Giulia Martini, Università di Firenze, Patrizia Valduga e il teatro. Lo «stil comico» di una «Don... more Giulia Martini, Università di Firenze, Patrizia Valduga e il teatro. Lo «stil comico» di una «Donna di dolori».
Che lingua parla una «Donna di dolori»? O forse sarebbe più esatto chiedersi: in che lingua è parlata? Se a rispondere è Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953), il responso sembra addirittura paradossale: si tratterà di una comicità cattiva, quasi spietata, che passa attraverso l’identificazione del poeta in mollusco («una lumaca che si squaglia…io?»), indecenti modi di dire («eccomi qua di nuovo nella merda»), il trattamento auto caricaturale («Patrizia, / era il tuo itinerario di mestizia / andare a sbronzarti tutte le sere?»), il gioco etimologico («vedendomi vecchia, peggio, invecchiante»), correzioni in fieri («…quod prius! non pria… / Il mio latino che se ne va via») e un insistito abbassamento lessicale, portato avanti con ironica nonchalance: trippa e filetto, vermi e foruncoli, carriole e cani, aringhe e tangheri hanno in questa poesia carta di cittadinanza. Ma la questione si arricchisce, se ad attivare queste componenti è la finzione teatrale: il dolore prende infatti la forma del monologo in versi, come dichiarato fin dall’incipit, che simula il tono di una didascalia: «Monologo. La donna è una morta sotterrata allo stato colliquativo […]». Impossibile non pensare a un grande antecedente come Il dolore di Ungaretti (Milano, Mondadori, 1947), protratto in una lenta trenodia per le diciassette stanze di Giorno per giorno: come se parlare del proprio dolore fosse possibile soltanto deformandolo, mettendolo in scena.
Giulia Martini, Università di Firenze, Patrizia Valduga e il teatro. Lo «stil comico» di una «Don... more Giulia Martini, Università di Firenze, Patrizia Valduga e il teatro. Lo «stil comico» di una «Donna di dolori».
Che lingua parla una «Donna di dolori»? O forse sarebbe più esatto chiedersi: in che lingua è parlata? Se a rispondere è Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953), il responso sembra addirittura paradossale: si tratterà di una comicità cattiva, quasi spietata, che passa attraverso l’identificazione del poeta in mollusco («una lumaca che si squaglia…io?»), indecenti modi di dire («eccomi qua di nuovo nella merda»), il trattamento auto caricaturale («Patrizia, / era il tuo itinerario di mestizia / andare a sbronzarti tutte le sere?»), il gioco etimologico («vedendomi vecchia, peggio, invecchiante»), correzioni in fieri («…quod prius! non pria… / Il mio latino che se ne va via») e un insistito abbassamento lessicale, portato avanti con ironica nonchalance: trippa e filetto, vermi e foruncoli, carriole e cani, aringhe e tangheri hanno in questa poesia carta di cittadinanza. Ma la questione si arricchisce, se ad attivare queste componenti è la finzione teatrale: il dolore prende infatti la forma del monologo in versi, come dichiarato fin dall’incipit, che simula il tono di una didascalia: «Monologo. La donna è una morta sotterrata allo stato colliquativo […]». Impossibile non pensare a un grande antecedente come Il dolore di Ungaretti (Milano, Mondadori, 1947), protratto in una lenta trenodia per le diciassette stanze di Giorno per giorno: come se parlare del proprio dolore fosse possibile soltanto deformandolo, mettendolo in scena.
Uploads
Conference Presentations
Che lingua parla una «Donna di dolori»? O forse sarebbe più esatto chiedersi: in che lingua è parlata? Se a rispondere è Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953), il responso sembra addirittura paradossale: si tratterà di una comicità cattiva, quasi spietata, che passa attraverso l’identificazione del poeta in mollusco («una lumaca che si squaglia…io?»), indecenti modi di dire («eccomi qua di nuovo nella merda»), il trattamento auto caricaturale («Patrizia, / era il tuo itinerario di mestizia / andare a sbronzarti tutte le sere?»), il gioco etimologico («vedendomi vecchia, peggio, invecchiante»), correzioni in fieri («…quod prius! non pria… / Il mio latino che se ne va via») e un insistito abbassamento lessicale, portato avanti con ironica nonchalance: trippa e filetto, vermi e foruncoli, carriole e cani, aringhe e tangheri hanno in questa poesia carta di cittadinanza.
Ma la questione si arricchisce, se ad attivare queste componenti è la finzione teatrale: il dolore prende infatti la forma del monologo in versi, come dichiarato fin dall’incipit, che simula il tono di una didascalia: «Monologo. La donna è una morta sotterrata allo stato colliquativo […]». Impossibile non pensare a un grande antecedente come Il dolore di Ungaretti (Milano, Mondadori, 1947), protratto in una lenta trenodia per le diciassette stanze di Giorno per giorno: come se parlare del proprio dolore fosse possibile soltanto deformandolo, mettendolo in scena.
Che lingua parla una «Donna di dolori»? O forse sarebbe più esatto chiedersi: in che lingua è parlata? Se a rispondere è Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953), il responso sembra addirittura paradossale: si tratterà di una comicità cattiva, quasi spietata, che passa attraverso l’identificazione del poeta in mollusco («una lumaca che si squaglia…io?»), indecenti modi di dire («eccomi qua di nuovo nella merda»), il trattamento auto caricaturale («Patrizia, / era il tuo itinerario di mestizia / andare a sbronzarti tutte le sere?»), il gioco etimologico («vedendomi vecchia, peggio, invecchiante»), correzioni in fieri («…quod prius! non pria… / Il mio latino che se ne va via») e un insistito abbassamento lessicale, portato avanti con ironica nonchalance: trippa e filetto, vermi e foruncoli, carriole e cani, aringhe e tangheri hanno in questa poesia carta di cittadinanza.
Ma la questione si arricchisce, se ad attivare queste componenti è la finzione teatrale: il dolore prende infatti la forma del monologo in versi, come dichiarato fin dall’incipit, che simula il tono di una didascalia: «Monologo. La donna è una morta sotterrata allo stato colliquativo […]». Impossibile non pensare a un grande antecedente come Il dolore di Ungaretti (Milano, Mondadori, 1947), protratto in una lenta trenodia per le diciassette stanze di Giorno per giorno: come se parlare del proprio dolore fosse possibile soltanto deformandolo, mettendolo in scena.