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(Recensione) E. Bencivenga, Filosofia in gioco («Dianoia», 19, 2014)

404 Ermanno Bencivenga, Filosofia in gioco, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013, VIII+148 pp. di Prisca Amoroso Filosofia in gioco di Ermanno Bencivenga è un viaggio tra le strade tortuose e labirintiche del gioco. Quasi un invito alla filosofia: un’esortazione ad intraprendere percorsi inusitati, a mettere in crisi il noto, ad accettare la sfida di esplorare terreni non battuti, incamminandosi per una via rischiosa, ma bella e necessaria: quella della libertà, del rovesciamento dell’acquisito, della meraviglia ch’è madre della filosofia stessa. Bencivenga è Professore ordinario di Filosofia alla University of California presso Irvine. Il suo interesse per la questione del gioco è di lunga data: già nel 1990, pubblica, con Mondadori, Giochiamo con la filosofia. Il tema è dei più cari all’autore, e gli è caro questo nuovo lavoro, «il libro di tutti i miei libri» (p. VII), avverte. Le tesi qui presentate sono, infatti, l’esito di più di venticinque anni di ricerca. Il gioco si delinea in queste pagine, più ancora che come attività specifica, come aspetto di ogni attività: una disposizione di senso, un parametro della libertà di ogni azione. Ancora, il gioco è sovvertimento, è ricerca e sperimentazione. In es- Recensioni so risiede la nostra umanità, perché la vita umana è un insieme di giochi e il gioco è l’unica autentica azione: agiamo solo quando compiamo una mossa che cambia le carte in tavola, quando scendiamo in campo, disponendoci a scrutare nella complessità delle cose, a guardare dentro l’ambiguità. Ciò che rende il gioco tale, e ogni azione un gioco, è il fatto che i giochi siano molti e che si guardi al nostro come ad uno dei tanti possibili. Una bambina, seduta su un tappeto, circondata da oggetti di varia forma, li afferra, li lancia, li incastra l’uno con l’altro, li sbatte sul pavimento e li guarda curiosa: usando in modo inconsueto quegli oggetti, sta giocando. Ella scopre, in una spillatrice per carta, la bocca spalancata di un grosso pesce. La sua attività ribelle e il suo modo rivoluzionario di guardare alle cose sono il primo passo per aprirsi alla possibilità dell’esistenza di alternative. Se la bambina non dimenticherà quello che queste prime semplici attività le hanno insegnato, allora ella avrà imparato a giocare, e giocherà per tutta la vita. Incontrerà ostacoli, comprenderà che le pareti contro cui la palla va a sbattere sono il limite e lo sfondo necessario al suo gioco, giocherà a giochi più complessi: agli scacchi, alla letteratura, all’arte, alla filosofia. Imparerà a parlare e a giocare con le parole, a storpiarle, a investirle di significati nuovi. Si obietterà che vi sia una differenza fondamentale tra quei primi giochi ingenui e un torneo di scacchi. Che ve ne sia, ancora, tra le attività ludiche e le attività serie. Tra una partita di pallone e l’Etica di Spinoza. Tra il pronunciare in modo scorretto le parole e il comporre un sonetto. Bencivenga accompagna il lettore nella scoperta del perché l’obiezione sia fallace. «Se la filosofia è definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la ve- Recensioni rità o la saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune» (pp. 140-141). L’antica lotta tra il gioco e il serio è dunque destituita di senso. Se essi si contrappongono, come parrebbe suggerire il linguaggio comune, non è nel senso di una mancanza di serietà nelle attività giocose – nel novero delle quali si sono incluse anche la filosofia e la scienza. Bencivenga accoglie la lezione di Johan Huizinga: la categoria “gioco” è di ordine diverso, superiore, a quella di “serio”: il gioco include il serio [cfr. J. Huizinga, Homo ludens (1939)]. Tra le caratteristiche che ricorrentemente definiscono il gioco è senza dubbio la libertà: esso è atto disinteressato, che non trova le proprie finalità che in se stesso e che non può essere imposto. In Giocare per forza (2007), Bencivenga indagava le vie con cui la società dei consumi promuove forme coercitive di divertimento, che, come tali, poco hanno a che fare col gioco autentico, che si vede privato della sua natura, costretto tra le mura di un folle paese dei balocchi, ridotto a svago della domenica, e che riflette il modello di una certa alienazione lavorativa, segnata da gesti automatici e ripetitivi. L’imperativo “gioca!” è una contraddizione, un paradosso. Guardando ad esso come ad una dimensione ontologica, ad un orizzonte di senso, si vedrà come, ferme restando la gra- 405 tuità e l’assenza di finalità fuori di se stesso, il gioco possa avere, d’altronde, grande utilità: i bambini imparano molte cose, fondamentali alla loro stessa sopravvivenza, mediante quel sovvertimento delle abitudini, quella curiosità volta alla sperimentazione, quel continuo sfidare ed esaminare le cose, guardandole con occhi sempre nuovi, che si è detto essere la quintessenza dei giochi infantili: la messa in crisi del già noto è il motore dell’apprendimento e della filosofia. Anche la scienza deve sperimentarsi sempre nuovamente, ripensare se stessa, sottoporsi al vaglio del gioco: l’atteggiamento prometeico che vede, nelle conquiste scientifiche, delle conquiste, appunto, delle conoscenze acquisite una volta per tutte, e nella natura un oggetto da svelare, ha in sé il germe di uno svilimento e di un addomesticamento della vita, che non la considera nella ricchezza che le è propria. Si giungerà, mediante il riconoscimento di questa abbondanza di forme, di questa misteriosità della natura, a ripensare i labirinti dell’essere: a guardare al cielo, che non appare mai due volte uguale a se stesso; ai cristalli di neve, indecifrabili nelle loro configurazioni sì varie; ai fiumi, continuamente rinnovantisi, come a forme animate, viventi e giocose. A questo approccio, è riconducibile anche l’analisi che Bencivenga fa del giocare insieme, in cui è viva la riflessione morale di Kant. L’immagine della bambina, che accompagna l’intero libro, è arricchita, nel corso dell’indagine, da una seconda presenza: quella di un altro bambino. La piccola, fin dalle prime pagine, aveva incontrato resistenze che avevano vincolato la sua attività, rendendola possibile, fornendole una cornice, un campo: la palla non voleva stare ferma su un gradino e scivolava giù, le pareti respingevano gli oggetti che ella scagliava contro di esse, e la bambina imparava a tenere conto 406 di questi limiti. Lo stesso accadrà quando un coetaneo entrerà nella stanza, costruendo ostacoli: egli incarnerà una serie di nuove regole cui il gioco dovrà adeguarsi. La bambina adotterà allora delle strategie per riprendere il controllo della palla che le sarà stata sottratta o si contenderà con l’amico un orsacchiotto di peluche. Ma questo non sarà ancora un giocare insieme. La bambina starà giocando con il bambino, ma fin qui il “con” introdurrà soltanto un complemento di mezzo. Vi è una seconda possibilità: che il “con” venga ad indicare un complemento di compagnia e che i due bambini giochino davvero insieme. Scopriranno, allora, che le attività che possono svolgere con un compagno di giochi sono infinitamente più interessanti, perché ben più numerose saranno le opportunità di esplorazione, gli stimoli e gli spunti all’azione, e che le attività di uno si rifletteranno in quelle dell’altra, «come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni» (p. 92). E il lettore scoprirà che a quasi nessun gioco si gioca davvero da soli: quando, con le carte, facciamo un solitario, nelle nostre mosse c’è quel che abbiamo visto fare ad altri, l’esperienza delle partite giocate in compagnia, l’insegnamento di quell’amico più esperto che ci ha svelato un trucco. Ciascuno di noi non fa che copiare il proprio vicino, tanto che in ogni gioco noi siamo un po’ il nostro vicino. Questa circostanza è evidente anche nell’infanzia: Bencivenga trae da Winnicott l’idea che il bambino giochi sempre sotto gli occhi benevoli di qualcuno, anche quando agisce apparentemente per proprio conto. Un bambino che fosse realmente solo, che non si sentisse coinvolto in un ambiente affettivo e protettivo, non avrebbe affatto la capacità di giocare. L’autore estende queste considerazioni anche alla sfera inanimata, figurando due modalità del relazionarsi alla natura. Si Recensioni può tentare di schiacciare la combinazione di tasti giusta per ottenere quello che si desidera da essa, ponendosi cartesianamente come suoi maestri; si può pretendere di giungere alla completa intelligenza del corso naturale delle cose e, dunque, far valere sull’ambiente mire conquistatrici che, a ben guardare, sono il risvolto politico dell’assunzione filosofico-scientifica dell’estraneità dell’uomo alla natura – e proprio da questo paradigma di scissione tra un soggetto umano ed un oggetto naturale, dall’affermazione che il secondo costituisca una realtà esterna all’uomo, è segnato il quadro concettuale della modernità. Oppure, si può guardare all’ambiente come ad un compagno, ascoltarlo, fargli proposte, accogliere i limiti che esso ci pone e con cui apre a noi la possibilità di giocare, e accettarne le sfide, attendere le sue risposte. E d’altronde, questa seconda via è quella a cui ci chiama l’urgenza del problema climatico-ambientale, che impone la necessità di un ripensamento, anche ontologico, del nostro rapporto con la Terra. Non usare la natura, ma stare con la natura, dunque. L’obiettivo polemico è una certa tradizione cartesiana e, con Cartesio, Bencivenga si confronta, ancora, sulla questione del corpo. Lo spirito, l’anima, sono le modalità con cui viviamo la corporeità. Non v’è dualismo: il corpo si anima quando giochiamo, è anima in quanto gioca. Si intravede allora come la fisicità sia presente nell’uso del linguaggio e perché quello del poeta debba essere un gioco quanto quello dello scacchista. O, se si vuole, come il gioco di entrambi non sia materia – di nuovo presente la lezione di Huizinga –, proprio perché è «materia che si ricrea incessantemente» (p. 125). La poesia, la prosa letteraria, il dire comune, rendono presente il mancante, cancellandone la distanza. Questo potere evocativo fa sì che il linguaggio non sia mai linguaggio dell’assenza: esso ri- Recensioni chiama alla presenza quel che non c’è o, se si vuole, mette in essere qualcosa che si ispira a quel che non c’è, che gli somiglia, o forse no, ma che ce lo sa rendere vicino e lo fa – ed è qui un’eco merleaupontiana – per magia. Ogni scrittore, ogni poeta, semina tra le proprie pagine, tra i propri versi, i segni di una presenza: tra quelle tracce, il lettore rincorre i personaggi e gli eventi, i pensieri e i caratteri. Un libro è un invito al gioco. E lo stesso vale per l’opera d’arte: una pittura riuscita è infinitamente interrogabile, sorprende ad ogni nuovo sguardo, è portatrice di una complessità che rende possibile un sempre rinnovato domandare, e meravigliarsi. Lo spettatore è complice dell’artista, quando guarda ad ogni istante con occhi diversi, partecipando all’illusione – nel senso letterale dell’entrare in gioco – proposta dal quadro, o dal verso o dal racconto. Il misterioso sorriso della Gioconda ci invita a indovinare un senso, il suo sguardo ci insegue quando ci spostiamo per osservarla da un punto diverso; facciamo per abbandonare la sala e voltandoci a rivolgerle un ultimo saluto la vediamo là, pronta ad interrogarci e a farsi ancora, mille volte, interrogare. La libertà del gioco è questo «serbatoio inesauribile» (p. 60). Ogni gioco conserva il suo carattere di gioco se a chi lo pratica è implicitamente presente questa varietà data dall’esistenza di altri giochi possibili. È, questo, uno dei punti cruciali del discorso di Bencivenga, e chiarisce molte cose: anzitutto, il rapporto tra gioco e serio, cui si è accennato. Ogni giocatore intento alla propria attività la prende molto sul serio, vi si concentra, la investe di grande valore: questa osservazione rendeva problematico distinguere il calcio dalla filosofia o dal lavoro in ufficio. Si era giunti, allora, a considerare il gioco come una misura della libertà di una qualsiasi azione, ma anche questa 407 definizione andava precisata, perché si comprendesse come il gioco sia, non un’attività specifica, ma una dimensione che abbraccia qualsiasi manifestazione umana e non solo umana – e d’altronde si era detto come ogni gioco necessiti di uno sfondo di regole e limiti, entro i quali soltanto, la libertà poteva esprimersi. Osservando che la flessibilità, la capacità di giocare a più giochi e la comprensione del fatto che quello a cui si sta giocando non sia l’unico gioco possibile, definiscono il gioco, Bencivenga chiarisce perché esso possa essere considerato una dimensione dell’essere. Gioco e non-gioco si porranno allora in un continuum, distinti solo quantitativamente, e mai qualitativamente, sulla base della coscienza, da parte di chi vi prende parte, della relatività della propria azione. Al punto zero della scala si collocheranno quei gesti ai quali l’agente riconoscerà una cieca assolutezza, che vivrà come una necessità, e a cui mancherà quel lampo d’ironia, che solo la consapevolezza dell’alterità e la serena comprensione di non essere inchiodati definitivamente al proprio ruolo possono mettere in essere. Proprio la conoscenza che oggi abbiamo di questo nostro mondo delinea una configurazione di esso che è imprecisa e varia. La scienza stessa ci indirizza su questo cammino, illuminando il sapere del riconoscimento che esso non sarà mai esaurito, mai completo, perché la natura stessa di quel che indaghiamo è sfuggente e caotica. Essa si lascia avvicinare, mai afferrare: il suo essere in continuo movimento, nel senso spaziale e costitutivo, essenziale, rende impensabile una prospettiva univoca che la abbracci tutta. Tale riconoscimento sarà tanto più importante, urgente, per quell’animal ludens che ha fatto del mondo intero, e che domani farà forse di altri mondi, la propria nicchia ecologica. La 408 visione offerta da Bencivenga è una proposta a compiere un passo in questa direzione, è un prendere atto della fluidità delle cose e dell’ironia della natura stessa, e del cielo e dei corsi d’acqua e dei cristalli di neve. Recensioni