vittorio De Feo, 1988). Palermo, sede degli uffici IRFIS: prospettiva (Vittorio De Feo, 1979). Casa per D.K.: schemi planimetrici (Vittorio De Feo, 1980). Il piacere del disegno e televisione) accompagna costantemente la sperimentazione grafica di De Feo. Basti pensare al progetto di concorso per il padiglione Italia a Venezia, dove la prospettiva d’insieme, per la piattezza della stesura cromatica oltre che per la nitidezza dei segni, rimanda al filone della “linea chiara”, segnatamente alle avventure di Tintin. E, certo non a caso, le architetture di De Feo, al pari delle vignette del fumetto francese (sistematicamente incorniciate in ordinati quadratini che Hergé disegnava a più riprese, con meticolosa attenzione), appartengono più al mondo dell’artigianato, lento e paziente, che non alla ripetitività della produzione industriale. Ma non è tutto. Occasionalmente, e liberamente, De Feo rispolvera esperienze figurative tra le più disparate, anche apparentemente incommensurabili. Se, infatti, nell’acquerello elaborato per il progetto di un centro teatrale a Udine il nuovo edificio “viene raffigurato nei tratti naif di una veduta di provincia dei primi anni del secolo”3 e se “le rarefatte rappresentazioni”4 dei progetti per Legnago, Palermo e Botticino, affondano le proprie radici nell’esperienza metafisica (con riferimenti espliciti a De Chirico e Sironi), gli schemi planimetrici della casa per D.K. chiamano direttamente in causa le campiture di Roy Lichtenstein e i pannelli di Jim Dine. Un interesse, quello per la pop art, puntualmente confermato dal prospetto elaborato per un monumento alla Resistenza a Fidenza: un curioso collage ritoccato a mano che contamina ambiguamente disegno e fotografia, originale e copia, unicità artigianale e serialità industriale, rimandando, per l’artificiosità dei cromatismi, alle cartoline contraffatte degli anni cinquanta o, per l’appunto, alle fotoserigrafie di Andy Warhol. D’altra parte non era proprio Warhol a sentenziare laconicamente “ignoro dove finisca l’artificiale e cominci il reale?”5. E non è forse proprio la volontà di praticare i margini tra artificiale e reale a portare De Feo a dilatare oltremisura gli orizzonti disciplinari, fino a descrivere il progetto della casa per A.N. con il racconto di un corteggiamento amoroso prima che con gli strumenti tradizionali del disegno6? 69 70 Irrilevabile Fidenza (Pr), monumento alla Resistenza: prospetto (Vittorio De Feo, 1987). Il piacere del disegno Note C. Conforti, Attraverso le architetture di Vittorio De Feo, in C. Conforti, F. Dal Co (a cura di), Vittorio De Feo. Opere e progetti, Milano 1986, p. 7. 2 V. De Feo, L’architettura negata, in G. Ciucci (a cura di), L’architettura italiana oggi. Racconto di una generazione, Roma-Bari 1989, p. 83. 3 F. Dal Co, Architettura come forma sospesa, in V. De Feo, Il piacere dell’architettura, Roma 1976, p. 17 4 M. Zardini, L’impegno della tradizione, in V. De Feo, 13 Progetti, Roma 1991, p. 9. 5 N. Printz, Warhol visto da Warhol, in K. McShine (a cura di), Andy Warhol. Una retrospettiva, Milano 1990, p. 461. 6 Cfr. V. De Feo, Tre racconti di architettura, Melfi 1997, pp. 7-23. “Nel racconto La casa (e Anna) ripercorri una storia di corteggiamento amoroso, nella quale il protagonista cerca di attrarre Anna sollecitandone la curiosità verso la costruzione di una casa, la propria. Ne ricaviamo una descrizione accurata, per ovvi motivi sottilmente seducente, di come vi si arrivi, di ciò che si vede all’inizio, degli ambienti, della loro forma, di come sia possibile attraversarli, delle sensazioni legate all’uscire e al rientrare; accompagni il lettore verso una sorta di de-costruzione dello spazio, ne riveli il significato e le dimensioni (tutt’altro che metriche), dichiari la sequenza combinatoria delle parti, ne raffiguri infine il marchingegno compositivo con una sola pianta, un profilo ed un paio di schizzi prospettici che non completano l’apparato descrittivo, lo assecondano solleticando l’immaginazione” (F. Taormina, Monologo con Vittorio De Feo, Palermo 2001, p. 54). 1 71 Interno con progetto (Aldo Rossi, 1972). Pagina seguente Riflessi della luce elettrica (Aldo Rossi, 1985). Sogni e disegni di design Aldo Rossi: dieses ist lange her Quando disegno un oggetto di arredo, mi ricordo sempre di quello strano pezzo di legno che poteva diventare un mobile, poi fu destinato a essere un burattino, e infine divenne Pinocchio. Certo si trattava di un legno geniale, ma non è escluso che queste cose succedano. Aldo Rossi Al di là delle multiformi tecniche grafiche utilizzate, i disegni di Aldo Rossi1 hanno sempre tradito la straordinaria sensibilità dell’autore nell’evocazione poetica del confine, oltremodo labile e misterioso, tra la storia collettiva e le vicende private. Non a caso quello intrapreso da Rossi con i propri disegni è stato un viaggio nella memoria piuttosto che nello spazio, una vera e propria autointrospezione che, nel suo divenire, ha generato un flusso magmatico di forme elementari, lungo il cui corso sono andati affiorando, accavallandosi senza soluzione di continuità, emozioni e sentimenti tra i più universali: un’introspezione che peraltro, segnando tutte le tappe cruciali della ricerca grafica aldorossiana, ha prodotto una singolare ridondanza della semplicità2. Architrave dopo architrave, muro dopo muro, colonna dopo colonna, gli archetipi di Rossi si sono inseguiti per il mondo: da Toronto a Clermont Ferrand, da Berlino a Fukuoka, da Orlando a Maastricht. Eppure, nonostante l’ineluttabile proliferazione iconica determinata da un’attività professionale sempre più intensa, il “mondo rigido di pochi oggetti” auspicato agli esordi è rimasto un fermo fondamento, che ha sempre ancorato saldamente ogni progetto allo studio milanese di via Maddalena. Il che è appalesato dalle architetture, ma ancorpiù dall’attività di design e, soprattutto, dagli innegabili influssi tra i due generi. Rossi, infatti, al pari dei maestri dell’età eroica del moderno (soprattutto Tessenow, Loos e Mies Van der Rohe), è riuscito a compendiare sapientemente la città e la casa, l’ordine gigante e l’ordine nano, la dimensione pubblica e quella privata; senza cioè operare distinzioni tra il progetto di una sedia e quello di un museo, ma, all’opposto, recuperando inclusivamente i frammenti ideativi e gli spunti formali compressi nei copiosissimi schizzi di studio per poi riutilizzarli liberamente in forma di reperti autobiografici; con una sostanziale indifferenza per la specificità del tema e secondo una logica compositiva per cui, come in un puzzle eclettico, i diversi tasselli (parti di città o semplici suppellettili d’ar- 74 redo), dismessa ogni residua gerarchia (simbolica e funzionale), sono riorganizzati in un quadro unitario dall’uso sapiente della metafora: una tecnica desunta dall’ars retorica classica e grazie alla quale l’apparente elementarità delle composizioni rossiane è complicata dalla straordinaria molteplicità dei rimandi e delle allusioni. Perché l’innata attitudine di Rossi al collezionismo3 fa sì che, nei disegni, ogni segno “si confonde con un altro segno e suscita conclusioni più lunghe della storia precedente”4. Così, se la soluzione del cilindro sormontato da una cupola, inseguita e sviscerata da Rossi per quasi venti anni stu- Irrilevabile diando non solo i monumenti del passato (su tutti il Pantheon e il battistero di Pisa), ma anche le grandi costruzioni agricole della padania (in particolare i silos e i mulini), trova la propria consacrazione nella caffettiera Cupola, parimenti l’appassionato interesse strutturale per l’osteologia influenza non solo le planimetrie della scuola elementare di Fagnano Olona o del cimitero di San Cataldo a Modena, ma anche la sedia Metrica (rappresentata confusa tra scheletri di cavalli vagamente leonardeschi). Mentre, se l’incubo ossessivo delle cabine dell’Elba, onnipresente nelle innumerevoli versioni delle Geometrie della memoria (in cui il tipo balneare crolla e, Sogni e disegni di design 75 decomponendosi, si sovrappone ad altri elementi eterogenei) nonché matrice fondativa del progetto per la casa dello studente di Chieti, s’incarna nel celebre armadio Cabina, in modo del tutto analogo sussiste più di un’affinità tra i setti giganti del broletto di Fontivegge a Perugia e le testate del letto Lario. Peraltro il cordone ombelicale che ha sempre serrato in un tutt’uno l’architettura e il design di Rossi è talmente forte che, nei primi disegni, sono gli oggetti a dilatare la propria dimensione fino a partecipare direttamente alle fantastiche visioni urbane (magari, così come vuole il genere medievaleggiante della dedicatio, “protetti” dalla mano benedicente del san Carlone e giustapposti, tra le sfumature di terra di Siena e di giallo paglierino, alla sequenza ordinata dei portali del Gallaratese o ai reperti più straniati della propria arte moltiplicatoria: la torre ottagonale a scatti telescopici, il matitone aguzzo, il gasometro sormontato dalla ciminiera ecc.); mentre negli ultimi schizzi, spesso ambientati in quadri domestici, è la “città analoga” a fare capolino attraverso finestre spalancate, alla maniera di Magritte, su una Milano di memoria sironiana: il duomo avvolto nella nebbia e il castello Sforzesco, ma anche Il San Carlone (Aldo Rossi, 1977). A destra Interno domestico (Aldo Rossi, 1996). Pagina precedente Composizione con cavalli (Aldo Rossi, 1983). Estate (Aldo Rossi, 1979). Pagina seguente Dieses ist lange her/Ora questo è perduto (Aldo Rossi, 1975). 76 le caratteristiche case popolari di porta Ticino, con i loro ballatoi promiscui e con gli odori stantii di stufato e di bollito; quadri domestici caratterizzati da una malinconica nostalgia per il vissuto che solo Arduino Cantafora e Paolo Conte, tra gli artisti italiani contemporanei, hanno saputo cogliere con pari poeticità, e in cui gli “oggetti” rossiani, confusi tra bicchieri di vino, pacchetti di sigarette (le onnipresenti Caporal, Camel e Gauloises) e cartoline esotiche, sono ritratti di notte, per lo più illuminati, come in una sequenza neorealista, dalla luce Irrilevabile soffusa di un’obsoleta lampada a sospensione. Al centro dei disegni d’interni di Rossi, infatti, non sono tanto gli arredi (cui casomai compete il ruolo demandato alla maschera della tragedia greca, volta a esaltare il carattere e i sentimenti degli attori mediante la caricatura delle diverse espressioni) quanto piuttosto le azioni dell’uomo5 (Rossi non ha mai celato il proprio interesse per il mestiere di regista), con la sua storia, inevitabilmente fatta di gioie, debolezze e passioni. Da qui le ragioni della straordinaria portata teorica dell’opera grafica 77 Sogni e disegni di design aldorossiana nella cui analisi critica, così come in quella dei grandi disegnatori romantici tedeschi (maestri nell’espressione poetica dell’indicibile), i segni tracciati sulla carta sono inscindibili dall’effettiva realizzazione, perché ne contengono in nuce il senso più autentico; al punto che il rapporto tra disegno e costruzione appare ribaltato, risultando il secondo utile per la chiarificazione del primo, e non viceversa. Ma c’è dell’altro. I disegni di Rossi, infatti, per lo più redatti con il supporto di giornali o di fotocopie di vecchi schizzi autografi (riferibili ad appunti di viaggio o a progetti dimenticati), sono eseguiti con una tecnica grafica personalissima che, eludendo i rischi paventati da Benjamin, concilia la propensione all’innovazione e la deferenza per la tradizione, la serialità e l’unicità; laddove al tratto sfocato e incerto della riproduzione fotomeccanica si sovrappongono continue abrasioni e manomissioni grafiche finché l’intreccio tra copia e originale diventa indecifrabile. E, al pari dei disegni, le opere di design di Rossi tradiscono la stessa sottile duplicità. Laddove, lamentando il perduto rapporto naturale tra il mondo dell’artigianato e quello dell’architettura, i mobili aldorossiani, seppure concepiti per una produzione industriale, non sono mai né effimeri né componibili, ma, con una dichiarata avversione per i clamori e le bizzarrie epocali, sono concepiti per attraversare (e segnare) la vita di più generazioni. Anche se apparentemente, nell’epoca dei media elettronici, dieses ist lange her. Note 1 Cfr. in proposito Aldo Rossi, Disegni di architettura 1967-1985, Milano 1986; M. Brandolisio et al., Aldo Rossi. Disegni 1990-1997, Milano 1999. 2 “Il disegno per Aldo Rossi non è mai fine a se stesso, è sempre architettura perché riflette una condizione, un momento della propria vita, del reale. Il continuo ridisegno di elementi fissi: il portico, il ballatoio, il cubo, il cono, le colonne, che spesso si compongono, si sovrappongono sino a formarsi elemento reale e quotidiano, nel momento che ‘scendono’ o meglio scelgono il locus nel quale devono esistere e forse per il quale non sono stati pensati, diventano architettura” (G. Braghieri, Introduzione, in G. Braghieri, a cura di, Aldo Rossi, Bologna 1981, p. 10). 3 A. Ferlenga, Le stagioni del progetto, in A. Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi. Architetture 1988-1992, Milano 1992, p. 17. D. Libeskind, Controsegno, in A. Rossi, op. cit., p. 109. “In certi ultimi progetti o idee di progetti cerco di fermare appunto l’avvenimento prima che esso si produca come se l’architetto potesse prevedere, e in certo modo lo prevede, lo svolgersi della vita nella casa. Difficilmente gli arredatori possono capire tutto questo, essi sono legati a cose effimere come il disegno del particolare, la cornice, da cose che in realtà vengono sostituite dalla vita nella casa” (A. Rossi, Autobiografia scientifica, Milano 1999, p. 16). 4 5 Paolo Belardi Supercharleston: colloquio con Marius (Paolo Conte, 1999). La voce del disegno Razmataz di Paolo Conte Mi sembrava che l’anima vitale dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l’inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita. Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano; era un’esperienza misteriosa; sorpresa nella misteriosa cucina di un alchimista. Vasilij Kandinskij Nonostante la libertà nell’ibridazione dei generi costituisca la conquista più sofferta del Novecento, permane una qualche diffidenza verso quanti praticano l’ubiquità disciplinare e la poliedricità; forse perché gli scultori che fotografano, i pittori che scrivono, i poeti che filmano e i musicisti che disegnano sono portatori di un’anomalia che, in qualche modo, mette in discussione l’affidabilità delle catalogazioni precostituite e, con essa, la consequenzialità dei meccanismi critici consolidati. Magari pochi conoscono l’interesse ossessivo di Kandinskij e di Klee per la musica, ma probabilmente nessuno ignora che Dante disegnò il profilo di Beatrice prima di cantarne la bellezza in sonetti poetici. Nondimeno, al di là dei tanti precedenti illustri (Beethoven, Verdi, Schönberg e Maderna), è stata soprattutto l’ultima generazione di musicisti a dimostrare un’insospettabile familiarità con la matita: al punto che scovare i bozzetti di David Bowie, Bob Dylan e John Lennon, ma ancorpiù le partiture schizzate di John Cage e Luigi Nono, per poi provare a sovrapporre idealmente le traiettorie della matita con le relative composizioni musicali, è un’occasione preziosa per avanzare interpretazioni critiche originali. Tuttavia, a ben guardare, nessun musicista ha svolto un’attività grafica quantitativamente pari a quella rivelata da Paolo Conte con il Dvd Razmataz, “uno sceneggiato radiofonico illustrato”1, e commentato, dall’immane materiale grafico (circa 1800 tavole) eseguito da Conte in quasi trent’anni d’ininterrotta attività disegnativa; un’opera audiovisiva in cui, con un ingua- ribile stile rétro, ma soprattutto con una straordinaria commistione sinergica tra musica e disegno, si celebra l’incontro fra la vecchia Europa in declino (incarnata da una Parigi popolata da caricature nazionaliste: l’artista espressionista tedesco, il viveur italiano, lo sportivo inglese ecc.) e il giovane continente americano in ascesa (rappresentato coralmente da una compagnia di vocalist neri). Due anime che, d’altra parte, convivono da sempre nei sogni musicali dell’avvocato astigiano. Il prologo della narrazione (il cui titolo bizzarro rende omaggio a una ballerina scomparsa misteriosamente durante un viaggio in treno) è già di per sé eloquente. Una viuzza acciottolata si snoda languidamente fra gli angoli più nascosti di una Parigi ancora libera dallo smog e ignara dei problemi del traffico. È l’alba e, mentre uno spazzino raccoglie i rifiuti con decise frustate di ramazza, convogliandoli nel getto d’acqua artificiale che lambisce i marciapiedi per poi rifluire nella rete fognaria sotterranea, un uomo sulla sessantina cammina con un mozzicone di sigaro inchiodato fra le labbra, una barba appena pungente e una manciata di fogli sottobraccio: un autoritratto di Paolo Conte, che si cala in una Parigi quasi mitologica di cui sono restituite le pieghe più intime e malinconiche; al punto che, proprio grazie a disegni che non si limitano a scandire le trame della vicenda, forgiando piuttosto le atmosfere di ogni singola scena, è possibile annusare le pozzanghere maleodoranti del quartiere latino, sembra di toccare la sottoveste di raso chiaro di una qualche ballerina e viene voglia di dare un tiro al sigaro della Virginia che un contrabbassista cieco sta fumando accovacciato su una scalinata. Né, d’altra parte, è casuale la scelta di ambientare la narrazione negli anni venti. “Il XX secolo – infatti – ha avuto il suo splendore artistico nel secondo decennio con una forza rivoluzionaria che mai più in seguito si riuscirà a riscontrare: l’invenzione del cinema, l’invenzione della musica jazz e l’atonalismo, i movimenti dell’avanguardia pittorica, dal cubismo al 80 Irrilevabile dada, al futurismo… Tutta una serie di invenzioni che possono far impallidire qualsiasi iniziativa storicamente successiva”2. Così, come nella migliore tradizione futurista (basti pensare alle poesie sonore), l’audiovisivo contamina tecniche tra le più disparate: la voce narrante, i dialoghi e i monologhi dei personaggi, la musica live e di background, la rumoristica e, soprattutto, le splendide illustrazioni. Laddove la coesistenza dei linguaggi (la voce narrante, che commenta la trama della vicenda per brevi passi, si esprime in cinque lingue: francese, italiano, inglese, spagnolo e tedesco) e il carattere continuamente cangiante delle riprese dei disegni (condotte con una sapiente alternanza di tagli, panoramiche, carrellate e zoom), invece che determinare confusione, infondono una sottile nostalgia per un mondo ideale in cui, così come nella Parigi d’inizio Novecento, l’integrazione etnico-culturale potrebbe produrre esiti straordinari. Il che è puntualmente confermato sia dalla varietà delle tecniche di disegno utilizzate (matita, gouache, pastelli ad olio e inchiostri) sia dalla trasversalità del caleidoscopio musicale. In Razmataz: la ballerina (Paolo Conte, 1995). A destra Pastrone sulla terrazza: traffico (Paolo Conte, 1988). Pagina seguente Boxeur (Paolo Conte, 1988). A pagina 82 Sezione ritmica (Paolo Conte, 1998). 81 Razmataz, infatti, s’incrociano non solo i protagonisti della vicenda (un commissario di polizia, ricchi commercianti di senape, impresari, ballerine e cantanti di colore), ma circolano liberamente anche molti fantasmi eccellenti: se nei disegni aleggiano lo spirito dinamico di Boccioni e le laconicità silenti di Sironi, “Duke Ellington, Glenn Miller e George Gershwin [...] animano le atmosfere da Big Bands della title track e la maestosa chiusura di Mozambique fantasy. Guaracha è vegliata amorevolmente – con gusto latino-americano – da Carlos Gardel ed Astor Piazzolla, mentre Pasta Diva [...] è un piccolo ma sentito omaggio alla nostra tradizione operistica ed alla musica napoletana. E poi c’è la Francia, la bien aimée Paris, le cui atmosfere sono evocate da Conte come solo i grandissimi della canzone d’Oltralpe hanno saputo fare”3. Ciò che ne scaturisce è un’opera sperimentale (il titolo del brano Der Blaue Reiter è ripreso da un movimento pittorico d’avanguardia fondato a Monaco da Kandinskij e Marc), eterogenea (le arti coinvolte sono molteplici: dal cinema alla pittura, dalla musica al teatro) e aperta a più interpretazioni; in cui, così come non c’è un disegno-chiave, non c’è la canzone indimenticabile: la ricerca stilistica e l’ansia della riconoscibilità lasciano spazio al piacere del disegno, mentre lo swing, che ha sempre alimentato il treno delle emozioni contiane, cede il passo a un curioso mix, senza né tempo né luogo, di gospel, spiritual e jazz. Con i disegni musicali di Razmataz, infatti, Conte non trasmette certezze, ma propone interrogativi, tratteggiando paesaggi irraggiungibili, vagamente surreali. Come in Genova per noi e come in Azzurro, le immagini sono trasfigurate, mitizzate (basti pensare al ritratto del boxeur, raffigurato in guisa di icona sacra), perché, secondo Paolo Conte, solo ciò che si vive da lontano, con animo nostalgico, può essere posseduto per davvero: “ho sempre pensato che se dovessi trovarmi sulla luna, avrei immediatamente nostalgia della luna stessa, voglio dire della luna vista dalla terra. Oggi abbiamo tante cose a portata di mano, ma ci manca quell’angolo nascosto da cui le guardavamo con desiderio e passione”4. E il disegno, anche in Razmataz, è uno strumento irrinunciabile per dare voce alla nostalgia di “ciò che non è, ma potrebbe, forse vorrebbe, essere”5. La voce del disegno Note P. Conte, Razmataz, Nichelino 2000, p. 3. Ibid. 3 M. Cavassa, www.kalporz.com/recensioni/appuntidiviaggio.html. 4 C. Fabretti, C. Martinelli, Intervista a Paolo Conte, l’avvocato col vizio del jazz, www.ondarock.it/ Conte.html. 5 P. Conte, Razmataz, cit., p. 5. 1 2 83 Irrilevante Cretto della città (Franco Purini, 1998). Paesaggio discontinuo (Franco Purini, 1998). Cretto dei materiali (Franco Purini, 1998). Città (Franco Purini, 1994). Accumulazioni caotiche Le ridondanze espressive della periferia La bellezza è il tremendo al suo inizio. Rainer Maria Rilke Premessa In un saggio dei primi anni novanta, Retorica y Arquitectura1, Josep Muntañola propone un’originale ermeneusi dell’architettura del Novecento, interpretandone i diversi movimenti alla luce delle tecniche stilistiche proprie dell’ars retorica. Nondimeno, dalle pur sapienti correlazioni proposte dall’autore, trapela la sensazione che le figure retoriche puntualmente attribuite a Le Corbusier, Louis Kahn, Robert Venturi, Alvaro Siza ecc., tendano a eludere gli angusti perimetri della consecutio classica. Quasi che già nel moderno, e quindi nelle sue protesi stlistiche (postmoderno, decostruttivismo ecc.), sia contenuto in nuce il germe di quell’insofferenza per le regole consolidate che, a ben guardare, contrassegna le punte più avanzate dell’architettura contemporanea. Tuttavia, volendo avallare il parallelo avviato da Muntañola e, quindi, provando a rilevare eventuali analogie tra la sgrammaticata cacofonia del linguaggio parlato e il degrado estetico delle periferie metropolitane2, risulta in qualche modo conveniente adottare criteri analitici di tipo strutturalista; assumendo la periferia come “testo” e prendendo le mosse dalle analisi condotte in chiave fenomenologica da Ivan Fónagy sull’evoluzione linguistica in fieri. Secondo Fónagy, infatti, “non può esistere un’opera – di parola e non – priva di struttura interna”3 e l’organizzazione testuale di qualsiasi forma artistica contemporanea (sia essa letteraria, musicale o figurativa) è riconducibile a due precise ridondanze espressive, la ripetizione e la tensione-distensione; ridondanze peraltro riferibili a un’ibridazione di figure retoriche che, contaminandosi vicendevolmente, producono un’ennesima figura, l’accumulazione caotica, sostanzialmente misconosciuta dalla tradizione classica, ma ricca di apparentamenti con l’inclusività onnivora delle periferie urbane. Cretto G1 (Alberto Burri, 1975). Ri peti zi one L’ars retorica presenta molteplici figure capaci di produrre ripetizione: l’anafora, l’epifora, l’epizeusi ecc. Ma sono soprattutto la geminatio (“figura che consiste nella ripetizione di una parola o di un gruppo di parole in qualsiasi parte del testo”4) e il polittoto (“figura [...] per la quale una stessa parola è usata a breve distanza in funzioni diverse”5) a tradire più d’una assonanza con l’atopia delle periferie contemporanee; laddove vere e proprie “architet- 88 Irrilevante ture-Dolly” sono clonate e spalmate sul territorio con noncuranza per il luogo oltre che per la destinazione d’uso, mentre i medesimi componenti edilizi, in guisa di ready-made di duchampiana memoria, sono chiamati a svolgere funzioni costruttive (e compositive) non necessariamente congruenti con le ragioni originarie. Fino a produrre nuovi sensi e nuovi significati. È il caso dei testi neoscapigliati di Nick Cave (vere e proprie odi al residuale), della house music (fondata sulla contaminazione di brani musicali eterogenei), delle fotografie di Oliviero Toscani (che rivendicano la bellezza della diversità) o delle coreografie dei Tap Dogs (ritmate dalle percussioni di bandoni di latta, pannelli di compensato ecc.): parole, sonorità e immagini che rasentano il kitsch, ma che l’uomo metropolitano ha ormai impresse nel proprio Dna. Berlino (Germania), Jüdisches Museum: particolare (Daniel Libeskind, 1988). A destra The human race (Oliviero Toscani, 1997). Pagina seguente Ex voto (Mimmo Castaldi, 1993). Accumulazioni caotiche 89 ecc.), tra memorie rurali (filari di viti, orti ecc.) e reti infrastrutturali (svincoli stradali, centrali elettriche ecc.); e ancorpiù, nel caso del chiasmo, all’espediente, di retaggio neobarocco, della “stanza nella stanza”10, vera e propria invariante nell’interior design dei centri commerciali e delle attrezzature fieristiche. Ma non è tutto. Nell’ottica della ripetizione, infatti, risultano altrettanto significative l’antitesi e l’enumerazione; laddove l’antitesi (“figura [...] che consiste nell’accostamento di due parole o frasi di senso opposto”6) tende a volgere nel contrappunto e nel qui pro quo (un paradosso per cui vengono sovrapposte due interpretazioni antitetiche della stessa situazione), mentre l’enumerazione (“sequenza di parole o di sintagmi congiunti per coordinazione”7), se praticata nella forma ironico-sentimentale, carica di plusvalore estetico oggetti apparentemente disomogenei, ma saldati dall’attività nostalgica. Fino a sconfinare nel grottesco (“situazione paradossale deformata dall’ironia”8) e nel chiasmo (“disposizione incrociata degli elementi costitutivi di [...] due proposizioni fra loro collegati”9). Basti pensare, nel caso del grottesco, agli Ex voto di Mimmo Castaldi la cui stravaganza rimanda alla commistione stridente, tipica delle periferie di ogni latitudine, tra feticci vernacolari (staccionate in finto legno, statuette di personaggi disneyani, lampioni in stile floreale ecc.) e ostentazioni hightech (antenne paraboliche, allarmi elettronici, pannelli solari Tensi one-di stensi one Tra le poche figure retoriche in grado di produrre effetti di tensione-distensione, risalta il climax, inteso come “progressione ritmica ascendente”11, e, conseguentemente, l’anticlimax, ovvero la brusca caduta di tono dell’intensità appena conseguita: una tecnica ricorrente nelle liriche romantiche (ad esempio il verso conclusivo de L’Infinito di Leopardi), ma frequentata con straordinaria assiduità anche dalla poetica contemporanea; soprattutto nelle malinconiche visioni delle periferie. Vengono in mente i versi di Giuliana Rocchi (Non ci son più le frasche e le betulle / che alla brezza dell’alba / s’inchinavano, / non ci sono più i canneti / dove noialtri bambini / andavamo a fare i nostri bisogni. / Adesso, è tutto luci e cemento), la “linea Maginot” del sistema tangenziale-ipermercati che, più della laguna, separa Venezia dall’entroterra o l’insulso slargo degradato che, nel film Caro diario, arresta l’escursione in vespa di Nanni Moretti nei sobborghi romani. E, con essi, sovviene l’ambiguità prospettica dei centri commerciali, quando tradiscono un equilibrio oltremodo precario tra presenza e assenza: formalmente esuberanti verso la strip, ma monotoni e deludenti nei fronti retrostanti. Parimenti, le sole altre figure retoriche atte a determinare effetti di tensione-distensione sono riconoscibili nelle combinazioni dell’iperbato (“inversione di alcuni elementi rispetto all’ordine normale”12) con la farsa(“mescolanza di motivi diversi finalizzati a un’azione scenica di carattere comico”13) e della prolessi (“anticipazione [...] che di solito introduce una frase secondaria”14) con l’epifonema (“frase sentenziosa con cui viene concluso, con una certa enfasi, il discorso”15). Nel primo caso (iperbato-farsa), ampiamente frequentato dai pubblicitari, la sospensione improvvisa di un enunciato o comunque di una situazione pregna di emotività induce una tensione, al contempo fisiologica e mentale, che è ulteriormente amplificata 90 Stoccarda (Germania), Hysolar-Institutsgebäude: particolare (Günter Behnisch, 1987). Riccione (Rn), Aquafan. Pagina seguente Accumulation de Brocs (Arman, 1961). Culver City (Ca.-USA), Gary Group: particolare (Eric Owen Moss, 1990). Irrilevante dalla pausa intercalata (i blancs di Jacques Derrida); soprattutto se quest’ultima è di carattere ludico-ironico (esemplari, in proposito, i proemi dei film di Steven Spielberg in cui la suspense è puntualmente sdrammatizzata da un’ambientazione frivola), vieppiù se il reiterarsi dell’alternanza iperbato-farsa porta alla definitiva frantumazione della narrazione principale: ciò che in qualche modo si verifica anche nelle periferie, dove i rutilanti grovigli viari sono obliati nei microcosmi caricaturali dei parchi ricreativi (Aquafan, Gardaland, Mirabilandia ecc.) e delle maxidiscoteche (Aeneas, Baia Imperiale, Fellini ecc.), mentre il “non finito”, l’interrotto, disegna una texture corpuscolare16 che nelle ore notturne, così come nelle appassionate descrizioni della riviera adriatica di Pier Vittorio Tondelli, dà “l’impressione eccitante di vivere in una metropoli abbandonata e galattica”17. Laddove, in ogni caso, “alla base dell’esperienza della frammentazione non sta il dolore per la perdita del rapporto con una totalità cosmica, e nemmeno il rimpianto e la nostalgia di questa [perché] [...] al contrario ciò che anima il frammento è l’entusiasmo per l’affermazione di una singolarità che è capace di spezzare la continuità del mondo”18. Nel secondo caso (prolessi-epifonema), invece, la tensione accumulata, in genere indotta dall’indeterminatezza delle anticipazioni, libera un’improvvisa distensione, che restituisce ragion d’essere all’apparente non senso e che, tendendo a chiudere con un aforisma, introduce il concetto di soluzione apicale, di “punta”. Combinazioni retoriche, quelle sopracitate, abusate dall’arte contemporanea (dalle performance di Arman, nelle cui opere gli strumenti musicali sono distrutti e dispersi “nell’atto catartico di ricongiungersi al molteplice e al caos primordiale”19, al celeberrimo Dark side of the moon dei Pink Floyd, dove l’infernale sequenza di orologi di Time e l’angosciante frastuono dei registratori di cassa di Money si risolvono nell’algida melodia di Eclipse), ma riscontrabili anche negli hinterland industriali, dove smisurate teorie di capannoni prefabbricati ostentano esuberanze grafico-gestuali ai limiti del bizzarro (per lo più concentrate in corrispondenza degli ingressi); la cui eccezionalità, piuttosto che riscattare l’anomia seriale dell’intorno, produce un’inquietante sensazione di “stranezza dell’estraneità” che, di per sé, trascende il tradizionale bipolarismo bello/brutto20. Accumul azi one caoti ca Accumulazioni caotiche Tuttavia il fenomeno linguistico più denso di fermenti innovativi e che, di fatto, avalla il parallelo architettura/retorica anche in ambito periferico, è l’accumulazione: una “figura retorica – riferibile al connubio climax/enumerazione – che consiste nell’allineamento [...] di oggetti, sentimenti e immagini (anche di tipo inconscio) in modo disordinato o destrutturato” e che rappresenta, di fatto, “il procedimento stilistico tipico della lirica contemporanea, quando vuole esprimere la condizione sconvolta della psicologia e del mondo attuale”. E l’accumulazione, nella sua accezione di accumulazione caotica, comporta “una mescolanza o rottura dei generi tradizionali (lirico, narrativo, ironico, tragico ecc.), con effetti inediti di tono e di costruzione metrico-ritmica”21, che conferiscono dignità all’esperienza di disgusto; un’esperienza decadente, ma straordinariamente attuale, che “da un lato è repulsione, presa 91 92 di distanza dal contaminante, delimitazione di un ambito puro, dall’altro è abiezione, avvilimento e autodegrado, prossimità con l’impuro”22. “Che cos’è? Ohhhhh! [...] È una r-risatina di sghimbescio e una sghignazzata e uno sguardo di chi se ne frega. Chiedilo a lui se può. Siamo a riposo. Qual è il motivo della risatina, io non ho motivo della risatina... Il tipo di domanda eh, me l’hai già chiesto. Oh, quello, oh quello fa ridacchiare tutti quanti; non è buffo? Dovresti farli flettere! Boing! Questo pare orri- Irrilevante bile? No. Penso che sembri alquanto uh, un nuovo giocherello. Penso, io proprio... Huh? Oh devo lavarmi i piedi; detesto i piedi sporchi con i sandali. Hummmmmmmm”. Così come nelle disarticolazioni lessico-grammaticali di Ondine (il protagonista di un curioso romanzo di Andy Warhol23 la cui isteria anticipa l’ansietà nevrotica dei personaggi di Woody Allen), l’elenco disorganico rappresenta una pratica irrinunciabile per le avanguardie artistiche di fine millennio (dalla letteratura trash alla musica rap, dalla moda punk alla crash art24); al pari Accumulazioni caotiche Birsfelden (Svizzera), Vitra International Headquarters: particolare (Frank Gehry, 1994). Pagina precedente Two hundred Campbell’s Soup Cans (Andy Warhol, 1962). 93 del linguaggio parlato dalle nuove generazioni25 la cui anima vitale (così come consacrato da cult-movie cinematografici come Pulp Fiction di Quentin Tarantino o Trainspotting di Danny Boyle) è per l’appunto l’assemblaggio, veloce e simultaneo, di un “vocabolario transgenico”26, farcito di neologismi desunti dal gergo dei mass-media (floppy per “insuccesso”, software per “intelligenza”, bypassare per “superare”) o di slogan veicolati dagli spot pubblicitari (“È nuovo?/Lavato con Perlana”, “Silenzio/Parla Agnesi”); neologismi e slogan apparentemente illogici, se intesi isolatamente, ma in realtà costituenti, nell’insieme, uno slang ribelle al tecnicismo criptico dei testi di comunicazione pubblica, che di per sé rimanda all’insofferenza della periferia per qualsiasi regolamentazione imposta demiurgicamente; soprattutto nelle lottizzazioni abusive, dove il processo edilizio si sviluppa in regime di piena disponibilità territoriale oltre che nella più assoluta anarchia costruttiva. Al punto che, “mentre prima il cemento si contrapponeva alla terracotta, il ferro al legno, oggi ininterrottamente si espande una distesa di materiali ibridi e riciclati, al cui interno galleggiano, come sopravvissuti a un naufragio, spezzoni di antiche murature”27. Ciò che ne risulta è un grumo di accostamenti improbabili (la villetta e il discount alimentare, il depuratore e il vivaio botanico, il circo e il cimitero) in cui la discriminazione gerarchica e l’ordine cartesiano sono soppiantati dalla tolleranza pluralistica e dall’irregolarità labirintica. Nondimeno, “in un’età di aggressiva bruttezza [...] e di squallore come forma d’arte, il caos come meta estetica – non solo – riflette gli atteggiamenti intellettuali e sociali del tempo”28, ma suggerisce nuovi strumenti ideativi: l’abaco (“riferimento logico per la descrizione degli elementi architettonici, delle loro differenze”) e la serie (“scelta estetica rappresentativa di un ordine analitico, transitorio e frammentario”29); fino a produrre soluzioni originali come l’office landscape newyorkese (artefice della distribuzione irregolare dei box per uffici, organizzati in base ai flussi di circolazione naturali) o le immersioni nel cheapscape (“il paesaggio derelitto dei rifiuti, [...] del quotidiano”30) della scuola californiana. D’altra parte, tra la bienséance della costruzione retorica tradizionale e la licenziosità del parlato contemporaneo, sussiste la stessa conflittualità che, nel film The Truman Show di Peter 94 Magma City (Massimiliano Fuksas, 2001). Irrilevante 95 Accumulazioni caotiche Weir, contrappone implicitamente la soap-life di Seahaven (la soporifera cittadina americana dove scorre placidamente l’esistenza di Truman Burbank) all’impietosità dei suburbi descritti da Walter Prévost o alle solitudini metropolitane dipinte da Edward Hopper. Seahaven, nella realtà, si chiama Seaside ed è un villaggio, fondato dall’imprenditore Robert Davis lungo il litorale nord-ovest della Florida, in cui, per statuto, le abitazioni si conformano a un pacato stile neovittoriano, mentre tutte le vie principali approdano languidamente in riva all’oceano. Una città ideale, Seahaven-Seaside, che in qualche modo incarna i principi più condivisi del “vivere armonico” borghese; eppure Burbank, presa coscienza dell’inganno, non esita a lasciarsi alle spalle le certezze di un destino preconfezionato, affrontando i rischi di una vita consumata on the road (alla maniera di Jack Kerouac), se non addirittura “eccessiva” (nel senso indicato da Pareyson31), ma autentica. Note J. Muntañola, Retorica y Arquitectura, Madrid 1990. Cfr. R. de Rubertis, A. Soletti (a cura di), De vulgari architectura. Indagine sui luoghi urbani irrisolti, Roma 2000. 3 I. Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Bari 1982, p. 49. 4 A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano 1991, p. 133. 5 Ivi, p. 246. 6 Ivi, p. 24. 7 G. Barberi Squarotti (a cura di), Dizionario di retorica e stilistica, Torino 1995, p. 104. 8 Ivi, p. 164. 9 A. Marchese, op. cit., p. 46. 10 I. Fónagy, op. cit., p. 68. 11 A. Marchese, op. cit., p. 49. 12 Ivi, p. 152. 13 Ivi, p. 113. 14 Ivi, p. 247. 15 Ivi, p. 101. 16 Cfr. F. Purini, La periferia messa a nudo dai suoi edifici, “Paesaggio Urbano”, 1, 1997, pp. 16-23. 17 P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, Milano 1990, p. 99. 18 M. Perniola, Disgusti. Le nuove tendenze artistiche, Genova-Milano 1998, p. 106. 19 L. Dall’Olio, Arte e architettura. Nuove corrispondenze, Torino 1997, p. 51. 1 2 Cfr. J.M. Lamunière, Lo strano fra il bello e il brutto. Semiologia e tipologia dell’architettura e dell’agglomerazione, “Paesaggio Urbano”, 3/4, 1994, pp. 8-15. 21 A. Marchese, op. cit., p. 15. 22 M. Perniola, op. cit., p. 18. 23 A. Warhol, a. Un romanzo, Roma 1998, pp. 108-109. 24 Cfr. C. Masi, Cattivo Gusto. Entropie di fine millennio, Bertiolo 1998. 25 Cfr. in proposito E. Banfi, A.A. Sobrero (a cura di), Il linguaggio giovanile degli anni Novanta, Roma-Bari 1992; T. De Mauro, F. Mancini, M. Vedovelli, M.R. Voghera, Lessico di frequenza dell’italiano parlato, MilanoRoma 1993; T. De Mauro, Capire le parole, Roma-Bari 1994; A.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. Le strutture, RomaBari 1998. 26 G. Dorfles, L’arte non tollera la pecora Dolly. Se nasce l’ibridazione estetica, “Corriere della Sera”, 29 gennaio 1999, p. 35. 27 F. Faeta, Le architetture e il cielo. Immagini di un sito post-moderno, in R. Bossaglia, Perifanie. Roma: appunti sul nuovo paesaggio urbano, Roma 1995, p. 18. 28 C.R. Smith, Post-modern e Supermanierismo, Roma-Bari 1987, p. 130. 29 F. Leoni, Ragionamenti di architettura, in F. Leoni (a cura di) Le architetture e le strade. Progetti in area suburbana, Roma 1982, p. 34. 30 B. Zevi, Dialetti architettonici, Roma 1996, p. 80. 31 Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995. 20 L’architettura della scienza I teatri anatomici a struttura lignea “Teatro anatomico es un edificio destinado a ejercer la practica de la ciencia anatomica, la cual ensena a conocer el cuerpo humano o de cualquier animal por medio de la diseccion é inspeccion del cadaver, a fin de estudiar su estructura interior o los vicios de que adolecio en vida [...] Bajo tal concepto es indispensable que las demostraciones y operaciones practicas de la anatomia, se hallen al alcance de la vista de todos los alumnos por igual, y para ello tengo la figura circular por preferible entre todas las demas, colocando la lapida en el centro, a fin de ofrecerse comodamente a la inspeccion las partes descubiertas del cuerpo”. Con questa rigorosa descrizione, il trattatista spagnolo Manuel Fornes y Gurrea1 fissa, intorno alla metà del XIX secolo, le caratteristiche di una tipologia architettonica, come quella dei teatri anatomici, assolutamente singolare, perché in essa la funzione scientifica, volta alla conoscenza del corpo umano mediante la dissezione dei cadaveri, e quella più propriamente spettacolare, finalizzata alla divulgazione didattica, si confondono fino a integrarsi mirabilmente. Esemplificativo in proposito il racconto, riportato in terza persona dal celebre anatomista settecentesco Giambattista Morgagni, di una lezione tenuta nell’aula anatomica di Padova: “parlò quindi, in quello stesso giorno degli elementi anatomici, in un teatro stipato quanto lo poteva essere, di uditori di ogni classe sociale, ed ebbe tanti applausi, sia in piena dissertazione sia appena terminato l’esordio”2. Vale la pena rimarcare il carattere squisitamente teatrale del climax tratteggiato dal Morgagni, perché evidentemente la compresenza del docente, dei massari anatomici, del pubblico (tra cui anche “numerosissime dame”), delle autorità, delle torce sorrette dagli studenti, del velo nero imposto sul cadavere nonché dei musicanti di strumenti a corda (i fidicines, deputati ad alleviare l’attesa durante le pause dell’operazione settoria), conferiva all’evento quella “drammaticità” per cui il Tomasini definì la Frontespizio del De re anatomica di Realdo Colombo (Venezia, 1559). Pagina precedente Theatrum Anatomicum Lycei Patavini (Jacopus Philippus Tomasini, 1654). 98 dissezione anatomica una contemplatio iucunda et necessaria3. Non è quindi sorprendente il fatto che, fin dalle origini, la tipologia dei teatri anatomici si sia riferita all’idea umanistica del teatro di Terenzio: la pianta del laboratorio scientifico di Padova, ad esempio, riprende l’organizzazione labirintica del teatro classico pubblicata nell’edizione vitruviana del Cesariano e comunque presenta “forme ispirate al Colosseo e all’Arena di Verona”4. D’altra parte le prime farse goliardiche furono rappresentate proprio negli stessi atenei dell’Italia settentrionale5 (Bologna, Ferrara, Padova) in cui contemporaneamente affondano le proprie radici le scienze anatomiche; e i goliardi si occupavano direttamente non solo del reperimento dei fondi economici, ma anche dell’allestimento delle gradinate lignee atte ad accogliere gli spettatori convenuti6. Come noto, l’anatomia, vale a dire la scienza che studia la forma e la struttura degli esseri viventi e, con essi, i rapporti tra gli organi che li costituiscono, sono un prodotto della cultura medica italiana7 e, particolarmente, della didattica svolta nelle aule universitarie bolognesi dei primi del XIV secolo: da Guglielmo da Salicato a Salimbene da Parma, da Bartolomeo da Varignana a Mondino de’ Liuzzi. Solo successivamente, infatti, la riforma dell’anatomia trovò il suo principale alfiere nel belga Andrea Vesalio che, nel trattato De humani corporis fabrica, pubblicato a Basilea nel 1543, smantellò i dogmi galenici, rilevando in essi errori grossolani (per lo più imputabili proprio al fatto che Galeno era solito sezionare cadaveri animali e non umani). Vesalio fu chiamato a controbattere le feroci accuse dei galenisti, ma la rottura col passato era ormai segnata e la nuova dottrina trovò un grande seguito tra gli anatomisti dell’epoca; soprattutto all’interno della scuola padovana che, forte di una grande tradizione disciplinare, annoverava luminari rinomati quali Realdo Colombo, Gabriele Falloppia, Giulio Casserio e Girolamo Fabrizi d’Acquapendente. Così, mentre le altre università, a cavallo tra il XIV ed il XV secolo, registrarono una sensibile diminuzione della popolazione studentesca, Padova conobbe un periodo di grande fulgore, richiamando da tutta l’Europa non solo un numero sempre più cospicuo di allievi, ma anche docenti illustri quali Niccolò Copernico, lo stesso Andrea Vesalio,William Harvey e, in seguito, Galileo Galilei. L’ambiente culturale indotto da Irrilevante Frontespizio del De humani corporis fabrica libri septem di Andrea Vesalio (Basilea, 1543). Pagina seguente Padova, palazzo del Bo, teatro anatomico (1594). una simile concentrazione d’ingegni fu talmente ricco di fermenti da costituire lo “zoccolo sul quale si fondarono quei solidi principi della scienza oggettiva cinquecentesca”8 che nel secolo seguente, grazie alle straordinarie innovazioni tecnologiche (quali ad esempio le lenti d’ingrandimento galileiane), promossero una più minuta tecnica dissettoria, che sfociò nell’anatomia microscopica di Marcello Malpighi (che nell’opera L’architettura della scienza De pulmonibus, pubblicata nel 1661, riconobbe la struttura vescicolare dei polmoni) e quindi, nel XVIII secolo, nell’anatomia patologica avviata proprio da Gian Battista Morgagni la cui opera De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis segnò, nel 1761, una tappa miliare nella storia della medicina, avviando in nuce l’anatomia moderna. Tuttavia il teatro anatomico di palazzo del Bo a Padova, pur rappresentando il più antico manufatto di questo genere tuttora conservato, non costituisce in realtà la prima realizzazione. Precedentemente, infatti, le dissezioni, non richiedendo attrezzature e ambienti esclusivi, trovavano ospitalità in sedi occasionali (collegi studenteschi, spezierie, cappelle cimiteriali, abitazioni private dei docenti ecc.), ma il grande interesse suscitato dall’insegnamento dell’anatomia e, con esso, la crescente richiesta di partecipazione degli scholari alle notomie imposero di fatto l’approntamento di strutture dedicate, in grado di garantire la partecipazione di un maggior numero di spettatori. E, almeno in un primo momento, il problema venne risolto mediante la predisposizione di costruzioni effimere di tipo structile9, assemblate durante la stagione invernale in luoghi aperti, per poi essere smontate al termine del ciclo di lezioni. Tuttavia, prescindendo da una presunta Casa de Anatomia edificata a Saragozza nella seconda metà del Cinquecento10, soltanto nel 1584 si ha notizia di un primo teatro anatomico stabile, edificato a Padova all’interno di palazzo del Bo11. Di questo teatro si conservano rare fonti documentali, ma è lecito supporre che lo stesso non sia stato concepito ex novo, ma che piuttosto le autorità della Serenissima (cui era soggetta l’università locale), dietro la spinta delle agitazioni studentesche del 1583 (culminate nel trafugamento di un cadavere destinato all’attività settoria), abbiano inteso concedere, congruentemente con una politica già praticata da tempo12, una sede permanente per almeno una delle strutture effimere di cui era dotato l’ateneo; il che è implicitamente provato sia dall’insolita rapidità esecutiva (tre mesi) sia dal fatto che, già dopo pochi anni, il manufatto era talmente fatiscente da risultare pressoché inutilizzabile13. Nondimeno la subitanea ricostruzione dell’attrezzatura scientifica fu stabilita non solo per motivi di opportunità didattica, ma anche e soprattutto per ragioni di prestigio, visto che negli stessi anni “la Compagnie 99 de Jésus s’efforcait d’affaiblir le ‘Studium’ padouan, où les étudiants réformés étaient nombreux”14. Così, nel breve volgere di un biennio (tra il 1592 ed il 1594), venne concepito e realizzato un nuovo teatro anatomico che, coronando un percorso intrapreso da almeno tre secoli prima, fu inaugurato solennemente il 23 gennaio del 1595. Peraltro questo secondo teatro stabile (la cui edificazione comportò l’eliminazione del solaio esistente tra due vani sovrapposti dell’angolo nord-ovest di palazzo del Bo15) non è riferibile a una paternità unica, ma rappresenta il risultato del lavoro condotto da una complessa équipe interdisciplinare, che vide coinvolti Dario Varotari, pittore e architetto, fra Paolo Sarpi, teologo ed esperto di questioni ottiche, nonché Girolamo Fabrizi d’Acquapendente, docente di anatomia presso l’ateneo di Padova e coordinatore dell’iniziativa (non a caso, negli stessi anni, l’Acquapendente aveva incaricato il Varotari di progettare la propria villa di campagna e collaborava con il Sarpi in una ricerca sulla struttura fisiologica dell’occhio). Tuttavia, 100 Irrilevante (caratterizzato da una pianta rettangolare di circa 28x24 piedi padovani18 e da un’altezza di circa 11 piedi) oltre che in relazione a precise considerazioni di natura ottica, il teatro materializza un vero e proprio cono visivo rovesciato, con il vertice coincidente con il centro del tavolo anatomico (a una quota sopraelevata di circa tre piedi rispetto al pavimento di calpestio) e all’incrocio dei piani verticali di simmetria del vano. Peraltro, almeno in origine, la struttura del manufatto era interamente lignea (le opere murarie attualmente presenti, infatti, comprese le scale che adducono al primo livello, sono riferibili a interventi ottocenteschi). In particolare, lo scheletro portante era costituito da 14 telai lignei disposti a raggiera, dove ogni telaio era costituito da due piedritti, controventati da una traversa (posta a un’altezza tale da consentire la circolazione sottostante) e sostenenti una trave diagonale su cui, alle Padova, palazzo del Bo, teatro anatomico: pianta (Giovanni Cagnoni, 1988). A destra Padova, palazzo del Bo, teatro anatomico: sezione (Giovanni Cagnoni, 1988). Pagina seguente Bologna, Archiginnasio, teatro anatomico (1638-49). con ogni probabilità, l’operazione vide coinvolti anche altri personaggi che all’epoca gravitavano intorno all’ateneo padovano, segnatamente Giuseppe Moleto, un umanista i cui interessi scientifici, così come voleva la tradizione culturale veneziana dell’epoca16, spaziavano dalla medicina all’ottica, dalla prospettiva all’architettura. E il gruppo sopracitato, coordinato dall’Acquapendente e fedele alle raccomandazioni di Alessandro Benedetti di Legnago17, ideò una struttura assolutamente originale sia per la straordinaria forza espressiva (un pozzo vagamente dantesco ove il pubblico, assiepato in piedi, è previsto distribuito su sei gironi sovrapposti) sia per il carattere innovativo di una soluzione tipologica che costituisce un vero e proprio virtuosismo di existenzminimum. Infatti, a causa dei vincoli imposti dalle esigue dimensioni del vano preesistente L’architettura della scienza diverse quote, erano ancorati, tramite apposite mensole, i solai di calpestio dei diversi gradoni. La struttura era quindi consolidata da una doppia serie di pilastri, sempre a dislocazione ellittica, e le travi oblique erano collegate, sia superiormente sia a metà altezza, con i muri perimetrali del palazzo ed erano interconnesse, nelle zone più distanziate, con travi di sezione ridotta; mentre gli spazi liberi, compresi tra le diverse travi oblique, erano tamponati con pannelli lignei disposti verticalmente. L’uso sapiente del legno19, ragionevolmente imputabile ai continui contatti con gli arsenali veneziani (molte delle soluzioni adottate, sia da un punto di vista dimensionale sia da un punto di vista tecnico-costruttivo, rimandano all’architettura navale), è pienamente confermato dalla varietà delle essenze utilizzate: larice per lo scheletro portante e per i solai di calpestio (perché dotato di elevate qualità di resistenza meccanica), abete rosso per le pannellature (perché di facile assemblaggio) e noce per le balaustre e i corrimani (perché facilmente lavorabile e lucidabile). D’altra parte la scelta del legno come elemento costruttivo fu dettata dalla concomitanza di molteplici ragioni, riferibili non solo alla perizia affinata dalle maestranze locali nella prefabbricazione delle strutture effimere, ma anche alla necessità di utilizzare un materiale leggero (al fine di non sovraccaricare le strutture murarie preesistenti) e, soprattutto, al carattere sperimentale dell’intervento (allo scopo di agevolare eventuali varianti o integrazioni). E in effetti, nel corso dei secoli, il teatro fu soggetto a numerose modifiche20; soprattutto in occasione del trasferimento della facoltà medica dal palazzo del Bo all’ex convento di San Mattia, avvenuto intorno al 1872, quando il laboratorio scientifico, dotato nel frattempo di una “cucina anatomica” e profondamente manomesso (dall’innalzamento della quota del solaio di calpestio, dalla sostituzione della copertura in capriate lignee con un grande lucernario nonché dalla riapertura dei grandi finestroni preesistenti), cessò la sua funzione canonica per essere destinato a monumento della scienza. Questo trapasso comportò ulteriori alterazioni (tra cui l’eliminazione del lucernario), puntualmente evidenziate dal progetto di ripristino elaborato da Giò Ponti nel 1940 e solo parzialmente sanate da un recente intervento di restauro21. 101 In ogni caso il successo del teatro anatomico di Padova fu tale che, in breve tempo, la sua fama si diffuse nelle altre sedi universitarie, sia italiane che nordeuropee, assurgendo a modello di riferimento pressoché imprescindibile. Infatti, oltre ai teatri anatomici italiani coevi (tra cui risaltano quello di Bologna, interno all’Archiginnasio, e quello di Ferrara, interno al palazzo Paradiso22), alla diaspora dei discepoli dell’Acquapendente nell’Europa settentrionale (maggiormente predisposta a promuovere iniziative di tal genere per ragioni di carattere religioso) corrispose non solo l’irradiazione della dottrina e delle tecniche anatomiche impartite nell’università di Padova, ma 102 anche la realizzazione di altrettante strutture similari. Già nel 1594, infatti, l’olandese Pieter Paaw, allievo dell’Acquapendente, eseguì una dissezione nel teatro anatomico da lui stesso fatto edificare a Leida sulla falsariga di quello padovano, mentre Caspar Bauhin e Simon Pauli si fecero promotori delle realizzazioni di Basilea (1580) e di Copenaghen (1640). Ma l’esempio più celebre rimane il teatro anatomico fatto erigere da Irrilevante Olof Rudbeck23, tra il 1662 e il 1663, all’interno del Gustavianum, l’antico palazzo episcopale di Uppsala, in Svezia. Rudbeck, infatti, dopo un periodo di apprendistato a Leida (in cui aveva potuto apprezzare le qualità del teatro anatomico locale), fece ritorno nella città natale, dove trovò un ambiente culturale oltremodo sensibile all’innovazione e alla sperimentazione tecnologica delle strutture lignee24. E anche a Uppsala, L’architettura della scienza Uppsala (Svezia), Gustavianum, teatro anatomico: sezione prospettica (Olof Rudbeck, 1662). Uppsala (Svezia), Gustavianum, teatro anatomico (Olof Rudbeck, 1662). Berlino (Germania), Humboldt Universität, teatro anatomico (Karl Gottfried Langhans, 1791). Pagina precedente Leida (Olanda), Sala dell’Anatomia della Città di Leyden (Anonimo, 1757). 103 L’architettura della scienza Roma, ospedale di San Giacomo, teatro anatomico (1780). Pagina precedente Ferrara, palazzo Paradiso, teatro anatomico (Francesco Mazzarelli, 1731-32). 105 nonostante la libertà di una progettazione affrancata da ogni condizionamento (non essendo la soluzione vincolata da preesistenze), venne pienamente confermato lo schema a pianta centrale, seppure con una sezione caratterizzata spazialmente da due parti distinte: in alto una grande cupola, il cui stile rimanda all’architettura religiosa olandese dell’epoca e, in basso, il teatro vero e proprio, organizzato in guisa di anfiteatro classico e distribuito in cinque gironi ottagonali (con le balaustre decorate, come nel Colosseo, con lesene di ordine tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito). Come ormai consolidato, anche il teatro anatomico di Uppsala è interamente ligneo e presenta uno scheletro portante costituito da otto telai principali impostati sui vertici dell’ottagono superiore. Tuttavia detti telai, a differenza dei precedenti di Padova e di Leida, oltre a sostenere gli spalti riservati al pubblico (con una capacità di circa 200 spettatori), assolvono, in forma di colonne ioniche, la funzione di struttura portante della copertura; laddove l’accesso, sia allo spazio destinato alle attività settorie che ai gironi, è ottenuto previa sottrazione di uno degli otto settori, mentre l’illuminazione naturale è garantita da un doppio ordine di finestrature distribuite lungo l’intero perimetro. Nondimeno, successivamente, continuarono a essere realizzati nuovi teatri anatomici. Basti pensare all’Anatomischer Theater25 di Berlino (edificato nella corte della Humboldt Universität su progetto di Karl Gottfried Langhans nel 1791, che presenta alcune soluzioni desunte dai precedenti del palazzo del Bo di Padova e dell’Archiginnasio di Bologna) e, in Italia, al teatro anatomico di Ferrara26 (ricostruito all’interno del palazzo Paradiso, fra il 1731 ed il 1732, su progetto di Francesco Mazzarelli) nonché a quelli di Roma27 (realizzato nel 1780 per volontà congiunta di Pio VI Braschi e del cardinale Rezzonico all’estremità meridionale dell’ospedale di San Giacomo) e di Parma28 (ricavato nel XIX secolo su progetto di Alessandro Sanseverini all’interno del collegio di San Rocco e successivamente convertito in aula di fisica). Eppure, nonostante le numerose realizzazioni ottocentesche, fu proprio nel XIX secolo che il teatro anatomico, a causa del diverso indirizzo intrapreso dalla medicina moderna, perse il suo ruolo canonico di struttura preposta alle operazioni settorie, cedendo il passo 106 alle nuove tecniche scientifico-didattiche che, fondate sull’uso del microscopio, resero superflua un’attrezzatura certo fascinosa (quasi un emblema dell’architettura della scienza), ma eccessivamente specializzata. Note M. Fornes y Gurrea, El Arte de Edificar, Madrid 1857, p. 83. G.B. Morgagni, Le Autobiografie. Opera postuma. Ms. Laurenziano fondo Ashburnhamiano 227-159, in A. Pazzini (a cura di), I, Roma 1964, p. 45 (così citato da M. Rippa Bonati, L’anatomia “teatrale” nella descrizione e nell’iconografia, nota 1, in C. Semenzato, a cura di, Il Teatro Anatomico. Storia e restauri, Padova 1994, p. 79). 3 J.Ph. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini 1654, p. 79. 4 V. Dal Piaz, Architettura, trasformazione, restauri: da laboratorio scientifico a monumento della scienza, in C. Semenzato (a cura di), op. cit., Padova 1994, p. 85. 5 Cfr. G. Ricci, Teatri d’Italia, Milano 1971, p. 74. 6 Cfr. A. Bohm, Notizie sulla storia del teatro a Padova nel secolo XVI, “Ateneo Veneto”, XXII, 1899, I, pp. 290-301; II, pp. 94-107, 249-283. 7 È opinione condivisa che l’insegnamento regolare dell’anatomia avviene solo in seguito alle iniziative italiane. A Vienna e a Praga l’insegnamento dell’anatomia è attivato alla fine del XV secolo, mentre a Valladolid solo nel XVI secolo. In Francia e in Germania i primi permessi di sezionare cadaveri risalgono rispettivamente al 1376 (Montpellier) e al 1519 (Lipsia). 8 L. Premuda, Padova nella medicina europea tra Rinascimento e Barocco, in C. Semenzato (a cura di), op. cit., p. 15. 9 “Anno 1596 postridie idus septembres condito iam theatro, quod stabile esset [...] antea enim structile erat” (I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii 1757, p. 389). 10 A. San Vincente, Monumentos diplomaticos sobre los edificios fundacionales de la Universidad de Zaragoza, Zaragoza 1981, pp. 7-9, 167-168. 11 Cfr. A. Favaro, Acta Artistarum, in Atti della Nazione Germanica artista nello studio di Padova, Venezia 1911, p. 192; A. Gamba, Il primo teatro anatomico stabile di Padova non fu quello di Fabrici d’Acquapendente, “Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere e arti”, XCIX, Padova 1988, pp. 157-161. 12 Secondo il Tomasini, infatti, item in schola superiori Gymnasii ubi quotannis construebatur theatrum ligneum (J.Ph. Tomasini, op. cit., p. 77). 13 Cfr. A. Favaro, op. cit., p. 30. 14 Les siècles d’or de la médecine. Padoue XVe-XVIIIe siècles, Milano 1989, p. 106. 15 “A riprova che l’attuale teatro occupa due livelli del fabbricato, stanno le otto finestre, quattro sul lato frontale e quattro sul laterale sinistro, esistenti sin dall’antico per criteri estetici di simmetria architettonica, come docu1 2 Irrilevante mentano le antiche stampe sei-settecentesche del palazzo del Bo. Per antica tradizione delle cerimonie dissettorie queste finestre erano state chiuse e pertanto, per assicurare una idonea illuminazione, venivano accese 14 candele, sei delle quali si fissavano su due candelabri a tre braccia e otto venivano rette da scolari” (A. Gamba, op. cit., p. 160). 16 Cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985. 17 All’interno dei cinque libri dell’opera Anatomice sive historia corporis humani del Benedetti, pubblicata nel 1502 sotto l’influenza di Piero Pomponazzi, “il capitolo De utilitate anatomices et de cadavere erigendo deque temporario theatro costituendo contiene le famose indicazioni sulla costruzione del teatro anatomico. Esso deve trovarsi in un luogo ampio ed arieggiato, con gradinate, quale Romae ac Veronae cernitur. Deve essere sufficientemente grande per poter accogliere numerosi spettatori, senza che i resectores vengano disturbati nel loro lavoro. I posti a sedere saranno distribuiti secondo il rango (ordo pro dignitate distribuendus est), mentre un sorvegliante dovrà controllare tutto, anche i convenuti” (K. Bergdolt, Medicina a Padova tra il XVI e il XVII secolo, in C. Semenzato, a cura di, op. cit., p. 39). 18 Il “piede padovano” misura circa 36 cm ed è suddiviso in 12 “oncie”. 19 Cfr. in proposito A.M. Spiazzi, Criteri generali sull’intervento di restauro e annotazioni in margine ai manufatti lignei in Padova nel secolo XVI, in C. Semenzato (a cura di), op. cit., pp. 137-140. 20 Cfr. in proposito V. Dal Piaz, op. cit., pp. 85-113. 21 Cfr. E. Arrighetti, I. Tomasoni, Relazione tecnica del restauro, in C. Semenzato (a cura di), op. cit., pp. 143-152. 22 Sul primo teatro anatomico ferrarese, cfr. G. Muratori, Su due insigni anatomisti del 1500 (G.B. Canani e G. Falloppio) e sul teatro anatomico di Ferrara, “Rivista di Storia delle Scienze mediche e naturali”, 1/2/3, 1946; G. Muratori, G. Guidorizzi, Documento inedito del 1588, riguardante la costruzione del Teatro Anatomico stabile dell’Università di Ferrara, in Atti della III Biennale della marca per la Storia dell’Arte Medica, Fermo 1959, pp. 267-268. La preesistenza di un teatro anatomico all’interno di palazzo Paradiso è testimoniata da una nota di spesa del 1699 per lavori di imbiancatura “effettuati giù le scale con la logia abaso e la sua entrata dal Portone et il camerone appresso dove si fa l’Anatomia” (F. Fiocchi, Il Palazzo del Paradiso da residenza a “luogo delle scienze”, in A. Chiappini, a cura di, Palazzo Paradiso e la Biblioteca Ariostea, Roma 1993, p. 56). Detto teatro, erede del gabinetto allestito da Gian Battista Canani nella vecchia “Scuola degli Artisti” alle Crocette di San Domenico e sostituito nel XVIII secolo da un nuovo teatro progettato da Francesco Mazzarelli, era definito dal Borsetti angustum ac inelegans (F. Borsetti, Historia Almi Ferrariae Gymnasii, Ferrara 1735, p. 361). 23 Olof Rudbeck, figlio di Johannes Rudbeckius, vescovo di Vasteras, studiò medicina presso l’università di Leida e, una volta tornato a Uppsala, ricoprì la cattedra di medicina, prodigandosi in prima persona per la realizzazione dell’orto botanico e del teatro anatomico. Rudbeck mantenne sempre un atteggiamento umanista, interessandosi anche della storia patria. Infatti L’architettura della scienza egli è autore di un’opera storico-letteraria, Atlantica, che rappresenta il background culturale di tutto il suo operato scientifico (Cfr. J. Engstrom, Anatomiska Teatern, Uppsala 1986). 24 Cfr. V. Marchis, Storia delle macchine. Tre millenni di cultura tecnologica, Roma-Bari 1994, pp. 86-87. 25 Cfr. C. Bucher, Die “Alte Tierarztliche Anatomie” von C.G. Langhans, erbaut 1790, im historischen Wandel in Berlin, Berlin 1963; K. Sagwitz, Von der Bibliothek der Tierarzneischule zur Zweigstelle Veterinärmedizin der Humboldt Universität zu Berlin, in Von der Königlichen Tierarzneischule zur Veterinärmedizinischen Fakultät der Humboldt Universität zu Berlin 1790-1990, München 1990, pp. 63-75. 26 Sulle vicende che portarono alla realizzazione del teatro anatomico settecentesco tuttora perfettamente conservato all’interno del palazzo Paradiso, cfr. F. Fiocchi, op. cit., pp. 37-79. 27 Cfr. M. Massani, L’Arcispedale di S. Giacomo in Augusta dalle origini ai nostri giorni, Roma 1984, p. 37. 28 P. Giandebiaggi, I disegni dell’architettura universitaria: Parma (16001940), Parma 1990, p. 113. 107 La conquista delle città murate Risalite meccaniche per i centri storici Mobi l i tà e centro stori co Nel 1975 il Consiglio d’Europa pubblicò un curioso saggio divulgativo di Yona Friedman in cui, in veste di fumetto, erano elencati i problemi urbanistici di Whateborough: un’immaginaria città-campione sviluppatasi, al pari di qualsiasi centro storico europeo, per successive stratificazioni e integrazioni di un nucleo primitivo centrale. In particolare, affrontando il controverso rapporto conservazione-accessibilità di quest’ultimo, Friedman non mancava di sottolineare i problemi connessi con le allora pionieristiche iniziative di pedonalizzazione; fino a concludere le proprie considerazioni con un’interrogazione retorica che, ancora oggi, rimane sostanzialmente insoluta: “who wants to live in a museum?”1 In effetti che un centro storico, pur non soggetto ad abbandono e degrado, possa comunque subire processi di museificazione (cioè di svuotamento progressivo delle proprie funzioni vitali), costituisce un rischio reale di cui la cultura contemporanea è ormai perfettamente cosciente. Soprattutto se si prescinde dal perseguimento di due obiettivi fondamentali: la conservazione della componente residenziale e l’ottimizzazione del grado di accessibilità. Questo d’altra parte il messaggio implicito nelle inquietanti analogie fra la Los Angeles di Blade Runner e alcuni caratteri emergenti della città del terzo millennio. Infatti, così come la megalopoli prefigurata da Ridley Scott è articolata in superiore (luminosa e sacrale, riservata a una ristretta cerchia di potenti tecnocrati) e inferiore (crepuscolare e degradata, luogo deputato alla vita comune), anche all’interno delle nostre città appaiono sempre più evidenti due ambiti nettamente distinti, caratterizzati da ritmi vitali autonomi: il centro storico, destinato per lo più ad attività terziarie di rappresentanza, tutelato in qualità di mera epidermide scenografica, e la massa informe delle nuove espansioni, paralizzate proprio dai volumi di traffico espulsi dal centro storico; un fenomeno, questo, in buona parte imputabile alla rifunzionalizza- It is your town. Know how to protect it (Yona Friedman, 1975). Pagina precedente L’assalto di Gerusalemme (Vincenzo Gozzini, 1819). Ancona, risalita meccanica nel rione di Guasco San Pietro: sezione (Ralph Erskine, 1986). zione indotta da un’urbanizzazione indiscriminata che, lentamente ma inesorabilmente, ha contribuito a innescare un incontrollabile circolo vizioso della crescita urbana. Da qui la puntualizzazione di almeno due livelli, diversi ma interagenti, in cui il generale obiettivo della salvaguardia di un centro storico viene necessariamente ad articolarsi. Da un lato quello comunque auspicabile, concernente il ripristino e la fruibilità di un patrimonio storico-artistico che, rappresentando un prodotto collettivo irripetibile, svolge ancora egregiamente una precisa funzione di riferimento culturale; dall’altro quello relativo sia alla conservazione del patrimonio socio-culturale pree- 110 Rouen (Francia), piano di pedonalizzazione del centro storico (1970). Pagina seguente Road precincts (Alker Tripp, 1942). Environmental areas (Colin Buchanan, 1963). sistente sia alla promozione di attività in grado di riconfermare la caratteristica centralità; trattandosi in altri termini di promuovere un equilibrio, il più possibile stabile, fra proprietà urbanistiche apparentemente incommensurabili quali il livello di attrattività e il livello di accessibilità. Tuttavia, se entro certi limiti il livello di attrattività di un centro storico può in qualche modo essere governato (attraverso il trasferimento delle funzioni incompatibili oltre che mediante la minimizzazione degli attraversamenti impropri), rimane il problema, altrettanto gravoso, relativo all’accessibilità dei comunque ingenti flussi residui (ivi compresa la componente residenziale). Obiettivo peraltro difficilmente perseguibile, in quanto il tessuto fisico delle città europee (concepito in genere per garantire l’inaccessibilità e, quindi, caratterizzato da reti viarie irregolari, con Irrilevante modestissime dimensioni trasversali e, nei centri collinari o pedemontani, con forti pendenze) mal si concilia con il traffico su gomma. Anche perché quest’ultimo, saturando le sedi stradali, inquinando l’ambiente e compromettendo la vivibilità degli spazi liberi, contribuisce in misura determinante a forme improprie di utilizzo dell’habitat storico, riducendone il ruolo da contenuto a contenitore. Da qui la necessità non solo di circoscrivere il traffico privato mediante lo scoraggiamento della sosta, quanto piuttosto di ridurre drasticamente la stessa presenza, all’interno dei centri storici, dei mezzi di trasporto su gomma in genere, sia individuali che collettivi. Problematiche evidentemente complesse e apparentemente insolubili, almeno in tempi brevi; considerando soprattutto che la grave crisi in cui versa l’idea stessa di città, e con essa la cultura urbanistica in genere, chiama in causa proprio gli esiti negativi prodotti dalla motorizzazione di massa. Eppure fra tante speculazioni e astratte diatribe, risaltano, per coscienza operativa e coraggio propositivo, le iniziative che da più di trenta anni vanno concretizzandosi in numerose città europee intermedie2 (Chalonsur-Saone, Leicester, Nancy, Norwich, Perugia, Siena, Rouen ecc.); sperimentazioni magari episodiche, in quanto talora prive di un quadro organico di riferimento, ma straordinariamente efficaci nello sgravare i rispettivi nuclei centrali da consistenti volumi di traffico su gomma senza penalizzarne oltremodo il grado di accessibilità. Tanto più che, nonostante le inevitabili difformità applicative delle diverse soluzioni, appare in ogni caso riconoscibile un qualche denominatore comune; al punto da rendere plausibile l’estrapolazione di una strategia unitaria, ragionevolmente tipizzabile e, quindi, riproducibile. In pratica una vera e propria estensione all’intero centro storico (interpretato come parte omogenea) di teorie urbanistiche, oltremodo note e consolidate, quali il road precinct di Alker Tripp3 o l’environmental area di Colin Buchanan4, ma ampliate e integrate con il recupero o l’introduzione di trasporti collettivi (sia innovativi che convenzionali speciali5). Più in dettaglio, infatti, tutte le iniziative strategiche sopracitate sono articolate nell’individuazione di due sistemi concentrici di parcheggi-filtro opportunamente dimensionati e attrezzati: La conquista delle città murate - un primo sistema per soste lunghe, ubicato ai margini dell’edificato urbano semicentrale e collegato al centro storico mediante trasporti collettivi; - un secondo sistema a rotazione, ubicato in tangenza al centro storico e a esso collegato mediante altrettante risalite meccaniche. Laddove il primo sistema consiste nell’attivazione di una corona di parcheggi scambiatori per soste lunghe, di grandi dimensioni, per lo più superficiali, gratuiti e localizzati ai margini dell’edificato urbano semicentrale in corrispondenza delle principali direttrici di penetrazione territoriale. Detti parcheggi scambiatori, rivolti ai flussi extraurbani e finalizzati allo scambio fra il mezzo di trasporto individuale e quello collettivo, sono 111 in genere collegati al centro storico mediante trasporti convenzionali ordinari (autobus, metropolitana ecc.) o innovati (carpool, navette automatizzate ecc.) la cui prerogativa è necessariamente rappresentata dall’efficienza e, quindi, dalla competitività con il mezzo di trasporto individuale. Mentre il secondo sistema consiste nell’attivazione di una serie di parcheggi a rotazione di dimensioni più contenute (da integrare con i terminal dei trasporti urbani o extraurbani), per lo più pluripiano, a pagamento, ubicati in tangenza al centro storico e ad esso collegati mediante percorsi pedonali il cui grado di meccanizzazione (con sistemi convenzionali speciali quali ascensori, marciapiedi e scale mobili) discende direttamente dai vincoli morfologici oltre che dai tempi di percorrenza preventivati. 112 Dai prodromi stori ci al l e esperi enze contemporanee Il sistema combinato “parcheggio a rotazione-risalita meccanica” è un’invenzione urbanistica relativamente recente. Infatti, se la tipologia del parcheggio si consolida parallelamente alla diffusione dell’automobile (uno dei primi esempi multipiano, a Winston Salem, nel North Carolina, risale al 1926, mentre il parcheggio di piazzale Roma, a Venezia, è del 1930) e se la cultura politecnica non difetta certo di iniziative nella meccanizzazione dei collegamenti pedonali interni alla città (basti pensare all’Elevador Lacerda a Salvador de Bahia, all’Elevador de Santa Justa a Lisbona, al Katarinahissen a Stoccolma o, più in generale, ai progetti di Lamont Young per Napoli e di Renzo Irrilevante Picasso per Genova), la combinazione funzionale delle due componenti, quale strumento operativo strategico della mobilità urbana, affonda le proprie radici costitutive nel secondo dopoguerra. Eppure quello dei trasporti collettivi speciali, nella quale categoria rientrano a buon diritto anche le risalite meccaniche, è un capitolo strettamente connesso con l’evoluzione della città industriale, che peraltro, pur anticipato da Decimus Burton nel 1826 con l’inserimento di un ascensore meccanico nel panorama del Colosseum di Regent’s Park a Londra, trova agli inizi del XX secolo il proprio “anno zero”6. È infatti nel 1900 che, in occasione della Esposizione Universale di Parigi, oltre a un reseau metropolitain e a due funicolari, vengono rea- La conquista delle città murate Lisbona (Portogallo), Elevador de Santa Justa (Raoul Mesnier du Ponsard, 1902). A destra dall’alto Stoccolma (Svezia), Katarinahissen (1881-83). Londra (Gran Bretagna), Colosseum: sezione (Decimus Burton, 1823). Pagina precedente Salvador de Bahia (Brasile), Elevador Lacerda (1872-73). 113 114 lizzati circa tre chilometri di trottoir roulant, un curioso antesignano del marciapiede mobile (largo quasi due metri, sopraelevato di tre metri e mezzo e capace di una velocità di circa 8 chilometri orari) atto ad agevolare gli spostamenti dei visitatori attraverso i diversi padiglioni; mentre a Londra, nel 1911, la stazione metropolitana di Earl’s Court viene attrezzata con una serie di scale mobili in legno. Né appaiono di minore rilievo le realizzazioni italiane dell’epoca, poiché ai primi del Novecento il panorama delle funicolari nazionali comprende Irrilevante almeno 43 linee perfettamente efficienti (Biella, Bergamo, Capri, Catanzaro, Mondovì, Montecatini, Napoli, Orvieto ecc.). Ma tali iniziative (vere e proprie incarnazioni delle visioni utopiche di architetti futuristi quali Mario Chiattone, Guido Fiorini o, ancorpiù, Antonio Sant’Elia) cedono ben presto il passo alle velleità rifondative dell’architettura razionalista e, in Italia, alla stagione dell’urbanistica di regime (concentrata sulla realizzazione di architetture di rappresentanza piuttosto che di infrastrutture). Bisogna così attendere la La conquista delle città murate Progetto di un opificio: prospettiva (Mario Chiattone, 1914). A destra dall’alto Perugia, risalita meccanica della rocca Paolina (Ufficio Tecnico del Comune di Perugia, 1980-83). Perugia, risalita meccanica della Canapina (Ufficio Tecnico del Comune di Perugia, 1984-90). Pagina precedente Napoli, la funicolare del Vesuvio nel 1895 (Archivio Alinari). seconda metà degli anni cinquanta per assistere a un sensibile recupero d’interesse per i sistemi trasportistici innovativi d’inizio secolo: precisando che tuttavia, mentre altrove i sistemi di meccanizzazione pedonale vengono finalizzati all’interconnessione interna fra reti di trasporto tradizionali (Jersey City, Londra, Montreal, Osaka, Parigi, Sidney ecc.), soltanto nel caso delle città intermedie italiane se ne intuiscono le virtualità urbanistiche, utilizzandoli come strumento operativo stra- 115 116 Dall’alto Urbino, risalita meccanica del Mercatale (Giancarlo De Carlo, 1976). Bellinzona (Svizzera), risalita meccanica di Castelgrande: sezione (Aurelio Galfetti, 1977-85). Pagina seguente Lerida (Spagna), risalita meccanica della Seo: assonometria (Roser Amado, Lluis Domènech, 1981). Irrilevante tegico per la risoluzione dei complessi rapporti di convivenza tra motorizzazione di massa e città murata. È infatti in occasione della redazione dei cosiddetti piani regolatori di prima generazione, segnatamente a Perugia (1956) e a Urbino (1958), che, riprendendo alcune felici intuizioni di Victor Gruen per Forth Worth oltre che di Alison e Peter Smithson per Berlino, si arriva a estendere il concetto di percorso pedonale meccanizzato da strumento esclusivamente funzionale a elemento urbanistico tipologico; quasi un cordone ombelicale fra centro storico e nuove espansioni atto a mediare, se integrato con un adeguato parcheggio-filtro a rotazione, le opposte esigenze di osmosi territoriale e di salvaguardia ambientale. Anche perché ovvie ragioni di congruenza dimensionale, oltre che di mera convenienza economica, non sempre consentono, almeno nel caso specifico delle città intermedie, l’adozione di metropolitane (leggere e non) o comunque di altri sistemi di trasporto alternativo più impegnativi. Avviene così che le felici esperienze di Perugia (in cui le viscere del centro storico sono violate da una vera e propria rete di gallerie pedonali, meccanizzate con ascensori, marciapiedi e scale mobili) e di Urbino (dove l’antico bastione della Rampa di Francesco di Giorgio, attrezzato con una coppia di ascensori, diventa una sorta di cerniera fra il parcheggio del Mercatale e le pendici del palazzo Ducale) assurgono in breve al ruolo di capisaldi tipologici. Da qui, infatti, deriva una lunga teoria di realizzazioni analoghe, sia in Italia (Assisi, Belluno, Bergamo, Camerino, Gubbio, Potenza, Todi ecc.) che in Europa (Barcellona, Bellinzona, Lerida ecc.): esempi in cui peraltro la prassi operativa ha ampiamente preceduto la speculazione teorica, perché, a ben guardare, solo a seguito dell’assimilazione delle teorie morfologiche7 avanzate da Aldo Rossi e da Carlo Aymonino si è presa piena coscienza del fatto che il centro storico, in quanto parte compiuta, può essere interpretato come un unico grande edificio. E, come in passato la conquista delle roccaforti era condotta con l’ausilio di torrini e di scale lignee, anche oggi, in modo assolutamente analogo, proviamo a “conquistare” (o forse a riconquistare) le nostre città murate, concepite per essere inaccessibili, con l’ausilio strategico di ascensori e scale mobili. Note La conquista delle città murate Y. Friedman, It is your town. Know how to protect it, Strasbourg 1975, p. 63. 2 Cfr. P. Colboc, La ville se simplifie-t-elle? Le piéton, nouvelle unité de mesure urbaine, “L’Architecture d’Aujourd’hui”, 172, 1974, pp. 63-68. 3 Cfr. A. Tripp, Town planning and road design, London 1942. 4 Cfr. C. Buchanan, Traffic in towns, London 1963. 5 Cfr. P. Gelmini, Città, Trasporti e Ambiente, Milano 1988, pp. 15-68. 6 Sulla storia e sull’evoluzione tipologica delle risalite meccaniche cfr. S. Protasoni, Trasporti non convenzionali: un itinerario illustrato, “Rassegna”, 39, 1989, pp. 6-33; P. Belardi, Connessioni urbane: percorsi pedonali meccanizzati per i centri storici, “Parametro”, 182, 1991, pp. 18-57; A. Angelillo, Risalire la città: materiali, Milano 1993; Id., Risalite meccaniche per le città italiane, “Casabella”, 607, 1993, pp. 24-37; P. Belardi, Risalendo le 1 117 città, “Domus”, 759, 1994, pp. 107-108; Id., I prodromi delle risalite meccaniche. Per una storia delle infrastrutture trasportistiche non convenzionali, in A. Soletti (a cura di), Lo spazio pedonale nel disegno della città, Perugia 1995, pp. 81-90; P. Belardi, La città in movimento. Il disegno dei trasporti non convenzionali nella città politecnica, in A. De Marco, A. Pratelli (a cura di), Gli “algoritmi” del disegno. La chiamano “Archeologia” ma è industriale, Udine 1997, pp. 75-77. 7 Cfr. A. Rossi, L’architettura della città, Padova 1966; C. Aymonino, Il significato delle città, Roma-Bari 1975. Costruzione dei muri di terra battuta: appunti di studio (Pietro Fontana, XIX sec.). Costruzione dei muri di terra battuta Un inedito manualetto ottocentesco Soggiunge Vitruvio che i Frigii [...] per mancamento di boschi [...] eleggono alcune parti più elevate del terreno, e quelle cavando, e vuotandole, si fanno stanza, e habitatione cotidiana. Giovan Antonio Rusconi Nonostante la grande diffusione (sia in nuclei sparsi che in nuclei accentrati, sia di tipo rurale che di tipo urbano), quello delle costruzioni in terra battuta rimane uno dei sistemi edilizi attualmente meno noti e praticati. D’altra parte la sistematica mimetizzazione degli edifici cum parietibus de terra (in genere intonacati, come qualsiasi altra costruzione in pietra o in laterizio) è tale da renderne improbo anche il semplice riconoscimento e, conseguentemente, non solo lo studio (al fine di rapportare i valori della tecnica a quelli del luogo oltre che dell’ambiente e del suo contenuto sociale), ma anche un’esatta valutazione quantitativa: addirittura in Italia, per avere un’idea numerica approssimativa, occorre riferirsi all’ormai arcaica indagine ISTAT del 1934 (eseguita dai medici condotti e redatta dai podestà dell’epoca), allorché, non senza clamorose lacune, vennero censite 55.285 “case in terra e fogliame”, distribuite su quasi tutto il territorio nazionale; compresa l’Umbria e, segnatamente, le aree occidentali del lago Trasimeno nonché quelle settentrionali del comprensorio spoletino. Ma, soprattutto, la cronica deficienza conoscitiva che penalizza il sistema edilizio delle case in terra (di cui va sempre più perdendosi ogni memoria residua e che certo non è patrimonio esclusivo dell’autocostruzione popolare, come attestato da Plinio, Vitruvio, Leon Battista Alberti, Vincenzo Scamozzi, Giovan Antonio Rusconi ecc.) è ragionevolmente riferibile non solo a presunte velleità progressiste, ma anche alla rara bibliografia specifica; al punto che ormai, nonostante le sbandierate istanze ecologiste contemporanee, le tecniche costruttive del “crudo”, in Italia, sopravvivono nella sola tradizione orale e sono raramente oggetto di ricerca1. Eppure l’inedito manualetto ottocentesco Costruzione dei muri di terra battuta2, opera dell’erudito spoletino Pietro Fontana e conservato in forma manoscritta presso l’Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Spoleto (fondo Fontana, busta VI, fascicolo 19, cc. 6), di cui si riporta di seguito la trascrizione parziale, dimostra inequivocabilmente come, in passato, fosse rivolta una particolare attenzione al recupero di tali modalità costruttive. Nondimeno le ragioni del manualetto, presentato ai primi dell’Ottocento in occasione della commemorazione “del Egregio nostro socio Sig. Francesco Frascarelli”, sono enunciate in un breve proemio in cui Fontana, sottolineata la continuità di tale sistema edilizio (“voi non ignorate che questi modi di costruire erano in uso ne’ più antichi tempi”), in tutta Europa (“certo è però che anche a dì nostri in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, ed in qualche parte d’Italia si costruiscono le case [...] colla terra battuta”) come nelle “case rurali” umbre (“lungo tempo si continuarono presso di noi ad usare questi metodi”), ne rimarca l’affidabilità statica (“ne abbiamo non solo molti resti, ma ancora delle intiere, le quali hanno resistito alle ingiurie de’ secoli, ed agli moti fortissimi de’ terremoti che dopo la loro costruzione sono sopravvenuti”) e la convenienza economica (“sono di un dispendio infinitamente minore di quelle fabbricate di materiali”). Al punto che il manoscritto di Fontana, risultando particolarmente denso di notazioni pratiche (nonostante l’esiguità dimensionale), s’inserisce autorevolmente nel vivace dibattito avviato dalla pubblicazione, nel 1793, di un analogo contributo da parte dell’Accademia dei Georgofili di Firenze; laddove non solo si controbatte il presunto primato francese nella costruzione di case in terra battuta, ma, con straordinaria lungimiranza, si auspica una sempre maggiore diffusione di un sistema edilizio che “è presso a poco una imitazione perfetta della natura”. Fontana 120 Irrilevante peraltro è talmente perplesso di fronte all’oblio di una siffatta tecnica costruttiva (“non saprei a quale causa assegnare l’abandono di un sistema sì economico [...] Dalla soverchia abondanza di derrate, e di numerario che nel secolo 16° fece discendere la manodopera a vilissimo prezzo?”) da concludere il proprio scritto sentenziando che “in tutti i Governi, le di cui mire sono dirette saggiamente alla felicità dei popoli, che in essi vivono” il recupero e la valorizzazione di tecniche costruttive così naturali ed economiche “formano la più savia occupazione de’ loro capi, ad esse sono dirette tutte le loro cure; poiché da queste soltanto derivano la vera ricchezza, il potere, la prosperità, e tuttociò, che vi è di grande in uno Stato”. Note Cfr. in proposito F. Storelli (a cura di), Habitat e architetture di terra. Le potenzialità delle tradizioni costruttive, Roma 1996. 2 L’esistenza del manualetto è segnalata in G. Chiuini, Umbria, Roma-Bari 1986, p. 145. 1 Dall’alto Kenia, villaggio Masai, capanne in fango, sterpi e sterco. Kani Kombolè (Mali), moschea. 121 Costruzione dei muri di terra battuta Costruzione dei muri di terra battuta Art. 1° Qualità della terra per far i muri di terra battuta Tutte le terre sono buone per fare i muri di terra battuta eccettuato l’argillosa, e la sabbiosa, la prima si fonde nel seccarsi, la seconda non fa lega. Si preferisce, frà le terre, quella, che è forte, che si coagula più facilmente, senza attaccarsi nelle mani allorché si comprime. Si fa uso con egual successo della terra forte, mescolata colla breccia. Deve osservarsi, che la terra non contenga alcun miscuglio di radiche che, nell’imputridire lascerebbero de’ vuoti pregiudizievoli al muro. La terra, che si pone in opera deve avere ad un dipresso lo stesso grado di umidità, che ha ordinariamente a un piede di profondità. Se la terra è troppo molle il volume d’acqua, che contiene rendendola mobile, forma un ostacolo alla compressione delle sue parti e venendo a sgorgare lascia delle fessure in cui penetrando l’umido, ed il calore concorrono a formare la rovina della opera prima che dicasi consolidata. La terra secca non conviene per questa costruzione perché essendo porosa, e piena d’aria, invece di prendere la consistenza necessaria si dilata, e si riduce in polvere. Art. 2° Preparazione della terra Prima di prendere la terra da un campo si leva la superficie ad un piede di profondità, o per dir meglio finché non si frontano più radiche. Se il campo è stato molto concimato, bisogna scavare finché non esiste più sabbia mescolata nella terra. Se si vuo’ preparare al fabricante una buona terra si avrà tutta la cura 1°: di mantenere la sua umidità naturale, umidità tanto preziosa, che è necessario di cuoprire la stessa per impedirne l’evaporazione; 2°: di dividere la terra, per quanto è possibile, con la pala, con la vanga, e col rastello, affinché l’operajo non incontri delle motte, o zolle, sotto la sua massa. Se la terra manca di umidità può essergli comunicata con un innaffiatojo traforato, e mescolata molto bene. Se si attacca alla massa è segno, che è troppo umida, ed in tal caso deve meschiarsi con sufficiente quantità della stessa terra più secca. Se qualche grande pioggia ha bagnato la terra che è stata preposta per il lavoro, è meglio di sospenderlo. Vi sono delle terre ottime per questa costruzione ma abondanti di breccie, possono servire togliendogli quelle più grosse. Non vanno mai mescolate due qualità diverse di terra. In caso che l’una sia migliore, e l’altra inferiore di qualità è conveniente di impiegare la prima ne’ strati inferiori dell’edifizio. Il numero d’operaj necessario per questo genere di costruzione è di sei, supposto, che la estenzione dello strato sia di 9, o 12 piedi, cioè tre battitori di terra, due che la portano, ed uno, che la estrae dalla cava, e ne fa la divisione. Art. 3° 122 Irrilevante Del tempo conveniente per fare le muraglie di terra battuta Il tempo conveniente per questo genere di costruzioni è dal finir di Marzo a tutto Agosto. Conviene eccettuare i giorni di pioggia perché la terra non acquisterebbe la necessaria consistenza. I grandi calori pregiudicano egualmente a queste costruzioni per un troppo sollecito disseccamento. Potrebbe convenire ancora l’autunno, qualora vi si incontrino delle successive giornate calde ed asciutte; la cognizione del proprio clima può meglio far determinare se convenga costruire anche in tale stagione. Art. 4° Descrizione dell’incasso, e degli utensili preposti a fare le muraglie di terra battuta La stampa, ossia incassatura, per fabricare in terra battuta è composta di quattro assi, due grandi, e due piccoli. L’asse o tavolato grande è delineato nella fig. 1a, il piccolo che serve per chiudere l’incassatura nelle testate del mezzo si osserva nella fig. 2a. Ordinariamente la lunghezza dell’incassatura, è di 9 piedi, la larghezza, ed altezza di due piedi, e sei pollici. Al fine delle assi grandi sono collocate due maniglie di ferro, le quali servono per maneggiare con facilità queste tavole. La figura 3a addita una traversa di legno di querce alta due pollici circa, larga tre e lunga tre, munita di due fori bislunghi alle due estremità ed escavati con un diversa grifa pregnia atta ad introdurvi delle aste di figura conica. La 4a figura è un legno che deve conficcarsi perpendicolarmente ne’ fori della traversa descritta nella fig. 3a. Nella 5a figura sono espressi i coni destinati a fissare il suddetto legno perpendicolare. L’istrumento del quale si fà uso per battere la terra nell’incassatura si chiama pison dal nostro autore, e noi possiamo dirlo mazzo. La figura 6a fa vedere quale sia la sua forma, avvertendo che deve essere formato di un legno duro, e pesante. Art. 5° Costruzione in terra battuta Si suppone in questo articolo la costruzione di un muro uso recinto, di seguito si parlerà di quella per una casa. Fatti i fondamenti facendo il consueto per le fabriche di materiale, e formato il piantato fino a tre piedi di altezza si cominceranno le stratificazioni in terra battuta. Si lasceranno a tale effetto in giuste distanze i canali destinati a ricevere le traverse descritte di questa alla figura 3a e si comporrà la prima stratificazione in materiale. L’incassatura come si vede nella figura 7a con i pezzi precedentemente descritti. Disposta così l’incassatura, avvertendo, che deve essere bene allineata, e livellata, e messa a piombo s’incomincia a riempire con la terra preparata come si è detto di sopra formando, e battendo, strato a strato, ciascun de’ quali però non dovrà essere erto più di tre dita. Il manuale, che batte la terra dovrà avere l’avvertenza di portare i suoi colpi molto spessi, a qual proposito il nostro autore con molta esattezza indica il modo, con cui deve procedersi avvertendo infine, che non deve tralasciarsi di battere allorquando che la mazza marca appena il legno dello strato. Finita di riempire l’incassatura può procedersi immediatamente a scomporla, e formar l’altra vicina per continuare la costruzione, e finita una banchina, si ricomincia al disopra l’operazione nel modo stesso, fino all’elevazione, che deve avere l’edifizio. Non starò qui a riportare tutti i minuti dettagli ne’ quali entra il nostro autore per istruire gli operaj anche nelle più pic- 123 Costruzione dei muri di terra battuta cole operazioni, non devo però tralasciare di far osservare, che è essenziabilissimo il garantire questi muri dall’acqua. Art. 6° Copertura de’ muri Allorché l’elevazione del muro è giunta alla determinata altezza si cuopra con tegole, per evitare i guasti dell’acqua nel caso che qualche tegola si rompesse è opportuno farvi uno strato di muro in materiale alto per lo meno un mezzo piede. Art. 7° Dell’intonacatura Queste muraglie è vero, che possono restare senza stabilitura; questa però sarà giovevole per farla esistere più lungamente, garantendola dalle pioggie, o dall’umidità, l’intonacatura inoltre dà un aspetto di proprietà, e pulizia, di cui questo modo di costruire sembra singolarmente, che abbisogni. Per la stabilitura conviene attendere, che il muro abbia perduto tutta l’umidità. Sarebbe bene attendere due anni per essere più sicuri di una perfetta essiccazione. L’intonacatura si fà come ne’ muri di materiale, ed è più durevole se si lascia rustica, o come suol dirsi a sola ingricciatura. Art. 8° Modo di costruire le case con muri di terra battuta La costruzione di una casa in terra battuta non diversifica da quella per i muri da circondare i fondi rustici, che per i pavimenti, i camini, i tetti, le porte, e le fenestre, cose tutte le quali esigono maggiori precauzioni nel costruire. An East View of the Ruin of the Parthenon, or Temple of Minerva, with the interior Part converted into a Mosque by the Turks (John Chapman, 1823). Pagina seguente San Galgano (Si), chiesa abbaziale (XIII sec.). Il fattore T Il surplus estetico delle stratificazioni architettoniche Uno dei più grossi lavori di quest’anno fu di scavare dall’alto in basso, a strati, una grossa massa di terra rimasta ancora intatta sul lato ovest e sud di Pergamo. Questo scavo aveva il massimo interesse per la scienza perché al centro dell’acropoli i Romani avevano distrutto le mura delle abitazioni dei più antichi strati superiori, per ottenere una piattaforma, mentre qui, fuori della Pergamo della seconda città, quella bruciata, e più vicino al muro dell’acropoli romana, le mura delle abitazioni sono conservate con le loro fondamenta per circa un metro di altezza in media. Esse presentano quattro insediamenti, che si sono susseguiti l’uno sull’altro dopo la rovina dell’ultima città preistorica, e ancora al di sotto, prima di raggiungere il terreno di base della seconda città, si trovano le mura delle abitazioni di altri tre insediamenti preistorici che si sono susseguiti l’uno sull’altro. Heinrich Schliemann Quando guardiamo le architetture del passato, si tratti di una parte di città o anche più semplicemente di un singolo edificio, c’interessiamo prevalentemente della loro configurazione; nel senso che in genere è proprio la forma, e quindi l’immagine di un manufatto architettonico, al di là di qualsiasi ragione distributivo-strutturale, quella che percepiamo. Non solo. La forma che memorizziamo, almeno nei casi in cui le nostre attenzioni non comportano particolari intenzionalità analitiche, è per lo più quella attuale; come cioè la stessa si è venuta conformando, nel tempo, fino ai nostri giorni. Se ad esempio ci troviamo nella chiesa abbaziale di San Galgano, presso Siena, siamo colpiti dalla particolare condizione ipetrale e difficilmente ci poniamo il problema di ricostruire mentalmente la situazione spaziale originale. Ciò che al contrario ci emoziona è proprio l’eccezionalità della condizione diruta, con il pavimento erboso e i raggi solari filtranti attraverso le alte bifore della navata. Così come, nella loggia rinascimentale della basilica dei Santissimi Apostoli a Roma, il contrasto fra la dinamicità del primo ordine e il rigore dell’attacco a terra è determinato dalle alterazioni barocche dell’impianto originario, allorché, su disegno di Carlo Rainaldi, gli intercolunni del livello superiore vengono prima murati, quindi parzialmente sfondati con l’introduzione di ampie finestrature 126 Roma, basilica dei Santissimi Apostoli. decorate e, infine, coronati con una balaustra di nuova invenzione. In entrambi i casi non interessa più di tanto il fatto che le due configurazioni formali sono state determinate da eventi assolutamente estranei alle intenzionalità progettuali originarie (lo smantellamento della copertura causato dalla negligenza dell’abate commendatario Girolamo Vitelli, nel caso dell’abbazia cistercense, e i lavori di ristrutturazione funzionale promossi dal cardinale Brancati di Lauria, nel caso della basilica Irrilevante romana): ciò che percepiamo e memorizziamo sono comunque le stratificazioni architettoniche finali sotto i nostri occhi1. Stratificazioni architettoniche peraltro generate non solo da processi di costruzione, ma anche di decostruzione. Infatti, se la basilica dei Santissimi Apostoli si presenta come un sistema complesso di segni sovrapposti, che tradiscono lo sfogliamento progressivo della composizione originaria, la chiesa abbaziale di San Galgano trova forza espressiva proprio nella condizione di rudere (forse la più drammatica forma di decostruzione), in quanto l’unitarietà del manufatto architettonico di partenza è negato dalla decomposizione strutturale e, con essa, dal progressivo riassorbimento nel paesaggio naturale. D’altra parte, consapevoli del fatto che un’architettura stratificata comporta un grado di complessità e un’individualità non parimenti riscontrabile in un manufatto o comunque in una struttura urbana concepita unitariamente, avvertiamo, seppure inconsciamente, lo spessore dei pensieri sedimentati e siamo coinvolti proprio da quegli esempi in cui l’innovazione appare talmente debitrice alla situazione preesistente da risultare altrimenti gratuita; in un certo senso le stesse motivazioni che, in un passo de Il fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne, spingono una comitiva di artisti anglo-americani, impegnati nella classica passeggiata romana al chiaro di luna, a deviare dal percorso diretto, dal Foro di Traiano al Colosseo, “per poter ammirare [...] il portico di un tempio dedicato a Minerva [...] all’interno del quale si è stabilito un macellaio, con l’ingresso aperto in un fianco”2. Ansia di manierismo? Gusto del pittoresco? Forse, ma più ancora l’esigenza di marcare lo scarto fra collocazione e dislocazione, fra modello e invenzione; esigenza che, implicitamente, chiama in causa il concetto strutturalista di palinsesto e, con esso, quelle ambiguità architettoniche impreviste, in quanto non programmate nel progetto originario, che Robert Venturi definisce lucidamente “contraddizioni evidenziate”3. Nel palazzo Tarugi di Montepulciano, ad esempio, la condizione d’angolo, involontariamente esaltata dall’occlusione funzionale del loggiato superiore, prevale sulla centralità dell’organismo concepito da Antonio da Sangallo il Vecchio? E ancora, nella basilica di San Venanzio a Camerino, il fuori scala è imputabile ai preziosismi del portale trecentesco o piuttosto all’ordine gigante del pronao neoclassico ante- Il fattore T 127 posto da Luigi Puletti nell’Ottocento? Mentre, all’opposto, proviamo una qualche estraneità rispetto ai manufatti architettonici rimasti immutati nel corso dei secoli: simulacri di una compiutezza che, in un certo senso, ci insospettisce e conferisce agli stessi un carattere più archeologico-museale che non schiettamente urbano. Basti pensare, ad esempio, alla ricostruzione del palazzo della Mercanzia di Bologna o, più ancora, all’integrità monotonale di interi centri storici cristal- Dall’alto Montepulciano (Si), palazzo Tarugi (Antonio da Sangallo il Vecchio, XVI sec.). Camerino (Mc), pronao della chiesa di San Venanzio (Luigi Poletti, 1836). A destra dall’alto Urbino, teatro Sanzio (Vincenzo Ghinelli, 1845-53). Assisi (Pg), basilica di Santa Maria degli Angeli, Santa cappella della Porziuncola (XII sec.). 128 lizzati nel tempo come Carcassonne e Toledo. Sappiamo bene, infatti, che una qualsiasi architettura, per assurgere a fatto urbano, deve necessariamente evolversi come struttura dialettica, assumendo un ruolo significante nell’ambito della geografia urbana non solo in virtù della mera permanenza topografica, ma anche e soprattutto a causa delle successive modificazioni indotte nel tempo. Avviene così che la concatenazione di esiti formali eterogenei, magari anche contraddittori, costituisce a buon diritto una categoria interpretativa autonoma, che di per sé prescinde qualsiasi catalogazione meramente stilistico-gerarchica e, di contro, propone un’ampia campionatura delle potenzialità integrative fra progetto e preesistenze. In questo senso l’oggetto del nostro interesse può essere rappresentato dal teatro Sanzio di Urbino (sovrapposto da Vincenzo Ghinelli nell’Ottocento al cinquecentesco torrione dell’Abbondanza di Francesco di Giorgio Martini) come dalla Irrilevante plaza de Toros Vieja di Tarazona (edificata nel Settecento come arena e solo successivamente trasformata in quartiere popolare), dalla basilica di Santa Maria degli Angeli di Assisi (che ingloba la piccola chiesa della Porziuncola) come dal Partenone di Atene (a lungo adattato a moschea)4. Consideriamo per un momento, in proposito, il caso emblematico del monastero di Santa Caterina, nel cuore del Sinai: una struttura conventuale cresciuta intorno alla cappella fatta erigere nel IV secolo sul luogo del roveto ardente e che, nel tempo, ha assunto l’aspetto di una pittoresca cittadella fortificata in virtù di continue, quanto disinvolte, addizioni edilizie e, soprattutto, a seguito dell’erezione del recinto murario voluto dall’imperatore Giustiniano a protezione dalle scorrerie delle tribù nomadi. Considerata a sé, nessuna delle singole strutture architettoniche incorporate appare eccezionale, mentre è proprio la forte impressione trasmessa dall’insieme a giustificare la sen- 129 Il fattore T sazione di trovarci di fronte a un ibrido tipologico: un vero e proprio palazzo-città che, pur in assenza di un disegno programmatico, presenta una straordinaria unitarietà compositiva, che in qualche modo incarna l’ideale estetico di Giacomo Leopardi quando, nello Zibaldone, sostiene che “al piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non vedere tutto e il potersi perciò spaziare con l’immaginazione riguardo a ciò che non si vede […] – perché – il piacere dell’incertezza e della varietà prevale a quello dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità”5. Allora la varietà, l’incertezza, il non vedere subito tutto, diventano la possibilità di accedere con l’immaginazione a ciò che non è visibile, riconoscendo una qualità intrinseca alle complicazioni indotte dai processi di modificazione. Ma c’è dell’altro. Infatti è solo percorrendo le vie di un qualsiasi centro storico europeo che, grazie alla percezione del ritmo incalzante generato dalle irregolarità impreviste oltre che dai repentini cambiamenti di scala, riusciamo a convincerci di come tali eventi possono essere prodotti sempre e soltanto da quel lavoro collettivo cui Peter Eisenman riconosce la capacità di conferire il crisma della intrasferibilità: “Two pieces: the quarry and the palimpsest [...] Now you take the stones and build one project. Someone else will take the stones from your project and build something else [...] We start from the palimpsest which is the superposition of two pieces which then becomes a quarry and then you subtract from the palimpsest leaving the trace of the former superposition, but also the trace of the subtraction, so in other words we are talking about ‘chora’. The combination of the superposition of palimpsest and quarry gives you ‘chora’”6. In effetti, se un modello tipologico, in quanto coerente e unitario, può essere ragionevolmente riproposto anche in contesti diversi, non potremo mai trasferire integralmente, a meno di artificiose forzature, il climax pittoresco del rione San Pellegrino di Viterbo o le sovradiacenze del palazzo del Popolo di Ascoli Piceno, perché intimamente connessi e strutturati, nei processi combinatori dei diversi addendi, alle peculiarità dell’hic et nunc; così come nello sfondo del San Sebastiano di Andrea Mantegna, dove alcuni edifici classici in disfacimento, insieme a un acquedotto romano con i fornici utilizzati a botteghe e a un arco trionfale sopraelevato, disegnano uno spaccato architettonico in cui l’a- Viterbo, rione San Pellegrino. Pagina precedente Sinai (Egitto), Sacro monastero di Santa Caterina. stratto rigore geometrico rinascimentale attinge forza espressiva proprio dalle complicazioni di una città costruita e decostruita pezzo per pezzo dal Fattore Tempo. Così, seppure non conferiremo mai sufficiente valore alla complessità degli esiti finali e nonostante la città tenda a eludere i perimetri angusti di qualsiasi sovrastruttura critica artificiosamente imposta, appare comunque conveniente rilevare, organizzandola razionalmente, la sistematicità di processi formativi la cui oggettiva necessità è testimoniata proprio dalla ricorrenza in ambiti 130 Irrilevante niche che comportano sostanziali alterazioni dello stesso (Stratificazioni con variazione di sagoma). Risultando le S tratificazioni senza variazione di sagoma articolate in processi di: - metamorfosi (trasformazione interna da una organizzazione spaziale a un’altra); - inglobamento/inclusione (incorporazione di uno o più manufatti preesistenti o inserimento, all’interno di un corpo edilizio, di uno o più manufatti indipendenti); - trasferimento (scomposizione e ricostruzione, in nuovi contesti, di un intero manufatto architettonico). Mentre all’interno delle S tratificazioni con variazione di sagoma appaiono enucleabili processi di: San Sebastiano: particolare (Andrea Mantegna, 1480 ca). A destra Perugia, rocca Paolina (Antonio da Sangallo il Giovane, XVI sec.). Pagina seguente Stadtplatz am Meer (Karl Friedrich Schinkel, 1824). e culture profondamente lontane, sia temporalmente che geograficamente. Esemplificativa, in proposito, la celebre Stadtplatz am Meer di Karl Friedrich Schinkel, un curioso montaggio eclettico in cui il sommo architetto prussiano, frantumando le barriere spazio-temporali, accosta con disinvoltura memorie archeologiche romane e pavimentazioni rinascimentali, le Procuratie e i dioscuri del Quirinale. Il risultato è uno scorcio urbano evidentemente immaginario, almeno nei suoi esiti formali, che tuttavia potrebbe sussistere realmente qualora, in qualche luogo, si fossero presentate le condizioni per il concretarsi di una tale contaminazione architettonica. Nondimeno, dall’analisi di un qualsiasi fatto urbano, appare enucleabile, all’interno delle diverse sedimentazioni, una prima grande distinzione fra quelle modificazioni architettoniche che non comportano sensibili variazioni nell’inviluppo volumetrico delle preesistenze (S tratificazioni senza variazione di sagoma) e, all’opposto, quelle modificazioni architetto- Il fattore T - addizione (accumulazione di interi corpi edilizi o di nuovi elementi architettonici intorno ad un nucleo originario); - sottrazione (rimozione, deliberata e non, di parti di un manufatto architettonico); - sovrapposizione (edificazione, superiormente al manufatto originario, di nuovi corpi edilizi). Considerando poi che, come facilmente riscontrabile, la maggior parte delle architetture stratificate è riconducibile a combinazioni di volta in volta diverse, sia qualitativamente che quantitativamente, delle categorie dinamiche elementari sopra elencate, se non addirittura di tutte simultaneamente. Basti pensare ai casi emblematici del palazzo di Diocleziano a Spalato, dell’anfitetro di Nimes e della rocca Paolina a Perugia. Laddove, nei primi due esempi, il palazzo imperiale e l’anfiteatro romano si trasformano spontaneamente in altrettanti nuclei cittadini; mentre, nel terzo, l’antico quartiere dei Baglioni viene convertito in fortezza papale da Antonio da Sangallo il Giovane che, con spirito antiquario, preserva parte del tessuto edilizio del colle Landone come sostruzione. Episodi architettonici, questi, così complessi e intricati da renderci pienamente coscienti del surplus estetico delle stratificazioni architettoniche; perché, da sempre, “le ferite di una città raccontano la sua storia meglio di qualsiasi libro o documento”7. Note 1 “Esiste un altro luogo concettuale fondamentale [...] si tratta dell’idea di 131 stratificazione. Se io osservo un disegno che mi restituisce la sovrapposizione di diverse giaciture di resti, ad esempio una planimetria del Foro Romano con in rosso le murature repubblicane, in giallo quelle del primo impero e in blu le tracce delle edificazioni del terzo secolo dopo Cristo, mi confronto con un’immagine che ‘visivamente’ si presenta come un sistema di segni che si scompone nelle sue parti quasi per un percepibile movimento. Attraverso una sorta di accelerazione mentale posso letteralmente assistere allo ‘sfogliamento’ progressivo di questo testo edilizio” (F. Purini, La forma storica della decostruzione nella architettura italiana, in B. Bottero, a cura di, Decostruzione in architettura e filosofia, Milano 1991, p. 53). 2 N. Hawthorne, Il fauno di marmo, Roma 1945, pp. 63-64. 3 R. Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura, Bari 1980, pp. 69-84. 4 “È evidente che ogni cosa ha una sua funzione a cui deve rispondere ma la cosa non finisce lì perché le funzioni variano nel tempo. È stata sempre questa una mia affermazione di carattere scientifico che ho tratto dalla storia della città e dalla storia della vita dell’uomo: la trasformazione di un palazzo, di un anfiteatro, di un convento, di una casa e dei loro diversi contesti. Mi sono sempre riferito a questo parlando dei monumenti perché ho visto palazzi antichi abitati da molte famiglie, conventi trasformati in scuole, anfiteatri trasformati in campi da pallone e questo è sempre avvenuto meglio dove non è intervenuto l’architetto né qualche sagace amministratore” (A. Rossi, Autobiografia scientifica, Milano 1999, p. 107). 5 G. Leopardi, Zibaldone, ed. W. Binni, I, Firenze 1969, p. 484. 6 P. Eisenman, Interview Peter Eisenman + Lynn Breslin, “Space Design”, 3, 1986, p. 65. 7 W. Wenders, L’atto di vedere, Milano 1994, p. 90. Plan equal section Il fascino dell’ipogeo Aircraft Carrier City è il titolo dello schizzo di Hans Hollein, in cui una portaerei, erede della mitica nave transoceanica di Le Corbusier, è ritratta semisprofondata nel deserto: un disegno apparentemente bizzarro, ma in realtà epocale, perché sancisce il definitivo fallimento delle megastrutture urbane (a cominciare proprio dalla Ville Radieuse) e ristabilisce il tradizionale connubio utopia-ipogeismo profetizzato da Antonio Sant’Elia nel Manifesto dell’Architettura Futurista del 1914 (“la strada [...] si sprofonderà nella terra per parecchi piani – perché occorre – utilizzare i sotterranei”1), ma misconosciuto dal modernismo quando, insorgendo contro la drammatica precarietà delle abitazioni protoindustriali, enfatizza la necessità biologica della luce e associa tout court connotazioni negative all’assenza della stessa. Esemplificative, in proposito, le scenografie del film Metropolis di Fritz Lang in cui il contrappunto fra i padroni e gli operai è rimarcato proprio dalle oppo- ste ambientazioni: luminosi giardini pensili per i primi e lugubri sotterranei per i secondi. Eppure, a ben guardare, lo spazio della caverna (di volta in volta giaciglio primordiale, rifugio, ma anche ritiro ascetico2) eccita da sempre l’immaginario collettivo, sollevando al contempo attrazioni ancestrali (l’alveo materno) e misteriose inquietudini (l’angoscia del sepolcro); secondo un intrigante rapporto di orrore-piacere che informa tutta la cultura classica (nessuno degli eroi epici si sottrae al cimento della discesa agli Inferi) e investe conflittualmente la stessa religione cristiana. Laddove la caverna, nel tentativo di scongiurare qualsiasi rigurgito misterico-pagano, viene rappresentata iconograficamente come sede di oscure forze malefiche (nell’età medievale le immagini della spelonca e del dragone sono pressoché indissolubili), per quanto poi, paradossalmente, il cammino del cristianesimo incrocia continuamente quello dell’ipogeismo: Pagina precedente Ivrea (To), centro residenziale Olivetti: planimetria, sezione e interni in una sintesi grafica dell’idea di progetto (Roberto Gabetti, Aimaro Isola, 1969). Aircraft Carrier City (Hans Hollein, 1964). 134 Matmata (Tunisia), abitazioni troglodite. A destra dall’alto Ville sous-fluviale (Paul Maymont, 1963). Indian Hills (Oh.-USA), Geier House (Philip Johnson, 1965). Pagina seguente Earthform categories (William Morgan, 1967). Atlantic Beach (Fl.-USA), Dune House (William Morgan, 1975). Irrilevante dalle catacombe alle cripte, dai santuari rupestri alle dimore anacoretiche. Né, d’altra parte, il Novecento è esente da declinazioni ipogee. Il mito della montagna cosmica, infatti, ispira gran parte dell’architettura espressionista, contrassegnata da “visioni di città che, per Hermann Finsterlin, si plasmano in mareggiate di pietra continuamente percorribili nel loro involucro esterno e interno; per Carl Krayl, in selve di guglie dolomitiche; mentre altri architetti, quali Hans Sharoun e Poelzig, progettano interni di templi e teatri simili a pungenti o fiammeggianti caverne stalattitiche”3; prefigurazioni immaginifi- Plan equal section che, quelle espressioniste, che, unitamente all’Alpinearchitektur di Bruno Taut (in cui “intere montagne vengono trasformate, scavate o ‘completate’ da segni cosmologici”4), preludono alla costituzione, nel 1933, del Groupe d’Etudes et Coordination de l’Urbanisme S outerrain, un’organizzazione ideata da Edouard Utudjian e finalizzata alla sensibilizzazione del grande pubblico per le virtualità ecologiche di un’auspicata ville en épaisseur. Ma l’impegno messianico dell’allievo di Perret trova scarsi proseliti. Infatti, nonostante l’episodicità delle architetture semitroglodite di Frank Lloyd Wright (che 135 sprofonda nel suolo vegetale parti della Jacobs House e delle Cooperative Homesteads) e di Philip Johnson (Geier House), è solo nel cuore degli anni sessanta che le tendenze radicali riscoprono le valenze utopiche dell’habitat sotterraneo: dalle avveniristiche proposte di Paul Maymont per Parigi (una megalopoli lineare ricavata inferiormente all’alveo della Senna) alla Ville Cratère di Louis Chanéac (articolata in un sistema di cavità artificiali interconnesse), dalla Subartic City di Ralph Erskine agli insediamenti neoanasazi di Paolo Soleri (scavati nella roccia e climatizzati mediante lo sfruttamento 136 Irrilevante dell’energia eolico-solare): Arcoindian, Infrababel, Theology. Fino alla strabiliante Prepared Landscape di Peter Cook in cui “una falsa natura generata dalla sublimazione delle possibilità tecniche crea false colline, il cui interno è strutturato da un’architettura che parte dall’idea di sotterraneo”5. Non a caso l’impasse psicologico-culturale nei confronti dell’abitare ipogeo è superato contestualmente alla divulgazione della propensione hippie per “il vivere armonioso nella natura” e, ancorpiù, a seguito della crisi energetica indotta dall’embargo petrolifero nei primi anni settanta. Sono, infatti, le esigenze di salvaguardia ambientale (la coscienza del territorio come bene limitato, la lotta agli agenti inquinanti ecc.) unitamente alle rinnovate tecniche di controllo ambientale (le stesse in cui confidava Sant’Elia) ad ampliare le prospettive di un sottosuolo non più interpretabile riduttivamente quale mero spazio rituale-cultuale, quanto piuttosto come preziosa protesi dell’esistente. Così, parallelamente alla proliferazione di architetture sempre più trasparenti e rarefatte, l’architettura dell’ultimo scorcio del XX secolo annovera comunque imprese ipo- Ann Arbor (Mi.-USA), Law Library Addition (Gunnar Birkerts, 1974-81). A sinistra Ann Arbor (Mi.-USA), Law Library Addition: sezione prospettica (Gunnar Birkerts, 1974). Pagina seguente San Antonio (Tx.-USA), Lucille Halsell Conservatory: sezioni (Emilio Ambasz, 1978). San Antonio (Tx.-USA), Lucille Halsell Conservatory (Emilio Ambasz, 1978-87). Plan equal section gee6 nel cui elenco risaltano la concretezza di Gunnar Birkerts e la poeticità di Emilio Ambasz. Birkerts, infatti, recuperando il senso più profondo della lezione impartita da William Morgan sia da un punto di vista teorico (redigendo una meticolosa catalogazione tipologica7 articolata in shaped hills, mounds, retained earth, shafts, terraces, tunnels e caves) che da un punto di vista applicativo (costruendo numerose abitazioni ipogee: Dune House, Forest House, Hilltop House ecc.), si “è guadagnato – sul campo – la fama di esperto in espansioni sotterranee”8. Soprattutto con l’ampliamento della Law Library di Ann Arbor, realizzata nel campus dell’University of Michigan ed esemplare proprio perché “elaborata nel rispetto dell’edificio originario”9; occasione in cui Birkerts, dopo avere a lungo indugiato su ipotesi superficiali, opta per una soluzione completamente ipogea, investendo il sottosuolo dell’esigua area disponibile e ritagliando, in corrispondenza dell’edificio neogotico preesistente, un’asola vetrata capace di garantire, in virtù di un sofisticato sistema di pareti specchianti, l’afflusso della luce naturale all’interno della biblioteca nonché l’integrazione percettiva tra interno ed esterno. Mentre Ambasz, nel Lucille Halsell Conservatory di San Antonio, rimodella il terreno collinare e ricava mimeticamente, al di sotto dei diversi tumuli artificiali, altrettante serre botaniche, caratterizzate da condizioni climatiche autonome e denunciate visivamente da misteriosi lucernari high-tech “which give the roofs a hieratic presence as an arrangement of secular temples sitting serenely in the landscape”10. Eppure, nonostante il successo delle suggestive architetture di Birkerts e di Ambasz, l’ipogeismo continua a rappresentare una sorta di nicchia disciplinare, frequentata manieristicamente piuttosto che indagata criticamente. Peraltro, se nel resto d’Europa la sensibilità ambientalista impone di per sé l’adozione di soluzioni interrate (dalla stazione radio di Gustav Peichl ad Aflenz al centro termale di Otto Glaus a Baden Baden fino alla Temppeliaukio-kirche di Timo e Tuomo Suomalainen a Helsinki), in Italia sono gli stessi ordinamenti legislativi (segnatamente le norme igienico-sanitarie, per lo più inadeguate alle potenzialità del progresso tecnologico) a scoraggiare qualsiasi forma di ipogeismo, limitando la realizzazione di locali interrati a ragioni di mera convenienza volumetrica e, 137 138 Irrilevante quindi, associando idealmente ipogeismo e abusivismo; tanto da avvalorare il convincimento comune che tende a interpretare le abitazioni interrate come ripiego. E di ripiego certo si tratta, se si considerano gli scantinati, per lo più insalubri, dei nostri centri storici (mai concepiti ai fini propriamente abitativi), ma non se si pensa alle qualità ambientali dei Sassi di Matera (una volta eliminate le cause prime del disagio: sovraffollamento, promiscuità con il bestiame e carenza di servizi) o, più ancora, alle rare realizzazioni ipogee sfuggite alla censura normativa, quali ad esempio i progetti di Roberto Gabetti e Aimaro Isola per Sestrière, Volterraio all’Isola d’Elba e, soprattutto, Ivrea: un crescent residenziale incassato nel terreno che, con la propria innovatività tipologica, costituisce la prova tangibile di come, manipolando la crosta terrestre e controllando opportunamente il progetto in sezione (vero e proprio luogo ideativo), si possono concepire residenze non solo perfettamente funzionali, ma anche e soprattutto piacevoli, contrapponendo modelli inediti alla rigida anomia degli epigoni tardo-razionalisti e riscoprendo valori precipui dell’abitare (l’intimità, la singolarità, il senso di protezione) troppo a lungo sacrificati in nome di una presunta, quanto distorta, idea della modernità: perché “plan equal section, [ovvero] pianta e sezione si equivalgono”11. Note A. Sant’Elia, L’Architettura futurista. Manifesto dell’11 luglio 1914, in R. Gabetti (a cura di), La nuova architettura e i suoi ambienti, Torino 1985, p. 39. 2 P. Supik, Forme dell’architettura trogloditica, in G. Cataldi (a cura di), Le ragioni dell’abitare, Firenze 1988, pp. 234-248. 3 M. Nicoletti, L’architettura delle caverne, Roma-Bari 1980, p. 20. 4 Ibid. 5 F. Burkhardt, Sotto terra, “Domus”, 812, 1999, p. 2. 6 Cfr. in proposito E. Burger, Geomorphic Architecture, New York 1986. 7 W. Morgan, The earth. Discussing the basic issues, “Progressive Architecture”, 4, 1967, pp. 176-184. 8 K. Kaiser, Gunnar Birkerts. Metafore ed espansioni sotterranee, Torino 1998, p. 60. 9 Ibid. 10 E. Ambasz, Emilio Ambasz. The poetics of the pragmatic, New York 1 Dall’alto Aflenz (Austria), stazione radio (Gustav Peichl, 1976-79). Ivrea (To), centro residenziale Olivetti (Roberto Gabetti, Aimaro Isola, 1969-74). Plan equal section 1988, p. 54. 11 “Nei miei progetti la dimensione sotterranea non è vista come una cantina, ma come un aspetto completo dell’architettura. ‘Sotto terra’ e ‘fuori terra’ non sono più divisi. Ho anche coniato lo slogan plan equal section, pianta e sezione si equivalgono. Perché il problema fondamentale è lo spazio. Del resto l’architettura diventa spesso una questione di tracciati, e con un semplice foro nel soffitto si ottiene un ambiente più alto” (H. Hollein, Dietmar Steiner intervista Hans Hollein, “Domus”, 812, 1999, p. 4). 139 La rappresentazione della complessità La complessità della rappresentazione Un tempo si raffiguravano solo cose che potevamo vedere, o che ci sarebbe piaciuto vedere. Ora invece ci si palesa soprattutto la relatività delle cose visibili, che si manifestano pertanto come un piccolo esempio della totalità del mondo, e delle innumerevoli verità latenti che esso contiene. Le cose ci appaiono in un senso più vasto, moltiplicato, e sembrano contraddire l’esperienza razionale di ieri. Si sta diffondendo una essenzializzazione del casuale. Paul Klee La rappresentazi one del l a compl essi tà Negli ultimi anni il rapporto tra architettura e rappresentazione ha subito profonde modificazioni, indotte non solo dalla progressiva concettualizzazione del dibattito disciplinare1 (le contaminazioni tra architettura e speculazione filosofica sono sempre più frequenti) o dalle ferree leggi di mercato (la divulgazione pubblicistica dei progetti obbliga di per sé all’elaborazione di immagini di grande effetto), ma anche e soprattutto dalla volontà di esprimere quell’innegabile complessità della città contemporanea2 che, al di là delle stranianti disomogeneità che incarnano “il sentimento della tragica differenza tra idealità dell’abitare e realtà metropolitana”3, appare comunque strutturata da nessi, pur indecifrabili e divergenti, cui restituire, una volta riconosciuti, nuovi significati e nuovi orientamenti. In verità già gli anni sessanta erano stati caratterizzati da alcune pionieristiche esperienze rappresentative (le fotografie di Franco Fontana, i film di Pier Paolo Pasolini, le architetture di Robert Venturi ecc.) che, scommettendo su ipotesi disgiuntive piuttosto che conciliative, avevano rivelato al grande pubblico la straordinaria vitalità del nuovo paesaggio urbano; ma solo in tempi recenti le avanguardie artistiche, affrancandosi definitivamente da ogni pregiudizio nei confronti della cultura di massa4, hanno teorizzato una vera e propria Superimposition (Bernard Tschumi, 1982). Pagina precedente Vertical horizon (Daniel Libeskind, 1979). estetica del residuale5 e della rarefazione6, prendendo atto del fatto che nella metropoli contemporanea, a differenza della città storica, sono proprio le discontinuità (sia fisiche che culturali7) a garantire la continuità del tessuto urbano8; vuoti interstiziali e aree di risulta in cui il punto di vista non rimane statico, ma è mobile e “spostandosi muta il senso della forma addirittura contraddicendolo”, perché “da nessuna parte si trova un centro determinato”9. Così, con una poetica assolutamente originale, le periferie newyorkesi di David Leavitt sono descritte dall’abitacolo di un taxi, mentre quelle romane di Nanni Moretti sono filmate dal sellino di una vespa. A ben guardare, infatti, è proprio la frammentaria struttura policentrica delle nuove espansioni (in cui la composizione non è più 142 Irrilevante governata da un piano univoco, eterno e immanente) a tradire i limiti impliciti nelle tecniche rappresentative tradizionali; laddove le relazioni effimere instaurate tra i singoli episodi (il cui unico codice plausibile è “la variabilità continua dei codici di riferimento”10) possono difficilmente trovare una rappresentazione adeguata in un modello relativamente “semplice” come quello mongiano, richiedendo piuttosto modelli iconici innovativi, in grado di avvicinare l’osservatore, in virtù dell’introduzione del fattore dinamico, all’effettiva realtà fenomenica. La compl essi tà del l a rappresentazi one Inevitabile quindi che, considerati gli stretti legami che da sempre saldano il binomio disegno/progetto in quell’unità pressoché indissolubile che è l’architettura, un mutamento di pensiero così radicale non incidesse profondamente sulla rappresentazione dell’architettura. Non a caso il battesimo del movimento decostruttivista, celebrato da Philip Johnson al Parigi (Francia), Bibliotèque de France: sezioni (Rem Koolhaas, 1989). Montecito (Ca.-USA), Crawford Residence: spaccato assonometrico (Morphosis, 1987). A sinistra Amburgo (Germania), piano particolareggiato per Haffenstrasse: studi preliminari (Zaha Hadid, 1989). Pagina seguente Virtual House (Peter Eisenman, 1987). Atlanta (Ga.-USA), Chmar House: pianta (Scogin Elam and Bray, 1990). La rappresentazione della complessità Museum of Modern Art di New York nel 1988, è avvenuto in occasione di una mostra la cui carica dirompente era affidata a opere grafiche che, in nome della trasversalità e della multilateralità (quindi della complessità), tendevano a debordare dagli angusti perimetri disciplinari per contaminarsi con altre forme artistiche. Ad esempio, così come nell’opera di Frank Gehry l’uso dello schizzo a mano libera oltre che del modello plastico sono pressoché inscindibili dalla scultoreità degli esiti formali (perché il dinamismo delle masse sfalsate e dei solidi sorpresi nell’atto dello scollamento non potrebbe mai essere concepito 143 con grafici bidimensionali), le aberratissime prospettive a quadro inclinato di Zaha Hadid o le esplosioni assonometriche di Daniel Libeskind e di Bernard Tschumi tendono a rappresentare il processo metamorfico dell’idea prima ancora che l’opera architettonica. Peraltro, se Zaha Hadid affida le proprie istanze rivoluzionarie all’enfasi di disegni raffinatissimi (vere e proprie aeropitture futuriste, che infondono l’impressione di un transito a grande velocità), nei disegni di Libeskind, ridondanti di oggetti privi di qualsiasi significato convenzionale, si accavallano visioni simultanee dell’edificio riprodotto a diverse 144 Escondido (Ca.-USA), Escondido Civic Center: diagramma planimetrico (Eric Owen Moss, 1985). scale grafiche e compenetrato da linee ideali (“che evocano l’esperienza mancante o l’equivalente dell’esperienza di un’architettura assente”11); mentre gli straniati reperti modernisti di Tschumi, così come nella musica le singole note danno corpo a una melodia grazie al potere strutturante delle linee dello spartito, trovano la propria ragione costitutiva nelle griglie, fisiche e concettuali, che li ricompongono in un sistema unitario12. Né d’altra parte le rappresentazioni contemporanee appaiono immuni da influenze riferibili al mondo della cinematografia. Infatti, se l’antica vocazione per la sceneggiatura di Rem Koolhaas si estrinseca nella produzione di vere e proprie fiction architettoniche13, molti dei disegni elaborati dalla Coop Himmelblau (in cui “focus and perspective changes, there is a rich repertoire of resting places and viewpoints that bring about stark contrasts of high and low, far and near, narrowness and wideness”14) richiamano esplicitamente le vorticose sequenze di celebri ambientazioni metropolitane futuribili prefigurate in Brazil di Terry Gilliam o in Matrix di Andy e Larry Wachowski. Ma sono soprattutto le ricerche di Peter Irrilevante Eisenman che, sovvertendo la rigida consequenzialità pianta/prospetto/sezione, destabilizzano definitivamente la visione antropocentrica15, ampliando a dismisura le potenzialità del repertorio espressivo. Basti pensare ai modelli diagrammatici elaborati al computer da Peter Eisenman, segnatamente a quelli eseguiti per la Virtual House, che, subordinando l’atto progettuale alla manipolazione digitale, destabilizzano i canoni rappresentativi ereditati da almeno quattrocento anni di classicismo latente, prefigurando le nuove frontiere conoscitive del folding16. Esperienze, queste del movimento decostruttivista e dei suoi sviluppi (dai Morphosis a Steven Holl, da Elias Zenghelis a Eric Owen Moss), forse disomogenee, certo difficilmente perimetrabili con un giudizio critico lineare ed esaustivo, ma accomunate dalla consapevolezza implicita che, così come le città sono sempre più dissonanti e opprimenti, le immagini che le descrivono non possono esimersi dall’esprimere il disagio del vivere contemporaneo e le nuove frontiere estetiche del “disgusto”17, proponendosi anch’esse come stridenti e inafferrabili; soprattutto perché, da sempre, “le immagini e le città si evolvono in maniera parallela”18. E la rappresentazione della complessità19 non può che tradursi nella complessità della rappresentazione20. Note “In modi disordinati [...] l’immenso spazio urbanizzato è interrotto da ‘grumi’, coaguli più consistenti costituiti da un ammasso caotico di materiali urbani incoerenti. Volumi ed aree di dimensioni, forma, aspetto, consistenza materica differente; testimoni di esperienze umane e progettuali paratatticamente associate: il condominio, la fabbrica, la casa a schiera, il parcheggio, la scuola, il distributore di benzina, la chiesa, ancora la fabbrica, la cascina, il supermercato, il palazzo per uffici, il parcheggio, l’area di risulta, il campo giochi, l’officina, la grande fabbrica, il deposito degli autobus, il gasometro, il parco urbano, l’attrezzatura sportiva e la discarica. Entro le più diverse forme letterarie elenchi come questo sono divenuti la forma canonica della descrizione di ‘un mondo di oggetti’ che, sino a qualche tempo fa, indicavamo con i termini di ‘periferia’ urbana” (B. Secchi, La periferia, “Casabella”, 583, 1991, p. 21). 2 “La cultura urbana del nostro secolo si è avvitata intorno ad un asse problematico che si può sintetizzare nello slogan ‘ricomporre i contrasti, sanare 1 145 La rappresentazione della complessità le contraddizioni’. Visti i risultati, perché non provare a scommettere su di un’ipotesi che separi di più, che allontani e dissezioni? [...] Cominciamo intanto con il rifiutare la parola città che ormai di senso disciplinare ne ha poco, perché si è caricata di altri e senz’altro più durevoli valori esterni all’architettura” (F. Purini, La città tribale, in F. Leoni, a cura di, Le architetture e le strade, Roma 1982, p. 9). 3 V. De Feo, Culto dell’antico e sberleffi da metropoli, “L’informazione”, 5, 1994, p. 18. 4 “Io sono certo che presto si dovrà riscrivere la storia della cultura e dell’arte di questo secolo o almeno di questa seconda metà: l’arrivo del nuovo millennio, le grandi migrazioni etniche e culturali che ormai rappresentano una realtà inconfutabile [...] imporrebbero sin da ora una radicale rivisitazione storica che ci costringerà a guardare la cultura che stiamo vivendo ed attraversando con occhi diversi” (G. Politi, Picasso o Walt Disney protagonista del secolo?, “Flash Art”, 189, 1994, p. 17). 5 Cfr. E. Noel (a cura di), Aggiornamenti sull’idea di caso, Torino 1992. 6 Cfr. A. Wall, The disperded city, “Architectural Design”, 108, 1994, pp. 8-11. 7 Cfr. G. Amendola, Dal crogiolo all’insalatiera. Il patchwork di forme e di culture della metropoli contemporanea, “Paesaggio Urbano”, 5/6, 2000, pp. 10-13. 8 W. Wenders, L’atto di vedere, Milano 1994, p. 90. 9 D. Formaggio, La percezione cinestetica. L’occhio mobile e la visione attiva, in E. D’Alfonso, E. Franzini (a cura di), Estetica tempo progetto, Milano 1990, pp. 107-108. In proposito cfr. anche C. Magris, Da Nietzsche a Musil, il naufragio dell’io nel mare della vita, “Il Corriere della Sera”, 26 ottobre 2001, p. 37. 10 A. Terranova, Città sognate, Firenze 1977, p. 118. 11 D. Libeskind, Tra metodo, idea e desiderio, “Domus”, 731, 1991, p. 18. 12 Cfr. B. Tschumi, Projects for Tokyo and Strasbourg, in Deconstruction II, New York 1989, p. 13. 13 Cfr. in proposito J.L. Cohen, Il ribelle razionale e l’impegno urbanistico dell’Oma, in J. Lucan, Oma. Rem Koolhaas. Architetture 1970-1990, Milano 1990, pp. 9-19. Inoltre Maggie Toy, puntualizzando il rapporto tra cinema e architettura, riporta un’osservazione dello stesso Koolhaas sulla contaminazione fra le diverse attività: “There is surprisingly little difference between one activity and the other [...] I think the art of scriptwriter is to conceive sequences of episodes which build suspense and a chain of events [...] the largest part of my work is montage [...] spatial montage” (M. Toy, Editorial, “Architectural Design”, 11/12, 1994, p. 7). 14 T. Widman, D. Robnik, Coop Himmelb(l)au. The UFA Cinema Centre: splinters of light and layers of skin, “Architectural Design”, 11/12, 1994, p. 51. 15 Cfr. M. Falzea, Il decostruzionismo americano e il testualismo di Peter Eisenman, “Rassegna di Architettura e Urbanistica”, 78/79, 1993, pp. 161212. 16 Cfr. in proposito P. Eisenman, Oltre lo sguardo. L’architettura nell’epoca dei media elettronici, “Domus”, 734, 1992, pp. 17-24. Cfr. in proposito M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Milano 1992; W.I. Miller, Anatomia del disgusto, Milano 1998; M. Perniola, Disgusti. Le nuove tendenze estetiche, GenovaMilano 1998; P. Belardi, (Dis)gusti. Il fascino indiscreto della periferia, in S. Bosi (a cura di), 8 progetti per l’area dell’ex Foro Boario di Foligno, Foligno 2001, pp. 13-14. 18 W. Wenders, op. cit., p. 88. 19 Sulla complessità del contemporaneo cfr. M.M. Waldrop, Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Torino 1995. 20 Cfr. C. Gianmarco, A. Isola, Disegnare le periferie, Roma 1993, pp. 151164; R. de Rubertis, Riflessioni sulle nuove tendenze, “XY, dimensioni del disegno”, 23/24/25, 1995, pp. 6-14; F. Quici, Disegnare la molteplicità, “XY, dimensioni del disegno”, 23/24/25, 1995, pp. 39-46. 17 Ironical counter-project for Boston City-Hall (Robert Venturi, 1972). Pagina seguente New York (N.Y.-USA), Times Square. Sign-city L’architettura della pubblicit(t)à Le insegne pubblicitarie americane vengono considerate con disprezzo dagli ingenui snob che si vergognano dell’aspetto commerciale delle cose e del realismo vitale. Un giorno saranno ammirate come l’artigianato d’arte per eccellenza dei nostri tempi, che decora il paesaggio e si può vedere dall’automobile in viaggio sulle autostrade d’America: un equivalente vernacolare dei mosaici parietali delle basiliche di Ravenna, che avvicinano la teologia agli illetterati. Robert Venturi Fino all’età premoderna la comunicazione dell’architettura è principalmente affidata alla congruenza del binomio forma/ funzione e, con essa, alla chiara leggibilità dell’edificio, anche se metaforica: basti pensare al castello medievale, concepito come miniaturizzazione della città fortificata per rimarcare la natura civile del potere feudale, o al palazzo rinascimentale fiorentino, adottato come modello direzionale in virtù dei rimandi alle residenze gentilizie delle prime dinastie bancarie. Né d’altra parte la scrittura, intesa come sistema di segni atto a veicolare messaggi informativi, arriva mai a soppiantare l’architettura, limitandosi sempre e comunque a un ruolo complementare, puntualmente integrato nella composizione generale1: dall’epigrafe che suggella il timpano del Pantheon a Roma all’iscrizione che corona il sepolcro Rucellai dell’Alberti fino alle curiose piante cifrate di Anton Glonner. C’è però un preciso spartiacque epocale, segnato dall’irruzione dell’energia elettrica nella città; irruzione che determina la repentina metamorfosi delle quinte urbane: grigie e monotone di giorno, ma scintillanti e cangianti di notte, quando assumono le sembianze di “gigantesche pagine con scritte e figure, fisse o in movimento, da leggere e osservare”2. Non a caso il simbolo per antonomasia della modernità, Times Square, pur trovando un precedente illustre nella Parigi di Hau- 148 Rotterdam (Olanda), Café De Unie (Jacobus Johannes Pieter Oud, 1924-25). Chioschi pubblicitari (Herbert Bayer, 1924). Pagina seguente Monza, Mostra Internazionale delle Arti Decorative: assonometria del padiglione Bestetti-Treves-Tumminelli (Fortunato Depero, 1927). Colonia (Germania), Esposizione Internazionale della Stampa: studio per un pennone propagandistico (El Lisitskij, 1928). Irrilevante Sign-city 149 disposto all’alloggiamento della réclame luminosa, Aleksandr Rodcenko, nel 1919, disegna un chiosco enfatizzato da magniloquenti emblemi propagandistici, Jacobus Johannes Pieter Oud, nel 1924, tappezza di insegne pubblicitarie la facciata del Café De Unie a Rotterdam, mentre nello stesso anno un allievo della Bauhaus, Herbert Bayer, progetta un’eccentrica rivendita di tabacchi, segnalata visivamente da una gigantesca sigaretta che emerge dalla copertura in forma di canna fumaria. Ma è soprattutto Fortunato Depero a collezionare uno straordinario campionario di architetture pubblicitarie tra cui risalta il padiglione del libro Bestetti-Treves-Tumminelli, allestito in smann3, affonda le proprie radici genetiche nella rivoluzione pubblicitaria newyorkese4; laddove, per catturare l’attenzione del pubblico metropolitano, cronicamente distratto5, si stabilisce il legame, a lungo indissolubile, tra la comunicazione commerciale e i nuovi corpi illuminanti al neon. “Dovunque si guardi, l’elettricità dà un grandioso spettacolo. Lontano, vicino e in ogni dove, parole e frasi scritte a lettere di fuoco dominano la città. Figure che saltano e gesticolano. Apparizioni che lampeggiano, si muovono, scompaiono velocemente, molto velocemente, al punto che, in realtà, lo sguardo riesce a seguirle a stento. Di tanto in tanto un enorme tabellone pubblicitario collocato in cima a un grattacielo scuro, quasi invisibile nell’atmosfera tenebrosa, esplode con una rossa fiammata come una costellazione, martella un nome nella tua memoria e svanisce subito dopo”6. A ben guardare, l’eccitazione con cui Pierre Loti registra il dinamismo multiforme della Times Square dei primi anni venti rimanda al fervore ideologico che, contestualmente, spinge le avanguardie architettoniche europee a scrollarsi di dosso il retaggio storicistico per praticare le valenze espressive della sign-city: se già la “Città Nuova” di Antonio Sant’Elia annovera un edificio pre- 150 Irrilevante occasione della III Mostra Internazionale delle Arti Decorative di Monza del 1927 mediante l’assemblaggio di grandi caratteri tipografici tridimensionali. Peraltro, né potrebbe essere diversamente, sono proprio le manifestazioni fieristiche (eredi delle mitiche esposizioni universali ottocentesche) a consacrare il connubio architettura/pubblicità, ribaltando l’accessorio in necessario: i pennoni per l’Esposizione Internazionale della Stampa del 1928 a Colonia di El Lisitskij, la Fiera Campionaria di Turku del 1929 (concepita da Alvar Aalto come iterazione di colossali pagine di giornale) e l’Esposizione di Stoccolma del 1930 (disseminata da Erik Gunnar Asplund di una miriade di tralicci di sostegno ad altrettante insegne luminose intermittenti7). Fino alla Maison de la publicité di Oscar Nitz- Turku (Finlandia), Fiera Campionaria: prospettiva di un chiosco (Alvar Aalto, 1929). A destra Stoccolma (Svezia), Esposizione Internazionale: traliccio pubblicitario (Erik Gunnar Asplund, 1930). Pagina seguente Parigi (Francia), Maison de la publicité: prospetto (Oscar Nitzchké, 1935). L’asfalto nella notte. Elvis Presley (Mimmo Rotella, 1962). Neon Electrical Light English Glass Letters (Joseph Kosuth, 1966). Sign-city 151 chké del 1935 (la cui facciata, una struttura metallica di supporto a un layout grafico vagamente De Stijl, presenta un’immagine effimera, soggetta all’intercambiabilità delle pubblicità applicate) oltre che al padiglione per la Società Terni di Adalberto Libera del 1948 (che assume l’insegna come elemento intrinseco della trama compositiva). Nondimeno, nonostante la frattura antropologica determinata dall’avvento della società dei consumi e della civiltà di massa, lo scarto ideale che separa i progetti di Nitzchké e di 152 Irrilevante Bristol Township (Ct.-USA), Basco Showroom (Robert Venturi, 1979). A sinistra dall’alto New Brunswick (N.J.-USA), National Football Hall of Fame: modello plastico (Robert Venturi, 1967). Siviglia (Spagna), United States Pavilion: prospettiva (Robert Venturi, 1989). Pagina seguente Buenos Aires (Argentina), grattacielo Peugeot: modello plastico (Maurizio Sacripanti, 1961). Santa Monica (Ca.-USA), Santa Monica Place (Frank Gehry, 1973-80). Libera dalle successive estremizzazioni pop e postmodern è relativamente esiguo, anche in virtù della mediazione culturale di esperienze artistiche apparentemente estranee all’architettura (i manifesti lacerati di Mimmo Rotella, le scritte luminescenti di Joseph Kosuth, le inquadrature dei billboards8 dell’Antonioni di Zabriskie Point), ma decisive per il riconoscimento del ruolo paesaggistico della pubblicità, altrimenti snobbata o al più liquidata come “nichilismo culturale”. Fondamentale, in proposito, il contributo pionieristico di Robert Venturi quando, “rilevata” la strip di Las Vegas9 (che di giorno “sembra non esistere”, mentre di sera “appare come un miraggio”10), Sign-city 153 pratica ogni possibile variante del rapporto edificio-insegna: assumendo la facciata come cartellone murale, amplificando a dismisura un elemento significativo o addirittura connotando i prospetti con scritte magniloquenti. Nella National Football Hall of Fame di New Brunswick ad esempio, così come nel progetto per l’United S tates Pavilion di Siviglia, i fronti principali sono nettamente scissi dai rispettivi involucri edilizi: il tabellone luminoso del museo trasmette ossessivamente immagini di avvenimenti sportivi legati al football, mentre la ciclopica bandiera a stelle e strisce identifica con immediatezza il padiglione yankee. Parimenti il dinosauro del Charlotte S cience Museum, collocato sul tetto in base al classico schema tipologico delle stazioni di servizio, diventa un’insegna alla scala territoriale, che orienta il flusso dei visitatori, e similmente, nel Basco Showroom di Bristol, l’iperdimensione del logo aziendale qualifica, con la propria monumentalità, un anonimo capannone industriale. Sulla scia di Venturi “molti altri architetti utilizzano la pubblicità dei cartelloni come tappezzeria di nuovo tipo per pareti. Charles Moore mette nella sua casa di New Haven un frammento di cartellone Volkswagen. Hug Hardy tappezza di cartelloni il New Lafayette Theatre di Harlem [...] Paul Rudolph si mette ad avvolgere le sue cucine di cartelloni della Gulf Oil e finisce con un loro collage su pareti, soffitti e pavimenti, finestre, frigoriferi e mobili, come una frammentazione cubista di una strip stradale”11. Al contempo Maurizio Sacripanti, nel progetto per il grattacielo Peugeot a Buenos Aires del 1961, esalta le potenzialità figurative della pubblicità, effigiando le lamelle frangisole con i marchi aziendali delle ditte 154 Colonia (Germania), centro direzionale Mediapark: prospettiva infografica (Jean Nouvel, 1992). A destra Budapest (Ungheria), West End City Center: prospetto di una torre pubblicitaria (Deborah Sassman, 1998). Pagina seguente Riccione (Rn), torre-faro: prospettiva (Italo Rota, 1998). Okawabata (Giappone), Egg of Winds (Toyo Ito, 1991). Sign-city 155 insediate; mentre nella stazione di servizio tipo della Esso, ideata da Vittorio De Feo nel 1970, è lo stesso marchio ovale a generare una struttura architettonica che, a sua volta, si traduce in un’esuberante insegna pubblicitaria. Premesse, queste, che nei decenni a venire trovano pieno compimento nella progressiva smaterializzazione della facciata12, protagonista ineludibile della commercial imagery13. Sempre più spesso, infatti, non solo i fronti ciechi o le impalcature dei cantieri sono utilizzati come supporto per l’esposizione di maxigrafiche commerciali, ma sono gli stessi edifici a essere programmati come bill-ding-board, cioè come ibridi tra l’edificio (“building”) e il cartellone pubblicitario (“billboard”). Vengono in mente esempi eccellenti: il Temporary Contemporary Museum di Frank Gehry a Los Angeles, il Centro d’arte e delle tecniche di comunicazione di Rem Koolhaas a Karlsruhe, il centro direzionale Mediapark di Jean Nouvel a Colonia, la Tipografia Veenman di Willem Jan Neutelings e Michiel Riedijk a Ede; fino alle torri pubblicitarie progettate da Italo Rota per la darsena di Riccione e da Deborah Saussman per il West End City Center di Budapest. Ma ancorpiù appare esemplare l’Egg of Winds di Toyo Ito per Okawabata: un edificio enigmatico, caratterizzato da una superficie metallica ovoidale che, di notte, si trasforma in un gigantesco schermo su cui scorrono ininterrottamente spot pubblicitari riprodotti da un sofisticato sistema di megaproiettori a cristalli liquidi. 156 Così, quasi materializzando le scenografie futuribili ideate da Syd Mead per Blade Runner, è la città nel suo insieme a proporsi come luogo dell’hyper-advertising14 in cui “le pareti diventano schermi pubblicitari”15 e “gli edifici [...] sottostanno al terrificante consumo cui tutti gli altri prodotti artistici e tecnici dei nostri giorni vanno soggetti”16. Peraltro, mentre nei prodromi moderni l’elemento pubblicitario è utilizzato come strumento progettuale (al di là, quindi, della funzione strettamente economica), la proliferazione iconica del paesaggio urbano d’inizio millennio17 maschera con la spettacolarizzazione una prospettiva inquietante, capace di mettere in discussione la stessa autonomia disciplinare18. Infatti, se la rinuncia dell’architettura agli strumenti comunicativi consolidati apre nuovi orizzonti creativi (Jean Nouvel sostiene che “il futuro dell’architettura non è architettonico”19) e se l’assimilazione delle tecniche macroinformative infrange gli angusti limiti spazio-temporali (“la pubblicità – rileva Alberto Abruzzese – è lo spazio in cui l’inatteso può essere visto”20), la subordinazione delle finalità canoniche dell’architettura all’efficacia persuasiva, obiettivo primario della promozione commerciale, rischia di confondere il mezzo con il fine; asservendo il progetto alla “logica fantasmagorico-ironica”21 del mercato globale e invertendo irreversibilmente, così come nel fenomeno dilagante del city-sponsor22, il tradizionale rapporto gerarchico architettura/pubblicità. Note Cfr. N. Marzot, Architettura, scrittura e forma urbana. Note per un rapporto appropriato, “Paesaggio Urbano”, 6, 1996, pp. 60-63. 2 V. Vercelloni, Comunicare con l’architettura, Milano 1993, p. 250. 3 “Dopo gli interventi urbanistici di Hausmann si erano create a Parigi numerose fratture nella continuità degli isolati urbani e di conseguenza era stata stipulata una convenzione, tuttora vigente con la società Dauphin OTA, che prevedeva interventi di abbellimento dei muri ciechi in cambio della possibilità di sfruttamento pubblicitario di una percentuale ridotta di tale superficie. Tali interventi sono quelli che hanno generato i grandi cartelli pubblicitari posti in aderenza ai fabbricati” (S. Puiatti, Dallo spontaneismo al piano per la pubblicità, “Modo”, 201, 2000, pp. 51-52). 4 Cfr. M.A. Postal, Le trasformazioni di Times Square, dalle origini agli anni novanta, “Casabella”, 673/674, 2000, pp. 18-23. 1 Irrilevante 5 Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966. 6 P. Loti, Elettri-Città. L’epoca d’oro delle insegne luminose a New York, “Casabella”, 673/674, 2000, p. 50. In proposito cfr. anche J. Ockman, N. Adams, La città delle insegne: Times Square, “Casabella”, 673/674, 2000, pp. 24-31. 7 Le potenzialità espressive delle insegne pubblicitarie luminose sono rimarcate da Erik Gunnar Asplund nel manifesto Acceptera, firmato nel 1931 insieme a Wolter Gahn, Sven Markelius, Gregor Paulsson, Eskil Sundahl e Uno Ahren. 8 Sull’evoluzione storica dei cartelloni pubblicitari americani e sul loro rapporto con il paesaggio urbano cfr. J. Fraser, The american billboards. 100 years, New York 1991. 9 Cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas. The forgotten symbolism of architectural form, Cambridge Mass. 1977. 10 P. Nicolin, Elementi di architettura, Milano 1999, p. 24. 11 C. Ray Smith, Post-modern e Supermanierismo, Roma-Bari 1982, pp. 195-196. 12 Cfr. M. Zardini, Pelle, muro, facciata, “Lotus International”, 82, 1994, pp. 39-51. 13 Cfr. J. Wines, De-architecture, New York 1987, p. 133. 14 C. Masi, Cattivo gusto. Entropie di fine millennio, Bertiolo 1998, p. 114. 15 M. Fuksas, Storie di vetro, “L’Espresso”, 34, 2001, p. 113. 16 G. Dorfles, Simbolo comunicazione consumo, Torino 1962, p. 210. Sugli esiti del visual design applicato all’architettura cfr. D. Baroni, Il manuale del design grafico, Milano 1999, pp. 305-309. 17 “Così come le immagini che ci circondano sono sempre più stridenti, disarmoniche, strillanti, poliformi e sfacciate, allo stesso modo le città diventano più complesse, più assordanti, dissonanti, inafferrabili e opprimenti: le città e le immagini stanno proprio bene assieme. Prendiamo in considerazione soltanto l’immensa quantità di immagini urbane rappresentata dai segnali stradali, le immense insegne al neon sui tetti, le pubblicità sui muri, le vetrine, le pareti video, le edicole, le macchinette automatiche, i messaggi trasportati dalle automobili, dai camion, dagli autobus; le scritte sui taxi o nella metropolitana; ogni sacchetto di plastica porta un’immagine stampata [...] La pubblicità si è ormai resa indispensabile; le immagini stanno diventando una droga, e le città non lo sono già?” (W. Wenders, L’atto di vedere, Milano 1994, p. 88). 18 Nota in proposito Lorenzo Dall’Olio che “in questa corsa alla comunicazione a ogni costo paradossalmente nessuno si accorgerà che il vero messaggio trasmesso dall’architettura sarà l’urlo cristallizzato dell’attimo preciso della sua scomparsa” (L. Dall’Olio, Arte e architettura. Nuove corrispondenze, Torino 1997, p. 87). 19 C.L. Morgan, Jean Nouvel. Elementi di architettura, Milano 1998, p. 228. 20 A. Abruzzese, Toscani. Un neomoderno nel post-industriale, in P. Landi (a cura di), Oliviero Toscani al muro. L’arte visiva nella comunicazione pubblicitaria di United Colors of Benetton, Milano 1999, p. 10. Sign-city J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, Milano 1988, p. 10. “L’ultima frontiera della competizione commerciale tra le grandi società americane? La sponsorizzazione urbana. Per attirare e fidelizzare i consumatori, il Gotha dell’industria d’oltre oceano sta facendo a gara per legare il proprio marchio alle principali città statunitensi, a partire dalla popolosa e ricchissima California. Così San Diego è divenuta la città della società di telecomunicazioni Verizon, mentre Oakland gravita nell’universo della Coca-Cola e Huntington Beach è ‘gemellata’ con la Chevrolet. Ma il fenomeno si sta allargando: e se Honolulu fa pubblicità alla Bmw e alla Prudential, Miami-Dade County sta negoziando con vari sponsor per ribattezzare l’aeroporto, la prigione, le spiagge e gli edifici pubblici. Boston poi pianifica di vendere i diritti dei nomi delle stazioni della metropolitana. Malgrado sia stata vivacemente criticata, del resto, la sponsorizzazione delle città porta vantaggi sia alle imprese, che ottengono uno spazio pubblicitario privilegiato e separato da quello della cartellonistica stradale, sia alle municipalità, che possono contare su entrate non indifferenti” (P. Pontoniere, Una città chiamata Chevrolet. I marchi delle aziende Usa sbarcano su edifici pubblici, aeroporti e metrò, “Panorama”, 31, 2001, p. 108). 21 22 157 Ricostruzione del ponte sul Reno di Giulio Cesare (Andrea Palladio, 1570). Pagina seguente I possedimenti di Roma al tempo di Giulio Cesare. I genieri di Cesare impegnati nella costruzione del ponte sul Reno (Ludovico Pogliaghi, 1901). La stabilità dell’effimero Il ponte sul Reno di Giulio Cesare Premessa “Vanta Plutarco quel ponte sul Reno come un prodigio, ma è un’opera che nulla ha di straordinario, e che ogni armata moderna avrebbe potuto fare colla stessa facilità”1: è con questa polemica notazione che Napoleone I Bonaparte esordisce nello studio del celebre ponte sul Reno descritto da Giulio Cesare nel De bello gallico2. Ma il giudizio va preso con le dovute riserve, perché probabilmente, ritenendosi un excellent constructeur3 e preferendo confrontare se stesso con la storia piuttosto che con la contemporaneità, il condottiero corso approfitta dell’occasione per rimarcare la propria competenza anche in materia di ingegneria militare. Nondimeno, pur non risparmiando critiche pungenti alle scelte tecniche di Cesare, neppure Napoleone riesce a mascherare la propria ammirazione per un’organizzazione militare che, in soli dieci giorni, riuscì a superare, con una straordinaria “opera d’arte”, una luce di circa 300 metri. Non a caso le legioni che Cesare aveva condotto in Gallia, oltre che da un vero e proprio esercito professionale, erano costituite da efficientissimi reparti di genieri, che non si limitavano alla manutenzione dell’artiglieria leggera (carrobaliste, catapulte ecc.), ma tracciavano strade, organizzavano accampamenti e, per l’appunto, progettavano fortificazioni, opere di assedio, ponti, acquedotti ecc. E con ogni probabilità, nonostante lo svantaggioso rapporto meramente numerico, fu proprio la grande perizia di queste forze ausiliarie a segnare un decisivo scarto qualitativo rispetto alle disorganizzate armate galliche. Inquadramento stori co Agli inizi del 55 a.C., quindi in seguito alle prime campagne condotte con successo contro Elvezi, Nervi e Atuatici, si profilò l’ennesima minaccia: cacciate dagli Svevi, due tribù germaniche avevano attraversato il fiume Reno e, disattendendo 160 Irrilevante l’ordine degli ambasciatori di Cesare di riguadagnare le posizioni originarie, avevano invaso il territorio dei Belgi. Così Cesare, preoccupato di salvaguardare i precari equilibri territoriali raggiunti, decise di intervenire militarmente e, senza prestare attenzione alle aspre critiche del Senato romano (celebri quelle di Catone), ordinò ai suoi genieri la costruzione di un ponte sul Reno, preferendo tale soluzione a quella evidentemente meno difficoltosa, ma certo più rischiosa, del passaggio su imbarcazioni. Grazie a questa impresa, prima ancora che gli avversari potessero in qualche modo organizzarsi per fronteggiare l’avanzata, le legioni romane penetrarono in Germania dove, devastata la regione dei Sigambri, raggiunsero il territorio degli Ubii, popolazione alleata. Quindi, appreso che gli Svevi stavano raccogliendo le forze per uno scontro in campo aperto e ritenendo di avere già conseguito gli obiettivi essenzialmente dimostrativi della spedizione, Cesare, dopo diciotto giorni, fece immediato ritorno in Gallia; non senza avere prima distrutto il ponte alle proprie spalle. Descri zi one tecni ca Dalla minuziosa descrizione di Cesare4 oltre che dalle puntuali ricostruzioni effettuate sia dai trattatisti (Alberti, fra Giocondo, Palladio, Rusconi, Aleotti, Scamozzi) sia dagli studiosi delle epoche successive (Leoni, Rondelet, Schieble, Planat, Warth, Gianturco, Conolly), è possibile dedurre con buona approssimazione le caratteristiche costruttive del ponte sul Reno5. Da un punto di vista strutturale, il ponte era realizzato con una serie di cavalletti in legno, connessi longitudinalmente dall’impalcato vero e proprio, costituito a sua volta da travi principali, debitamente distanziate, di supporto a una fitta serie di traversine ricoperte da un graticcio resistente all’usura diretta degli uomini e dei mezzi transitanti. In particolare, ciascun cavalletto comprendeva due montanti, infissi nell’alveo del fiume (non già in posizione verticale, ma obliqui, con inclinazione verso l’interno), e un traverso superiore; componenti che erano quindi collegate reciprocamente mediante una serie di cerniere. Più nel dettaglio è da notare che: - ogni montante era formato da una coppia di travi, ciascuna a sezione quadrata di un piede e mezzo di lato (circa 45 cm), acu- minata inferiormente e munita, superiormente, di due incavi, distanziati tra loro di due piedi (circa 60 cm), di cui quello più basso, esterno, per la sede della caviglia di appoggio del traverso e quello più alto, interno, per l’alloggiamento della caviglia di bloccaggio del traverso stesso. Inoltre le travi della coppia, poste a un interasse longitudinale di due piedi (circa 60 cm), erano rese solidali lungo il tronco da distanziatori, interni ed esterni, applicati sia in senso orizzontale sia in senso obliquo; - il traverso, che determinava la larghezza del ponte, pari a 40 piedi (circa 12 m), era costituito da una trave lignea a sezione quadrata di due piedi (circa 60 cm); - ogni cerniera tra montante e traverso veniva realizzata con la posa in opera, mediante legatura, di un primo travetto orizzontale, opportunamente sagomato, congiungente gli incavi inferiori della coppia di travi e costituente il montante per l’appoggio del traverso, nonché di un secondo travetto, con le medesime caratteristiche del primo, inserito negli incavi supe- La stabilità dell’effimero 161 riori della stessa coppia, al fine di bloccare la posizione del traverso rispetto al montante. Come Cesare non manca di rilevare6, lo schema costruttivo adottato era tale che l’azione dell’acqua, piuttosto che indebolire la struttura, finiva con il fissare sempre più saldamente le coppie dei montanti resistenti e, con essi, tutto l’insieme. Inoltre, considerato che i cavalletti venivano a costituire una serie di strutture labili, i genieri di Cesare, per impedire che il ponte fosse travolto dalla corrente, rafforzarono i montanti a valle con altrettanti pali inclinati, sempre infissi nell’alveo del fiume e congiunti superiormente al ponte mediante la cerniera di collegamento tra montante e traverso; l’opera era quindi completata, a monte, da una serie di pali verticali, disposti a corona e interconnessi, per la difesa dai tronchi vaganti e da qualsiasi altro materiale gettato nel fiume dai Germani nel tentativo di ritardare l’esecuzione del ponte danneggiandone le strutture. Dall’alto Ricostruzione del ponte sul Reno di Giulio Cesare (Vincenzo Scamozzi, 1599). Ricostruzione del ponte sul Reno di Giulio Cesare (Paul Amédée Planat, 1890). Pagina precedente Ricostruzione del ponte sul Reno di Giulio Cesare (Leon Battista Alberti, 1550). Concl usi oni L’esposizione di Cesare, pur dettagliata e condotta con straordinaria cognizione di causa, tradisce evidenti lacune, non risultando della stessa, ad esempio, l’interasse dei cavalletti. Da qui il pretesto per alcune considerazioni sulle scelte strutturali oltre che sul sistema di prefabbricazione a piè d’opera utilizzato; laddove lo schema statico applicabile a ogni singolo cavalletto è, di fatto, quello di un telaio composto da quattro aste tra loro incernierate. Gli stessi vincoli esterni, fra terreno e pali fissi nell’alveo del fiume (costituito, con buona approssimazione, da depositi alluvionali più o meno recenti), sono a loro volta assimilabili ad altrettante cerniere. Ne consegue uno schema strutturale di tipo isostatico, in quanto, a fronte di 12 gradi di libertà presenti nel sistema (3 x 4 = 12), sussistono 12 vincoli di cui sei interni (4 + 2 = 6) e sei esterni (2 x 3 = 6). Contrariamente alle perplessità sollevate da Napoleone, già questa prima considerazione consente di affermare ragionevolmente che Cesare, riferendosi a uno schema statico privo di vincoli sovrabbondanti e nonostante la smisurata disponibilità lignea garantita dalle foreste circostanti, non utilizzò materiale in eccesso. Infatti, una seppure sommaria analisi, deducibile dal dimensionamento descritto per i traversi, 162 Irrilevante Ricostruzione del sistema costruttivo dei cavalletti e schema statico del ponte sul Reno di Giulio Cesare (Mario Belardi, Paolo Belardi, 1987). consente di determinare, con sufficiente grado di approssimazione, l’interasse adottato nella posa in opera dei telai; precisando che la ricostruzione si basa sull’adozione (ritenuta verosimile per un ponte del tipo leggero) dei seguenti parametri: - 250 kg/mq per il carico permanente; - 350 kg/mq per il sovraccarico; - 180 kg/cmq (pari a 1.800.000 kg/mq) per il carico di sicurezza del legname, valore ammissibile per brevi periodi e quindi per strutture provvisorie. Facendo riferimento al traverso, con sezione quadrata di lato pari a 0,60 metri e schematizzato come trave appoggiata su una luce di 12 metri con carico uniformemente distribuito pari a [(350+250)kg/mq x i], dove “i” è l’interasse incognito espresso in metri, e utilizzando le opportune formule della scienza delle costruzioni che legano carichi, sollecitazioni, caratteristiche dimensionali e tensioni (ipotizzando la tensione massima agente nel legno pari al carico di sicurezza assunto), si ottiene: M (momento flettente massimo) = [(1/8) x (600 x i) x 122] = (10.800 x i) kgm. Quindi: W (modulo di resistenza) = (0,603/6) = 0,036 m3. Sviluppando: s = 1.800.000 kg/mq = M/W = [(10.800 x i)/0,036]. Per cui: i = [(1.800.000 x 0,036)/10.800] = 6,00 m. Questo interasse, anche se necessariamente approssimato (vista l’arbitrarietà dei carichi assunti), consente in ogni caso di La stabilità dell’effimero quantificare il grande sforzo prodotto dai genieri di Cesare che, in breve tempo e per una lunghezza d’impalcato pari ad almeno 300 metri (ampiezza presumibile del fiume Reno, all’epoca, nei pressi di Colonia, località prescelta per l’attraversamento), assemblarono cinquanta cavalletti, infiggendo quindi in sei giorni, con l’ausilio di zattere oltre che di speciali battipali, circa duecentocinquanta travi. L’impresa rappresenta quindi di per sé uno straordinario esempio di efficienza tecnica, denunciando un invidiabile mestiere non solo nella riduzione dell’intero processo costruttivo alla produzione di soli quattro elementi standardizzati, peraltro modulari e sagomati fuori opera (montante, traverso, caviglia e palo contrafforte), ma anche e soprattutto nella capacità non comune di infiggere pali in direzione obliqua anziché verticale: al punto che lo stesso Paul Amédée Planat, quindi un autorevole rappresentante della cultura politecnica del XIX secolo, conclude la propria dissertazione sul ponte di Cesare sottolineando, non senza un’evidente ammirazione, che una tale operazione “même aujourd’hui ne se ferait pas sans quelque difficulté”7. Note G. Bortolotti (a cura di), Narrazione delle guerre di Cesare. Opera di Napoleone, Bologna 1838, pp. 42-43. 2 G. Cesare, De bello gallico, ed. S. Giametta, Milano 1983, pp. 200-205. 3 P.A. Planat, voce pont, in Encyclopedie de l’Architecture et de la Construction, Paris 1890. 4 G. Cesare, op. cit., p. 200. 5 Cfr. in proposito R. Pefano, Per una storia dei ponti, “Hinterland”, 33/34, 1985, p. 12; G. Coppola, Ponti medievali in legno, Roma-Bari 1996, pp. 4145. 6 G. Cesare, op. cit., p. 200. 7 P.A. Planat, voce pont, op. cit. 1 163 Irrilevato Perugia, duomo di San Lorenzo, portale su piazza IV Novembre (Galeazzo Alessi, 1567): rilievo, prospetto. L’ambiguità come maniera Architetture perugine di Galeazzo Alessi In un saggio critico del 1956 sulla chiesa di Santa Maria Assunta in Carignano, opera genovese di Galeazzo Alessi, Giusta Nicco Fasola parla di “un approccio provinciale al classicismo, con riguardosa carnalità che volge al malinconico”1; una sentenza sommaria, che tuttavia, accomunando implicitamente nella critica l’Alessi e quanti altri (Giulio Romano, Pellegrino Tibaldi ecc.) operarono intorno alla metà del Cinquecento un profondo rinnovamento del linguaggio architettonico ereditato dal classicismo, è ragionevolmente imputabile allo scarto, evidentemente incolmabile, fra la logica indifferenziata del suo critico e la dirompente disomogeneità della produzione alessiana, certo di difficile catalogazione. Né d’altra parte la Nicco Fasola sembra riconoscere il senso più profondo dell’ardita operazione condotta dall’Alessi: una personalissima manipolazione delle regole consolidate che, denunciando l’impossibilità e forse l’inattualità di una scelta univoca, si propone come “il più polemico dei bricolages”2, laddove le eccezioni e le anomalie prevalgono sull’ordine assoluto fino a smarrire “il metro delle proporzioni”3. Tutta l’attività alessiana, infatti, è contrassegnata da un equilibrio precario fra un Alessi che compone le piante degli edifici con razionalità e funzionalità vagamente sangallesca e un altro Alessi che, all’opposto, ostenta la massima disinvoltura nell’organizzazione delle facciate, adattandosi al gusto locale e al desiderio dei committenti4: una sorta di “schizofrenia architettonica”5 che, senza misconoscere i fondamentali legami culturali instaurati a Perugia (dove l’Alessi nasce nel 1512) con Giovan Battista Caporali e Giulio Danti6, affonda evidentemente le proprie radici nella formazione romana, quando, a partire dal 15367, l’Alessi assimila le idee di due tendenze divergenti: quella storicistica, riferibile alla scuola del Bramante oltre che dei Sangallo, e quella michelangiolesca che, sempre più apertamente, enuncia la rottura con la tradizione. Peraltro testi- monianze certe riguardo una qualche attività professionale dell’Alessi nella città natale sono ravvisabili solo intorno al 1542 (quindi in età relativamente avanzata), in occasione dei lavori di edificazione della rocca Paolina; laddove risulta comunque problematico stabilire il ruolo svolto dall’Alessi e, quindi, chiarire i rapporti intercorsi con Antonio da Sangallo il Giovane, sovrintendente incaricato dei lavori di costruzione della fortezza pontificia, soprattutto a causa delle demolizioni effettuate durante i moti risorgimentali. Anche se, interpretando il senso del termine riedificazione, usato dal Vasari8 e confermato dal Crispolti9, il coinvolgimento dell’Alessi10 è riconoscibile “nell’adattamento delle sale del palazzo di Gentile Baglioni, inglobato entro il perimetro della fortezza, ma non distrutto, nel completamento degli appartamenti del castellano e – soprattutto – nella costruzione di una loggia”11 che in effetti, dando credito a un rilievo ottocentesco, sembra andare oltre il precedente sangallesco della loggia ai Prati in Castel Sant’Angelo, presentando alcune anticipazioni della maniera alessiana, quali ad esempio la conformazione arcuata e il carattere rustico del basamento, veri e propri prodromi dell’analogo basamento di villa Cambiaso a Genova. In ogni caso, al di là delle variegate ipotesi avanzate in proposito, l’esperienza maturata nel cantiere paolino costituisce una tappa decisiva nell’evoluzione professionale dell’Alessi, non solo perché obbliga l’affinamento di quelle capacità organizzative nella gestione cantieristica che contraddistinguono tutte le realizzazioni alessiane a venire, ma anche perché, in seguito alla morte del Sangallo (1546), l’Alessi assurge ad architetto di fiducia del nuovo legato pontificio: quel cardinale Tiberio Crispo che, reduce da importanti incarichi direzionali nei lavori romani di Castel Sant’Angelo, è promotore di un’intensa attività edilizia nel cuore stesso dell’antica Peroscia12. Scrive in proposito Adamo Rossi: “durante la legislazione del Cardinale Tiberio Crispo si 168 aprì la via che dal corso mette al Sopramuro e le si fabbricò accanto la Chiesa della Madonna del Popolo, si fece la Piazza della Paglia, la strada che di lì mena alle Prome, e da capo sullo scoperto donde si prospetta la Svizzera perugina, un portico [...] dopo cangiato in tempietto; si accorciò ad uso di residenza governativa e si coronò di loggia il palazzo attiguo a quello del Popolo; si spianò il Campo di Battaglia; si costruì il ponte sul Chiagio nel luogo detto della Bastiola. È tradizione che il Cardinale si giovò dell’Alessi per queste cose raccomandato dal predecessore e dalle sue stesse opere”13. Nondimeno lo scarso interesse riservato alla produzione umbra dell’Alessi fa sì che su questo periodo gravi tuttora il sospetto di attribuzioni infondate. È questa una forte limitazione, riconducibile da un lato a una diffusa tradizione encomiastica locale, che ha teso ad assegnare all’Alessi qualsiasi opera edilizia di rilievo dell’epoca, dall’altro alla carenza documentaria e, comunque, alla frequente incompiutezza o manomissione delle opere stesse. Tuttavia una sicura testimonianza Irrilevato dell’attività alessiana a Perugia è riscontrabile negli edifici sacri di Santa Maria del Popolo e di Sant’Angelo della Pace; edifici che, seppure di ridotto programma, già contengono in embrione molti temi cruciali della poetica alessiana. La chiesa di Santa Maria del Popolo viene edificata nel 1547, secondo la testimonianza di Pompeo Pellini, “con grande e perpetuo ornamento della città, opera e disegno di Galeazzo Alessi Perugino, che molto in cose simili d’architettura valeva”14. L’edificio, attualmente adibito a sede della borsa merci del capoluogo umbro, appare relativamente integro, se si eccettua la manomissione del fornice d’ingresso, ed è impostato secondo i dettami di uno schema urbanistico che, riaffermando la continuità delle quinte stradali, risulta ancora distante dalle straordinarie novità introdotte successivamente a Genova; eppure, nonostante la chiara matrice tosco-romana (il modello è probabilmente riconoscibile nella cappella Paolina in Vaticano, tarda opera del Sangallo), alcune soluzioni interne, soprattutto nella volta di copertura, tradiscono i primi sintomi di una qualche 169 L’ambiguità come maniera Dall’alto Perugia, oratorio di Sant’Angelo della Pace (Galeazzo Alessi, 1545-48): rilievo, prospetto su piazza Rossi Scotti. Perugia, oratorio di Sant’Angelo della Pace (Galeazzo Alessi, 1545-48): rilievo, prospetto su via delle Prome. A sinistra dall’alto Perugia, chiesa di Santa Maria del Popolo (Galeazzo Alessi, 1547): rilievo, pianta. Perugia, chiesa di Santa Maria del Popolo (Galeazzo Alessi, 1547): rilievo, prospetto su via Mazzini. Pagina precedente Perugia, rocca Paolina, loggia interna (Galeazzo Alessi, 1542-44): rilievo ottocentesco (Archivio Soprintendenza per i BAAAS dell’Umbria). 170 Irrilevato Perugia, villa del Leone, portale (Galeazzo Alessi, 1568): rilievo, prospetto su via Dal Pozzo. A sinistra dall’alto Perugia, oratorio di Sant’Angelo della Pace (Galeazzo Alessi, 1545-48): particolare. Perugia, duomo di San Lorenzo, portale su piazza IV Novembre (Galeazzo Alessi, 1567): particolare. Pagina seguente Colle Umberto (Pg), villa del Colle del Cardinale (Galeazzo Alessi, 1571-75): viale d’ingresso (Archivio Soprintendenza per i BAAAS dell’Umbria). Perugia, convento di San Pietro, chiostro delle Stelle: particolare (Galeazzo Alessi, 1571). L’ambiguità come maniera 171 l’asciutto strutturalismo del Sangallo, inducendo nell’osservatore un’incertezza fra calcolo e percezione, fra illusione e realtà. Peraltro con il convento di Santa Giuliana si conclude il primo periodo perugino dell’Alessi, che tuttavia, seppure impegnato già nel 1548 a Genova nei lavori di villa Cambiaso15, non perde i contatti con la città natale. Al punto che appare credibile una paternità alessiana, quantomeno in forma di consulenza, di opere perugine minori, come ad esempio la sistemazione interna di una casa in via dei Cartolari (immobile acquistato dai familiari intorno al 155616). D’altra parte l’Alessi, in più di una occasione, si propone come uno straordinario “maestro di remote control”17 in quanto, pur fisicamente assente dai cantieri, fornisce dettagliati ragguagli e istruzioni attraverso una continua corrispondenza epistolare con i collaboratori stanziali. Gli anni trascorsi lontano da Perugia risultano decisivi per la definitiva maturazione della insofferenza delle regole canoniche. In particolare, infatti, la convergenza delle quattro lunette accentua un senso di centralità che non trova alcun riscontro planimetrico, determinando un invaso spaziale in cui, alla perentorietà dell’impianto, si contrappone l’equivocità del rapporto pianta-copertura. È questa una chiave di lettura ragionevolmente riferibile anche all’oratorio di Sant’Angelo della Pace (in origine una loggia aperta) dove, pur confermando lo schema tipicamente sangallesco dell’apertura centrale tripartita, serrata lateralmente dall’iterazione dei due pilastri ravvicinati, l’Alessi introduce una personalissima nota cromatica, in virtù della combinazione mattone/travertino: un virtuosismo materico che, palesando un’innata propensione all’ornamento, anticipa compositivamente la facciata del convento di Santa Giuliana (ora di Santa Caterina). Anche in questo caso, infatti, l’architettura è segnata dal confronto dialettico fra l’essenzialità dell’impianto (a pianta quadrangolare) e l’inquietante complessità di alcune volte interne che, così come nel precedente della chiesa di Santa Maria del Popolo, non sono a crociera, ma a padiglione con intersezione di vele cilindriche: elementi architettonici contrassegnati da una costruzione geometrica complessa e, quindi, di difficile esecuzione, ma di grande suggestione, comunque esito di una consapevole intenzionalità scenografica che, di per sé, supera 172 poetica alessiana: grazie ai programmi di grandiosa rappresentatività della committenza genovese prima e milanese poi, infatti, l’Alessi mette a punto una sintassi architettonica complessa e articolata, sviluppando una personalissima ricerca stilistica solo timidamente accennata negli esordi in patria; laddove muove da una serrata scomposizione del linguaggio espressivo, ignorando completamente la concezione unitaria classicista nel tentativo di ridurre i singoli elementi a parti distinte, quasi giustapposte occasionalmente: una tendenza sperimentale che conduce l’Alessi a produrre architetture che rasentano spesso il kitsch, ai limiti del controverso rapporto norma/deroga (esemplare, in proposito, la Strada Nuova di Genova, dove l’Alessi, imponendo un modello urbanistico inedito, assolutamente estraneo al tessuto preesistente, “non punta alla globalità dell’effetto, privilegia la frammentazione tangenziale al centro antico, non ne altera l’organismo; con una non-strada forma un quartiere organico”18). Pertanto, quando nel 156719 l’Alessi fa ritorno a Perugia, è ormai un professionista affermato il cui nome compare, insieme a quelli del Palladio e del Rusconi, nell’elenco degli esperti consultati nel 1562 dai Deputati bresciani per la sistemazione del palazzo civico. E, proprio al volgere del 1567, risale il portale meridionale del duomo di Perugia: un’opera solo apparentemente mutuata dalle ridondanze decorative del palazzo Marino di Milano. Infatti, se nel precedente milanese l’abuso delle grottesche tradisce una propensione neoraffaellesca20 per la sperimentazione delle potenzialità insite nell’antinomia forma/struttura, il portale perugino, applicato in guisa di ready-made scenografico alla facciata preesistente, suggella l’anticlassicismo della ricerca alessiana. È innegabile, infatti, l’assenza, nelle numerose, quanto controverse, opere successive21, di qualsiasi compiacimento decorativo: le ultime architetture alessiane, soprattutto se comparate con la produzione genovese e milanese, denunciano un progressivo riflusso verso forme semplificate, vagamente neo-sangallesche. Probabilmente l’Alessi, sempre più tentato dalle lusinghe della carriera politica22, rinuncia alla dirompenza sperimentale ostentata a Genova e a Milano, forse anche per garantirsi il consenso di un ambiente culturale in sensibile ritardo rispetto al dibattito artistico d’avanguardia. Ma solo apparentemente. Irrilevato Infatti, pur abbandonando l’elemento strettamente ornamentale (che d’altra parte riveste un ruolo parziale nella poetica alessiana), l’Alessi non rinuncia all’ambiguità. Già nel primo modello per la basilica di Santa Maria degli Angeli, ma ancorpiù nella riorganizzazione della cattedrale di San Rufino di Assisi, l’Alessi manipola sapientemente le tipologie tradizionali, creando uno spazio ibrido senza precedenti in cui coesistono, nella più completa promiscuità linguistica, la pianta centrale e la pianta longitudinale. Così come, nel chiostro delle Stelle, realizzato intorno al 1571 nel convento di San Pietro di Perugia, l’Alessi non manca di rimarcare lo scarto dalla tradizione classicista, ideando un portico che trova, proprio nella pluralità dei riferimenti oltre che nella contaminazione dei modelli, valenze espressive autonome. L’uso delle colonne, infatti, sostituite negli angoli dai pilastri, tende a conferire al cortile un sapore vagamente tardo-rinascimentale, quasi quattrocentesco; ma questa sensazione è contraddetta sia dal ritmo insolitamente serrato delle colonne sia dall’uso dell’arco rialzato, che tradiscono la reale datazione. Perché l’Alessi, anche nelle opere apparentemente meno spregiudicate, come quelle perugine (dove rinuncia alle invettive antiaccademiche, ma non all’ironia), rigetta comunque il carattere sovrastorico dei modelli consolidati, rivendicando la necessità dell’incertezza e della contraddittorietà. Tanto da produrre architetture fortemente disomogenee. A ben guardare, infatti, tra la rigida compostezza della chiesa di Santa Maria del Popolo, l’esasperato decorativismo del portale meridionale del duomo e le sorprendenti licenze del chiostro delle Stelle, le differenze appaiono profonde e lo scarto difficilmente colmabile. Se proprio si vuole individuare un qualche senso comune, occorre riconoscere quel piacere dell’ambiguità che, da più punti di vista, apparenta la poetica alessiana a quella di altri manieristi illustri, come ad esempio Jacopo Sansovino o Bartolomeo Ammannati. Ma la strada seguita dall’Alessi, forse anche “per quel suo procedere inquieto da un centro all’altro, al servizio di tanti committenti” 23, è del tutto autonoma e singolare. I disegni di rilievo sono stati eseguiti nell’ambito del corso di “Disegno edile”, tenuto nell’anno accademico 1995-1996 da Adriana Soletti con l’assistenza di Paolo Belardi nella facoltà di Ingegneria dell’Università degli 173 L’ambiguità come maniera Studi di Perugia, dagli studenti Marco Armeni, Monia Benincasa, Katiuscia Cincinelli, Luca Nani, Stefano Simbola, Leonardo Valecchi oltre che nell’ambito del corso di “Disegno”, tenuto nell’anno accademico 1997-1998 da Paolo Belardi nella facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Perugia, dagli studenti Federico Martini, Stefano Pagani, Hoang The Nan. Note G. Nicco Fasola, Santa Maria Assunta in Carignano a Genova di Galeazzo Alessi, “L’Architettura, cronache e storia”, 6, 1956, p. 866. 2 M. Tafuri, L’architettura dell’Umanesimo, Bari 1969, p. 161. 3 A. Venturi, Storia dell’arte italiana, XI, parte III, Milano 1940, p. 606. 4 Nota in proposito Wolfgang Lotz che Alessi “conferisce all’esterno dei suoi edifici perugini un’impronta strettamente sangallesca, a Genova una ricchezza ed un fasto raffaellesco, a Milano un’esuberante decorazione di gusto lombardo” (W. Lotz, Introduzione ai lavori del Convegno, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, Genova 1974, p. 12). 5 H. Burns, Le idee di Galeazzo Alessi sull’architettura e sugli ordini, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, cit., p. 149. 6 Corrado Maltese sostiene che la cultura figurativa dell’Alessi è costantemente accompagnata da una profonda conoscenza filosofica, matematica e astronomica, tale da privilegiare nell’artista il culto dell’armonia musicale dei numeri, secondo gli insegnamenti ricevuti da Giovan Battista Caporali e da Giulio Danti (C. Maltese, Ipotesi di conclusione, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, cit., p. 685). 7 Cfr. A. Rossi, Di Galeazzo Alessi, architetto perugino. Memorie attinte dai patrii scrittori e archivi, “Giornale di erudizione artistica”, I, 1873, p. 7. 8 Cfr. Vita di Galeazzo Alessi architetto perugino per Giorgio Vasari con note, Perugia 1873, p. 7. 9 “Ma le stanze del Castellano farono [sic!] riedificate già da Galeazzo Alessi Perugino Architetto famoso, per ordine del Card.le di Rimini” (C. Crispolti, Perusia Augusta, sec. XVI, BAP, ms. C45, cc. 13v-14r). 10 M. Labò, Galeazzo Alessi, in Dizionario Biografico degli Italiani, II, Roma 1960, p. 238. 11 G. Guerrini, La Rocca Paolina: cittadella come microcosmo guerresco e sede di istituzioni nel secolo della sua costruzione, in La Rocca Paolina di Perugia. Studi e ricerche, Perugia 1992, p. 110. 12 Cfr. R. Chiacchella, Fonti per uno studio dei rapporti tra i Farnese e Perugia, in La Rocca Paolina di Perugia. Studi e ricerche, cit., p. 104; A. Grohmann, Perugia, Roma-Bari 1981, pp. 105-107; G. Algeri, Alessi in Umbria, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, cit., pp. 193-201. 13 A. Rossi, op. cit., p. 7. 14 P. Pellini, Della historia di Perugia, Venezia 1664, rist. anast., VI, parte III, Perugia 1970, p. 745. 15 F. Alizieri, Guida illustrativa per la città di Genova, Genova 1875, p. 589. 1 A. Rossi, op. cit., p. 16. W. Lotz, op. cit., p. 10. Cfr. in proposito anche P. Belardi, Disegno architettonico e remote control nei carteggi di Raffaello, Antonio da Sangallo il Giovane e Galeazzo Alessi, in M. Docci (a cura di), Il disegno di progetto dalle origini al XVIII secolo, Roma 1997, pp. 47-50. 18 B. Zevi, Controstoria dell’architettura in Italia. Rinascimento-Manierismo, Roma 1995, p. 90. 19 Nell’estate del 1567 l’Alessi si trova già nella città natale, dove il 12 luglio, modificando quello messo a punto a Genova nel novembre del 1565, redige un nuovo testamento da cui risulta evidente “l’intenzione di risiedere e morire a Perugia” (R. Lòpez Torrijos, Un testamento dimenticato di Galeazzo Alessi, “Architettura. Storia e documenti”, 1, 1985, p. 97). 20 “L’esperienza dell’Alessi e del Tibaldi, con le relative connessioni rispetto alla scuola raffaellesca in materia di trattamento delle facciate, è intimamente legata a questa passione, che estende l’esoterismo del Cellini alla concreta fenomenologia urbana” (S. Ray, Raffaello architetto, Roma-Bari 1974, p. 43). 21 Nonostante la cronica carenza di prove documentarie, agli ultimi anni trascorsi dall’Alessi a Perugia sono attribuite molte opere, quali ad esempio i palazzi per i Della Corgna (a Castiglione del Lago e a Città della Pieve), l’ampliamento del castello di Pieve del Vescovo a Corciano (cfr. L. Galli, Una pieve tra i monti. Itinerario storico artistico del Castello di Pieve del Vescovo, Perugia 2001, pp. 45-69) e la villa del Colle del Cardinale a Colle Umberto. Nota Francesca Abbozzo che “a partire dal 1563, l’Alessi inizia la progettazione delle grandi fabbriche dei Della Corgna, urbane e suburbane, nonché il restauro e l’abbellimento di residenze e fortilizi preesistenti [...] Per esempio anche il Castello di Pieve del Vescovo, vicino a Corciano, fu fatto restaurare da Fulvio tra il 1571 e il 1580, quasi contemporaneamente alla Villa del Colle, edificata intorno al 1575, come residenza estiva di grande magnificenza e rispondente al concetto, ancora rinascimentale, di luogo di delizie. Il ‘sito ideale’, prescelto, ben corrisponde ai requisiti che l’Alessi analizza nel suo ‘Libro dei Misteri’, secondo considerazioni estetiche, igieniche, climatiche, politiche, ed in rapporto a comunicazioni e ad ogni altro elemento ambientale” (F. Abbozzo, La Villa del Colle del Cardinale. “Un luogo di delizie”, Perugia s.d. [pieghevole]). Cfr. in proposito G. Alessi, Il libro dei Misteri, ed. M. Brizio, S. Stefani Perrone, Bologna 1974. 22 Nel 1570 l’Alessi assolve l’incarico di Magistratus Stratarum cui seguono l’elezione nel Collegio della Mercanzia, quella fra gli Electores Rote e, infine, il Priorato. A questi anni “appartiene ragionevolmente anche la loggia che si apre sul lato posteriore del palazzo, in cui viene ripreso il motivo delle arcate a serliana” (G. Algeri, op. cit., p. 199). 23 P. Carpeggiani, Prefazione, in A. Coppa, Galeazzo Alessi. Trattato di fortificazione, Milano 1999, p. IX. 16 17 Anomalie geometriche Il quartiere Lemitone di Aversa Nell’intricata morfologia urbana di Aversa, dove i margini tra il rigore geometrico della città murata e la caotica disorganicità della città contemporanea appaiono labili, il comparto urbano del Lemitone1 (la cui radice etimologica2 tradisce inequivocabilmente la marginalità geografica rispetto al nucleo medievale), rappresenta un campione esemplare di fondazione3 la cui unitarietà, compositiva e volumetrica, sancisce una vera e propria soglia cronologica, “l’ultimo esempio – locale – di crescita pianificata”4. Dettato dall’ingente incremento abitativo conseguente all’investitura di Aversa del titolo di città demaniale5, anticipato nel 1516 dall’erezione della chiesa di Santa Maria del Casale (ora Santa Maria di Costantinopoli) e concepito come addizione extra-moenia, il Lemitone trova le proprie origini in età barocca allorché, nel 1640, papa Urbano VIII autorizza l’A.G.P. 6 a lottizzare, mediante l’attivazione di concessioni enfiteutiche, la “Starza dell’Arco”7: un’area agricola residuale che tradisce un’evidente vocazione edificatoria, presentandosi come uno spazio libero di circa venti ettari, ritagliato in forma quadrangolare da altrettante arterie viarie perimetrali (tra cui via della Fiera, ora via Roma, caratterizzata all’epoca da una teoria di “poteghelle”) e secato diagonalmente dal “Lembitone” (ora via Orabona) il cui tracciato deriva dall’ampliamento durazzesco delle mura urbiche quale collegamento tra la Porta Nova a nord-est e la sede della Real Casa Santa dell’Annunziata a sud-ovest. E l’opera di urbanizzazione, al di là delle variegate ipotesi avanzate sulla paternità del caratteristico disegno ippodameo8 (che contamina lo schema a scacchiera, peculiare della cultura insediativa spagnola, con quello radiocentrico, ereditato dall’impianto normanno), non nega l’assetto preesistente, plasmando uno straordinario unicum urbatettonico capace d’inglobare il borgo agricolo di Savignano, risolvendo intrusivamente l’eccezionalità del tracciato diagonale (tanto da produrre non solo isolati Aversa (Ce), quartiere Lemitone: veduta zenitale. Pagina precedente Aversa (Ce), quartiere Lemitone: rilievo, principi insediativi. rettangolari, ma anche trapezoidali e triangolari9) e adottando un tipo edilizio “modulato – secondo la tradizione agricola locale – su un lotto non inferiore a circa 450 metri quadrati (‘la quarta’), tra superficie coperta e scoperta”, testimonianza preziosa della “tradizionale preferenza di Terra di Lavoro e, in particolare, dell’agro aversano per le case con corti di varia estensione”10; un programma edilizio che, peraltro, trova il proprio 176 Aversa (Ce), quartiere Lemitone: rilievo, ideogramma. A destra dall’alto Aversa (Ce), quartiere Lemitone: rilievo, planimetria con evidenziazione dei cortili rilevati. A cortile degli archi interrotti; B cortile nascosto; C cortile del calzolaio; D cortile dei senza tetto; E cortile dei pensieri; F cortile della loggia; G cortile dei desideri; H cortile dei cortili; I cortile a pozzo; L cortile dell’ombra; M cortile lupanare; N cortile delle scale; O cortile dei loggiati; P cortile della vedetta; Q cortile del piccolo teatro; R cortile multietnico. Aversa (Ce), quartiere Lemitone: rilievo, quadro sinottico dei cortili. Pagina seguente dall’alto in basso Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile del calzolaio. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile a pozzo. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile dei senza tetto. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile dei cortili. Irrilevato 178 Aversa (Ce), quartiere Lemitone: rilievo, studio ambientale. A destra dall’alto Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile multietnico: rilievo, studio ambientale. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile degli archi interrotti: rilievo, studio ambientale. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile della vedetta: rilievo, studio ambientale. Pagina seguente Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile della loggia: rilievo, pianta del piano terra. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile della vedetta: rilievo, piante. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile dell’ombra: rilievo, pianta del piano terra. Irrilevato Anomalie geometriche compimento nel Settecento, allorché viene eretto il sistema arco-campanile (porta Napoli), che, oltre a segnalare visivamente la presenza della Santa Casa, conclude scenograficamente la prospettiva meridionale di via Orabona. Da un punto di vista morfologico, il Lemitone è caratterizzato da un tessuto edilizio compatto (l’assenza di piazze e sagrati tradisce il carattere intensivo dell’operazione) e fondamentalmente residenziale (le uniche testimonianze religiose sono costituite dalle rare icone votive applicate negli angoli dei fabbricati): un’iterazione di insule, ripartite in lotti rettangolari oblunghi atti ad accogliere abitazioni organizzate in origine su uno o, al massimo, due livelli fuori terra, ma soprattutto avvitate intorno a corti interne che affondano le proprie radici tipologiche nei precedenti nolani d’inizio Cinquecento. Laddove peraltro “le uniche apprezzabili differenze, dal punto di vista tipologico-costruttivo, tra gli edifici unifamiliari a corte, dell’inizio del Cinquecento, di Nola, cittadina di prevalente economia agricola, e quelli, di poco meno di un secolo e mezzo dopo, di Aversa, centro di identica vocazione originaria, sono da imputare, innanzi tutto, alla diversa natura del suolo. Nella seconda, infatti, l’esistenza di banchi di tufo a pochi metri di profondità ha reso conveniente lo scavo, al di sotto dell’area del cortile o del giardino o di entrambi, delle note grotte, al fine di ricavare l’intero fabbisogno delle pietre 179 di fabbrica e di adibire il vuoto risultante a cellaro. Nel centro normanno, inoltre, l’andamento delle falde freatiche ha imposto, in luogo del pozzo, l’uso delle cisterne e, quindi, lo sviluppo di razionali sistemi di raccolta delle acque piovane. Altre varianti sono da imputare, viceversa, all’evoluzione del gusto, per cui in tutt’e due le realtà le primitive finestre sulla strada sono state progressivamente soppiantate da balconi, mentre le loggette su archi e pilastri, coperte da falde di tetto sorrette da 180 Dall’alto Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile dei senza tetto: rilievo, prospetto. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile a pozzo: rilievo, sezioni. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile multietnico: rilievo, sezioni. A destra dall’alto Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile multietnico: rilievo, assonometria. Aversa (Ce), quartiere Lemitone, cortile delle scale: rilievo, prospettiva. Irrilevato 181 Anomalie geometriche colonne di muratura intonacata, ancora rinvenibili localmente sulle fronti interne delle case, sono state estese, a scapito dell’iniziale e raccolta intimità, all’intero perimetro delle corti; e ciò è avvenuto spesso per pratiche esigenze, costituendo il ricorso ai setti verticali, raccordati in alto da arcate, un ottimo criterio di consolidamento, specie in presenza di volte spingenti”11. Eppure, nonostante la filiazione con i precedenti nolani, le corti del Lemitone appalesano un’identità autonoma marcata, riconoscibile non solo nelle tracce fisiche delle diverse stratificazioni epocali (le archeggiature interrotte, i ballatoi sovrapposti, la complessità delle comunicazioni verticali, le superfetazioni abusive ecc), nell’ambiguità tra i fronti stradali eclettici e il climax vernacolare delle quinte interne (“che, non opponendosi alla campagna, ne annullano la contraddizione con la città”12) oltre che nella varietà dei principi insediativi ricorrenti, quanto piuttosto nell’imprevedibilità delle articolazioni planimetriche con cui, caso per caso, è risolto il conflitto tra la regolarità della trama viaria ortogonale e l’obliquità di via Orabona; il che, accomunando la dinamicità13 del Lemitone a quella di altre rinomate anomalie geometriche (quali ad esempio la Diagonal nel piano di Ildefonso Cerdà per Barcellona14 e Broadway Avenue nel piano dei Commissioners per New York15), lo ricomprende a buon diritto tra gli episodi urbanistici esemplari. I disegni di rilievo sono stati eseguiti nell’ambito del corso di “Rilievo dell’architettura”, tenuto nell’anno accademico 1999-2000 da Paolo Belardi nella facoltà di Architettura della Seconda Università degli Studi di Napoli, dagli studenti Claudio Agosti, Luigi Autiero, Raffaele Cecoro, Giuseppe Cipullo, Michele Coviello, Gaetano Crispino, Giuseppe De Cristofaro, Giuliana De Lucia, Francesco De Marco, Annarita Di Bernardo, Vincenzo Di Foggia, Consiglia Duro, Vincenzo Erario, Gennaro Fabozzi, Giuseppe Faenza, Aldo Giacchetto, Nicola Iarossi, Arcangelo Landolfi, Francesco Magi, Pasquale Marcello, Giuseppe Mascolo, Lauro Naclerio, Sebastiano Nardiello, Severino Pannella, Giuseppe Piccolo, Paola Santoro, Gianluca Sciaudone, Miriam Siglioccolo, Carmine Stingone, Cinzia Trinchese, Antonio Trinchillo. Note Per quanto concerne la genesi e l’evoluzione storica del Lemitone cfr. F.S. Golia, Aversa: il Lemitone, tesi di laurea in Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II, a.a. 1996-97, relatore prof. G. Alisio, correlatore prof. G. Amirante; M. D’Aprile, L’urbanizzazione seicentesca dei territori della “Starza dell’Arco” nelle registrazioni enfiteutiche della Real Casa Santa dell’Annunziata, in G. Fiengo (a cura di), Lo sviluppo sei-settecentesco di Aversa e l’episodio urbanistico del Lemitone, Napoli 1997, pp. 19-68; G. Amirante, Aversa dalle origini al Settecento, Napoli 1998, pp. 216-222. 2 Il termine Lemitone deriva da “lemmentone”, accrescitivo di “lemmeto”, cioè “limite” (cfr. L. Moscia, Aversa. Tra vie, piazze e chiese, Napoli-Roma 1997, p. 205). 3 Cfr. in proposito L. Piccinato, Urbanistica medievale, Bari 1988, p. 37. 4 D. Vargas, Aversa e i suoi re. Il progetto per il centro urbano e le sculture di Riccardo Dalisi, Napoli 1997, p. 23. 5 Cfr. in proposito M. Zocca, Introduzione ad un’indagine urbanistica sui centri storici di Terra di Lavoro, “Palladio”, 1/2, 1964, p. 105. 6 Le sigle A.G.P. (“Ave Gratia Plena”) e R.C.A. (“Real Casa dell’Annunziata”) si riferiscono indistintamente all’istituzione religiosa dell’Annunziata, finalizzata al sostegno degli infanti abbandonati nonché alla cura dei malati e fondata ad Aversa agli inizi del XIV secolo nell’ambito della strategia politica angioina, volta a controllare il territorio mediante la diffusione capillare di istituzioni religiose o fondazioni laiche a carattere assistenziale. 7 L’area di sedime del quartiere Lemitone assunse tale denominazione perché “si sviluppava in direzione del nuovo arco di ingresso all’Annunziata” (G. Amirante, op. cit., p. 217). Nell’ager campanus, infatti, con il termine “starza” si era soliti identificare un terreno “arbustato e seminatorio, di cui i frutti pendenti appartenevano al signore [...] mentre il suolo, coltivato a grano, è affittato ai contadini” (A. Lepre, Terra di Lavoro nell’età moderna, Napoli 1978, p. 21). 8 L’attribuzione a Bartolomeo Picchiatti è suffragata dalla notazione che l’architetto ferrarese si era già occupato “nel 1625 del programma per i fondachi, avendo egli curato, in precedenza, anche alcuni lavori al Conservatorio” (M. D’Aprile, op. cit., p. 20). 9 Esemplare, in proposito, il cosiddetto Trivice o Rivellino (noto anche come “casa triangolata”), posto in posizione quasi baricentrica rispetto allo sviluppo planimetrico del Lemitone. 10 G. Fiengo, op. cit., p. 2. 11 Ivi, p. 4. 12 M. Rendina, Caratteri delle città dell’agro capuano-aversano, Vitulazio 1994, p. 70. 13 Cfr. H. Hohenegger, La diagonale nell’Arte, nell’Architettura e nella Comunicazione visiva, Roma 1986. 14 Cfr. P. Sica, Storia dell’urbanistica. L’Ottocento, I, Roma-Bari 1980, p. 362. 15 Ivi, II, p. 688. 1 Il disegno nascosto Ipotesi sulla genesi formale dei ceri di Gubbio Premessa Secondo una tradizione plurisecolare, ogni 15 maggio, vigilia dell’anniversario della morte del santo patrono Ubaldo Baldassini, si rinnova a Gubbio il rito della festa dei ceri: una manifestazione folcloristica non riesumata, ma consolidata nel tempo, che contamina ambiguamente il sacro e il profano e il cui svolgimento1 culmina nella travolgente corsa pomeridiana, allorché i tre ceri, ricevuta la benedizione dal Vescovo, vengono issati a spalla dai ceraioli e, muta dopo muta, percorrono Pagina precedente Gubbio (Pg), ceri di San Giorgio, Sant’Ubaldo e Sant’Antonio: rilievo, prospetti. Gubbio (Pg), corsa dei ceri: alzata. di corsa le vie del centro storico; fino ad ascendere, lungo i ripidi tornanti del monte Ingino (“il colle eletto” cantato da Dante Alighieri nella Divina Commedia), alla cinquecentesca basilica di Sant’Ubaldo. Al di là delle incerte origini della festa2, tre sono gli interrogativi intorno ai quali si sono annodate, nel tempo, le variegate ipotesi formulate dagli studiosi: il carattere insolitamente non competitivo della corsa (i tre ceri, nonostante il climax anarchico, osservano un ordine predeterminato), l’inconsueta associazione di tre Santi apparentemente privi di nessi logici reciproci (Ubaldo, Giorgio e Antonio) e, soprattutto, la genesi formale dei ceri. Nondimeno, rimandando all’ampia bibliografia esistente per i primi due interrogativi3 e, con essi, per le comparazioni critiche con manifestazioni folcloristiche similari4, risulta utile, al di là 184 delle riserve imposte dalla cronica carenza documentaria, proporre interrogativi e avanzare congetture per quanto concerne il terzo quesito: l’unico, di fatto, ancora inesplorato. La forma attual e Da un punto di vista meccanico i ceri, che sono alti circa cinque metri e pesano quasi tre quintali5, sono delle vere e proprie macchine lignee6, decostruibili in tre componenti autonome (la struttura verticale o cero propriamente detto, la barella e la statuetta del Santo), custodite durante l’anno in luoghi distinti (nella basilica di Sant’Ubaldo il cero e la barella, nella chiesa di San Francesco della Pace la statuetta) e assemblate solo in occasione della festa, contestualmente alla cerimonia dell’alzata mattutina. Nonostante le attuali differenze7, sia dimen- Irrilevato sionali che ornamentali, i criteri costruttivi e la forma dei tre ceri sono sostanzialmente comuni; laddove il cero è innestato verticalmente sulla barella (un sistema costituito da due traverse, rese solidali da una tavola centrale, atte a consentire il trasporto a spalla) ed è coronato dalla statuetta del Santo protettore. Strutturalmente il cero è composto da due prismi ottagonali (“buzzi”) sovrapposti secondo l’asse verticale, realizzati a cassa vuota mediante una tamponatura di tavolette decorate con stemmi e motivi floreali, fissate su un fusto centrale (“albero”), e completati alle estremità da cuspidi piramidali troncate da altrettanti anelli sfaccettati (“panottoli”); di questi l’inferiore si appoggia direttamente sulla barella, il superiore funge da base per il piedistallo della statuetta, mentre il centrale (“strozza”) raccorda le due cuspidi piramidali intermedie. Il cero è inoltre arricchito da alcuni elementi funzionali accessori, quali le “manicchie” (che svolgono la funzione di appigli nel trasporto orizzontale del cero), il piolo (che attraversa il cero e a cui, fino ai primi del Novecento, erano ancorate alcune corde atte a favorire la posizione eretta) e i “timicchioni” (che costituiscono altrettanti perni di ancoraggio del cero alla barella oltre che alla statuetta). Ciò che ne risulta è una forma non solo funzionale, ma anche armonica e, soprattutto, assolutamente atipica: un bizzarro candelabro fuori scala, vagamente antropomorfo, la cui paternità ideativa è in genere attribuita tout court all’anonimato dell’artigianato locale; attribuzione che tuttavia, nonostante la sapienza costruttiva denunciata dall’uso appropriato dei diversi tipi di legno (il fusto centrale è in olmo, le tavolette in abete, le manicchie e il piolo in faggio, gli anelli sfaccettati in quercia ecc.), lascia ampi margini d’incertezza. A ben guardare, infatti, è la stessa forma dei ceri che, appalesando una raffinatezza non meramente materico-costruttiva, quanto piuttosto geometricocompositiva, contesta di per sé l’ipotesi di una genesi evolutiva a feed-back di forme sperimentate e collaudate nel tempo sulla base dell’esperienza, rivendicando piuttosto l’esistenza di un progetto unitario e, quindi, imponendo l’approfondimento di eventuali contributi d’autore; contributi che peraltro, sia per motivi cronologici8 sia per la padronanza delle tecniche disegnative necessarie per il concepimento di un solido complesso come la parte verticale del cero, appaiono ragionevolmente Il disegno nascosto Nomenclatura del cero (Vincenzo Ambrogi, Mario Farneti, 1994). Pagina precedente Gubbio (Pg), corsa dei ceri: corso Garibaldi. riferibili a quello straordinario crocevia culturale che, nella seconda metà del XV secolo, è rappresentato dalla corte ducale dei Montefeltro cui la città di Gubbio è all’epoca soggetta: un vero e proprio “cenacolo appassionato di prospettiva e architettura”9 dove a più riprese, sotto l’egida del duca Federico, s’incrocia l’attività, artistica e intellettuale, dei protagonisti della rinascenza (Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Luca Pacioli, Paolo Uccello, Luca Signorelli, Sandro Botticelli, Bramante ecc.); avviando in nuce quel “particolare atteggiamento – proprio dello studioso – che, legato alla nuova scienza del vedere, va definendosi nel corso del Quattrocento e secondo il quale, per conoscere davvero certe realtà – oggetti, macchine, processi – non è più sufficiente far ricorso soltanto alla parola o alla pratica. Da strumento descrittivo a strumento conoscitivo vero e proprio, il disegno comincia a essere considerato al pari dei saperi tradizionalmente riconosciuti”10, marcando definitivamente lo scarto tra sapere scientifico e pratica artigianale. 185 La corte federi ci ana e i suoi rapporti con l a ci ttà di Gubbi o Come noto, è intorno alla fine del XIV secolo che la città di Gubbio, perduta irrimediabilmente la propria libertà comunale, è annessa alla signoria dei Montefeltro; ma è soprattutto a seguito dell’avvento al potere di Federico, nel 1444, che l’antica Ikuvium assume un ruolo rilevante nell’ambito del ducato urbinate. Questo anche perché è proprio a Gubbio che Federico, figlio illegittimo del conte Guidantonio e di una giovane eugubina, dama di corte dei conti di Petroia, nasce e viene allevato insieme al fratellastro Ottaviano Ubaldini11; precedentemente, quindi, al trasferimento a Mantova, dove riceve una solida formazione intellettuale quale allievo della prestigiosa scuola umanistica di Vittorino da Feltre (i cui insegnamenti comprendono anche le materie del Quadrivium: Astronomia, Musica, Aritmetica e Geometria), sviluppando quella versatilità culturale, lodata da Baldassarre Castiglione nel Cortegiano, che porta Federico, nella seconda metà del XV secolo, a fare di Urbino la sede di una corte contrassegnata da una spiccata vivacità intellettuale di cui la vicina città di Gubbio è direttamente partecipe12. Federico, infatti, riserva alla città natale un’attenzione particolare, che si manifesta in molteplici occasioni: concedendo alla zecca locale la facoltà di coniare monete d’argento; celebrandovi, nel 1437, il suo primo matrimonio con Gentile Biancaleoni; eleggendovi la dimora della sua seconda moglie Battista Sforza, che ivi raccoglie una propria corte, richiamando personaggi eminenti nonché organizzando feste, giochi e tornei; incaricando, a partire dal 1477, Francesco di Giorgio Martini di trasformare il trecentesco palazzo della Guardia, e con esso le strutture medievali adiacenti, in una dimora cortigiana di pari dignità rispetto al precedente urbinate. Ma, soprattutto, l’attaccamento viscerale di Federico per la città dei ceri è testimoniato dagli eventi che accompagnano la nascita dell’agognato erede maschio; erede che nasce a Gubbio, il 24 gennaio 1472, e a cui viene imposto il nome di Guidubaldo in onore di sant’Ubaldo, avallando l’opinione comune di un concepimento legato all’intercessione del patrono locale13. L’unione con l’amata consorte Battista Sforza (successiva alla morte sia della prima moglie sia del figlio Buonconte) è infatti caratterizzata da “dodici anni e mezzo di matri- 186 Irrilevato monio [...] in cui l’impossibile successione femminile al governo di un vicariato di Santa Romana Chiesa (questo è il precario stato giuridico del territorio urbinate) segna la loro vita, e soprattutto quella di lei, nella ricerca di quell’erede maschio legittimo che consenta a Federico una pacifica successione. Nove figli in quella manciata di anni: otto femmine, due delle quali morte nei primi mesi di vita”14. Così, quando finalmente nasce Guidubaldo, Federico, per celebrare degnamente l’atteso evento, promuove non solo grandi festeggiamenti, ma anche un’intensa attività artistica in cui risaltano le opere all’uopo commissionate a Piero della Francesca, Pedro Berruguete e Giusto di Gand. Ritratto di Federico da Montefeltro con il figlio Guidubaldo (Pedro Berruguete, 1477 ca). Pagina seguente Disegni di cinque diverse bombarde (Anonimo da Francesco di Giorgio Martini, s.d.). Prospettiva di città ideale (Piero della Francesca, 1470 ca). Concl usi oni e i potesi Si deve a Eugenio Battisti la rievocazione dell’eccezionale vivacità culturale che anima le discussioni di corte urbinati15 negli anni immediatamente precedenti la morte di Battista Sforza; presupponendo che, tra le altre, ne sia avvenuta una “durante la progettazione della Pala di Brera, presente Federico, forse il Pacioli, l’Alberti e [...] quasi certamente il Bramante”. Così come lo stesso “dipinto della Città Ideale, attribuito da qualcuno a Piero e da altri a Francesco di Giorgio, [...] probabilmente è stato discusso in molti, che a Urbino erano fissi o di passaggio, e forse ciascuno ha aggiunto o sottratto o sostituito, secondo le sue aspettative e la sua esperienza”16. Un procedimento intellettuale “aperto”, questo, che disorienta la critica contemporanea che, “nella sua ricerca di un ‘autore’ per ogni immagine architettonica, pittorica o scultorea, applica testardamente a Urbino le categorie di una cultura successiva: il duca non era certamente un architetto, ma ha creato le condizioni per cui l’opera di ogni architetto, scultore o decoratore, è divenuta sommabile a quella di altri, e nel cast [...] gli spetta certamente il posto del regista”17. E allora, considerato il carattere composito della corte federiciana e valutati gli stretti legami all’epoca esistenti tra Urbino e Gubbio, è realmente velleitario avanzare l’ipotesi che anche il disegno dei ceri, vera e propria incarnazione della concinnitas albertiana, sia in qualche modo un’opera “collettiva” di estrazione feltresca, al pari del palazzo Ducale di Urbino, della Pala di Brera e della Città Ideale? E che quindi Federico, volendo testimoniare pubblica- Il disegno nascosto mente la propria gratitudine a sant’Ubaldo (il cui culto era in sensibile declino18) per la nascita dell’agognato figlio maschio, sia ricorso a un consulto tra gli artisti della propria corte per conferire una forma più consona a macchine lignee certo preesistenti19, ma prive di quell’eleganza che, ancora oggi, contraddistingue i ceri nel panorama delle macchine celebrative? D’altra parte, se l’apparato strutturale dei ceri non può non richiamare la rinomata perizia meccanica di Francesco di Giorgio Martini, erede deputato della cultura ingegneristica senese20 187 e continuativamente presente a Gubbio tra il 1477 e il 148921, ancorpiù la forma dei tre totem appare straordinariamente affine a quelle aggregazioni di poliedri che, con la loro carica simbolica22, appassionano Piero della Francesca23 e sono ripresi da Luca Pacioli per illustrare in appendice il De divina proportione. Non a caso è proprio a Urbino che Pacioli (i cui incontri con Federico “sembrano avvenire sotto il segno dei poliedri”24) apprende i metodi proporzionali di Leon Battista Alberti25, sfida Paolo di Middelburg26 in “laudabili e scientifici duelli” sulle proprietà dei solidi regolari e intreccia “rapporti di amicizia con Piero, forse addirittura spronandolo a dar veste sistematica al suo trattato sulla prospettiva, e certo discutendo con lui il problema dei corpi regolari ed altre questioni di matematica”27; così come è proprio a Guidubaldo, figlio prediletto di Federico, che Piero dedica il Libellus de quinque corporibus regularibus e che Pacioli, nel 1489, presenta un’inedita collezione di modelli di corpi regolari e semiregolari (“da dicti regulari dependenti”) realizzati in materia vile28. Peraltro l’analisi in chiave geometrica della forma dei ceri (che di per sé rimanda a molti tra gli oggetti intarsiati negli studioli ducali di Urbino e di Gubbio: il candelabro, il tavolino, la gabbia degli uccelli, il calamaio ecc.) non solo ne avvalora la genesi poliedrica, ma addirittura rivela straordinarie affinità costitutive con il “mazzocchio”, ovvero con quella trasposizione geometrica della 188 Irrilevato ghirlanda che Paolo Uccello29 e Piero della Francesca30 ritraggono ripetutamente e che certo non è estranea al mondo figurativo feltresco, visto che un mazzocchio scorciato è effigiato illusionisticamente, quale emblema della Geometria31, sia en abîme, riposto in una scansia dello studiolo urbinate, sia in primo piano, appoggiato su una mensola di quello eugubino. E la rappresentazione del mazzocchio, nella cultura quattrocentesca, certifica non solo l’abilità tecnica nella pratica del disegno, ma anche la compartecipazione intellettuale al rinnovato connubio tra arte e scienza. “Geometria, algebra, bicro- De divina proportione, tav. LX (Luca Pacioli, 1498). A destra Urbino, palazzo Ducale, tarsia dello studiolo. Pagina seguente De prospectiva pingendi: tav. XXVII (Piero della Francesca, 1474). Calice (Paolo Uccello, 1470 ca). Il disegno nascosto 189 simmetrica originaria, non già come un unico solido, quanto piuttosto come un’aggregazione di poliedri semiregolari; elementi di difficile costruzione geometrica33, perché veri e propri derivati del mazzocchio rinascimentale, le cui radici virtuosistiche chiamano direttamente in causa la passione di Piero della Francesca per le metamorfosi solide34. Né, d’altra parte, l’ipotesi di una collaborazione operativa tra il razionalismo ideologico della corte feltresca e la qualificata ars lignaria eugubina, al pari di quella avviata dallo stesso Federico tra Giusto di Gand e i mastri arazzieri fatti espressamente con- mia, intarsio e pittura: ottica, prospettiva, scultura e rappresentazione: è in questo universo di ‘pratiche’ che la figura del mazzocchio viene costruita, disegnata, dipinta e intarsiata come se rappresentasse veramente una cosa, mentre invece costituisce una prova estrema del pensiero algebrico sui ‘limiti’ e di quello geometrico sugli ‘inviluppi’; e, in definitiva, strumento e metodo per la costruzione di una teoria della percezione. Gli attributi di questa cosa [...] sono, negli studi grafici, la trasparenza perfetta e l’impossibile perfezione geometrica, il risultato imprevedibile di una sommatoria di eguali, e dunque la ‘scoperta’. Malgrado tutte le acconciature di vimini o di stoffa, venute di Borgogna o dal mercato della Porta Rossa di Firenze, dove si confezionavano ghirlande, la cosa-mazzocchio non è mai esistita se non nelle proprie rappresentazioni [...] ma la sua ascendenza vera, forse più indiretta, ma più convincente, sta nelle remote e costanti relazioni che matematica e pittura, mosaico, scultura e intarsio hanno intrattenuto attraverso il tempo, e che sembrano concludersi con Leonardo”. Mediante la rappresentazione del mazzocchio, infatti, “la realtà del mondo, quella dell’universo e quella delle cose prodotte dall’uomo, di cui si cercano i principi di armonia necessariamente comuni, trova nella matematica lo strumento di comprensione universale, trasmissibile a tutti – almeno a tutti coloro che praticano scienza ed esperienza. Così l’esperienza non è più lavoro ‘meccanico’, ma pratica di conoscenza: e l’arte vi assume di diritto una dignità pari alla scienza”32. Pertanto appare legittimo interpretare la forma attuale del cero di San Giorgio, che conserva la configurazione più prossima a quella 190 Irrilevato composizione severamente strutturata, relativamente spoglia di ornati, nobilmente concettuale, specialmente per merito dell’equilibrio proporzionale e della reciproca subordinazione delle parti”; ovvero “il momento di quelle mirabili scenografie prospettiche che celebrano nel modo più poetico la capacità dell’architetto e pittore umanista sia di immaginare che di costruire un mondo artificiale secondo moduli e rapporti puramente logici, senza che vada perduto, in questo processo astrattivo, nulla della qualità affettiva, del gusto per la materia, della grazia cromatica”40; un momento che, nel segno delle nuove tecniche rappresentative, trova il proprio compimento nella scoperta dei poliedri come genere autonomo41, accomunando idealmente, per “regolarità e simmetria di aggruppamenti”42, l’algida astrazione della Città Ideale alla solennità monumentale dei ceri di Gubbio. Il disegno di rilievo è stato eseguito nell’ambito del corso di “Disegno”, tenuto nell’anno accademico 2000-01 da Paolo Belardi nella facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Perugia, dallo studente Alessio Moriconi. Urbino, palazzo Ducale, tarsia di una porta dello studiolo. Note venire a Urbino dalla Fiandra , costituisce un modus operandi eccezionale36. Basti pensare allo studiolo del palazzo Ducale di Gubbio, dove sia la paternità dei disegni sia l’esecuzione delle tarsie comportano attribuzioni plurime37, o, ancorpiù, al badalone della chiesa eugubina di San Domenico il cui basamento ottagonale è fortemente apparentato con il “buzzo” del cero, mentre i cartoni delle tarsie, acclarato che “la padronanza della prospettiva non era nelle possibilità dell’autore”38 presunto (Mariotto di Paolo Sensi, detto il Terzuolo), tradiscono “qualche bagliore del maestro burgense”39. Peraltro l’ipotizzata impronta feltresca, se non addirittura pierfrancescana, nella trasformazione formale dei ceri è avvalorata dal fatto che le celebrazioni promosse da Federico per la nascita di Guidubaldo coincidono con un momento particolarmente felice dell’espressione artistica urbinate, “l’unico forse al quale Piero ha potuto sentirsi intimamente partecipe, rappresentato dal passaggio da un’architettura di gusto ancora decorativo [...] ad una 35 1 Per la descrizione delle modalità di svolgimento della festa cfr. V. Ambrogi, M. Farneti, La forma gli uomini la corsa dei ceri della città di Gubbio, Fano 1994. 2 L’origine della festa dei ceri, in assenza di cronache relative ai secoli XIII, XIV, XV e XVI oltre che in base ai rari documenti disponibili relativamente ai secoli XIV e XVI, è deducibile da un documento del 1338 (Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Statutum comunis et populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii, 1338, Liber extraordinariorum, rub. VI) in cui sono menzionati per la prima volta i cereos magnos; menzione che, tuttavia, si presta a due interpretazioni discordanti. Secondo una prima interpretazione, infatti, detti ceri magni sono da intendere come simulacri pagani in legno (retaggio di riti in onore della dea Cerere), cristianizzati e trasportati per l’offerta, dalle tre arti deputate (petraiolorum, asinariorum, merciariorum), fino alla basilica di Sant’Ubaldo sul monte Ingino nel pomeriggio del 15 maggio; ma in un momento distinto rispetto a quello del primo pellegrinaggio, cereis accensis, riservato agli esponenti, iubilantes et gaudentes, del contado oltre che delle arti minori e caratterizzato dal tragitto città-basilica di Sant’Ubaldo. Mentre, in virtù di una seconda interpretazione, le origini della festa vanno ricondotte all’offerta di Il disegno nascosto grandi ceri di cera (forse già supportati da un’apposita macchina lignea) sempre da parte delle tre arti sopracitate; ma nell’ambito del primo pellegrinaggio cittadino. Cfr. in proposito H.M. Bower, The Procession and Elevation of the Ceri at Gubbio, An Account of the Ceremonies, London 1897; P. Cenci, I Ceri di Gubbio e la loro storia, Gubbio 1908; E. Giovagnoli, Gubbio nella Storia e nell’Arte, Città di Castello 1932, pp. 171-185; A. Seppilli, I Ceri di Gubbio, Perugia 1972; P.L. Menichetti, I Ceri di Gubbio dal XII secolo, Città di Castello 1982. 3 Cfr. M. Del Ninno, Un rito e i suoi segni. La corsa dei Ceri a Gubbio, Urbino 1976; Id., Vescovi, guerrieri e contadini/Umbria, in A. Falassi (a cura di), La festa, Milano 1988, pp. 118-127. 4 Cfr. ivi, pp. 123-124. 5 I dati dimensionali sono riportati in V. Ambrogi, M. Farneti, op. cit., p. 40. 6 Cfr. ivi, pp. 17-47. 7 È soprattutto il cero di Sant’Ubaldo ad avere subito, nel tempo, le modifiche più rilevanti. Cfr. in proposito A. Barbi, La Festa dei Ceri tra conservazione e rinnovamento (1881-1890), Gubbio 1993, pp. 27-35. 8 Nonostante l’assoluta carenza documentaria, la trasformazione formale dei ceri nella versione attuale è riferibile a un preciso intervallo temporale, che oscilla tra la fine del Trecento e la metà del Cinquecento. Già alla fine del XIV secolo, infatti, i ceri sono costituiti, in tutto (quale simulacro pagano cristianizzato) o in parte (quale elemento funzionale al trasporto di grandi ceri di cera nell’ambito del pellegrinaggio devozionale del 15 maggio in onore di sant’Ubaldo), da una struttura stabile in legno; questa l’interpretazione proposta dal Cenci, op. cit., di una riformanza del 15 maggio 1382 (Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Riformanze, reg. n. 9, c. 160v) secondo cui “gonfalonierus et consules [...] deliberaverunt, ordinaverunt et stantiaverunt pro honore fiendo beato Ubaldo in festo ipsius quod camerarius comunis Eugubii teneatur et debeat dare et solvere, de pecunia dicti, illis personis que faciunt Cereos artium petraiolorum, asinariorum et merciariorum pro laborerio ipsorum, vel capitanei ipsarum artium, pro presenti festo Beati Ubaldi, florenos tres auri pro quolibet Cereo, ad penam XXV librarum ravennatum”. D’altra parte vale la pena rimarcare come i doppieri di ceri accesi, offerti durante il pellegrinaggio devozionale del 16 maggio dalle autorità cittadine unitamente alle arti maggiori, ai cavalieri e ai nobili (cfr. Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Statutum comunis et populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii, 1338, Liber extraordinariorum, rub. VI), a seguito della peste trecentesca, con una specifica riformanza del 10 maggio 1349, sono raddoppiati e offerti dallo stesso Comune: “duo paria dupleriorum sive torticciarum ponderis ad minus XL librarum cere in totum, et actentur cum astis, ut moris est” (cfr. Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Riformanze, reg. n. 4, c. 67v). Alla fine del XIV secolo, quindi, le macchine lignee dei ceri possono essere assimilate al sistema combinato di una struttura verticale (actentur cum astis), costituita da una colonna monolitica (di diametro presumibilmente pari a 30 cm), di sostegno, o meno, a un grande cero di cera apicale, e di una struttura orizzontale (su cui è innestata la com- 191 ponente verticale) per il trasporto a spalla. Peraltro la successiva assenza di cronache e di documenti specifici è interrotta da una memoria (Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Breve dell’Arte dei Merciari, 1540, c. 2rv), databile tra il 1540 e il 1550, che rendiconta una ricognizione fatta sul proprio cero dai merciai. “Alli 25 aprile 1186: memoria del tempo che fuorno fabricati il Cerio che fu fatto dalli nostri antichi della nostra arte de mercie, per gloria et onore del glorioso Santo Ubaldo nostro protettore et defensore della nostra città, visto bene dentro del modello de ditto Cerio il milesimo, con diligentia recopato il detto milesimo nel offitio che fu cavato capitano Giovanni Antonio Sebastiani et Francesco Mammolati”. E il fatto che, in occasione della ricognizione, si sia “visto bene dentro del modello” attesta che, intorno alla metà del Cinquecento, l’evoluzione del cero, da colonna monolitica a sistema articolato a cassa vuota, è definitivamente compiuta. Mentre la versione “moderna” della festa, con l’imposizione delle statuette dei Santi a coronamento apicale dei ceri, è messa a punto successivamente ed è documentata per la prima volta dal Tondi (B. Tondi, L’esemplare della gloria, overo i fasti sacri, politici e militari dell’antichissima Città di Gubbio, Venezia 1684, pp. 8-11). 9 R. Papini, Francesco di Giorgio architetto, Firenze 1946, p. 3. 10 R. Folicaldi, F. Folicaldi, I solidi platonico-euclidei: un percorso tra scienza e visione del mondo, “Paesaggio Urbano”, 4/5, 1996, p. 15. Cfr. in proposito anche L. Vagnetti, Il processo di maturazione di una scienza dell’arte: la teoria prospettica nel Cinquecento, in M. Dalai Emiliani (a cura di), La prospettiva rinascimentale: codificazioni e trasgressioni, I, Firenze 1980, pp. 427-474. 11 “Numerosi dati sembrano attribuire una particolare posizione ad Ottaviano Ubaldini, fratellastro di Federico, e quindi suo coetaneo, cui venne affidata, dopo la sua morte, la reggenza dello Stato. Egli si educò alla scuola di Vittorino da Feltre, poi alla corte dei Visconti, diventando presumibilmente amico del Pisanello, del Decembrio, di Francesco Filelfo e del Bessarione. Fu collezionista di codici, curò edizioni emendate, diresse lo scriptorium urbinate e l’educazione dei figli di Federico; ebbe relazioni con Ferrara e Firenze, per trascrizioni e miniature. Visse prevalentemente a Gubbio e costituì una propria biblioteca” (E. Battisti, Piero della Francesca, II, Milano 1992, p. 385). 12 Cfr. A. Chastel, I centri del Rinascimento italiano, Milano 1965, pp. 158177. Nota in proposito Eugenio Battisti che “oltre a creare una cultura locale, Urbino e Gubbio (non si dovrebbero distinguere, infatti, i due centri in cui erano attivi pressoché gli stessi maestri) alimentavano una serie di incontri, non sempre destinati a prolungarsi nel tempo, ma determinanti. La documentazione di questi incontri è assai lacunosa e forse non sarà mai possibile ricostruire compiutamente quello che fu certamente uno dei più vivaci cenacoli del Rinascimento, anche per merito della Contessa” Battista Sforza, “che sappiamo letterata ed allieva del Guarino, e di Ottaviano Ubaldini” (E. Battisti, Piero della Francesca, I, cit., p. 247). 13 “La nascita e il battesimo di Guidubaldo son riferiti colle seguenti curiose espressioni nella cronaca ms d’un canonico della Cattedrale di Gubbio che 192 si conserva nell’Archivio Lucarelli ‘1472 a di 24 del mese di gennaio fu di sabato a notte fra le sette ore e l’otto nacque il mamolo del Signore et fu il di della conversione di S. Paolo, e fu fatta grandissima festa. A di 2 del mese di febbraio fu battezzato il mamolo del Signore et [...] si fece una gran festa et una magnifica colazione ad ogni persona’. Gli fu posto il nome d’Ubaldo per la pia credenza d’averlo ottenuto per un miracolo o ad intercessione del santo Vescovo protettore di Gubbio. (Cronaca suddetta)” (O. Lucarelli, Memorie e Guida Storica di Gubbio, Città di Castello 1888, p. 100). 14 M. Bonvini Mazzanti, Per una storia di Battista Sforza, in P. Dal Poggetto (a cura di), Piero e Urbino. Piero e le Corti rinascimentali, Venezia 1992, p. 144. 15 E. Battisti, È possibile identificare in Piero della Francesca uno stile di corte?, in C. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), Federico di Montefeltro. Le Arti, Roma 1986, pp. 223-232. Baldassarre Castiglione afferma che, nella corte ducale feltresca, “qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese, come oggidi chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per essere [...] piena la casa di nobilissimi ingegni” (B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, I, Torino 1981, p. 89). 16 G. De Carlo, Gli spiriti del Palazzo Ducale, “Spazio e Società”, 31/32, 1985, p. 22. 17 L. Benevolo, P. Boninsegna, Urbino, Roma-Bari 1986, p. 36. 18 Il declino del culto per sant’Ubaldo all’epoca della nascita di Guidubaldo è testimoniato da una una riformanza del 20 settembre 1471 (Archivio di Stato di Perugia, Sezione di Gubbio, fondo Comunale, Riformanze, reg. n. 28, c. 100). “Convenientes in unum [...] domini gonfalonerius et consules [...] et infrascripti spectabile cives de numero deputatorum ad consilium [...] domini Federici Montisferetri, Urbini ac Durantis comitis, etc., videlicet [...] nec non spectabilis [...] legum doctor [...] Costantinus de Machariis [...] in capella palatii [...] residentie [...] gonfalonerii et consulum populi [...] civitatis Eugubii, attendentes comune bonum, utile et comodum [...] civitatis, populi et civium eiusdem, ut ibidem vite recte ac religiose vivant homines et unicuique ius suum tribuatur, missoque inter eos diligenti partito in genere deliberativo: quid statuendum, decernendum et deliberandum sit ad consequentionem omnium premissorum in et super infrascriptis propositis et partitis et ipsarum qualibet, videlicet, primo cum contingat ad presens sanctum et venerabili [sic] corpus sacratissimi confexoris, patris, protectoris et gubernatoris civitatis predicte Sancti Ubaldi fore et esse quodammodo destitum quam derelictum et digna veneratione minimum venerari, unde dubitabile redditur iuditium insusce[p]tum super dictam civitatem super neglecta religione erga dictum sacratissimum corpus. Et hoc de primo”. 19 “Il rispetto del contesto esistente, che regola tutti gli interventi federiciani, è fondato sul senso di appartenenza cittadino, ma anche su un calcolo deliberato, simile alla ragione enunciata da Federico stesso per l’alleanza della Lega italica” (L. Benevolo, P. Boninsegna, op. cit., pp. 13-16). Pertanto, così come nell’edificazione dei palazzi ducali di Urbino e di Gubbio, le nuove sistemazioni sono caratterizzate dall’inglobamento, e quindi dal Irrilevato riuso, dei manufatti preesistenti, anche nel caso dei ceri è ragionevole ipotizzare che l’intervento federiciano, confermato il ruolo strutturale delle colonne preesistenti, si sia limitato a rivestirle con una carteratura lignea atta a conferire alle macchine un elevato valore scenografico. 20 “Furono certamente molte le macchine tra i centotrentasei edifici commissionatigli da Federico”, anche perché “all’arrivo in Urbino Francesco ebbe certamente modo di consultare nella ricca biblioteca ducale il codice ora vaticano del De re militari di Roberto Valturio, copia miniata di bellezza particolare, di gran lunga precedente l’editio princeps del 1472 poiché firmata in data 1462 da quel Sigismondo di Nicolò che lavorava alla replica dell’opera sotto la guida e nella stessa casa di Valturio” (F.P. Fiore, Città e macchine del ’400 nei disegni di Francesco di Giorgio Martini, Firenze 1978, p. 31). “Pittore, scultore, ingegnere civile e militare, trattatista e architetto, [la figura di Francesco di Giorgio Martini] sfugge a una collocazione univoca. Si può [infatti] metterne in evidenza la ricerca antropometrica condotta nei disegni; si può sottolineare il pragmatismo o il simbolismo delle fortificazioni; si può concentrare l’attenzione sugli esperimenti elaborati nei suoi fogli su nuovi tipi di edifici formati dalla combinazione di figure geometriche elementari” (S. Ray, Raffaello architetto, Roma-Bari 1974, p. 20). 21 Sussistono numerosi documenti che provano la presenza continuativa di Francesco di Giorgio Martini, tra il 1477 e il 1489, a Gubbio dove, oltre che alla realizzazione del palazzo Ducale, lavora alla sistemazione di un cassero, all’edificazione del rivellino di porta Marmorea (entrambi andati distrutti) e, forse, appronta i cartoni per le tarsie dello studiolo. In particolare Francesco di Giorgio Martini trascorre a Gubbio buona parte del mese di maggio del 1477. Cfr. L. Cavazzini, A. Galli (a cura di), Biografia di Francesco di Giorgio ricavata dai documenti, in L. Bellosi (a cura di), Francesco di Giorgio e il Rinascimento a Siena 1450-1500, Milano 1993, p. 513. In proposito cfr. anche F.P. Fiore, Francesco di Giorgio a Gubbio, in C. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), op. cit., pp. 151-170; F.P. Fiore, M. Tafuri (a cura di), Francesco di Giorgio architetto, Milano 1993, pp. 183-185. 22 Cfr. in proposito R. Folicaldi, F. Folicaldi, op. cit., pp. 12-17. 23 Cfr. in proposito A. Guzzo, La “sublime metrica” di Piero della Francesca e la “divina proporzione”, “Atti e memorie dell’Accademia Petrarca”, XL, s.d., pp. 55-82; E. Gamba, Piero inventore dei poliedri come “genere”, in P. Dal Poggetto (a cura di), op. cit., pp. 477-478; E. Battisti, Piero della Francesca, I, cit., pp. 290-291; V. Montebelli, Piero, la matematica e i poliedri, in P. Dal Poggetto (a cura di), op. cit., pp. 479-482; E. Gamba, Il disegno dei poliedri, in P. Dal Poggetto (a cura di), op. cit., pp. 486-487. 24 Cfr. in proposito M. Karvouni, Il ruolo della matematica nel “De re aedificatoria” dell’Alberti, in J. Rykwert, A. Engel (a cura di), Leon Battista Alberti, Milano 1994, pp. 282-287. 25 E. Gamba, op. cit., p. 477. 26 Nel 1480 Paulus von Middelburg, matematico e astronomo di grande erudizione (tanto da essere citato nella prefazione del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico), dedica un pronostico a Federico in cui inserisce centum questiunculas di cui, la quarantanovesima, riguarda la possibilità, da Il disegno nascosto parte dei solidi regolari, di occupare lo spazio senza lasciare interstizi vuoti. 27 E. Battisti, Piero della Francesca, I, cit., p. 290. 28 Secondo Staigmüller, Pacioli avrebbe collezionato almeno tre raccolte di modelli di corpi regolari (ciascuna di 60 pezzi), custodite a Firenze, Milano e Venezia (H. Staigmüller, Lucas Paciuolo: Eine biographisce Skizze, “Zeitschrift für Mathematik und Physik. Historisch-literarische Abteilung”, XXXIV, 1889, p. 81). 29 Cfr. in proposito G.J. Kern, Der Mazzocchio des P. Uccello, “Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen”, XXXVI, 1915, p. 13; B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der Italienischen Zeichnungen 1300-1450, I, Berlin 1968, p. 402. 30 Cfr. in proposito ivi, p. 524. 31 Cfr. L. Cheles, Lo studiolo di Urbino. Iconografia di un microcosmo principesco, Modena 1991, p. 59. 32 Cfr. R. Berardi, Il mazzocchio da Paolo Uccello a Piero a Leonardo, in P. Dal Poggetto (a cura di), op. cit., pp. 492-496. Per un più ampio quadro sulla rappresentazione del “mazzocchio” nell’arte rinascimentale cfr. M. Daly Davis, Appunto per Piero e Raffaello, in Convegno internazionale sulla “Madonna del Parto” di Piero della Francesca, Città di Castello 1980, pp. 115-139; Id., Carpaccio and the perspective of regular bodies, in M. Dalai Emiliani (a cura di), op. cit., pp. 183-200. 33 Riprendendo lo schema logico della costruzione del “torculo” annotata da Piero della Francesca nel De prospectiva pingendi, la costruzione del poliedro semiregolare a cui, ancora oggi, è riconducibile la forma di ciascuno dei due solidi che, sovrapposti, costituiscono la parte verticale del cero, risulta la seguente. Dati un poligono ottagonale avente i due lati verticali di maggiore altezza (tale da risultare in rapporto aureo con l’altezza complessiva del poligono stesso) e un asse complanare verticale di simmetria, disegnate le quattro circonferenze, con centro sull’asse e passanti per le coppie di vertici del poligono stesso posti allo stesso livello, intersecate le quattro circonferenze con quattro piani passanti per l’asse e comprendenti angoli diedri di 45°, e, infine, collegato con segmenti di retta ogni punto risultante dall’intersezione sopra descritta con quelli adiacenti, risulta un solido geometrico delimitato lateralmente da otto rettangoli verticali e da sedici trapezi nonché, alle due estremità, da due ottagoni. 34 “L’esercizio numero nove della terza parte del Libellus – ad esempio – tratta della trasformazione di un ottaedro in un dodecaedro. Nel Libellus ci sono più di trenta esercizi di questo genere” (T. Martone, L’affresco di Piero della Francesca in Monterchi: una pietra miliare della pittura rinascimentale, in Convegno internazionale sulla “Madonna del Parto” di Piero della Francesca, cit., p. 33). In proposito cfr. anche M. Daly Davis, Piero della Francesca’s mathematical treatises: the “Trattato d’abaco” and the “Libellus de quinque corporibus regularibus”, Ravenna 1977, p. 55. 35 Cfr. P. Rotondi, Un arazzo di Giusto di Gand nel Palazzo Comunale di Fermo, “Rassegna Marchigiana”, X, 1932, pp. 28-32. 36 Come rileva acutamente Chastel, nel XV secolo i rapporti tra gli artisti “razionalisti” e gli intarsiatori erano particolarmente intensi (A. Chastel, 193 Favole Forme Figure, Torino 1988, pp. 58-68). 37 Il disegno dei cartoni è stato attribuito al Botticelli, a Piero della Francesca, a Francesco di Giorgio Martini, ad Antonio del Pollaiuolo e a Piero del Pollaiuolo, mentre l’esecuzione delle tarsie a Baccio Pontelli e Giuliano da Maiano. Cfr. in proposito L. Cheles, op. cit., p. 80. 38 P.L. Bagatin, Le tarsie a Urbino e nel ducato e gli apporti pierfrancescani, in P. Dal Poggetto (a cura di), op. cit., p. 353. 39 Ivi, p. 352. 40 E. Battisti, Piero della Francesca, I, cit., p. 248. 41 Cfr. E. Gamba, op. cit. 42 A. Colasanti, La pittura del Quattrocento nelle Marche, Milano 1932, p. 71. Dall’alto Perugia, palazzo dei Priori: rilievo, prospetto su corso Vannucci. Perugia, palazzo dei Priori: rilievo, prospetto su via della Gabbia e prospetto su piazza IV Novembre. Ibridazioni tipologiche Il palazzo dei Priori di Perugia Almeno fino al XIX secolo l’architettura della città, e con essa quella dei suoi episodi architettonici primari, non sono in genere riferibili a semplici processi addittivi di modelli consolidati, quanto piuttosto alla contaminazione, complessa e contraddittoria, di componenti morfologiche spesso eterogenee, regolate dagli equilibri precari instauratisi nel tempo tra la ricorrenza dei caratteri generali e l’irripetibilità delle varianti occasionali. Tuttavia, nonostante la natura singolare di gran parte delle architetture storiche, è altresì evidente che l’analisi tipologica, quantunque di per sé non esaustiva, costituisce comunque uno strumento conoscitivo irrinunciabile, perché in grado di lumeggiare derivazioni e rimandi altrimenti obliati nelle pieghe della documentazione storiografica; soprattutto nel caso delle architetture tardomedievali (le cui ragioni progettuali sono riferibili a molteplici contributi ideativi) e ancorpiù nello specifico delle opere pubbliche civili, laddove è proprio l’idea del “tipo” (comune ai committenti, ai progettisti, ai costruttori e ai cives) a consentire l’accordo e l’intesa della collettività nella definizione metaprogettuale dell’edificio atto a rappresentare simbolicamente la nuova organizzazione sociale1. Come noto, infatti, qualsiasi iniziativa edilizia intrapresa nei Comuni italiani del Duecento è segnata dal fermo convincimento che, proprio tramite la comunicazione estetica, l’immagine della città possa e debba esprimere anche contenuti ideologici2. Avviene così che, rinnegando il carattere provvisorio delle sedi utilizzate nel secolo precedente e riprendendo un filone tipologico, quale quello palaziale, in realtà mai desueto3, gli edifici pubblici4 sorti in Italia tra il XIII e il XIV secolo materializzano simbolicamente il nuovo assetto politico-economico5 in virtù di un comune programma urbanistico fondato su due invarianti: l’inserimento in aree baricentriche strategiche e la codificazione di quel sodalizio inscindibile, tra il palatium e la sua piazza, che, pur in un’ampia casistica6, rimane una delle dominanti della città medievale. Ma non è tutto: anche al fine di sottolineare una sintonia nel sistema del governo (sovente già avallata da filiazioni statutarie), gli edifici comunali dell’epoca tendono a coagulare in un unicum organizzazioni e forme architettoniche già collaudate in città alleate, o comunque in ambiti territorialmente limitrofi7, secondo uno sperimentalismo “capace di recepire e portare a sintesi operativa, con grande elasticità, i più diversi suggerimenti di tecniche o di modelli”8. Da qui le ragioni per cui tutti i palazzi pubblici italiani medievali, ove si eccettuino sporadici esempi “a voltone passante”9, rimandano a due modelli fondamentali, il broletto10 lombardo e il palazzo-fortezza11 toscano, che, seppure in tempi diversi (in età consolare il primo e in età podestarile il secondo), irrompono prepotentemente nel cuore delle città e ne arricchiscono l’immagine con un contributo tipologico-formale assolutamente innovativo; traducendo precedenti barbarici, altrimenti effimeri e dimensionalmente ridotti, in monumentali strutture murarie, nel caso del broletto, o addirittura trapiantando nel tessuto urbano una rivisitazione in chiave civile del castello feudale (originariamente peculiare del paesaggio extraurbano, in quanto prodotto della cultura nomade), nel caso del palazzo-fortezza. Le caratteristiche tipologiche del broletto, infatti, che al pari delle klosterpƒalzen carolingie12 (residenze reali interne ai principali complessi monastici, di cui la torhalle dell’abbazia di Lorsch rappresenta l’esempio più celebre) affonda le proprie radici costitutive nella laubia13 (in origine un pergolato, ricavato nei pressi di un grande albero e solo successivamente trasformato in loggiato ligneo, dove le popolazioni barbariche erano solite amministrare la giustizia), definiscono nell’insieme un modello architettonico sostanzialmente originale che, occupando un’area di sedime rettangolare e sviluppandosi su due livelli sovrapposti, è contrassegnato da: 196 Irrilevato - una loggia al livello terreno, perimetrata da una schiera di pilastri e di arcate libere (tali da consentire l’afflusso da ogni direzione oltre che il deflusso in occasione di eventuali tumulti) e atta ad accogliere l’arengo popolare, le attività giudiziarie nonché le contrattazioni del mercato; - una grande sala al primo livello, riservata alle assise dei consoli; - un poggiolo (o parlera) per le arringhe oltre che per la promulgazione delle ordinanze; - una torre campanaria, posizionata autonomamente rispetto al corpo di fabbrica e dettata da ragioni simboliche oltre che di richiamo; - una scala esterna, lignea o in pietra, per l’accesso al primo livello. Nondimeno la tipologia del broletto, seppure originaria dell’area lombarda e pur assumendo denominazioni distinte (palazzo dei Consoli, palazzo dei Priori, palazzo della Ragione ecc.), si propaga rapidamente nella padania meridionale (Bologna, Faenza, Fidenza, Piacenza ecc.), nel versante ligure (Genova e Noli) oltre che, pur con sostanziali modifiche, nell’area veneta(Padova, Treviso, Verona, Vicenza ecc.) nonché in quella centrale, marchigiana (Ancona, Fano ecc.) e soprattutto umbra (Bevagna, Orvieto, Todi ecc.), dove tuttavia il sensibile scarto temporale, unitamente alla particolare condizione di crocevia culturale, promuovono imprevedibili ibridazioni tipologiche14. Successivamente, infatti, si diffonde nell’area toscana la tipologia del palazzo-fortezza che, pur sensibile all’eredità dei solacia federiciani15, presenta anch’essa una struttura architettonica inedita16, che contamina la compattezza arcigna delle fortezze feudatarie del contado (a loro volta discendenti parte dei castella romani e parte dell’odel germanico17) con la verticalità delle case-torri cittadine e che, occupando un’area di sedime circa quadrata e sviluppandosi su più livelli, è caratterizzata da: - ampi saloni al livello terreno (perimetrato da una poderosa muratura pressoché continua), destinati all’economo e all’armeria e talora disposti intorno a un cortile interno; - una grande sala per le assemblee generali al primo livello, spesso attrezzata con sale di dimensioni ridotte; - ulteriori ambienti riservati al consiglio minore e, con esso, Ibridazioni tipologiche Firenze, palazzo del Bargello (XIII sec.). Todi, palazzo del Capitano del Popolo (fine XIII sec.) e palazzo del Popolo (inizio XIII sec.). Pagina precedente Lorsch (Germania), torhalle dell’abbazia carolingia (VIII sec.). 197 agli alloggi dei magistrati, ai livelli sovrastanti; - una scala in pietra, interna all’edificio o eventualmente arretrata nel cortile, per il collegamento diretto dei vari livelli; - una torre civica, per lo più sovrapposta a una torre gentilizia preesistente, emergente rispetto al coronamento apicale (costituito in genere da una merlatura aggettante su un’iterazione di archetti). Como, Broletto (XIII sec.). E in Toscana, tra i principali esempi di questa tipologia, meri- 198 tano una specifica menzione il palazzo dei Priori di Volterra, il palazzo del Bargello e il palazzo della Signoria di Firenze, il palazzo Pretorio di Prato, il palazzo dei Vicari di Scarperia nonché il palazzo Pubblico di Siena; mentre, nell’area umbromarchigiana, soprattutto il palazzo dei Consoli di Gubbio e il palazzo del Popolo di Ascoli Piceno presentano caratteristiche architettoniche similari. Tuttavia, al di là delle affinità nell’organizzazione funzionale (la presenza di grandi spazi assembleari) nonché in alcune puntuali declinazioni stilistiche orientaleggianti, evidentemente legate alla circolazione circummediterranea18 di forme e modelli (così come è palese l’ascendenza bizantina sulla genesi dell’architettura civile veneziana19, parallelamente anche l’evoluzione delle fortificazioni feudali risente delle consistenti novità desunte dalla cultura islamica ad opera dei cavalieri crociati), le differenze tra i due modelli, soprattutto da un punto di vista degli esiti formali, rimangono sostanziali, sia per le specifiche condizioni sociali20 sia per i diversi riferimenti culturali (quello imperiale, che emula i risultati artistici tardo-classici, nel caso del broletto, e quello feudale, che, di contro, osteggia la rinascenza carolingia-ottoniana, nel caso del palazzo-fortezza). Infatti, mentre nel broletto lombardo è riscontrabile una qualche omologazione compositiva che, congruentemente con la matrice tardo-classica, si risolve in edifici disciplinati (in cui i prospetti presentano una calibrata alternanza di pieni e di vuoti), tendenzialmente simmetrici e atopici (nonostante la singolarità del rapporto di volta in volta istituito con la piazza), i palazzi pubblici toscani, sempre fortemente contestualizzati (al punto da inglobare le preesistenze più significative, quali ad esempio le torri gentilizie), risolvono i vincoli contingenti in impianti tendenzialmente asimmetrici (al fine di ribaltare a proprio vantaggio i rapporti prospettici consolidati) e affidano la propria espressione architettonica alla possenza di murature svuotate solo in corrispondenza delle aperture strettamente funzionali. In tal senso, il Palatium Novum Populi di Perugia21, edificato nell’ultimo decennio del XIII secolo in un’area storicamente nevralgica (“corrispondente all’incrocio tra l’antico cardo cittadino e la via che, staccandosi da esso, sale al colle del Sole”22), rappresenta un campione oltremodo significativo Irrilevato che, pur incarnando, ancorpiù degli altri palazzi civici umbri, un ambiguo quanto intricato mix tipologico tra il broletto lombardo e il palazzo-fortezza toscano (“la semplicità contribuiva a renderlo più magnifico, e l’aspetto di castello niente toglieva alla sua eleganza”23), denuncia comunque “un gusto originale, non riscontrabile nelle città vicine, se non per suo influsso diretto, anche quando elabora temi che riceve da esse”24. In particolare, infatti, l’analisi costruttiva, distributiva e stilistica della porzione di palazzo corrispondente al corpo edilizio duecentesco (il volume d’angolo compreso tra piazza IV Novembre, per metà facciata circa, e il fronte costituito dai primi 36 metri su corso Vannucci) evidenzia: - al livello terreno un grande vano (ragionevolmente ipotizzabile, per la particolare impostazione strutturale, come originariamente unico e solo successivamente suddiviso in fondachi25), coperto con due volte a botte lunettate e a sesto ribassato (impostate su due muri longitudinali esterni oltre che su di una serie di pilastri murari intermedi), affacciato sulla platea magna mediante un’iterazione di aperture (architravate a sesto acuto e con la chiave di volta posta alla stessa quota, nonostante l’acclività della piazza antistante), occluso negli altri tre versanti per ragioni orografiche (verso nord) oltre che per l’esistenza di edifici preesistenti (la chiesa di San Severo e la residenza del Capitano del Popolo, a ovest) o proprietà private (l’isola della piazza a sud) e presumibilmente comunicante con i livelli superiori mediante una scala, lignea o in pietra, comunque ricavata in corrispondenza del versante meridionale; - al primo livello un ampio salone, coperto con un solaio ligneo poggiante su arconi trasversali in muratura a pieno centro, illuminato da una serie di polifore, polilobate e architravate (verso corso Vannucci) e dotato di un portale con arco a ogiva e di due ulteriori trifore, trilobate e architravate (su piazza IV Novembre), nonché di una monofora e di un accesso in corrispondenza del cortile occidentale; - al secondo e ultimo livello un ulteriore ampio salone, coperto con un tetto a struttura lignea, perimetrato con un coronamento merlato aggettante su una serie di archetti, e dotato di polifore polilobate sul fronte orientale e su quello settentrionale, tutte poggianti sulla seconda cornice, voltate con ar- Ibridazioni tipologiche 199 Perugia, palazzo dei Priori. co a tutto sesto e incorniciate con due lesene a timpano, sostenute da una coppia di colonnine; - verso nord una scalinata esterna, rimaneggiata a più riprese, per l’accesso diretto dalla platea magna al salone del primo piano. D’altra parte, nonostante la sostanziale uniformità delle mura- ture realizzate ex novo (costituite per lo più da blocchi parallelepipedi trirettangoli di elementi lapidei in travertino locale, di dimensioni variabili e solo occasionalmente intercalate da inserti calcarei o da elementi di spoglio), l’eterogeneità tipologico-stilistica che contrassegna il palazzo civico perugino fin dalle sue origini è comprovata da alcune immediate nota- 200 Dall’alto Perugia, palazzo dei Priori: rilievo, pianta alla quota della sala dei Notari. Perugia, palazzo dei Priori: rilievo, pianta alla quota della sala Podiani. Irrilevato Ibridazioni tipologiche zioni di carattere figurativo. Infatti, se da un lato l’asciutto rigore compositivo dell’impianto prospettico (caratterizzato da un volume essenziale, monomaterico e stereometrico, sul quale è “applicata” una teoria di polifore e di cornici che ribadiscono la continuità di stesura del piano), la propensione all’inclusione delle preesistenze e la verticalità dell’impianto originario (un vero e proprio “masso centripeto”26 piantato nel cuore della città storica) rimandano alla compattezza del palazzo-fortezza toscano (segnatamente al Bargello di Firenze e al palazzo dei Priori di Volterra oltre che, “nella ferma conclusione che deriva ai piani dal cornicione aggettante e merlato”27, al palazzo Pubblico di Siena), altresì l’ambiguo contrasto tra la solidità dell’impianto e la finezza del miniaturismo decorativo, la permeabilità del basamento nonché lo spartito ritmico dei prospetti (ripartiti in fasce alterne di pieni e di vuoti) chiamano in causa il modello del broletto lombardo e, con esso, il suo diverticolo veneziano28 per antonomasia: quelle Procuratie (1178-1210 ca) fatte edificare da Sebastiano Ziani nell’area marciana (non a caso lungo il versante settentrionale dell’antico brolo) che, seppure ricostruite all’inizio del Cinquecento, sono note nella configurazione medievale originaria grazie alla Processione in Piazza di Gentile Bellini; mentre al contempo, in alcuni preziosismi stilistici (come ad esempio le polifore del primo e del secondo livello, forse rimodellate nelle forme attuali a seguito dei danni prodotti dall’incendio del 1315), si possono rilevare precise filiazioni con le architetture dell’epoca, sia religiose (il pastoforio della basilica superiore di San Francesco in Assisi29) che civili (Orvieto e Viterbo), espresse in ambiti territorialmente e/o culturalmente limitrofi. Ma, come noto, sono soprattutto le precedenti architetture civili di Todi30 a influenzare gli esiti formali del palazzo dei Priori di Perugia, svolgendo un proficuo ruolo di mediazione con la cultura lombarda; basti pensare a come la cornice superiore di una delle trifore del broletto di Como, ivi risolta in una singolare grondaietta a timpano, viene ripresa nel palazzo del Capitano del Popolo tuderte per poi essere trasferita, non senza varianti (esemplare il fastigio apicale, reinterpretato in guisa di fallo etrusco), sulle facciate del palazzo perugino come finitura della “trina marmorea”31 decantata da Ugo Tarchi. 201 Peraltro l’immagine architettonica del primo nucleo, esito di una ponderata sintesi della cultura costruttiva tardomedievale, è talmente incisiva e compiuta da condizionare tutti i successivi ampliamenti; inibendo qualsiasi ulteriore evoluzione tipologica (ove si eccettui il recupero del modello “a voltone passante” in corrispondenza della torre campanaria in via dei Priori) e congelando i caratteri stilistici salienti. Una continuità formale, quella perpetrata “da’ professori del tempo”, già lucidamente rimarcata da Baldassarre Orsini nella sua guida settecentesca32 e solo parzialmente contrappuntata dalle “maniere” dei diversi maestri impegnati nei lavori: segnatamente il ballatoio di piazza IV Novembre, memoria dell’esperienza orvietana di Lorenzo Maitani, la complicata scala cinquecentesca, prodigioso virtuosismo interstiziale che testimonia la grande sapienza tecnico-costruttiva di Vincenzo Danti, o ancorpiù l’elegante loggia in laterizio che conclude monumentalmente la via Nuova, estremo omaggio dell’Alessi alla maniera del Sangallo33. Ma, soprattutto, l’architettura del palazzo nella sua configurazione definitiva, nonostante i restauri diretti con spirito antiquario da Alessandro Arienti, trasuda un’evidente complessità strutturale (il “caotico” prospetto lungo via della Gabbia abbonda di sovradiacenze, dislocazioni e cortine murarie sospese) che suggella quella vocazione alla contaminazione sovrastorica evidente fin dai prodromi duecenteschi: dagli enigmatici clipei “etruschi”, che coronano la cornice apicale, al climax crepuscolare dell’atrio d’ingresso, dalla raffinata matrice veneziana dei prospetti primitivi agli inquietanti reperti medievali che emergono quasi senza soluzione di continuità dalle facciate, dall’esuberante decorativismo del portale orientale al rigore minimalista del fronte cinquecentesco. Certo non a caso un architetto eclettico come Guglielmo Calderini, incaricato dell’ideazione del padiglione umbrosabino in occasione della Esposizione Internazionale di Roma del 1911, misconosce le pur eccellenti, ma talora monotonali, architetture religiose medievali umbre e, di contro, elegge proprio il palazzo civico perugino, in virtù della sua particolarissima condizione di palinsesto tipologico-stilistico, a simbolo ideale dell’architettura regionale di ogni tempo. Il che, nonostante “i malcelati intendimenti di restituzione storica”34 ipotizzati nella bizzarra ricostruzione dell’impianto duecentesco 202 Irrilevato Perugia, palazzo dei Priori: rilievo, sezioni. (elaborata da Calderini con la collaborazione di Dante Viviani), costituisce un riconoscimento implicito per quella propensione alla moderazione ideologica e alla sintesi culturale che, ancora oggi, rappresenta la risorsa più vitale dell’antica Peroscia. I disegni di rilievo sono stati eseguiti dall’IDeA-Istituto di Disegno e Architettura dell’Università degli Studi di Perugia (direzione scientifica: Adriana Soletti; coordinamento: Paolo Belardi; rilevatori: Antonio Musacchio, Ivo Scargetta, Massimo Bovi, Ivan Susta). Note 1 Secondo Howard Saalman, nell’età medievale “the relative scale of open or built-up space acquired became a direct index of the strength of the competing interests” (H. Saalman, Medieval cities, New York 1968, p. 36). In proposito cfr. anche V. Franchetti Pardo, Storia dell’Urbanistica. Dal Trecento al Quattrocento, Roma-Bari 1982, pp. 25-41. 2 Per un inquadramento generale della genesi storica oltre che dell’evoluzione sociale dei Comuni medievali cfr. N. Ottokar, I Comuni cittadini nel Medioevo, Firenze 1936; P. Brezzi, I Comuni cittadini italiani, Varese 1940; D. Ferrarese, Sintesi storico-giuridica del Comune italiano, Verona 1950. Cfr. C. Brühl, Il “Palazzo” nelle città italiane, in La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972, pp. 263-282; M. Cagiano de Azevedo, I palazzi tardoantichi e altomedievali, in C.D. Fonseca (a cura di), Casa, Città e Campagna nel Tardo Antico e nell’Alto Medioevo, Galatina 1986, pp. 265-278. 4 Sulle origini tipologiche del palazzo pubblico comunale e, quindi, sulla sua evoluzione storica cfr. N. Rodolico, Palazzi Pubblici comunali, “Archivio Storico”, CXX, 1962, pp. 450-458; R. Viviani, I palazzi comunali, in P. Carbonara (a cura di), Architettura pratica, IV, 3, Torino 1970, pp. 381-409; C. Brühl, op. cit.; E. Polla, Il palazzo comunale italiano, “La Sponda”, VI, 1975, pp. 23-26; G.M. Tabarelli, I Palazzi pubblici d’Italia, Busto Arsizio 1978. 5 “Nella casistica posizionale del palazzo comunale il primo posto spetta alla connessione con la cattedrale e il vescovado [...] Il collegamento più esplicito è quello assiale, in cui la facciata (o il fianco) della cattedrale e quella del nuovo palazzo comunale si affrontano [...] La sovrapposizione, l’accostamento, la connessione spaziale tra i due edifici va vista anche come un indice di connessione politica tra i due sistemi di potere, e spesso anzi di un programmato parallellismo di azione. È certo comunque che, in conformità con l’esito della prova di forza tra comune e vescovo, e quando la cattedrale appare troppo decentrata per le esigenze rappresentative e funzionali del comune, questi non esita a distaccarsi dal complesso vescovile” (E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, Bari 1981, pp. 74-76). 6 “Si hanno esempi dove piazza religiosa e piazza civile coincidono, oppure coincidono quella civile e quella di mercato come in molte città di Ger3 Ibridazioni tipologiche mania dove il palazzo comunale occupa il centro della piazza del mercato e a volte è completamente porticato al piano terreno in modo da costituire una vera e propria loggia dei mercanti. Piazza civile e piazza del mercato si presentano anche poste in ‘plastico dualismo’ come avviene a Siena e lo stesso si può notare in alcuni casi tra piazza religiosa e piazza civile; così a Castelfranco Veneto e a Lucignano” (R. Viviani, op. cit., p. 389). 7 Cfr. E. Guidoni, Tipi, modelli, progetti nella città medievale, “Casabella”, 509/510, 1985, pp. 22-27. 8 Cfr. G. Curcio, M. Manieri Elia, Storia e uso dei modelli architettonici, Roma-Bari 1982, p. 29. 9 Questo modello, salvo l’episodico precedente del palazzo Comunale di Anagni (presumibilmente riferibile all’intervento di un maestro lombardo), trova l’esempio più illustre nel palatium vetum di Bologna, realizzato agli inizi del Duecento. Tale edificio infatti, strettamente interrelato con la morfologia del tessuto urbano, in quanto sovrapposto all’incrocio di due strade ortogonali (che nell’insieme definiscono i quattro rioni in cui è divisa la città felsinea), e sormontato da una grande torre civica (che segna monumentalmente il crocevia), influenza, seppure puntualmente, molti dei palazzi pubblici medievali dell’Italia centrale: il palazzo del Podestà di Fabriano, il palazzo Vecchio di San Gemini, il palazzo del Podestà di San Gimignano, il palazzo Comunale di Tarquinia, il palazzo del Popolo di Todi ecc. (cfr. in proposito E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, cit., pp. 7680). Nondimeno, avvalorando la genesi autoctona (presumibilmente riferibile all’area culturale marchigiana), la matrice di questo particolarissimo modello potrebbe essere ricercata “nelle soluzioni contadine dell’arco gettato sul viottolo e sfruttato: sotto per il ricovero dei carri, sopra come prezioso spazio aggiunto all’abitazione” (G.M. Tabarelli, op. cit., p. 13). 10 Il termine “broletto” è riferibile al vocabolo brolo (dal greco peribolion, “orto cintato”) assunto dal luogo recinto in cui si svolgevano i primi mercati dei Comuni. Tuttavia “queste sommarie caratteristiche del mercato provvisorio, già esistenti nell’antico ‘prato regio’ e poi ‘prato del Vescovo’, mal si adattano alle nuove richieste di un mercato permanente, alquanto più ricco, nonché più vario [...] Sorgono perciò, nei pressi dell’antico ‘Prato’, insieme ai principali uffici pubblici, alcuni locali chiusi destinati al commercio. Per richiamo al Brolo, questi locali – parti di un palazzo pubblico comprendente anche ulteriori ampi vani riservati agli uffici pubblici, alle assemblee popolari, all’amministrazione della giustizia nonché alla residenza dei magistrati – vengono denominati Broletti [...] I broletti non escludono però la continuazione degli scambi nelle piazze e nei porticati adiacenti; anzi, col passare del tempo, vengono in genere destinati ad essere la sede o la casa dei Mercanti, degli uffici preposti alle Mercanzie, il luogo di raccolta delle merci e dei campioni. A Milano, per esempio, nel 1228 fu costruito un nuovo broletto, che fu assieme la casa dei Mercanti e la casa del Comune. Esso sostituì il Broletto Vecchio, che all’origine era la casa dell’Arcivescovo. Restando in Lombardia, il Broletto di Brescia, edificato nel 1227, coesisté con il Mercato Pubblico Vecchio risalente al 972 e con Mercato Nuovo o ‘Fortunato’ del 1173. A Pavia il Broletto, che risale al 1236, non esclude il fun- 203 zionamento di molti altri mercati all’aperto, destinati ciascuno ad un genere di mercanzia” (A. Stocchetti, I mercati, in P. Carbonara, a cura di, op. cit., IV, 2, pp. 588-590). Il broletto è talora noto anche come “arengo” (dal germanico hari-riggs, “anello dell’esercito”), termine con cui originariamente, nella civiltà comunale italiana, si intendeva la scalinata esterna del palazzo comunale. 11 In questa tipologia palaziale, diffusasi nella Toscana del XIII secolo e riferibile all’origine aristocratica delle istituzioni comunali (al punto che, prima dell’edificazione di una sede apposita, era invalso l’uso di servirsi di residenze fortificate private per le riunioni dei funzionari comunali), “almeno due elementi sono desunti da quella che con molta approssimazione si potrebbe definire l’architettura feudo-signorile comitatina: la torre e il sistema di rigorosa segregazione dell’interno rispetto all’esterno – ottenuto mediante un apparato di chiuse, nude muraglie – che ordinariamente costituisce il piano terreno del palazzo pubblico” (F. Cardini, S. Raveggi, Palazzi pubblici in Toscana, Firenze 1983, p. 48). 12 Cfr. C. Brühl, op. cit., pp. 272-274. 13 La laubia (dal vocabolo goto lauba, “foglia”) fu introdotta nell’Italia cisalpina a seguito delle invasioni barbariche, divenendo ivi un vero e proprio edificio in struttura muraria (cfr. M. Cagiano de Azevedo, Laubia, in C.D. Fonseca, a cura di, op. cit., pp. 111-143). Detta tipologia, ampliata con un grande piano sovrastante, tornò a diffondersi in Germania dove, ad opera della cultura carolingia, assunse forme classicheggianti (celebri gli esempi di Aquisgrana, Goslar e Gelnhausen) come Kaiserpƒalz (cioè come edifico sontuoso, organizzato con un piano terreno loggiato, completamente libero e riservato alle attività assembleari, e un piano superiore, destinato alla dimora reale, raggiungibile mediante una o più scale addossate all’esterno dei muri perimetrali laterali), rifluendo quindi nuovamente in area lombarda in virtù degli stretti rapporti con il Barbarossa. 14 Cfr. U. Tarchi, L’arte medievale nell’Umbria e nella Sabina, III, Milano 1938. 15 “In Toscana [...] si dovette restare piuttosto impressionati da due edifici monumentali, a loro volta risvolto architettonico e simbolo di altrettanti grossi fatti pubblici legati alla presenza politica dei sovrani di casa sveva nella regione. Da una parte la rocca di San Miniato, scelta e fortificata poderosamente quale sede dell’amministrazione imperiale per tutto il territorio della Tuscia e del ducato di Spoleto; dall’altra [...] il Castello dell’Imperatore costruito in Prato, che inglobava le precedenti strutture d’un castello dei domini loci, i conti Alberti, ma le risolveva in una planimetria regolare, solenne, del tutto congrua rispetto all’architettura castellana federiciana dell’Italia meridionale – l’esempio più prossimo al modello pratese è quello del castello imperiale di Augusta, in Sicilia – e si adornava d’un portale classicheggiante che da parte sua rammenta il pugliese Castel del Monte” (F. Cardini, S. Raveggi, op. cit., pp. 44-46). Nondimeno, allo scopo di lumeggiare gli innegabili influssi orientali sul palazzo-fortezza, “contentiamoci di osservare come i ‘castra centenaria’, del genere dell’edificio di Mogorilo, diano luogo ai ribat, o castra-conventi musulmani, e come da questi Federico 204 riprenda e riporti in occidente il tipo del castello-palazzo che costellerà di stupende costruzioni i suoi territori dell’Italia meridionale” (M. Cagiano de Azevedo, I palazzi tardoantichi e altomedievali, cit., p. 276). 16 “Nascono così straordinari esempi di palazzi, integralmente calati nella contingente situazione urbana e capaci di monumentalizzarla, di renderla, cioè, architettonica, sottraendola al contingente continuo mutare della caratterizzazione viaria ed edilizia, e proponendola come centro motore dell’intero organismo urbano” (E. Guidoni, Storia dell’Urbanistica. Il Duecento, Roma-Bari 1989, p. 258). 17 L’odel germanico era un rozzo apprestamento difensivo, costituito essenzialmente da un terrapieno circolare, coronato da una rocca in legno e perimetrato senza soluzione di continuità da un vallo oltre che da una palizzata. “Fortificazioni di questo tipo (difesa semipermanente), a recinto semplice o con più recinti concentrici, sono frequentissime nel bacino danubiano, in tutta l’Europa centrale e nell’Inghilterra del nord (hill-forts) [...] Un particolare tipo di recinto è la ‘motta’, diffuso nell’Europa del nord [...] altro tipo particolare è il ‘brock’, appartenente all’area culturale della Scozia” (L. Finelli, voce fortificazioni, in P. Portoghesi, a cura di, Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, II, Roma 1968, p. 370). 18 Cfr. R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, pp. 467-468. Si pensi in proposito al Tekfur Sarayi di Istanbul, meglio noto come palazzo di Costantino Porfirogenito, “un edificio rettangolare a tre piani” in cui “il pianterreno, a volta, era sostenuto da colonne, mentre il primo piano aveva un tetto di legno piatto e il secondo piano un tetto a due pioventi con pendenza leggera. Il palazzo, situato fra due muri fortificati, era preceduto sul lato settentrionale da un cortile difeso, ed aveva la facciata settentrionale aperta. È difficile ricostruire la disposizione interna del palazzo; ma si sa che il primo piano era diviso e aveva delle nicchie in muratura accanto alle finestre, mentre il secondo piano aveva una cappella aggettante sul lato meridionale” (C. Mango, Architettura bizantina, Milano 1978, p. 153). 19 In origine il prospetto principale del palazzo veneziano “è caratterizzato dalla sovrapposizione di lunghi porticati e corrispondenti finestrati superiori che ne percorrono ritmicamente l’intera estensione; serrati ai fianchi da due ‘torri’ [...] La tendenza all’uniforme continuità, longitudinale e compositivamente aperta, dei porticati e logge [...] così come il prevalere delle aperture sulle pareti murarie si accostano assai bene ai caratteri che ci sono noti delle Procuratie edificate da Sebastiano Ziani [...] Ma l’origine del palazzo veneziano di età pre-gotica certamente non va ricondotta univocamente a quell’episodio architettonico pubblico [...] In genere prevale ora la propensione a vedere nella facciata a portico e loggia del medioevo veneziano una filiazione del tipo tardoantico della villa a portico con corpi laterali aggettanti [...] Una filiazione che avrebbe visto i due avancorpi delle antiche ville modificarsi in torreselle, come in Ca’ Pesaro (poi Fondaco dei Turchi), o nelle sezioni laterali di portico e finestrate marcati architettonicamente [...] O infine, in altri casi, [...] in pieni di superfici murarie affiancati ai vuoti di polifore composte di un più ridotto numero di archi. Le affinità riscontrabili con le rappresentazioni manoscritte di palazzi bizantini o con tracce archeo- Irrilevato logiche di architetture costantinopoliane come il palazzo di Romano I Lecapeno [...] si potrebbero spiegare sulla base di una stessa matrice tardoantica [...] Altre somiglianze sono ravvisabili tra l’evoluzione – a partire dall’età gotica – della facciata della casa veneziana verso uno schema tripartito con quadrifora o trifora centrali e un’ampia seppure più tarda diffusione circummediterranea di prospetti qualificati dalla presenza di ariose trifore, che dai territori anatolici si estende alle coste del Vicino Oriente” (E. Concina, Storia dell’architettura di Venezia, Milano 1995, pp. 66-69). 20 “Nell’Italia settentrionale il movimento comunale fu senza dubbio precoce rispetto alla Toscana: ma appunto per questo la sua storia fu più lineare, socialmente parlando più corale, meno differenziata [...] In tale contesto il palazzo pubblico serviva – non diversamente dalla piazza o dalla chiesa cattedrale – per grandi assemblee, né gli si richiedevano funzioni più élitarie e anche più delicate (quali, fra l’altro, la residenza dei funzionari comunali), quali saranno invece richieste, e necessariamente, al palazzo pubblico toscano [...] Il palazzo comunale ‘lombardo’ con la sua grande sala e il suo altrettanto vasto loggiato sottostante è un simbolo di sostanziale concordia cittadina [...] Al contrario, il palazzo pubblico toscano nasce [...] dalle discordie cittadine [...] ma anche [...] dalla necessità di superarle e di ergersi al di sopra di esse” (F. Cardini, S. Raveggi, op. cit., p. 51). 21 Per un inquadramento generale cfr. F.F. Mancini (a cura di), Il Palazzo dei Priori di Perugia, Perugia 1997. 22 A. Grohmann, Perugia, Bari 1981, p. 50. 23 A. Rossi, Il Palazzo del Popolo in Perugia, Perugia 1864, p. 3. 24 C. Martini, Il Palazzo dei Priori di Perugia, “Palladio”, XX, 1970, p. 39. 25 La partizione della loggia del piano terreno in una serie di fondachi mediante l’introduzione di muri trasversali è un’operazione frequentemente rilevabile nell’evoluzione storico-architettonica dei palazzi pubblici dell’epoca. Ad esempio Zampi, dissertando sulle vicende edilizie del palazzo del Popolo di Orvieto, nota che la loggia orvietana è caratterizzata da “cinque arcate in ognuno dei lati maggiori, e due in ciascuno dei fianchi. Trasversalmente i pilastri si collegano l’un coll’altro, mediante grandi arconi di tutto sesto, su i quali si appoggiano le volte a botte, che costituiscono l’intera copertura della Loggia divisa in tal modo in cinque compartimenti. Ma da quanto può rilevarsi dalle Memorie di Archivio, sembra che non si aspettasse gran tempo a chiudere le arcate esterne, limitandosi a lasciare nei muri di chiusura poche aperture di porte e finestre, come accadde in altri Palazzi pubblici, e ciò allo scopo di ricavarvi una o più sale, o ad uso di botteghe o di magazzini secondo i bisogni e le necessità del Comune” (P. Zampi, Studi artistici, in A. Satolli, a cura di, Il Palazzo del Popolo di Orvieto e i suoi restauri, Orvieto 1990, pp. 194-195). 26 B. Zevi, Messaggi Perugini, Perugia s.d. 27 G.C. Argan, L’architettura italiana del Duecento, Bari 1978, p. 109. 28 Sugli influssi stilistici veneziani nel palazzo dei Priori di Perugia cfr. G. Cristofani, Ritmi veneziani nel Palazzo dei Priori di Perugia, in Atti del convegno nazionale di storia dell’architettura, Roma 1939, pp. 221-222; C. Martini, op. cit., p. 57; F. Santi, Nota sul Palazzo dei Priori a Perugia, “Bol- Ibridazioni tipologiche lettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria”, LXIX, 1972, pp. 49-52; O. Gurrieri, Il Palazzo dei Priori di Perugia, Perugia 1985, p. 19. 29 Cfr. M.R. Silvestrelli, L’edilizia pubblica del Comune di Perugia: dal “palatium comunis” al “palatium novum populi”, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), II, Perugia 1988, p. 508. 30 Cfr. C. Martini, op. cit., pp. 56-62; Id., Todi e Perugia. Il “palazzo pubblico” e le istituzioni comunali, in La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972, pp. 357-364. 31 U. Tarchi, op. cit., tav. IV. 32 L’Orsini, analizzando il prospetto su corso Vannucci, sottolinea “la giudiziosa distribuzione degli ornamenti” ed elogia la scelta di confermare “l’artifizio del compartire il liscio, e l’ornato” per cui “le grandi piazze, che si frammezzano a’ tritumi, rendono l’edifizio imponente” (B. Orsini, Guida al Forestiere per l’Augusta Città di Perugia, Perugia 1784, p. 266). Tuttavia, in realtà, “quando il Palazzo fu successivamente ingrandito nel 13331353 e nel 1429-1443, gli architetti, pur mantenendo le forme della vecchia costruzione, distanziarono le finestre tanto che nelle parti da loro aggiunte il pieno vince sul vuoto, dimostrando così di non aver affatto compreso lo spirito dell’architettura originale” (G. Cristofani, op. cit., p. 222). 33 Sull’attribuzione all’Alessi, in qualità di magister stratarum, di importanti lavori di ristrutturazione del palazzo dei Priori cfr. G. Algeri, Alessi in Umbria, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, Genova 1974, pp. 193-201; C. Ascani Maddoli, Appunti e note su alcune opere di Galeazzo Alessi in Umbria, in Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, cit., pp. 223-228. 34 A.M. Racheli, Le sistemazioni urbanistiche di Roma per l’Esposizione Internazionale del 1911, in G. Piantoni (a cura di), Roma 1911, Roma 1980, p. 249. 205 San Prisco (Ce), edificio in via Monaco: rilievo, prospetti e sezioni del corpo scala. O’ luog Le corti rurali dell’agro casertano Dall’alto di una visione zenitale, l’agro casertano si presenta come un’informe nebulosa urbana che, tuttavia, sembra comunque resistere alle devastazioni indotte dal processo di urbanizzazione delle campagne nel passaggio da una società agricola a una società industriale; soprattutto per “la funzione ordinatrice ancora oggi svolta dalla centuriazione romana [oltre che per l’uguaglianza delle peculiarità ‘tipo-morfologiche’] [...] Specie se si osserva la presenza preponderante della tipologia edilizia a corte”1, derivata dall’antica domus rustica romana2 (seppure filtrata dall’incessante stratificazione di superfetazioni empiriche) e ricompresa da Roberto Pane fra le tre principali forme di edilizia rurale campana3. In effetti, seppure meno note e indagate rispetto a quelle padane, le corti rurali sono prevalenti nell’agro casertano e, unitamente alla partizione agraria disegnata dagli agrimensori romani, hanno fortemente condizionato la genesi di città solo nominalmente minori come Casagiove, Casapulla, San Nicola La Strada e San Prisco, cresciute “lungo le linee gromatiche o all’incrocio di esse”4. A ben guardare, infatti, tutti i nuclei abitati che insistono lungo il tracciato dell’antica via Appia sono caratterizzati dall’allineamento o dall’accorpamento di impianti a corte che, al pari di quelli che punteggiano senza soluzione di continuità tutto l’ager campanus, sono di fatto riconducibili a due tipi rurali originari, peraltro di diversa estensione planimetrica5: un primo tipo elementare, caratterizzato da una sola abitazione di agricoltori, e un secondo tipo complesso, composto da più abitazioni e con una popolazione mista di contadini, braccianti e artigiani. Laddove “il tipo elementare di corte era costruito all’interno di un appezzamento di terra circondato da un alto muro di recinzione, nel quale si apriva una sola porta di accesso, con un grande arco a tutto sesto od a sesto ribassato. All’interno di questo terreno recintato, oltre agli annessi (aia, stalla, fienile, forno, pozzo e latrina), esisteva una sola abitazione monofamiliare, appartenente al nucleo del colono e costituita da un vano terreno, con funzioni multiple di tipo domestico, e da un vano sopraelevato riservato generalmente al deposito dei prodotti agricoli e, talvolta, al riposo di tutta la famiglia. La struttura originaria di questo tipo elementare, però, non rimaneva nel tempo immutata, in quanto essa seguiva, col passare dei decenni, un processo di sviluppo dall’interno, che vedeva la corte crescere e trasformarsi di pari passo, con lo stesso crescere e modificarsi della composizione del nucleo familiare originario. L’aumento della popolazione interna, per contrazione di nuovi matrimoni e coabitazione delle nuove famiglie, determinava infatti l’insorgere del maggior fabbisogno abitativo, cui seguiva la costruzione di nuovi vani per residenza e, talvolta, l’ampliamento dei locali di servizio o la costruzione di nuovi annessi, i quali andavano ad essere realizzati in aderenza con quelli preesistenti; con un processo di crescita che si arrestava in genere per l’avvenuta saturazione dell’area edificabile”. Mentre “il tipo complesso di corte, sempre inserito in un ampio appezzamento recintato, era realizzato con maggiore attenzione nella scelta dei materiali ed accuratezza di esecuzione. L’abitazione, orientata rigorosamente a mezzogiorno, si articolava generalmente su quattro livelli: nel sottosuolo si trovava la ‘grotta’, ampio vano destinato al deposito e conservazione del vino e dei prodotti più facilmente deperibili col caldo estivo, che rappresentava certamente la peculiarità primaria della costruzione; al piano terra, erano ubicati una grande cucina, con la dispensa, il locale ‘direzionale’, il deposito degli attrezzi più pregiati ed, alcune volte, un porticato con archi in pietra, generalmente esteso a tutta la facciata; al piano superiore era collocato esclusivamente l’appartamento del proprietario, servito lungo il prospetto interno da un terrazzo, coincidente con la copertura del portico sottostante; e, nel sotto- 208 Planimetria dell’agro casertano. Pagina seguente dall’alto in basso San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia. Casagiove (Ce), edificio in via Santa Croce. San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia. Casagiove (Ce), edificio in via Santa Croce. Irrilevato tetto era ubicato il deposito. Sulla parte opposta al fabbricato residenziale, trovavano collocazione tutti quei locali di servizio, quali depositi secondari, rimesse, fienile, stalla e forno per il pane. E, raramente, su uno dei due lati consecutivi a quello della residenza, erano poi realizzati alcuni gruppi di residenze minori, formati da vani indipendenti, che affacciavano direttamente sul cortile, i quali venivano ceduti dal proprietario della corte ai contadini e braccianti pigionali, che prestavano opera nell’azienda agricola”6. O’ luog 209 210 Irrilevato A sinistra dall’alto San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, studio ambientale. San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, pianta del piano terra. San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, sezioni. In basso Casapulla (Ce), edificio in via Fiume: rilievo, piante. San Prisco (Ce), edificio in via Pola: rilievo, sezioni. O’ luog San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, prospettiva. A destra dall’alto San Nicola La Strada (Ce), edificio in via De Gasperi: rilievo, assonometria. San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, assonometria. San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia: rilievo, assonometria. 211 212 Irrilevato I disegni di rilievo sono stati eseguiti nell’ambito del corso di “Rilievo dell’architettura”, tenuto nell’anno accademico 2000-01 da Paolo Belardi nella facoltà di Architettura della Seconda Università degli Studi di Napoli, dagli studenti Angelo Abbate, Michele Alterio, Francesca Balduani, Franco Barbato, Maria Caiazzo, Raimondo Ciocchi, Ermelinda Clarino, Achille Corcione, Emanuela Di Guglielmo, Umberto Di Pietro, Luigi Foglia, Ester Frongillo, Maurizio Giancarli, Maria Rosaria Golia, Vincenzo Graziano, Gianmaria Mingione, Antonio Pino Munno, Mauro Nuzzo, Libera Palmieri, Michele Piccirillo, Annunziata Puca, Alessandra Sgueglia, Imma Sparaco. Note M. Rendina, Caratteri delle città dell’agro capuano-aversano, Vitulazio 1994, p. 70. 2 “Le origini e i primi sviluppi del tipo ‘a corte’ vanno rinvenuti nell’area romana e nella versione arcaica del tipo ‘domus’ perdurante in epoca storica nelle ‘chortes’ rurali [...] Nella sua matrice la storia della ‘domus’ si innesta e si fonde con la casa ‘recinto’ indeuropea” (G. Caniggia, Strutture dello spazio antropico, Firenze 1976, p. 45). Nota in proposito Benedetto Gravagnuolo che “l’analogia tra il modello ‘astratto’ della domus rustica (così come viene a definirsi in età repubblicana) e l’attuale tipo a corte non può limitarsi che a pochi elementi di fondo – che potremmo definire ‘concettuali’ prima ancora che tipologici – quali sono appunto la sostanziale ‘introversione’ dell’impianto compositivo e la finalità ‘difensiva’ della chiusura dell’aia (protetta sia dagli agenti atmosferici che dalle invasioni di estranei). Su questo schema di partenza si è ovviamente innestata l’evoluzione storica delle tecniche costruttive che, pur nella tendenziale iteratività propria dell’universo contadino, ha finito con l’introdurre non pochi elementi di sviluppo tipologico” (B. Gravagnuolo, Architettura rurale e casali in Campania, Napoli 1994, p. 10). In proposito cfr. anche G. Caraci, Le corti lombarde e l’origine della corte, “Memorie della Società Geografica Italiana”, XVII, 1932, pp. 26-72; F. Castaldi, La trasformazione della “villa rustica” in rapporto alle condizioni dell’agricoltura, “Annali dell’Istituto Superiore di Scienze e Lettere Santa Chiara”, 2, 1950, pp. 226-227. 3 R. Pane, Campania. La casa e l’albero, Napoli 1961, p. 57. Per un quadro generale dell’architettura rurale campana cfr. anche R. Biasutti, Architettura rustica nella Campania, Napoli 1925; R. Pane, Architettura rurale campana, Firenze 1936; M. Fondi et al., La casa rurale nella Campania, Firenze 1964; A. Baculo, La casa contadina, la casa nobile, la casa artigiana e mercantile, Napoli 1979; C. De Seta, I casali di Napoli, Roma-Bari 1984, pp. 36-48; B. Gravagnuolo, op. cit. 4 C. De Seta, op. cit., p. 37. Peraltro “il carattere riconoscibile dei nuclei dell’agro casertano (S. Maria Capua Vetere, Casapulla, S. Angelo in Formis) è impresso dalla rigorosa geometria planimetrica degli assi stradali incrociati a 90°, quasi memore dei cardi e decumani dell’antica centuratio romana, che 1 San Nicola La Strada (Ce), edificio in via Appia. Nondimeno la tipologia della corte rurale dell’agro casertano, proponendosi “in qualità di spazio flessibile che si adegua di volta in volta al tipo di funzione che la manipolazione del prodotto agricolo richiede”7, presenta esiti architettonici solo apparentemente casuali, perché in realtà imputabili alle successive giustapposizioni. Né, d’altra parte, le diverse corti, caratterizzate spazialmente dalla disposizione occasionalmente cangiante delle scale di accesso ai vani superiori (per lo più esterne al portico e “composte da un unico rampante con un ripiano intermedio”8) e impreziosite cromaticamente dalle immancabili piante di limone addossate ai pilastri delle logge (al fine di compendiare l’esposizione al sole con la protezione dai venti), variano se le stesse risultano aggregate in isolati compatti piuttosto che isolate; trovando nella particolarissima condizione di recinto autonomo (sede deputata allo “svolgimento delle attività a cavallo tra la sfera del domestico privato e la sfera del collettivo pubblico”9 e, perciò, identificato come o’ luog nel gergo vernacolare10) una qualità ambientale, avvalorata dall’attenzione per gli aspetti bioclimatici11, e un’unitarietà architettonica, comprovata dall’immagine latente di villaggio fortificato12, che, al di là delle superfetazioni aggiunte e nonostante le continue manomissioni, appaiono tuttora integre e riconoscibili. O’ luog dà luogo ad un regolare tessuto edilizio di case ad un solo piano (più raramente a due) con ampio cortile interno” (B. Gravagnuolo, op. cit., p. 12). 5 R. Pane, Campania. La casa e l’albero, cit., p. 59. 6 A. Cantile, Dall’agro al comprensorio. Principali elementi della dinamica urbana e territoriale di Aversa e del suo antico agro, “L’Universo”, 6, 1994, p. 164. 7 F. Ulisse, Tipologia edilizia ricorrente in Campania Felix, in R. Penta (a cura di), Campania Felix. Segni strutture e permanenze ambientali. Documentazione tematica e metodologie di lettura, Caserta 2000, p. 267. 8 R. Pane, Campania. La casa e l’albero, cit., p. 59. Sulla varietà dei sistemi distributivi nelle corti rurali campane cfr. anche C. De Seta, op. cit., p. 45. 9 Ivi, p. 43. 10 “Il cortile è lo spazio in cui arrivano, sostano ed eseguono le operazioni di carico e scarico i carri delle varie famiglie rurali abitanti nelle stanze che si affacciano ad esso [...] Nel cortile si trovano un forno, un pozzo, un’aia, un gabinetto di decenza, tutti comuni agli abitanti della corte; in esso si scontrano gli interessi di alcuni con gli interessi e la prepotenza di altri, maturano lentamente gli odi e i desideri di vendetta che sono ineluttabili conseguenze delle tristi condizioni sociali in cui è costretta a vivere buona parte delle famiglie contadine” (D. Ruocco, Sui generi di vita dei contadini della regione partenopea, in Atti del XVIII Congr. Geogr. Ital., Trieste 1962, pp. 315-321). 11 “Pur riconoscendo alcune invarianti tipologiche fondamentali, le corti tuttavia si presentano sotto molteplici ‘varianti’ morfologiche. Le varianti sono strettamente dipendenti da due elementi: la geometria dei lotti e, soprattutto, il rapporto percorsi viari, fattori espositivi. Una delle regole che è possibile infatti riscontrare spesso nei processi di formazione e crescita di questi organismi, è la presenza di una articolazione edilizia interna nella quale è possibile riconoscere, da un lato, i corpi di fabbrica che, per una migliore esposizione (soprattutto a sud), costituiscono generalmente i primi volumi realizzati destinati fin dall’inizio alla residenza, e, dall’altro, quelli che con esposizione peggiore (mono affaccio a nord, soprattutto) rappresentano i volumi realizzati in fasi successive, inizialmente destinati ad usi non abitativi (depositi, stalle, ecc.) e poi recuperati impropriamente alla residenza” (C. De Seta, op. cit., p. 43). Sulle varianti sincroniche dovute all’isorientamento solare specifico della casa a corte cfr. G. Caniggia, G.L. Maffei, Lettura dell’edilizia di base, Venezia 1979, p. 118. 12 “È nel borgo murato che nascono la scala esterna, il portico, la loggia, cioè tutti quegli elementi e quei volumi che, aggiunti al nucleo originario della torre, formano il complesso architettonico delle case rurali” (C. Greppi, Evoluzione dei modelli della casa rurale, in G. Barbieri, L. Gambi, a cura di, La casa rurale in Italia, Firenze 1970, p. 388). 213 Perugia, facoltà di Magistero, portale (Giuseppe Nicolosi, 1967): rilievo, prospetto su via Pascoli. Pagina seguente Littoria, quartiere residenziale: planimetria generale (Giuseppe Nicolosi, 1936). La necessità della libertà espressiva Architetture umbre di Giuseppe Nicolosi Quando, verso la fine degli anni quaranta, intraprende la progettazione delle sue prime architetture umbre, Giuseppe Nicolosi è già un docente universitario di chiara fama; ma, soprattutto, è un progettista reduce da importanti esperienze professionali, quali ad esempio l’attività svolta per l’Istituto Autonomo delle Case Popolari di Roma con le realizzazioni di Guidonia e Littoria (1936), la partecipazione, insieme ai componenti del mitico “Gruppo Urbanisti Romani”, a numerosi concorsi di carattere urbanistico (in particolare per i piani regolatori di Arezzo, Brescia, Cagliari, Padova e Perugia dove, nel 1932, ottiene il secondo premio) e l’espletamento di rilevanti incarichi pubblici fra cui risaltano i progetti per la sede della facoltà di Lettere di 216 Frascati (Roma), chiesa delle Scuole Pie (Giuseppe Nicolosi, 1945). A destra Perugia, Aula Magna dell’Università: disegni di studio (Giuseppe Nicolosi, 1953). Pagina seguente Perugia, Aula Magna dell’Università (Giuseppe Nicolosi, 1953-58, Archivio Fioroni). Irrilevato 218 Irrilevato Perugia, Biblioteca dell’Università (Giuseppe Nicolosi, 1953-58, Archivio Fioroni). Perugia, Aula Magna dell’Università: interno (Giuseppe Nicolosi, 1953-58, Archivio Fioroni). Pagina seguente Assisi (Pg), sistemazione dell’area antistante la basilica di Santa Maria degli Angeli (Giuseppe Nicolosi, 1952). La necessità della libertà espressiva 219 220 Spoleto (Pg), Albergo dei Duchi (Giuseppe Nicolosi, 1957). Assisi (Pg), edificio residenziale (Giuseppe Nicolosi, 1952). Pagina seguente Spoleto (Pg), sistemazione della piazza del Duomo (Giuseppe Nicolosi, 1953): rilievo, planimetria. Irrilevato Bologna (1942), il palazzo di Giustizia di Cassino (1946) e la chiesa delle Scuole Pie di Frascati (1945). Eppure lo stimolante confronto con un territorio fortemente storicizzato, come quello umbro, costituisce un caposaldo imprescindibile per un’analisi critica dell’opera nicolosiana. Infatti, quasi contraddicendo la laconica sentenza formulata da Mario Ridolfi (“in periferia siamo diventati dei cafoni”1), Nicolosi, pur cimentatosi prevalentemente con un tema necessariamente realistico e condizionato, come quello della residenza economico-popolare suburbana2, riesce ad accordare efficacemente rinnovamento e continuità storica. A ben guardare, infatti, sono proprio le tendenze ambientalistiche, ereditate sia dal profondo interesse per il pensiero crociano3 sia dalla propensione vernacolare propria della scuola romana, a temperare la concretezza positivista maturata nelle aule della facoltà di Ingegneria di San Pietro in Vincoli. Così, seppure avverso ai fautori dell’intangibilità totale e quantunque scettico nei confronti di qualsiasi mimetismo stilistico, Nicolosi, a contatto con il carattere stratificato dei centri storici umbri, rivede parzialmente i propri convincimenti sull’autonomia progettuale, abbandonando la perentorietà stereometrica a vantaggio dell’articolazione volumetrica e adattando, di volta in volta, i principi compositivi alle peculiarità dell’occasione; ma sempre in base a una personalissima rivisitazione dell’idea di luogo. Così, ad esempio, se l’Aula Magna dell’Università degli Studi di Perugia rimanda, per connotazioni e dimensioni formali, alla rigida assialità degli impianti gotici (il modello esplicito è il duomo di Gubbio), alcune declinazioni formali, quali l’asola che stacca il basamento dall’elevato, la calibrata deformazione del prospetto principale e, più ancora, i magniloquenti portali in cemento armato faccia vista che ritmano i fronti laterali, tradiscono inequivocabilmente un atteggiamento funzionalista e, con esso, la reale datazione4. D’altra parte le architetture di Nicolosi, sempre precedute propedeuticamente da ripetuti sopralluoghi in situ e da meticolose indagini bibliografiche, rendono improba una catalogazione lineare ed esaustiva, proprio per la varietà dei riferimenti: dagli echi piacentiniani che aleggiano nell’organizzazione del piazzale prospiciente la basilica di Santa Maria degli Angeli alla deco- La necessità della libertà espressiva struzione volumetrica dell’Albergo dei Duchi di Spoleto (Nicolosi non nasconde, neppure nelle proprie lezioni, una vera e propria passione per l’empirismo nordico, segnatamente per Aalto e Jacobsen), dagli ammiccamenti neorealisti che contrassegnano alcuni interventi di edilizia residenziale per l’INACasa (ad Amelia, Assisi e Petrignano) alla monumentalità con cui la chiesa dell’Immacolata di Terni si contrappone al carattere pulviscolare dell’intorno, dai preziosismi costruttivi che punteggiano le innumerevoli architetture universitarie di Perugia (basti pensare alla sensibilità con cui Nicolosi, alla maniera del Sangallo, ricostruisce e riposiziona lo storico portale cinquecentesco di Valentino Martelli) all’attenzione maniacale per i coni prospettici nella sistemazione di piazza Duomo a Spoleto; intervento che tuttavia, per l’assoluta noncuranza filologica, costituisce l’opera più soggetta a biasimi. Nell’occasione, infatti, Nicolosi concede ampi margini all’arbitrio e all’intuizione soggettiva (fino a produrre un vero e proprio “falso urbano”5), alterando la configurazione altimetrica (mediante l’introduzione di una cordonata in via dell’Arringo), rein- 221 ventando il disegno della pavimentazione (mutuata dall’esempio di Pienza in guisa di elemento ordinatore) e, addirittura, proponendo l’edificazione di un nuovo edificio, a valle della piccola chiesa di Sant’Eufemia, per serrare la veduta panoramica della facciata del duomo6. Ma probabilmente l’opera che meglio compendia le qualità e i limiti dell’attività umbra di Giuseppe Nicolosi è l’Accademia anatomico-patologica di Perugia7. L’edificio universitario di via del Giochetto, infatti, che peraltro suggella la lunga collaborazione instaurata con il rettore Giuseppe Ermini8, rappresenta una sorta di testamento spirituale perché, pur riaffermando tecniche compositive ampiamente collaudate da Nicolosi nella precedente attività professionale (“il frammentarsi dei volumi, il prevalere del pieno sul vuoto, l’immagine di massa muraria compatta e forata con lievi irregolarità da bucature di diverso taglio”9), denuncia un’insospettabile vena ironica e, seppure inconsapevolmente, anticipa alcuni vezzi postmoderni, ostentando una maliziosa ambiguità tra l’enfasi monumentale dell’impianto volumetrico (esaltata dallo zoc- 222 Irrilevato La necessità della libertà espressiva Perugia, Accademia anatomico-patologica (Giuseppe Nicolosi, 1971): rilievo, prospetti. Pagina precedente Perugia, Accademia anatomico-patologica (Giuseppe Nicolosi, 1971): rilievo, piante. 223 224 Perugia, facoltà di Scienze (Giuseppe Nicolosi, 1959): particolare. In alto a destra e sinistra Perugia, Accademia anatomico-patologica (Giuseppe Nicolosi, 1971): particolari. Perugia, facoltà di Magistero, cortile interno (Giuseppe Nicolosi, 1965). Irrilevato La necessità della libertà espressiva colo basamentale) e il carattere ludico dell’immagine complessiva (che allude a una bizzarra arca della scienza), tra il monotono rigore razionalista dei fronti laterali e gli scarti dinamici delle falde di copertura; con una propensione per il decorativismo e per la discontinuità che, se apparentemente sembra contraddire la proverbiale avversione di Nicolosi per i manierismi gratuiti, in realtà affonda le proprie radici nella necessità di libertà espressiva rivendicata dallo stesso Nicolosi in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Perugia: un’architettura che, con la propria monumentalità, non elude il ruolo istituzionale, ma che, con le ripetute licenze compositive, “rappresenta una volontà esplicita di lasciare all’intuito dell’architetto la più assoluta libertà di mezzi”10. I disegni di rilievo sono stati eseguiti nell’ambito del corso di “Disegno”, tenuto nell’anno accademico 1997-98 da Paolo Belardi nella facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Perugia, dallo studente Dario Diarena. Note M. Ridolfi, Amara confessione, “La Casa”, 6, 1960, p. 225. Ad esempio, nell’ambito della lottizzazione del quartiere romano della Garbatella, dove “progetta i villini del lotto 51 nel 1928 e le costruzioni del lotto 27 nel 1930, Nicolosi bada maggiormente ai problemi funzionali ed ai costi di esecuzione, ritenendo che la casa popolare mantiene alcune caratteristiche della casa media che incidono notevolmente sui costi, per cui è necessario ridurre alcuni spazi che non rappresentano un reale fabbisogno” (web.tiscali.it/garbatella/l’archi5.html). 3 Sulla formazione crociana di Nicolosi cfr. M. Rebecchini, L’insegnamento di Giuseppe Nicolosi, “Rassegna di Architettura e Urbanistica”, 55, 1983, pp. 14-23. 4 Cfr. G. Ponti, Nuovo edificio per l’Aula Magna e la Biblioteca dell’Università di Perugia, “Domus”, 309, 1958, p. 49; E. Mandolesi, L’Aula Magna dell’Università di Perugia, “Costruire”, 2, 1959, p. 3; S. Polano, Guida all’architettura italiana del Novecento, Milano 1991, p. 394. 5 G.C. Leoncilli Massi, La piazza del Duomo di Spoleto, in F. Rossi Prodi (a cura di), Costruire-Decostruire, Roma 1992, p. 146. 6 Cfr. G. Nicolosi, La sistemazione della Piazza del Duomo di Spoleto, “Casabella”, 208, 1955, p. 79. 7 Cfr. E. Ivani, L’Accademia anatomico-patologica di Perugia, “Costruire”, 113, 1979, p. 1. 8 Sull’intensa attività edilizia universitaria promossa da Giuseppe Ermini cfr. G. Dozza, Università di Perugia. Sette secoli di modernità 1308-1976, 1 2 225 Perugia 1991, pp. 471-634. Peraltro, relativamente ai rapporti sinergici instaurati tra le sedi universitarie e il centro storico del capoluogo umbro, Marcello Rebecchini nota che “l’accorta e lungimirante politica edilizia, avviata fin dagli anni successivi all’ultimo conflitto, ha reso possibile il riuso di antichi edifici per gli scopi universitari. Ove possibile [infatti] sono sorte nuove strutture che, legate tra loro dal ‘continuum’ urbanistico preesistente, si confondono senza alcuna soluzione di continuità con il tessuto storico” (M. Rebecchini, Progettare l’Università, Roma 1981, p. 36). 9 M. Rebora, Architetture di Giuseppe Nicolosi per i centri storici. 1950/65, “Rassegna di Architettura e Urbanistica”, 55, 1983, p. 66. 10 G. Nicolosi, La nuova Aula Magna dell’Università degli Studi di Perugia con annessa biblioteca e sale di studio e lettura, in Inaugurazione dell’Aula Magna della Università degli Studi di Perugia, Perugia 1958, p. 1. Le ragioni dell’iconografia storica Il palazzo Della Penna di Perugia L’immagine visiva ha una sua validità autonoma come testimone della realtà e supera qualsiasi descrizione letteraria. Georg Braun Nel Liber Chronicarum, pubblicato a Norimberga nel 1493, Hartmann Schedel titola come Perusia una xilografia che peraltro, così come usuale nelle raccolte di vedute a stampa del XV secolo, è poi ripresa per illustrare anche le città di Damasco e di Mantova. Nondimeno, al di là della licenziosità della rappresentazione1 (l’antica Peroscia è ritratta come un’improbabile burg tedesca, all’interno della quale appare velleitario ravvisare una qualche rispondenza), la veduta-cliché di Schedel conferma la ricorrenza di alcune peculiarità architettoniche che, a ben guardare, trovano un effettivo riscontro nel paesaggio della Perugia tardomedievale: dai campanili svettanti sulle schiere abitative alla monumentale porta urbis che sancisce il limite tra città e campagna, dall’acquedotto pedonale in rovina, cui sono aggrappate alcune case-torri, alla poderosa cinta muraria che, così come negli schizzi di studio di Antonio da Sangallo il Giovane per l’edificazione della rocca Paolina o nella scarna planimetria di Cipriano Piccolpasso, è scandita dal ritmo regolare di alcuni torrioni fortificati; di questi, uno è addirittura sopraelevato e riutilizzato in chiave civile. Una proiezione fantastica, quella disegnata da Michael Wolgemuth e Wilhelm Pleydenwurff, che tuttavia anticipa l’evoluzione formale del curioso torrione “a caffettiera” che, ancora oggi, contraddistingue la silhouette del palazzo Della Penna nell’ambito dello sky-line perugino: un segno urbano forte, inequivocabile, che affonda le proprie radici nella memoria collettiva, rendendo il palazzo immediatamente riconoscibile nelle rappresentazioni in cui lo stesso compare nella sua versione consolidata, ma i cui prodromi edilizi, anche da un punto di vista squisitamente iconografico, rimangono di fatto enig- Perusia (Hartmann Schedel, 1493). Pagina precedente Perugia, palazzo Della Penna: rilievo, sezione e prospetto su via Vibi. matici2; seppure l’edificio insiste su un’area da sempre nevralgica, quale quella ubicata a valle dell’antica porta Marzia e a capo di borgo San Pietro, le cui intricate modificazioni si intrecciano senza soluzione di continuità con le alterne vicende della civitas3. Né, d’altra parte, risultano particolarmente illuminanti il gonfalone di Benedetto Bonfigli (1464) o quelli successivi di Giannicola di Paolo Manni (1494), di Pietro Perugino (1501) e di Berto di Giovanni (1526); perché le vedute, condotte da direzioni cardinali sfavorevoli, sono eseguite dal basso e, per- 228 Irrilevato Perusia (Matthäus Merian, 1640 ca). tanto, forniscono rare informazioni sull’effettiva consistenza del tessuto edilizio, ma ancorpiù perché, in esse, l’astrazione simbolica, praticata attraverso la selezione degli elementi architettonici emergenti, prevale ancora sulla descrizione topografica. E la rappresentazione delle aree di margine è demandata all’impatto visivo dei principali complessi conventuali (nello specifico San Domenico e San Pietro). Maggiori indizi sono invece rintracciabili nella teoria delle vedute succedutesi con continuità tra la fine del XVI secolo e la prima metà del XVII secolo; laddove la rinnovata esigenza di realismo privilegia l’uso della prospettiva aerea, affrancando definitivamente l’immagine urbana da posizioni altrimenti subordinate ad altre espressioni figurative e assurgendo essa stessa a genere autonomo, vieppiù dotato di uno specifico apparato iconico. Quan- tomeno, infatti, dall’analisi comparata di tali vedute (segnatamente le opere di Matteo Florimi, Ignazio Danti, Livio Eusebi e Daniel Meisner) e nonostante lo scarso rilievo attribuito al primitivo palazzo Della Penna (che rimane escluso dal novero dei monumenti generatori di identità urbana), risulta chiaramente individuato il varco viario corrispondente alla porta dei Funari oltre che la singolare conformazione a ventaglio del tessuto edilizio sulla cui cerniera insiste l’edificio. Ma soprattutto appare ragionevole relazionare, sia temporalmente che funzionalmente, gli ampliamenti verso valle (ivi compreso l’inglobamento del torrione) all’erezione dell’antemurale quattrocentesco lungo il fosso di Sant’Anna; l’opera voluta da Braccio Fortebracci, infatti, avanzando sensibilmente il perimetro urbano verso meridione, annulla il valore strategico- 229 Le ragioni dell’iconografia storica difensivo della soprastante cinta muraria, rendendola disponibile alla crescita edilizia e, quindi, ai processi di sostruzione. D’altra parte, in virtù del diverso punto di vista assunto (da sud-est piuttosto che da nord-est), dalle piante di Jodocus Hondius, del 1626, e di Jan Jansson, del 1657, copiosamente desunte dalla celeberrima pianta cinquecentesca di Georg Braun e Franz Hogembergh del Civitates orbis Terrarum, risalta con evidenza non solo la prosecuzione del tratto delle mura medievali oltre la porta dei Ghezzi, ma anche la cinta stessa, risultando chiaramente riconoscibili il vano della porta dei Funari, un palazzo edificato in contiguità alle mura (presumibilmente proprio il palazzo Della Penna) e, in direzione della tenaglia sangallesca, due torrioni, di cui il primo circolare, ancora integri. Così, per ravvisare la prima raffigurazione chiaramente intellegibile del palazzo, occorre chiamare in causa la sugge- stiva veduta prospettica titolata Perusia, opera del pittore Georgis Hoefnagel e incisa con tecnica esemplare da Matthäus Merian intorno al 1640, dove l’inquadratura prospettica ravvicinata favorisce una migliore definizione dei particolari architettonici. In essa, il palazzo Della Penna, seppure “costretto” tra le moli incombenti della fortezza sangallesca da un lato e della chiesa di San Domenico dall’altro, si presenta nella sua configurazione volumetrica definitiva, con la facciata meridionale sostruita sulle mura medievali e con il torrione, sopraelevato su un coronamento di beccatelli, che richiama vagamente la maniera di Francesco di Giorgio (segnatamente la fortezza di San Leo). Ormai l’immagine del palazzo Della Penna è compiuta e l’inquadratura prospettica da meridione di Hoefnagel, ripetutamente riproposta da altri autori (tra cui Vincenzo Coronelli, La Rocca Paolina e il Palazzo Della Penna (Friedrich Maximilian Hessemer, 1828). 230 Irrilevato nel 1708), trova il proprio compendio cromatico nelle vedute di Giuseppe Rossi, della prima metà dell’Ottocento; mentre altri punti di vista caratterizzano le prospettive di Baldassarre Orsini (aggiornamento delle precedenti opere del Florimi e dell’Eusebi), del 1808, di Charles Villemin, del 1844, e di Antonio Bonamore, del 1873. Ma il palazzo, sempre più relegato a un ruolo iconografico complementare, continua a essere ritratto en abîme, accidentalmente e non già come soggetto pri- Perugia, palazzo Della Penna: rilievo, piante dei piani seminterrato e terreno. A destra Veduta di Perugia (Johann Friedrich Overbeck, 1840 ca). Le ragioni dell’iconografia storica vilegiato. Infatti, se nella veduta della porta dei Funari contenuta nel manoscritto donato da don Francesco Cacciavillani al monastero di San Pietro nella prima metà del XIX secolo, il fronte meridionale è appena riconoscibile, nel raffinato disegno appuntato nel taccuino di viaggio del pittore nazareno Johann Friedrich Overbeck, il torrione è addirittura rappresentato di scorcio, al punto di tradire la natura scenografica della sopraelevazione, incompleta nella parte retrostante. E il disegno di Overbeck, sia pure inconsapevolmente, anticipa lo svilimento prospettico patito dal palazzo Della Penna a seguito dell’apertura di porta Santa Croce nel 1857. Il che emerge con chiarezza dalle cartografie topografiche ottocentesche; dalla pianta di Giovanni Gambini, del 1826, in cui il torrione quasi “ingombra” il raccordo tangenziale tra porta San Carlo e porta dei Funari, ma soprattutto dalla mappa redatta nel 1859 dall’ufficiale pontificio Costantino Forti in cui il nodo viario dei Tre Archi è risolto riducendo il fronte meridionale del palazzo Della Penna da segnale urbano, rivolto ai flussi territoriali provenienti da sud (così come risulta da un pregevole disegno romantico dell’architetto tedesco Friedrich Maximilian Hessemer, del 1828), a quinta laterale della nuova strada postale della Cortonese. Ruolo, quello imposto dal Forti, che ancora oggi contrassegna la presenza defilata del palazzo, caratterizzato dal contrasto materico (riferibile all’intervento di restauro di Franco Minissi) tra il fronte intonacato, pressoché occultato da folte alberature, e la cortina muraria in laterizio del torrione; presenza nondimeno percepibile dinamicamente, e quindi distrattamente, dall’anello di scorrimento stradale dell’antistante via Guglielmo Marconi. I disegni di rilievo sono stati eseguiti dall’IDeA-Istituto di Disegno e Architettura dell’Università degli Studi di Perugia (direzione scientifica: Adriana Soletti; coordinamento: Paolo Belardi; rilevatori: Marco Barola, Francesca Cataliotti, Massimo Bovi). Note 1 Cfr. F. Quici, Il disegno cifrato. Ermeneusi storica del disegno d’architettura, Roma 1996, pp. 121-128. 2 Cfr. A. Soletti, Vicende architettoniche, in E. Guidoni, F.F. Mancini (a 231 cura di), Il Palazzo Della Penna di Perugia, Venezia 1999, pp. 25-31. 3 Cfr. E. Guidoni, L’area del palazzo Della Penna e le trasformazioni urbanistiche dal Medioevo all’Ottocento, in E. Guidoni, F.F. Mancini (a cura di), op. cit., pp. 17-22. Le suggestioni della complessità Il palazzo Trinci di Foligno Tra le illustrazioni selezionate da Robert Venturi per affermare, nel celeberrimo saggio Complessità e contraddizioni nell’architettura1, il proprio interesse per l’ibridazione e la trasversalità culturale, è ricompresa anche la facciata secondaria del duomo di Foligno, proposta dall’autore, al pari della cappella Medicea nella chiesa fiorentina di San Lorenzo e alla cattedrale di Granada, come esempio di “adiacenza violenta”. Evidentemente però Venturi, durante il suo soggiorno folignate dei primi anni cinquanta, non aveva avuto modo di visitare l’interno del pur contiguo palazzo Trinci, perché altrimenti non avrebbe omesso di citarlo. Infatti il palazzo nuovo, voluto da Ugolino Trinci sull’antica platea Fulginei per contrapporsi anche simbolicamente alle autorità consolidate2, riassume con la propria irripetibilità (imposta dalla rifusione dei casamenti preesistenti3) molti tra i gradi di complessità e di contraddizione cui Venturi riconosce valenza estetica: dall’ambiguità (l’impianto romanico rivestito da una carteratura gotica) alla facciata-maschera (il fronte in stile anteposto tra il 1841 e il 1847), dal ruolo gerarchico dell’elemento di transizione fra pubblico e privato (il cortile, vero e proprio vestibolo alla scala urbana) alla presenza del fenomeno “e-e” (la scala gotica, al contempo elemento di comunicazione verticale e luogo privilegiato di percezione prospettica) fino alla sublimazione dell’horror vacui (gli splendidi cicli pittorici che, affrescando senza soluzione di continuità le pareti degli ambienti principali, producono una straniante opulenza cromatica). Nondimeno, proprio perché Venturi nel suo saggio s’ispira esplicitamente al metodo comparativo di Jean Labaut (e, più in generale, ai principi dell’école des Beaux-Arts), palazzo Trinci avrebbe costituito un pretesto ideale per ulteriori speculazioni referenziali in quanto, seppure a lungo misconosciuto dalla critica ufficiale, costituisce uno straordinario mix architettonico, che contamina la solida compassatezza delle Foligno (Pg), palazzo Trinci, scala gotica. Pagina precedente Foligno (Pg), palazzo Trinci: rilievo, sezioni. 234 Irrilevato prime residenze signorili del nord dell’Italia (segnatamente quelle milanesi dei Visconti e quelle ferraresi degli Estensi) con le disinibite sperimentazioni protorinascimentali praticate da Matteo di Giovannello Gattapone in Umbria4. Nel cortile principale del palazzo folignate, infatti, trapelano alcune soluzioni, formali (il ritmo ordinato dei pieni e dei vuoti) e costruttive (la propensione per l’arco a tutto sesto), ragionevolmente mutuate dal cortile del Collegio di Spagna di Bologna attraverso la mediazione del chiostro della chiesa perugina di Santa Giuliana oltre che del cortile d’onore della rocca albornoziana di Spoleto; soluzioni che peraltro, seppure puntualmente rivisitate in chiave civile, tradiscono un’austerità latente, forse di derivazione militare, comunque mai soppiantata dal- 235 Le suggestioni della complessità l’episodicità delle rare concessioni ornamentali (che non a caso, come suggerito dal Salmi5, recuperano stilemi già peculiari del palazzo dei Consoli di Gubbio). Ma non è tutto; perché palazzo Trinci, al di là delle variegate ipotesi avanzate sulla sua evoluzione edilizia6, rappresenta uno straordinario compendio dell’architettura umbra storica; laddove il climax escheriano che si respira nella scala gotica (la cui definizione è riferibile alla fine del XIV sec.) anticipa l’ipogeismo artificiale della rocca Paolina di Perugia e, con esso, l’ingegnosità delle rampe sovrapposte che, a Orvieto, scavano il pozzo di San Patrizio; mentre l’incorporamento delle torri preesistenti e l’integrazione con l’intorno mediante cavalcavia pedonali rimandano alle altrettanto intricate vicende costruttive del palazzo dei Priori di Perugia. Ma ancorpiù è l’incongruenza tra la programmata scenograficità del fronte ottocentesco su piazza della Repubblica e l’occasionalità spaziale dell’interno a chiamare in causa quella conflittualità latente tra forma e struttura che, nell’Umbria della prima metà del XIX secolo, contrassegna altre importanti espressioni di derivazione vanvitelliana7; espressioni addirittura capaci di proporsi, nell’insieme, come modello operativo. A ben guardare infatti la rinnovata facciata di palazzo Trinci, unitamente a quelle di palazzo Ranghiasci di Gubbio e del limitrofo palazzo Dall’alto Foligno (Pg), palazzo Trinci: rilievo, prospetto su piazza della Repubblica. Foligno (Pg), palazzo Trinci: rilievo, sezione. Pagina precedente Foligno (Pg), palazzo Trinci: veduta aerea. Foligno (Pg), palazzo Trinci: cortile maggiore. 236 Irrilevato residenza signorile dei Trinci, che di per sé precorre la coincidenza tra palazzo e città auspicata da Baldassarre Castiglione per le dimore principesche, non avrebbe potuto lasciare indifferente il giovane Robert Venturi, perché particolarmente sensibile alla lezione implicita in ogni manifestazione architettonica concreta, anche non illustre9, purché capace di perseguire la difficile unità dell’inclusione piuttosto che la facile unità dell’esclusione. I disegni di rilievo sono stati eseguiti dall’IDeA-Istituto di Disegno e Architettura dell’Università degli Studi di Perugia (direzione scientifica: Adriana Soletti; coordinamento: Paolo Belardi; rilevatori: Luigi Daniele, Monica Maggiorana, Leonardo Staccioli). Note R. Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura, Bari 1980, p. 73. 2 Nota in proposito Patrick Boucheron: “è attraverso la pianificazione architettonica che l’urbanistica signorile si appropria dell’antica sede del potere comunale [...] I palazzi pubblici risultavano in tal modo accerchiati da edifici di prestigio (logge, portici) e da costruzioni destinate ad accogliere la nuova burocrazia. Così, facendo del centro civico il teatro della loro magnificenza, i signori lo onoravano e al tempo stesso lo neutralizzavano, trasformando un luogo nel quale si prendevano decisioni politiche in uno spazio di rappresentazione e di amministrazione” (P. Boucheron, Le cittadelle del potere, “Medioevo”, 10, 2000, p. 54). 3 “From the last quarter of the fourteenth century on, the leading merchants and the urban nobility began building town palaces of much greater size. The chief problem, soluble through preponderant economic and political power, was the acquisition of adequate building plots in the old cities that were crowed with the narrow houses of an earlier area” (H. Saalman, Medieval cities, New York 1968, p. 44). 4 Sull’opera umbra di Matteo Gattapone e in particolare sull’attribuzione allo stesso del chiostro della chiesa di Santa Giuliana a Perugia e del cortile d’onore della rocca di Spoleto cfr. A. Serra Desfilis, Matteo Gattapone, arquitecto del colegio de España, Bologna 1992, rispettivamente alle pp. 169-171 e alle pp. 57-74. In proposito cfr. anche M. Belardi, Il palazzo dei Consoli a Gubbio e il centro urbano trecentesco, Perugia 2001, pp. 101-113. 5 Cfr. M. Salmi, Gli affreschi del Palazzo Trinci a Foligno, “Bollettino d’Arte”, XII, 1919, fasc. 9-12, p. 141. 6 Cfr. in proposito L. Lametti, Il palazzo dalle preesistenze all’Unità d’Italia, in G. Benazzi, F.F. Mancini (a cura di), Il Palazzo Trinci di Foligno, 1 Foligno (Pg), palazzo Trinci: rilievo, pianta del piano terra. Foligno (Pg), palazzo Trinci: rilievo, pianta del primo piano. Comunale di Foligno, “fondano localmente un nuovo tipo edilizio e risolvono in modo deciso e disinibito due ordini di problemi: quello della riconsiderazione di valori rappresentativi ed estetici negli interventi su parti della città storica [...] e quello dell’applicabilità del linguaggio neoclassico nella ristrutturazione di edifici medievali, ricchi di irregolarità e dissimmetrie”8. E, certo, la complessità genetica di un edificio, come la Le suggestioni della complessità Perugia 2001, pp. 51-104. 7 Per un quadro generale sulla diffusione del linguaggio neoclassico in Umbria cfr. J. Garms, Architettura folignate tra barocco e neoclassico, in Piermarini e il suo tempo, Milano 1983, pp. 83-91. 8 P. Micalizzi, Storia dell’architettura e dell’urbanistica di Gubbio, Roma 1988, p. 208. 9 Cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas. The forgotten symbolism of architectural form, Cambridge Mass. 1977. 237 La vitalità delle strade Dalla via dell’Acquedotto di Perugia alla Circumvallazione esterna di Napoli Per sua stessa natura, un qualsiasi fatto urbano deve necessariamente evolversi come struttura dialettica; secondo cioè continue modificazioni che lo stesso, pur concepito in origine come compiuto, è costretto, se usato, a subire nel tempo. Avviene così che alcune parti di città, crescendo dinamicamente su se stesse, assurgono a un ruolo primario nella geografia urbana non solo in virtù della mera permanenza topografica, ma anche e soprattutto per la complessità, d’immagine e di contenuti, determinata dalle successive integrazioni1; particolarmente quando queste, dettate dal contingente piuttosto che dalle convenzioni codificate, innescano la trasformazione delle tipologie consolidate in organismi inediti; ancorpiù nelle non rare occasioni in cui il nucleo propulsore dei processi modificatori è rappresentato da una strada, sia essa pedonale o carrabile. Basti pensare al caso emblematico di via dell’Acquedotto a Perugia2, parte di un’articolata infrastruttura idraulica che, realizzata nel XIII secolo con lo scopo di rifornire la Fontana Maggiore con l’acqua proveniente da monte Pacciano, ha perso progressivamente la propria funzione originaria fino a trasformarsi, sulla spinta dell’uso quotidiano, in un prezioso collegamento pedonale pensile fra l’area degli insediamenti universitari, il quartiere della Conca e l’acropoli cittadina (tanto da essere dotato, nel 1821, di un parapetto atto a garantire la sicurezza dei passanti). Nel caso di via dell’Acquedotto, infatti, più che la configurazione originaria, ciò che risalta è proprio la contaminazione delle successive modificazioni, lo straordinario intreccio di adiacenze e di sovradiacenze, di arcate murate e di cortine interrotte; il tutto complicato e amplificato da interi corpi di fabbrica aggiunti che, quasi aggrappati al manufatto duecentesco, suggeriscono un ampio repertorio di varianti tipologiche3. Se isolato, nessuno degli elementi architettonici sopracitati risulta di particolare pregio; neppure, tutto som- Perugia, via dell’Acquedotto ai primi del XX secolo (Archivio Lemmi). Pagina precedente Casoria (Na), sopraelevata della Circumvallazione esterna: rilievo, esplosi assonometrici. 240 Atrani (Sa), viadotto della strada costiera. Evora (Portogallo), acquedotto romano. Pagina seguente dall’alto in basso La joute des mariniers entre le Pont Notre-Dame et le Pont au Change (Nicolas Raguenet, 1756). Corigliano Calabro (Cs), acquedotto del ponte Canale. Firenze, ponte Vecchio (Archivio Brogi). Pitigliano (Gr), acquedotto Mediceo. Irrilevato mato, il manufatto duecentesco (gli archi sono irregolari e le campate non scandiscono un ritmo riconoscibile, mentre la struttura muraria, per quanto restaurata intorno alla metà del XVI secolo da Vincenzo Danti, risulta di modesta fattura). Eppure la straordinaria impressione trasmessa dall’insieme ne convalida la monumentalità; perché via dell’Acquedotto, pur in assenza di un disegno programmatico, presenta una straordinaria unitarietà compositiva, al contempo ricorrente (per le modalità costitutive) e irripetibile (per gli esiti formali), in cui si confrontano, e si integrano, il pubblico e il privato, la scala territoriale e quella architettonica. Irripetibilità e ricorrenza sembrano quindi costituire altrettanti caratteri che, contestualmente a quello della permanenza, concorrono a saldare in un tutt’uno il manufatto architettonico e il luogo di fondazione, le vicende storiche dell’urbs e quelle della civitas, nello specifico l’immagine di via dell’Acquedotto e quella della stessa Perugia. Laddove il carattere dell’irripetibilità è giustificato dalla considerazione che difficilmente, e comunque non senza incorrere in un atteggiamento vernacolare degenere, è possibile concepire unitariamente, cioè con un solo atto progettuale e in un solo tempo, l’assetto formale attuale dell’antica via perugina. Pur pregevoli, ad esempio, né la strada pensile di via Por Santa Maria, proposta da Italo Gamberini per la ricostruzione di Firenze, né i percorsi pedonali sopraelevati realizzati da Giancarlo De Carlo nel villaggio Matteotti di Terni presentano una ricchezza e una complessità paragonabili con il precedente perugino; mentre il carattere della ricorrenza rimanda alla tipicità, e quindi alla necessità, di processi analoghi. Infatti, se ad Atrani il viadotto della strada costiera ingloba le abitazioni sottostanti e se a Evora gli alloggi s’incuneano nelle arcate dell’acquedotto romano, le città preindustriali sono spesso caratterizzate dalla tipologia del pont-maison4. “Un tempo quasi tutti i ponti delle città erano coperti da solidi edifici. Fin verso il Settecento, furono fiancheggiati su entrambi i lati da file di case, alte a volte sino a cinque piani. Era quasi impossibile distinguerle da normali isolati. Ogni tanto un’apertura tra le case permetteva di dare un’occhiata al fiume; se no non ci si sarebbe neanche accorti di essere su un ponte. A Parigi il Pont Notre-Dame, il Pont Saint-Michel e il Pont au Change erano un tempo dei La vitalità delle strade 241 242 ponts-maisons [...] e il Ponte Vecchio di Firenze è ancora oggi una strada di gioiellieri [...] Il ponte sull’Arno è l’ultimo dei ponts-maisons”5. Un esempio, quello fiorentino, in cui “le piccole casette che si aggrappano alle campate sull’acqua come rifugi sulle rocce creano una strana confusione, quasi che l’elemento più artificiale (la regola del ponte) si facesse natura mentre le parti più organiche (le casette) divenissero l’elemento architettonico ed artificiale emergente”6. Purtuttavia, nonostante le evidenti analogie con la tipologia del pont-maison, e con ponte Vecchio in particolare, il caso di via dell’Acquedotto va incluso nella categoria delle strade pedonali pensili, che per lo più rimanda proprio al riutilizzo di infrastrutture idrauliche cadute in disuso. Molteplici peraltro gli esempi Irrilevato tuttora riscontrabili nei centri storici italiani: dall’acquedotto del ponte Canale a Corigliano Calabro (eretto nel XV secolo e convertito nell’Ottocento in un viadotto pedonale che scavalca la sottostante via Roma) all’acquedotto Mediceo di Pitigliano (edificato nel XVI secolo su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane e successivamente inglobato nel palazzo degli Orsini) fino all’acquedotto di re Manfredi a Sulmona (che incornicia scenograficamente piazza Garibaldi). E, a ben guardare, la principale peculiarità dell’acquedotto perugino, così come a Corigliano Calabro, a Pitigliano e a Sulmona, risiede proprio nella capacità di regolare i processi di urbanizzazione, catalizzando, se non addirittura condizionando, l’evoluzione morfologica dell’intorno; il che tradisce più di un’analogia con La vitalità delle strade Casoria (Na), sopraelevata della Circumvallazione esterna: rilievo, pianta. Pagina precedente Sulmona (Aq), l’acquedotto di re Manfredi ai primi del XX secolo (Archivio Di Renzi). Pagina seguente Casoria (Na), sopraelevata della Circumvallazione esterna: particolari. 243 un’infrastruttura apparentemente distante (sia geograficamente che temporalmente), ma in realtà apparentata per la propensione ad assurgere a fattore di addensamento dei processi edificatori e, con essi, di profondi mutamenti morfologici, quale la Circumvallazione esterna di Napoli: un’arteria viaria a scorrimento veloce, realizzata a più riprese tra il 1956 e il 1970 e concepita come collegamento tra le aree orientali (CasoriaCercola) e quelle occidentali (Lago Patria-Lufrano) dell’hinterland napoletano, lungo la direzione mare-città; un’infrastruttura che peraltro, meglio nota come “doppio senso” (in origine le due carreggiate erano separate da uno spartitraffico continuo di quasi tre metri) oltre che come “strada degli Ame- 244 Irrilevato di circa dieci metri, dove si sono insediate innumerevoli attività ambulanti. Ma ancorpiù la singolarità paesaggistica della “strada degli Americani” è riferibile alla sopraelevata del tratto industriale di Casoria, “che cambia il modo di usare la strada e gli spazi circostanti, sottolinea il taglio nei centri urbani, esaspera l’abitudine alla velocità; sancisce definitivamente il cambiamento di significato della strada e il compromesso raggiunto con l’abitato”10. Il raddoppio in altezza dell’asse viario, infatti, se da un lato ritaglia aree di margine che tradiscono una conflittualità latente tra la stabilità dei massicci elementi costruttivi dei viadotti (rampe, piloni, travi, barriere antirumore ecc.) e la provvisorietà degli elementi minuti propri di una qualsiasi area industriale (manifesti pubblicitari, parcheggi, aree di accumulo, bidoni della spazzatura ecc.), dall’altro definisce una sorta di galleria urbana dove, inferiormente all’impalcato, trovano riparo funzioni tra le più disparate, per lo più alloggiate in container e box prefabbricati. Come a Evora e ad Atrani; ma anche come nel progetto di François Signeur per il recupero dello spazio sottostante allo svincolo Frais-Vallon dell’autostrada tangenziale di Marsiglia11. In fondo, nonostante lo scarto epocale, sono proprio gli accostamenti improbabili, come quelli di via dell’Acquedotto di Perugia e della Circumvallazione esterna di Napoli, a dimostrare che “è proprio dalla necessità di districarsi tra i vincoli che rasentano l’assurdo [...] che possono scaturire le soluzioni inedite, le invenzioni originali”12. Forse perché l’anima delle strade13, da sempre “luogo della luna”14 (ovvero simbolo della bizzarria e della licenza), è di per sé una straordinaria “camera degli echi delle passioni umane”15. ricani” (perché fu proprio il governo degli Stati Uniti a stanziare parte dei fondi necessari per un’infrastruttura indispensabile all’accessibilità della base NATO di Lago Patria)7, è diventata nel tempo un gigantesco shopping-mall lineare ovvero una variopinta “strada mercato attorniata dalle figure dell’atopia e del fuori scala”8. Soprattutto a causa dei frequenti, quanto magniloquenti, incroci a raso, intorno ai quali si sono addensati i contenitori atipici prodotti dall’ibridazione tra spazio del commercio e spazio della residenza9, nonché delle fasce di rispetto che bordano i due lati della strada per una profondità I disegni di rilievo sono stati eseguiti nell’ambito del corso di “Rilievo dell’architettura”, tenuto nell’anno accademico 2000-01 da Paolo Belardi nella facoltà di Architettura della Seconda Università degli Studi di Napoli, dallo studente Tommaso Iazzetta. Note La vitalità delle strade Secondo Carlo Aymonino la qualità di un qualsiasi fatto urbano è riconoscibile proprio “nella contraddizione esistente fra l’assunto iniziale (il motivo per cui sorse il monumento) e la realtà continuamente mutevole dell’uso che viene fatto di tale eredità (come di tutte le eredità)” (C. Aymonino, Il significato delle città, Roma-Bari 1975, p. 6). 2 Cfr. A. Soletti (a cura di), L’acquedotto medievale di Perugia, Perugia 1992; A. De Felice, L’antico acquedotto della Fonte di Piazza di Perugia. Dal 1254 al 1932, Perugia 1995. 3 Lungo via dell’Acquedotto “il tessuto urbano [...] si presenta molto ‘denso’, avendo quasi saturato i relativi spazi di risulta, e caratterizzato da isolati a blocchi compatti [...] La tipologia esclusiva è quella della schiera che nella maggior parte dei casi ha subito forti trasformazioni interne ed esterne per accorpamenti di lotti originari e/o sopraelevazioni delle preesistenze [...] In generale, comunque, gli edifici costruiti in adiacenza al percorso si caratterizzano per la maggiore complessità tipologica derivante dalle molteplici possibilità di accesso, su più livelli e fronti, dipendente a sua volta dalla funzione pedonale del tracciato. L’originario tipo a schiera è diventato, dopo la pedonalizzazione e a seguito di sopraelevazioni e trasformazioni varie, un ibrido tra il tipo ‘in linea’ nei casi in cui è rimasta una scala interna di collegamento tra i vari piani e quello ‘a ballatoio’, dove tale funzione è espletata dall’acquedotto” (F. Masciarelli, Influenze dell’uso pedonale dell’acquedotto sullo sviluppo tipologico dell’intorno urbano, in A. Soletti, op. cit., pp. 91-92). 4 R. Pefano, Per una storia dei ponti, “Hinterland”, 33/34, 1985, p. 17. Sulla storia dei ponts-maisons cfr. anche J. Dethier, Storia e attualità del ponte abitato, “Rassegna”, 48, 1991, pp. 10-19. 5 B. Rudofsky, Strade per la gente, Roma-Bari 1981, pp. 165-167. 6 B. Minardi, Ruderi e rottami-Progetti sovrapposti, “Lotus International”, 32, 1981, p. 89. 7 Cfr. A. Vollaro, Infrastrutture e forma del territorio, Napoli 1999; F. Ippolito, P. Maisto (a cura di), La strada degli Americani, Napoli 2000. 8 R. Lucci, Prefazione, in A. Vollaro, op. cit., p. VIII. 9 Per lo più “non vi è sostanziale differenza tra la forma della casa e la forma dello spazio di vendita, se si eccettua la presenza della cartellonistica pubblicitaria. Fanno eccezione a questo stato di cose i grandi contenitori commerciali che in tempi recenti si sono collocati ai margini della strada: in questo caso la dimensione dell’oggetto, la forma, il carattere dell’involucro hanno un carattere di eccezionalità tale da poter fare a meno del supporto pubblicitario. L’edificio è il simbolo di se stesso, riconoscibile per il colore della facciata o la grafica che spesso ricopre le superfici esterne, identificando l’appartenenza a catene di vendita e a settori morfologici specifici. Le modalità di esposizione del prodotto contraddistinguono il contenitore vetrina dal contenitore scatola e spesso le due tipologie sono compresenti; allo spazio di stoccaggio e al magazzino si affianca l’area destinata alla commercializzazione e alla vendita. L’edificio in questa parte si smaterializza fino al punto da annullare la facciata, trasformandosi in una superficie espositiva aperta su strada: divani, e lampadari fanno bella mostra di sé ai lati 1 245 delle carreggiate, estroflettendo lo spazio interno ben al di là della parete vetrata. Al contrario, generi alimentari e abbigliamento sono custoditi in duri forzieri di cemento che non alludono minimamente al prodotto, limitandosi a mostrare le insegne luminose di questa o quella catena di supermercati. È possibile ricondurre le figure citate a tre tipi fondamentali, il contenitore, in cui non vi è sostanzialmente relazione con l’esterno, lo showroom o edificio vetrina, dove il tema centrale dell’esposizione del prodotto interessa la gran parte dell’edificio, e il capannone, che a differenza del contenitore ha minori propensioni alla vendita al dettaglio ed assume la forma tipica di luogo di produzione. In vari modi tutte e tre le figure si compongono tra di loro e con la residenza dando origine a complicati insiemi organici che alludono al prototipo del centro commerciale” (C. Finaldi Russo, Appendici, in F. Ippolito, P. Maisto, a cura di, op. cit., p. 46). Sulle potenzialità espressive della città diffusa cfr. M. Zardini (a cura di), Paesaggi ibridi, Milano 1999. 10 F. Ippolito, La strada degli Americani, in F. Ippolito, P. Maisto, a cura di, op. cit., p. 10. 11 Cfr. A. Rocca (a cura di), Atlante. Il nuovo paesaggio delle infrastrutture in Europa, “Lotus International”, 110, 2001, p. 138. 12 C. Giammarco, A. Isola, Disegnare le periferie. Il progetto del limite, Roma 1993, p. 95. 13 Cfr. S. Anderson (a cura di), Strade, Bari 1982. 14 G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scultura et architectura, VI, Milano 1584, p. 27. 15 B. Rudofsky, op. cit., p. 123. Villa di Briano (Ce), chiesa di Maria Santissima Assunta in Cielo (XVIII sec.): rilievo, prospetto. Il rilievo è stato eseguito nell’ambito del corso di “Rilievo dell’architettura”, tenuto nell’anno accademico 2000-01 da Paolo Belardi nella facoltà di Architettura della Seconda Università degli Studi di Napoli, dagli studenti Antonella Branca, Antonietta Cimmino, Salvatore De Angelis, Luigi Trama. Finito di stampare nel mese di novembre 2001 da Litoart, Città di Castello per conto di QUATTROEMME Editore, Perugia