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Pronuncia del latino

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Pronuncia del latino
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Grammatica latina
Lezione precedente Materia Lezione successiva
Alfabeto latino Grammatica latina Casi e desinenze del latino
Lapis Niger: uno dei più antichi esempi di scrittura in lingua latina.
Scrittura corsiva dell'epoca di Claudio (41-54 d.C.):
vobis · vidétur · p · c · décernám[us · ut · etiam]
prólátis · rebus iis · iúdicibus · n[ecessitas · iudicandi]
imponátur qui · intrá rerum [· agendárum · dies]
incoháta · iudicia · non · per[egerint · nec]
defuturas · ignoro · fraudes · m[onstrósa · agentibus]
multas · adversus · quas · exc[ogitáuimus]...

Un alfabeto per il latino fu adottato fin dall'VIII secolo a.C., cioè fin dagli albori della storia di Roma. Come generalmente accade, quando un popolo inventa un alfabeto o ne adatta uno "straniero" alle esigenze della propria lingua, c'è un'alta corrispondenza tra grafemi e fonemi, cioè ad ogni lettera corrisponde (esclusi eventuali allofoni) un solo suono.
Questo con tutta probabilità avvenne anche con il latino. L'evoluzione di una lingua, tuttavia, porta il parlato a divergere dallo scritto (si pensi per esempio all'inglese, al gaelico o al francese). Il latino non fu esente dall'evolversi e lo testimoniano alcuni fenomeni fonetici avvenuti nel corso del tempo, in particolare il rotacismo. In generale, queste modifiche nel parlato furono introdotte nello scritto (talvolta, come nel caso del rotacismo, con delle apposite leggi), almeno fino all'epoca classica.

Il modo di pronunciare il latino così come è a noi giunto mostra diverse divergenze dalla relazione "ad ogni grafema un fonema"; questo ha spinto i filologi ad indagare su quale potesse essere l'effettiva pronuncia originaria del latino. Peraltro, la pronuncia del latino che ci è stata trasmessa presenta un quadro di fenomeni fonetici che possono benissimo far risalire ad una prima pronuncia di questa lingua (per esempio la palatalizzazione delle velari che le ha portate a mutarsi in affricate, oppure l'assibilazione di /tj/ seguito da vocale in /tsj/).

Scrittura

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Alfabeto

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Un esempio di scrittura tarda: il carattere onciale, risalente al III secolo, qui usato nel Codex Bezae, datato da alcuni al IV, da altri al V-VI secolo.

L'alfabeto del latino è il seguente (tra parentesi le lettere non usate in epoca classica): A B C D E F G H I (J) K L M N O P Q R S T (U) V X Y Z

  • L'alfabeto originario non comprendeva lettere minuscole, che furono introdotte all'epoca di Carlo Magno.
  • La lettera V, che aveva doppio valore, vocalico e semiconsonantico (/u/, come in puro, e /w/, come in tuono), ebbe come minuscola u; in seguito, si scelse di sdoppiare V, u in V, v dal valore semiconsonantico o consonantico e U, u dal valore vocalico.
  • La lettera J fu introdotta durante il Medioevo per indicare il valore semiconsonantico di I (/j/, come in aiuto); ebbe meno fortuna dello sdoppiamento di v e u, tant'è vero che ad oggi nelle edizioni di testi letterari latini arcaici, classici o tardi (non medievali) non è quasi mai usata la lettera j, sostituendola con la i, mentre la u consonantica è segnata con v.

Formazione ed evoluzione dell'alfabeto latino

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L'alfabeto latino deriva da un alfabeto greco occidentale (l'alfabeto greco non era uguale in tutto il territorio ellenico, ma si differenziava da regione a regione, soprattutto per quanto riguarda lettere assenti negli alfabeti più arcaici), probabilmente tramite la mediazione dall'etrusco, o forse direttamente da quello di Cuma, colonia greca nei pressi di Napoli[1].

Ad ogni modo, l'alfabeto arcaico era lievemente diverso da quello classico, anche per la pronuncia di alcune lettere. Tra le consonanti, le velari presentano una situazione molto interessante.

  • C era posta generalmente davanti a E e I, K davanti ad A, ad O e alle consonanti, e Q davanti a V[1]. Tutt'e tre rappresentavano lo stesso identico fonema, /k/, tant'è vero che con il tempo confluirono nella sola C. La K rimase in qualche sporadica parola (per esempio, in Kalendae, che si trova anche scritto Calendae), mentre la Q fu utilizzata solo davanti alle V che avessero valore semiconsonantico (/w/, come in questus), mentre dinnanzi a quelle vocaliche si pose C (ad esempio cura).
  • Pare inoltre certo che C avesse valore sia sordo sia sonoro (/k/, come in casa, e /g/, come in gas)[1]; solo più tardi al valore sonoro venne data una lettera apposita, G. Rimane traccia di ciò in alcune abbreviazioni di nome, come C. per Gaius o CN. per Gnaeus.

Per quanto riguarda le sibilanti, furono investite dal fenomeno del rotacismo.

  • Originariamente, l'unica sibilante del latino era /s/ (sorda, come in sarto), resa con la lettera S. Le s intervocaliche, tuttavia, subirono in latino un mutamento (il rotacismo) che le portò man mano ad assumere il fonema /r/. La fase intermedia tra /s/ e /r/ del rotacismo fu /z/ (la s sonora di esame); abbiamo perciò il mutamento /s/ > /z/ > /r/[2].
  • Prima della completazione del rotacismo, quando queste S intervocaliche suonavano /z/, cominciarono ad essere scritte Z. Questa lettera occupava il posto dell'attuale G, fra la F e la H[2] (cioè la stessa posizione occupata dalla zeta nell'alfabeto greco arcaico, tra il digamma Ϝ e la eta Η).
  • Con il compimento del rotacismo (verso la fine del IV secolo a.C.), il fonema /z/ scomparve totalmente in favore di /r/, che aveva già un suo corrispondente grafema nell'alfabeto, e cioè R. La lettera Z divenne quindi inutile e fu eliminata; il suo posto nella serie alfabetica verrà occupato dalla G, indicante la velare occlusiva sonora /g/.

Per la trascrizione di parole greche (vedi anche più avanti) furono introdotte due lettere che rappresentavano fonemi sconosciuti al latino e che andarono ad occupare la fine della serie alfabetica (da notare il ritorno del simbolo Z, scomparso dopo il rotacismo, seppur come affricata e non più come fricativa).

  • Y corrispose alla lettera ypsilon, rappresentante il fonema /y/}} (la u francese di bureau).
  • Z rappresentò la consonante doppia zeta (/dz/, come l'italiano zona).
Capitale quadrata lapidaria presente sull'Arco di Tito (circa 81 d.c.), un esempio di maiuscola romana i cui caratteri erano originariamente in bronzo: si notano infatti i fori per inserire le lettere metalliche.

Il modo di scrivere

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I Romani, come d'altronde anche i Greci, utilizzavano la scriptio continua, cioè non separavano le parole le une dalle altre, se non, a volte, con un puntino medio (ad esempio, NOMENOMEN o NOMEN∙OMEN). Il senso di scrittura, come ben attestato dai reperti archeologici (il Lapis niger, ad esempio), procedette nei primi tempi in senso bustrofedico, per poi stabilizzarsi nel senso sinistra-destra proprio di tutte le lingue europee odierne.

Notevoli esempi di scrittura, anche parietale, sono stati rinvenuti a w:Pompei e ad Ercolano.

L'influenza del greco

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Dal momento in cui l'antica Roma cominciò ad assorbire aspetti della cultura greca (dal teatro alla poesia alla filosofia), si sentì la necessità di introdurre quei nuovi termini desunti dalla lingua greca che non avessero corrispondenti esatti in quella latina (i cosiddetti grecismi).

L'opera di translitterazione risultò tutto sommato abbastanza semplice; come già accennato, gli unici fonemi greci che non si ritrovavano in latino erano la zeta e la ypsilon, i cui grafemi furono direttamente trasportati in latino, e le aspirate (phi, theta e chi), che invece furono rese con la lettera muta corrispondente seguita da h (rispettivamente ph, th e ch). Anche l'aspirazione ad inizio parola (che in greco non fu segnalata che in epoca tarda con lo "spirito aspro") venne resa con h.

L'alfabeto greco veniva quindi traslitterato: Α > A; Β > B; Γ > G; Δ > D; Ε > E (breve); Ζ > Z; Η > E (lunga); Θ > TH; Ι > I; Κ > C o K; Λ > L; Μ > M; Ν > N; Ξ > X; Ο > O (breve); Π > P; Ρ > R o RH; Σ > S; Τ > T; Υ > Y (o anche, di rado U); Φ > PH; Χ > CH; Ψ > PS; Ω > O (lunga).

La lettera gamma (Γ) veniva tuttavia traslitterata in N davanti ad altra consonante velare (Γ, Κ, Χ, Ξ) in quanto prendeva in questa posizione suono nasale (come in vanga); ad esempio, ἄγγελος divenne angelus.

Per quanto riguarda i dittonghi, non tutti vennero traslitterati vocale per vocale; a causa dei mutamenti che già in epoca ellenista erano avvenuti nella fonetica greca, alcuni dittonghi venivano già pronunciati diversamente da come erano scritti. In particolare, αι venne reso come ae (αἰθήρ passò a aether), οι come oe (il prefisso οἰκο- divenne oeco-), ει come ī (Ἡρακλείτος fu reso Heraclitos) e ου come ū (Οὔρανος divenne Uranos). I dittonghi impropri (quelli formati da vocale lunga più la iota, che nelle moderne edizioni vengono resi con uno "iota sottoscritto" sotto la vocale) vennero trascritti con la sola vocale lunga, trascurando la i (Ἅιδης divenne Hades), tranne che in alcune voci entrate molto presto nel lessico (come ad esempio κωμδία, che fu resa, tenendo conto dello iota, in comoedia).

Pronuncia

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Non è chiaro come i Romani pronunciassero la loro lingua. Nel corso dei secoli, anche il latino ha subito delle modificazioni e la pronuncia di esso che ci è pervenuta è quella che è stata usata dall'Alto Medioevo in poi dalla Chiesa e, fino alla nascita delle varie lingue nazionali, anche come lingua ufficiale dei documenti scritti, oltre che della cultura in generale. Questa particolare pronuncia, chiamata pronuncia ecclesiastica proprio perché stabilizzata dalla Chiesa, non è però quella originaria della lingua latina.

Vari filologi si sono cimentati nella ricostruzione della pronuncia latina autentica, un po' come avvenne per quella del greco antico; in particolare va ricordato il lavoro dell'umanista Erasmo da Rotterdam nel saggio De recta Latini Graecique sermonis pronuntiatione. La pronuncia ricostruita (nota come restituta o classica) esiste in varie versioni; la più semplice, che espone i principi fondamentali della probabile fonologia della lingua latina classica, viene indicata in questo articolo come pronuncia classica; la versione più elaborata verrà invece chiamata pronuncia scientifica.

La pronuncia ricostruita è quella insegnata nella maggior parte delle scuole europee, mentre in Italia viene generalmente utilizzata quella ecclesiastica, che ha una più lunga tradizione e tende ad avvicinarsi alla pronuncia stessa dell'italiano.

Aspetti comuni

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Le quantità vocaliche e sillabiche

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Le cinque vocali latine (a, e, i, o, u, più la y greca) possono essere sia lunghe, soprassegnate con ˉ (ā /a:/, ē /e:/-/ε:/, ī /i:/, ō /o:/-/ɔ:/, ū /u:/, ȳ /y:/), sia brevi, soprassegnate con ˘ (ă /a/; ĕ /e/-/ε/; ĭ /i/; ŏ /o/-/ɔ/; ŭ /u/; y̆ /y/). Se una vocale può essere sia lunga sia breve, si dice ancipite o bifronte. I dittonghi discendenti (vocale+semivocale, come au, ae e oe) sono sempre lunghi; se due vocali accostate che normalmente sono dittongo non lo formano, si pone sulla seconda vocale la dieresi (se ae e oe sono dittonghi, non lo sono e che sono generalmente derivati dal greco) e ciascuna delle due vocali avrà una propria quantità.

Le sillabe si dicono aperte se terminano per vocale o dittongo, chiuse se terminano per consonante.

Una sillaba è breve se contiene una vocale breve ed è aperta. Se è una sillaba chiusa, o se contiene una vocale lunga o un dittongo, allora è una sillaba lunga.

L'accento

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Non è chiaro se il latino possedesse un accento di tipo musicale (come nel greco antico e probabilmente nel Protoindoeuropeo) o di tipo tonico-dinamico (come nelle moderne lingue neolatine). Le lingue italiche, di cui fa parte il latino, avevano un accento intensivo fisso sulla prima sillaba. Si ritiene che il latino avesse sviluppato indipendentemente un accento musicale a tono unico (di elevazione della voce), che durante l'evoluzione della lingua si mutò in accento tonico.

L'accento latino, quale che sia la sua natura, segue tre regole fondamentali:

  • legge della baritonesi: l'accento di parole plurisillabiche non cade mai sull'ultima sillaba; vi è però qualche eccezione, costituita da parole troncate: parole con l'enclitica -ce troncata in -c (illìc, illùc, illàc, istìc, istùc, istàc) o con l'enclitica -ne troncata in -n (tantòn); due nominativi della terza declinazione, Arpinàs e Samnìs (che formano gli altri casi dai temi Arpināt- e Samnīt-); alcuni perfetti contratti, come fumàt e audìt (da fumā (vi) t e audī (vi) t)[3];
  • legge della terzultima: l'accento non cade mai oltre la terzultima sillaba;
  • legge della penultima: in parole con almeno tre sillabe, se la penultima sillaba è lunga avrà l'accento; se essa è breve, l'accento cadrà sulla terzultima.

In pratica, quindi, per le parole con meno di tre sillabe il problema non si pone. In quelle di più di due sillabe, invece, l'accento può cadere solo sulla terzultima e penultima sillaba e la quantità di quest'ultima è il discrimine tra le due opzioni. Ad esempio, roris si accenterà senza dubbio ròris; recrĕo, la cui penultima sillaba è la e breve, si leggerà rècreo; pensitātor, la cui penultima sillaba contiene una vocale lunga, si leggerà pensitàtor; superfundo ha la penultima sillaba chiusa, quindi lunga, e sarà letto superfùndo.

Bisogna tuttavia tenere presente che alcune enclitiche (-que, -ve, -ne, -dum, -pte, -ce, -dum) attirano l'accento sulla sillaba che le precede, sia essa breve o lunga. Ad esempio, marĕque si leggerà maréque, anche se la penultima sillaba è breve[3].

La pronuncia classica

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La pronuncia classica si basa sul principio generale di far corrispondere a ciascun grafema un solo fonema, cioè di far corrispondere ad ogni lettera un particolare suono. Questo è vero eccezion fatta per gli allofoni della n, per la doppia natura (aperta o chiusa) della e e della o e per i doppi valori (vocalici e consonantici) della i e della u.

A: /a/; è la semplice a. Esempi: alea /'alea/; malum /'ma:lum/.
B: /b/; è la semplice b. Esempi: bonum /'bonum/; ab /ab/.
C: /k/; è la c dura italiana, come in cane[4]; esempi: cervus /'kerwus/; vici /'wiki/; canis /'kanis/.
D: /d/; è la semplice d. Esempi: dulcis /'dulkis/; subduco /sub'duko/.
E: /e/, /ε/; è la semplice e, aperta o chiusa. Esempi: ver /'wεr/; elephas /'eleɸas/.
F: /f/; è la semplice f. Esempi: fas /'fas/; aufero /'awfero/.
G: /g/; è la g dura italiana, come in gatto[4]. Esempi: gerere /'gεrere/; gaudeo /'gawdeo/.
H: /h/: è una leggera aspirazione; se intervocalica, tuttavia, l'aspirazione molto probabilmente scompariva[4]. Esempi: hirundo /hi'rundo/; mihi /'mihi/ o /'mi:/;
I: /i/, /j/; se ad inizio parola seguita da vocale, o se intervocalica, si legge come semiconsonante /j/ (come in jena), altrimenti come i vocalica normale. Esempi: Iulius /'julius/; ratio /'ratio/; video /'wideo/; iniuria /in'juria/.
K: /k/; è letta come la C.
L: /l/; è la semplice l. Esempi: lateo /'lateo/; alius /'alius/.
M: /m/; è la semplice m. Esempi: mater /'ma:ter/; immo /'im:o/.
N: /n/, /ɱ/, /ŋ/; se davanti a vocale o consonante dentale (t; d; s; z; l; r) è la /n/ normale di nano (esempi: nugae /'nugae/; intereo /in'tereo/); se davanti a consonante labiodentale (f) diviene la corrispettiva nasale labiodentale (/ɱ/, come in infinito; esempi: infinitas /iɱ'finitas/); se davanti a consonante velare (c, k, g) diviene la corrispettiva nasale velare (/ŋ/, come in vinco; esempi: angustus /aŋ'gustus/).
O: /o/, /ɔ/; è la semplice o, aperta o chiusa. Esempi: os /ɔ:s/; volo /'wɔlo/; cano /kano/.
P: /p/; è la semplice p. Esempi: pars /'pars/; Appius /ap:ius/.
Q: /k (w)/; come in italiano, è pronunciata come labiovelare, come in quadro. Esempi: quis /'kwis/; aqua /'akwa/.
R: /r/; è la semplice r. Esempi: rus /rus/; pario /pario/.
S: /s/; è la s sorda, come in sole. Esempi: sal /'sal/; rosa /'rɔsa/.
T: /t/; è la semplice t. Esempi: taurus /'tawrus/; catus /'katus/.
V: /u/, /w/; si pronuncia come u semiconsonantica (/w/, come in uovo) dopo la q, se intervocalico, se ad inizio parola e seguito da vocale e come semiconsonante nei dittonghi au ed eu; si legge come vocale (/u/) negli altri casi[4]. Esempi: qui /'kwi/; uva /'uwa/; verum /'werum/; aurum /awrum/; cave /'cawe/; urbs /'urbs/; metuenda /metu'enda/.
X: /ks/; è la doppia consonante x, come in xilofono. Esempi: dux /'duks/.
Y: /y/; è la u francese o lombarda, come nel francese lune, o come la ü tedesca[4]. Esempi: hypnosis /hyp'nosis/.
Z: /dz/; è la z sonora di zaino. Esempi: orizon /o'ridzon/.

Inoltre:

PH: /pʰ/; è una /p/ seguita da aspirazione; come in greco, è possibile sia passato poi alla fricativa bilabiale /ɸ/ (una specie di p "soffiata") e poi, in seguito, alla più semplice /f/. Esempi: philosophia /pʰilo'sopʰia/ o /ɸilo'soɸia/; Sappho /'sappʰo/ o /'saɸ:o/.
TH: /tʰ/; è una /t/ seguita da aspirazione; è possibile che venisse letta, come anche nel greco ellenistico, come /θ/ (come nell'inglese thing. Esempi: thesaurus /tʰe'sawrus/ o /θe'sawrus/.
CH: /kʰ/; è una /k/ seguita da aspirazione; è possibile venisse letta, come nel greco ellenistico, come /x/(come nel tedesco ich). Esempi: Chaos /'kʰaos/ o /'xaos/.

Per quanto riguarda i dittonghi, va ricordato che i digrafemi formati da vocale+i (ei, ui) non sono dittonghi nel latino classico; ad esempio rei si pronuncerà /'rεi/ e non /'rεj/; portui sarà /'pɔrtui/, e non /'pɔrtuj/, né /pɔrtwi/); dei dittonghi di questo genere derivati dal greco, gli originali αι /aj/, ει /ej/ e oι /oj/ passano rispettivamente a ae /ae/, i /i:/, oe /oe/, mentre uι passa a yi /yj/, che quindi è dittongo.
Dei digrafemi vocale+u, invece, au è sempre dittongo (/aw/), mentre eu, quasi sempre derivato dal greco, è dittongo solo se lo era anche in greco (come in euphonia /ewɸo'nia/); se invece eu deriva dall'unione tra radice greca e desinenza nominale latina (come in Perseus, radice perse- più desinenza -us) non è dittongo (/'perseus/ e non /'persews/).
Anche ae ed oe (salvo i casi particolari con dieresi, come aër e poëta) sono dittonghi e si pronunciano normalmente /ae/ e /oe/.

La pronuncia ecclesiastica o scolastica

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Essendo la pronuncia ecclesiastica derivata dal latino volgare parlato dal popolo, essa risulta essere più variegata e, nel complesso, meno semplice di quella classica. In linea generale, possiamo dire che la pronuncia ecclesiastica adotta le medesime convenzioni dell'italiano.

A: /a/; è la semplice a. Esempi: aqua /'akwa/.
B: /b/; è la semplice b. Esempi: bibo /'bibo/.
C: /k/, /tʃ/; se davanti a a, o, u è pronunciata /k/, come la c dura di casa; se davanti a i, e, ae e oe è pronunciata /tʃ/, come la c dolce di cena. Esempi: cervus /'tʃervus/; canis /'kanis/; caelum /'tʃelum/.
D: /d/; è la semplice d. Esempi: dolum /'dolum/.
E: /e/, /ε/; è la semplice e, aperta o chiusa. Esempi: ver /'vεr/; elephas /'elefas/.
F: /f/; è la semplice f. Esempi: fero /fεro/; efficio /e'f:itʃio/.
G: /g/, /ʤ/; se davanti a a, o, u è pronunciata /g/, come la g dura di ago; se davanti a i, e, ae e oe è pronunciata /ʤ/, la g dolce di gelo. Esempi: gerere /'ʤεrere/; gaudeo /'gawdeo/.
H: muta: non ha suono. Esempi: hirundo /i'rundo/; mihi /'mii/;
I: /i/, /j/; se ad inizio parola seguita da vocale, o se intervocalica, si legge come semiconsonante /j/ (come in jena), altrimenti come i vocalica normale. Nel gruppo ti+vocale a volta è letta come vocale, altre come semiconsonante. Esempi: Iulius /'julius/; ratio /'ratsjo/ o /ratsio/; video /'video/; iniuria /in'juria/.
K: /k/; è la c dura di cane.
L: /l/; è la semplice l. Esempi: lupus /'lupus/; alter /'alter/.
M: /m/; è la semplice m. Esempi: manus /'manus/; immo /'im:o/.
N: /n/, /ɱ/, /ŋ/; se davanti a vocale o a consonante dentale (t; d; s; z; l; r; c /tʃ/; g /ʤ/) è la /n/ normale di nano (esempi: nugae /'nuʤe/; intereo /in'tereo/; incido /in'tʃido/); se davanti a consonante labiodentale (f; v) diviene la corrispettiva nasale labiodentale (/ɱ/, come in infinito; esempi: infinitas /iɱ'finitas/); se davanti a consonante velare (c /k/, k, g /g/) diviene la corrispettiva nasale velare (/ŋ/, come in vinco; esempi: angustus /aŋ'gustus/).
O: /o/, /ɔ/; è la semplice o, aperta o chiusa. Esempi: ora /'ɔra/; volo /'vɔlo/; cano /kano/.
P: /p/; è la semplice p. Esempi: Paris /'paris/; Alpes /'alpes/.
Q: /k (w)/; come in italiano, è pronunciata come labiovelare, come in quadro. Esempi: qua /'kwa/.
R: /r/; è la semplice r. Esempi: ros /'rɔs/; pirum /'pirum/.
S: /s/, /z/; se ad inizio parola o attigua ad una consonante, è la s sorda (/s/, come in sole); se intervocalica o seguita da consonante sonora è la s sonora (/z/, come in asilo). Esempi: sal /'sal/; rosa /'rɔza/; praesto /'presto/; Lesbos /'lezbos/.
T: /t/; è la semplice t. Esempi: timeo /'timeo/; raptatus /rap'tatus/.
U: /u/, /w/: si pronuncia come u semiconsonantica (/w/, come in uovo) dopo la q e nei dittonghi au ed eu; si legge come vocale (/u/) negli altri casi. Esempi: qui /'kwi/; uva /'uva/; aurum /awrum/; urbs /'urbs/.
V: /v/; si pronuncia come semplice v. Esempi: vinum /'vinum/.
X: /ks/, /gz/; normalmente è la doppia consonante x (/ks/, come in xilofono); se intervocalica, si legge /gz/ (g gutturale seguita da s lene). Esempi: rex /'rεks/; exilium /eg'ziljum/.
Y: /i/; è letta come semplice i. Esempi: hypnosis /ip'nosis/.
Z: /dz/; è la z sonora di zaino. Esempi: orizon /o'ridzon/.

Inoltre:

PH: /f/. Esempi: philosophia /filo'sofia/; Sappho /'saffo/.
TH: /t/. Esempi: thesaurus /te'saurus/.
CH: /k/. Esempi: Chaos /'kaos/.
GN: /ɲ/; è la gn di ragno. Esempi: gnosco /'ɲɔsko/; agnus /'aɲus/.
seguito da vocale: /tsj/; è la z aspra di pizza seguita da una i semiconsonantica. Esempi: otium /otsjum/; gratiis /'gratsjis/.
SC: /sk/, /ʃ/; se davanti a a, o, u è pronunciata /sk/; se davanti a i, e, ae e oe è pronunciata /ʃ/, come la sc molle di sciare. Esempi: scio /'ʃio/.
AE e OE: /e/, /ε/. Esempi: caelum /'tʃelum/; poena /'pena/.

Per quanto concerne i dittonghi, anche i grafemi vocale+i (ei, ui) vengono usualmente letti nell'ecclesiastico come dittonghi: rei si pronuncerà /'rεj/ e portui sarà /'pɔrtuj/ o anche /pɔrtwi/; per quanto riguarda yi, esso è pronunciato come semplice i allungata (/i:/).
Come per la pronuncia classica, dei digrafemi vocale+u, au è sempre dittongo (/aw/), mentre eu, quasi sempre derivato dal greco, è dittongo solo se lo era anche in greco, altrimenti no.
I dittonghi ae ed oe (salvo i casi particolari con dieresi, come aër e poëta), come abbiamo accennato, si leggono come i fonemi della e.

Pronuncia classica ed ecclesiastica a confronto

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La seguente tabella confronta le due pronunce.

  P. classica P. ecclesiastica
A /a/, /a:/ /a/, /a:/
B /b/ /b/
C /k/ /k/, /tʃ/
D /d/ /d/
E /e/, /ε/, /e:/, /ε:/ /e/, /ε/, /e:/, /ε:/
F /f/ /f/
G /g/ /g/, /ʤ/
H /h/ muta
I /i/, /i:/ /i/, /i:/, /j/
K /k/ /k/
L /l/ /l/
M /m/ /m/
N /n/, /ɱ/, /ŋ/ /n/, /ɱ/, /ŋ/
O /o/, /ɔ/, /o:/, /ɔ:/ /o/, /ɔ/, /o:/, /ɔ:/
P /p/ /p/
Q /k (w)/ /k (w)/
R /r/ /r/
S /s/ /s/, /z/
T /t/ /t/
V /u/, /u:/, /w/ /u/, /u:/, /w/, /v/
X /ks/ /ks/, /gz/
Y /y/ /i/
Z /dz/ /dz/
AE /ae/ /e:/, /ε:/
OE /oe/ /e:/, /ε:/
AU /aw/ /aw/
CH /kʰ/ (/x/) /k/
PH /pʰ/ (/ɸ/, /f/) /f/
TH /tʰ/ (/θ/) /t/
GN /gn/ /ɲ/
SC /sk/ /sk/, /ʃ/

Riassumendo le differenze:

  • h si legge con una leggerissima aspirazione (era essa infatti la deformazione della lettera fenicia indicante l'aspirazione), che viene generalmente omessa nel latino ecclesiastico;
  • c e g in origine indicavano sempre rispettivamente i suoni /k/ e /g/, poi nel latino ecclesiastico andarono ad indicare non solo /k/ e /g/, ma anche rispettivamente /tʃ/ e /dʒ/ davanti alle lettere e ed i (pronunciata sempre, anche se consonantizzata: dulcia si leggerà /'dulkia/ in classico e /'dultʃja/ o /dultʃia/ in ecclesiastico, ma non /'dultʃa/), oltre che davanti ai dittonghi oe ed ae;
  • s in latino classico era sempre /s/, sorda, poi cominciò, in posizione intervocalica, a mutarsi in /z/, sonora, pur mantenendo il suo suono originario ad inizio parola e vicino ad altre consonanti (rosa: class. /'rɔsa/, eccl. /'rɔza/; sol: /sol/ in ambedue le pronunce);
  • x nel latino classico si pronunziava sempre /ks/; nella pronunzia ecclesiastica iniziò ad introdursi la dizione /gz/ per la posizione intervocalica;
  • i digrammi ph, th e ch derivano dalla traslitterazione delle lettere aspirate greche; il primo, forse originariamente letto /ɸ/, divenne col tempo /f/ (philosophia, in classico /ɸiloso'ɸia/, in ecclesiastico /filozo'fia/); il secondo era letto /θ/, poi passato alla semplice /t/ (Thule: class. /'θule/, eccl. /'tule/); il terzo era invece letto /x/, per poi passare semplicemente a /k/ (Christus: class. /'xristus/, eccl. /'kristus/);
  • ti seguito da vocale si leggeva /ti/ in epoca classica, poi passò a /tj/ e poi ancora a /tsj/ (ratio: class. /'ratio/, eccl. /'ratsjo/); il ti comunque si legge normalmente quando la i è lunga o la t preceduta da s t x;
  • gn, pronunciato /gn/ in epoca classica, divenne poi /ɲ/ (gnosco: class. /'gnosko/, eccl. /'ɲosko/);
  • sc, sempre /sk/ in epoca classica, è poi passato a /ʃ/ davanti a i ed e.
  • y, pronunciato /y/ nel latino classico, mutò poi (come anche la corrispondente lettera greca) in una semplice /i/.
  • /j/ (come iena) nel latino classico veniva usato per pronunciare le "i" ad inizio parola seguite da vocale oppure quelle intervocaliche (ius /'jus/, peius /'pejus/); nel latino ecclesiastico spesso si utilizza la lettera J per questo fonema se ad inizio parola (Iulius divenne Julius) oppure si mantiene il grafema i; inoltre nell'ecclesiastico il fonema /j/ può essere usato anche per pronunciare le i seguite da vocale ma precedute da consonante, che nel classico erano invece probabilmente lette come /i/ vocaliche (orior, class. /'orior/, eccl. /'orjor/ o /'orior/);
  • /w/ era molto frequente nel latino classico, ma man mano, ad inizio parola o intervocalico, mutò in /v/, tanto che si decise di distinguere la lettera v dalla u, un tempo usate indifferentemente.

La pronuncia scientifica

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La pronuncia restituita nota come scientifica è molto complessa e risulta molto più ricca di allofoni della pronuncia classica; in questo senso, la pronuncia scientifica ha un'attenzione maggiore verso quelli che possono essere stati i fenomeni fonetici che si manifestavano nel latino corrente.

Le vocali

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La pronuncia scientifica postula una differenza di suono tra vocali lunghe e vocali brevi[5]. In generale, si può dire che le vocali brevi sono tendenzialmente più aperte e quelle lunghe tendenzialmente più chiuse.

A
ă /ɐ/ (come nel tedesco theater);
ā /a:/ (come in Italia, ma allungata);
E
ĕ /ɛ/ (la e aperta di cioè);
ē /e:/ (la e chiusa di perché, solo che allungata);
I
ĭ /ɪ/ (la i dell'inglese big, a metà tra le italiane e ed i) se seguito da consonante; se seguito da vocale si consonantizza in /j/ (come in iena);
ī /i:/ (come in idolo, ma allungata);
O
ŏ /ɔ/ (la o aperta di perciò);
ō /o:/ (la o chiusa di melo, ma allungata);
V (U)
ŭ /ʊ/ (come nell'inglese book) se seguita da consonante; consonantizzata /w/ se seguita da vocale (come in tuorlo);
ū /u:/ (come in utopia, ma allungato).
Y (solo in grecismi)
y̆ /Y/ (simile a ɪ, ma arrotondata);
ȳ /y:/(come il francese bureau, o la ü tedesca).[5]

Da notare che nei fonemi della e e della o le brevi sono aperte e le lunghe chiuse, a differenza del greco dove le brevi ε ed ο sono chiuse e le lunghe η ed ω sono aperte.

È inoltre possibile (ma tutt'altro che certo) che ove ci fosse nella scrittura un'oscillazione tra la i e la u (come in maxumus/maximus), vi fosse la presenza di un suono simile ai fonemi della y.

I dittonghi

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I dittonghi classici sono quattro:

AU: /ɐʊ/;
AE: /e/ o anche /ɪ/;
OE: /ɛ/ o anche /ɪ/;
EU: /ɛʊ/.[5]

Ad essi vanno aggiunte coppie di vocali probabilmente dittongatesi con il passare del tempo e il dittongo greco yi:

EI: /ɛɪ/;
UI: /ʊɪ/;
YI: /Yɪ/.

Le consonanti

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B: normale /b/, a meno che non sia intervocalica, nel qual caso diviene /β/ (una specie di v, ma bilabiale anziché labiodentale). Esempi: bi:ni: /'bini/; laudabas /lɐʊ'da:βas/; arbor /'ɐrbɔr/.
C: sempre suono velare /k/ (come in casa); forse palatalizzata (/c/, suono palatale da non confondere con l'affricata presente in cielo, /tʃ/) prima di e ed i. Esempi: canes /'kɐne:s/; cinis /kɪnɪs/ o /cɪnɪs/; licet /'lɪkεt/ o /'lɪcεt/.
D: normale /d/. Esempi: dono /'do:no/.
F: normale /f/. Esempi fines /'fi:ne:s/.
G: sempre suono velare /g/ (come in gabbia) e labiovelarizzata davanti a /w/; forse palatalizzata (/ɟ/, suono palatale da non confondere con l'affricata presente in gelo, /dʒ/) prima di e ed i. Esempi: guttur /'gʊt:ʊr/; languor /'lɐŋgwɔr/; :piget /'pɪgɛt/ o /'pɪɟɛt/.
H: letto con aspirazione lieve /h/, probabilmente afono se intervocalico[6]. Esempi: haud /'hɐʊd/; nihil /'nɪɪl/ o /'ni:l/.
J (I consonantica, seguita da vocale): /j/ (come in pieno). Esempi: Julius /'juljʊs/.
K: come C.
M: è la normale /m/, ma in fine di parola probabilmente scompare lasciando nasalizzazione e allungamento alla vocale che la precede (il che non è escluso accadesse anche all'interno di una parola se m era l'ultimo elemento di una sillaba chiusa). Questo è testimoniato non solo dalla scomparsa delle m finali nelle lingue romanze, ma anche dalla possibilità in poesia già preclassica di sinalefe tra parola terminante in vocale+m e parola iniziante per vocale (tantum illud, ad esempio, può essere letto, in pronuncia classica, /tan'twillud/). Esempi: malo /ma:lo:/; Romam /ro:mɐm/ o /ro:mã/.
N: il suo suono principale è /n/, che però si presenta solo davanti a consonante alveodentale (/t/, /d/, /s/, /l/, /r/) o a vocale, altrimenti (anche se si trova in fine di parola e la lettera seguente è l'inizio di un'altra) utilizza allofoni: se davanti a velare (/k/, /g/) si velarizza in ŋ (come lingua); se davanti a labiodentale (/f/) si labiodentalizza in /ɱ/ (come anfibi); se (solo in fine di parola) seguita da bilabiale (/m/, /b/, /p/) si bilabializza in /m/; se davanti a palatale (/c/, /ɟ/, /j/) si palatalizza in /ɲ/ (come gnomo). È possibile che scomparisse con nasalizzazione e allungamento della vocale precedente se si presentava come ultimo elemento di una sillaba chiusa. Esempi: navis /'na:wɪs/; Antonius /ɐn'tɔ:ɲjʊs/; vinco /'wɪŋko/; infinitas /ɪɱ'fi:nɪta:s/; incido /ɪŋ'ki:do/ o /iɲci:do/.
P: normale /p/. Esempi pecus /pɛkʊs/; Appius /'ɐp:jʊs/.
R: normale /r/ presente anche come monovibrante /ɾ/. Esempi: rosa /'rɔsɐ/.
S: normalmente /s/ (sorda, come in sole), ma /z/ (sonora, come in riso) se seguita da consonante sonora (/b/, /d/, /g/, /m/, /n/). Esempi: sol /'sɔl/; Lesbos /'lεzbos/.
T: normale /t/. Esempi: taurus /'tɐʊrʊs/.
V (semiconsonantica): è la bilabiale approssimante /w/, come in uovo, o forse anche fricativa sonora /β/ (poi passata al /v/ del latino ecclesiastico). Esempi: vina /'wi:nɐ/ o /'βi:nɐ/.
X: è la doppia consonante /ks/. Esempi: taxus /'taksʊs/.
Z: è la doppia consonante /dz/ (come in zona), oppure la sibilante sonora /z/. Esempi orizon /o'ridzon/ o /o'ri:zon/.[7]

Per quanto riguarda alcuni digrammi:

  • PH: originariamente letto come /pʰ/ (una /p/ aspirata), passò, come anche nel greco, a /φ/ (una p "soffiata") e poi a f.
  • TH: originariamente letto /tʰ/ (una /t/ aspirata), è difficile capire se divenne la fricativa /θ/ (come in think) come nel greco tardo, oppure se perse l'aspirazione divenendo semplice /t/, come appare più probabile visto l'esito nel latino ecclesiastico.
  • CH: originariamente letto /kʰ/, è anche qui poco chiaro se si fricatizzò in /x/ (come ich) o se perse l'aspirazione divenendo /k/.
  • GN: è possibile che la g si assimilasse nasalizzandosi in /ŋ/[7]; verrebbe letto perciò /ŋn/ invece di /gn/ (il suono palatale /ɲ/ che si ritrova nel latino ecclesiastico è una via di mezzo tra la nasale dentale e quella velare); è anche possibile che la g sia andata perdendosi, come dimostra per esempio la grafia nosco per gnosco (da cui l'italiano conoscere, da co+(g) noscere).
  • GM: come in gn, anche qui è possibile la nasalizzazione di g; tegmen verrebbe perciò letto /'teŋmen/.

L'assimilazione delle consonanti

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La pronuncia scientifica tiene conto delle possibili mutazioni che le consonanti possono avere le une vicine alle altre.

Le consonanti sonore b e d, qualora fossero seguite da consonante non sonora, diverrebbero le corrispettive sorde p e t (assimilazione parziale). In particolare, alcuni nominativi di nomi con tema in b della terza declinazione presenterebbero questa assimilazione: nubs, ad esempio, sarebbe letto (in trascrizione fonetica larga) /'nups/ (questo accade in modo più trasparente con i temi in g, che presentano al nominativo una x, cioè k+s, e non g+s; inoltre, questo fenomeno avviene chiaramente in greco, dove i nominativi sigmatici dei temi in p e b presentano in ambo i casi la lettera psi, indicante /ps/). Altri esempi intercorrono anche tra parole distinte: ad portum sarebbe /at'portum/, sub ponte /sup'ponte/, obtulisti /optu'listi/.

Per le tre preposizioni sub, ob e ad può anche sussistere un'assimilazione totale: questo è testimoniato dalle grafie evolute di alcune parole composte (ad esempio, il composto sub+fero può essere scritto sia subfero sia suffero); questa assimilazione è possibile anche tra parole distinte in sandhi; così, ad fines verrebbe pronunciato o /at'fines/ (assimilazione parziale) o /af'fines/ (assimilazione totale), piuttosto che /ad'fines/, ob castra sarebbe letto /op'kastra/ oppure /ok'kastra/ e sub flumine /sup'flumine/ o /suf'flumine/.[7]

Note

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  1. 1,0 1,1 1,2 http://www.scribd.com/doc/27476036/Alfabeto-greco-e-latino, 5^ pagina.
  2. 2,0 2,1 http://www.scribd.com/doc/27476036/Alfabeto-greco-e-latino, 6^ pagina.
  3. 3,0 3,1 M. Lenchantin de Gubernatis, Manuale di prosodia e metrica latina, 1934; pag. 4.
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 4,4 http://oggilatino.blogspot.com/2008/04/simposio.html
  5. 5,0 5,1 5,2 http://www.scribd.com/doc/24940609/La-pronuncia-neutra-internazionale-del-latino-classico , pagina 3.
  6. http://www.scribd.com/doc/24940609/La-pronuncia-neutra-internazionale-del-latino-classico , pagina 6.
  7. 7,0 7,1 7,2 http://www.scribd.com/doc/24940609/La-pronuncia-neutra-internazionale-del-latino-classico , pagina 5..

Bibliografia

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Collegamenti esterni

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Pagine correlate

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