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Ventunesimo Secolo Ventunesimo Secolo Rivista di Studi sulle Transizioni 35 L’eredità di Margaret Thatcher Anno XIV Dicembre 2014 L’eredità di Margaret Thatcher Rubbettino Tariffa R:O:C.: Poste Italiane - Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N.46) Art.1, comma 1 - Autorizzazione DR/CBPA-SUD/ CZ/25/2006 valida dal 17/02/2006 In caso di mancato recapito inviare al CMP Lamezia Terme per la Restituzione al mittente previo pagamento resi 35 Copertina di Ettore Festa, HaunagDesign € 16,00 Antonio Masala Introduzione. L’eredità di Margaret Thatcher Richard Vinen Britain’s Thatcher. La Gran Bretagna di Margaret Thatcher Andrew Gamble Economia libera e Stato forte: la politica economica di Margaret Thatcher Philip Booth Margaret Thatcher e la rivoluzione dei mercati finanziari Rubbettino Antonio Masala Il thatcherismo tra Stato e libertà Sebastiano Bavetta L’eredità politica di Margaret Thatcher e la costruzione della società aperta Tim Bale In vita come in morte? Margaret Thatcher (in)compresa Cosimo Magazzino Thatcherismo e austerità Anno XIII - ottobre 2014 35 Rivista di studi sulle transizioni Ventunesimo Secolo Direzione Gaetano Quagliariello Comitato scientiico Elena Aga-Rossi, Roberto Balzani, Giampietro Berti, Eugenio Capozzi, Antonio Carioti, Marina Cattaruzza, Roberto Chiarini, Simona Colarizi, Piero Craveri, Stefano De Luca, Gianni Donno, Marco Gervasoni, Fabio Grassi Orsini, Lev Gudkov, Juan Carlos Martinez Oliva, Mauro Moretti, Gerardo Nicolosi, Giovanni Orsina, Roberto Pertici, Antonio Varsori, Paolo Varvaro Caporedattori Vera Capperucci, Christine Vodovar Redazione Michele Ainito, Emanuele Bernardi, Lucia Bonfreschi, Maria Elena Cavallaro, Michele Donno, Gabriele D’Ottavio, Maria Teresa Giusti, Andrea Guiso, Marzia Maccaferri, Evelina Martelli, Tommaso Pifer, Carmine Pinto, Luca Polese Remaggi, Andrea Spiri Corrispondenti Juan Eugenio Corradi (America Latina); Marc Lazar, Nicolas Roussellier, Olivier Wieviorka (Francia); Kiran Klaus Patel (Germania); Carl Levy (Gran Bretagna); Abdòn Mateos (Spagna); Christian Ostermann (Stati Uniti); Vladislav Zubok (Russia) Rubbettino Direzione e redazione c/o Centro Transition Studies, Luiss Guido Carli viale Romania 32, 00197 Roma tel.: 06 86506799; fax: 06 86506503; e-mail: transitionstudies@luiss.it Amministrazione Rubbettino Editore, viale Rosario Rubbettino 10, 88049 Soveria Mannelli tel.: 0968 6664208; fax 0968 662055; e-mail: editore@rubbettino.it Sommario Gaetano Quagliariello Editoriale 5 L’eredità di Margaret hatcher Antonio Masala Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher 9 Richard Vinen Britain’s hatcher. La Gran Bretagna di Margaret hatcher 19 Andrew Gamble Economia libera e Stato forte: la politica economica di Margaret hatcher 41 Philip Booth Margaret hatcher e la rivoluzione dei mercati inanziari 61 Antonio Masala Il thatcherismo tra Stato e libertà 79 Sebastiano Bavetta L’eredità politica di Margaret hatcher e la costruzione della società aperta 107 Nota Tim Bale In vita come in morte? Margaret hatcher (in)compresa 135 Cosimo Magazzino hatcherismo e austerità 153 Testimonianza John O’Sullivan Ripensando al thatcherismo 181 Notizie sugli autori 203 Antonio Masala Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher1 Abstract - Introduction. Margaret hatcher’s legacy he essay introduces the journal sections, outlining the relevance and the newness of hatcherism in the prospective of historical studies, economics and the history of ideas. he author points out how the articles confront several issues of hatcherism in a diferent way, and how they cope with its legacy. Margaret hatcher, premier britannico dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990, è scomparsa l’8 aprile del 2013, lasciando un’eredità tanto controversa quanto imponente. Infatti non ha solo segnato un’epoca della storia britannica, ma ha anche incarnato un modo originale di pensare e fare la politica, suscitando interesse ben oltre i conini della sua patria. Lo studio del thatcherismo investe le discipline storiche, ma pone interessanti e attuali problemi anche in sede di analisi economica e politologica, nonché di rilessione nell’ambito della teoria politica. La hatcher è stata sicuramente una delle igure più divisive della storia britannica, e ancora oggi il suo ricordo origina sentimenti sempre estremi e tra loro contrapposti, come mostra chiaramente il saggio di Tim Bale, il quale analizza come la Lady di Ferro sia stata ricordata al momento della sua morte negli articoli comparsi nei principali giornali britannici. Oltre a questo si deve aggiungere che il thatcherismo è stato un fenomeno assai diversiicato e complesso, e che, al di là delle passioni vive che ancora suscita, la sua comprensione 9 Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014 e la valutazione dei suoi risultati si presenta ancora oggi assai ardua; e di questa diicoltà, così come dell’ampia letteratura al riguardo, molti dei saggi qui raccolti danno ampiamente conto. Oggi, accanto a studi che sostengono che i governi della hatcher abbiano adottato politiche che hanno pesantemente tagliato la spesa sociale e aumentato le disuguaglianze, ve ne sono altri che mettono in luce l’incapacità di riformare il welfare, in particolare nel settore della sanità, e di ridurre in maniera sostanziale la spesa pubblica. Ma se da un lato gli studiosi sembrano ancora divisi su quali siano meriti e demeriti storici della hatcher, tutti sembrano concordare sul fatto che quegli anni di governo cambiarono profondamente la Gran Bretagna. Il controllo, diretto o indiretto, di ampi settori dell’industria da parte dello stato era tramontato, così come era tramontato il corporativismo, ossia la pratica di prendere decisioni sempre sulla base della contrattazione con le parti sociali, in particolare le Trade Unions (per molti versi i veri decision maker della politica britannica); e a cambiare, più ancora che l’economia e le pratiche politiche, fu soprattutto la cultura politica, i valori politici di riferimento, e in particolare il rapporto tra lo stato e i cittadini. La dimensione di questo grande cambiamento la si misura anche guardando a cosa è stata la politica britannica dopo la hatcher, ossia guardando alla trasformazione della cultura politica dei due principali partiti; e se il partito conservatore ha visto raforzarsi e diventare preponderante al suo interno la corrente liberale, da tempo minoritaria, è il partito Laburista che ha subìto il cambiamento più profondo, trasformandosi da partito per molti versi socialista in un partito di una sinistra moderna e decisamente attenta e aperta alle tematiche del mercato. Quanto questi cambiamenti, o almeno una parte importante di essi, siano avvenuti a causa della leadership thatcheriana, o quanto invece fossero instradati da tempo nella politica britannica e siano stati solo accelerati da quella esperienza politica, è un problema aperto, che viene discusso da alcuni dei saggi qui proposti. Certo è che dopo gli anni di governo della hatcher l’asse della politica britannica era cambiato radicalmente, così come era cambiata la situazione economica del paese e la sua rilevanza nella politica estera, aspetto quest’ultimo di notevole rilevanza, come mette bene in luce il saggio di Andrew Gamble, e che probabilmente contribuisce ampiamente a giustiicare i grandiosi funerali di stato, ripresi dalle televisioni di tutto il mondo, che ne hanno formalmente sancito l’importanza per la storia della Gran Bretagna. La letteratura sul thatcherismo è ormai sterminata e l’attenzione e gli studi sull’argomento non sembrano destinati ad esaurirsi in tempi brevi. I saggi qui proposti, con un taglio disciplinare diverso e variamente articolato, ofrono una panoramica su alcuni importanti nodi concettuali legati all’interpretazione del thatcherismo, e in essi si possono ritrovare (almeno) tre iloni di indagine particolarmente rilevanti. Il primo è quello relativo all’opportunità di interpre10 Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher tare il thatcherismo come fenomeno “britannico”, ossia come la risposta di una parte della classe dirigente ad alcuni problemi speciici della Gran Bretagna in un dato momento storico. Il secondo è quello relativo alla possibilità o meno di interpretare il thatcherismo come una sorta di ideologia, o almeno alla possibilità di individuare degli elementi ideologici nel modo di governare della hatcher. Il terzo riguarda l’eredità del thatcherismo e la domanda se vi siano delle lezioni che si possono trarre da quella esperienza rispetto ad alcuni problemi che abbiamo oggi davanti a noi. Uno dei più importanti elementi che hanno caratterizzato la letteratura recente è stato quello di vedere il thatcherismo non come un fenomeno che in qualche misura poteva essere isolato nella sua grandiosità e discontinuità rispetto alla storia passata, ma come qualcosa che andava compreso nel suo tempo, nel suo paese e nella storia (anche contingente) del suo partito. Una considerazione questa che può sembrare scontata, ma che in realtà non lo è afatto e che ha rappresentato per certi versi una svolta rispetto a un modo radicato di interpretare il thatcherismo. Un modo radicato anche nell’immaginario popolare, se è vero, come osserva Bale, che l’aspetto della rottura rispetto al passato, che pure è stata certamente una caratteristica del thatcherismo, è stata quasi mitizzata dai giornalisti al momento della morte della hatcher, così come è stata talvolta oferta una visione quasi caricaturale della crisi degli anni Settanta. E ampiamente sopravvalutata è stata anche, sempre a dire di Bale, la spaccatura creata dalla sua leadership all’interno del partito, ma anche l’immagine di donna sola al comando, accerchiata dagli oppositori e con collaboratori che tutto sommato avevano un ruolo marginale rispetto alla igura della Lady di Ferro, cosa che non rende giustizia sia delle importanti igure politiche che lavorarono con lei sia, aggiungiamo noi, di un movimento di idee più ampio che pose le basi del successo del thatcherismo. La necessità di interpretare il thatcherismo guardando con attenzione al contesto storico della Gran Bretagna di quegli anni è posto in luce in diversi saggi, ma è in particolare quello di Richard Vinen a sottolineare come non solo il thatcherismo afondi le radici in alcune delle caratteristiche della società britannica, ma abbia anche alcuni aspetti di continuità rispetto alle politiche degli anni precedenti. Vinen sostiene che la portata “rivoluzionaria” del thatcherismo sia stata in realtà sovrastimata e che esso vada invece letto come una risposta certo radicale, ma anche decisamente “nazionale” alla crisi che ha il suo apice negli anni Settanta, una crisi che stava spingendo l’intero sistema verso un ripensamento e una trasformazione, e che il partito conservatore seppe afrontare adeguatamente proprio in ragione del pragmatismo che lo ha sempre contraddistinto. Questo elemento è messo chiaramente in luce anche da Gamble, per il quale il thatcherismo va letto prevalentemente con la categoria della Statecrat, 11 Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014 ossia dell’arte di governo. La hatcher fu prima di tutto un politico conservatore (anche nel senso di membro del partito conservatore britannico) e pragmatico e solo dopo una fautrice del liberalismo economico, che intese sempre come uno strumento per raggiungere dei ini, primo fra tutti quello di far rivivere dei valori morali. L’importanza del pragmatismo e della necessità di vedere il thatcherismo nel suo contesto è ripreso anche nel saggio di Antonio Masala, il quale tuttavia, dopo aver ripercorso le vicende della lunga trasformazione del liberalismo (come fenomeno storico ma soprattutto come teoria politica) in Gran Bretagna, pone in luce come per tanti aspetti il thatcherismo sia stato la conclusione di una sorta di “controrivoluzione” che il liberalismo classico, grazie ad una rinascita teorica di grande respiro e grazie all’opera svolta in Gran Bretagna dal lavoro dei hink-tank liberali, seppe realizzare nel giro di un paio di decenni. In questo senso Masala sottolinea gli elementi di discontinuità e gli aspetti ideali che si possono rinvenire nel thatcherismo inteso come portatore di una cultura politica che era stata a lungo marginalizzata all’interno dello stesso liberalismo britannico. Questo elemento ci introduce ad un secondo tema trattato in diversi saggi, e che da tempo appassiona gli studiosi: ossia se e quanto vi siano degli elementi ideologici nel thatcherismo, o almeno quanto l’elemento degli ideali sia efettivamente determinante per decifrare quella esperienza politica. La tesi del thatcherismo come ideologia è implicitamente messa in discussione da Vinen, quando ad esempio mette in luce come nel modo di operare della hatcher vi sia stata gradualità e prudenza, ma anche una scelta accurata degli obiettivi realizzabili a discapito di altri più diicilmente raggiungibili (tutti elementi che Bale osserva essere stati sostanzialmente ignorati dalla stampa). Anche i saggi di Gamble, Masala e John O’Sullivan arrivano alla conclusione che non si deve parlare di ideologia, ma sottolineano anche l’importanza delle idee e degli ideali per comprendere il thatcherismo, con delle analisi che hanno tra loro diversità e convergenze. Per Gamble la hatcher fu un politico capace di usare le teorie senza però farsi condizionare troppo da esse, ponendo il suo istinto, il suo “iuto politico”, prima di ogni ideologia. E a questo proposito egli sottolinea il fatto che furono le circostanze storiche che la portarono ad attribuire una grande importanza alla “battaglie delle idee”, e fu proprio la sua capacità politica a farle capire quanto in quel momento il radicalismo e una certa dose di “ideologia”, da utilizzare strumentalmente rispetto ai suoi ini, fosse utile e forse necessaria. Che la hatcher si fosse resa conto che in quel momento una politica di forte contrapposizione ideale rispetto a quella che lei chiamava la mentalità collettivista fosse anche qualcosa che poteva pagare in termini elettorali è riscontrato anche da Masala, il quale però sottolinea come questo approccio fosse anche connaturato al carattere e alla visione della politica che essa aveva. La 12 Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher “battaglia delle idee” poteva anche essere uno strumento da usare politicamente, ma quella battaglia fu anche ciò che diede alla hatcher la consapevolezza di ciò in cui profondamente credeva, ed è diicile immaginare la Lady di Ferro, nonostante il suo pragmatismo, come un politico di successo in un frangente storico nel quale non fosse elettoralmente remunerativo sostenere con radicalità quelle convinzioni e quelle idee. Questa tesi si ritrova per molti aspetti anche nel saggio di O’Sullivan, a lungo stretto collaboratore della hatcher, il quale propone un’articolata lettura di quelle vicende politiche proprio a partire dagli obiettivi, dai valori e dalla personalità della Lady di Ferro, in un saggio che conferma, se mai ve ne fosse bisogno, quanto l’elemento personale sia essenziale per comprendere quel grande laboratorio di esperienze storiche e di ideali politici che va sotto il nome di thatcherismo. Dunque, se anche per Masala e per O’Sullivan la hatcher non applica semplicemente i dettami di un’ideologia, ma è invece un politico che cerca soluzioni pratiche ai problemi storici della Gran Bretagna del suo tempo, questi due autori sottolineano anche con forza quanto essa avesse valori saldi e credesse nell’importanza delle idee. La hatcher già a partire dalla ine degli anni sessanta, e poi con crescente consapevolezza, maturò la convinzione che i problemi della sua nazione avessero la loro origine ultima nella crisi di alcuni valori, e il thatcherismo va compreso rispetto alla domanda su come agire politicamente per riuscire a ripristinare quei valori. Una parte importante della recente letteratura, e nei saggi di questa raccolta se ne hanno alcuni esempi, ha argomentato come le riforme della hatcher fossero in un certo senso mature negli anni del suo avvento al potere, e come esse fossero ormai considerate necessarie da una parte rilevante del paese. Tuttavia il clima politico, soprattutto nei primi anni, era in gran parte ostile a quelle riforme, spesso ritenute tutt’altro che inevitabili e contrastate con forza. A questo proposito O’Sullivan mette in luce come l’essere stata un leader divisivo e intransigente sia stato un ingrediente essenziale per la riuscita del progetto politico della hatcher. Infatti a suo giudizio da un lato quelle riforme non si sarebbero mai realizzate “paciicamente”, seguendo la via del compromesso e della mediazione, e dall’altro l’intransigenza nel perseguire le riforme aveva anche l’obiettivo di trasmettere la certezza che il quadro di regole era destinato a mutare deinitivamente, e che si sarebbe stabilizzato un assetto politico e sociale favorevole agli imprenditori, o meglio ancora favorevole a ripristinare lo spirito imprenditoriale e una serie di valori ad esso legati. Gamble, ma soprattutto Masala e O’Sullivan richiamano dunque l’idea, sostenuta apertamente dalla Lady di Ferro e indagata per la prima volta attentamente nell’importante lavoro di Shirley Letwin, secondo la quale l’obiettivo ultimo della hatcher era ripristinare dei valori, quelli che per lei erano i veri valori britannici, risalenti all’età vittoriana. Le scelte economiche erano il mezzo per raggiungere il vero 13 Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014 obiettivo, ossia ripristinare i valori, tema questo messo bene in luce anche dai saggi di Cosimo Magazzino e Sebastiano Bavetta. O’Sullivan osserva poi come in tutto questo non vi fosse un calcolo politico, o l’applicazione meccanica di una teoria politica imparata leggendo dei libri, ma c’era la piena e appassionata adesione, “l’incarnazione personale”, di quei valori che la hatcher stessa riteneva giusti e che voleva ripristinare nella sua nazione. Le politiche liberali erano dunque qualcosa che da un lato serviva “strumentalmente” come soluzione ai problemi storici e speciici della Gran Bretagna, ma dall’altro era anche una scelta istintiva e naturale per la hatcher, perché rispondente alle sue convinzioni profonde e ritenuta utile all’obiettivo di far riiorire i valori morali andati perduti. Questo tema peraltro introduce un altro interessante problema, quello relativo alla tensione tra conservatorismo e liberalismo nel pensiero della hatcher. Per Vinen i principi liberali, mai del tutto scomparsi dal partito conservatore, poterono essere (ri)utilizzati senza problemi data la natura “pragmatica” del conservatorismo britannico, ed egli di fatto nega che il thatcherismo possa essere inteso come un elemento di rottura rispetto a quella tradizione, rottura che secondo una parte della letteratura sarebbe avvenuta tramite l’introduzione di idee “straniere”, prevalentemente quelle di Friedrich A. von Hayek e Milton Friedman. A questo proposito è anche interessante l’osservazione di Bale che mostra come al momento della morte della hatcher siano stati ricordati con enfasi i valori “britannici” a cui essa faceva riferimento, e come l’origine familiare (con particolare riguardo alla igura del padre) di tali valori abbia avuto un assoluto sopravvento sulle radici culturali, o se si preferisce ideologiche, di quei valori, tanto che Friedman e Hayek non sono praticamente mai stati citati dai giornali. Per Masala la Lady di Ferro tentò, più o meno consapevolmente, di rileggere in chiave liberale il signiicato più profondo del conservatorismo britannico. Per Gamble invece, che riprende e sviluppa alcuni dei temi trattati in un suo fondamentale libro di alcuni anni fa, fu la formula del the free economy and the strong state ciò che fece convivere nella pratica l’elemento liberale con quello conservatore. L’economia deve essere libera, per far crescere il paese e per rendere così i cittadini responsabili, autonomi e capaci di badare al proprio destino, depositari delle vigorouse virtues che la hatcher tanto ammirava; e lo stato deve essere forte, autorevole, e per esserlo deve svolgere i compiti che sono propri di uno stato liberale, ossia garantire l’ordine e lo stato di diritto (la tradizione inglese del rule of law), e abbandonare quel sovraccarico di compiti creato dal sistema corporativo, che lo aveva trasformato in uno stato alla perenne ricerca della soddisfazione dei diversi interessi privati e per questo incapace di riconoscere e promuovere il bene comune. E con questa chiave di lettura si possono spiegare la “guerra” ai sindacati, le privatizzazioni e in generale tutto l’ampio progetto, sociale e politico, 14 Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher che ha preso il nome di popular capitalism. Di qui anche l’impulso dato dalla sua igura alla rinascita delle idee liberali, e il fascino che tale igura ancora oggi esercita sui liberali di tutto il mondo per il suo aver saputo, nonostante alcune contraddizioni e paradossi, rivitalizzare un ordine sociale autenticamente liberale, elemento questo richiamato nei saggi di Gamble, Masala e O’Sullivan, ma anche in quelli di Magazzino e Bavetta. Il tema di quale possa essere considerata oggi l’eredità del thatcherismo è trasversale a tutti i saggi, ma è afrontano esplicitamente nei lavori di Magazzino e Bavetta. Magazzino presenta, guardando ai principali dati macroeconomici, una dettagliata analisi delle politiche economiche thatcheriane, tracciando un bilancio degli importanti risultati raggiunti ma anche cogliendo il senso profondo della sida intellettuale di quelle politiche. Quell’analisi serve poi a Magazzino per valutare la consistenza dell’eredità thatcheriana nell’attuale crisi economicoinanziaria che attanaglia l’Europa, ponendo a confronto le attuali politiche di austerità dell’Unione con quella che era l’austerità thatcheriana. Al di là di alcune somiglianze decisamente marginali, dal confronto emerge come nell’Europa di oggi si trovi ben poco dell’approccio radicalmente liberale delle scelte della signora hatcher. Davanti alla necessità di correggere i conti pubblici vi sono sempre due vie: ridurre la spesa oppure aumentare le imposte. Il fatto che nella maggior parte dei casi concreti i governi applichino una combinazione di entrambe le misure non può comunque portare a negare che le due strade siano profondamente diverse, e la via più diicile, quella liberale del taglio della spesa portata avanti dalla hatcher, non venga oggi seguita dai paesi europei. Il saggio di Sebastiano Bavetta si propone il non semplice compito di valutare l’eredità e l’attualità del thatcherismo rispetto a quello che era probabilmente il suo principale obiettivo, ossia il consolidamento dei valori morali che rendono possibile il iorire di una società libera. Il thatcherismo ofre molti insegnamenti rispetto a quell’obiettivo, ma un cambio di strategia da parte dei liberali oggi sembra essere necessario (anche se, lamenta l’autore, non sembra ancora esserci consapevolezza di questa necessità) e non si può pensare di replicare oggi, anche a causa delle diverse circostanze nelle quali viviamo, l’esperienza thatcheriana. L’obiettivo di raforzare, o ricreare, attitudini personali e valori favorevoli all’esercizio della libertà, si scontra infatti con una serie di ostacoli nuovi. In particolare Bavetta guarda al raforzarsi della percezione della disuguaglianza come frutto di un’ingiustizia, e non come una conseguenza dei diversi meriti individuali, la qual cosa è anche causata dalla sempre maggiore rilevanza delle nuove tecnologie sullo sviluppo economico. Questa “cattiva” disuguaglianza crea consenso a favore di un sempre maggiore interventismo statale, così come anche l’afermarsi di tutta una serie di nuove aspettative, generate dall’imporsi 15 Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014 dei “valori emancipativi”, valori che andrebbero anch’essi garantiti dallo stato. Questi cambiamenti fanno apparire sempre più lontana l’età della hatcher, della quale non siamo riusciti a raccogliere l’eredità spirituale, ma soprattutto spingono l’autore a sostenere che la vecchia strategia liberale di realizzare con gli strumenti della politica riforme istituzionali ed economiche tese a favorire l’incremento della libertà è oggi da considerare impraticabile, anche a causa dell’afermarsi di nuovi e diversi valori, e quindi del venire meno di un consenso rispetto a quelle riforme. Il liberalismo deve dunque cercare una nuova strada, che parta non dalla politica ma dagli individui, dalla loro capacità di cambiare la vita sociale e di estenderla il più possibile proprio a discapito dell’area della politica, la cui crescita è proprio la causa dell’attuale crisi della società aperta. Una “nuova morale sociale”, che va costruita a partire dagli individui e non dalla politica. La tesi di Bavetta è per molti versi alternativa a quella di Masala, il quale rileggendo l’esperienza del thatcherismo con la categoria foucaultiana della biopolitica si domanda se quell’esperienza non sia anche un invito a ripensare, in chiave liberale, al tema del “primato della politica” nel momento in cui sia necessario non più solo limitare il potere statale, ma tornare indietro rispetto a una situazione in cui quel potere si è ampliato a dismisura; quello che potremmo deinire il paradosso di dover usare la politica per ridurre la politica stessa. Un’idea che in realtà, e in questo sembra esserci un riavvicinamento rispetto alla posizione di Bavetta, tiene in debito conto il fatto che il thatcherismo fu anche il frutto maturo di una rinascita della teoria liberale e soprattutto di una grande opera di divulgazione delle idee liberali fatta da hink-tank e intellettuali (ossia di una parte importante di quella società civile cui fa riferimento Bavetta), tanto che la leadership politica della hatcher può essere considerata in parte una conseguenza e in parte l’ingrediente originale e decisivo per successo di quella ricetta volta a far rinascere le idee e le politiche liberali. Un tema contiguo è quello dell’insegnamento del thatcherismo rispetto alla possibilità di usare il potere del governo per “costringere” il mercato a funzionare, magari quando il mercato stesso sembra aver creato delle dinamiche che si ritiene interferiscano con il suo buon funzionamento. Un problema che appare chiaramente dalla lettura del saggio di Philip Booth sulla regolamentazione dei mercati inanziari. Quella regolamentazione in passato era stata nella gran parte dei casi prodotta dagli operatori economici, da associazioni professionali e da istituzioni che erano nate e si erano evolute all’interno delle dinamiche del mercato. La hatcher sostituì quelle vecchie pratiche con una regolamentazione statale che aveva l’intento di eliminare prassi restrittive e di favorire la concorrenza e lo sviluppo dei mercati inanziari. Tuttavia il giudizio di Booth sull’opportunità di quella scelta, è molto più cauto di quanto 16 Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher non si potrebbe pensare. Infatti con la ampia regolamentazione successiva al 1986, si entrò in una dinamica di controllo statale, con tutti i costi, spesso invisibili, che da essa sempre derivano, sia in termini di mancata innovazione sia di deresponsabilizzazione individuale, e si indebolirono e spogliarono deinitivamente dei loro compiti molti di quei “private bodies” che in passato avevano talvolta giocato un ruolo importante nel regolare e rendere eiciente il mercato. Insomma dal caso concreto analizzato da Booth emerge in tutta la sua complessità il problema dei potenziali pregi e dei potenziali difetti che accompagnano ogni intervento statale, anche quello più liberale e volto a ripristinare il buon funzionamento del libero mercato. Tali interventi possono apparire una necessità, proprio da un punto di vista liberale, davanti all’esigenza di riformare situazioni (siano esse frutto di una regolamentazione statale precedente oppure di una “evoluzione spontanea”) in cui il mercato non sembra libero e in grado di funzionare, situazioni che non sembra sia possibile trasformare (almeno in tempi brevi) se non con l’uso della “forza” politica; tuttavia non possiamo mai sapere con certezza che tipo di evoluzione quelle nuove regolamentazioni statali possono precludere, e non possiamo essere certi che con quel primo intervento di ispirazione liberale non si apra la strada ad un ulteriore crescita dei compiti dello stato. Questi dilemmi segnano l’interesse per quello straordinario fenomeno, storico e teorico, che è stato il thatcherismo, uno dei pochi casi in cui una democrazia matura sia riuscita a riconquistare alle idee liberali una parte importante del consenso popolare. Forse possiamo dire che, come tutti i grandi fenomeni politici, esso ci lascia più questioni aperte che soluzioni certe, cosa che tuttavia non ne sminuisce l’importanza storica e l’attualità rispetto a problemi che ancora oggi abbiamo davanti. Note 1 “L’eredità di Margaret hatcher” è anche il titolo della conferenza internazionale tenutasi a Lucca il 4 e 5 aprile del 2014, organizzata dall’IMT Alti Studi Lucca con la collaborazione dell’Istituto Bruno Leoni e della Fondazione Magna Carta, e con il supporto economico di Euro Inn Advisory e della Fondazione Lucchese per l’Alta Formazione e la Ricerca. I saggi qui pubblicati hanno origine proprio da quella conferenza, resa possibile grazie al generoso lavoro del Direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, della responsabile del Centro Studi della Fondazione Magna Carta, Margherita Movarelli e all’attivo sostegno di Alberto Bemporad, Giovanni Orsina e Fabio Pammolli di IMT Alti Studi Lucca. A tutti loro, e a Eugenio Telleschi e Roberto Ricciardi di Euro Inn Advisory, nonché a Arturo Lattanzi della Fondazione Lucchese per l’Alta Formazione e la Ricerca, va il mio sentito ringraziamento. 17