ISTITUTO STORICO ITALIANO
PER IL MEDIO EVO
CENTRO DI STUDI ORSINIANI
FONTI E STUDI PER GLI ORSINI DI TARANTO
STUDI
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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
CENTRO DI STUDI ORSINIANI
UN PRINCIPATO TERRITORIALE NEL REGNO DI NAPOLI?
GLI ORSINI DEL BALZO PRINCIPI DI TARANTO (1399-1463)
Atti del Convegno di studi
(Lecce, 20-22 ottobre 2009)
a cura di
LUCIANA PETRACCA e BENEDETTO VETERE
ROMA
NELLA SEDE DELL’ISTITUTO
Palazzo Borromini – Piazza dell’Orologio
2013
Fonti e studi per gli Orsini di Taranto
collana diretta da
Benedetto Vetere
Il presente volume è stato realizzato con il contributo dell’Università del
Salento tramite il Rettorato, il Dipartimento dei Beni delle Arti e della
Storia, il Dottorato di Ricerca in “Arti, Storia e Territorio dell’Italia nei
rapporti con l’Europa e i paesi del Mediterraneo” e l’istituto bancario
Monte dei Paschi di Siena.
Comitato scientifico:
Rosario Coluccia
Isa Lori Sanfilippo
Carmela Massaro
Anna Maria Oliva
Francesco Somaini
Giancarlo Vallone
Benedetto Vetere
Centro di studi orsiniani - Lecce
Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo
ISBN 978-88-98079-03-2
Tutti i diritti riservati
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
TRA CONSERVAZIONE E INNOVAZIONE
ROSARIO COLUCCIA
1. Ancora agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso le insoddisfacenti conoscenze sulla storia linguistica del Meridione nel Medioevo
potevano essere imputate alla scarsa documentazione disponibile.
Quasi in risposta operativa a quella denunzia, da molti lamentata,
nell’ultimo quarto di secolo il panorama editoriale è migliorato
non poco e testi napoletani e campani, pugliesi, lucani, calabresi,
siciliani, costituiscono ormai un apprezzabile reticolo di riferimento
per gli studiosi (pur a maglie ineguali) e offrono la base documentaria che consente di ricostruire, con discreta ampiezza di dettagli
e qualche presunzione di verosimiglianza, anche aspetti e situazioni
meno evidenti del cammino verso l’italianizzazione delle regioni
meridionali. Sotto questo profilo a volte quasi si desidererebbe un
più oculato bilanciamento delle attività editoriali, considerato che
– mentre dati attendibili ancora scarseggiano per situazioni poco
indagate – nuovi testi continuano ad apparire per zone già ben studiate. Se la storia linguistica napoletano-campana e quella siciliana
risultano tra le meglio esplorate dell’intera Italoromània non toscana, non altrettanto si può dire per altre aree del Sud, su cui le nostre
conoscenze, pur progredite negli ultimi anni, non sono ancora al
livello desiderabile.
2. In queste condizioni è attualmente la Puglia (nella duplice articolazione barese e salentina), che presenta la peculiarità positiva di una
produzione di entità e varietà non disprezzabili (come avremo modo
di vedere) e la caratteristica negativa, che si accentua in zone vicine
come la Lucania e la Calabria, di risultare, almeno in parte, ancora
carente di affidabili edizioni di testi di un certo peso, corredate di
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ROSARIO COLUCCIA
un adeguato commento linguistico e lessicale. Non mancano studi,
anche intelligenti e ben fatti, su testi, situazioni, personaggi; ma
manca (o è solo in allestimento) una banca dati testuale telematica,
molto estesa e in prospettiva integrale, impostata con criteri filologicamente ineccepibili ed informaticamente amichevoli, aperta alla
consultazione anche di fruitori esterni, che costituirebbe l’indispensabile tesoro di partenza per vocabolari storici, ricerche linguistiche
di ampio respiro, analisi di tipo storico, di tipo letterario, ecc.
In un lavoro recente, preparato per un convegno in memoria
di Bruno Migliorini(1), ho allestito un censimento completo della
produzione volgare pugliese tre e quattrocentesca. Ne risulta
un bilancio tutt’altro che esiguo, in termini numerici, rispetto a
quanto potremmo aprioristicamente ma pessimisticamente presumere. La specificità della situazione pugliese, caratterizzata dalla
presenza di etnie come quella ebraica e quella greca, minoritarie
ma assai vivaci, consente di ampliare con un manipolo di testi
romanzi redatti con i caratteri dell’alfabeto ebraico e dell’alfabeto
greco il censimento dei testi in grafia latina: questi ultimi appaiono più tardi rispetto ai testi in caratteri ebraici e in caratteri
greci, per ragioni culturali e linguistiche spiegabili, che non è
possibile dettagliare in questa sede. Un notevole contributo forniscono in particolare gli studi storici, di varia impostazione, nei
quali vengono utilizzati e presentati documenti d’archivio, delle
cancellerie, del mondo notarile. Si pensi al sistematico lavoro di
scavo (con conseguente pubblicazione di testi inediti o male editi)
cui da anni si dedicano studiosi come A. Frascadore, H. Houben,
A. Kiesewetter, F. Magistrale, C. Massaro, G. Vallone, B. Vetere
(non pretendo certo di esaurire la lista). In verità gli scambi possono svolgersi anche in direzione inversa, come dimostrano le non
(1)
R. Coluccia, Migliorini e la storia linguistica del mezzogiorno (con una
postilla sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci), in Bruno
Migliorini, l’uomo e il linguista (Rovigo 1896 – Firenze 1975). Atti del convegno di
studi (Rovigo, Accademia dei Concordi, 11-12 aprile 2008), cur. M. Santipolo – M.
Viale, Rovigo 2009, pp. 183-222 (una redazione lievemente modificata è apparsa,
con il medesimo titolo, negli «Studi Linguistici Italiani»). Specificamente delle
corti salentine mi è già capitato di trattare alcuni anni fa, cfr. Lingua e politica. Le
corti del Salento nel Quattrocento, in Letteratura, verità e vita. Studi in ricordo di
Gorizio Viti, cur. P. Viti, Roma 2005, pp. 129-172. Per evitare fastidiose ripetizioni,
a entrambi questi lavori rinvio per molte informazioni, anche bibliografiche, sui
testi di cui si discute nel presente contributo.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
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casuali edizioni di testi storici che filologi e linguisti offrono alla
valutazione (non sempre ottenuta) dei colleghi di altra formazione.
Rientrano nell’alveo cronologico di cui qui ci occupiamo i Ricordi
di Loise De Rosa(2) e la Cronaca del Ferraiolo(3): il primo testo in
particolare allude più di una volta a Maria d’Enghien e a Giovanni
Antonio Orsini del Balzo.
Torniamo ai dati testuali. Per il Trecento abbiamo un gruppetto
di 15 testi volgari, una buona percentuale dei quali risultano redatti
in alfabeto ebraico e in alfabeto greco. Dopo questi inizi un po’ timidi ma non insignificanti, nel corso del sec. XV il volgare si impianta
progressivamente nei diversi ambienti in grado di generare cultura
scritta: le corti e le loro cancellerie, i ceti cittadini (notai, mercanti,
laici di varia estrazione), i monasteri, i conventi e in genere l’universo
religioso, in una notevole varietà di usi documentari, amministrativi
e pratici, di scritture esposte, di confessionali, di trattati scientifici, di volgarizzamenti e anche di prodotti letterari, da mettere in
rapporto con la crescente articolazione della società del tempo. Si
giunge così a censire un’ottantina di testi, spesso di estensione e
di fattura ragguardevoli. Il numero effettivo potrebbe considerarsi
assai più ampio perché sovente per ragioni di comodità contabile (se
così si può dire) sono stati riunificati sotto un unico esponente molti
pezzi, anche di tipologia relativamente diversa, redatti in vari anni
e quantitativamente cospicui: è il caso dei protocolli notarili, delle
raccolte di statuti, dei libri di conti, ecc.
(2)
Loise De Rosa, Ricordi. Edizione critica del ms. Ital. 913 della Bibliothèque
Nationale de France, cur. V. Formentin, due tomi con numerazione continua,
Roma 1998. Scelgo tra quelli narrati dal De Rosa, cronista dalla prosa singolarmente vivace, un episodio che riguarda Maria d’Enghien e uno che riguarda
Giovanni Antonio. Quando, dopo averne subito l’attacco armato e l’assedio,
Maria si induce ad accettare la profferta di nozze che le avanza Ladislao d’Angiò
Durazzo, nella difficile e incerta situazione, i consiglieri non mancano e non
tacciono: «Fole ditto:: – Lo re te ammacczerà. – Essa disse: – No mme nde curo:
moro regina -» (p. 683). L’omicidio di Giovanni Antonio per ordine di Ferrante
d’Aragona viene imputato alle sleali mene del primo, individuate e punite dal
secondo. Le fasi finali della tragica contesa sono descritte così: «Et lo re Ferrante
andava a trovare lo prencepe: et fece et ordenao per sý fatto muodo che lo prencepe fo ammacczato dentro la camera soa, dentro lo lietto suo, per lo cammariere
et per ly suoi intteme. Lo affocaro, con una tovaglia lo strangoliaro. Et lo re
era poco lontano d’Autamura, dove fo affocato, et loco trovao uno tresauro et
cussý abbe tutto lo domminio et lo tresauro, dove ·de teneva, che fo uno grande
numero» (p. 534).
(3)
Ferraiolo, Cronaca, ed. R. Coluccia, Firenze 1987.
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ROSARIO COLUCCIA
3. Puntiamo ora direttamente i riflettori sulla cultura delle corti,
come si configura attraverso i documenti lì direttamente prodotti e
quelli che si generano nei paraggi.
Dobbiamo attendere la fine del sec. XIV perché il volgare venga
usato per la prima volta nello scritto per la redazione di un atto
amministrativo proveniente da una corte locale, quella di Raimondo
Orsini del Balzo, infrangendo il monopolio del latino in questo campo(4). Possiamo individuare subito una caratteristica che ritroveremo
anche in documenti analoghi successivi: i non molti tratti salentini
sono per così dire diluiti in una lingua ibridata, che si configura
fin dal suo sorgere come un prodotto linguisticamente composito,
confezionato nelle cancellerie regali verosimilmente per iniziativa
collegiale. Il fenomeno si giustifica abbastanza facilmente. Nella tradizione cancelleresca e amministrativa l’influenza dei modelli uniformanti centrali, provenienti in primo luogo da Napoli, si dispiega
anche nelle periferie e favorisce la confezione di manufatti (lettere,
ordinanze, e ancor più statuti, capitoli, bandi, registri erariali, ecc.)
ripetitivi nella struttura testuale e relativamente omogenei nella lingua, anche a dispetto delle variazioni legate al luogo, al momento e
alla contingenza redazionale.
Le testimonianze scritte connesse all’attività di altri membri
della medesima famiglia regale lasciano intuire un tentativo di radicamento crescente, perseguito anche con accorgimenti di carattere
linguistico, nel territorio salentino da non molto acquisito. Le iniziative di Maria d’Enghien e di suo figlio Giovanni Antonio Orsini
del Balzo si inquadrano in un meditato progetto di valorizzazione
politica e culturale del Salento, spesso concepito in polemica con il
potere centrale napoletano. Per quanto riguarda la prima, tralasciamo qui l’epistolario, il giuramento di sottomissione a Luigi d’Angiò,
il cosiddetto codice di Maria d’Enhien e in genere i documenti
amministrativi o giuridici.
Un prodotto diverso, affatto singolare, è la grammatica latina
con esempi in volgare leccese che il domenicano Nicola de Aymo,
cappellano della regina Maria, compila nel 1444. La biografia dell’au(4)
Cfr. rispettivamente A. Kiesewetter, Ricerche e documenti per la signoria
di Raimondo del Balzo Orsini, «Bollettino Storico di Terra d’Otranto», 11 (2001),
pp. 17-30: 30; Kiesewetter, Problemi della signoria di Raimondo del Balzo in Puglia,
in Dal Giglio all’Orso. I Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, cur. A.
Cassiano – B. Vetere, Galatina 2006, pp. 37-89: 81-82.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
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tore, contrassegnata da esperienze di insegnamento anche fuori dal
Salento (in particolare a Bologna) e da espliciti apprezzamenti da
parte del potere politico, si può ricostruire con soddisfacente ampiezza di dettagli, che qui ometto. Per quanto attiene alla attività didattica
e grammaticale, il suo Interrogatorium constructionum gramaticalium,
recentemente pubblicato integralmente in una edizione di piena
affidabilità dovuta a R.A. Greco(5), merita attenzione perlomeno per
due ragioni, una strutturale ed una linguistica. Sul piano della macrostruttura, per la redazione della sua opera Nicola assembla, spesso
senza avvertire, in un amalgama sufficientemente riuscito, fonti
grammaticali in voga all’epoca: Francesco da Buti, Guarino Veronese,
Cristiano da Camerino e, più all’indietro, Donato, Prisciano, ecc.;
non manca il condimento religioso rappresentato da passi biblici,
inni liturgici, brani della Vulgata. Sul piano della lingua, utilizzando
un modello didattico che in altre zone d’Italia ha grande successo fin
dai secoli precedenti, l’autore fa ricorso al volgare per spiegare e tradurre gli esempi latini ricorrenti nella sua trattazione grammaticale.
Risulta evidente che l’ingresso del volgare salentino nella scuola e nel
libro di testo avviene non per via autonoma ma in forma subalterna
e come mero strumento finalizzato allo studio del latino; la giovane
età dei destinatari avrà ancor più invogliato l’autore ad utilizzare la
competenza nativa degli stessi come base per lo studio della lingua
di cultura. Sintomatiche del tentativo di aderenza alla vita quotidiana
e addirittura all’esperienza giornaliera dei discenti sono le frequenti
allusioni alla concreta azione educativa svolta dal maestro in specifici
momenti della vita scolastica: yo sollu corregere li mei discipuli 42v A
26-7; lu maystro legente, tu te partisti da la scola 53v B 10-1; tu venuto
a la scola, lu ma[i]stro legeva 53v B 21-2; facta la lectione da lo ma[i]
stro, nuy inserrammo li libri 53v B 26-8; arrivato yo a la scola, sonaro
le campane 54r A 9-10; tu dantemi cinquanta ducati, yo incingharia ad
tuo figlyolo gramatica 54v A 22-4; tu stodiante diligentemente nocte
et iurno, sì valente scolaro 55r A 16-8; lo nuostro maistro, lo quale
intrante in la scola tucti li sculari tacono, lege apertam(en)te 56r A 12-5;
legente lo maystro ordinatamente, è cosa la quale piache a li scolari 56r
B16-8; venuto lu maystro a la scola, li scolari apersero li libri 56v A
19-21; ecc. Fino alla affermazione un po’ pomposa, ma interessante
(5)
R. A. Greco, La grammatica latino-volgare di Nicola de Aymo (Lecce, 1444):
un dono per Maria d’Enghien, Galatina 2008.
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ROSARIO COLUCCIA
perché documenta l’esistenza reale di un’attività pedagogica locale
legata all’insegnamento del latino: in Leche è una bona scola de gramatica 92v B 22-3. Il tentativo di adattare al contesto locale l’opera si
manifesta anche con la citazione di località salentine o non lontane
da Lecce, proprio per questo in grado di attrarre l’attenzione degli
allievi: inter Taranto et Brindisi 14v B 19-20; «Roma et Tarentum» 34r
A 4, «Sanctus Petrus et Casale Novum» 34r A 6, «Mediolanum et
Tarentum» 34r A 9-10, «Neapolis et Gallipolis» 34r A 11, «Rome vel
Taranti» 34v B 22, «Roma, Tarento» 35r A 5, «Galipoli et Senis» 35r
A 7, «Roma […] Tarentum» 36r B 7/11, «Francia, Apulia» 36r A 11-2,
«Altamura, Villa Nova» 36r A 14-5, «Licium, Tarentum, Brundisium,
Sene, Venecie, Pise, Neapolis, Cartago, Gallipolis» 36r B 10-2, «Licij,
Licio, Licio, Licium» 36r B 22-5, Pietro, lo quale deve andare cray ad
Taranto, comparao ogi uno cavallo 51v B 26-8, «ego fui Tarenti, que
habundat piscibus» 78r A 22-3. L’espediente, che mira a contestualizzare l’opera con l’introduzione di toponimi locali noti ai potenziali
lettori, non è trovata originale di Nicola de Aymo, configurandosi
a volte come iniziativa perfino dei copisti, non solo degli autori: ad
esempio, nella tradizione manoscritta delle Regule di Francesco da
Buti gli scribi introducono volentieri dei toponimi localizzanti, legati
alla propria zona di provenienza. In altri termini, anche la toponomastica, oltre alla lingua, può essere una spia del contesto culturale
nel quale si genera un determinato testo. Molti esempi volgari sono
segnati da una struttura sintattica involuta, che trasferisce nel volgare strutture irrigidite della lingua latina: lo nuostro maistro, lo
quale intrante in la scola tucti li sculari tacono, lege apertamente; ecc.
Involute fino all’inanità comunicativa risultano frasi come dui più de
tre scolari correno 69v B 14-5; tre meno de cinque scolari legeno 69v B
18-9, Pietro, amato da alcuno, curre 51v A 12-3, e molte altre. Se nella
sintassi il modello latino continua ad esercitare una forte influenza,
fino al limite della artificiosità comunicativa, il lessico non esita ad
accogliere più di un elemento di aderenza al parlato volgare. In proposito andranno ricordati almeno, oltre agli avverbi temporali crai
‘domani’ 13r A 11 e nusterça ‘l’altro ieri’ 13r A 23, i verbi glyomerare
‘aggomitolare, avvolgere’ 29v A 28, groffolare ‘russare’ 33v A 5, insetare ‘innestare’ 29v B 2, pertusare ‘bucare’ 20r A 27, sagnare ‘salassare’
19v A 26, scalfar(e) ‘riscaldare’ 29v A 10, scalfarese 31r A 26, scardar(e)
(pissi) ‘squamare’ 29v B 24, tronare ‘tuonare’ 30v A 25.
Alla corte del successore di Maria, Giovanni Antonio Orsini
del Balzo, oggetto primario del nostro interesse, l’uso del volgare si
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
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incrementa, fino a toccare pienamente – come vedremo – anche il
dominio letterario. Ometto anche in questo caso ogni riferimento ai
documenti amministrativi, che presentano problemi e caratteristiche
analoghi a quelli che abbiamo visto per i predecessori. Aggiungo
solo che questo genere di materiali diventa straordinariamente
cospicuo negli anni successivi alla morte di Giovanni Antonio ma i
numerosi ordini scritti, provenienti da Lecce nel biennio 1464-1465
e riguardanti prevalentemente il disbrigo di questioni fiscali ed
economiche nella città e in altre località amministrate, sono dovuti
in genere a funzionari napoletani al servizio dei nuovi sovrani aragonesi e pertanto non possono essere assunti come manifestazioni
del volgare salentino; dalla loro abbondanza potremo solo dedurre
l’ulteriore espansione d’uso del volgare e nel contempo considerare
che la diffusione in Salento del filone amministrativo di provenienza
napoletana potrà aver favorito il processo di sprovincializzazione
della varietà locale.
Esaminiamo in dettaglio i testi di altro genere. Nello scaffale
scientifico della piccola biblioteca appartenuta al principe si colloca un
Librecto de pestilencia (ms. It. 455 della B.N. di Parigi)(6), composto e
dedicato al sovrano nel marzo 1448 da un Niccolò de Ingegne, cavaliero et medico, nato con ogni verosimiglianza a Galatina e facente parte
di una famiglia di cui sono noti anche altri esponenti(7). Nel prologo
egli si professa autore di un altro libretto, smarrito o non rintracciato,
dedicato anch’esso al sovrano, su la doctrina del guberno di stato et
vita principale, quindi di contenuto politico. All’inizio della sua opera
medica dichiara di aver scritto nel volgaro stilo et comune, per comune
di tocti utilitate, motivando il ricorso al volgare con l’obiettivo primario
di assicurare una diffusione larga al suo scritto: la scelta del volgare
per diffondere una materia scientifica propria della trattatistica latina
adempie in tal modo anche a una ragione di salute pubblica. Afferma
(6)
Il trattato è pubblicato in parte da P. Sisto, Due medici, il principe di Taranto
e la peste. I trattati di Nicolò di Ingegne e Saladino Ferro da Ascoli, Napoli 1986,
pp. 59-95 (per il testo), 60-63 (per le citazioni testuali qui riprodotte), 41 (per i
riferimenti al dottorato padovano dei due medici), 10-12 (per notizie e bibliografia
sul codice).
(7)
Un Geronimo de Ingegne, figlio di Niccolò, partecipa alle attività dell’Accademia Lupiense nell’ultimo lustro del Quattrocento e nei primi anni del secolo
successivo, cfr. R. Coluccia, Lingua e cultura fino agli albori del Rinascimento, in
Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, cur. B. Vetere, Roma-Bari 1993, pp.
487-571: 557-558.
94
ROSARIO COLUCCIA
inoltre di aver adottato la forma espositiva di tipo dialogico in quanto
nel dialogo per certo è assay maior copia di saporoso dolcorato, non so
come dire, melglio sapore et inçuccarato gusto; il dialogo, modulo tipico
della tradizione didattico-moralistica, degli interrogatori religiosi e
dei confessionali, viene questa volta utilizzato in un trattato di tipo
medicale, procedimento inconsueto ma non eccezionale(8). Nel nostro
caso il principe pone le domande e due medici (sulla figura dei quali
qualcosa si dirà dopo) forniscono le risposte. L’occasione prossima per
la composizione del testo va collegata alle furiose pestilentie che, tra il
1447 e il 1450, imperversano in Italia producendo un gran numero di
vittime(9). Su un piano non contingente, andrà ricordato che un gran
numero di trattati dedicati all’argomento “peste” si diffonde in Europa
e in Italia a partire dal Trecento, dando vita a un vero e proprio genere
nel campo della letteratura medica, sulla falsariga dei regimina sanitatis
medioevali ma in un certo senso più specializzato, in cui l’esperienza
ha un ruolo determinante(10). L’opera di Niccolò merita di essere segnalata perché rappresenta (insieme al trattato politico non pervenuto)
un primo esempio di prosa volgare a contenuto latamente didattico
prodotta in sede per esigenze specifiche di un pubblico locale; un po’
(8)
Nella forma di dialogo tra un medico e una monaca inferma è strutturato
il Compendio di la sanità corporale et spirituale del sacerdote Giovanni di Magani
(stampato a Milano nel 1527), cfr. S. Morgana – M. Piotti – M. Prada, La divulgazione medica in due stampe milanesi fra Quattro e Cinquecento: l’Anteros di
Giovanni Fregoso e il Compendio di la sanità corporale e spirituale di Giovanni di
Magani, in Lo scaffale della biblioteca scientifica in volgare (secoli XIII-XVII). Atti
del Convegno (Matera, 14-15 ottobre 2004), cur. R. Librandi – R. Piro, Firenze
2006 (Micrologus’ Library 16), pp. 243-295: 243-244. In generale, sull’uso del
dialogo tra Quattro e Cinquecento cfr. la bibliografia recente segnalata da A.
Godard, Le dialogue à la Renaissance, Paris 2001, pp. 13-29 e da W. Geerts, A.
Paternoster, F. Pignatti (Eds.), Il sapere delle parole: studi sul dialogo latino e italiano
nel Rinascimento. Atti delle giornate di studio di Anversa, Roma 2001.
(9)
Come rileva, sulla base di riscontri testuali e con il rinforzo di dati storici,
M. T. Navarro Salazar, Definizioni della peste nel “Librecto di pestilencia” di Nicolò
di Ingegne (1448), in Actes du XXIIe Congrès International de Linguistique et de
Philologie Romanes (Bruxelles, 23-29 juillet 1998), cur. A. Englebert – M. Pierrard
– L. Rosier – D. Van Raemdonck, 9 voll., Tübingen 2000, IV, pp. 463-470: 463; il
contributo discute aspetti lessicali e semantici dell’opera.
(10)
Cfr. M. Motolese, Lo male rotundo. Il lessico della fisiologia e della patologia nei trattati di peste fra Quattro e Cinquecento, Roma 2004, p. 11. Il lavoro di
Motolese si basa sulla analisi di nove trattati pubblicati in Italia tra il 1478 e il 1579,
quindi tutti successivi all’opera di Niccolò. Una raccolta di testi di solo ambito
pugliese, dal quattrocento fino all’ottocento, produce P. Sisto, “Quell’ingordissima
fiera”. Letteratura e storia della peste in Terra di Bari, Fasano 1999.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
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diverso il caso del coevo volgarizzamento del Libro di Sidrac, forse
riconducibile alla corte di Angilberto del Balzo, duca e Nardò e conte
di Ugento, appartenente a un ramo collaterale della famiglia, che è una
traduzione, cioè trasferisce in sede un’opera di origine lontana, e non
uno scritto originale. La formazione medica dell’autore avviene forse
presso l’università di Padova, nella quale si formano anche i duy medichi, hominj prudentissimj et savij che rispondono ai quesiti del principe:
il più illustre è messer Symone, cioè verosimilmente quel Simone de
Musinellis di Bitonto che si addottora a Padova nel 1418; l’altro è messer
Loysi (altre volte indicato come Aloyse Tafuro) […] pjù jovene […] benché et de sciencia et de jngegno sia vecchissimo, cioè con ogni evidenza il
leccese Luigi Tafuri, dottore all’ università di Padova nel 1431 (come si
può notare, le differenti date di addottoramento sono congruenti con
lo scarto di età testimoniato dal Librecto)(11). Dall’edizione integrale del
testo, davvero auspicabile(12), ci aspettiamo informazioni dettagliate
sulle fonti, sulla lingua e sul lessico, e in generale sull’ambiente che ha
permesso la confezione di un prodotto così interessante: ma qualcosa
si può dire già adesso. Nel Librecto si individuano senza alcun dubbio
tratti che dimostrano la coesistenza di elementi meridionali estremi di
marcata localizzazione con altri di provenienza mediana e addirittura
toscana: per definire una simile coesistenza linguistica non sempre si
rivela funzionale l’etichetta di koinè, alla quale spesso e con troppa
fiducia si suole ricorrere. Parlerei piuttosto di scripta, che ha invece
un carattere più euristico e allude a “normali” oscillazioni interne ad
un sistema, in cui esiti di diversa provenienza convivono più o meno
pacificamente. Nel Mezzogiorno la spinta uniformante si esercita più
per via negativa, cioè per sottrazione di tratti locali, che in positivo,
mediante l’instaurazione di modelli comunicativi appositi.
Il de Ingegne non è l’unico che cerchi con successo uno sponsor
nella corte dell’Orsini, verso la quale gravitano anche personaggi
(11)
Non è sicura l’identificazione del medico leccese con quel «misser Loysi
Tafuro» che il 9 aprile del 1462 consegna all’ufficio di tesoreria 20 once di «argento
de carlino» ricevendo in cambio una certa somma di denaro, cfr. Quaterno de spese
et pagamenti fatti in la cecca de Leze (1461/62), cur. L. Petracca, Roma 2010 (Istituto
Storico Italiano per il Medio Evo – Centro di studi orsiniani. Fonti e studi per gli
Orsini di Taranto, 2), p. 25 (e CLVIII).
(12)
La pubblicazione integrale, corredata di introduzione e di spoglio linguistico, è ora oggetto del lavoro di V.L. Castrignanò, Il “ Librecto de pestilencia” di
Nicolò di Ingegne (1448), “cavaliere et medico” di Giovanni Orsini del Balzo, Roma,
2013 (“Fonti e Studi per gli Orsini di Taranto”).
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ROSARIO COLUCCIA
non locali, segno dell’atteggiamento non angusto che contraddistingue l’ambiente. Dalla «città di Ascoli nella Marca» proviene il
medico di corte Saladino Ferro(13), che alla vigilia di Natale del 1448
porta a termine un trattato latino De peste, libro di successo non
effimero se ancora nella seconda metà del secolo seguente è oggetto
di un volgarizzamento e di due stampe(14). Allo stesso si deve anche
un Compendium aromatariorum, pubblicato dapprima a Bologna nel
1488 e poi più volte ristampato, disponibile anche in una traduzione
ebraica(15), nel quale l’autore si definisce «artium et medecine doctor eiusdemque Serenitatis Principis Taranti physicus principalis»,
confermando con tale dichiarazione lo stretto legame, anche per
quest’opera, con il suo signore ed evidenziando il ruolo ricoperto a
corte. A riprova di quanto gli interessi medicali fossero avvertiti, va
ricordato che al primo lustro del sec. XVI rimonta la composizione
di un Trattato d’igiene conservato nel ms. XII E 7 della Biblioteca
Nazionale di Napoli, attribuibile ad un anonimo tarantino di probabile origine lucana; nel contempo va sottolineato che quest’ultimo
prodotto non nasce in una corte ma piuttosto segnala l’espansione
di certi temi nella società del tempo. Al fermento intellettuale sollecitato dall’Orsini sono riconducibili altri episodi: nel 1456 a Taranto
in occasione dei festeggiamenti per le nozze tra Caterina, figlia di
Giovanni Antonio e duchessa di Conversano, e Giulio Acquaviva,
sarebbe stata recitata la toscana Storia di Ottinello e Giulia, così
introdotta per la prima volta in ambito meridionale; ancora agli
stessi ambienti andrebbe collegata, per la sola parte finale, la redazione della trattazione cronachistica nota come Diurnali del Duca di
Monteleone, che per il resto appartiene alla cultura napoletana(16).
(13)
Come si legge in una fonte reperita da P. Sisto, Sulla biografia di Saladino
Ferro da Ascoli. Appunti in margine ad una “vexata quaestio”, «Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», 32 (1989), pp. 211-219 (ivi anche per
altre notizie biografiche); cfr. anche Sisto, “Quell’ingordissima fiera” cit., p. 10 (ivi,
pp. 9-10 n. 2 una scheda bibliografica sulla cultura alla corte di Giovanni Antonio,
molto utile anche se non integrale).
(14)
Ibid., p. 12.
(15)
Sisto, Sulla biografia di Saladino Ferro da Ascoli cit., p. 218.
(16)
F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli 1975, pp. 166 e 296
nota 203, che precisa e integra affermazioni di studiosi precedenti, soprattutto di
B. Croce, Poesia volgare a Napoli nella prima netà del Quattrocento, negli Aneddoti
di varia letteratura, seconda edizione con aggiunte interamente riveduta dall’autore,
4 voll., Bari 1953-1954, I, pp. 33-58: 47.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
97
Diverso è il caso successivo. A Napoli, dietro richiesta del gallipolino Jachecto Maglabeto, segretario e cancelliere dell’Orsini poi
caduto in disgrazia(17), nell’agosto 1456 l’abruzzese Aurelio Simmaco
de Iacobiti da Tossicia (piccolo centro dell’Abruzzo teramano alla
pendici del Gran Sasso) si cimenta in un rifacimento in ottave della
Batracomiomachia (prima versione volgare conosciuta, in quanto precede di 14 anni quella del veronese Giorgio Sommariva, datata 1470)(18)
e volgarizza in ottave il VI libro dell’Eneide, testi confluiti – insieme
ad altri di cui diremo successivamente – nel ms. It. 1097 della B.N.
di Parigi, pure appartenuto al principe(19): nell’ottava finale del primo
componimento Aurelio si dichiara servitore di Jachecto, definito sire
de valimento ‘signore di pregio’, perfettamente equivalente alla qualifica signore prizato riservata allo stesso nella terza ottava del secondo
testo. Per il rifacimento poetico della Batracomiomachia il Simmaco
non ha eseguito la traduzione attingendo direttamente al testo greco
ma, secondo la procedura più frequente nell’umanesimo quattrocentesco d’Italia, si è avvalso di una versione latina dell’opera, quella
dell’umanista Carlo Marsuppini(20), circolante nella Napoli aragonese;
(17)
Sul personaggio cfr. Coluccia, Lingua e politica cit., p. 145 nota 51.
Cfr. la scheda in Letteratura italiana [= LIE]. Gli autori. Dizionario biobibliografico e Indici, 2 voll., Torino 1990-1991, II, p. 1652.
(19)
Recentemente il rifacimento della Batracomiomachia è oggetto di due edizioni
successive, che si inseguono a poca distanza: E. A. Giordano, Echi della tradizione
omerica in Italia meridionale nel XV secolo: la “Batracomiomachia” in ottave di Aurelio
De Jacobictis da Tussicia, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
degli Studi della Basilicata», 9 (1999) [= Scritti in ricordo di Giacomo Bona], pp. 151-174
e, più ricca e meglio organizzata, M. Marinucci, Batracomiomachia. Volgarizzamento
del 1456 di Aurelio Simmaco de Iacobiti, Padova 2001 (alle pp. 29-31, 62 i riferimenti
cui si allude nelle righe successive del mio testo). Per quanto riguarda il sesto libro
dell’Eneide, cfr. Sexti Libri Publii Vergili Maronis Aeneidos vulgari rhytmo traductio per
Aurelium Simmacum de Jacobictis (a. 1456), cur. M. Marinucci, Trieste 2004 (alle pp.
19, 20, 84 i riferimenti cui si allude nelle righe successive del mio testo). Normalizzo in
«Aurelio Simmaco de Iacobiti da Tossicia» il nome dell’autore, che varia ampiamente
nelle fonti e negli studi. Per i testi non pubblicati da Marinucci (e da Giordano) mi
avvalgo della consultazione diretta del codice. Si consulti infine la descrizione del
ms. fornita da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, 4 voll., Milano
1947-1952; Supplemento, II, Verona 1969: Supplemento, I, pp. 254-256.
(20)
Nella scheda bio-bibliografica sul personaggio leggibile in LIE, Gli autori
cit., II, p. 1154, si riferisce che il Marsuppini «tradusse in latino, non molto prima
della morte [avvenuta nel 1453] la Batracomiomachia e, su invito di Niccolò V, il
primo libro e le orazioni del libro nono dell’Iliade». Può avere un certo interesse
che il volgarizzamento del Simmaco si collochi a ridosso della traduzione dal greco
operata dal Marsuppini.
(18)
98
ROSARIO COLUCCIA
non è precisamente individuabile invece la fonte cui abbia potuto
attingere il Simmaco per il testo virgiliano, anche se è verosimile che
abbia consultato il compendio di Guido da Pisa, Fatti di Enea. Non
possiamo precisare quale impatto reale l’iniziativa del Simmaco possa
avere avuto nella capitale del Regno ma un dato cronologico è certo: i
volgarizzamenti in poesia di Simmaco precedono nettamente la grande
stagione napoletana dei volgarizzamenti in prosa, che si dispiega negli
anni settanta e ha il suo esponente maggiore in Giovanni Brancati.
Del resto nell’opera del volgarizzatore abruzzese non vi sono citazioni
esplicite di esponenti della cultura aragonese, neanche dei più noti; e
anzi manca qualsiasi riferimento alla cultura letteraria volgare, non
potendosi considerare tale la citazione, di sapore meramente antonomastico, di Dante al v. 33 del volgarizzamento virgiliano(21). Un personaggio come Jachecto, pur tra le mene della politica, si impegna in
prima persona nell’attività letteraria (anche se in funzione strumentale
ai suoi scopi politici) con un sonetto caudato in cui richiede la protezione divina per una nova impresa che si accinge a compiere in Grecia
contro gli infedeli (c. 14v)(22); nello stesso tempo un Falcecto che è definito suo rigazo (cioè ‘servitore, garzone, mozzo di stalla’ o anche ‘soldato, scudiero’)(23) propone una violentissima invettiva poetica contro
un traditore, maldicente e arrivista Pietro Turditano(24), chiusa da un
congedo (cc. 63v – 64r) dove la canzone viene invitata a recarsi senza
paura presso il principe (...) quale in Lecce sedy. Quest’ultimo accenno
(21)
Sexti Libri cit., p. 20.
La paternità del sonetto sembra sicura sulla base della coda finale.
Trattandosi di un testo poetico poco noto e (per l’area salentina) piuttosto antico,
ne do la trascrizione: «Almo confessore, tu Ber[n]ardino, / la cui festa con sollemnitate / se celebra ogi in christianitate, / or su nel cielo exaudi il mio latino, /
inte[r]cedendo all’alto Dio divino, / con quella Sancta Matre de pietate, / fonte (et)
regina tra l’altre biate: / felicitando vegna il mio destino. / In Grecia chiamato ad
nova impresa, / quale io primo in christian collegi / agio pilgiata per sua sancta
fede, / fatica né periculo né spesa / poco doctando, ad morte, ad gran despregi / de
turchi (et) chi Machone falso crede. / Or habi, Idio, mercede / de me Jachecto, ad
Te servo sicuro, / qual per Tuo amore poco morte curo». L’indicazione della festa
di S. Bernardino, che si celebra il 20 maggio, sembrerebbe fissare proprio in quel
giorno (v. 3: ogi; di quale anno ?) la composizione del sonetto.
(23)
Cfr. E. Picchiorri, Semantica di “bambino”, “ragazzo” e “giovane” nella
novella due-trecentesca, «Studi di Lessicografia Italiana», 24 (2007), pp. 71-131: 95
(24)
Petro Truditano, evidentemente non molto ben visto negli ambienti vicini a
Jachecto, viene inserito in uno stuolo rio di dannati colpevoli in vita d’ogni sorta di
nefandezze al v. 1040 del volgarizzamento virgiliano, cfr. Sexti Libri cit., p. 64.
(22)
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
99
fa capire che la canzone, sicuramente ispirata da Jachecto come altre
contenute nel codice, nasce lontano dalla corte orsiniana (forse a
Napoli, dove sappiamo aver operato il Simmaco)(25), pur se in evidente
collegamento con essa; può considerarsi un tentativo di Jachecto (del
quale non a caso si ricordano i meriti: il mio signor, che ‘l tuo [= del
principe] stato ha inalzato c. 63v) di risolvere i suoi contrasti con il
potente personaggio da cui nel 1458 riceverà la morte. Il manoscritto
confezionato su ispirazione di Jachecto finì poi nelle mani del principe
(non sappiamo se per un dono o per un sequestro) e subì successivamente la confisca da parte del re di Napoli, come altri manoscritti che
facevano parte di quella biblioteca signorile salentina.
Da quanto abbiamo già visto, e da altri episodi che saranno citati
dopo, risulta che alla corte di Giovanni Antonio si viene costituendo
una piccola biblioteca, allestita raccogliendo codici dedicati o donati
al principe, talora da lui stesso promossi o sollecitati. Appartiene
verosimilmente a quest’ultima categoria una versione italiana del
Tresor di Brunetto Latini (ms. It. 440 della B.N. di Parigi) trascritta
«p(er) […] Johanne(m) Rubeu(m) [probabile latinizzazione di un
nome che in volgare sarà suonato ‘Giovanni Russo’] de Artilj d(e)
Cup(er)tino» il primo marzo 1459, secondo quanto assicura l’explicit
di c. 123r 20-21; una prova di penna, vergata sul recto della prima
carta di guardia, rinvia direttamente al principe: «Johannes Antonius
princeps Tarenti, comes Licij / Johannes Antonius princeps Tarenti,
comes Licij / Johannes Antonius princeps»(26). La versione italiana
(25)
Ai vv. 8-9 di un Epitaphiu(m) sup(ra) scripti Petri Turditani in latino, conservato a c. 64r del codice si afferma: Ad cuius crimen (con)struxit carmina / vates
Aurelius vicij spretor, virtutis amator [‘intorno al suo (= del Turditano) crimine ha
composto poesie il vate Aurelio, spregiatore del vizio, amante della virtù’], il che
rappresenta un indizio per assegnare al Simmaco la canzone-invettiva contro il
Turditano di cui abbiamo parlato. Il personaggio è ricordato anche a c. 17v. Per
quanto riguarda l’ambiente (e la data) di composizione, si noti che la canzone
finale di cc. 65r – 67v, notevole per la precoce presenza di iberismi lessicali (cfr. R.
Coluccia – A. Cucurachi – A. Urso, Iberismi quattrocenteschi e storia della lingua
italiana, «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», 9 (1995), pp. 177-232: 218, con
bibliografia) è in onore di Alfonso I d’Aragona, con ogni evidenza ancora vivente
(Alfonso muore nel 1458).
(26)
Descrizione del ms. in De Marinis, Supplemento cit., I, p. 61; C. Mascheroni, I
codici del volgarizzamento italiano del «Tresor» di Brunetto Latini, «Aevum», 43 (1969),
pp. 485-510: 505; J. Bolton Holloway, Brunetto Latini: an Analitic Bibliography, London
1986, p. 29. Appartenuto in origine al principe di Taranto, il ms. entra nella biblioteca aragonese in un secondo tempo, in séguito alla confisca dei beni del feudatario
salentino operata dal sovrano napoletano; cfr. ancora De Marinis, Supplemento cit. I
100
ROSARIO COLUCCIA
del Tresor(27) (d’ora in avanti indicata con Tesoro), convenzionalmente
assegnata a Bono Giamboni(28), è ancora priva di un’edizione critica
che dica parole sicure sulla questione attributiva, sulla distribuzione
della materia nei testi conosciuti e sui rapporti tra i diversi testimoni,
una cinquantina(29). Per quello che più specificamente ci riguarda, ne
potremmo ricavare informazioni sulla posizione stemmatica e sulla
natura della trascrizione/redazione salentina (copia locale del testo
toscano? volgarizzamento autonomo?)(30). In attesa di questi chiari-
p. 61: «après sa [di Giovanni Antonio] mort (1463) le roi chargea Marino Tomacello de
se rendre a Altamura [dove Giovanni Antonio muore] et sequestrer ses richesses: on
peut facilement supposer que le ms. et celui du Tesoro de Brunetto Latini proviennent
de cette saisie». Ma questa verosimile razzia (sicuramente non limitata ai libri, cfr. ad
esempio quanto si afferma sopra nella nota 2 a proposito del tresauro del principe di
Taranto) può riguardare anche gli altri pezzi del patrimonio bibliografico di Giovanni
Antonio (il trattato di Niccolò di Ingegne, i volgarizzamenti del Simmaco) entrati
nella biblioteca aragonese. Si leggano alla luce di questa trafila le considerazioni di R.
Librandi, Il lettore di testi scientifici in volgare, in Lo spazio letterario del Medioevo. 2.
Il Medioevo volgare, Direttori: P. Boitani – M. Mancini – A. Vàrvaro, III, La ricezione
del testo, Roma – Salerno 2003, pp. 125-154: 134: «se si esaminano gli inventari della
biblioteca napoletana dei re d’Aragona […] i testi scientifici riguardano come sempre
la veterinaria, in particolare trattati di falconeria e mascalcia, e la medicina pratica,
con poche eccezioni qui significativamente rappresentate dal “Tesoro volgarizzato”
di Brunetto Latini [proprio il nostro testo], dalla traduzione fiorentina della Metaura
aristotelica […], dal Libro chiamato della sfera di Leonardo Dati ».
(27)
La “classica” edizione critica del testo originale si deve a F. J. Carmody, Li
livres dou Tresor de Brunetto Latini, Berkeley-Los Angeles 1948 [rist. anast. Genève
1975]. Si aggiunga ora Brunetto Latini, Tresor, cur. P. G. Beltrami – P. Squillacioti
– P. Torri – S. Vatteroni, Torino 2007.
(28)
Esistono varie redazioni toscane, una delle quali, dubitativamente, potrebbe essere assegnata a Bono Giamboni.
(29)
La tradizione del Tesoro toscano assomma a una cinquantina di manoscritti,
come risulta dall’elenco delle Versioni italiane ricostituito all’interno de La tradizione
manoscritta delle opere di Brunetto Latini, cur. P. Squillacioti, in Brunetto Latini,
Tresor cit., pp. L-LII: LII, con la sigla N, senza altri dati, si cita la Versione salentina
dell’opera, rappresentata dal nostro codice. Si integri con P. Divizia, Aggiunte (e una
sottrazione) al censimento dei codici delle versioni italiane del Tresor di Brunetto Latini,
«Medioevo Romanzo», 32 (2008), pp. 377-94.
(30)
Tali questioni vengono ora affrontate da M. Gioia, Per la tradizione del Tresor
volgarizzato: appunti su una redazione meridionale (D), «Medioevo Romanzo», 35 (2011),
pp. 344-80. A detta dell’autore, risale direttamente al francese (senza intermediario
toscano, o comunque italiano) una parca tradizione meridionale del volgarizzamento,
rappresentata da due soli codici, il nostro manoscritto salentino e un codice siciliano
della fine del sec. XV. Il lavoro di Gioia è meritorio, pur se non affronta fino in fondo la
questione per noi cruciale dei rapporti tra i due codici meridionali; a p. 355 si ipotizza
che «l’antenato dei due codici [potrebbe riferirsi] al meridione pugliese», fondamentalmente grazie alla presenza in entrambi i testimoni del brano riguardante il fenomeno
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
101
menti, si può almeno constatare che il testo in questione è caratterizzato da un buon numero di fenomeni linguistici fortemente marcati
in senso salentino e meridionale: in particolare il sistema grafo-fonetico presenta fenomeni di notevole interesse, che meritano uno spoglio
e una catalogazione dettagliata e un confronto sistematico con le
risultanze provenienti dai testi coevi della stessa zona o da altre del
Mezzogiorno. Esiste inoltre almeno un brano in cui, presumibilmente
per iniziativa dello scrivente, l’esposizione viene arricchita con un’aggiunta di sapore locale: nella discussione sulle cause e sull’origine
delle maree, a proposito della variazione periodica del livello delle
acque marine, si rinviene la seguente affermazione: «comu allu mar(e)
piccolino d(e) Tara(n)to, ch(e) va doy fiate jnt(ro), / jurno (et) nocte,
(et) reto(r)na arreto» (c. 29r 31-32). Sul piano dei contenuti, l’interesse
di Giovanni Antonio per il Tesoro (nato alla fine del Duecento in una
dimensione legata al governo della città di Firenze ma presto collocatosi su livelli di attrattiva generale) sarà da attribuire al suo carattere
di vero e proprio manuale di azione politica, in senso nobile e non
meramente pratico; torna utile a questo punto ricordare che già qualche anno prima il de Ingegne aveva composto e dedicato al sovrano il
suo libretto su la doctrina del guberno di stato et vita principale.
La attuale presenza di questo codice del Tesoro (come gli altri
appartenuti a Giovanni Antonio, e come gli altri più numerosi di
Angilberto del Balzo) nella B.N. di Parigi si spiega con la dispersione
della biblioteca dei re d’Aragona, nella quale confluiscono i manoscritti di provenienza salentina, in conseguenza dei ripetuti sequestri, operati dai re di Napoli, di beni appartenuti a feudatari ribelli più o meno
convintamente filoangioini: feudatari più o meno apertamente ribelli
sono appunto Giovanni Antonio ed Angilberto. La parte più consistente dei fondi manoscritti conservati a Napoli («unze cent quarante
livres de toutes sortes» assicura una annotazione coeva) raggiunge la
capitale francese come bottino di guerra al rientro in Francia di Carlo
della marea nel “mar piccolo” di Taranto, al quale accenno qui stesso, qualche rigo più
giù (un confronto tra i testimoni è impossibile, mancando nell’articolo la trascrizione
della versione siciliana). A parte ciò, il pur apprezzabile contributo di Gioia si segnala
per un paio di caratteristiche: l’abitudine a utilizzare informazioni e dati altrui a volte
senza indicare la fonte bibliografica (o citando la fonte stessa in contesti e per elementi
diversi da quelli appropriati) e una rapidità forse eccessiva nell’utilizzazione della
bibliografia (si vedano ad esempio i refusi di p. 350 nota 16: non Sebastiano Russo,
bensì Sabatino Russo; non M.T. Romaniello, bensì M.T. Romanello).
102
ROSARIO COLUCCIA
VIII, dopo la breve parentesi della sua discesa a Napoli (1494-95), e
qualche anno dopo in conseguenza di due vendite effettuate dal deposto re aragonese Federico e da sua moglie Isabella del Balzo(31); una
parte più esigua si sposta parecchi anni dopo in Spagna (e, in misura
piuttosto ridotta, si trova attualmente nella Biblioteca Universitaria di
Valencia), dove si rifugia Ferrante d’Aragona, ultimo duca di Calabria,
figlio di Federico d’Aragona e di Isabella.
La dichiarata preferenza del de Ingegne per il volgare, i volgarizzamenti del Simmaco e gli altri testi romanzi che abbiamo ricordato
(oltre all’uso del volgare per le esigenze della cancelleria), non devono
far pensare ad una scelta linguistica unilaterale della corte orsiniana,
che invece si mostra impegnata in uno sforzo culturale che lambisce
perfino l’umanesimo latino e greco. Si è già citato il trattato latino di
Saladino Ferro; per quanto riguarda il greco, bisogna registrare che
a vantaggio del principe (che, tra i tanti titoli, vanta anche quello di
conte di Soleto) l’amanuense soletano Nicola Antonio Pinella trascrive nel 1450 il cod. Laurenziano 50.16, di contenuto grammaticale,
e che un altro codice grammaticale e alcuni manoscritti aristotelici
potrebbero essere ricondotti alla medesima committenza. Non sono
documentati rapporti con l’abbazia di S. Nicola di Càsole nella quale
si produce, fino alla caduta di Otranto in mano dei Turchi (1480-81),
un numero straordinario di manoscritti greci (copie di testi classici ma anche prodotti originali e contemporanei), tali da rendere
il Salento il tramite più importante per la diffusione della cultura
bizantina nell’intero mondo occidentale.
Anche per via indiretta si può provare che l’Orsini incoraggiasse
la produzione in sede di manoscritti: in inediti documenti d’archivio
vengono registrate delle somme devolute su disposizione del princi-
(31)
Per la costituzione e la dispersione della biblioteca aragonese, quasi ovvio il
rinvio al monumentale De Marinis, La biblioteca napoletana cit. Come già accennato
a testo, il bottino di Carlo VIII ammonta a «unze cent quarante livres de toutes
sortes» secondo un’annotazione del 7 settembre 1498 qui pubblicata, I, p. 200, nota
8. Su vicende e struttura della biblioteca aragonese si vedano anche P. Cherchi –
T. De Robertis, Un inventario di libri della biblioteca aragonese, «Italia medievale
e umanistica», 33 (1990), pp. 109-345, e numerosi studi di G. Toscano tra i quali
trascelgo, esemplarmente, il volume curato dallo stesso, La biblioteca reale di Napoli
al tempo della dinastia aragonese 1442-1495, catalogo della mostra, Napoli-Valencia,
Valencia 1998 e il più recente La biblioteca napoletana dei re d’Aragona da Tammaro
de Marinis ad oggi. Studi e prospettive, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento,
cur. C. Corfiati – M. De Nichilo, Lecce 2009, pp. 25-63, tavv. I-XXVIII.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
103
pe per acquisto di materiale scrittorio o per ricompensare l’attività di
copisti operanti a Lecce agli inizi del sesto decennio del secolo, negli
ultimi anni di vita di Giovanni Antonio. Nel 1460-61 (il registro
reca la data 1461, ma si tratta dell’indizione bizantina che comincia il 1 settembre 1460 e termina il 31 agosto dell’anno successivo)
viene procurata della pergamena necessaria alla confezione di un
manoscritto della Bibbia e di un libro de vita santi Iohannis abbatis
e nello stesso anno si ricompensa l’autore di una trascrizione della
Genesi (nei tre casi non sappiamo se siano testi in latino o in volgare;
sicuri volgarizzamenti biblici troveremo alla corte di Angilberto);
infine nel 1463-64 (la data del registro è il 1464, ma si tratta anche
qui dell’indizione bizantina) si paga un copista impegnato nella
riproduzione di un Centonovelle. Proprio quest’ultima notazione
è particolarmente significativa se con questo titolo si allude, come
pare evidente, al Decameron (astrattamente potrebbe infatti trattarsi
anche del Novellino, indicato anche come Le cento novelle antiche).
In primo luogo perché si tratterebbe di un nuovo pezzo, per quanto
smarrito o non identificato, da aggiungere alla tradizione delle opere
di Giovanni Boccaccio. Ma ancor più perché sarebbero sintomatici
la confezione e il conseguente approdo a questa data del capolavoro novellistico toscano in una biblioteca signorile della periferia
salentina (un altro Centonovelle è nella biblioteca di Angilberto,
ma siamo almeno un ventennio più in là). Infatti la presenza del
Decameron nel meridione non è scontata; «se escludiamo le pressanti
richieste della colonia fiorentina residente a Napoli nel terzo quarto
del Trecento e l’enigmatico caso del codice Parigino Italiano 1474»
[che contiene una copia del Decameron (sicuramente transitato per
Napoli già negli anni trenta-quaranta, ma confezionato probabilmente a Firenze)], «nessun segnale positivo giunge da ambienti
italo-meridionali fino alla metà del Quattrocento»(32). Le opere
(32)
M. Cursi, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma
2007, pp. 115-116; l’inserzione tra parentesi quadre all’interno della citazione testuale
intende richiamare l’attenzione su particolari ancora insicuri riguardanti genesi e
circolazione del manoscritto, che così possono essere riassunti. La stesura di questo
esemplare del Decameron si deve nella maggior parte a una mano mercantesca di
origine toscana, con integrazioni ridotte di altri scriventi pure toscani; fa eccezione
una sola altra mano di probabile origine napoletana, che peraltro si limita a un certo
numero di inserti e alle rubriche di un solo fascicolo del codice. Troppo poco, mi pare,
per ipotizzare fondatamente che «il codice fu prodotto nella capitale del Regnum, forse
in una di quelle agenzie commerciali nelle quali, fin dal secondo quarto del Trecento,
104
ROSARIO COLUCCIA
latine del Boccaccio circolarono presto a Napoli; ma la mancanza di
un ceto medio locale colto, capace di accogliere uno scritto creato
per puro divertimento di lettori comuni, rende ragione del fatto che
nella capitale partenopea, uno dei centri fondamentali della cultura italiana del tempo, la fortuna dell’opera volgare di Boccaccio
prenda quota tardi, forse non prima del sesto-settimo decennio del
Quattrocento. Se allarghiamo il nostro punto di osservazione, sappiamo che in Italia il Decameron deve attendere il 1467 per entrare
nella libreria di un signore, pur sensibilissimo alla letteratura come
il duca Borso d’Este; e persino presso i Medici, ancora nel 1480, è
considerato “libro di camera”, cioè di divertimento, che non può
ascendere nella biblioteca di palazzo, di più raffinato impianto. Il
collegamento con la cultura toscana apparirà ancora maggiore se
si considera che autore della copia del perduto codice salentino è
Guido m(agistr)i Ranerij de Flor(entia), con ogni verosimiglianza
appartenente alla consistente colonia fiorentina ormai da qualche
decennio stanziata in loco. Benedetto Vetere mi annunziava da
mesi di aver rinvenuto annotazioni analoghe riguardanti pagamenti,
disposti dal principe, a favore di copisti impegnati nella trascrizione
di altre opere volgari: ora, a pp 18-20. di questo volume, possiamo
conoscere i dettagli. Oltre a promuovere la stesura di opere originali
e di volgarizzamenti e a sollecitare la confezione di codici, l’Orsini si
lavoravano a contatto di gomito mercanti toscani e partenopei» (Cursi, Il Decameron
cit., p. 80). Il codice, redatto quasi integralmente a Firenze, sarà approdato a Napoli,
dove mani napoletane hanno vergato i sonetti di Cola Maria Bozzuto (trascrizione
unica) e le registrazioni di fitti e salari conservate nel verso della prima carta di guardia
cartacea: le sicure addizioni napoletane si concentrano dunque nelle carte di guardia
e in poco altro, il corpo dell’opera è fiorentino. Le carte finali del codice conservano
tre sonetti del nobile napoletano Cola Maria Bozzuto, all’incirca del 1440, sicuramente
trascritti da una mano napoletana (pur se non autografi), cfr. Coluccia, I sonetti inediti
di Cola Maria Bozzuto, rimatore napoletano della prima metà del sec. XV, «Zeitschrift
für romanische Philologie», 108 (1992), pp. 293-318. Alle notizie biografiche sul
Bozzuto contenute nell’articolo aggiungo questa ulteriore minuscola scheggia, peraltro
congruente con le informazioni già possedute. Agli inizi del 1444 il gaetano «Iacobus
Castangnya», procuratore di «Nicolaus Maria Boczuti», qualificato come miles neapolitanus, e di sua moglie «Catherina Caraczolo», vende una proprietà con case, trappeto
e circa 700 alberi di ulivo a un cittadino barese, secondo la testimonianza di due
pergamene baresi del 1444 e del 1466, cfr. F. Nitti di Vito, Le pergamene del Duomo di
Bari. Catalogo (1309-1819), Trani 1939 [=Codice Diplomatico Barese (= CDB) XV, poi
continuato come Codice Diplomatico Pugliese (= CDP)], pp. 61 e 72. L’anno della vendita si accorda con le date di attività del Bozzuto documentate nell’articolo ricordato
sopra; inedita è l’informazione riguardante il nome della moglie.
LA CULTURA DELLE CORTI SALENTINE
105
mostra interessato all’incetta di manoscritti di diversa provenienza,
quando ciò sia possibile: alla morte di Nicola Pagano, arcivescovo
di Otranto (1451), viene organizzata una vera e propria asta dei beni
a lui appartenuti, tra cui spiccano una sessantina di volumi, di cui
30 rilegati e 28 privi di legatura: nell’occasione, l’Orsini preleva per
sé un esemplare del Secretum Secretorum (e un bel mappamondo) e
regala a Jachecto (di cui abbiamo parlato in precedenza) un codice
pergamenaceo di Petrarca; non sappiamo di quale opera si tratti, pur
se pare evidente che non si possa trattare del Canzoniere, considerata
la matrice religiosa della biblioteca di provenienza.
Al di là degli elementi di novità e dei risultati effettivi, è indubbio che Giovanni Antonio sia il primo principe locale che si impegni
in uno sforzo di vera e propria politica culturale non dipendente
dalla corte di Napoli; si inserisce in questa prospettiva la attivazione
a Galatina di una scuola di grammatica in cui insegnano laici ed
ecclesiastici ricompensati direttamente dal sovrano. Quest’impresa
si presenta come una prosecuzione, di carattere più istituzionale e
in forma più collettiva, dell’insegnamento grammaticale praticato da
Nicola de Aymo alla corte di Maria d’Enghien.
Le accorate iscrizioni graffite sui muri di locali adibiti a prigione
nella Torre del Parco a Lecce, dovute a scriventi di varia provenienza geografica, alcuni forse pugliesi, completano l’articolato quadro
della produzione volgare che si manifesta in Salento intorno alla
metà del secolo(33). Non si tratta di testi direttamente prodotti o ispirati da Giovanni Antonio, dalla sua corte o dai suoi funzionari; ma
la scarsità, nell’intero panorama italiano, di scritti dal carcere dello
stesso tipo o a questi avvicinabili rende auspicabile una rapida edizione integrale delle iscrizioni, che informi fin dove possibile sulla
personalità degli scriventi e sulla qualità dei testi. Da quanto mi è
sembrato di capire da un’ispezione diretta, saranno forse necessari
anche interventi conservativi, per evitare che su questo singolare
(33)
M. Cazzato, Imprese costruttive e ristrutturazioni urbanistiche al tempo degli
Orsini, in Dal Giglio all’Orso cit., pp. 307-335: 332-335. A proposito del simbolismo
legato all’orso, animale che Giovanni Antonio impiega araldicamente su scudi, targhe, affreschi e addirittura lascia circolare liberamente, in carne ed ossa, nei fossati
del castello e della Torre del Parco di Lecce, cfr. il bel saggio, ricco di esempi e
suggestioni, di P. Sisto, Dal bosco ai libri: l’orso tra letteratura e antropologia, nel
vol. dello stesso «Legato son, perch’io stesso mi strinsi». Storie e immagini di animali
nella letteratura italiana, I, Roma 2010, pp. 121-135.
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ROSARIO COLUCCIA
blocco di scritture esposte si abbatta il processo di distruzione e di
dilapidazione che nel corso dei secoli ha interessato tante diverse
manifestazioni della civiltà locale.
Concludo. Tanto articolato complesso di iniziative dimostra
quale strumentazione culturale abbia sorretto le spinte autonomistiche che l’Orsini esercita sul piano politico nei confronti della dinastia regnante. La morte del personaggio, verosimilmente non naturale ma “favorita” dagli Aragonesi (come apertamente si dichiara nella
n. 2), interrompe o rallenta sensibilmente i fermenti di autonomia
generati da questa esperienza.
E tuttavia con la morte di Giovanni Antonio non si esaurisce il
ruolo propulsivo delle corti locali. Tra Ugento e Nardò, Angilberto
del Balzo, genero dell’Orsini per averne sposato la figlia Maria
Conquesta nel 1462, coinvolto nella seconda congiura dei Baroni e
di conseguenza messo a morte nel 1487, si dota di una non disprezzabile biblioteca (un centinaio di pezzi latini e volgari, non greci) di
stampe e manoscritti, alcuni prodotti in loco grazie alla sistematica
attività di copisti benedettini provenienti da Nardò. Se estendiamo lo
sguardo oltre i confini salentini, constatiamo che press’a poco negli
stessi decenni gli Acquaviva di Conversano, imparentati con i del
Balzo, sviluppano una politica culturale che più intensamente sembra
guardare verso altre zone del Meridione, a partire dalla capitale partenopea. Anche a Bari, alla corte della duchessa Bona Sforza, futura
regina di Polonia, non mancano testi e fenomeni di un certo interesse.
Ma si tratta di vicende diverse, ancora in parte misconosciute, alle
quali in questa sede non è possibile neppure accennare(34).
(34)
Una dimostrazione dei possibili sviluppi di questa prospettiva di ricerca fornisce Il progetto ADAMaP (Archivio Digitale degli Antichi Manoscritti della Puglia) i
cui dati sono consultabili nel sito www.adamap.it. Esso ha l’obiettivo fondamentale
di riportare virtualmente nella sede originaria, in Puglia, centinaia di manoscritti
che vi furono redatti o vi circolarono nel Medioevo, fino al Quattrocento e oltre;
per vicende varie, quelle testimonianze non sono più in loco, ma sono dislocate in
biblioteche di mezzo mondo. Naturalmente i codici, come i dipinti e le opere d’arte,
non possono rientrare fisicamente in sede: ma la tecnologia, mediante la digitalizzazione dei manoscritti, consente la ricomposizione virtuale di quell’importantissimo patrimonio, attualmente disperso e quasi dimenticato. La squadra, diretta
da me, Rosario Coluccia con la collaborazione di Antonio Montinaro, è formata
da giovani e giovanissimi linguisti, filologi ed informatici: Sabrina Bini, Vito Luigi
Castrignanò, Francesco G. Giannachi, Marco Maggiore e Stella Trazza (redattori),
Diego Bergamo (ingegnere informatico) e Tonia Bruno (grafico). Il sito di ADAMaP
si compone di tre sezioni: Biblioteca digitale, Banca dati, Studi.