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ColucciaOrsini2013

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO CENTRO DI STUDI ORSINIANI FONTI E STUDI PER GLI ORSINI DI TARANTO STUDI 1 ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO CENTRO DI STUDI ORSINIANI UN PRINCIPATO TERRITORIALE NEL REGNO DI NAPOLI? GLI ORSINI DEL BALZO PRINCIPI DI TARANTO (1399-1463) Atti del Convegno di studi (Lecce, 20-22 ottobre 2009) a cura di LUCIANA PETRACCA e BENEDETTO VETERE ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO Palazzo Borromini – Piazza dell’Orologio 2013 Fonti e studi per gli Orsini di Taranto collana diretta da Benedetto Vetere Il presente volume è stato realizzato con il contributo dell’Università del Salento tramite il Rettorato, il Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, il Dottorato di Ricerca in “Arti, Storia e Territorio dell’Italia nei rapporti con l’Europa e i paesi del Mediterraneo” e l’istituto bancario Monte dei Paschi di Siena. Comitato scientifico: Rosario Coluccia Isa Lori Sanfilippo Carmela Massaro Anna Maria Oliva Francesco Somaini Giancarlo Vallone Benedetto Vetere Centro di studi orsiniani - Lecce Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo ISBN 978-88-98079-03-2 Tutti i diritti riservati LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE TRA CONSERVAZIONE E INNOVAZIONE ROSARIO COLUCCIA 1. Ancora agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso le insoddisfacenti conoscenze sulla storia linguistica del Meridione nel Medioevo potevano essere imputate alla scarsa documentazione disponibile. Quasi in risposta operativa a quella denunzia, da molti lamentata, nell’ultimo quarto di secolo il panorama editoriale è migliorato non poco e testi napoletani e campani, pugliesi, lucani, calabresi, siciliani, costituiscono ormai un apprezzabile reticolo di riferimento per gli studiosi (pur a maglie ineguali) e offrono la base documentaria che consente di ricostruire, con discreta ampiezza di dettagli e qualche presunzione di verosimiglianza, anche aspetti e situazioni meno evidenti del cammino verso l’italianizzazione delle regioni meridionali. Sotto questo profilo a volte quasi si desidererebbe un più oculato bilanciamento delle attività editoriali, considerato che – mentre dati attendibili ancora scarseggiano per situazioni poco indagate – nuovi testi continuano ad apparire per zone già ben studiate. Se la storia linguistica napoletano-campana e quella siciliana risultano tra le meglio esplorate dell’intera Italoromània non toscana, non altrettanto si può dire per altre aree del Sud, su cui le nostre conoscenze, pur progredite negli ultimi anni, non sono ancora al livello desiderabile. 2. In queste condizioni è attualmente la Puglia (nella duplice articolazione barese e salentina), che presenta la peculiarità positiva di una produzione di entità e varietà non disprezzabili (come avremo modo di vedere) e la caratteristica negativa, che si accentua in zone vicine come la Lucania e la Calabria, di risultare, almeno in parte, ancora carente di affidabili edizioni di testi di un certo peso, corredate di 88 ROSARIO COLUCCIA un adeguato commento linguistico e lessicale. Non mancano studi, anche intelligenti e ben fatti, su testi, situazioni, personaggi; ma manca (o è solo in allestimento) una banca dati testuale telematica, molto estesa e in prospettiva integrale, impostata con criteri filologicamente ineccepibili ed informaticamente amichevoli, aperta alla consultazione anche di fruitori esterni, che costituirebbe l’indispensabile tesoro di partenza per vocabolari storici, ricerche linguistiche di ampio respiro, analisi di tipo storico, di tipo letterario, ecc. In un lavoro recente, preparato per un convegno in memoria di Bruno Migliorini(1), ho allestito un censimento completo della produzione volgare pugliese tre e quattrocentesca. Ne risulta un bilancio tutt’altro che esiguo, in termini numerici, rispetto a quanto potremmo aprioristicamente ma pessimisticamente presumere. La specificità della situazione pugliese, caratterizzata dalla presenza di etnie come quella ebraica e quella greca, minoritarie ma assai vivaci, consente di ampliare con un manipolo di testi romanzi redatti con i caratteri dell’alfabeto ebraico e dell’alfabeto greco il censimento dei testi in grafia latina: questi ultimi appaiono più tardi rispetto ai testi in caratteri ebraici e in caratteri greci, per ragioni culturali e linguistiche spiegabili, che non è possibile dettagliare in questa sede. Un notevole contributo forniscono in particolare gli studi storici, di varia impostazione, nei quali vengono utilizzati e presentati documenti d’archivio, delle cancellerie, del mondo notarile. Si pensi al sistematico lavoro di scavo (con conseguente pubblicazione di testi inediti o male editi) cui da anni si dedicano studiosi come A. Frascadore, H. Houben, A. Kiesewetter, F. Magistrale, C. Massaro, G. Vallone, B. Vetere (non pretendo certo di esaurire la lista). In verità gli scambi possono svolgersi anche in direzione inversa, come dimostrano le non (1) R. Coluccia, Migliorini e la storia linguistica del mezzogiorno (con una postilla sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci), in Bruno Migliorini, l’uomo e il linguista (Rovigo 1896 – Firenze 1975). Atti del convegno di studi (Rovigo, Accademia dei Concordi, 11-12 aprile 2008), cur. M. Santipolo – M. Viale, Rovigo 2009, pp. 183-222 (una redazione lievemente modificata è apparsa, con il medesimo titolo, negli «Studi Linguistici Italiani»). Specificamente delle corti salentine mi è già capitato di trattare alcuni anni fa, cfr. Lingua e politica. Le corti del Salento nel Quattrocento, in Letteratura, verità e vita. Studi in ricordo di Gorizio Viti, cur. P. Viti, Roma 2005, pp. 129-172. Per evitare fastidiose ripetizioni, a entrambi questi lavori rinvio per molte informazioni, anche bibliografiche, sui testi di cui si discute nel presente contributo. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 89 casuali edizioni di testi storici che filologi e linguisti offrono alla valutazione (non sempre ottenuta) dei colleghi di altra formazione. Rientrano nell’alveo cronologico di cui qui ci occupiamo i Ricordi di Loise De Rosa(2) e la Cronaca del Ferraiolo(3): il primo testo in particolare allude più di una volta a Maria d’Enghien e a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Torniamo ai dati testuali. Per il Trecento abbiamo un gruppetto di 15 testi volgari, una buona percentuale dei quali risultano redatti in alfabeto ebraico e in alfabeto greco. Dopo questi inizi un po’ timidi ma non insignificanti, nel corso del sec. XV il volgare si impianta progressivamente nei diversi ambienti in grado di generare cultura scritta: le corti e le loro cancellerie, i ceti cittadini (notai, mercanti, laici di varia estrazione), i monasteri, i conventi e in genere l’universo religioso, in una notevole varietà di usi documentari, amministrativi e pratici, di scritture esposte, di confessionali, di trattati scientifici, di volgarizzamenti e anche di prodotti letterari, da mettere in rapporto con la crescente articolazione della società del tempo. Si giunge così a censire un’ottantina di testi, spesso di estensione e di fattura ragguardevoli. Il numero effettivo potrebbe considerarsi assai più ampio perché sovente per ragioni di comodità contabile (se così si può dire) sono stati riunificati sotto un unico esponente molti pezzi, anche di tipologia relativamente diversa, redatti in vari anni e quantitativamente cospicui: è il caso dei protocolli notarili, delle raccolte di statuti, dei libri di conti, ecc. (2) Loise De Rosa, Ricordi. Edizione critica del ms. Ital. 913 della Bibliothèque Nationale de France, cur. V. Formentin, due tomi con numerazione continua, Roma 1998. Scelgo tra quelli narrati dal De Rosa, cronista dalla prosa singolarmente vivace, un episodio che riguarda Maria d’Enghien e uno che riguarda Giovanni Antonio. Quando, dopo averne subito l’attacco armato e l’assedio, Maria si induce ad accettare la profferta di nozze che le avanza Ladislao d’Angiò Durazzo, nella difficile e incerta situazione, i consiglieri non mancano e non tacciono: «Fole ditto:: – Lo re te ammacczerà. – Essa disse: – No mme nde curo: moro regina -» (p. 683). L’omicidio di Giovanni Antonio per ordine di Ferrante d’Aragona viene imputato alle sleali mene del primo, individuate e punite dal secondo. Le fasi finali della tragica contesa sono descritte così: «Et lo re Ferrante andava a trovare lo prencepe: et fece et ordenao per sý fatto muodo che lo prencepe fo ammacczato dentro la camera soa, dentro lo lietto suo, per lo cammariere et per ly suoi intteme. Lo affocaro, con una tovaglia lo strangoliaro. Et lo re era poco lontano d’Autamura, dove fo affocato, et loco trovao uno tresauro et cussý abbe tutto lo domminio et lo tresauro, dove ·de teneva, che fo uno grande numero» (p. 534). (3) Ferraiolo, Cronaca, ed. R. Coluccia, Firenze 1987. 90 ROSARIO COLUCCIA 3. Puntiamo ora direttamente i riflettori sulla cultura delle corti, come si configura attraverso i documenti lì direttamente prodotti e quelli che si generano nei paraggi. Dobbiamo attendere la fine del sec. XIV perché il volgare venga usato per la prima volta nello scritto per la redazione di un atto amministrativo proveniente da una corte locale, quella di Raimondo Orsini del Balzo, infrangendo il monopolio del latino in questo campo(4). Possiamo individuare subito una caratteristica che ritroveremo anche in documenti analoghi successivi: i non molti tratti salentini sono per così dire diluiti in una lingua ibridata, che si configura fin dal suo sorgere come un prodotto linguisticamente composito, confezionato nelle cancellerie regali verosimilmente per iniziativa collegiale. Il fenomeno si giustifica abbastanza facilmente. Nella tradizione cancelleresca e amministrativa l’influenza dei modelli uniformanti centrali, provenienti in primo luogo da Napoli, si dispiega anche nelle periferie e favorisce la confezione di manufatti (lettere, ordinanze, e ancor più statuti, capitoli, bandi, registri erariali, ecc.) ripetitivi nella struttura testuale e relativamente omogenei nella lingua, anche a dispetto delle variazioni legate al luogo, al momento e alla contingenza redazionale. Le testimonianze scritte connesse all’attività di altri membri della medesima famiglia regale lasciano intuire un tentativo di radicamento crescente, perseguito anche con accorgimenti di carattere linguistico, nel territorio salentino da non molto acquisito. Le iniziative di Maria d’Enghien e di suo figlio Giovanni Antonio Orsini del Balzo si inquadrano in un meditato progetto di valorizzazione politica e culturale del Salento, spesso concepito in polemica con il potere centrale napoletano. Per quanto riguarda la prima, tralasciamo qui l’epistolario, il giuramento di sottomissione a Luigi d’Angiò, il cosiddetto codice di Maria d’Enhien e in genere i documenti amministrativi o giuridici. Un prodotto diverso, affatto singolare, è la grammatica latina con esempi in volgare leccese che il domenicano Nicola de Aymo, cappellano della regina Maria, compila nel 1444. La biografia dell’au(4) Cfr. rispettivamente A. Kiesewetter, Ricerche e documenti per la signoria di Raimondo del Balzo Orsini, «Bollettino Storico di Terra d’Otranto», 11 (2001), pp. 17-30: 30; Kiesewetter, Problemi della signoria di Raimondo del Balzo in Puglia, in Dal Giglio all’Orso. I Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, cur. A. Cassiano – B. Vetere, Galatina 2006, pp. 37-89: 81-82. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 91 tore, contrassegnata da esperienze di insegnamento anche fuori dal Salento (in particolare a Bologna) e da espliciti apprezzamenti da parte del potere politico, si può ricostruire con soddisfacente ampiezza di dettagli, che qui ometto. Per quanto attiene alla attività didattica e grammaticale, il suo Interrogatorium constructionum gramaticalium, recentemente pubblicato integralmente in una edizione di piena affidabilità dovuta a R.A. Greco(5), merita attenzione perlomeno per due ragioni, una strutturale ed una linguistica. Sul piano della macrostruttura, per la redazione della sua opera Nicola assembla, spesso senza avvertire, in un amalgama sufficientemente riuscito, fonti grammaticali in voga all’epoca: Francesco da Buti, Guarino Veronese, Cristiano da Camerino e, più all’indietro, Donato, Prisciano, ecc.; non manca il condimento religioso rappresentato da passi biblici, inni liturgici, brani della Vulgata. Sul piano della lingua, utilizzando un modello didattico che in altre zone d’Italia ha grande successo fin dai secoli precedenti, l’autore fa ricorso al volgare per spiegare e tradurre gli esempi latini ricorrenti nella sua trattazione grammaticale. Risulta evidente che l’ingresso del volgare salentino nella scuola e nel libro di testo avviene non per via autonoma ma in forma subalterna e come mero strumento finalizzato allo studio del latino; la giovane età dei destinatari avrà ancor più invogliato l’autore ad utilizzare la competenza nativa degli stessi come base per lo studio della lingua di cultura. Sintomatiche del tentativo di aderenza alla vita quotidiana e addirittura all’esperienza giornaliera dei discenti sono le frequenti allusioni alla concreta azione educativa svolta dal maestro in specifici momenti della vita scolastica: yo sollu corregere li mei discipuli 42v A 26-7; lu maystro legente, tu te partisti da la scola 53v B 10-1; tu venuto a la scola, lu ma[i]stro legeva 53v B 21-2; facta la lectione da lo ma[i] stro, nuy inserrammo li libri 53v B 26-8; arrivato yo a la scola, sonaro le campane 54r A 9-10; tu dantemi cinquanta ducati, yo incingharia ad tuo figlyolo gramatica 54v A 22-4; tu stodiante diligentemente nocte et iurno, sì valente scolaro 55r A 16-8; lo nuostro maistro, lo quale intrante in la scola tucti li sculari tacono, lege apertam(en)te 56r A 12-5; legente lo maystro ordinatamente, è cosa la quale piache a li scolari 56r B16-8; venuto lu maystro a la scola, li scolari apersero li libri 56v A 19-21; ecc. Fino alla affermazione un po’ pomposa, ma interessante (5) R. A. Greco, La grammatica latino-volgare di Nicola de Aymo (Lecce, 1444): un dono per Maria d’Enghien, Galatina 2008. 92 ROSARIO COLUCCIA perché documenta l’esistenza reale di un’attività pedagogica locale legata all’insegnamento del latino: in Leche è una bona scola de gramatica 92v B 22-3. Il tentativo di adattare al contesto locale l’opera si manifesta anche con la citazione di località salentine o non lontane da Lecce, proprio per questo in grado di attrarre l’attenzione degli allievi: inter Taranto et Brindisi 14v B 19-20; «Roma et Tarentum» 34r A 4, «Sanctus Petrus et Casale Novum» 34r A 6, «Mediolanum et Tarentum» 34r A 9-10, «Neapolis et Gallipolis» 34r A 11, «Rome vel Taranti» 34v B 22, «Roma, Tarento» 35r A 5, «Galipoli et Senis» 35r A 7, «Roma […] Tarentum» 36r B 7/11, «Francia, Apulia» 36r A 11-2, «Altamura, Villa Nova» 36r A 14-5, «Licium, Tarentum, Brundisium, Sene, Venecie, Pise, Neapolis, Cartago, Gallipolis» 36r B 10-2, «Licij, Licio, Licio, Licium» 36r B 22-5, Pietro, lo quale deve andare cray ad Taranto, comparao ogi uno cavallo 51v B 26-8, «ego fui Tarenti, que habundat piscibus» 78r A 22-3. L’espediente, che mira a contestualizzare l’opera con l’introduzione di toponimi locali noti ai potenziali lettori, non è trovata originale di Nicola de Aymo, configurandosi a volte come iniziativa perfino dei copisti, non solo degli autori: ad esempio, nella tradizione manoscritta delle Regule di Francesco da Buti gli scribi introducono volentieri dei toponimi localizzanti, legati alla propria zona di provenienza. In altri termini, anche la toponomastica, oltre alla lingua, può essere una spia del contesto culturale nel quale si genera un determinato testo. Molti esempi volgari sono segnati da una struttura sintattica involuta, che trasferisce nel volgare strutture irrigidite della lingua latina: lo nuostro maistro, lo quale intrante in la scola tucti li sculari tacono, lege apertamente; ecc. Involute fino all’inanità comunicativa risultano frasi come dui più de tre scolari correno 69v B 14-5; tre meno de cinque scolari legeno 69v B 18-9, Pietro, amato da alcuno, curre 51v A 12-3, e molte altre. Se nella sintassi il modello latino continua ad esercitare una forte influenza, fino al limite della artificiosità comunicativa, il lessico non esita ad accogliere più di un elemento di aderenza al parlato volgare. In proposito andranno ricordati almeno, oltre agli avverbi temporali crai ‘domani’ 13r A 11 e nusterça ‘l’altro ieri’ 13r A 23, i verbi glyomerare ‘aggomitolare, avvolgere’ 29v A 28, groffolare ‘russare’ 33v A 5, insetare ‘innestare’ 29v B 2, pertusare ‘bucare’ 20r A 27, sagnare ‘salassare’ 19v A 26, scalfar(e) ‘riscaldare’ 29v A 10, scalfarese 31r A 26, scardar(e) (pissi) ‘squamare’ 29v B 24, tronare ‘tuonare’ 30v A 25. Alla corte del successore di Maria, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, oggetto primario del nostro interesse, l’uso del volgare si LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 93 incrementa, fino a toccare pienamente – come vedremo – anche il dominio letterario. Ometto anche in questo caso ogni riferimento ai documenti amministrativi, che presentano problemi e caratteristiche analoghi a quelli che abbiamo visto per i predecessori. Aggiungo solo che questo genere di materiali diventa straordinariamente cospicuo negli anni successivi alla morte di Giovanni Antonio ma i numerosi ordini scritti, provenienti da Lecce nel biennio 1464-1465 e riguardanti prevalentemente il disbrigo di questioni fiscali ed economiche nella città e in altre località amministrate, sono dovuti in genere a funzionari napoletani al servizio dei nuovi sovrani aragonesi e pertanto non possono essere assunti come manifestazioni del volgare salentino; dalla loro abbondanza potremo solo dedurre l’ulteriore espansione d’uso del volgare e nel contempo considerare che la diffusione in Salento del filone amministrativo di provenienza napoletana potrà aver favorito il processo di sprovincializzazione della varietà locale. Esaminiamo in dettaglio i testi di altro genere. Nello scaffale scientifico della piccola biblioteca appartenuta al principe si colloca un Librecto de pestilencia (ms. It. 455 della B.N. di Parigi)(6), composto e dedicato al sovrano nel marzo 1448 da un Niccolò de Ingegne, cavaliero et medico, nato con ogni verosimiglianza a Galatina e facente parte di una famiglia di cui sono noti anche altri esponenti(7). Nel prologo egli si professa autore di un altro libretto, smarrito o non rintracciato, dedicato anch’esso al sovrano, su la doctrina del guberno di stato et vita principale, quindi di contenuto politico. All’inizio della sua opera medica dichiara di aver scritto nel volgaro stilo et comune, per comune di tocti utilitate, motivando il ricorso al volgare con l’obiettivo primario di assicurare una diffusione larga al suo scritto: la scelta del volgare per diffondere una materia scientifica propria della trattatistica latina adempie in tal modo anche a una ragione di salute pubblica. Afferma (6) Il trattato è pubblicato in parte da P. Sisto, Due medici, il principe di Taranto e la peste. I trattati di Nicolò di Ingegne e Saladino Ferro da Ascoli, Napoli 1986, pp. 59-95 (per il testo), 60-63 (per le citazioni testuali qui riprodotte), 41 (per i riferimenti al dottorato padovano dei due medici), 10-12 (per notizie e bibliografia sul codice). (7) Un Geronimo de Ingegne, figlio di Niccolò, partecipa alle attività dell’Accademia Lupiense nell’ultimo lustro del Quattrocento e nei primi anni del secolo successivo, cfr. R. Coluccia, Lingua e cultura fino agli albori del Rinascimento, in Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, cur. B. Vetere, Roma-Bari 1993, pp. 487-571: 557-558. 94 ROSARIO COLUCCIA inoltre di aver adottato la forma espositiva di tipo dialogico in quanto nel dialogo per certo è assay maior copia di saporoso dolcorato, non so come dire, melglio sapore et inçuccarato gusto; il dialogo, modulo tipico della tradizione didattico-moralistica, degli interrogatori religiosi e dei confessionali, viene questa volta utilizzato in un trattato di tipo medicale, procedimento inconsueto ma non eccezionale(8). Nel nostro caso il principe pone le domande e due medici (sulla figura dei quali qualcosa si dirà dopo) forniscono le risposte. L’occasione prossima per la composizione del testo va collegata alle furiose pestilentie che, tra il 1447 e il 1450, imperversano in Italia producendo un gran numero di vittime(9). Su un piano non contingente, andrà ricordato che un gran numero di trattati dedicati all’argomento “peste” si diffonde in Europa e in Italia a partire dal Trecento, dando vita a un vero e proprio genere nel campo della letteratura medica, sulla falsariga dei regimina sanitatis medioevali ma in un certo senso più specializzato, in cui l’esperienza ha un ruolo determinante(10). L’opera di Niccolò merita di essere segnalata perché rappresenta (insieme al trattato politico non pervenuto) un primo esempio di prosa volgare a contenuto latamente didattico prodotta in sede per esigenze specifiche di un pubblico locale; un po’ (8) Nella forma di dialogo tra un medico e una monaca inferma è strutturato il Compendio di la sanità corporale et spirituale del sacerdote Giovanni di Magani (stampato a Milano nel 1527), cfr. S. Morgana – M. Piotti – M. Prada, La divulgazione medica in due stampe milanesi fra Quattro e Cinquecento: l’Anteros di Giovanni Fregoso e il Compendio di la sanità corporale e spirituale di Giovanni di Magani, in Lo scaffale della biblioteca scientifica in volgare (secoli XIII-XVII). Atti del Convegno (Matera, 14-15 ottobre 2004), cur. R. Librandi – R. Piro, Firenze 2006 (Micrologus’ Library 16), pp. 243-295: 243-244. In generale, sull’uso del dialogo tra Quattro e Cinquecento cfr. la bibliografia recente segnalata da A. Godard, Le dialogue à la Renaissance, Paris 2001, pp. 13-29 e da W. Geerts, A. Paternoster, F. Pignatti (Eds.), Il sapere delle parole: studi sul dialogo latino e italiano nel Rinascimento. Atti delle giornate di studio di Anversa, Roma 2001. (9) Come rileva, sulla base di riscontri testuali e con il rinforzo di dati storici, M. T. Navarro Salazar, Definizioni della peste nel “Librecto di pestilencia” di Nicolò di Ingegne (1448), in Actes du XXIIe Congrès International de Linguistique et de Philologie Romanes (Bruxelles, 23-29 juillet 1998), cur. A. Englebert – M. Pierrard – L. Rosier – D. Van Raemdonck, 9 voll., Tübingen 2000, IV, pp. 463-470: 463; il contributo discute aspetti lessicali e semantici dell’opera. (10) Cfr. M. Motolese, Lo male rotundo. Il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra Quattro e Cinquecento, Roma 2004, p. 11. Il lavoro di Motolese si basa sulla analisi di nove trattati pubblicati in Italia tra il 1478 e il 1579, quindi tutti successivi all’opera di Niccolò. Una raccolta di testi di solo ambito pugliese, dal quattrocento fino all’ottocento, produce P. Sisto, “Quell’ingordissima fiera”. Letteratura e storia della peste in Terra di Bari, Fasano 1999. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 95 diverso il caso del coevo volgarizzamento del Libro di Sidrac, forse riconducibile alla corte di Angilberto del Balzo, duca e Nardò e conte di Ugento, appartenente a un ramo collaterale della famiglia, che è una traduzione, cioè trasferisce in sede un’opera di origine lontana, e non uno scritto originale. La formazione medica dell’autore avviene forse presso l’università di Padova, nella quale si formano anche i duy medichi, hominj prudentissimj et savij che rispondono ai quesiti del principe: il più illustre è messer Symone, cioè verosimilmente quel Simone de Musinellis di Bitonto che si addottora a Padova nel 1418; l’altro è messer Loysi (altre volte indicato come Aloyse Tafuro) […] pjù jovene […] benché et de sciencia et de jngegno sia vecchissimo, cioè con ogni evidenza il leccese Luigi Tafuri, dottore all’ università di Padova nel 1431 (come si può notare, le differenti date di addottoramento sono congruenti con lo scarto di età testimoniato dal Librecto)(11). Dall’edizione integrale del testo, davvero auspicabile(12), ci aspettiamo informazioni dettagliate sulle fonti, sulla lingua e sul lessico, e in generale sull’ambiente che ha permesso la confezione di un prodotto così interessante: ma qualcosa si può dire già adesso. Nel Librecto si individuano senza alcun dubbio tratti che dimostrano la coesistenza di elementi meridionali estremi di marcata localizzazione con altri di provenienza mediana e addirittura toscana: per definire una simile coesistenza linguistica non sempre si rivela funzionale l’etichetta di koinè, alla quale spesso e con troppa fiducia si suole ricorrere. Parlerei piuttosto di scripta, che ha invece un carattere più euristico e allude a “normali” oscillazioni interne ad un sistema, in cui esiti di diversa provenienza convivono più o meno pacificamente. Nel Mezzogiorno la spinta uniformante si esercita più per via negativa, cioè per sottrazione di tratti locali, che in positivo, mediante l’instaurazione di modelli comunicativi appositi. Il de Ingegne non è l’unico che cerchi con successo uno sponsor nella corte dell’Orsini, verso la quale gravitano anche personaggi (11) Non è sicura l’identificazione del medico leccese con quel «misser Loysi Tafuro» che il 9 aprile del 1462 consegna all’ufficio di tesoreria 20 once di «argento de carlino» ricevendo in cambio una certa somma di denaro, cfr. Quaterno de spese et pagamenti fatti in la cecca de Leze (1461/62), cur. L. Petracca, Roma 2010 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo – Centro di studi orsiniani. Fonti e studi per gli Orsini di Taranto, 2), p. 25 (e CLVIII). (12) La pubblicazione integrale, corredata di introduzione e di spoglio linguistico, è ora oggetto del lavoro di V.L. Castrignanò, Il “ Librecto de pestilencia” di Nicolò di Ingegne (1448), “cavaliere et medico” di Giovanni Orsini del Balzo, Roma, 2013 (“Fonti e Studi per gli Orsini di Taranto”). 96 ROSARIO COLUCCIA non locali, segno dell’atteggiamento non angusto che contraddistingue l’ambiente. Dalla «città di Ascoli nella Marca» proviene il medico di corte Saladino Ferro(13), che alla vigilia di Natale del 1448 porta a termine un trattato latino De peste, libro di successo non effimero se ancora nella seconda metà del secolo seguente è oggetto di un volgarizzamento e di due stampe(14). Allo stesso si deve anche un Compendium aromatariorum, pubblicato dapprima a Bologna nel 1488 e poi più volte ristampato, disponibile anche in una traduzione ebraica(15), nel quale l’autore si definisce «artium et medecine doctor eiusdemque Serenitatis Principis Taranti physicus principalis», confermando con tale dichiarazione lo stretto legame, anche per quest’opera, con il suo signore ed evidenziando il ruolo ricoperto a corte. A riprova di quanto gli interessi medicali fossero avvertiti, va ricordato che al primo lustro del sec. XVI rimonta la composizione di un Trattato d’igiene conservato nel ms. XII E 7 della Biblioteca Nazionale di Napoli, attribuibile ad un anonimo tarantino di probabile origine lucana; nel contempo va sottolineato che quest’ultimo prodotto non nasce in una corte ma piuttosto segnala l’espansione di certi temi nella società del tempo. Al fermento intellettuale sollecitato dall’Orsini sono riconducibili altri episodi: nel 1456 a Taranto in occasione dei festeggiamenti per le nozze tra Caterina, figlia di Giovanni Antonio e duchessa di Conversano, e Giulio Acquaviva, sarebbe stata recitata la toscana Storia di Ottinello e Giulia, così introdotta per la prima volta in ambito meridionale; ancora agli stessi ambienti andrebbe collegata, per la sola parte finale, la redazione della trattazione cronachistica nota come Diurnali del Duca di Monteleone, che per il resto appartiene alla cultura napoletana(16). (13) Come si legge in una fonte reperita da P. Sisto, Sulla biografia di Saladino Ferro da Ascoli. Appunti in margine ad una “vexata quaestio”, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», 32 (1989), pp. 211-219 (ivi anche per altre notizie biografiche); cfr. anche Sisto, “Quell’ingordissima fiera” cit., p. 10 (ivi, pp. 9-10 n. 2 una scheda bibliografica sulla cultura alla corte di Giovanni Antonio, molto utile anche se non integrale). (14) Ibid., p. 12. (15) Sisto, Sulla biografia di Saladino Ferro da Ascoli cit., p. 218. (16) F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli 1975, pp. 166 e 296 nota 203, che precisa e integra affermazioni di studiosi precedenti, soprattutto di B. Croce, Poesia volgare a Napoli nella prima netà del Quattrocento, negli Aneddoti di varia letteratura, seconda edizione con aggiunte interamente riveduta dall’autore, 4 voll., Bari 1953-1954, I, pp. 33-58: 47. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 97 Diverso è il caso successivo. A Napoli, dietro richiesta del gallipolino Jachecto Maglabeto, segretario e cancelliere dell’Orsini poi caduto in disgrazia(17), nell’agosto 1456 l’abruzzese Aurelio Simmaco de Iacobiti da Tossicia (piccolo centro dell’Abruzzo teramano alla pendici del Gran Sasso) si cimenta in un rifacimento in ottave della Batracomiomachia (prima versione volgare conosciuta, in quanto precede di 14 anni quella del veronese Giorgio Sommariva, datata 1470)(18) e volgarizza in ottave il VI libro dell’Eneide, testi confluiti – insieme ad altri di cui diremo successivamente – nel ms. It. 1097 della B.N. di Parigi, pure appartenuto al principe(19): nell’ottava finale del primo componimento Aurelio si dichiara servitore di Jachecto, definito sire de valimento ‘signore di pregio’, perfettamente equivalente alla qualifica signore prizato riservata allo stesso nella terza ottava del secondo testo. Per il rifacimento poetico della Batracomiomachia il Simmaco non ha eseguito la traduzione attingendo direttamente al testo greco ma, secondo la procedura più frequente nell’umanesimo quattrocentesco d’Italia, si è avvalso di una versione latina dell’opera, quella dell’umanista Carlo Marsuppini(20), circolante nella Napoli aragonese; (17) Sul personaggio cfr. Coluccia, Lingua e politica cit., p. 145 nota 51. Cfr. la scheda in Letteratura italiana [= LIE]. Gli autori. Dizionario biobibliografico e Indici, 2 voll., Torino 1990-1991, II, p. 1652. (19) Recentemente il rifacimento della Batracomiomachia è oggetto di due edizioni successive, che si inseguono a poca distanza: E. A. Giordano, Echi della tradizione omerica in Italia meridionale nel XV secolo: la “Batracomiomachia” in ottave di Aurelio De Jacobictis da Tussicia, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Basilicata», 9 (1999) [= Scritti in ricordo di Giacomo Bona], pp. 151-174 e, più ricca e meglio organizzata, M. Marinucci, Batracomiomachia. Volgarizzamento del 1456 di Aurelio Simmaco de Iacobiti, Padova 2001 (alle pp. 29-31, 62 i riferimenti cui si allude nelle righe successive del mio testo). Per quanto riguarda il sesto libro dell’Eneide, cfr. Sexti Libri Publii Vergili Maronis Aeneidos vulgari rhytmo traductio per Aurelium Simmacum de Jacobictis (a. 1456), cur. M. Marinucci, Trieste 2004 (alle pp. 19, 20, 84 i riferimenti cui si allude nelle righe successive del mio testo). Normalizzo in «Aurelio Simmaco de Iacobiti da Tossicia» il nome dell’autore, che varia ampiamente nelle fonti e negli studi. Per i testi non pubblicati da Marinucci (e da Giordano) mi avvalgo della consultazione diretta del codice. Si consulti infine la descrizione del ms. fornita da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, 4 voll., Milano 1947-1952; Supplemento, II, Verona 1969: Supplemento, I, pp. 254-256. (20) Nella scheda bio-bibliografica sul personaggio leggibile in LIE, Gli autori cit., II, p. 1154, si riferisce che il Marsuppini «tradusse in latino, non molto prima della morte [avvenuta nel 1453] la Batracomiomachia e, su invito di Niccolò V, il primo libro e le orazioni del libro nono dell’Iliade». Può avere un certo interesse che il volgarizzamento del Simmaco si collochi a ridosso della traduzione dal greco operata dal Marsuppini. (18) 98 ROSARIO COLUCCIA non è precisamente individuabile invece la fonte cui abbia potuto attingere il Simmaco per il testo virgiliano, anche se è verosimile che abbia consultato il compendio di Guido da Pisa, Fatti di Enea. Non possiamo precisare quale impatto reale l’iniziativa del Simmaco possa avere avuto nella capitale del Regno ma un dato cronologico è certo: i volgarizzamenti in poesia di Simmaco precedono nettamente la grande stagione napoletana dei volgarizzamenti in prosa, che si dispiega negli anni settanta e ha il suo esponente maggiore in Giovanni Brancati. Del resto nell’opera del volgarizzatore abruzzese non vi sono citazioni esplicite di esponenti della cultura aragonese, neanche dei più noti; e anzi manca qualsiasi riferimento alla cultura letteraria volgare, non potendosi considerare tale la citazione, di sapore meramente antonomastico, di Dante al v. 33 del volgarizzamento virgiliano(21). Un personaggio come Jachecto, pur tra le mene della politica, si impegna in prima persona nell’attività letteraria (anche se in funzione strumentale ai suoi scopi politici) con un sonetto caudato in cui richiede la protezione divina per una nova impresa che si accinge a compiere in Grecia contro gli infedeli (c. 14v)(22); nello stesso tempo un Falcecto che è definito suo rigazo (cioè ‘servitore, garzone, mozzo di stalla’ o anche ‘soldato, scudiero’)(23) propone una violentissima invettiva poetica contro un traditore, maldicente e arrivista Pietro Turditano(24), chiusa da un congedo (cc. 63v – 64r) dove la canzone viene invitata a recarsi senza paura presso il principe (...) quale in Lecce sedy. Quest’ultimo accenno (21) Sexti Libri cit., p. 20. La paternità del sonetto sembra sicura sulla base della coda finale. Trattandosi di un testo poetico poco noto e (per l’area salentina) piuttosto antico, ne do la trascrizione: «Almo confessore, tu Ber[n]ardino, / la cui festa con sollemnitate / se celebra ogi in christianitate, / or su nel cielo exaudi il mio latino, / inte[r]cedendo all’alto Dio divino, / con quella Sancta Matre de pietate, / fonte (et) regina tra l’altre biate: / felicitando vegna il mio destino. / In Grecia chiamato ad nova impresa, / quale io primo in christian collegi / agio pilgiata per sua sancta fede, / fatica né periculo né spesa / poco doctando, ad morte, ad gran despregi / de turchi (et) chi Machone falso crede. / Or habi, Idio, mercede / de me Jachecto, ad Te servo sicuro, / qual per Tuo amore poco morte curo». L’indicazione della festa di S. Bernardino, che si celebra il 20 maggio, sembrerebbe fissare proprio in quel giorno (v. 3: ogi; di quale anno ?) la composizione del sonetto. (23) Cfr. E. Picchiorri, Semantica di “bambino”, “ragazzo” e “giovane” nella novella due-trecentesca, «Studi di Lessicografia Italiana», 24 (2007), pp. 71-131: 95 (24) Petro Truditano, evidentemente non molto ben visto negli ambienti vicini a Jachecto, viene inserito in uno stuolo rio di dannati colpevoli in vita d’ogni sorta di nefandezze al v. 1040 del volgarizzamento virgiliano, cfr. Sexti Libri cit., p. 64. (22) LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 99 fa capire che la canzone, sicuramente ispirata da Jachecto come altre contenute nel codice, nasce lontano dalla corte orsiniana (forse a Napoli, dove sappiamo aver operato il Simmaco)(25), pur se in evidente collegamento con essa; può considerarsi un tentativo di Jachecto (del quale non a caso si ricordano i meriti: il mio signor, che ‘l tuo [= del principe] stato ha inalzato c. 63v) di risolvere i suoi contrasti con il potente personaggio da cui nel 1458 riceverà la morte. Il manoscritto confezionato su ispirazione di Jachecto finì poi nelle mani del principe (non sappiamo se per un dono o per un sequestro) e subì successivamente la confisca da parte del re di Napoli, come altri manoscritti che facevano parte di quella biblioteca signorile salentina. Da quanto abbiamo già visto, e da altri episodi che saranno citati dopo, risulta che alla corte di Giovanni Antonio si viene costituendo una piccola biblioteca, allestita raccogliendo codici dedicati o donati al principe, talora da lui stesso promossi o sollecitati. Appartiene verosimilmente a quest’ultima categoria una versione italiana del Tresor di Brunetto Latini (ms. It. 440 della B.N. di Parigi) trascritta «p(er) […] Johanne(m) Rubeu(m) [probabile latinizzazione di un nome che in volgare sarà suonato ‘Giovanni Russo’] de Artilj d(e) Cup(er)tino» il primo marzo 1459, secondo quanto assicura l’explicit di c. 123r 20-21; una prova di penna, vergata sul recto della prima carta di guardia, rinvia direttamente al principe: «Johannes Antonius princeps Tarenti, comes Licij / Johannes Antonius princeps Tarenti, comes Licij / Johannes Antonius princeps»(26). La versione italiana (25) Ai vv. 8-9 di un Epitaphiu(m) sup(ra) scripti Petri Turditani in latino, conservato a c. 64r del codice si afferma: Ad cuius crimen (con)struxit carmina / vates Aurelius vicij spretor, virtutis amator [‘intorno al suo (= del Turditano) crimine ha composto poesie il vate Aurelio, spregiatore del vizio, amante della virtù’], il che rappresenta un indizio per assegnare al Simmaco la canzone-invettiva contro il Turditano di cui abbiamo parlato. Il personaggio è ricordato anche a c. 17v. Per quanto riguarda l’ambiente (e la data) di composizione, si noti che la canzone finale di cc. 65r – 67v, notevole per la precoce presenza di iberismi lessicali (cfr. R. Coluccia – A. Cucurachi – A. Urso, Iberismi quattrocenteschi e storia della lingua italiana, «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», 9 (1995), pp. 177-232: 218, con bibliografia) è in onore di Alfonso I d’Aragona, con ogni evidenza ancora vivente (Alfonso muore nel 1458). (26) Descrizione del ms. in De Marinis, Supplemento cit., I, p. 61; C. Mascheroni, I codici del volgarizzamento italiano del «Tresor» di Brunetto Latini, «Aevum», 43 (1969), pp. 485-510: 505; J. Bolton Holloway, Brunetto Latini: an Analitic Bibliography, London 1986, p. 29. Appartenuto in origine al principe di Taranto, il ms. entra nella biblioteca aragonese in un secondo tempo, in séguito alla confisca dei beni del feudatario salentino operata dal sovrano napoletano; cfr. ancora De Marinis, Supplemento cit. I 100 ROSARIO COLUCCIA del Tresor(27) (d’ora in avanti indicata con Tesoro), convenzionalmente assegnata a Bono Giamboni(28), è ancora priva di un’edizione critica che dica parole sicure sulla questione attributiva, sulla distribuzione della materia nei testi conosciuti e sui rapporti tra i diversi testimoni, una cinquantina(29). Per quello che più specificamente ci riguarda, ne potremmo ricavare informazioni sulla posizione stemmatica e sulla natura della trascrizione/redazione salentina (copia locale del testo toscano? volgarizzamento autonomo?)(30). In attesa di questi chiari- p. 61: «après sa [di Giovanni Antonio] mort (1463) le roi chargea Marino Tomacello de se rendre a Altamura [dove Giovanni Antonio muore] et sequestrer ses richesses: on peut facilement supposer que le ms. et celui du Tesoro de Brunetto Latini proviennent de cette saisie». Ma questa verosimile razzia (sicuramente non limitata ai libri, cfr. ad esempio quanto si afferma sopra nella nota 2 a proposito del tresauro del principe di Taranto) può riguardare anche gli altri pezzi del patrimonio bibliografico di Giovanni Antonio (il trattato di Niccolò di Ingegne, i volgarizzamenti del Simmaco) entrati nella biblioteca aragonese. Si leggano alla luce di questa trafila le considerazioni di R. Librandi, Il lettore di testi scientifici in volgare, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare, Direttori: P. Boitani – M. Mancini – A. Vàrvaro, III, La ricezione del testo, Roma – Salerno 2003, pp. 125-154: 134: «se si esaminano gli inventari della biblioteca napoletana dei re d’Aragona […] i testi scientifici riguardano come sempre la veterinaria, in particolare trattati di falconeria e mascalcia, e la medicina pratica, con poche eccezioni qui significativamente rappresentate dal “Tesoro volgarizzato” di Brunetto Latini [proprio il nostro testo], dalla traduzione fiorentina della Metaura aristotelica […], dal Libro chiamato della sfera di Leonardo Dati ». (27) La “classica” edizione critica del testo originale si deve a F. J. Carmody, Li livres dou Tresor de Brunetto Latini, Berkeley-Los Angeles 1948 [rist. anast. Genève 1975]. Si aggiunga ora Brunetto Latini, Tresor, cur. P. G. Beltrami – P. Squillacioti – P. Torri – S. Vatteroni, Torino 2007. (28) Esistono varie redazioni toscane, una delle quali, dubitativamente, potrebbe essere assegnata a Bono Giamboni. (29) La tradizione del Tesoro toscano assomma a una cinquantina di manoscritti, come risulta dall’elenco delle Versioni italiane ricostituito all’interno de La tradizione manoscritta delle opere di Brunetto Latini, cur. P. Squillacioti, in Brunetto Latini, Tresor cit., pp. L-LII: LII, con la sigla N, senza altri dati, si cita la Versione salentina dell’opera, rappresentata dal nostro codice. Si integri con P. Divizia, Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici delle versioni italiane del Tresor di Brunetto Latini, «Medioevo Romanzo», 32 (2008), pp. 377-94. (30) Tali questioni vengono ora affrontate da M. Gioia, Per la tradizione del Tresor volgarizzato: appunti su una redazione meridionale (D), «Medioevo Romanzo», 35 (2011), pp. 344-80. A detta dell’autore, risale direttamente al francese (senza intermediario toscano, o comunque italiano) una parca tradizione meridionale del volgarizzamento, rappresentata da due soli codici, il nostro manoscritto salentino e un codice siciliano della fine del sec. XV. Il lavoro di Gioia è meritorio, pur se non affronta fino in fondo la questione per noi cruciale dei rapporti tra i due codici meridionali; a p. 355 si ipotizza che «l’antenato dei due codici [potrebbe riferirsi] al meridione pugliese», fondamentalmente grazie alla presenza in entrambi i testimoni del brano riguardante il fenomeno LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 101 menti, si può almeno constatare che il testo in questione è caratterizzato da un buon numero di fenomeni linguistici fortemente marcati in senso salentino e meridionale: in particolare il sistema grafo-fonetico presenta fenomeni di notevole interesse, che meritano uno spoglio e una catalogazione dettagliata e un confronto sistematico con le risultanze provenienti dai testi coevi della stessa zona o da altre del Mezzogiorno. Esiste inoltre almeno un brano in cui, presumibilmente per iniziativa dello scrivente, l’esposizione viene arricchita con un’aggiunta di sapore locale: nella discussione sulle cause e sull’origine delle maree, a proposito della variazione periodica del livello delle acque marine, si rinviene la seguente affermazione: «comu allu mar(e) piccolino d(e) Tara(n)to, ch(e) va doy fiate jnt(ro), / jurno (et) nocte, (et) reto(r)na arreto» (c. 29r 31-32). Sul piano dei contenuti, l’interesse di Giovanni Antonio per il Tesoro (nato alla fine del Duecento in una dimensione legata al governo della città di Firenze ma presto collocatosi su livelli di attrattiva generale) sarà da attribuire al suo carattere di vero e proprio manuale di azione politica, in senso nobile e non meramente pratico; torna utile a questo punto ricordare che già qualche anno prima il de Ingegne aveva composto e dedicato al sovrano il suo libretto su la doctrina del guberno di stato et vita principale. La attuale presenza di questo codice del Tesoro (come gli altri appartenuti a Giovanni Antonio, e come gli altri più numerosi di Angilberto del Balzo) nella B.N. di Parigi si spiega con la dispersione della biblioteca dei re d’Aragona, nella quale confluiscono i manoscritti di provenienza salentina, in conseguenza dei ripetuti sequestri, operati dai re di Napoli, di beni appartenuti a feudatari ribelli più o meno convintamente filoangioini: feudatari più o meno apertamente ribelli sono appunto Giovanni Antonio ed Angilberto. La parte più consistente dei fondi manoscritti conservati a Napoli («unze cent quarante livres de toutes sortes» assicura una annotazione coeva) raggiunge la capitale francese come bottino di guerra al rientro in Francia di Carlo della marea nel “mar piccolo” di Taranto, al quale accenno qui stesso, qualche rigo più giù (un confronto tra i testimoni è impossibile, mancando nell’articolo la trascrizione della versione siciliana). A parte ciò, il pur apprezzabile contributo di Gioia si segnala per un paio di caratteristiche: l’abitudine a utilizzare informazioni e dati altrui a volte senza indicare la fonte bibliografica (o citando la fonte stessa in contesti e per elementi diversi da quelli appropriati) e una rapidità forse eccessiva nell’utilizzazione della bibliografia (si vedano ad esempio i refusi di p. 350 nota 16: non Sebastiano Russo, bensì Sabatino Russo; non M.T. Romaniello, bensì M.T. Romanello). 102 ROSARIO COLUCCIA VIII, dopo la breve parentesi della sua discesa a Napoli (1494-95), e qualche anno dopo in conseguenza di due vendite effettuate dal deposto re aragonese Federico e da sua moglie Isabella del Balzo(31); una parte più esigua si sposta parecchi anni dopo in Spagna (e, in misura piuttosto ridotta, si trova attualmente nella Biblioteca Universitaria di Valencia), dove si rifugia Ferrante d’Aragona, ultimo duca di Calabria, figlio di Federico d’Aragona e di Isabella. La dichiarata preferenza del de Ingegne per il volgare, i volgarizzamenti del Simmaco e gli altri testi romanzi che abbiamo ricordato (oltre all’uso del volgare per le esigenze della cancelleria), non devono far pensare ad una scelta linguistica unilaterale della corte orsiniana, che invece si mostra impegnata in uno sforzo culturale che lambisce perfino l’umanesimo latino e greco. Si è già citato il trattato latino di Saladino Ferro; per quanto riguarda il greco, bisogna registrare che a vantaggio del principe (che, tra i tanti titoli, vanta anche quello di conte di Soleto) l’amanuense soletano Nicola Antonio Pinella trascrive nel 1450 il cod. Laurenziano 50.16, di contenuto grammaticale, e che un altro codice grammaticale e alcuni manoscritti aristotelici potrebbero essere ricondotti alla medesima committenza. Non sono documentati rapporti con l’abbazia di S. Nicola di Càsole nella quale si produce, fino alla caduta di Otranto in mano dei Turchi (1480-81), un numero straordinario di manoscritti greci (copie di testi classici ma anche prodotti originali e contemporanei), tali da rendere il Salento il tramite più importante per la diffusione della cultura bizantina nell’intero mondo occidentale. Anche per via indiretta si può provare che l’Orsini incoraggiasse la produzione in sede di manoscritti: in inediti documenti d’archivio vengono registrate delle somme devolute su disposizione del princi- (31) Per la costituzione e la dispersione della biblioteca aragonese, quasi ovvio il rinvio al monumentale De Marinis, La biblioteca napoletana cit. Come già accennato a testo, il bottino di Carlo VIII ammonta a «unze cent quarante livres de toutes sortes» secondo un’annotazione del 7 settembre 1498 qui pubblicata, I, p. 200, nota 8. Su vicende e struttura della biblioteca aragonese si vedano anche P. Cherchi – T. De Robertis, Un inventario di libri della biblioteca aragonese, «Italia medievale e umanistica», 33 (1990), pp. 109-345, e numerosi studi di G. Toscano tra i quali trascelgo, esemplarmente, il volume curato dallo stesso, La biblioteca reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese 1442-1495, catalogo della mostra, Napoli-Valencia, Valencia 1998 e il più recente La biblioteca napoletana dei re d’Aragona da Tammaro de Marinis ad oggi. Studi e prospettive, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, cur. C. Corfiati – M. De Nichilo, Lecce 2009, pp. 25-63, tavv. I-XXVIII. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 103 pe per acquisto di materiale scrittorio o per ricompensare l’attività di copisti operanti a Lecce agli inizi del sesto decennio del secolo, negli ultimi anni di vita di Giovanni Antonio. Nel 1460-61 (il registro reca la data 1461, ma si tratta dell’indizione bizantina che comincia il 1 settembre 1460 e termina il 31 agosto dell’anno successivo) viene procurata della pergamena necessaria alla confezione di un manoscritto della Bibbia e di un libro de vita santi Iohannis abbatis e nello stesso anno si ricompensa l’autore di una trascrizione della Genesi (nei tre casi non sappiamo se siano testi in latino o in volgare; sicuri volgarizzamenti biblici troveremo alla corte di Angilberto); infine nel 1463-64 (la data del registro è il 1464, ma si tratta anche qui dell’indizione bizantina) si paga un copista impegnato nella riproduzione di un Centonovelle. Proprio quest’ultima notazione è particolarmente significativa se con questo titolo si allude, come pare evidente, al Decameron (astrattamente potrebbe infatti trattarsi anche del Novellino, indicato anche come Le cento novelle antiche). In primo luogo perché si tratterebbe di un nuovo pezzo, per quanto smarrito o non identificato, da aggiungere alla tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio. Ma ancor più perché sarebbero sintomatici la confezione e il conseguente approdo a questa data del capolavoro novellistico toscano in una biblioteca signorile della periferia salentina (un altro Centonovelle è nella biblioteca di Angilberto, ma siamo almeno un ventennio più in là). Infatti la presenza del Decameron nel meridione non è scontata; «se escludiamo le pressanti richieste della colonia fiorentina residente a Napoli nel terzo quarto del Trecento e l’enigmatico caso del codice Parigino Italiano 1474» [che contiene una copia del Decameron (sicuramente transitato per Napoli già negli anni trenta-quaranta, ma confezionato probabilmente a Firenze)], «nessun segnale positivo giunge da ambienti italo-meridionali fino alla metà del Quattrocento»(32). Le opere (32) M. Cursi, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma 2007, pp. 115-116; l’inserzione tra parentesi quadre all’interno della citazione testuale intende richiamare l’attenzione su particolari ancora insicuri riguardanti genesi e circolazione del manoscritto, che così possono essere riassunti. La stesura di questo esemplare del Decameron si deve nella maggior parte a una mano mercantesca di origine toscana, con integrazioni ridotte di altri scriventi pure toscani; fa eccezione una sola altra mano di probabile origine napoletana, che peraltro si limita a un certo numero di inserti e alle rubriche di un solo fascicolo del codice. Troppo poco, mi pare, per ipotizzare fondatamente che «il codice fu prodotto nella capitale del Regnum, forse in una di quelle agenzie commerciali nelle quali, fin dal secondo quarto del Trecento, 104 ROSARIO COLUCCIA latine del Boccaccio circolarono presto a Napoli; ma la mancanza di un ceto medio locale colto, capace di accogliere uno scritto creato per puro divertimento di lettori comuni, rende ragione del fatto che nella capitale partenopea, uno dei centri fondamentali della cultura italiana del tempo, la fortuna dell’opera volgare di Boccaccio prenda quota tardi, forse non prima del sesto-settimo decennio del Quattrocento. Se allarghiamo il nostro punto di osservazione, sappiamo che in Italia il Decameron deve attendere il 1467 per entrare nella libreria di un signore, pur sensibilissimo alla letteratura come il duca Borso d’Este; e persino presso i Medici, ancora nel 1480, è considerato “libro di camera”, cioè di divertimento, che non può ascendere nella biblioteca di palazzo, di più raffinato impianto. Il collegamento con la cultura toscana apparirà ancora maggiore se si considera che autore della copia del perduto codice salentino è Guido m(agistr)i Ranerij de Flor(entia), con ogni verosimiglianza appartenente alla consistente colonia fiorentina ormai da qualche decennio stanziata in loco. Benedetto Vetere mi annunziava da mesi di aver rinvenuto annotazioni analoghe riguardanti pagamenti, disposti dal principe, a favore di copisti impegnati nella trascrizione di altre opere volgari: ora, a pp 18-20. di questo volume, possiamo conoscere i dettagli. Oltre a promuovere la stesura di opere originali e di volgarizzamenti e a sollecitare la confezione di codici, l’Orsini si lavoravano a contatto di gomito mercanti toscani e partenopei» (Cursi, Il Decameron cit., p. 80). Il codice, redatto quasi integralmente a Firenze, sarà approdato a Napoli, dove mani napoletane hanno vergato i sonetti di Cola Maria Bozzuto (trascrizione unica) e le registrazioni di fitti e salari conservate nel verso della prima carta di guardia cartacea: le sicure addizioni napoletane si concentrano dunque nelle carte di guardia e in poco altro, il corpo dell’opera è fiorentino. Le carte finali del codice conservano tre sonetti del nobile napoletano Cola Maria Bozzuto, all’incirca del 1440, sicuramente trascritti da una mano napoletana (pur se non autografi), cfr. Coluccia, I sonetti inediti di Cola Maria Bozzuto, rimatore napoletano della prima metà del sec. XV, «Zeitschrift für romanische Philologie», 108 (1992), pp. 293-318. Alle notizie biografiche sul Bozzuto contenute nell’articolo aggiungo questa ulteriore minuscola scheggia, peraltro congruente con le informazioni già possedute. Agli inizi del 1444 il gaetano «Iacobus Castangnya», procuratore di «Nicolaus Maria Boczuti», qualificato come miles neapolitanus, e di sua moglie «Catherina Caraczolo», vende una proprietà con case, trappeto e circa 700 alberi di ulivo a un cittadino barese, secondo la testimonianza di due pergamene baresi del 1444 e del 1466, cfr. F. Nitti di Vito, Le pergamene del Duomo di Bari. Catalogo (1309-1819), Trani 1939 [=Codice Diplomatico Barese (= CDB) XV, poi continuato come Codice Diplomatico Pugliese (= CDP)], pp. 61 e 72. L’anno della vendita si accorda con le date di attività del Bozzuto documentate nell’articolo ricordato sopra; inedita è l’informazione riguardante il nome della moglie. LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE 105 mostra interessato all’incetta di manoscritti di diversa provenienza, quando ciò sia possibile: alla morte di Nicola Pagano, arcivescovo di Otranto (1451), viene organizzata una vera e propria asta dei beni a lui appartenuti, tra cui spiccano una sessantina di volumi, di cui 30 rilegati e 28 privi di legatura: nell’occasione, l’Orsini preleva per sé un esemplare del Secretum Secretorum (e un bel mappamondo) e regala a Jachecto (di cui abbiamo parlato in precedenza) un codice pergamenaceo di Petrarca; non sappiamo di quale opera si tratti, pur se pare evidente che non si possa trattare del Canzoniere, considerata la matrice religiosa della biblioteca di provenienza. Al di là degli elementi di novità e dei risultati effettivi, è indubbio che Giovanni Antonio sia il primo principe locale che si impegni in uno sforzo di vera e propria politica culturale non dipendente dalla corte di Napoli; si inserisce in questa prospettiva la attivazione a Galatina di una scuola di grammatica in cui insegnano laici ed ecclesiastici ricompensati direttamente dal sovrano. Quest’impresa si presenta come una prosecuzione, di carattere più istituzionale e in forma più collettiva, dell’insegnamento grammaticale praticato da Nicola de Aymo alla corte di Maria d’Enghien. Le accorate iscrizioni graffite sui muri di locali adibiti a prigione nella Torre del Parco a Lecce, dovute a scriventi di varia provenienza geografica, alcuni forse pugliesi, completano l’articolato quadro della produzione volgare che si manifesta in Salento intorno alla metà del secolo(33). Non si tratta di testi direttamente prodotti o ispirati da Giovanni Antonio, dalla sua corte o dai suoi funzionari; ma la scarsità, nell’intero panorama italiano, di scritti dal carcere dello stesso tipo o a questi avvicinabili rende auspicabile una rapida edizione integrale delle iscrizioni, che informi fin dove possibile sulla personalità degli scriventi e sulla qualità dei testi. Da quanto mi è sembrato di capire da un’ispezione diretta, saranno forse necessari anche interventi conservativi, per evitare che su questo singolare (33) M. Cazzato, Imprese costruttive e ristrutturazioni urbanistiche al tempo degli Orsini, in Dal Giglio all’Orso cit., pp. 307-335: 332-335. A proposito del simbolismo legato all’orso, animale che Giovanni Antonio impiega araldicamente su scudi, targhe, affreschi e addirittura lascia circolare liberamente, in carne ed ossa, nei fossati del castello e della Torre del Parco di Lecce, cfr. il bel saggio, ricco di esempi e suggestioni, di P. Sisto, Dal bosco ai libri: l’orso tra letteratura e antropologia, nel vol. dello stesso «Legato son, perch’io stesso mi strinsi». Storie e immagini di animali nella letteratura italiana, I, Roma 2010, pp. 121-135. 106 ROSARIO COLUCCIA blocco di scritture esposte si abbatta il processo di distruzione e di dilapidazione che nel corso dei secoli ha interessato tante diverse manifestazioni della civiltà locale. Concludo. Tanto articolato complesso di iniziative dimostra quale strumentazione culturale abbia sorretto le spinte autonomistiche che l’Orsini esercita sul piano politico nei confronti della dinastia regnante. La morte del personaggio, verosimilmente non naturale ma “favorita” dagli Aragonesi (come apertamente si dichiara nella n. 2), interrompe o rallenta sensibilmente i fermenti di autonomia generati da questa esperienza. E tuttavia con la morte di Giovanni Antonio non si esaurisce il ruolo propulsivo delle corti locali. Tra Ugento e Nardò, Angilberto del Balzo, genero dell’Orsini per averne sposato la figlia Maria Conquesta nel 1462, coinvolto nella seconda congiura dei Baroni e di conseguenza messo a morte nel 1487, si dota di una non disprezzabile biblioteca (un centinaio di pezzi latini e volgari, non greci) di stampe e manoscritti, alcuni prodotti in loco grazie alla sistematica attività di copisti benedettini provenienti da Nardò. Se estendiamo lo sguardo oltre i confini salentini, constatiamo che press’a poco negli stessi decenni gli Acquaviva di Conversano, imparentati con i del Balzo, sviluppano una politica culturale che più intensamente sembra guardare verso altre zone del Meridione, a partire dalla capitale partenopea. Anche a Bari, alla corte della duchessa Bona Sforza, futura regina di Polonia, non mancano testi e fenomeni di un certo interesse. Ma si tratta di vicende diverse, ancora in parte misconosciute, alle quali in questa sede non è possibile neppure accennare(34). (34) Una dimostrazione dei possibili sviluppi di questa prospettiva di ricerca fornisce Il progetto ADAMaP (Archivio Digitale degli Antichi Manoscritti della Puglia) i cui dati sono consultabili nel sito www.adamap.it. Esso ha l’obiettivo fondamentale di riportare virtualmente nella sede originaria, in Puglia, centinaia di manoscritti che vi furono redatti o vi circolarono nel Medioevo, fino al Quattrocento e oltre; per vicende varie, quelle testimonianze non sono più in loco, ma sono dislocate in biblioteche di mezzo mondo. Naturalmente i codici, come i dipinti e le opere d’arte, non possono rientrare fisicamente in sede: ma la tecnologia, mediante la digitalizzazione dei manoscritti, consente la ricomposizione virtuale di quell’importantissimo patrimonio, attualmente disperso e quasi dimenticato. La squadra, diretta da me, Rosario Coluccia con la collaborazione di Antonio Montinaro, è formata da giovani e giovanissimi linguisti, filologi ed informatici: Sabrina Bini, Vito Luigi Castrignanò, Francesco G. Giannachi, Marco Maggiore e Stella Trazza (redattori), Diego Bergamo (ingegnere informatico) e Tonia Bruno (grafico). Il sito di ADAMaP si compone di tre sezioni: Biblioteca digitale, Banca dati, Studi.