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ARTICOLO DI RICERCA OrizzonteCina Vol. 14 (2023) n.1: 57 - 70 10.13135/2280-8035/7505 Bull in a China Shop. Per un approccio multispecie alla frantumazione del sapere socio-scientifico sulla Cina e una sua ricomposizione Andrea E. Pia Department of Anthropology, London School of Economics and Political Science Contatto: a.e.pia@lse.ac.uk What is China? How do we describe and analyse it? What to make of these descriptions and analyses? Can the knowledge we produce about China be brought to bear on conceptual frameworks and theories developed in the West and from a Western perspective? This short text argues that the current state of Chinese studies in Italy, the Sinophone academia, and the Anglosphere demands that we reconsider some of the epistemological assumptions we hold true about China. How does China behave as an object of social scientific reflection? What is the ontological and cultural status that is conferred on the knowledge we produce about it? Drawing from a multispecies imaginary, the text develops a series of metaphors with which to analytically capture these assumptions and propose ways to translate them into a more orderly and empirically grounded field of inquiry. This field enables transdisciplinary engagements and can be made to serve a theoretically more generative collaborative practice in academia. Keywords Orientalism; essentialism; postcoloniality; transdisciplinarity; epistemology. Introduzione All’inizio del 1992, all’età di 87 anni, l’ex leader supremo Deng Xiaoping intraprese un tour del sud della Cina – l’ormai noto “viaggio nel Sud” (Dèng Xiǎopíng nánxún 邓小平南巡) – con l’intento di facilitare l’attuazione del suo programma di “Riforma e apertura” (gǎigé kāifàng 改革开放). Durante il tour, Deng tenne diversi discorsi che enfatizzavano l’importanza di liberalizzare l’economia e aprire ulteriormente la Cina al capitale straniero. Uno di questi discorsi fu pronunciato il 18 gennaio 1992 a Shenzhen: oggi capitale del high-tech Cinese ma fino a qualche anno prima della visita di Deng poco più che un raccolto villaggio di pescatori adagiato lungo il delta del Fiume delle Perle. In questo discorso, disseminato di richiami letterari, Deng utilizzò una metafora oggi diventata celebre. Nel tentativo di trasmettere la sua convinzione che la Cina dovesse abbracciare la liberalizzazione della propria economia al fine di modernizzarsi e recuperare il supposto divario con il mondo sviluppato, Deng annunciò: OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 57 INDICE Abstract Bull in a China Shop Il preziosismo linguistico con cui, qui sopra, Deng dipinge l’economia cinese nel preciso atto di spiccare il volo, rendendosi ad un tempo libera ma anche più ferina – un uccello non più pullo pronto per la prima volta a predare o a esser predato – fornisce la chiave retorica di questo breve articolo, il quale offre una analisi critica della transdisciplinarietà degli studi sociali sulla Cina contemporanea nel contesto italiano, sinofono ed anglofono. Il testo si propone di guardare alla transdisciplinarietà come prospettiva arrestata, ancora indeterminata, e spesso spinta ai margini del dibattito accademico a causa del suo (mancato) incasellamento disciplinare. Esattamente come l’economia transizionale della Repubblica popolare della fine degli anni Ottanta illustrata da Deng,2 le scienze sociali internazionali contemporanee stanno attualmente attraversando una fase liminale: potenzialmente in grado di svilupparsi oltre il conforto del proprio nido d’origine ma temporaneamente incerte sulla rotta da intraprendere, tentennanti nello slancio del primo salto, trattenute spesso da snervanti logiche di parte. In quanto segue, il testo si divincola fra le pieghe di un bestiario metaforico nel tentativo di elucidare le ragioni e le modalità attraverso le quali il sapere accademico sulla cultura e società cinese contemporanea si scompone, frammenta, ibrida e muta forma; ed eventualmente proporre qualche idea su come trarre vantaggio da tanta mutevolezza. Prendendo spunto da approcci disciplinari diversi, la riflessione qui proposta chiarisce i contorni epistemologici dello studio sociale e comparato sulla Cina, ma soprattutto ne esalta le potenzialità – quello sguardo decoloniale non sulla ma dalla Cina che permette, secondo la lettura qui proposta, di rinnovare se non reinventare il canone socio-scientifico occidentale. In questo tentativo, una mano viene tesa dalla pedagogia avanzata dagli studi multispecie in voga nell’antropologia contemporanea.3 Con questo termine vengono abbracciati solitamente un ventaglio di approcci e posture metodologiche volte prima di tutto alla “provincializzazione” dell’epistemologia illuminista e cartesiana4 e secondariamente all’ ibridazione di prospettive umane e non-umane sul mondo5. Assumere una prospettiva “altra” e “poliforme” sulle scienze sociali internazionali permette di interrogare l’attuale frantumazione e continua dispersione dell’expertise accademica sulla Cina, per dare così maggiore legittimazione a un sapere – quello che derive da una familiarità con fatti, attitudini e genealogie intellettuali proprie dell’area sinofonica – che spesso viene relegato ai margini della produzione teorica e settoriale dell’accademia euro-americana. 1 Xiaoping Deng, “Excerpts From Talks Given In Wuchang, Shenzhen, Zhuhai and Shanghai” in The Selected Works of Deng Xiaoping (1992, traduzione a cura dell’autore), disponibile online all’Url https://dengxiaopingworks.wordpress.com/. 2 Isabella Weber, How China Escaped Shock Therapy: the Market Reform Debate (London: Routledge, 2021). 3 Eben S. Kirksey e Stefan Helmrieich, “The Emergence of Multispecies Ethnography”, Cultural Anthropology, 25 (2010) 4: 545-576. 4 Vedi Dipesh Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference (Princeton, New Jersey: Princeton University Press, 2008) e Elizabeth Povinelli, Between Gaia and Ground: Four Axioms of Existence and the Ancestral Catastrophe of Late Liberalism (Durham: Duke University Press, 2021). 5 Donna Haraway, When Species Meet (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2007). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 58 INDICE Lo sviluppo è l’unica verità (Yìng dàolǐ 硬道理). [...] Un paese in via di sviluppo come il nostro deve guardare al futuro, guardare al mondo, e cogliere l’opportunità di svilupparsi. Se non ci apriamo, resteremo indietro. Se non avanziamo, saremo lasciati indietro. [...] Il nostro sviluppo è come un uccello che ha bisogno di lasciare il nido e volare da solo.1 Andrea E. Pia Da questa prospettiva i fatti sociali evidenziati dagli studi d’area cinesi, intesi come campo largo, multidisciplinare, spesso conflittuale e rumoreggiante, appariranno non più nella comune veste di casi di studio d’area ristretti, ovvero anomali e distanti dalle aspettative e dalle ipotesi socioeconomiche prodotte all’interno di quadri teorici eurocentrici. Le scienze sociali sinocompetenti che qui propongo ci muniscono invece di veri e propri paradigm-breakers, grimaldelli analitici utili a scardinare convenzioni e riduzioni disciplinari e aprire viste teoriche su panorami conoscitivi più ampi, frastagliati, e profondi. Qui la Cina si cala nel ruolo del proverbiale elefante nella cristalleria (o del “toro nel negozio di porcellane”, come da dizione inglese). Forza dirompente che frantuma valori e convenzioni, e il cui lascito intellettuale necessita di attenzione, cura, e dedizione per essere ricomposto e tramandato. In conclusione, il testo elenca alcune delle storture disciplinari e amministrative che caratterizzano gli studi cinesi (esempio di una ben più ampia tendenza) in Italia e nel mondo anglofono. Queste storture finiscono per depotenziare il portato epistemologicamente rivoluzionario incubato dal campo largo degli approcci socioscientifici condotti in dialogo con e dalla Cina. Sarebbe opportuno dunque impegnarsi a rimettere insieme i cocci di un’area di expertise così frantumata, ricollegando tradizioni disciplinari diverse alla radice prima del loro originario fiorire: la ricerca empirica sul canone materiale o sul campo. Ecco un’altra metafora ferina pertinente. In un recente incontro fra Christof Mauch – il direttore del Rachel Carson Centre, prestigioso istituto di ricerca interdisciplinare e internazionale che si concentra sullo studio delle interazioni tra ambiente e società – e gli studenti del corso di master in Environmental Humanties dell’Università Ca’ Foscari di Venezia si è discusso di sostenibilità e lotte sociali intorno alla questione climatica. Tema globale per definizione, comprendere e mettere a problema l’attuale congiunzione fra sviluppo tardo-capitalistico e crisi socioambientale richiede agli studenti così come agli addetti ai lavori la padronanza di una serie di strumenti analitici e quadri epistemologici flessibili6; strumenti che consentano di tenere in tensione, e all’occorrenza estendere, il perimetro di dinamiche e prospettive prettamente locali in relazione alle macro-variabili, geopolitiche ed economiche che influenzano, quando non determinano, il modo in cui la crisi climatica si fa processo trasformativo di modi specifici di vivere in particolari tipi di luoghi.7 In veste di uditore esperto del problema – mi occupo di Cina e ambiente da almeno quindici anni – rimasi spiazzato dalla completa assenza fra gli studenti presenti di una riflessione informata sul ruolo che la Repubblica popolare cinese (Rpc) occupa, volente o nolente, nella produzione antropogenica del cambiamento climatico, ma anche nella transizione energetica che ne costituirebbe la supposta soluzione. Intervenendo nella discussione, quindi, tentai di affrontare gli effetti di questa allarmante ipovisione. A conti fatti, la Rpc è oggi responsabile del 33 per cento delle emissioni globali di CO2, e – come suggerito da questa cifra – dovrebbe essere considerata il principale attore nella lotta globale contro il cambiamento climatico.8 Allo stesso 6 Mara Benadusi et al., Tardo industrialismo: Energia, ambiente e nuovi immaginari di sviluppo in Sicilia (Milano: Meltemi, 2021). 7 Michaeline A. Crichlow, Patricia Northover e Juan A. Giusti-Cordero, Race and Rurality in the Global Economy (New York: SUNY Series, New York Press, 2018), 8 Richard Smith, “Why China Cannot Decarbonise”, Made in China Journal, 7 (2022) 2: 88-95. OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 59 INDICE Elefante nella stanza Bull in a China Shop tempo la Cina è il primo produttore mondiale di batterie elettriche e investe considerevoli risorse nella decarbonizzazione della sua filiera industriale.9 Atterrito dal silenzio assordante che seguì questa quantomai banale asserzione, mi premurai di sollecitare qualche risposta dagli studenti presenti. I miei sforzi sollevarono una sola mano dubitante: Fra le molte teste annuenti, Christof Mauch colse l’occasione per dare voce ad un altro commento pungente: “La Cina è il proverbiale elefante nella stanza, uno particolarmente ben nascosto data la mole”. Ovviamente, i caparbi studenti del master in Environmental Humanities avevano ragione da vendere. Come ha sostenuto recentemente Mizoguchi Yūzō in uno studio già diventato un classico del pensiero decoloniale asiatico10, l’episteme sociale occidentale spesso “astrae” e rende la Cina “altra”, vedendo nella civiltà asiatica qualcosa di estraneo allo sviluppo storico post-illuminista e, cosa più importante, un’entità ontologicamente superflua ai fini della comprensione di quest’ultimo. Questa postura conoscitiva limiterebbe la capacità di osservatori formati attraverso una esposizione (spesso parziale e gerarchica) al canone euroamericano di riconoscere nella vicende passate ed esperienze presenti cinesi un interlocutore legittimo, parte integrante dello sviluppo civile ed economico che ha portato l’Occidente e il mondo tutto a organizzare le proprie società intorno a una determinata concezione di progresso, di lavoro, ma anche di tecniche di rimozione e purificazione del vincolo ecologico allo sviluppo11. Ciò che è opportuno notare è il fatto, per certi versi sorprendente, che studenti di master, così come Direttori di prestigiosi istituti scientifici, arrivino a simili conclusioni nonostante siano sistematicamente e professionalmente esposti a letture informate, persino tecniche, sul ruolo che la Rpc gioca oggi in materia di crescita economica e di raggiungimento dei limiti planetari a essa imposti. L’esempio del cambiamento climatico “con caratteristiche cinesi” appare paradigmatico. Che gli studi sulla Cina non “contino” r è fatto dovuto non tanto alla mancanza di familiarità con il contesto – Mauch stesso ammise di intrattenere pressoché quotidianamente relazioni con diversi ricercatori e centri di ricerca di eccellenza cinesi – né da una supposta sottoesposizione agli strumenti analitici necessari a studiarla – gli studenti di cui sopra avevano tutti frequentato corsi magistrali che offrono analisi su società e ambiente della Cina contemporanea. L’impasse è prima di tutto epistemologico: limitata capacità di relazionarsi criticamente al suddetto materiale ed esperienze, ad adottare una prospettiva non sulla ma dalla Cina che permetta di disporre sotto luce nuova intendimenti disciplinari dati come assodati12. 9 Yifei Lie Judith Shapiro, China Goes Green: Coercive Environmentalism for a Troubled Planet (London: Polity Press, 2021). 10 Yūzō Mizoguchi, “China as Method”, Inter-Asian Cultural Studies, 17 (2016) 4: 513-518. 11 Bruno Latour, Down to Earth: Politics in the New Climate Regime (London: Polity Press, 2018). 12 Per un esempio di come si potrebbe affrontare la crisi climatica da una prospettiva cinese si veda Huang Ping, Linda Westman e Vanesa Broto Castán, “A culture-led approach to understanding energy transitions in China: The correlative epistemology”, Transactions of the Institute of British Geographers, 46 (2021) 4: 900– 916. OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 60 INDICE “Onestamente, quando sento parlare di Cina, mi sembra di entrare in un mondo così complesso e distante, che è come non mi toccasse. Mi sento scoraggiata e allo stesso tempo disinteressata. A tutti gli effetti io, ma penso anche molti altri fra di noi, viviamo in un mondo in cui la Cina non viene registrata, non esiste, non ci riguarda”. Andrea E. Pia Una serie di proposizioni problematiche segue l’attribuzione culturale di mole, ingombro e invisibilità all’esperienza cinese (l’elefante nella stanza) come forza attrice e significativa nella comprensione di vicende globali che ci riguardano da vicino. Primo, il confinamento dell’expertise sulla Cina a una nicchia marginale e ultra specialistica. Se solo pochi vengono ritenuti in grado di comprendere come la Cina operi nel mondo e deformi lo spicchio di realtà che riteniamo degno di attenzione, allora spetterebbe a quei pochi interessarsi di cose e fatti cinesi descriverne il significato alla larga maggioranza a cui verrebbe invece risparmiato il relativo carico di lavoro cognitivo. Secondo, se riconoscere la Cina rappresenta una specializzazione dello sguardo ciò determinerà il concomitante abbandono di scorciatoie analitiche e lo sganciamento da quadri teorici modellati sull’esperienza sociale, economica, e politica occidentale, in quanto questi verrebbero reputati intrinsecamente distorcenti e inappropriati alla reale comprensione del fenomeno investigato. Come brillantemente argomentato da Ivan Franceschini e Nicholas Loubere in un recente testo sull’utilizzo della Cina globale come metodo nelle scienze sociali, l’analisi della Cina contemporanea in isolamento dagli ovvi legami storici, culturali e intellettuali che essa intrattiene con il resto del mondo produrrebbe inevitabilmente una forma di miopia non debilitante ma offensiva, un rinforzo della percezione di differenza culturale e un ammutolimento di qualsiasi lettura alternativa. In altre parole, ciò imporrebbe il ritorno a un orientalismo di contrabbando spacciato per competenza d’area a un pubblico diseducato all’approccio critico13. Inoltre, in quanto eccezionale, la Cina rifiuterebbe il paragone controllato e generativo proprio delle scienze sociali e risulterebbe invece come necessariamente “altra”. In quanto “altra”, certo intellettualmente stimolante ma non intrinsecamente rilevante allo sviluppo endogeno, e alla comprensione, delle nostre società occidentali. A riguardo, gli antropologi Hans Steinmüller e Stephan Feuchtwang hanno recentemente constatato “la riluttanza di studenti e studiosi a consentire il confronto fra Cina ed estero, così come la tendenza all’auto-parrocchializzazione mediante l’introduzione di concetti indigeni cinesi per rappresentare la Cina all’estero”14. Fatto notevole di questa consapevole provincializzazione e scotomizzazione della Cina dalla riflessione “alta” occidentale è l’apparente metabolizzazione di queste stesse posture e sensibilità da parte degli intellettuali e accademici cinesi; processo questo che il pensatore decoloniale taiwanese Kuan-Hsing Chen chiama “orientalismo irriflessivo”.15 Dalla nozione di tiānxià (天下) per definire il rinvigorimento di una supposta dottrina tradizionale di politica internazionale di epoca imperiale e apparentemente favorito dalla civiltà cinese di ogni epoca16 al concetto di shēngtài wénmíng (生态文明) per indicare la supposta propensione cinese a instaurare relazioni di mutuo supporto fra società umane e natura,17 gli studi cinesi praticati 13 Ivan Franceschini e Nicholas Loubere, Global China as Method (Cambridge University Press, 2022). 14 Hans Steinmüller e Stephan Feuchtwang, “Implicit comparisons, or why it is inevitable to study China in comparative perspective” in How People Compare, a cura di Mathijs Pelkmans e Harry Walker (London: Routledge, 2022), 172. 15 Kuan-Hsing Chen, Asia as Method (Durham: Duke University Press, 2010). 16 Tingyang Zhao, Tiānxià tǐxì: shìjiè zhìdù zhéxué dǎolùn [Il sistema Tianxia: introduzione alla filosofia di un’istituzione globale] (Nanjing: Jiangsu Education Publishing, 2005). 17 Zhihe Wang, Huili He e Meijun Fan, “The Ecological Civilization Debate in China: The Role of Ecological Marxism and Constructive Postmodernism—Beyond the Predicament of Legislation”, Monthly Review, 66 (2014) 6, disponibile all’Url https://monthlyreview. org/2014/11/01/the-ecological-civilization-debate-in-china/. OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 61 INDICE Tigre di carta da intellettuali e accademici della Rpc stanno sempre di più, anche per evidenti ragioni di soft power, optando per l’eccezionalismo culturale nel tentativo di spiegare la Cina all’estero18. L’antropologo Xiang Biao, direttore del Max Planck Institute per l’Antropologia sociale di Halle, ha recentemente fatto scalpore pubblicando un testo di metodologia auto-etnografica19 dove alla domanda retorica “che cosa è la Cina, come comprenderla?” viene risposto che capire un contesto “altro” equivale ad avere profonda comprensione del proprio contesto di origine. Questo testo, oggi popolarissimo in Cina, ha sicuramente determinato la recente esplosione di interesse per l’antropologia fra le giovani élite cinesi20 ma è anche stato letto, presumibilmente contro le originarie intenzioni dello stesso autore, come argomento in supporto di una risorgente etno-nazionalizzazione del pensiero: una Cina analizzabile esclusivamente attraverso categorie indigene le eviterebbe infatti di impantanarsi in quei paragoni sistematici ma purtroppo piuttosto scomodi offerti dalle scienze sociali, e di consolidare quella percezione di un sé unico ed eccezionale21. Tratto, quest’ultimo, sempre più comune fra osservatori interessati a rinfocolare un clima da guerra fredda con l’Occidente. Se la Cina è dunque un ingombro intellegibile solo una volta accettatane la natura di fardello epistemologico, ciò non significa che le scienze sociali non abbiamo più volte provato a ingaggiarne la presupposta alterità nel tentativo di animarla, di renderla scientificamente generativa, invece di musealizzarla, di disinnescarla, o di sventolarla come spauracchio geopolitico. Un esempio sono quegli antropologi della Cina – ambito fra le scienze sociali a me più familiare – che hanno in vari momenti introdotto concetti derivati dallo studio dell’azione sociale in Cina in contesti più ampi e potenzialmente forieri di maggiori conseguenze per lo sviluppo di una teoria generale dell’agire sociale. Maurice Freedman ha, ad esempio, paragonato i lignaggi segmentari del sud-est cinese con quelli dei regni dell’Africa occidentale pre-coloniale.22 Ma come sostenuto poco sopra, la miopia propria del post-Illuminismo ha fatto sì che lavori come quello di Freedman siano stati immediatamente compromessi dal fatto di essere ricevuti in primis come studi cinesi – come argomenti in supporto dell’unicità della civiltà cinese – invece di essere incorporati negli studi sull’Africa. In certa misura – e qui mi si permetta di formulare la mia posizione nel modo più spigoloso e antagonista possibile – l’antropologia, la scienza politica e la sociologia della Cina sono diventate discipline ausiliarie degli studi di area “ristretti”, intesi come studi dell’eccezione cinese, separati dai dibattiti generali nelle rispettive discipline.23 Sono cioè diventate delle “tigri di carta” per usare un’espressione cara a Mao Zedong: potenzialmente capaci di offesa analitica, di presa intellettuale sul reale, ma in realtà vestigiali, elucubrazioni sterili di cartapesta. Comparabilmente, la crescita delle scienze sociali in Cina e a Taiwan si è auto-limitata nella 18 Jinba Tenzin, “Rethinking the Rise of China: A Postcolonial Critique of China and a Chinese Critique of the Postcolonial”, Journal of Historical Sociology, 35 (2022) 1: 83 – 106. 19 Biao Xiang, Self as Method: Thinking Through China and the World (New York: Springer, 2023). 20 Qianni Wang e Shifan Ge, “How One Obscure Word Captures Urban China’s Unhappiness”, Sixth Tone, 4 novembre 2020, disponibile all’Url https://www.sixthtone.com/news/1006391. 21 Jinba Tenzin, “The Ecology of Chinese Academia: A Third-Eye Perspective”, The China Quarterly, 231 (2017): 775-796. 22 Maurice Freedman, Lineage organization in Southeastern China (New York: London School of Economics Monographs on Social Anthropology, Athlone Press, 1958). 23 Norman Stockman, “Working in no man’s land: between sociology and Chinese studies”, Journal of the British Association for Chinese Studies, 8 (2018) 2: 130–143. OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 62 INDICE Bull in a China Shop Andrea E. Pia ricerca di concetti analitici autoctoni, cosicché nozioni come miànzi (面子), guānxi (关系) e il sistema differenziale di relazioni (chàxù géjú差序格局) – per dare solo alcuni esempi importanti – sono col tempo rimasti legati ai loro ambiti di origine, mentre la loro possibile importanza all’estero è stata ignorata. Le scienze sociali della Cina non devono necessariamente confermare l’unicità cinese. Questa sezione si propone di sostenere l’opposto, ovvero che le scienze sociali della Cina (e prodotte in Cina, auspicabilmente) debbano invece esaltare il potenziale di rottura empirica degli studi di area e innescarne le capacità di deflagrazione analitica, proponendo una balistica fenomenologica – per dirla con Palazzi24 – che tracci sistematicamente le traiettorie prodotte da uno sguardo sul mondo proveniente dalla Cina e identifichi positivamente i bersagli teorici da queste inquadrati e abbattuti. Non un uccello, un elefante o una tigre di carta, ma un toro infuriato scatenato nella cristalleria dell’epistemologia occidentale, determinato a far briciole del canone socio-scientifico in cui siamo intellettualmente cresciuti e da cui veniamo costantemente cullati. Prendiamo ad esempio una serie di ipotesi ben consolidate nelle scienze sociali occidentali, e mostriamo come, negli anni, l’esperienza cinese le abbia rimesse fondamentalmente in discussione, o almeno, lo abbia fatto per coloro i quali hanno avuto cura di prestare attenzione25. Il primo e forse più lampante esempio di questa dinamica è la teoria della modernizzazione e i suoi corollari. Parzialmente contenuta già in Max Weber, ma più esplicitamente elaborata dalla scuola sociologica parsoniana, la teoria della modernizzazione postula una serie di “linearità” nello sviluppo delle società umane che porterebbero diverse civiltà storiche a confluire in una versione idealizzata (a fini di chiarità scientifica) delle società burocratico-capitalistiche a noi più familiari, finendo così tutte con il somigliarsi.26 Corollari a questa teoria includono la nozione di democratizzazione (ovvero come la politica propria delle società moderne tenda a essere organizzata democraticamente); secolarizzazione (perdita organica di rilevanza sociopolitica del fatto religioso); liberalizzazione (sviluppo capitalistico e giuridico dell’economia); nuclearizzazione della famiglia (l’accorciamento delle reti di parentela e la perdita della loro capacità di supporto) e individualizzazione (la fine di una supposta mentalità collettivistica propria delle società pre-industriali). Nonostante queste ipotesi continuino ad abitare il dibattito pubblico sotto forma di verità granitiche (e conseguentemente a dominare il discorso sulla libertà e il progresso in Occidente) e in quello accademico nella veste di “idee zombie” – idee largamente confutate ma ancora in circolazione – il loro drammatico incontro con la modernità cinese le ha figurativamente fatte a pezzi. Come risulta ovvio al lettore di OrizzonteCina, nonostante l’ascesa della sua economia, appare difficile accordarsi oggi su quanto la Rpc sia più o meno democratica di come lo fosse il 24 Franco Palazzi, La politica della rabbia. Per una balistica filosofica (Milano: Nottetempo, 2021). 25 Stephan Feuchtwang e Mingming Wang, Grassroots Charisma: Four Local Leaders in China (London: Routledge, 2013). 26 Per un’analisi del concetto di modernità e sui limiti filosofici vedi Charles Taylor, Modern Social Imaginaries (Durham: Duke University Press, 2003). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 63 INDICE The bull in the China shop giorno della sua fondazione.27 Anzi, l’abituale correlazione che le scienze sociali novecentesche di matrice occidentale postulano fra sviluppo economico e capacità di governare il dissenso, soprattutto quello politicamente meno gestibile espresso dalle classi sociali medio-alte, è stata messa in crisi da un’ingente mole di evidenze empiriche che dimostrano come le fondamenta del consenso della Rpc rimangano a tutt’oggi piuttosto solide.28. E in aggiunta, rimangano tali forse proprio grazie a quegli stessi fattori che la teoria politica occidentale reputa maggiormente proni a indebolire il rapporto fra governanti e governati in società autoritarie, ovvero l’uso pervasivo della repressione poliziesca e para-poliziesca.29 Destino simile hanno avuto idee come quella di secolarizzazione – tecnicamente la Rpc si è “secolarizzata” prima di modernizzarsi, e quando non lo ha fatto ha ottenuto il controllo del fenomeno religioso non grazie a una generalizzata mutazione delle vedute in materia di fede avvenuta organicamente nella propria cittadinanza, ma principalmente attraverso la coercizione30 – o liberalizzazione (ad esempio il concetto di proprietà privata in Cina riguarda oggi un ristretto numero di diritti sostanziali, calati politicamente dall’alto e sempre influenzati da congiunture macro-economiche).31 Anche nell’identificazione di similitudini nel comportamento e nel mutamento del corpo sociale, teorie modellate sull’esperienza occidentale non trovano grande riscontro: sebbene le famiglie cinesi si stiano nuclearizzando, queste, data la mancanza di un sistema di welfare adeguato, stanno diventando più e non meno importanti dal punto di vista del supporto fornito ai propri membri.32 E l’individualizzazione sta facendo i conti con nuovi slanci collettivi e nuove forme di lotta classe.33 Potrei continuare, ma vorrebbe dire insistere. Quello che sarebbe necessario aggiungere qui è il dispendio di energie e di capitale cognitivo a cui assistiamo ogni giorno in cui l’expertise collettiva accumulata sulla Cina, e dispersa in centri di ricerca, corsi di formazione e università, non viene fatta collidere (positivamente) con lo scientismo zombie indicato poco sopra; convinzioni e convenzioni confutate che perdurano annacquando il valore delle nostre lenti specialistiche e la loro presa sulla realtà. Ad esempio, si pensi a come una certa versione unidimensionale della Rpc, coniugata a una mancata metabolizzazione dell’esperienza coloniale occidentale (e del suo lascito), stiano oggi rendendo il gioco facile alla propaganda politica che vede nel legittimo interesse cinese per la coltivazione di relazioni bilaterali con paesi terzi un reinstallamento di logiche estrattive e/o neocoloniali.34 Assistiamo ancora una volta all’impoverimento del linguaggio e degli strumenti analitici a nostra disposizione per comprendere il modo in cui 27 Jiwei Ci, Democracy in China: the Coming Crisis (Cambridge MA: Harvard University Press, 2019). 28 Vedi Martin K. Whyte, Myth of the Social Volcano Perceptions of Inequality and Distributive Injustice in Contemporary China (Stanford: Stanford University Press, 2010) e Daniel Mattingly, The Art of Political Control in China (Cambridge: Cambridge University Press, 2019). 29 Lynette H. Ong, Outsourcing Repression: Everyday State Power in Contemporary China (Oxford: Oxford University Press, 2022). 30 Mayfair Yang, Chinese Religiosities: Afflictions of Modernity and State Formation (Berkeley and Los Angeles: California University Press, 2008). 31 Matthew Erie, “The Afterlives of Property: Affect, Time, Value” in Legalism: Property and Ownership, a cura di Hannah Skoda, Tom Lambert e Georgy Kantor (Oxford: Oxford University Press, 2018), 89-114. 32 Charlotte Bruckermann, “Care for the Family and the Environment in China’s Coal Country”, The China Quarterly, 254 (2023): 1-15. 33 Ngai Pun, “The New Chinese Working Class in Struggle”, Dialectical Anthropology, 44 (2020): 19–329. 34 Ching Kwan Lee, The Specter of Global China: Politics, Labor, and Foreign Investment in Africa (Chicago: Chicago University Press, 2017). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 64 INDICE Bull in a China Shop Andrea E. Pia la Cina, oggi globale, ci riguardi tutti, e interroghi i perimetri confortevoli della nostra presa analitica sul mondo. Ben lungi da una difesa acritica della geopolitica cinese, riacquisire un vocabolario analitico empiricamente fondato significa affilare la nostra capacità di comprendere il periodo di sovvertimenti globali in cui ci troviamo a vivere e, ottimisticamente, guidare questi stessi sovvertimenti. Per tornare ancora una volta a Franceschini e Loubere, “questioni lette come specificamente “cinesi” sono in realtà il risultato di dinamiche complesse e interconnessioni che non solo vanno oltre i confini cinesi, ma necessitano anche di una prospettiva che illumini sia la Cina nel mondo che il mondo in Cina”.35 In tal senso, dobbiamo andare oltre l’enfasi sul locale tipica degli studi d’area “ristretti” e parrocchializzanti, e accettare che le questioni relative alla politica interna, all’economia, e ai cambiamenti sociali cinesi non debbano essere interpretate come separate dagli sviluppi socio-economici e politici globali. Dobbiamo puntare a una convergenza sinergica fra studi d’area allargati e discipline socio-scientifiche postcoloniali che permettano una pluralizzazione coerente e mirata del sapere sulla Cina – fare del toro una manticora, ad esempio? – e consentano di rivitalizzare il dibattito pubblico sulla Cina in un momento in cui posizionamenti geopolitici raffreddano e rarefanno le possibilità di un dialogo critico ma aperto. Giunti a questo punto dovremmo interrogarci anche su come, negli anni, nelle nostre istituzioni academiche e di ricerca si sia inteso inscatolare percorsi pedagogici inerenti gli studi cinesi (e asiatici più in generale) nel tentativo di metterli, in prima istanza, a profitto, e in seconda, di intrupparli ideologicamente – ovvero forzarne un allineamento alle questioni geopolitiche del momento –ma con l’indesiderato risultato di anestetizzarne il portato dirompente. Mi affido qui all’esperienza maturata come docente e, per un periodo, direttore del programma del master China in comparative perspective del Dipartimento di antropologia della London School of Economics. Unico nel suo genere, questo è ad oggi l’unico programma offerto da un istituto europeo di alta formazione che si prefigga di ingaggiare la Cina da una prospettiva che esula sia dalla sinologia tradizionale sia dagli studi d’area, bensì da una prospettiva metodologica, vale a dire la comparazione controllata propria delle scienze sociali36. Uno degli assunti di questo corso, e uno dei principali insegnamenti che ci sforziamo di trasmettere ai nostri studenti, è che, nonostante le più rosee intenzioni, nell’avvicinarsi allo studio dell’”altro” osservatori più o meno esperti di cose cinesi siano spesso influenzati da paragoni condotti spesso automaticamente e in maniera implicita, paragoni tratti da mal digeriti assunti riguardo al funzionamento di entità o processi creduti noti perché più familiari. Ciò avviene a prescindere dal punto d’origine dello sguardo. Questo è il caso ad esempio della facilità con cui in Cina si associa spesso la figura di Xi Jinping a quella di un imperatore, e in Occidente quella dell’imperatore a un dittatore europeo del XX secolo, perdendo così la capacità di incuriosirsi, di discernere differenze, ma anche di proporre similitudini maggiormente aderenti al reale. 35 Franceschini, Loubere. Global China as Method, cit. 7. 36 Hans Steinmüller e Stephan Feuchtwang, China in Comparative Perspective (London: World Scientific, 2017). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 65 INDICE Conclusioni Per anni gli studi d’area anglosassoni – anch’essi figli di una guerra fredda37, poi messi sotto scacco da quello che ho chiamato lo scientismo zombie – hanno motivato e si sono spesi affinché i loro potenziali pubblici riconoscessero in essi un nocciolo di esoticità e incomparabilità, favorendo la feticizzazione dell’alterità asiatica spesso in maniera controproducente, elitaria ed escludente per chi avesse voluto avvicinarsi a questo settore di studio da una posizione auto-critica e anti-paradigmatica (a esclusione degli studi sinologici di stampo marxista, le cui contraddizioni non ho qui il tempo di esplorare in dettaglio). Sebbene questa posizione abbia sicuramente accelerato la creazioni di cittadelle se non di veri e propri feudi accademici quasi inassediabili, col tempo alla vulgata eccezionalistica sulla Cina si è permesso di incardinarsi e di fossilizzarsi – mi sposto ora in Italia – in un incasellamento rigido della credenzializzazione specialistica, che contemporaneamente inibisce qualsiasi forma di paragone esplicito ed esclude dal dibattito socio-scientifico occidentale voci le cui competenze di area sinologica aiuterebbero a sviluppare nuove prospettive e interpretazioni per la comprensione del presente. Questo rimane vero anche quando si approccia l’annosa questione della Cina globale, come capitatomi in una conferenza tenutasi all’Università di Cambridge nell’aprile 2023, e ci si ritrova a spiegare la Rpc ad altri specialisti d’area, ad esempio del Sud-est asiatico, dai quali la Cina è vista ancora come terreno impenetrabile, di difficile studio, dove poco di intellettualmente rilevante prende forma. La domanda circa ciò che la “Cina” è, e cosa pensino i “cinesi”, motiva distinzioni quotidiane tra cittadini, studenti, così come quelle prodotte in dibattiti politici e accademici. Sinocentrismo, etno-nazionalismo e scotomizzazione metodologica si basano tutte sulla persuasività di comparazioni implicite e di congedi cognitivi come quelli elencati poco sopra. Dunque, rivelare tali comparazioni implicite e omissioni di elaborazione è prima facie una mossa esplicitamente politica: se con “politico” ci riferiamo a giochi di potere che contrappongono attori in diversi campi, allora indicare le linee di confine invisibili che danno coerenza alla posizione dell’avversario è certamente la mossa politica per eccellenza. Negli anni a venire sarà sempre più urgente per chi fra di noi si occupa di ricerca sociale in Cina porsi la domanda di come condurre la propria expertise in spazi istituzionali e di formazione, interrogarci sul modo in cui contesti e pratiche accademiche rinforzino o indeboliscano i confini amministrativi che debilitano il confronto teorico e la professionalità orientata alla Cina, e di impegnarsi affinché, in futuro, si possa produrre conoscenza in dialogo con e dalla Cina (nonostante il clima tutt’altro che disteso) in maniera realmente transdisciplinare, ovvero in un contesto in cui a competenze e professionalità specifiche sia garantito supporto economico e amministrativo adeguato e proporzionato. Nel contesto anglosassone ciò si sta traducendo nel dispiego di considerevoli forze diplomatiche e ammnistrative volte a tener aperti il maggior numero di canali academici possibili con realtà equivalenti nella Rpc, a Taiwan, a Hong Kong, e nel più largo contesto sinofonico. Convegni virtuali, borse di studio dedicate, nuove forme di visiting scholarship per accademici provenienti dalla Rpc, sperimentazioni con l’open access radicale volto ad aggirare il censore cinese, e nuovi tentativi di radunarsi intorno alla questione cinese e a raccontare la propria competenza in maniera transdisciplinare, stanno acquisendo sempre maggiore visibilità e il riconoscimento dovuto all’importanza del tema trattato. 37 David Pierce, Cold War Anthropology: The CIA, the Pentagon, and the Growth of Dual Use Anthropology (Durham: Duke University Press, 2016). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 66 INDICE Bull in a China Shop Andrea E. Pia INDICE In Italia, sarebbe necessario riaprire un dibattito sull’adeguatezza di categorie concorsuali oggettivamente non più congrue all’ibridazione del sapere accademico a cui oggi assistiamo.38 Parimenti, sarebbe auspicabile un rinvigorimento dei dottorati di ricerca – principale sede di innovazione e riproduzione disciplinare nell’accademia anglosassone – proprio con il fine di riformulare quali debbano essere i confini fra studi d’area, studi sinologici e approcci socioscientifici, fornendo ai dottorandi i mezzi necessari per condurre ricerca empirica di lungo termine e permettendo loro di contaminare i propri approcci metodologici con tradizioni disciplinari diverse. Ma tocca anche alle discipline con importanti implicazioni per gli studi d’area coltivare una sensibilità e predisposizione per l’anomalia cinese. A dispetto della sua supposta eccezionalità o imponderabilità, il dato cinese contemporaneo si presta a letture teoreticamente molto generative. 38 Berardino Palumbo, Lo Strabismo della Dea: Antropologia, Accademia e Società in Italia (Palermo: Museo Pasqualino, 2018). OrizzonteCina | VOLUME 14 (2023) n. 1 67 Bull in a China Shop Bibliografia Benadusi, Mara et al. Tardo industrialismo: Energia, ambiente e nuovi immaginari di sviluppo in Sicilia. Milano: Meltemi, 2021. Bruckermann, Charlotte. “Care for the Family and the Environment in China’s Coal Country”. The China Quarterly 254 (2023): 1-15. Chakrabarty, Dipesh. Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2008. Chen, Kuan-Hsing. Asia as Method. Durham, NC: Duke University Press, 2010. Ci, Jiwei. Democracy in China: the Coming Crisis. Cambridge, MA: Harvard University Press, 2019. 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