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Berni, la crisi, il contagio Un’ontologia metaforica della malattia di Giorgio Forni A Paolo Carinci 1. Dicembre 1532, in osteria sul Po Non mi pare sia stato ancora osservato come i capolavori veronesi di Francesco Berni, il Capitolo del prete da Povigliano, i due della Peste e quello in laude d’Aristotele, nascano nel 1532 a contatto con due grandi protagonisti della scienza medica del Rinascimento, impegnati forse già in quegli anni in un dibattito sulla nozione di contagio che coinvolge da una parte proprio la febbre pestilenziale e dall’altra, indirettamente, l’epistemologia aristotelica. Nella primavera del 1532 il Berni esponeva a Girolamo Fracastoro il «caso» burlesco del prete da Povigliano: «Udite, Fracastoro, un caso strano, / degno di riso e di compassïone». Sul finire di quello stesso anno il Berni lascerà Verona per Firenze in compagnia di un discepolo ambizioso e agguerrito del Leoniceno come Giovanni Battista Da Monte. In margine a una lettera di osservazioni astronomiche, il Fracastoro registrava la partenza dei due giovani dalla cerchia austera eppure tollerante del vescovo Gian Matteo Giberti, tratteggiando un’inquietudine comune, un’affinità di carattere, forse un’amicizia se al nome già autorevole del Da Monte si associa subito quello eccentrico del Berni: Inter nos nihil est novum, nisi recessus Montani nostri. Is factus est familiaris medicusque Cardinalis Medices salario aureorum 200, et nunc cum eo Bononiae degit cum Francisco Bernia, qui et ipse ab Episcopo nostro ad eundem Cardinalem migravit. Ii ubi fortuna plurimum habitat ac pollet, se contulere; quae si bona cesserit, optima etiam esse poterit; mala vero ubique est1. 1 G. Fracastoro, A. Fumani, N. d’Arco, Carminum editio II, Patavii, Excudebat Josephus Cominus, MDCCXXXIX, t. I, p. 43 degli Operum fragmenta («Ad Petrum Sontium Corcyrensem. Ineunte anno 1533»): «Fra di noi non vi è nulla di nuovo, se non la partenza del nostro Da Monte. Egli è diventato servitore e medico del cardinale Ippolito de’ Medici per un salario di 200 aurei, e ora con lui soggiorna a Bologna con Francesco Berni, che si è trasferito anch’egli dal nostro vescovo a quel medesimo cardinale. Insieme essi si recarono ove abita e ha potere maggiormente la fortuna; la quale, se si mostrerà benevola, potrà anche essere ottima; ma ovunque è cattiva». INTERSEZIONI / a. XXX, n. 1, aprile 2010 45 Giorgio Forni Anche il viaggio non era stato affatto agevole come attesta una lettera del Berni al cardinale Ippolito de’ Medici in data 19 dicembre 1532: Che venga il canchero alle barche, al Po, all’Adice et a Ferrara et al Bondino, non mi trovai mai in tanta susta! Chi ne dice una chi un’altra: chi che a Malalbergo è una pescaia, che tiene in collo quante barche si son partite da Ferrara e da Bologna da quindici dì in qua; chi che si passa, chi che non si passa. Non fu mai la più dolce festa! Dall’una banda mi costrigne amore, dall’altra la pigion della bottega: l’amor vuol ch’io venga; la pigione dice ch’io son pazzo, che non c’è furia; che voi avete ben tanta discrezione, che sapete che saremmo stati costì già otto giorni, se si potesse venire. Meo Buoi è di questa opinione largamente. Medicus est in voto, come filosofo e come medico. Messer Giovan Maria da Callino, come soldato, vorrebbe volare super pennas ventorum; io vorrei stare in letto, discrucior animi, e, non sapendo che altro farmi, starò finalmente a veder piovere; ché piove tanto e tanto, che par che l’elemento dell’acqua sia stato portato sopra quello dell’aria2. Nel 1532 il Berni aveva 35 anni e andava verso gli intrighi dei palazzi fiorentini e una morte anzitempo nel 1535, si sospettò per avvelenamento; il Da Monte ne contava 34 e aveva di fronte a sé una carriera lunga e infaticabile di medico e insegnante presso lo Studio padovano (le sue opere apparvero quasi tutte postume, consegnandolo all’Europa come maestro insieme rigoroso e aggiornato, un secondo Galeno già a detta del Fracastoro). Ma lasciamoli ora là nel mezzo del cammino, sotto le piogge battenti. Per intendere appieno la rilevanza dell’incontro fra medicina rinascimentale e poesia burlesca conviene infatti considerare l’evento entro una prospettiva di lunga durata. 2. Malattia e medicina da Ippocrate al Medioevo Nella storia della medicina si avvicendano due fondamentali rappresentazioni della malattia che giungono a compenetrarsi solo in età moderna. Con Gerald Holton si potrebbe parlare di un grande théma e antithéma della teoresi medica3: da una parte il concetto di un’entità patogena estranea al corpo, dall’altra quello di uno squilibrio interno che sovverte le funzioni vitali. Per noi oggi non si tratta più di contrapporre le teorie ontologiche che insistono sulla localizzazione del male e le teorie dinamiche che studiano invece gli scompensi nell’armonia complessiva della salute. Ma chi si provi a tracciare un prospetto cronologico delle diverse interpretazioni del 2 F. Berni, Poesie e prose, criticamente curate da E. Chiòrboli, Genève-Firenze, Olschki, 1934, pp. 329-330. 3 Cfr. G. Holton, The Scientific Imagination, Cambridge, Cambridge University Press, 1978, trad. it. L’intelligenza scientifica. Un’indagine sull’immaginazione creatrice dello scienziato, a cura di F. Voltaggio, Roma, Armando, 1984, pp. 16-54. 46 Berni, la crisi, il contagio corpo sofferente ritrova questo durevole antagonismo già nel passaggio originario attraverso cui la medicina greca si costituisce come scienza. Agli albori della pratica medica, la malattia appare come qualcosa di esterno e demoniaco che entra nel corpo, una possessione che il rito magico può debellare. A detta di Henry Ernest Sigerist, nello schema reversibile del maleficio la medicina egizia generalizzava probabilmente l’esperienza orientale delle affezioni parassitarie: rigettare vermi era segno di guarigione4. In contrasto con il rituale purificatorio, la medicina greca elabora viceversa, come annota Georges Canguilhem, una concezione non ontologica ma dinamica della malattia. Per Ippocrate lo stato patologico è il disturbo di un’armonia di natura, scaturisce da un equilibrio alterato degli umori corporei: esso riguarda quindi l’uomo nella sua interezza e individualità, impone di osservare il modo di vita, le abitudini, la dieta, l’abitazione, il clima. Le circostanze ambientali definiscono una varietà di occasioni concomitanti, non la singolarità ostile di una causa esteriore: la malattia nasce dall’interno, nel lento accumulo di un fluido in eccesso, e la guarigione comporta di adeguarsi a rimedi razionali per ripristinare l’ordine nativo degli umori5. Secondo Galeno l’attività dell’anima e i processi della vita sono possibili in quanto il corpo ha attitudine ad alterarsi e la salute consiste nell’azione continua e riequilibrante di qualità contrarie: il medico non deve quindi studiare le cause della malattia, quanto quelle del risanamento. La medicina antica non concepisce il male come un corpo a sé, un principio autonomo che si radica nell’essere, ma come mancanza e disordine da cui è necessario purgarsi. La patologia umorale di Ippocrate si moltiplica e si cristallizza nella teoria dei quaranta tipi costituzionali di Galeno: una sistematica dell’uomo anziché delle malattie, una classificazione dei temperamenti e non dei morbi. Per secoli la domanda del medico non sarà ‘qual è la malattia?’, ma ‘che tipo di uomo è questo? contro quali affezioni deve stare in guardia?’. Porre ordine significa adeguarsi a un regime, obbedire a regole prescrittive e sperimentate. Non si tratta tuttavia di un quadro concettuale inerente solo all’età antica. Nella concezione cristiana della salvezza il rapporto analogico tra sanitas corporis e salus animae ribadisce e consolida l’idea classica della medicina come antropologia del malato. A un linguaggio terapeutico di remota ascendenza religiosa («eccesso», «purgare») corrispondono ora le metafore mediche del discorso penitenziale. Cipriano di Cartagine, Gregorio di Nazianzo, Eusebio di Cesarea accolgono la 4 Cfr. H.E. Sigerist, Einführung in die Medizin, Leipzig, Thieme, 1931, trad. it. Introduzione alla medicina, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 109-133: 111-112. 5 Cfr. G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Paris, PUF, 1966, trad. it. Il normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998, pp. 15-19, e M.D. Grmek, Il concetto di malattia, in Storia del pensiero medico occidentale. 1. Antichità e Medioevo, a cura di M.D. Grmek, Bari, Laterza, 1993, pp. 323-347. 47 Giorgio Forni teoria ippocratica della malattia e la pongono alla base della dottrina del peccato e della purgazione ascetica. Gregorio di Nissa ricorre alla nosologia e alla terapeutica di Galeno per spiegare razionalmente l’efficacia della penitenza. Così, lo storico Pedro Laín Entralgo ha potuto ritrovare nel cristianesimo primitivo la «construcción de una teoría de la penitencia analogicamente fundata sobre la patología y la terapéutica antigua»6. Il malato appare all’origine della malattia: è il suo modo di vivere intemperante e antigienico che genera lo stato patologico. Lo squilibrio vizioso degli umori mette a repentaglio l’integrità del corpo: provoca gonfiori ove proliferano per generazione spontanea vermi, pulci, cancri, pustole; abbandona anzitempo l’uomo ai morsi della morte (una diffusa paraetimologia medievale associa la «morte» al «morso» del peccato); fa risorgere l’animalità demoniaca che cova nella carne; svela l’alterità maligna della materia corporea. Lungo il Medioevo le metafore animali della malattia non codificano un’aggressione dall’esterno, ma lo scatenarsi di un’animalità perversa e non sorvegliata, come punizione o come prova. Ancora nel tardo Medioevo ha pieno corso l’adagio su Ippocrate «per medelam corporum deducit ad medelam animarum». Tuttavia la nozione greca e medievale di malattia comportava due effetti teorici che nel Rinascimento si imporranno come problemi scientifici decisivi: l’irrilevanza del contagio e la mutevolezza dei morbi. Consideriamo i due aspetti separatamente. 3. Il problema dei contagi Non è che l’antichità non abbia immaginato la possibilità di particolari fenomeni di contagio. Ma era piuttosto lo statuto stesso della nuova scienza medica a porre fuori causa ogni ipotesi di trasmissione interumana delle malattie: ai suoi margini potevano sussistere solo eccezioni relegate tra una congerie di eventi anomali e curiosi. Nei Problemi attribuiti ad Aristotele la nozione di contagio figura tra i fenomeni di sympatheia: così lo sbadiglio e il riso si diffondono per imitazione istintiva, la presenza dell’acqua favorisce l’urina, l’oftalmia si propaga attraverso lo sguardo di chi ne è infetto, la scabbia attraverso il contatto cutaneo, la peste per il calore che divampa da un corpo all’altro (Problemi VII e I, 7: di qui prenderà le mosse 6 Cfr. P. Laín Entralgo, El cristianismo primitivo y la medicina, in Historia universal de la medicina, Barcellona, Salvat, 1972, vol. III, pp. 1-7: 4. Sul rapporto tra medicina greca e dottrina cristiana valide indicazioni sono offerte da J. Agrimi e C. Crisciani, Medicina del corpo e medicina dell’anima. Note sul sapere del medico fino all’inizio del secolo XIII, Milano, Episteme, 1978; K.-H. Leven, Medizinisches bei Eusebios von Kaisareia, Düsseldorf, Triltsch, 1987; O. Temkin, Hippocrates in a World of Pagans and Christians, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 126-177. 48 Berni, la crisi, il contagio il Fracastoro del De sympathia et antipathia rerum). Galeno stesso menziona come caso limite l’eventualità che particolari stati morbosi si trasmettano per contatto di qualità venefiche e vi associa l’esempio insolito della torpedine capace di folgorare non solo direttamente ma anche attraverso l’arpione e quello della calamita in grado di attrarre una serie di pezzetti di ferro sospesi l’uno all’altro (De locis affectis VI, 5). La nozione arcaica della malattia come aggressione e parassitosi tuttavia non scompare e sopravvive anzitutto come residuo metaforico: essere colpiti, combattere, difendersi... Ma nel suo persistere quell’immagine primitiva resta però al di fuori della razionalità medica: tra le avvertenze per costruire una perfetta azienda agricola Varrone sconsiglia la vicinanza a luoghi palustri da cui si spandono in aria minuscoli animali invisibili che infettano il corpo attraverso il respiro (De re rustica I, 12: «crescunt animalia quaedam minuta, quae non possunt oculi consequi, et per aera intus in corpus per os ac nares perveniunt atque efficiunt difficilis morbos»). Nulla di paragonabile si trova tra le pagine dei medici e non ha torto il Fracastoro quando insiste sulla propria originalità di teorico dei contagi: gli antichi quasi non se ne occuparono, come cacciatori che nel concentrarsi su certe prede lasciano inesplorate molte piste («non aliter quam qui in venationibus multorum predas sectantur, multa obiter intacta pretereant necesse est»)7. Insomma, porre al centro il contagio interumano significava mettere in questione un intero sistema di conoscenze. Proviamo a segnare una linea di discontinuità paragonando il De contagione et contagiosis morbis del Fracastoro (1546) con una spiegazione del fenomeno epidemico ancora interna al pensiero di Galeno: il Consilio contro la pestilenzia di Marsilio Ficino (1481). Per Ficino la pestilenza è un particolare veleno avverso allo «spirito vitale» (il corpo sottile che anima l’organismo ed è generato nel cuore dalla mescolanza di sangue e aria, pneuma zotikon), non per «qualità elementale» come «calidità, frigidità, siccità, umidità», ma per «proprietà specifica» e «contraria proporzione». Si genera nell’aria in seguito a congiunzioni astrali sfavorevoli: «constellazioni maligne», «coniunczioni di Marte con Saturno», «eclipsi de’ luminari». Per questo Galeno aveva immaginato la peste come «dragone con corpo d’aria, el quale soffia veleno contro all’uomo». Ma questo «dragone» astrale non può persistere a lungo nell’aria pura «perché tale aria è conforme allo spirito». Anche il soffio ostile della peste non è propriamente un veleno, ma «di qualità da diventare veleno»: 7 Cfr. la lettera di dedica del De contagione a Giovanni Battista della Torre scritta prima del 1534 e pubblicata in G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide (Codice CCLXXV-I, Bibl. Capit. di Verona), a cura di F. Pellegrini, Verona, La Tipografica Veronese, 1939, pp. 139 e 143. 49 Giorgio Forni lo diventa solo nei corpi «ove abbondono omori superflui, spezialmente sangue et collera», giacché «lo decto velenoso vapore non si appicca in corpo umano se non v’è omori apti alla febbre»8. Ficino si attiene ai due capisaldi del pensiero galenico sulla pestilenza: l’aria infetta e gli umori inclini a putrefarsi. Il morbo non colpisce in modo indifferenziato, ma soltanto i corpi viziosi, corrotti, pieni di «imbratti», di «omori superflui et apti ad infiammarsi», di «materia calda et umida [...] per coito et passioni d’animo». Non vi è qui una specificità della malattia («pestilenzia» vuol dire epidemia), ma una tipizzazione del corpo che si ammala. Così l’infiammarsi degli umori risulta frequente nei temperamenti caldi (sanguigni o collerici) e raro in quelli freddi (soprattutto nei malinconici). «Aristotile et Galieno», annota Ficino, «dicono ch’e’ corpi puri sono tali che quasi è impossibile sentino peste»9. Fracastoro porrà invece il problema del contagio come specificità della malattia e non del corpo che la patisce. Egli confuta in via preliminare l’idea che la perfetta salute sia al di fuori del potere dei contagi. Tuttavia, una volta appiccato tramite l’aria corrotta, il «fuoco» della peste cresce e si sparge «da l’uno corpo all’altro». Galeno registrava fra le cause di malattia la vicinanza dell’altrui calore (thermotēs). Ficino amplifica la metafora tradizionale dell’incendio: «benché il zolfanello pigli el fuoco più presto che ’l legno, et il legno secco et minuto più che gli altri, nientedimeno la fornace ardente accende subito le legne grosse et verdi». Nel Consilio riappare continuamente il paragone del fuoco e dello zolfo come figura della pestilenza e degli umori pronti a infiammarsi: «come el zolfo al fuoco», «molto più che ’l zolfo quando s’accende»10. Nel poemetto Syphilis sive Morbus Gallicus edito nel 1530 il Fracastoro illustra la dinamica del contagio con la metafora dell’incendio inarrestabile di un bosco. Sedici anni dopo egli discuterà quell’immagine rifiutandola nel trattato De contagione: il contagio è questione di particelle veicolate in modi e sedi peculiari; la putrefazione e la combustione toccano invece un oggetto come un tutto. Per Ficino, al culmine dell’epidemia vi è però anche un contagio interumano dovuto a «qualità» affini. Galeno raccomanda prudenza a chi assiste un malato di peste. Per Ficino il pericolo risiede nella «similitudine di natura»: il male passa «da suggetto simile al simile», come avviene quando «due citare o due corde sono in sulla mede- 8 Cfr. M. Ficino, Consilio contro la pestilenzia, a cura di E. Musacchio, Bologna, Cappelli, 1983, pp. 55, 56, 66 e passim, e C. Galeno, Opera omnia, editionem curavit C.G. Kühn, Hildesheim, Olms, 1965, vol. VII, pp. 289-290. Con rara metafora zoomorfa Galeno non parlava di «dragone» ma di «belva» (therion) della pestilenza: ibidem, vol. XIV, pp. 280-281. 9 Cfr. M. Ficino, Consilio contro la pestilenzia, cit., pp. 59 e 107. 10 Cfr. ibidem, pp. 58, 60, e C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. VII, p. 282. 50 Berni, la crisi, il contagio sima tempera» e il «suono dell’una risponde nell’altra»11. Anche qui Fracastoro traspone il concetto di similitudine dal malato alla malattia: è la malattia che ha un’analogia specifica con l’organo che infetta. Quando si afferma che Fracastoro ragiona ancora entro un universo analogico di simpatie, non si considera questo fondamentale slittamento di nozioni dall’uomo alla malattia, dal microcosmo al corpuscolo: «tenuissima corpuscola», «particulae quae visum effugiunt»12. 4. Classificare le malattie Altro problema nuovo che prende rilievo nel Rinascimento è quello di una classificazione dei morbi. Entro il paradigma medico greco non poteva sussistere una separazione netta fra entità nosologiche distinte perché il concetto di malattia come perturbazione quantitativa e qualitativa dei quattro umori implica infinite possibilità di combinazione. Alla variabilità estrema dei singoli casi corrisponde uno schema uniforme: lo stato patologico consiste in un accumulo nocivo che la natura cerca di espellere attraverso la cozione e la crisi. Allorché si definisce la malattia attraverso i sintomi critici del suo decorso, si elabora un concetto solo operativo e prognostico della patologia umorale. Lo svolgersi dei segni corporei non conduce a riconoscere il profilo costante di tipologie morbose sempre uguali a sé stesse: indica al medico lo squilibrio da correggere, la strada da seguire, i tempi d’intervento. Non si pone allora se non marginalmente un problema tassonomico. Tra Quattro e Cinquecento compare invece l’esigenza nuova di una classificazione delle malattie. Due sono gli orientamenti che emergono in forma ancora imperfetta: il concetto clinico come semiotica di enti astratti e il concetto eziologico come ontologia di enti concreti. In polemica «contra illum maxime Veronensem nostrum, qui ausus est scribere de contagio» (il Fracastoro), Giovanni Battista Da Monte ripropone fedelmente la tradizione galenica, ma insiste sulla «peritia signorum». Non a tutti i segni può attribuirsi infatti identico valore: si tratta di distinguere tra la malattia, le sue cause, i sintomi primari, concomitanti e accidentali («morbus», «causa», «symptoma», «passio», «accidens»). Accanto ai «signa communia», valutabili solo se organizzati in insiemi coerenti («syndrome signorum»), vi sono inoltre i «signa pathognomonica», caratteristici di specifiche malattie. 11 M. Ficino, Consilio contro la pestilenzia, cit., p. 106. Sul concetto di «simpatia» nel Fracastoro resta fondamentale P. Rossi, Il metodo induttivo e la polemica antioccultistica in Gerolamo Fracastoro, in «Rivista critica di storia della filosofia», IX, 1954, pp. 485-499. Per la categoria di microcosmo in rapporto al sapere analogico rinascimentale si veda almeno M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, trad. it., Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 44-48. 12 51 Giorgio Forni Così la costrizione dei ventricoli cerebrali («constrictio ventriculorum cerebri») è indice indubitabile ed esclusivo di epilessia «quia nullus morbus habet hoc accidens». La pleurite si riconosce da una costellazione patognomonica di cinque segni: difficoltà di respiro, febbre continua, tosse, polso vibrante, dolore pungente. Al corpo ammalato come «ens reale» si tratta di sovrapporre l’idea astratta della malattia come «ens rationis», dalla «res signata» al «signum». Proprio l’analisi dei segni permette di ridurre le «species innumerae» dell’anomalia individuale a un catalogo speculativo di «species specialissimae». Vi è allora la possibilità di trattare le malattie come enti separati13. Già per Galeno il termine pathognōmikos deve applicarsi a ciò che denota univocamente la malattia14. Va però segnalato come nel Da Monte la distinzione tra segni comuni e patognomonici non sia qualitativa, ma pienamente relazionale: «Haec igitur relatio dum fit, pathognomica vocantur»15. Lo stesso segno può assumere o meno valenza patognomonica a seconda della figura in cui si iscrive: ora solo probabile e indicativa, ora certa e indivisibile come si trattasse di un unico segno peculiare. Nei suoi ultimi anni così scriveva Girolamo Cardano riguardo ai cinque segni della pleurite: «ognuno è inseparabile dall’altro, nessuno di essi è di per sé indicativo, ma tutti insieme compongono un unico segno caratterizzante» («omnia sunt inseparabilia, nullum eorum per se est proprium, sed omnes simul efficiunt unum signum proprium»)16. Come osserva lo storico Giorgio Cosmacini, anche la lezione del Da Monte è all’insegna di tale rinnovamento metodologico: Montano è probabilmente il primo a impartire l’insegnamento medico in una corsia d’ospedale, non più solo in aula, e a far esaminare i malati dai suoi studenti. L’esposizione del testo galenico si continua, ma metodologicamente si discontinua, nell’investigazione, nella pratica osservativa. Montano ripete più volte: «come io vi feci osservare», «come aveste occasione di osservare», «come ieri vi ho fatto osservare». Osservazione è un più attento ascolto e una più attenta ispezione del malato. La priorità e l’originalità del metodo sembrano sottendere un salto epistemologico di qualità. 13 Cfr. G.B. Da Monte, Lectiones in secundam Fen primi Canonis Avicennae, Venetiis, Ex Officina Erasmiana Vincentij Valgrisij et Balthesaris Constantini, MDLVII, pp. 428, 418, 27, 33-34, 42-43, 50-53, 147, 156 e passim. A una dettagliata confutazione delle tesi del Fracastoro sui contagi sono dedicate le lezioni XXXII-XXXV (ibidem, pp. 418-467). Per i segni patognomonici della pleurite si veda G.B. Da Monte, Opuscula varia ac praeclara, Basileae, Per Petrum Pernam, MDLVIII, t. I, p. 114. Sul Da Monte si fa ora riferimento a N.G. Siraisi, Medicine and the Italian Universities, 1250-1600, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2001, pp. 216-225. 14 C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. XIX, pp. 351 e 395. 15 Cfr. G.B. Da Monte, Medicina universa, ex lectionibus eius [...] studio et opera Martini Weindrichii Vratislaviensis, Francofurdi, Apud Andreae Wecheli heredes, Claud. Marnium, & Ioann. Aubrium, MDLXXXVII, pp. 51 e 352-353. 16 G. Cardano, Opera omnia, cura Caroli Sponii, Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud, 1663, t. X, p. 398. 52 Berni, la crisi, il contagio Cosmacini ricorda fra l’altro la prolusione di Giovanni Rasori Sul metodo degli studi medici del 1808: «Io onoro la memoria del nostro Montano, che fin dalla prima metà del secolo decimosesto istruiva gli alunni suoi al letto dell’ammalato nello Spedale di Padova, celebratissimo in tutta Europa per la medica istruzione»17. Su questa traccia, Cosmacini giunge a chiedersi come mai la clinica del Da Monte e l’anatomia di Andreas van Wesel non abbiano dato luogo a quella sintesi anatomo-clinica avviatasi solo a fine Settecento: La vera incognita, storiografica ed epistemologica, è questa: perché, a metà Cinquecento, dalla compresenza in Padova della pratica medica di Montano, innovatore del metodo clinico, e della pratica settoria di Vesalio, innovatore del metodo anatomico, non si innesca la rivoluzione anatomo-clinica di cui lo stesso Vesalio si è fatto annunciatore? Non pare difficile rispondere. Nonostante Da Monte considerasse Vesalio «lumen totius artis Anatomicae», vero è che la distinzione del corpo malato come «ens reale» e della malattia come «ens rationis» poneva clinica e anatomia su piani differenti18. Di contro, al Fracastoro non era certo estranea l’indagine anatomo-patologica di organi e tessuti infetti: «factis dissectionibus quorundam vidimus... »; «factis item dissectionibus [...] cernebatur»19. Uno degli episodi decisivi della medicina rinascimentale potrebbe consistere allora nella contesa fra Da Monte e Fracastoro e nel rifiuto tardo cinquecentesco di ogni ontologia della malattia. In effetti, nel Fracastoro non troviamo una dottrina dei segni, bensì una teoria delle cause. Di fronte ai contagi, anziché dispiegare intorno al malato un quadro di ragionamenti astratti («eas rationes, quas demonstrationes appellant»), occorre piuttosto chiedersi quali siano le cause reali di fenomeni così estesi («quaerendum est quibus e causis fiant»). Ma anche vagliare unicamente le cause «universalissimae» e «remotissimae a rebus» non si confà che agli ingegni «ignavi et rustici»: ricondurre tutto alle stelle dimostra solo una certa «negligentia inquirendi». Al contrario, senza far ricorso agli influssi astrali già screditati e derisi nei Dies critici20, il proposito del Fracastoro è quello di spiegare le malattie indagando le cause «propinquiores 17 Cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale, 1348-1918, Bari, Laterza, 1987, pp. 78-79, e G.B. Da Monte, Explicatio locorum medicinae, Parisiis, Apud Franciscum Bartholomaeum, 1554, c. 237v: «Haec Montanus Patavii in hospitali sancti Francisci legit, exercens scholares in practica, anno 1543, mense Aprili». 18 Cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., pp. 84-86, e G.B. Da Monte, Lectiones in secundam Fen, cit., pp. 45-46 e 50-53. 19 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, Venetiis, apud Iuntas, MDLV, cc. 122v e 127r. 20 Cfr. ibidem, cc. 69r («ridicula»), 69v («hoc ridiculum est», «risu dignum»), 70v («ridiculum certe est», «ridendum fore») e passim. 53 Giorgio Forni et particulares» fino a spingersi, per quanto possibile, verso quelle «propinquissimae et propriae» («ad proprias niti»)21. Tutta la natura appare percorsa da movimenti incessanti di attrazione e repulsione, da forze di «concordia» e «dissidentia» tra elementi anche minimi («minimorum actio»). Così Fracastoro allegava al De contagione uno studio De sympathia et antipathia rerum in funzione di «commentarium» dimostrativo: «sine quo natura contagionum plane perquiri et monstrari posse non videbatur». Affinché si possa verificare il fenomeno della simpatia occorre infatti ammettere una condizione specifica e preesistente negli attraenti e negli attratti: un’analogia di natura («non omnia agunt in omnia, sed certa in certa solum quae analoga dicuntur»). Ciò vale anche per i contagi: alcune malattie non colpiscono ovunque, ma organi, umori, tessuti particolari; altre si propagano solo in determinate specie animali o vegetali. L’analogia diviene allora principio distintivo: «contagionum autem analogiae multiplices quidem sunt». L’idea di un contagio corpuscolare caratteristico appare a un tempo causa e criterio unitario della malattia epidemica. Le patologie infettive sono fermentazioni locali degli umori del corpo provocate da un fattore esterno: particelle materiali e specifiche («seminaria»), corpuscoli invisibili che agiscono come un veleno, ma sono in grado di nutrirsi e moltiplicarsi riproducendo da un individuo all’altro la medesima tipologia morbosa: «seminaria [...] consimilia sibi alia ceu sobolem procreant, quae ad alium delata contagionem inferunt». Possono formarsi al principio per generazione spontanea dagli umori corrotti, ma si trasmettono poi per contagio indipendentemente dallo stato di salute di chi si ammala. Anche i tre modi del contagio (per contatto, tramite un veicolo infetto, attraverso l’aria) dipendono dalla varia sottigliezza o vischiosità delle «parvissimae particulae»: alcune più penetranti, «subtiliora et acrimoniae maioris»; altre più resistenti, «lenta et glutinosa». A partire dalla nozione di contagio vivo e di trasmissibilità interumana dei «seminaria» Fracastoro delineava così alcuni rudimentali quadri clinici di morbi infettivi: il tifo esantematico, la sifilide, il vaiolo, il morbillo, la lebbra, la rabbia, la tubercolosi, la difterite, l’afta epizootica. I «seminaria» costituiscono un nuovo principio epistemologico22. Anzitutto i corpuscoli del contagio valgono come principio unificante di decorsi patologici anche assai differenti: la medesima malattia può infatti presentarsi con segni variabili e diversificati. Annota Ludwik Fleck in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico: «C’erano però anche medici che dubitavano della stessa esistenza della sifilide in generale. Leggiamo infatti in uno scritto del secolo XVI: “Dicunt itaque nonnulli haud extare Gallicum morbum, sed esse nostrorum 21 22 54 Cfr. ibidem, cc. 123r e 78r. Cfr. ibidem, cc. 78r, 110r, 112v, 108v-110r e passim. Berni, la crisi, il contagio hominum illusionem quandam. Nam quod Gallicum dicimus aiunt esse diversas affectiones”»23. Nonostante i quadri clinici eterogenei (pustole, dolori muscolari, gommosità), Fracastoro afferma invece l’unicità della patologia sifilitica: «Ma l’origine (principium) di tutte queste cose è unica, cioè i germi (seminaria) del contagio, per cui anche la malattia è una sola. Infatti, seppure di per sé altra manifestazione morbosa sia la comparsa di pustole, altra il dolore muscolare, altra le gommosità, poiché tuttavia tutte dipendono da un unico principio, anche la malattia è da dirsi unica»24. A individuare la malattia non è la trama costante dei segni, ma la causa riposta da cui si originano, «causas principiaque». Anche il Fracastoro distingue tra sintomi generici e specifici: «Comuni (communia) sono: la pienezza, l’ingorgo, il cattivo stato degli umori e altri sintomi di questo genere; caratteristici (propria) poi sono i germi stessi del contagio»25. Nel De contagione la metafora vitale diviene un principio di spiegazione. Agli agenti infettivi si applicano verbi come «enasci», «generare», «procreare», «gigni», «propagari», «extingui», «vivere», «enecari», «repelli». Fracastoro attribuisce ai «seminaria» un’azione a un tempo materiale e vivente: «non materialem solum antipathiam ad calorem naturalem, et ad animam ipsam, sed et spiritualem». I corpuscoli patogeni infettano il corpo «per propagationem et quasi sobolem»; si riproducono uguali a se stessi: «sobolem procreant»; sono dotati di movimento in parte attivo e autonomo: «partim quidem per se est, partim ab alio datur»; hanno vita latente: «quasi per semen perpetuatur»; capacità di nascondersi: «se condi»; si nutrono: «pabulo quodam», «serpente contage per massam sanguinis, et pabulum sibi faciente in phlegmate», «habet [...] digestionem suam»; invecchiano: «quasi in senio existente contage», «senium iam huius morbi»; muoiono: «extingui», «enecari». Quantunque si neghi generalmente la somiglianza con i batteri moderni essendo il nostro concetto di vita differente da quello rinascimentale, sta di fatto che Fracastoro attribuisce ai «seminaria» invisibili i caratteri di corpuscoli viventi26. Così ad esempio egli recupera la metafora ovidiana 23 L. Fleck, Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache, Basel, Schwabe & Co., 1935, trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 53. 24 Cfr. G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., pp. 178, 86 e 126: «Principium autem omnium unum est, hoc est seminaria contagionis, quare et morbus unus: et si enim alius per se morbus sit pustula, ac alius lacertorum dolor, alius gummositates, quoniam tamen omnes uno a principio dependent, morbus etiam unus dicendum est». 25 G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 133r. 26 Cfr. G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., pp. 50, 92, 86, 125, e Id., Opera omnia, cit., 117v, 109v, 112v, 108v, 127r, 110v, 127v, 133v e passim. Diffusa ma ben poco fondata è invero l’opinione che il Fracastoro non supponga funzioni vitali nei germi del contagio, come ripete anche di recente il bel volume di A. Parodi, Storie della medicina, Torino, Edizioni di Comunità, 2002, p. 150, secondo cui «Fracastoro non dice che i seminaria sono esseri viventi», ma essi risulterebbero invece «più simili ad atomi, cioè a particelle fisiche non 55 Giorgio Forni del pascolo della malattia (Metam. VIII, 876: «gravi nova pabula morbo»). Per Da Monte infatti è questa la condizione primaria del vivente: «quod vivit necessario nutritur, nisi enim nutriatur nullo pacto vivere poterit». Ma, prima che nel discorso scientifico («semina [...] pabulo quodam se propagant»), la metafora figurava già nel poemetto Syphilis del 1530 (II, 76-77: «namque, ubi pasta diu, vires per pabula longa / auxerit»): non parrà allora azzardata l’ipotesi che la nuova teoria medica abbia una genesi in parte poetica27. Infatti, più che interrogarsi fino a che punto Fracastoro abbia precorso la scoperta dei batteri, bisognerebbe chiedersi qual è lo statuto del suo discorso: nonostante la similarità di procedimento inferenziale (dalla fermentazione al contagio: Fracastoro adduce l’esempio del vino che si trasforma in aceto), Pasteur ha visto i microbi, Fracastoro li ha solo immaginati 28. Finora abbiamo preso in esame alcuni testi teorici di metà Cinquecento entro il tempo lungo di svolgimenti secolari. Proviamo a ripercorrerne i quesiti e i problemi sotto il profilo di una cronologia più circoscritta e particolareggiata. 5. Dalla «Syphilis» del 1530 al «De contagione» del 1546 In epoca scettica e scientifica, Fracastoro riprende il mito dell’origine solare: da Febo è colpito Sifilo. Se ci liberiamo dal mito edenico e dall’idea di caduta, accettiamo meglio la formidabile connessione tra malattia umana e origine della vita29. Nel Rinascimento malattia e salute divengono argomento di scrittura letteraria. La salute fa il suo ingresso nel Parnaso di primo Cinquecento con il celebre Hymnus in bonam valetudinem di Marco Antonio Flaminio, imitato in volgare da Bernardo Tasso (O Dea, viventi». Per quanto i «seminaria» abbiano l’apparenza metaforica della vita, la prudenza del Fracastoro si misura con l’impercettibilmente piccolo senza decidere se si tratti di organismi viventi o di qualcos’altro: «generatio», scrive, «aut animalis aut alterius, quod formam unam et certam habet, et mistionis rationem, ac digestionem suam», «generazione o di un organismo o di altro che ha una sua forma specifica, una sua composizione materiale e un suo metabolismo» (Opera omnia, cit., 110v). 27 Cfr. G.B. Da Monte, Lectiones in secundam Fen, cit., p. 134; G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., pp. 125 e 85-86; Id., Sifilide ossia del Mal Francese, traduzione, introduzione e note di F. Winspeare, Firenze, Olschki, 1955, p. 24. 28 Ed è, si badi, un’immaginazione sovversiva sia scientificamente che moralmente. In primo luogo, a differenza del «cathalogus» del Da Monte, la nosologia del Fracastoro prevede un inventario aperto. Già allo Scaligero era parsa empietà che il poemetto Syphilis adombrasse un divenire cosmico dagli esiti impensati e la nascita di forme di vita ancora ignote. Nel De contagione Fracastoro fa più volte riferimento a malattie nuove e inattese: «venient et aegritudines aliae novae inusitataeque». In secondo luogo, uno dei cardini della polemica con il Da Monte è proprio l’asserto antigalenico secondo cui «nulla impedisce a un individuo perfettamente sano di contagiarsi» («nihil enim prohibet alicui probe sano existenti contagionem inferri»). Per Galeno infatti nessuna causa può nuocere senza una predisposizione viziosa del corpo (cfr. Opera omnia, cit., VII, p. 290). 29 G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, Milano, Adelphi, 1994, pp. 128-129. 56 Berni, la crisi, il contagio senza la quale) e da Marot (Cantique à la Deesse Santé). La malattia è invece argomento di più ardua collocazione in forme tradizionali: trova il suo luogo anzitutto nella scrittura di pazienti che esplorano la propria condizione patologica (Hutten, Strascino, Firenzuola, Bini). Nel 1519 Ulrich von Hutten pubblicava il De guaiaci medicina et morbo gallico: è il libro di un ammalato di sifilide che lamenta l’inettitudine dei medici («medicorum inscitia») e intende ragionare del proprio corpo in sfacelo «ab experientia» e «non ex libris». Pur giustificando la sua opera come «descriptio» elogiativa della pianta del guaiaco sulla traccia degli elogi antichi di ortaggi (Crisippo, Catone, Marcione, Pitagora), Hutten avvertiva la difficoltà di presentare al lettore un argomento sgradevole e macabro: «di certo non faccio nulla di vergognoso (indignum), nulla di eccessivo (immoderatum)»30. Ma intorno al 1530 i problemi della malattia e dell’igiene trovavano una singolare misura espressiva nel capitolo burlesco in forma di elogio paradossale. Limitiamoci a un prospetto sommario: Agnolo Firenzuola canta le lodi «del legno santo» (il guaiaco), Giovan Francesco Bini «del mal franzese», il Berni «della peste», Giovanni Della Casa «del forno», «del bacio» e «del martello», Giovanni Mauro «della fava», Mattio Franzesi «della tossa», «delle gotte», «dell’umore melanconico», «sopra il passeggiare», Pietro Aretino «della quartana»31. Non solo le malattie si accordano agli argomenti irrisori della poesia burlesca, ma la riflessione sorridente e stravolta assume valore terapeutico o preventivo: «il riso, le compagnie», prescrive il Fracastoro al malato di sifilide, «e tutte quelle cose che sono motivo di letizia devono esser ricercate»32. Tuttavia, il 1530 è anche l’anno in cui Fracastoro dava alle stampe il poemetto Syphilis ritraendo con serena evidenza la malinconia tormentosa del giovane malato in lotta contro l’orrore del proprio corpo. Non si trattava ancora di indagare le cause prossime e immediate, ma solo quelle lontane e recondite: «secretas quaerere caussas / aëra per liquidum et vasti per sidera Olympi» (Syph. I, 1011). Accanto ai paradossi stravaganti della malattia si dispiegava così il teatro geografico e cosmico di una Natura regolata e imperscrutabile. Nel trattato manoscritto sulla sifilide composto tra il ’30 e il ’34 e in quello sui contagi edito solo nel ’46, Fracastoro giustificherà i limiti scientifici della propria «Musa medica» affermando che il poeta ha il compito di subordinare l’argomento all’armonia idealizzante dello stile e non può quindi accogliere ogni dettaglio: «in quei versi 30 U. von Hutten, De guaiaci medicina et morbo gallico liber unus, Moguntiae, in aedibus Ioannis Scheffer, MDXIX, cc. d1v e a3v. 31 Sull’elogio scherzoso delle malattie si sofferma S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, pp. 155-165. 32 Cfr. G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., pp. 112 e 98: «risus, [parola indecifrata], conventus et id genus laeta perquerenda». Nel poemetto si parlava soltanto di «carmina» e di «chori» (Syph. II, 108-112). 57 Giorgio Forni che dedicammo a Pietro Bembo [...] toccammo alcuni di questi argomenti, quanto la poesia poté permetterlo: e, non ammettendo essa ogni cosa, fu necessario tralasciare molti particolari»33. Invero, tra il poemetto e i trattati non è solo questione di incremento descrittivo, ma di innovazione concettuale. Proviamo a precisarne i tratti. La favola eziologica del pastore Sifilo mette in gioco la domanda: perché? per quale colpa? (Syph. I, 422-423: «quid gens tua tantum / est merita?»). La malattia insorge come punizione divina dinanzi alle violenze degli uomini. Al riguardo Pietro Bembo notava la presenza ridondante di due favole similari: quella di Ilceo e quella di Sifilo. Ma è l’intero poemetto a ripetere lo schema del castigo: nel I libro si compiange il caso di un giovane aristocratico lombardo devastato dal morbo per la sua fierezza indifferente all’amore (I, 382-412) e si evocano le atrocità delle guerre d’Italia (I, 413-469); nel II libro il pastore Ilceo ha versato il sangue di un cervo sacro a Diana (II, 281-423); nel III libro i compagni di Colombo fanno strage dei pappagalli sacri al Sole (III, 151-199) e apprendono così la vicenda originaria del pastore Sifilo e della sua hybris punita (III, 288-379). Ha certo ragione Alessandra Parodi quando sottolinea come il percorso geografico dall’Europa all’America possa paragonarsi alla ricerca moderna del ‘paziente zero’ di un’epidemia34. Ma è anche un itinerario alla radice («origo») del peccato: dall’emblema polizianeo della caccia ai beni sensibili (il giovane lombardo35, il cervo ucciso da Ilceo) fino all’orgoglio temerario di Sifilo che aveva osato «eguagliarsi agli dei» (Syph. III, 340-341 e 296-320). La malattia ha che fare con la colpa dell’uomo, il rimedio è un dono divino (Syph. II, 11-12; III, 357-360). Inoltre, rispetto alla prosa dimostrativa dei trattati, il poemetto si avvale di una sintassi cauta e irresoluta, tra movimenti ipotetici, interrogativi, dubitativi: «Dic, dea, quae caussae [...]?» (Syph. I, 32); «num [...]?» (Syph. I, 33); «igitur [...] putandum est [...]?» (Syph. I, 41); «At vero, si rite fidem observata merentur, / non ita censendum [...]» (Syph. I, 53-54); «nonne vides [...]?» (Syph. I, 66 e 286); «ni fallor» (Syph. I, 79). Così, ad esempio, l’efficacia terapeutica del mercurio è spiegata con un susseguirsi di ipotesi differenti, quasi a suggerire l’inafferrabilità di ogni esatta cognizione causale (Syph. II, 270-280). I versi del Fracastoro si limitano a descrivere i tratti visibili della sifilide e i suoi rimedi empirici: «un giorno per certo ai nostri 33 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 125v, e Id., Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., p. 67. 34 Cfr. A. Parodi, Storie della medicina, cit., pp. 151-152. 35 Qualche utile raffronto con il Poliziano è suggerito da R. Ruggiero, La «Syphilis» di Girolamo Fracastoro e le «Stanze per la giostra», in «Schede umanistiche», 2001, 1, pp. 73-97: 86-90. 58 Berni, la crisi, il contagio nipoti arrecherà giovamento aver letto e aver conosciuto i segni e l’aspetto dell’epidemia (signa et faciem pestis)» (Syph. I, 312-313). Infine, benché fin dall’esordio si parli di «semina» (Syph. I, 1), il poemetto non delinea però una teoria del contagio, ma la tradizionale dottrina astrologica e aerista secondo cui gli influssi astrali corrompono l’aria che, inspirata dai singoli individui, provoca l’epidemia (Syph. I, 183-184: «marcescere [...] aera»; I, 283: «affecti semina caeli»). I «semina» della Syphilis non sono ancora i «seminaria»: si tratta solo di una metafora dei miasmi nocivi, legittimata dall’atomismo poetico di Lucrezio e da un’immagine occasionale e isolata di Galeno (tina loimou spermata)36. L’influenza degli astri verrà invece posta in dubbio nei Dies critici e relegata sullo sfondo nel De contagione («per accidens», «probabiliter»). Così, proprio la similitudine dell’incendio di Syph. I, 45-52 diviene motivo di riflessione e di ripensamento al principio del trattato sui contagi, nell’eludere l’opposizione aristotelica di sostanza e accidente: È noto che tutti i fenomeni attivi e passivi operano o sulla sostanza dei corpi, o sulle loro qualità accidentali (aut circa rerum substantiam fieri, aut circa accidentia). Tuttavia non diciamo, se non per metafora (nisi per transumptionem), che qualcuno abbia subìto l’azione del contagio per essere stato riscaldato da un altro (calefactus ab alio), o reso vizioso. Si direbbe perciò che il contagio sia un’infezione della sostanza stessa dei corpi. Ma parliamo forse di contagio quando una casa è incendiata da una vicina in fiamme? Come non si può parlare di contagio in tal caso, così in genere non si può parlare di contagio quando il secondo corpo è stato totalmente distrutto dal primo, ma piuttosto quando l’infezione si produce in particelle minime e impercettibili (in particulis minimis et insensibilibus) e comincia da esse. [...] L’incendio dunque sembra agire sul tutto, il contagio al contrario sulle particelle componenti il tutto (circa particulas componentes), quantunque ciò non impedisca che ben presto il tutto sia da esse corrotto. Dunque il contagio pare una certa affezione dei corpi misti (mistorum passio quaedam)37. Al modello analogico dell’incendio subentra nel De contagione la metafora sovvertitrice dei corpuscoli vitali: in essa infatti è implicito il rifiuto della spiegazione dei fenomeni epidemici in termini di riscaldamento esposta da Galeno38. La malattia non consiste più solo nell’alterazione della forma o nella disarmonia del temperamento, ma acquisisce lo spessore di un corpo infinitesimo: «particulae», «corpuscula», «seminaria». Era invece concettualmente ben più vago e sfumato il preziosismo descrittivo della Syphilis contro cui, subito dopo la princeps del 1530, si cimentava il riso capriccioso e inquieto della poesia burlesca. Nel suo elogio «della caccia», Giovanni Mauro 36 C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. VII, p. 291. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 105r. 38 Cfr. C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. VII, pp. 289-294. Ma si veda altresì V. Nutton, The seeds of disease. An explanation of contagion and infection from the Greeks to the Renaissance, in Id., From Democedes to Harvey. Studies in the History of Medicine, London, Variorum Reprints, 1988. 37 59 Giorgio Forni allude con pungente ironia ai consigli medici del poemetto contrapponendo la caccia omosessuale alla rischiosa agricoltura eterosessuale: le fatiche della ‘coltivazione’ generano soltanto le bolle policrome e le vesciche rilucenti della sifilide... Mietonsi i frutti dopo gran lavoro: come a dir quei smeraldi, e quelle gemme, che ha cantato il divin Fracastoro39. Ma la battuta più tagliente sul piano teorico è forse quella del capitolo di Giovan Francesco Bini «in lode del mal franzese» giacché sottolinea sorridendo l’assenza di un chiaro modello esplicativo che non sia di ordine morale: Che principio non ha, si può provare da’ versi che n’ha fatto il Fracastoro, che son sì dotti, e non lo san trovare40. Affiora qui una contrapposizione fra la dottrina dei medici e l’esperienza dei malati nella traccia già segnata da Hutten: «Neque enim edocti docemus haec, sed experti monemus» 41. Ma quel che importa notare è come proprio la ricerca del «principio» divenga di lì a poco, nell’officina scientifica del Fracastoro, il motivo chiave del trattato manoscritto sulla sifilide elaborato fra il ’30 e il ’34: esso si propone infatti di esporre «causas principiaque novi morbi». «Mi sembra», dichiara nell’esordio il Fracastoro, «che tutti abbiano ignorato i principi dei contagi (principia contagionum): e avendo io fatto al riguardo lunghe indagini e avendone anche scritto42, poiché l’argomento non era stato trattato finora da nessuno, mi sono reso ben conto che a causa dell’ignoranza in materia tutti coloro che osarono scrivere sulla sifilide furono assai manchevoli intorno a un punto fondamentale (magno quodam in principio)». Principio patogeno della sifilide non può dirsi l’aria corrotta perché la malattia si trasmette solo «ex cohitu»: «Ea vero contagio neque ad distans fit, hoc est per infectionem äeris in quo conversatur laborans». Così l’ipotesi dei «seminaria» si precisa sul filo di un’indagine del «principio»: «principia [...] et semina contagionis»; «manifestum quidem est seminaria contagionis principium huic morbo afferre»; «Principium autem omnium unum est, hoc est seminaria contagionis»; «re ipsa et prin39 Il primo libro dell’opere burlesche, In Firenze, appresso Bernardo Iunta, MDXLVIII, p. 140. 40 Ibidem, p. 182. U. von Hutten, De guaiaci medicina et morbo gallico, cit., c. d3r. 42 Si allude a una prima stesura del De contagione, come si evince anche da G. Fracastoro, Trattato inedito in prosa sulla sifilide, cit., p. 83: «particulae insensibiles, ut in iis quae de Contagione scripsimus». Edito solo nel 1546, il progetto del De contagione è dunque anteriore al 1534. 41 60 Berni, la crisi, il contagio cipio contagionis»... Ed è su questa linea di ricerca che emerge una prima critica al modello dell’incendio interno: «Fa stupire certamente quanto i medici vanno ovunque ripetendo che l’origine (principium) del contagio sia un riscaldamento (adustionem) degli umori nel fegato, mentre tuttavia nessun organo è di per sé principio (principium) di questa malattia, se non come di fatto avviene; né propriamente si forma un riscaldamento per effetto del contagio, quantunque ciò possa avvenire nel periodo di tempo susseguente a causa della durata della malattia»43. Non è certo un dato ovvio che un medico risponda all’obiezione di un poeta: per servirsi di una categoria sociologica proposta dal Fleck, si potrebbe affermare che il collettivo di pensiero su cui verte l’argomentazione puntuale del Fracastoro non include solo la comunità dei medici, ma anche il senso comune dei poeti44. D’altro canto, la prosa scientifica del Fracastoro non sdegna in questi anni il ricorso agli strumenti anomali dell’arguzia: non vi è solo la derisione di ipotesi inattendibili [si veda la nota 20], ma anche una vena sottile di ironia che giunge nei Dies critici ora a suggerire la liberazione degli astri dalla fatica di produrre le crisi («bene erit ab eo labore Lunam et beata illa corpora liberare»), ora a evocare il dialogo straniante con un dio egizio («si Aegyptius aliquis Deus, aut Anubis, aut Osyris haec mihi dixerit...»), ora a definire con metafora scherzosa la valenza emetica e purgativa dell’opera («ostendemus quomodo, quasi fascinationibus Astrologorum lustrati, et vomere et sudare in septima et quartadecima sine Luna possimus»)45. In una lettera volgare del 10 gennaio 1534 a Giovan Battista Ramusio, dopo aver lamentato fra l’altro i silenzi epistolari del «gentilissimo Monte», il Fracastoro riconosceva la stravaganza audace e volubile delle proprie ricerche: I miei studi sono assai bizzarri. Da poi ch’io uscii di quei Eccentrici, mi ho lassato traportare nelle contagioni, di che appresso i medici si può dir niente esser trattato: essendo altramente materia piena d’infinita ammirazione, io n’ho scritto un buon trattato. Ho etiam scritto delle cause dei dì critici, a mio modo: e ho tolta questa fatica alla Luna, la quale bisognava a ognuno che s’ammalava, ogni settenario mandasse non so che al letto che fesse le crisi46. Un’altra lettera al Ramusio del 22 gennaio 1533 ci riporta ora verso il tempo dell’incontro col Berni: «ho un poco emendata, al meglio che ho potuto, quella mia cosa de morbo gallico al signor 43 Cfr. ibidem, pp. 68, 69, 83, 85, 126, 81 e passim. Per la nozione di «collettivo di pensiero» si fa riferimento a L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, cit., pp. 75-112. 45 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., cc. 66v e 67v. 46 Lettere di diversi autori eccellenti. Libro primo. Nel quale sono i tredici autori illustri, et il fiore di quante altre belle lettere si sono vedute fin qui, In Venetia, Appresso Giordano Ziletti, all’insegna della Stella, MDLVI, pp. 744-745. 44 61 Giorgio Forni M. Pietro Bembo [la Syphilis], e appresso ne ho poi scritto in prosa diffusamente, ché a me pare non ne sia ancora scritto come niente, benché diversi ne abbiano scritto»47. Nonostante i Dies critici appaiano nel 1538 e il De contagione solo nel ’46, essi prendono forma già nei primissimi anni Trenta, tra le conversazioni col Da Monte («della Mede molto ho dubitato altre volte col Monte», scrive nel gennaio del ’33) e le «strane fantasie» della poesia burlesca. 6. Berni e la «medicina di moria» Viene spontaneo chiedersi a questo punto se negli anni veronesi anche il Berni abbia preso parte con i suoi versi a un dibattito molteplice sulla malattia, tra ragione scientifica e inventiva letteraria: al Fracastoro è indirizzato infatti il Capitolo del prete da Povigliano; nel Capitolo secondo della Peste si loda invece l’ «operetta» del Bini «in lode del mal franzese». Forse la novità del Berni era proprio quella di unire parodia e analisi, riso e concetto, eccentricità e riflessione, scrivendo, per dirla col Lasca, «insieme colla penna e col cervello». Proviamo allora a verificare i capitoli del 1532 in rapporto agli sviluppi del pensiero medico. Già risulta significativo che nel Capitolo del prete da Povigliano il Berni sottoponga al Fracastoro un «caso strano» volgendo in parodia le formule del consulto medico: è il resoconto di una notte disgraziata nella sudicia stamberga di un prete balordo che culmina con l’assalto nel buio di una «turba» di «pulci, piattole e pidocchi». Così, «trafitto, punto, morso e scorticato», il poeta si ritrova al mattino coperto di «graffi, stoccate e ferite»: «di buchi avevo la persona piena, / ero io di macchie rosse tutto tinto, / parevo io proprio una notte serena»48. In chiusa del capitolo, la metafora anomala del corpo come ‘notte stellata’ pare allinearsi ironicamente ai dubbi del Fracastoro sugli influssi celesti quale causa della «crisi» patologica49. Ma anche lo schema dell’aggressione di parassiti voraci e imprendibili potrebbe ripetere e amplificare un tipico motivo burchiellesco («E le pulci, e le cimici, e i pidocchi / vollono andare a fare un desinare...») per mettere in caricatura il dibattito coevo intorno al «mal francese» (il «morbo» ricordato dal Berni al v. 119). A rendere credibile l’ipotesi è fra l’altro una pagina di Gonzalo Fernández de Oviedo, amico e corrispondente del «dotísimo varón Hierónimo Fracastor» e partecipe a distanza del dibattito scientifico tra umanisti 47 Ibidem, p. 740. Cfr. F. Berni, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985, pp. 135-138. 49 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., cc. 66r-v e, con accento scherzoso, 70v: «trahi autem humores usque ad coelum neminem dicturum arbitror, nisi si quis etiam putare possit pasci sydera, ut antiqui poetae dixere». 48 62 Berni, la crisi, il contagio veneti50. Nella sua Historia general y natural de las Indias l’Oviedo descrive «due infirmità notabili e pericolose» del Nuovo Mondo: il «mal delle bughe, cioè francese» e quello «delle nigue». Non solo per l’Oviedo – diversamente dal Fracastoro della Syphilis – il «mal francese» ha avuto «origine» nelle «Indie», si è trasferito «prima in Spagna e poi in tutte l’altre parti del mondo», ed è quindi un morbo «contagioso». Ma egli affianca alle «bughe» le «nigue», «las búas» e «las niguas»: nomi indigeni, si badi, di suono affine ed entrambi al plurale. Leggiamo la diligente traduzione del Ramusio – edita nel 1556 e dedicata al Fracastoro – con un occhio però anche al testo spagnolo dell’Oviedo: L’altra [infermità] è quella che chiamano delle nigue, la quale non è in effetto infermità, ma è un certo male a caso, perché la nigua è una cosa viva e picciolissima (una cosa viva e pequeñísima), di modo che è minor che il più piccolo pulice che si vegga; e in effetto è una specie di pulici, perché va saltando come pulice, ma è assai più picciolo. Questo animaletto va per la polvere, e dove l’uomo desidera che egli non vi sia, bisogna che vi scopi molto minutamente la casa. Egli se n’entra ne’ piedi e in ogni altra parte della persona, e per lo più nelle punte dei diti, senza esser sentito, finché si sia già collocato fra la pelle e la carne; e comincia a corrodere e mangiare (comer) forte, e quanto più vi sta più mangia, di modo che, col raspare che l’uomo vi fa (como acuden las manos rascando51), questa nigua si dà molto fretta a moltiplicarvi molti altri animaletti della spezie sua, tal che in breve vi si fa un nido; percioché, tosto che vi entra il primo, vi s’annida e vi fa una borsetta fra pelle e carne, grande quanto è una lenticchia, e piena di lentidini che tutti diventano nigue; e se per tempo non si cavano fuori con un ago o con una spingola, nel modo che si cavano i pedicelli, è una cattiva cosa, massimamente che, doppo che sono già create (che è quando cominciano molto corrodere), con il raspare si rompe la carne, e si spargono questi animaletti di modo che chi non vi sa ben rimediare vi avrà ben sempre che fare52. È un brano che il Fracastoro ha certamente letto e meditato dopo il 1530. Ma l’insistenza sul «corrodere» e «mangiare» delle «nigue» e sul «raspare che l’uomo vi fa» ricorda anche il quadro straniante e comico delineato dal Berni: Er’io un torso di pera diventato o un di questi bachi mezzi vivi che di formiche adosso abbia un mercato, tante bocche mi avevan, tanti denti trafitto, punto, morso e scorticato53. 50 Cfr. G. Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias, edición y estudio preliminar de J. Pérez de Tudela Bueso, vol. III, Madrid, Atlas, 1959, p. 334, e A. Gerbi, Oviedo e l’Italia, in «Rivista storica italiana», LXXVI, 1, 1964, pp. 55-111: 74-79. 51 Il testo spagnolo pare più vicino alla scena autolesionista descritta dal Berni: «io mi schermia, / alternando a me stesso i mostaccioni» (F. Berni, Rime, cit., p. 136). 52 Cfr. G. Fernández de Oviedo, Historia general, cit., vol. I, pp. 54-55, e G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, vol. V, Torino, Einaudi, 1985, pp. 419-420. 53 F. Berni, Rime, cit., p. 136. 63 Giorgio Forni Né deve far meraviglia questa singolare diffrazione di idee tra scritture diverse quando si immagini il conversare dotto e spregiudicato dell’ambiente veronese, così come lo ritrae ad esempio Matteo Bandello (Novelle III, 55): Piacendo a tutti la proposta del Torre, si cominciò a parlare di varie cose. Il gentilissimo Berna a mia richiesta recitò il suo piacevole e facetissimo capitolo, scritto da lui al dottissimo nostro Fracastoro, del prete del Povigliano, che più volte ci fece ridere. Disse anco alcuni sonetti i più festevoli del mondo. Era quivi messer Desiderio Scaglia, giovine di buone lettere e di modestissimi ed ottimi costumi, il quale aveva in mano gli acuti ed ingegnosi Discorsi de l’arguto messer Niccolò Macchiavelli. E pregato da tutti che alcuna cosa leggesse, ci lesse a caso quel capo il cui titolo è, che Sanno rarissime volte gli uomini esser al tutto tristi od al tutto buoni [Discorsi I, 27]. Sovra questo capo si dissero molte cose54. Poesia burlesca e prosa saggistica, capriccio e razionalità, riso e riflessione si giustappongono nel medesimo spazio dialogico. Ma passiamo ora ai capitoli della Peste, composti subito dopo quello del prete da Povigliano. Nel rileggere l’elogio della Peste uno studioso perspicace come Francesco Bausi ha notato che i Discorsi del Machiavelli non erano ignoti al Berni: entrambi gli autori ridefiniscono infatti la metafora antica dell’universo come ‘grande animale’ o ‘corpo vivente’ sulla traccia della medicina ippocratica in due brani che paiono geneticamente correlati (Discorsi II, 5; Capitolo secondo della Peste 61-75)55. Catastrofi ed epidemie, spiega il Machiavelli, liberano il «corpo misto» del mondo dall’eccesso di «abitatori», proprio come nei «corpi semplici» la «natura» fa a volte una «purgazione» salutare per espellere la «materia superflua». Secondo il Berni, la «natura» ricorre alla peste quando il «corpaccio del mondo» è oltremodo ripieno di «feccia», assumendo «una medicina di moria» che «purga i mali umor» attraverso «quel che i medici nostri chiaman crisi»56. Ma una volta istituita l’equivalenza ‘mondo-uomo’ in quanto ‘corpi che si purgano’ appare evidente come il paradosso del Berni riorganizzi quella proporzione analogica in forma per così dire aperta o imperfetta: non è più il sovrappiù demografico-umorale a costituire l’asse dell’analogia, ma l’idea antitetica di una «medicina di moria» per cui il mondo si libera dei suoi abitatori così come il corpo si libera nella «crisi» di qualcosa che lo popola (corpo del mondo: corpo dell’uomo = corpo dell’uomo : x). È un’invenzione stralunata e pungente che va 54 M. Bandello, Novelle, a cura di G. G. Ferrero, Torino, Utet, 1974, p. 768. F. Bausi, Francesco Berni lettore di Machiavelli, in «Interpres», 2001, n. 20, pp. 309-311. 56 Cfr. N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Milano, Sansoni, 1993, p. 155, e F. Berni, Rime, cit., p. 146. Nel verso «quel che i medici nostri chiaman crisi» vi è una presa di distanza dal termine «crisi» analoga a quella del Fracastoro nei Dies critici: «illae [...] quae crises appellari consuevere», «ad eam expulsionem faciendam, quae crisis dicitur» (G. Fracastoro, Opera omnia, cit., cc. 66r, 70v, 71r e passim). 55 64 Berni, la crisi, il contagio ben oltre la medicina ippocratica delineando un modello analogico57 idoneo a raffigurare un’incognita altrimenti invisibile: «particulae quae visum effugiunt». Insomma, il poeta burlesco offre uno strumento concettuale all’indagine medica del De contagione: la nozione di «seminaria» viventi, di una «feccia» di minuscoli «furfanti» patogeni, cui attribuire i tratti e le funzioni di corpi biologici. La metafora comica della malattia prelude alla dottrina medica dei contagi. Vero è che nei due capitoli della Peste il Berni fa finta di inserirsi scherzosamente entro un dibattito aperto e vivo. Non si tratta solo di una generica invenzione letteraria: per convincersene basta esaminare la controversia tra il Fracastoro e il Da Monte «de pestilentibus febribus», nitidamente rievocata, anni dopo, in apertura del II libro del De contagione. Ogni febbre pestilente agisce colpendo lo spirito vitale nel cuore: secondo il Da Monte ciò si deve a una putrefazione estesa a molte parti del corpo e sospinta da esse verso il cuore; per il Fracastoro vi è all’origine («principium») l’affinità specifica («analogia») tra germi patogeni e organo infettato: Inoltre, quella putrefazione diventa non solo profonda, ma anche molto estesa, cioè di molte membra (hoc est multarum partium), poiché i germi sono dispersi qua e là, e questi ne generano altri come discendenza (ceu sobolem) e quelli altri ancora. Da Monte dunque diceva bene che nelle febbri pestilenti avviene una grande putrefazione, ma egli non ha spiegato la causa in grado di far ciò (rationem non dedit per se id facientem), richiamandosi all’umidità contratta e preparante (assignans humiditatem contractam et praeparantem)58. Nell’orma di Galeno, il Da Monte afferma che lo squilibrio umorale del corpo predispone alla pestilenza ed è la principale concausa dell’epidemia. Al contrario, per il Fracastoro può accadere che il contagio aggredisca chi è in perfetta salute ed escluda invece quei corpi che presentano un umore in eccesso predisposto («praeparatum») sì a putrefarsi, ma sprovvisto di «analogia» con i «seminaria» della malattia. E sono proprio queste le due tesi prospettate nel finale del Capitolo secondo della Peste allorché il Berni si cimenta con il principium nascosto della «moria» e prova, da par suo, a rationem dare: O sia che questo mal ha per istinto ferir le membra ov’è il vital vigore et è da loro in quelle parti spinto, o veramente la carne del core, il fegato e ’l cervel gli den piacere, perch’ell’è forsi di razza d’astore; 57 Per la nozione di «modello analogico» si veda M.B. Hesse, Models and Analogies in Science, London, Sheed & Ward, 1963, trad. it. Modelli e analogie nella scienza, Milano, Feltrinelli, 1980, e M. Black, Models and Metaphors, Ithaca, Cornell University Press, 1962, trad. it Modelli, archetipi, metafore, Parma, Pratiche, 1983. 58 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., cc. 116r-117v. 65 Giorgio Forni questo problema debbi tu sapere che sei maestro e intènditi di carne più che cuoco del mondo, al mio parere59. Non solo il Berni formula precisamente la questione («ov’è il vital vigore» indica infatti il cuore), ma la reinventa con estro parodico e caricaturale: la scelta è tra il colpevole torpore delle «membra» che credono di liberarsi dal «mal» spingendolo verso l’interno e la vivida metafora della pestilenza come falcone predatore («razza d’astore») ghiotto di certi bocconi («gli den piacere»: ‘lo devono attirare’ per analogia fra la malattia-uccello e la parte aggredita). Del resto, anche un termine tecnico come «problema» pare rifarsi allo statuto antidogmatico del discorso del Fracastoro: «non per assertionem aliquam, sed uti problemata magis». Nella sua qualità di poeta arguto e irriverente, pure il Berni intende «novo calle procedere»60. Ma proprio l’ipotesi del contagio vivo implicava conseguenze ideologiche rilevanti: che la pestilenza fosse «razza d’astore» metteva infatti in questione il concetto greco di natura. Per Galeno la malattia altera l’armonia naturale del corpo in virtù di una causa priva di corpo (aition [...] asomaton)61. Non dispiegando la figura di una nascita ma solo la dinamica di uno squilibrio, il fenomeno patologico resta estraneo e avverso alla potenza generatrice della natura. D’altro canto, opponendosi al male nei suoi effetti, la natura tende a ripristinare l’ordine primigenio espellendo il sovrappiù nocivo: «Natura malum secernere sueta», dice il Fracastoro nella Syphilis (I, 341). È un principio fondante della medicina ippocratica: la natura separa da sé il male. Al riguardo Galeno distingue tre condizioni: quella positiva della piena salute, quella neutra del difetto costituzionale, quella negativa della malattia. Leggiamo in Definitiones medicae 131: La salute è ciò che è secondo natura (kata physin), la malattia invece ciò che è contro natura (para physin). Inoltre, ciò che è per natura (physei) non è né secondo natura né contro natura, come il troppo gracile e asciutto, o il grasso e alquanto pingue, o il naso adunco o camuso o azzurrognolo62. Ora, la dimensione della scrittura burlesca è certo quella intermedia del carattere, del temperamento, dell’umore nativo (physei, ‘per natura’). Ma insediandosi nella varietà sempre imperfetta dell’individuale, la poesia del Berni mira a stravolgere l’opposizione ontologica tra natura e malattia. Così, nel Capitolo primo della Peste egli si chiede quale sia «la più bella / stagion che la natura sappi fare» (vv. 5-6) e risponde che tale «stagion» è indubbiamente il «tempo della 59 60 61 62 66 F. Berni, Rime, cit., p. 148. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 116r-v. C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. XIX, p. 392. Ibidem, vol. XIX, pp. 384-385. Berni, la crisi, il contagio peste» (v. 81)63. Nell’ottica bernesca la natura non persegue solo l’armonia e l’equilibrio, ma la stravaganza, l’eccesso, la diversità: «di far pazzie la natura si sazia» (v. 130). Ed è un motivo che trova la sua più esplicita formulazione al principio del Capitolo secondo della Peste (vv. 40-51): Non fu mai malattia senza ricetta: la natura l’ha fatte tutt’e due: ella imbratta le cose, ella le netta. Ella trovò l’aratol, ella il bue, ella il lupo, l’agnel, la lepre, il cane, e dette a tutti le qualità sue; ella fece l’orecchie e le campane, fece l’assenzio amaro e dolce il mèle, e l’erbe velenose e l’erbe sane; ella ha trovato il buio e le candele, e finalmente la morte e la vita, e par benigna ad un tratto e crudele64. L’immagine della Natura che «imbratta le cose» esprime un assunto teorico antigalenico: «malattia» e «ricetta», vita e artificio («aratol», «campane», «candele»), predatori («lupo», «cane») e predati («agnel», «lepre»), salute e agonia fanno parte «tutt’e due» della Natura. Anzi, nel capitolo a messer Baccio Cavalcanti del 1533, il Berni – come ha visto Danilo Romei – ricorrerà a una pagina singolare di scienza antica (Aristotele, Problemi IV, 26) per includere nella dimensione ‘naturale’ (hōsper physis, ‘come natura’) la ‘contronatura’ per eccellenza: quel che il Berni stesso talora chiama, con accenti di sincera contrizione, la propria «perversità» e «maladetta natura dappoca», la radice ‘negativa’ del proprio essere, la ‘malattia’ del desiderio omosessuale. Paradossalmente, la Natura è madre «benigna» anche della ‘contronatura’ e, per così dire, «l’ha fatte tutt’e due»: Fu un che disse: «Molza, io son sì matto, che vorrei trasformarmi in una vigna, per aver pali e mutarli ogni tratto». Natura ad alcun mai non fu matrigna: guarda quel ch’Aristotel ne’ Problemi scrive di questa cosa, e parte ghigna65. 63 Opponendo alle quattro stagioni il «tempo della peste», il Berni stravolge e falsifica sorridendo la teoria ippocratica dei mutamenti stagionali come causa primaria delle malattie (si consideri ad esempio Ippocrate, Opere, a cura di M. Vegetti, Torino, Utet, 1965, p. 442). 64 F. Berni, Rime, cit., p. 145. 65 Ibidem, p. 174 e n. Si accoglie lo spostamento delle virgolette introdotto da Silvia Longhi in Poeti del Cinquecento. I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, p. 796. Sulle convergenze tra scienza dei Problemata e scrittura burlesca offre utili indicazioni P. Cherchi, Il quotidiano, i «Problemata» e la meraviglia. Ministoria di un microgenere, in «Intersezioni», XXI, 2, 2001, pp. 243-275. 67 Giorgio Forni A ben considerare, l’arguzia scherzosa e beffarda aveva per il Berni una serietà profonda, liberatoria, aderente alle «cose» più che alle «parole», lontana dalle dottrine astratte e rassicuranti: «Qui farebbe Aristotile un problema», annota ironicamente nel rifacimento dell’Innamorato66. Ma è tempo ormai di considerare il testo che segue quelli della Peste: il Capitolo in laude d’Aristotele. 7. Un’epistemologia dell’immaginazione scientifica Prendere sul serio il Berni vuol dire ritrovare sotto la stravaganza comica dei suoi versi i problemi intellettuali con cui egli dialoga e le relazioni inattese che sperimenta. Così, nel capitolo burlesco in laude d’Aristotele egli pone anzitutto in evidenza il rapporto fra Aristotele e la peste (vv. 1-9): Non so, maestro Pier, quel che ti pare di questa nuova mia maninconia, che io ho tolto Aristotele a lodare. Che parentado o che genologia questo ragionamento abbia con quello, ch’io feci l’altro dì, della moria, sappi, maestro Pier, che quest’è ’l bello: non si vuol mai pensar quel che si faccia, ma governarsi a volte di cervello67. Che il Berni proceda senza «pensar quel che si faccia» apparirà ormai una dichiarazione ironica e sviante. Ma per comprendere quale sia il «bello» di questa stramba «genologia» occorre considerare un aspetto ulteriore del dibattito medico sulle malattie pestilenti: lo statuto epistemico dei «seminaria» come agenti impercettibili del contagio. Va da sé, infatti, che il rapporto cruciale tra visibile e non visibile – o tra apparenza e struttura del reale – sia decisivo nel delinearsi di un’epistemologia scientifica al di là dell’empirismo di matrice aristotelica. Per Aristotele l’esperienza dei sensi costituisce la condizione indispensabile e la fonte primaria di ogni conoscenza astratta. Galeno deride quei medici che non si attengono ai fatti evidenti e suppongono cose che non si vedono68. Ecco invece come il Fracastoro presenta l’obiezione che egli doveva superare: 66 67 68 68 Cfr. Poeti del Cinquecento, cit., p. 796 n. F. Berni, Rime, cit., p. 149. Cfr. ad esempio C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. II, p. 39. Berni, la crisi, il contagio Se infatti abbiamo visto, perché anche gli altri non hanno visto, non Ippocrate, non Galeno e gli altri? Se invece non abbiamo visto, che bisogno c’è di immaginare (effingi) cose che non sono? Se infatti vi fossero, certamente si vedrebbero69. Contro Galeno e Aristotele, il Fracastoro ritiene che per descrivere i contagi sia necessario raffigurare una realtà al di sotto della soglia del percepibile: Ora, se è lecito rappresentare (subfigurare) in qualche modo (aliquo modo) la ragione del contagio, diremo che il contagio è una certa corruzione della sostanza del misto che si trasmette simile a se stessa dall’uno all’altro corpo dopo che l’infezione ha attecchito nelle particelle impercettibili (in particulis insensibilibus)70. Nella sua ricerca del vero, la scienza deve anche «subfigurare» l’inafferrabile e approfondire i rapporti intuitivi offerti dalle «subnotiones». Proprio il concetto inedito di «subnotio» faceva dire a Ernst Cassirer che il Turrius sive de intellectione del Fracastoro segna una precoce «linea di separazione tra la Scolastica e il pensiero moderno»: dalla teoria aristotelica della conoscenza al primo abbozzo del concetto moderno di associazione71. Ma pure nel De contagione concepire – o meglio «subfigurare» – le «particulae insensibiles» significa compiere un’operazione associativa e analogica collegando esperienze simili «sub uno quodam apprehenso»: le malattie come ‘corpi viventi’. Per il Fracastoro la «subnotio» consiste infatti in una sorta di fantasia cognitiva e ordinatrice dei dati sensibili: «de qua, si quid ab Aristotele traditum est, videtur quidem communi phantasiae nomine comprehendisse»72. Non sorprende che gli avversari delle dottrine mediche del Fracastoro contestino fra l’altro proprio il carattere fittizio e figurato della sua metodologia d’indagine. Così, il Da Monte condanna il ricorso «ad absurda quaedam seminaria et Epicureorum figmenta»: i corpuscoli patogeni non sono oggetti reali, ma fantasiose invenzioni poetiche73. Allo stesso modo, nella sua Hippocratis et Galeni defensio adversus Hieronymum Fracastorium, 69 G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 73r: «Si enim perspeximus, cur et alii non perspexere, non Hippocrates, non Galenus et alii? Si vero non perspeximus, quid effingi oportet quae non sunt? Si nam essent, viderentur utique». 70 Ibidem, c. 105v: «Nunc, si licet aliquo modo contagionis rationem subfigurare, dicemus contagionem esse consimilem quandam misti secundum substantiam corruptionem de uno in aliud transeuntem infectione in particulis insensibilibus primo facta». 71 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Berlin, B. Cassirer, 1906, trad. it. Storia della filosofia moderna, vol. I, Torino, Einaudi, 6 1964 , pp. 258-264, e D. Rapaport, The History of the Concept of Association of Ideas, New York, International Universities Press, 1974, pp. 36-38. 72 Cfr. G. Fracastoro, Opera omnia, cit., cc. 169v-170v. Si noti come il Fracastoro insista sulla novità del concetto di «subnotio»: «novo uti vocabulo coacti fuimus». 73 G.B. Da Monte, In quartam Fen primi Canonis Avicennae lectiones, a Valentino Lublino Polono collectae, Venetiis, apud Balthassarem Constantinum, ad signum divi Georgii, MDLVI, c. 51r. Nel respingere gli «absurda seminaria» il Da Monte si rifà alle critiche di Galeno contro Asclepiade (cfr. C. Galeno, Opera omnia, cit., vol. II, pp. 30-44). 69 Giorgio Forni Andrea Turini pronuncia autorevolmente, come medico di papa Paolo III, una condanna sdegnata e inappellabile secondo cui il Fracastoro «effingit» e «non syllogizat»: egli non svolge un ragionamento universale («demonstratio») a partire dal visibile («oculis usurpare»), ma costruisce un modello ipotetico e immaginario74. Senza dubbio il Fracastoro rivendicava un Aristotele diverso, meno chiuso in schemi immodificabili e aperto invece alle integrazioni molteplici del sapere moderno: Pertanto bisogna ricercare quali siano le cause di queste malattie non con quei ragionamenti che chiamano dimostrazioni (demonstrationes), ma dobbiamo ritenere di aver fatto abbastanza se avremo parlato ragionevolmente e con buon senso (rationabiliter et ex communibus)75. Dal canto suo, il Berni costruisce un’immagine duplice e contraddittoria di Aristotele: da una parte vi è la levità dei «sillogismi» («sempre con sillogismi ti ragiona») e gli argomenti formati «con tanta grazia» che vanno subito «fin al cervello»; dall’altra, si celebra la solidità inamovibile di un discorso saturo di «fatti» e «cose» («Hanno gli altri volumi assai parole, / questo è pien tutto e di fatti e di cose / e d’altro che di vento empir ci vuole»). Così, nel registro ambiguo dell’elogio scherzoso, Aristotele può perfino sostituirsi agli oggetti del conoscere: «È regola costui della Natura, / anzi è lei stessa»76. Lode euforica e critica beffarda sfumano l’una nell’altra. Anche il Berni intendeva forse promuovere con ironia un Aristotele anticonvenzionale, problematico, più duttile e meno assoluto. Nonostante il Fracastoro fosse stato il medico ufficiale del Concilio di Trento e avesse posto il De contagione sotto il segno della «libertas christiana», nel secondo Cinquecento la teoria del contagio vivo fu respinta anzitutto sul piano morale e religioso. A Padova, nelle lezioni De pestilentia del 1577, Girolamo Mercuriale non parlerà più di «seminaria contagionis», ma di «communicatio morbi», riconducendo il discorso sui contagi nel quadro tradizionale della medicina galenica: i fenomeni pestilenti non derivano da germi pa- 74 A. Turini, Hippocratis et Galeni defensio aduersus Hieronymum Fracastorium de causis dierum criticorum, Romae, in vico Peregrini apud Balthasarem de Cartulariis Perusinum, MDXLII, cc. B3r, B4r e B2r. Si trattava peraltro di critiche diffuse e insistenti: «li miei studi e pensieri non sono in far sempre versi come questi medici calunniatori vorrebbono che si credesse», scriveva amareggiato il Fracastoro nel 1551 (G. Fracastoro, A. Fumani, N. d’Arco, Carminum editio II, cit., t. I, p. 106 degli Operum fragmenta). 75 G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 123r. Sull’aristotelismo del Fracastoro risulta ancor oggi utile il vecchio e onesto G. Rossi, Girolamo Fracastoro in relazione all’aristotelismo e alle scienze nel Rinascimento, Pisa, Spoerri, 1893; ma si veda anche il recente C. Pennuto, Simpatia, fantasia e contagio. Il pensiero medico e il pensiero filosofico di Girolamo Fracastoro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008. 76 F. Berni, Rime, cit., pp. 149-152. 70 Berni, la crisi, il contagio togeni, ma da vapori venefici originati da putrefazione77. Nel 1580 Conte Da Monte, allievo a Padova di Giovanni Battista Da Monte, prenderà posizione contro la «lues» dei medici «novatores» in testa al De morbis ex Galeni sententia: Infatti, come in questa nostra infelice età sono sorti uomini scellerati ed empi che hanno scosso la santa religione ortodossa con opinioni perverse e false, così sono sorti dei sofisti che hanno cominciato a disprezzare gli insegnamenti di Galeno, a demolirli e a calpestarli, con gli scritti, con l’insegnamento orale e con la pratica dell’arte medica. Vediamo che questa peste (hanc pestem), cominciata da piccoli inizi, ha acquisito in breve un tale vigore da avvelenare per contagio (contagione) il mondo intero78. Insomma, l’unico vero contagio era quello di dottrine fallaci e sciagurate, né vi poteva più essere spazio per ipotesi fantasiose e devianti. Certo il Fracastoro mirava a una retorica inventiva della scienza alleata all’immaginazione e alla poesia. Dal poemetto Syphilis al De contagione, proprio il rifiuto della metafora corrente del contagio come ‘incendio’ aveva comportato la ricerca di altre figure più idonee a illustrare dall’interno il fenomeno insensibile dei contagi. La metafora allora, nel momento in cui diventa oggetto di discussione e di verifica, risulta un modo per costruire un modello esplicativo di ciò che soggiace all’apparenza del reale, una logica inventiva del «discorso», come dirà poi Galileo su altre basi, in grado di «far forza» ai dati immediati del «senso»: Ma la mia, signor Sagredo, è molto differente dalla vostra meraviglia: voi vi maravigliate che così pochi siano seguaci della opinione de’ Pitagorici; ed io stupisco come si sia mai sin qui trovato alcuno che l’abbia abbracciata e seguita, né posso a bastanza ammirare l’eminenza dell’ingegno di quelli che l’hanno ricevuta e stimata vera, ed hanno con la vivacità dell’intelletto loro fatto forza tale a i proprii sensi, che abbiano possuto antepor quello che il discorso gli dettava, a quello che le sensate esperienze gli mostravano apertissimamente in contrario. E ancora: Non posso trovar termine all’ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità79. 77 Cfr. G. Mercuriale, De pestilentia, Venetiis, Apud Paulum Meietum Bibliopolam Patavinum, MDLXXVII, pp. 31-45. Ed è esattamente il contrario di quanto afferma G. Fracastoro, Opera omnia, cit., c. 117v. 78 Cfr. C. Da Monte, De morbis ex Galeni sententia libri quinque, Venetiis, Apud Ioannem Guerilium, MDXCI, c. a6r. 79 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, a cura di L. Sosio, Torino, Einaudi, 1970, pp. 392-393. Sulla rilevanza dell’assunto galileiano si veda P. K. Feyerabend, Problems of Empiricism, in Beyond the Edge of Certainty, ed. R.G. Colodny, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1965, trad. it. I problemi dell’empirismo, Milano, Lampugnani 71 Giorgio Forni Né parrà un caso che il giovane Galileo abbia letto e apprezzato il Berni fino a imitarlo nel Capitolo contro il portar la toga: Perché, secondo l’opinion mia, a chi vuol una cosa ritrovare, bisogna adoperar la fantasia, e giocar d’invenzione, e ’ndovinare; e se tu non puoi ire a dirittura, mill’altre vie ti posson aiutare. Questo par che c’insegni la Natura, che quand’un non può ir per l’ordinario, va dret’a una strada più sicura80. Forse aveva ragione Eugenio Camerini quando a metà Ottocento affermava che le stravaganze del Berni non potevano leggersi come segno di decadenza intellettuale se l’ultimo dei poeti berneschi era stato proprio, in gioventù, il grande Galileo. Abstract: Berni, Crisis, Contagion. A Metaphorical Ontology of Illness In antique and mediaeval medicine, illness did not possess its own body, but rather was regarded as an internal imbalance caused by depraved, antigenic behaviour. Between 1530 and 1546, the notion of «contagion» developed by Girolamo Fracastoro subverted the system of medical knowledge by substituting the traditional metaphor of contagion as a fire with the image of invisible, living pathogenic corpuscles. In this change to the explanatory model, Francesco Berni’s comic poetry takes on a relevant role: it actually takes part in the scientific debate about pestilential contagion and the notion of illness, combining parody and analysis, laughter and concepts, eccentricity and reflection. However, the idea of imperceptible infective organisms also raised the problem of the crucial relationship between the visible and the invisible, between appearance and the structure of reality, an evidently decisive question in the development of a scientific epistemology beyond the empiricism of the Aristotelian model. Keyword: Berni, Illness, Contagion, Metaphor, Scientific Imagination. Giorgio Forni, Università di Messina, gforni@unime.it Nigri, 1971, pp. 3-10, 108-111, e Id., Against Method, London, New Left Books, 1975, trad. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, a cura di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 46-77. Per la «rottura del postulato della visibilità» come tratto fondante della scienza moderna giova considerare H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1966, trad. it. La legittimità dell’età moderna, Genova, Marietti, 1992, pp. 391-406 e passim. 80 G. Galilei, Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier, 1943, p. 3. Sugli «aculei ironici» di Galileo prosatore si veda A. Battistini, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 125-181. 72