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La possibile speranza. Oltre la tristezza del pensiero Lorenza Boninu 1. Introduzione In un breve e intenso saggio del 2005, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, George Steiner, prendendo spunto da un passo di Schelling, cerca di dare ragione della malinconia e insoddisfazione insopprimibili che si accompagnano comunque all’atto stesso del pensare: intendendo il pensiero come il tratto peculiare dell’uomo in quanto uomo (ovvero soggetto dotato di consapevolezza di sé e di uno sguardo rivolto al futuro e, al tempo stesso, conscio della propria finitezza), questa malinconia, questa insoddisfazione sarebbero inscindibili dalla condizione umana. Nell’ultimo capitolo, a proposito dell’impossibilità che le scienze, nonostante la loro avanzata trionfante, possano rispondere alla fondamentale domanda di senso che l’uomo da sempre si è posto, Steiner scrive: La verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante dall’ipotesi all’applicazione, costituiscono il prestigio e il crescente dominio che esercitano nella nostra cultura. Ma in un altro senso, ciò costituisce anche la loro sovrana trivialità. La scienza non può dare alcuna risposta alle questioni quintessenziali che ossessionano o che dovrebbero ossessionare lo spirito umano. Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza. La scienza può soltanto negarne la legittimità. Indagare sul nanosecondo che ha preceduto il Big Bang è – ci viene assicurato ex cathedra – un’assurdità. Tuttavia siamo creati in modo tale che indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura di Sant’Agostino che quella della teoria delle stringhe G. Steiner (2005), trad. it. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano, 2007, p. 84. È facile notare che queste affermazioni di Steiner si inseriscono in maniera non così originale in un solco critico ben tracciato dalla meditazione filosofica e dall’elaborazione artistico-letteraria già a partire dai primi decenni del secolo scorso, se non prima. La “cultura della crisi” e l’inquietudine che ne deriva sembrano essere davvero le eredità più significative che il Novecento ci ha trasmesso. È vero: il Novecento, il “secolo breve”, è stato caratterizzato da una singolare accelerazione dei mutamenti sociali e del progresso tecnico-scientifico, un’accelerazione che non si era mai verificata prima e che, attraverso la globalizzazione dei processi economici e la pervasività delle informazioni trasmesse in tempo reale da media sempre più sofisticati, fino all’iperconnessione planetaria di Internet, si è estesa oggi ben oltre i confini tradizionali dell’Occidente. Tuttavia i termini in cui, anche nella divulgazione non strettamente specialistica, si affronta criticamente questa evoluzione (o, secondo altri, involuzione) sono, da diversi decenni, sempre gli stessi: crisi di valori, nichilismo (l’“ospite inquietante” della modernità), alienazione, impossibilità da parte della scienza, nonostante i suoi trionfi, di rispondere alle domande fondamentali che l’uomo, o meglio, l’uomo occidentale, da sempre si pone, inautenticità della cultura di massa, dominio della tecnica e conseguente disumanizzazione, eclissi, forse definitiva, della millenaria tradizione occidentale, incapace di dar conto di trasformazioni “epocali” e irreversibili. Naturalmente il disagio provocato dal supposto esaurirsi delle “grandi narrazioni” e delle grandi utopie di liberazione conduce d’altra parte a risposte di stampo superficialmente reazionario, non di rado strumentalmente demagogiche: il richiamo identitario alle “radici”, la tentazione autoritaria, il rifiuto della diversità e la contrapposizione violenta all’altro. 2. L’epoca delle “passioni tristi” La nostra è stata definita l’epoca delle “passioni tristi” M. Benasayag, G. Schmit (2003), trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004. . I baby boomers di un tempo, ormai diventati adulti, se non addirittura anziani, sembrano nutrire il rimorso di aver sprecato l’occasione offerta dal lungo, inedito, periodo di benessere ed espansione seguito alla tragedia del secondo conflitto mondiale; i figli e i nipoti di quella generazione temono, e non senza ragione, che le loro prospettive siano ben più anguste rispetto a quelle di coloro che li hanno preceduti e che la promessa di una crescita indefinita del benessere non sia nient’altro che un inganno, un’illusione, un tradimento. E, d’altro canto, la situazione sembra davvero troppo confusa perché si intravedano vie d’uscita rapide: né la politica appare in grado di padroneggiare e governare i meccanismi sociali ed economici complessi e poco trasparenti che indirizzano il funzionamento – o, per meglio dire, le disfunzioni – della post modernità. Tuttavia ci chiediamo se questo disagio profondo e diffuso, la sensazione di vivere una crisi che minaccia di trasformarsi in catastrofe, la nostalgia per un passato più ordinato e sicuro, ma ormai irrecuperabile, nel quale il riferimento a valori certi mettesse al riparo dalla caduta nell’abisso, siano davvero una novità radicale e rappresentino realmente una frattura incolmabile, una svolta drammatica nel processo storico, dopo la quale non sia più possibile guardare indietro alla ricerca di soluzioni possibili e praticabili. Come abbiamo già accennato, nel corso del Novecento, un secolo certamente segnato da eventi tragici ma al tempo stesso caratterizzato dal riconoscimento dei diritti e dall’inclusione nella sfera pubblica, almeno in linea di principio, di gruppi e categorie prima esclusi (si pensi, ad esempio, alle donne), il tema della “crisi”, nelle sue differenti articolazioni, è stato affrontato innumerevoli volte, e non è il caso qui di riassumere, nemmeno per sommi capi, la sterminata letteratura in materia. Ma proprio questa considerazione ci spinge a chiederci se il nostro tempo non sia in realtà vittima di una singolare deformazione prospettica, in virtù della quale il senso comune, incoraggiato dalle semplificazioni mediatiche, interpreta il complesso momento che stiamo vivendo come la “crisi definitiva”, una sorta di tempesta perfetta per la quale non esiste riparo, dimenticando tutti gli altri momenti di crisi, più o meno radicale, che hanno caratterizzato la modernità sin dai suoi esordi più remoti. 3. Chiudere i conti con l’Illuminismo Almeno in apparenza la nostra è l’epoca del “post”: è il tempo della post ideologia, della post industrializzazione, della post democrazia, del post lavoro, del post mercato, del post Occidente. In una parola: del postmoderno. Si tratta di una retorica invadente che fatalmente ha tracimato dalle aule universitarie e dai saggi specialistici nella comunicazione di massa, nella propaganda politica, nelle banalizzazioni mediatiche. La vittima più illustre di questo gioco al massacro ideologico è stata proprio l’eredità dell’Illuminismo, in quanto matrice di quella modernità della quale viene appunto annunciato l’ineluttabile superamento, seguendo una parabola che da Nietzsche ed Heidegger giunge fino agli esiti del cosiddetto “pensiero debole”. Secondo questa linea, la ragione illuministica viene vista non come via verso l’emancipazione e l’autonomia del soggetto, in accordo con la definizione kantiana, ma, nella sua pretesa e fittizia “universalità”, come strumento di dominio e di asservimento dell’uomo e della natura alla tecnica. Nel momento in cui, secondo la nota (e abusata) massima di Nietzsche, si sposa fino alle estreme conseguenze la tesi che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, la “luce” della ragione non può che fatalmente offuscarsi, mentre la realtà letteralmente evapora in un caleidoscopio incoerente di rappresentazioni contrastanti. Se non esiste più nessun criterio razionale di discrimine fra vero e falso (perché discriminare significherebbe comunque compiere un arbitrio nascosto dal velo di Maya dell’ideologia), ma quello che conta è la capacità di persuasione, la “potenza di fuoco” retorica di cui i singoli racconti (interpretazioni) dispongono per imporsi, quello che resta sulla scena è unicamente la comunicazione: una comunicazione priva di contenuto, o meglio, cinicamente indifferente al contenuto. Una faccenda di copywriter, verrebbe da dire, e non più di filosofi, politici, economisti, intellettuali: in una parola, propaganda. E in questo momento la narrazione vincente è quella che, predicando e praticando il verbo neoliberista, nonostante la plateale smentita alle sue ricette offerta dalla crisi economica nella quale ci dibattiamo, liquida le alternative come obsolete, superate, relitti di un’epoca ormai tramontata e irrecuperabile. Il punto è che prima o poi lo iato fra i fatti e il loro travestimento illusorio nella retorica dell’interpretazione si fa sentire in tutta la sua pesante, irrimediabile concretezza: e la realtà si prende la sua rivincita. È una rivincita amara, che capovolge il sogno di una radicale emancipazione da ogni dogmatismo, fosse pure il dogmatismo della stessa ragione, nell’incubo di nuove, e al tempo stesso antichissime, forme di oppressione e miseria, come se il postmoderno si rovesciasse, alla fine, nella premodernità, spazzando via diritti che, almeno in Occidente, sembravano ormai indiscutibili: il diritto al lavoro, il diritto ad una vita dignitosa, il diritto all’equità sociale, il diritto all’istruzione, il diritto alla salute, il diritto di ciascuno alla propria autodeterminazione, il diritto di assumersi, in autonomia, la responsabilità delle proprie scelte e della propria realizzazione. 4. Paradossi educativi: dalla formazione del cittadino all’addestramento del precario In realtà la discussione teorica attorno alla supposta fine della modernità è stata, ed è tuttora, complessa, già a partire dalla pubblicazione dell’ormai classico saggio di Lyotard, La condizione postmoderna J.-F. Lyotard (1979), trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981.. Tuttavia ci interessa notare che, a dispetto di questa difficoltà, e nonostante la varietà delle posizioni espresse nel dibattito filosofico contemporaneo, non così pacificamente disposto ad accettare la liquidazione in toto della modernità, l’immaginario collettivo sembra essere stato colonizzato da una lettura superficiale della fenomenologia postmoderna. Gli esiti sono paradossali. Per una sorta di singolare eterogenesi dei fini, contro la stessa intenzione di coloro che le avevano teorizzate in origine, la decostruzione della nozione di progresso e la demistificazione dell’istanza emancipatrice propria della ragione illuministica, hanno finito da un lato per giustificare pratiche di oppressione, rigurgiti di irrazionalismo, populismi mediatici di facile presa, conformismo e passività delle coscienze; dall’altro, la rinuncia alla ricerca responsabile della verità, sostituita dal gioco di specchi delle molteplici e interscambiabili interpretazioni, ha determinato per reazione il successo “popolare” di uno scientismo deteriore che si è imposto al senso comune come argine all’insicurezza crescente e, nel suo riduzionismo, come l’unica forma di sapere indiscutibile ed esente dal rischio della critica. Un esempio pregnante di questo tipo di paradosso è l’incertezza, pratica e teorica, che affligge la scelte in materia di istruzione: non solo in Italia, dove la situazione della scuola e dell’Università è particolarmente delicata a motivo di disfunzioni antiche e del tutto peculiari, ma anche in quei Paesi dove pure il raggiungimento di alti traguardi formativi sembra assicurato e universalmente riconosciuto. La valutazione e il controllo degli esiti del processo educativo sono affidati, in modo sempre più pervasivo, a tecniche di tipo quantitativo e statistico (soprattutto attraverso la somministrazione di test standardizzati), che mirano a misurare e confrontare in maniera che si pretende oggettiva (i numeri non sbagliano) la performance sia dei singoli studenti, sia dei sistemi formativi. La necessità di matematizzare i risultati dell’educazione perché risultino leggibili in questa chiave ha condotto in pratica alla disarticolazione del sapere (e della sua complessità) trasmesso dalla scuola in tre aspetti distinti, separatamente misurabili e valutabili, ovvero in conoscenze, competenze, abilità, per le quali si propongono e impongono ai docenti strumenti “scientifici” di definizione, osservazione e certificazione ufficiali. Su questa base vengono determinate le politiche educative nazionali e transnazionali e la visione complessiva della mission dell’istruzione. Tutto questo, di necessità, comporta progressivamente la tecnicizzazione e la burocratizzazione dell’insegnamento, trasformando di fatto il rapporto educativo in una pratica sempre più test oriented, con tutte le controindicazioni del caso. Ma non solo. Emerge un’idea meramente strumentale di quello che per gli studenti è necessario sapere, ma soprattutto saper fare, allo scopo di essere inseriti produttivamente come ingranaggi efficaci nella macchina sociale. In definitiva non contano i contenuti della conoscenza, che diventano in questo modo via via sempre più indifferenti, non interpretabili secondo una gerarchia di valore socialmente condivisa, ma gli strumenti cognitivi più efficaci (determinati con precisione e statisticamente misurabili attraverso la pratica diffusa dei test valutativi) per adattarsi flessibilmente ad un contesto economico e produttivo globale caratterizzato da mutamenti rapidi e imprevedibili. A questo punto il cerchio si chiude. Dai saperi trasmessi a scuola vengono espunti gli aspetti (critici, interpretativi, metodologici) che non si prestano a questa sorta di riduzionismo valutativo. Fatto questo, qualsiasi contenuto può andar bene (in accordo con l’idea postmoderna della intercambiabilità e sostanziale equivalenza della varie narrazioni), purché sia presentato secondo una logica semplificata che si adatti a quello che le prove richiedono, e purché i risultati siano proposti all’opinione pubblica come frutto di misurazione oggettiva, indiscutibile, scientificamente motivata: tralasciando opportunamente l’ovvia considerazione che i presupposti dell’intera operazione sono, di fatto, ideologici e, per questo stesso motivo, confutabili. All’ideale illuministico di una conoscenza selezionata, criticamente appresa e soggetta alla discussione e interpretazione secondo regole rigorose, si sostituisce un addestramento funzionale alle esigenze della società tardocapitalistica: non si vogliono più formare cittadini capaci di critica, in grado di esercitare consapevolmente i propri diritti, ma lavoratori precari votati al consumo. 5. "Crisi" come opportunità di cambiamento Torniamo dunque al nostro punto di partenza, ovvero l’immagine catastrofica della crisi odierna. Si avverte sempre più nettamente il bisogno di interpretare la nozione di “crisi”, conformemente alla sua etimologia, non necessariamente in senso negativo, ma come un possibile momento dinamico, capace di innescare un’evoluzione positiva: un’opportunità, piuttosto che una catastrofe. Paul Hazard ne La Crisi della Coscienza Europea definisce significativamente l’Europa “un pensiero che mai si accontenta” P. Hazard, La crise de la conscience européenne, Fayard, Paris, 1961, p. 431.. In questo senso la “crisi” sarebbe un tratto caratteristico della cultura europea, geneticamente incline, sin dalle sue origini greche, alla critica (termine che, non a caso, condivide con la parola “crisi” la medesima filiazione dal greco), alla revisione e discussione di dogmi e valori. Ma se questa disposizione alla critica è stata enfatizzata dall’età moderna, va detto che anche la stessa definizione di modernità andrebbe maneggiata con una certa cautela (e di conseguenza la medesima cautela dovrebbe essere adoperata anche nella definizione di un suo supposto superamento o, addirittura, involuzione). Jacques Le Goff, discutendo l’accezione comunemente attribuita al termine “modernità”, dopo aver insistito sui fenomeni di lunga durata che ancora pesano sul destino dell’Europa, a questo proposito scrive: E allora non è forse la nozione di modernità del XVI secolo, che può essere messa in discussione nel suo insieme? Abbiamo visto prima come nel IX, nel XII e nel XV secolo, il Medioevo sia stato attraversato da fasi di sviluppo e da rinascenze che, pur se si presentavano come un ritorno all’antichità pagana o cristiana, erano fiammate di modernità [...] L’alternarsi relativamente rapido di crisi e di rinnovamento è forse una caratteristica dell’Europa che la tiene a contatto con una modernità sempre rinascente? J. Le Goff, L'Europa medievale e il mondo moderno, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 39 e 45. Se ammettiamo che questa domanda sia legittima, e noi pensiamo che lo sia, dovremmo chiederci se sia produttivo liquidare troppo rapidamente una tradizione secolare e complessa che, pur in presenza di lati oscuri e tragici, ha avuto in sé anche una straordinaria spinta all’emancipazione e al progresso non solo dell’Occidente ma dell’umanità intera. Dovremmo anche chiederci se, rispetto ai tempi difficili che stiamo vivendo e alle sfide che l’attuale situazione ci impone, non sia possibile trovare una qualche forma di redenzione nel recupero di un rapporto vitale con la memoria storica, che ci restituisca il senso, inteso come significato ma anche come direzione, della nostra esperienza. E, infine, dovremmo riflettere su quali siano gli strumenti perché, per quanto difficile sembri, questo compito possa essere condotto a termine: ci sembra che un ruolo fondamentale sia rivestito dall’educazione, purché sia sottratta all’attuale deriva tecnicista e restituita alla sua funzione di ponte fra le generazioni, di ideale collegamento fra passato, presente e futuro. La “tristezza del pensiero” di cui parla Steiner non può essere cancellata, perché strettamente collegata all’inquietudine connaturata all’idea stessa di modernità: anzi, a ben vedere ne costituisce l’impulso più profondo. Ma accanto a questa tristezza è necessario tornare ad alimentare, con un nuovo slancio, il “principio speranza”: una speranza che, conformemente alla lezione di Bloch, non sia semplicemente un abbandonarsi irriflesso a pulsioni irrazionalistiche e misticheggianti, ma, innervandosi in un progetto razionale di costruzione del futuro (basato sull'analisi motivata delle potenzialità comunque insite nelle contraddizioni del presente), ne costituisca la spinta e la motivazione più efficaci. Bibliografia Z. Bauman (in collaborazione con R. Mazzeo), Conversazioni sull'educazione, Erickson, Trento, 2012. M. Benasayag, G. Schmit (2003), trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004. E. Bloch (1959), Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012. P. Hazard, La crise de la conscience européenne, Fayard, Paris, 1961. M. Horkheimer , T.W. Adorno (1947), Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 2010. I. Kant, M. Foucault (1784, 1984), Che cos’è l’Illuminismo, Mimesis, Milano-Udine, 2012. J. Le Goff, L’Europa medievale e il mondo moderno, Laterza, Roma-Bari, 1994. J.-F. Lyotard (1979), trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981. G. E. Rusconi, Cosa resta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2012. G. Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano, 2007. T. Todorov (2006), trad. it. Lo spirito dell'Illuminismo, Garzanti, Milano, 2007.