Pietro Mennea
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Pietro Paolo Mennea (1952 – 2013), velocista, politico e saggista italiano.
Citazioni di Pietro Mennea
[modifica]- Adesso starò altri due mesi in Australia, non mi immischio più, io sono sempre stato contro il doping e ora voglio solo, in pace, tentare l'ennesima sfida. Con il solo aiuto del lavoro e del cervello. Come ho sempre fatto, per vent'anni, benché qualche mascalzone abbia sostenuto il contrario. Ma io sono abituato, io sono contento così e così vado avanti. Perché sono curioso, malgrado qualche filo bianco di troppo sui capelli.[1]
- Di mascalzoni ce ne sono, di gente che parla e non sa quello che dice anche troppa; qualcuno ha provato a buttare fango su di me perché magari poteva sembrare divertente, quando sono rientrato, distruggere un mito, ma il mio mito rimane solido, lo dimostra la mia longevità, quello che ho fatto nel passato. Io sono qui perché mi piace far vedere alla gente che un atleta può durare anche vent' anni nella velocità, quando altri, per motivi svariati, scoppiano nell' arco di tre o quattro stagioni.[1]
- [Sul mondo del calcio] È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l'altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita.[2]
- [Riferendosi a José Mourinho nell'aprile del 2010, dopo la semifinale di Champions League, Barcellona-Inter] È stato un galantuomo. Ha voluto ringraziarmi di persona. Mi ha raccontato la storia del libro, della sua passione per lo sport. Ci siamo scambiati i numeri di cellulare. Gli ho spedito un sms subito dopo la vittoria di Londra. Così è stato anche a Mosca. E poi un altro sms l'altra sera. Mourinho mi ha fatto diventare tifoso dell'Inter. Da bambino ero della Juve, come tutti i meridionali, ma quei dirigenti che hanno trascinato la Juve nel fango mi hanno disamorato. Ora seguo l'Inter e Mourinho. Voglio andare a Madrid, per la finale. Voglio vederlo ancora con il dito indice alzato verso il cielo.[3]
- Ero gracile e sentii Vittori dire a Franco Mascolo: "Questo deve prima magnà qualche bistecca, poi se ne riparla".[4]
- Gli atleti sono l'ultima ruota del carro, fanno già moltissimo. È il Paese a essere vecchio.[5]
- Il doping è una scorciatoia per arrivare al successo, ma tanti atleti che correvano con me non ci sono più. Si tratta senza dubbio di morti sospette. Che devono far riflettere.[6]
- Il nostro carattere è come un diamante, è una pietra durissima ma ha un punto di rottura.[7]
- Io devo prendermela con qualcuno per ottenere risultati.[7]
- Io mi sono allenato per 20 anni, ho avuto una carriera lunghissima come velocista, ma non mi sono mai neanche strappato. Invece, se avessi fatto uso di steroidi anabolizzanti, mi sarei strappato chissà quante volte. Lo sport deve rimanere l'ultimo baluardo del tessuto sociale per quanto riguarda il rispetto delle regole. Insomma, tra gli atleti deve vincere il più bravo, non il più furbo.[6]
- Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro. Nella mia carriera sportiva mi sono allenato 5-6 ore al giorno, tutti i giorni, per 365 giorni l'anno, tra gare e allenamenti, per quasi venti anni.[5]
- Io sono in cammino. Troppi atleti crollano come individui quando si ritirano. Un trauma pazzesco. Invece lo sport non è stato il traguardo della mia vita, solo un momento di passaggio.[8]
- L'Italia non mi ha dato spazio. Qui c'è una mentalità piena di invidia e di gelosie per chi con merito sale in alto. Nessuno usa il successo altrui come vanto di tutti. All'estero i campioni sono protetti e tutelati, qui gettati in pasto. A Sestriere hanno spianato una montagna per fare una pista dove poter battere il mio record. Hanno invitato Michael Johnson e messo in palio una Ferrari, poi mi hanno chiamato per il passaggio di consegne. Ho chiesto: se Johnson non mi batte, la Ferrari la date a me? Dopo due minuti di silenzio hanno risposto no. Allora non sono andato.[2]
- La gente mi vuole bene, me l'ha sempre voluto, forse perché il mio modo di interpretare l'atletica è assolutamente puro.[1]
- [Su Usain Bolt] Lo attaccherei all'uscita della curva, il punto dove è più sacrificato, dove si esprime di meno. In curva il corpo si deve piegare su un lato, non puoi aprire il passo, che si accorcia. È un uomo da rettilineo. Ma meglio lui che Michael Johnson, che con tutto il rispetto correva da cameriere.[2]
- Lo sport è bello perché non è sufficiente l'abito. Chiunque può provarci.[5]
- Lo sport insegna che per la vittoria non basta il talento, ci vuole il lavoro e il sacrificio quotidiano. Nello sport come nella vita.[5]
- Mi hanno spesso dipinto come presuntuoso, arrogante, antipatico. Quando rifiutavo un invito alla Domenica Sportiva perché la mattina dopo dovevo studiare, oppure rifiutavo di raccontare per la millesima volta il record del mondo o la vittoria alle Olimpiadi di Mosca. Mennea ha sempre corso per dimostrare che valeva qualcosa, non per raccontarlo in giro.[4]
- Nello sport gli obiettivi importanti non possono essere tanti e in fila l'uno con l'altro. Bisogna scegliere e io avevo scelto il Messico.[5]
- Non ci sono dubbi: il miglior è Usain. È l'unico sprinter della storia ad aver fatto l'accoppiata nella velocità in due Olimpiadi diverse e tanto basta per garantirgli il gradino più alto della storia della velocità. È il più grande velocista di tutti i tempi. Se continuerà ad avere le stesse motivazioni penso che Bolt potrà esserci anche a Rio, dove magari potrebbe cimentarsi nei 200 e 400, una doppietta riuscita solo a Michael Johnson. È l'unico atleta al mondo in grado di poter abbattere il muro dei 19 secondi: per riuscirci però saranno necessari fame e concentrazione.[9]
- Purtroppo il doping è diventato un grande business in mano alla criminalità organizzata, dato che viene commerciato in un mercato nero. Che è più lucrativo di quello degli stupefacenti. Sì, perché il grosso del mercato del doping lo troviamo tra gli amatori che affollano le palestre. Mi batto da anni per una legge penale comunitaria che funzioni da deterrente riguardo all'uso di simili sostanze. Oggi in Europa solo cinque stati hanno una legge simile. E io avevo lottato affinché fosse estesa a tutta l'Unione Europea.[6]
- Quasi tutti i miei record sono venuti dopo grosse arrabbiature.[4]
- Quel 28 Luglio 1980 [Olimpiadi di Mosca] alle ore 20.10 ho coronato il mio sogno da sportivo, con rabbia e determinazione.[5]
- Sono un uomo che non si sente mai arrivato, sono sempre pronto a ripartire dai blocchi.[4]
- Un giorno si avvicina Gianni Brera e mi tocca il cranio. Poi dice: "Mennea, i suoi avi venivano certamente dalla Mesopotamia".[8]
Intervista di Gianni Minà, la Repubblica, 11 agosto 1987, p. 19
- In questa cosiddetta società del tempo libero c'è chi va a caccia, chi a pesca, chi corre quel rito di moda che si chiama maratona dentro la città, un rito tra l'altro molto sponsorizzato, c'è chi va in palestra, chi a donne e chi nei casinò. Io invece ho scelto di correre, ma veloce, per un gusto appreso da ragazzo, quando sfidavo le motorette sui 50 metri, e che non mi è mai passato. Così abbandonata l'attività di atleta vincente, per mille motivi, non ultimo che dovevo gareggiare contro troppa gente "preparata" chimicamente, non ho saputo o voluto lasciare quello che per me è stato il divertimento di tutta una vita, l'allenamento. Sì, dico divertimento, perché se così non fosse stato uno le sofferenze accettate per 15 anni per arrivare a essere il campione che non ero, uno, voglio dire un essere umano, non le avrebbe mai sopportate.
- Una delle cose che mi offende di più è leggere che sono un disadattato. Io non so come vive la gente, quella arrivata, quella che pontifica, la cosiddetta società rampante che in questa stagione della nostra Italia è pronta a trinciare giudizi su tutti. Di questa società purtroppo fanno parte anche molti cronisti di sport, al contrario di una volta quando lo sport non rappresentava un potere, ma solo un piacere anche per chi lo raccontava. Ma quello che veramente mi indispettisce è questo giudicare le persone senza frequentarle, senza seriamente parlare con loro.
- Mi dispiace per Vittori, lui può anche aver inventato, come dice, i metodi di allenamento che mi hanno fatto progredire, ma se non c'erano il mio cervello, il mio carattere, le mie gambe non sarebbe successo niente. La storia recente in questo senso è chiarissima. Un Mennea ancora non è nato. Forse sono nati i ragazzi più dotati di me, ma fino adesso incapaci di esprimere tutto il potenziale che è in loro. Quindi non credo sia una questione di allenatore e di metodi, ma più probabilmente, di carattere di volontà di grinta di scelta di vita.
- Che Berruti dica che il mio possibile ritorno è patetico non mi fa né caldo né freddo. Lui purtroppo non è riuscito ad ottenere nello sport quello che io ho ottenuto. Forse gli sono mancati certi attributi, o forse erano solo altri tempi. Non mi interessa. E gli ricordo soltanto che Wells dopo essersi ritirato ritorna alla vecchia attività e in Inghilterra lo salutano con affetto, con tenerezza, non con astio, anche i campioni che hanno preceduto Wells nella storia dello sport britannico. Ma forse è solo una questione di cultura, di atteggiamento verso lo sport e il suo divenire. Quello che invece non posso accettare è la commiserazione, lo scherno. Perché? Cosa ho fatto di male se mi piace correre e vado ancora forte?
- A Los Angeles a 32 anni, arrivai settimo perché sbagliai la gara. Ma era chiaro che non ce la potevo più fare contro chi si aiutava con tutti i mezzi possibili, anche illegali. E non parlo solo dell'emodoping. Come ogni essere pensante che ha passato una vita in un settore mi venne la curiosità di capire che cosa stava succedendo. Andai così a trovare il dottor Kerr, un medico che molti dicono di non conoscere che alcuni chiamano un "certo dottor Kerr", ma che invece moltissimi anche nell'atletica italiana conoscono. Kerr mi spiegò le sue teorie e mi suggerì per iniziare la terapia che mi avrebbe portato, come disse il suo assistente, alle finale anche alle Olimpiadi di Seoul, mi suggerì dicevo, di iniziare con iniezioni di somatropina. Dopo qualche settimana me le inviò per posta in Italia. Feci la prima iniezione, mi guardai allo specchio e mi resi conto che io non c'entravo niente con tutto questo, e che se avevo vinto per tanti anni senza bisogno di nulla, probabilmente se avessi dovuto continuare aiutandomi così avrei persino mortificato tutto quello che avevo fatto prima. Così me ne andai dicendo, credo a ragione, che non potevo più competere in un mondo dominato dal doping.
- Credo proprio che il problema sia un altro: nel bene e nel male sono stato un atleta scomodo, una specie di odiatissima realtà per tutta la cattiva coscienza dell'atletica. E così ogni volta che mi muovo sono costretto a prendere insulti e schiaffi. Non mi dispiaccio più di tanto. Quello che farò fra qualche ora fa parte soltanto del piacere continuo e mai domo di misurarmi con me stesso. E se poi addirittura il tempo che farò vale un riconoscimento a livello di nazionale bene, io sarò contento e credo forse dovrebbero essere contenti anche quelli dell'atletica. Se questa è un'attività fatta da uomini, e non da robot, o da gretti personaggi in cerca di miserande rivincite. E pensa che bello per me: questa volta non ho l'obbligo di arrivare primo, ma solo il piacere di una sfida in teoria impossibile. Che gusto!
Intervista di Emanuela Audisio, la Repubblica, 3 giugno 2012, pp. 25-27
- Quello della Silicon Valley, quello che ha detto che bisogna essere affamati e folli [Steve Jobs], mi fa ridere. Noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani.
- Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui [il padre sarto]. Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate.
- La mia crescita sportiva è stata lenta e costante, ma da ragazzo del sud nel '72 sono dovuto emigrare. Al centro federale di Formia: 350 giorni di allenamento all'anno. Stavo lì pure a Natale e Pasqua. Da solo. Vent'anni ad acqua minerale, e nemmeno gassata, il professor Vittori non voleva. Il complimento più bello me lo hanno fatto i vecchi custodi, la famiglia Ottaviani, che ha dichiarato: ce n'era solo uno che in tuta entrava al campo di mattina e usciva di sera.
- Nel '73 con i primi guadagni mi comprai una Lancia Fulvia Montecarlo da rally, ma non ci dormivo la notte per la paura di aver fatto il passo troppo lungo. E la rivendetti.
- [Raccontando il suo record di 19" 72 sui 200 m] Ero come un viaggiatore che stava per partire. Ogni corsa è un viaggio. Mi chiedevo: ho preso tutto? Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po' in curva, controllai la sbandata all'entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all'ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10" 34 e i secondi in 9" 38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro. Non c'erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L'unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel '79 non nel '72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare.
- Nessuno mi dava credito, quel primato sembrava destinato a cadere in fretta. È durato 17 anni. Dal '79 al '96. Al 19" 66 di Michael Johnson. Ci credo nei numeri: corsi sulla stessa pista dove Tommie Smith nel ' 68 aveva stabilito il mondiale con 19" 83. Undici stagioni prima. E migliorai quel tempo di 11 centesimi.
- In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre Cassius Clay. Mi presentarono come l'uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: "Ma tu sei bianco". Sì, ma sono nero dentro.
- No, ma non c'è più cultura sportiva, c'è il mito del successo, non quello di farsi strada nella vita. Perché meravigliarsi delle scommesse? Se non si studia, se non si hanno interessi, non c'è crescita della persona. Uno sportivo non deve essere Einstein, ma un minimo ci devi provare a darti degli strumenti e non solo a gonfiare il portafoglio.
- [Alle Olimpiadi di Mosca 1980] In finale mi confinarono in ottava corsia, non ero contento, non potevo controllare gli avversari. All'uscita della curva ero penultimo, Wells indemoniato era tre metri avanti. Penso: non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente. Allora riparto, risento tutto, rientro in gara, recupero, vinco, alzo le braccia e il ditino.
- Convegno in Germania sulla velocità. Metà anni Ottanta. Parlo del mio training: 25 volte i 60 metri, 10 volte i 150 metri. Gli altri tecnici sbigottiti: ma se i nostri atleti al massimo fanno 6 volte i 150. E lì che ho capito che il doping aveva vinto: come facevano ad allenarsi tre volte meno di me e ad ottenere risultati? Quando Vittori mostrava nei convegni il programma di lavoro gli chiedevano: scusi, chi ha fatto queste cose è poi morto?
- Avrei potuto ribattere il mio record dopo Mosca, valevo 19"60, me lo confermò lui, cronometro alla mano, ma credeva che ne sarei stato troppo appagato.
- Anche per me ad un certo punto è stato difficile guardarsi allo specchio e decidere: chi vuoi essere? Forse potevo vivere di rendita, invece mi sono rimesso ai blocchi per altre partenze. Non ci sarà più un record come il mio, non in Italia, e non perché non possano nascere campioni. Ma oggi c'è una società e una morale diversa, che rifiuta tutto quello che io ho rappresentato. Io allenavo la fatica con l'allenamento.
- Ogni tanto c'è qualcuno nel parco che mi chiede: e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni.
Citazioni su Pietro Mennea
[modifica]- Abbiamo perso un grandissimo uomo di sport e un pezzo della storia dell'atletica mondiale. Ma soprattutto, un esempio eccezionale di tenacia, forza e voglia di vivere. Sono profondamente commosso per la sua scomparsa. Con lo stesso stile che lo ha contraddistinto sulla pista, Pietro Mennea ha spinto fino all'ultima falcata anche nella vita lasciando un segno indelebile che dovrà guidare sia chi sfida il cronometro o gli avversari, sia chi si misura ogni giorno con le avversità dell'esistenza. (Antonio Rossi)
- Aveva occhi un po tristi e un'aria da persona sola, chiusa. Come molti introversi, non gli apparteneva la preoccupazione di piacere a tutti. Però ogni suo gesto, dentro e fuori lo sport, è stato di orgogliosa sostanza. Campione inarrivabile, velocista "nero" d'Europa, figlio del profondo sud italiano vissuto sapendo che i luoghi comuni si possono combattere e vincere con la forza interiore, con una spinta anche morale. In questo, anche in questo, Pietro Mennea è stato un esempio. (Maurizio Crosetti)
- Aveva un carattere particolare, quello tipico di una persona abituata a lottare in prima linea, a confrontarsi in uno sport individuale. Me lo ricordo come un grande e serio professionista negli allenamenti, maniacale nel suo organizzarsi la giornata nei minimi particolari, molto meticoloso e integerrimo, anche troppo, con se stesso. Con lui ho condiviso due Olimpiadi, l'ultima è quella dove ha fatto anche da portabandiera per l'Italia. Che dire? È stato un grande dal punto di vista atletico c'è poco da fare: nessuno nel suo ambito, è stato come lui. Ancora non si trovano fra i giovani, velocisti di quel calibro. (Giuseppe Abbagnale)
- Che vita! | Pietro Mennea e Sara Simeoni | son rivali alle elezioni. (Samuele Bersani)
- Di campioni come lui ce ne sono pochi. È stato un grande, un esempio che dovrebbe essere seguito da tutti. È stato un grande uomo e un grande atleta. È stato un grande anche nel nascondere la sua malattia, non voleva commiserazione. Lui era l'uomo che ha saputo stringere i denti più di tutti gli altri per ottenere i risultati che ha ottenuto. (Nino Benvenuti)
- Di Pietro dicevano che avesse un brutto carattere, che vedesse nemici dappertutto. Ne aveva, in effetti, a cominciare da quelli che tuonano contro il doping e poi lo fanno entrare dalla porta di servizio, per continuare con quelli che pensano solo alle medaglie e ai guadagni e non hanno capito che c'è una rivoluzione culturale da fare, cominciando dalla scuola, dall'etica, e che non c'è solo lo sport di vertice ma anche lo sport per tutti, e che comunque non ci si deve aiutare mai con farmaci proibiti. «Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni». Parole sue. A fare da eco, il nostro silenzio: che sia pieno di rispetto, d'ammirazione, di qualcosa che vorrebbe essere un «grazie» tardivo, forse inutile, ma per Pietro Mennea da Barletta doveroso e dolente, adesso che la corsa è finita. (Gianni Mura)
- [«Che ricordi ha di Mennea?»] Di un grande, grande, grande, grande. Di un uomo verticale che ha dovuto lottare non solo sulle piste di tutto il mondo, ha dovuto lottare anche contro l'incomprensione di un ambiente, che è molto egoista. Ha dovuto sempre correre e fare il suo mestiere con pochissimi soldi. Per lui non c'erano mai soldi. Poi, certo, aveva un carattere tutto d'un pezzo e quindi c'erano sempre molti attriti con la federazione. (Gianni Minà)
- È indimenticabile quel 200 a Mosca in ottava corsia, rimane nella leggenda dello sport. La sua figura era di riferimento nel momento in cui l'atletica era davvero lo sport di riferimento a livello nazionale. Per me è stato motivo di ispirazione, le prime gare che ho visto sono state quelle con Mennea e Simeoni. Mennea lavorava tanto, viveva a Formia, forse è il primo esempio di atleta che ha fatto lo sport da professionista nel modo giusto, costruendo i suoi risultati giorni dopo giorno con tanto allenamento. (Stefano Baldini)
- È sempre stato veloce, e veloce se ne è andato. Con la forza della mente e delle gambe sconfiggeva gente magari non pulita come lui all'epoca. Forse non stava simpatico a tutti, ma era una grande persona davvero. Mennea era un personaggio dello sport italiano, non solo dell'atletica, vorrei che il suo ricordo e pensiero a lui rivolto, andasse oltre perché questo si merita Pietro. (Alfio Giomi)
- È stato un grande campione, un personaggio in tutti i sensi, un fuoriclasse, con tutte le sue particolarià caratteriali, la sua grandezza dal punto di vista tecnico e della sua capacità di agonista. È stato un amico e un grande dello sport. [...] Penso possa essere inserito tra i primi in assoluto dello sport italiano, considerando che nei 200 ancora oggi sarebbe tra i grandi. Evidentemente bisogna comprendere che anche con l'evoluzione che c'è stata nell'atletica le sue prestazioni sono di una grandezza incredibile. (Paolo Barelli)
- Egli ha rappresentato al meglio tutti noi che la storia ha impoverito nei millenni, magari senza domare del tutto la protervia del nostro buon sangue antico. Lasciate che mi dica fiero di lui. L'inclita Barletta ci ha indennizzati di una patetica balla d'eroismo: ci ha dato Pietro Paolo, la cui volontà è rimasta degna del vigore fisico che i romani hanno aggiunto alla sofisticata cultura greca. Non temo proprio no grosse parole. La fiaba dei millenni chiamata storia mi ronza nel sangue come ricordo vitale. Porta la mia bandiera, Pietro Paolo, nessuno è più degno di te! Quattro Olimpiadi celebrate, quattro finali, di cui una addirittura vinta. (Gianni Brera)
- Era il nero bianco, con una feroce determinazione nell'affrontare la vita fuori dalla pista d'atletica. (Walter Veltroni)
- Era un esempio di serietà e d'onore, un uomo che aveva lavorato assiduamente per conseguire i suoi risultati: un record mondiale che resistette per 17 anni, da una parte, e quattro lauree (in scienze politiche, giurisprudenza, scienze motorie e lettere), dall'altra. In una recente intervista, alla domanda sul perché oggi l'Italia non eccella più nell'atletica leggera, come ai suoi tempi, rispose "pacatamente e serenamente". Ricordando che lui, per dieci anni, non aveva mai perso un allenamento, nemmeno nel giorno di Capodanno. E notando che oggi, invece, i giovani sono dei "bamboccioni" che non hanno voglia di sudare né fisicamente, né intellettualmente. (Piergiorgio Odifreddi)
- Ha dimostrato che il muscolo numero uno si chiama cervello e che quando quello funziona si arriva anche dove neppure gli scienziati sanno spiegare. È stato un atleta straordinario, complesso, per certi versi spigoloso, ma estremamente generoso. È stato un uomo a 360 gradi. (Novella Calligaris)
- Ho un ricordo di una persona tenace che ha sempre fortemente creduto nelle cose che portava avanti. Si è sempre impegnato e schierato. Ci lascia dei ricordi incredibili sul piano sportivo ma anche come uomo ci lascia la dimensione di un impegno mai venuto meno, un rigore, una logica di chi vuole sempre competere nella massima autonomia e libertà. (Giancarlo Abete)
- In questi tempi di bamboccioni disonorevoli e disonorati, un atleta onorevole e onorato come Pietro Mennea ci fa riflettere su un fatto spesso dimenticato: che nell'attività fisica, così come in quella intellettuale, l'eccellenza si raggiunge al 10 per 100 con l'ispirazione, ma al 90 per 100 con la sudorazione. Non esistono i campioni e i geni "naturali": esistono gli individui dotati, che si fanno "artificialmente" un mazzo tanto per mettere a frutto le loro doti. (Piergiorgio Odifreddi)
- La notizia della scomparsa di Pietro Mennea è un dolore davvero grande per chiunque abbia a cuore lo sport italiano. Il suo nome, le sue imprese, hanno segnato letteralmente un'epoca. Ho mille ricordi di Mennea atleta ma incrociai direttamente la sua parabola sportiva quando ne organizzai a Grosseto il secondo ritorno all'agonismo. In quell'occasione imparai a conoscerlo, ad apprezzarne motivazioni e e soprattutto ideali. Posso dire che ha saputo indicare allo sport italiano, con il suo esempio, contraddistinto da amore per il lavoro e dedizione assoluta, la strada maestra verso il risultato. In più, ha dimostrato che si può vincere nello sport senza scorciatoie, ovvero, senza il doping. Una lezione di straordinaria importanza ed attualità. (Alfio Giomi)
- La sua voglia di arrivare, la sua serietà, il suo agonismo, non hanno avuto eguali. Ci lascia questi valori, è stato un grande atleta e un grande uomo. (Franco Arese)
- Le medaglie olimpiche, le straordinarie vittorie, il record del mondo durato moltissimo, il fatto che per molti anni tra i 10 migliori tempi nei 200, molti fossero suoi, hanno collocato Pietro Mennea tra i più grandi dell'atletica mondiale di tutti i tempi. Ha ottenuto tutto ciò grazie al talento naturale e a una vita di sacrifici indicibili. Aveva un carattere complesso, ma non gli si poteva non voler bene per la sua generosità e per l'amore che aveva per lo sport. È stato un fantastico rappresentante di una atletica pulita e ha onorato lo sport italiano. Per lui un ricordo di commossa gratitudine. (Franco Carraro)
- Lo sport italiano gli deve molto, lui ha cercato sovente di dar se stesso allo sport in vari modi, quasi per "equilibrare". Ma aveva un carattere difficile, un eloquio spesso aggrovigliato, e poi sempre era come posseduto da quel revanscismo che lui stesso definiva etnico e che gli pregiudicava tanti rapporti. E invano chi lo conosceva bene diceva di una sua forte solarità, soltanto difficile da liberare dalle nubi contingenti, di una sua interna allegria che comunque, quando riusciva ad espandersi in giro, voleva dire ad esempio l'amicizia fortissima con uno che, come lui, quando sorrideva e faceva sorridere sembrava intristirsi, Massimo Troisi. (Gianpaolo Ormezzano)
- Lui era pane e atletica, viveva per questo sport, i risultati ottenuti li ha voluti con tutto se stesso. (Gabriella Dorio)
- Mennea ha passato più di un terzo della sua vita sui campi d'allenamento, anche a Capodanno. Era un asceta, sopportava carichi di lavoro che altri atleti avrebbero rifiutato prima ancora di cominciare. E durare vent'anni, per uno sprinter, è una specie di miracolo. Ma lo è ancora di più il restare affezionato a una vita ripetitiva, ore e ore d'allenamento per limare qualcosa, ore di isolamento e di sacrifici: dieta perenne, il suo maestro e allenatore Vittori gli vietava anche l'acqua minerale gassata, solo liscia doveva essere. E non parliamo degli altri grandi e piccoli piaceri della vita. Però nessuno ha mai sentito Pietro lamentarsi di quegli anni. Fedele al ruolo che s'era ritagliato: l'atleta-asceta, l'atleta-monaco o fachiro, l'atleta-soldato. Perché era nero dentro e sapeva che nella vita e nello sport, tanto più uno sport come il suo, nessuno ti regala nulla, tutto quello che puoi vincere te lo devi guadagnare col sudore, la fatica, il lavoro. Noi italiani, ci ha fatto pensare di essere i più veloci al mondo. A lui la fatica, a noi la gioia. (Gianni Mura)
- Mi consola sapere che verrà sempre ricordato come un grande atleta, tra i migliori della sua generazione. È stato un grande campione di cui l'Italia deve andare orgogliosa. È stata la mia fortuna avere avuto un avversario così forte perché mi ha costretto a migliorarmi. Eravamo coetanei e abbiamo avuto una carriera in parallelo. È stato senza dubbio il mio più grande rivale, con la sua morte se ne va via una parte di me. (Allan Wells)
- No, Mennea non era "The Chosen One", anzi. Con quel fisico, nel Sud senza strutture, in una nazione che dedica risorse e fama quasi esclusivamente agli eroi del calcio, mettersi in testa di eccellere in una specialità dominata dagli afro-americani senza barare non aveva alcun senso apparente. Se non quello, maestoso, di sconfiggere secoli di vittimismo piagnone, di ignavia e di ricerca della scusa buona. Di indicarci una via che è più attuale che mai, ben oltre le piste, i campi e lo sport. (Flavio Tranquillo)
- Non era un superuomo, ma è riuscito in imprese che hanno fatto la storia dello sport. Sono molto, molto triste. Sapevo della sua malattia, gestita con riservatezza, come era nello stile della persona. È una perdita incolmabile, dobbiamo fare il possibile per ricordare un atleta più unico che raro. (Giovanni Malagò)
- Oggi perdo un esempio, un modello e un amico con la A maiuscola, il più grande campione che lo sport italiano abbia mai visto. Un esempio di professionalità per tantissime generazioni di ragazzi, di sportivi. Ho avuto la fortuna di percorrere la mia strada avendo in qualche modo sempre vicino Pietro, era il mito del mio allenatore e ho avuto anche la fortuna di vederlo allenarsi quando ero ancora un ragazzino. Sognavo di diventare un atleta come lui, dal punto di vista della determinazione, e lo porto ancora oggi a esempio a tutti quelli che si avvicinano allo sport. (Stefano Mei)
- Oltre a perdere un grande uomo di sport perdo un grande amico. Pietro con lo spirito, il sudore e la fatica ha compiuto imprese impossibili, a Mosca nei 200 metri all'uscita di quella curva era quarto e riuscì nella rimonta incredibile. [...] Pietro è un grande esempio per tanti giovani che vogliono intraprendere lo sport, si è sempre battuto contro il doping perché un atleta deve essere leale e pulito, anch'io ho sempre seguito questa sua filosofia. Oggi invece molti atleti pur di avere un quarto d'ora di celebrità sono disposti a tutto, Pietro invece ha sempre avuto dentro di sé lo spirito olimpico, ed io mi sono sempre rivisto in lui, ha sempre gareggiato con la forza del proprio fisico. (Patrizio Oliva)
- Per me, Pietro era come un fratello maggiore, mentre io ero il trait d'union con gli altri due. È sempre stata una persona controcorrente in tutti i campi. Andava dritto per la sua strada, aveva le sue idee e non le abbandonava. Non aveva paura di combattere contro i mulini a vento. Era anche un uomo di grande solitudine. In gara lo si vedeva istrionico, ma in realtà era molto riservato. Anche la malattia, immagino che l'avrà vissuta da solo, circondato giusto dalle persone a lui più vicine. Noi, siamo rimasti spiazzati dalla notizia. E anche il modo in cui se n'è andato, in silenzio, dimostra ancora una volta che non era uomo da telecamere. (Carlo Simionato)
- Pietro Mennea è morto giovane, sessantun anni scarsi, ma era nato vecchio, tormentato da sempre dai problemi della sua terra (era di Barletta, Puglie, si definiva negro d'Italia), ed ha avuto una vita pienissima, quasi affannata, sicuramente logorante, non solo di sportivo anzi di campione dello sport, ma anche di uomo politico, deputato europeo, di personaggio del mondo del lavoro, quattro lauree – scienze politiche, giurisprudenza, lettere e scienze motorie –, uno studio di avvocato, di eterno polemista, e di forte testimonial dell'antidoping dopo essere uscito pulito da ogni sospetto di disinvoltura chimica. In età avanzatella si era pure sposato. Nell'atletica si è costruito campione con una volontà disperata, quasi straziante, nel senso che, assolutamente non dotato dalla natura di quello che si dice fisico strepitoso, si allenava ferocemente, correva acremente e vinceva a muso sempre duro. (Gianpaolo Ormezzano)
- Pietro Mennea è un B.O.A.T., nel senso che lo considero il migliore atleta italiano di tutti i tempi. E non certo perché purtroppo se ne è andato così presto. È pacifico che non si possa stilare una classifica tecnica attendibile, non potendosi paragonare sensatamente sport ed epoche diverse. Il barlettano però è stato molto più di un atleta, molto più degli strabilianti risultati raggiunti. Pietro Mennea è stato, e fortunatamente è, cultura. Cultura nel senso più pieno del termine, e non per le quattro (!) lauree, i venti libri scritti e l'omonima Fondazione. No, Mennea è stato cultura in pista, correndo e soprattutto allenandosi. Diventando il più grande contro tutto e tutti, al lordo di posizioni scomode e indubbi difetti. (Flavio Tranquillo)
- Pietro Paolo è vendetta quasimodica (ohibò): guida noi brutti alla conquista. È un lemure alato. Scopro di amarlo perché mi rappresenta in un cielo proibito. È la fatica esaltata nel dolore, forse qualcosa più dell'eroismo. Viene da mondi lontani, sicuramente non mediterranei. Mi unisce a lui una passione austera, priva di debolezze frivole. È lui l'atleta nell'accezione più sacra. (Gianni Brera)
- Quando ero bambino e poi anche da ragazzo tra noi amici a quello che correva più forte si chiedeva sempre: "Ma chi sei, Mennea?" perché a quei tempi per noi Mennea rappresentava il mito della velocità. [...] Lui è stato il nostro orgoglio, ha affrontato i più grandi corridori e li ha battuti. (Francesco Totti)
- Sembrava in eterna lotta col mondo e in parte lo era. Ha rappresentato molto, non solo nello sport e nell'atletica. La possibilità di riscatto per chi non nasce al centro dell'universo e non ha predestinazione, ne santi in paradiso. Era magnetico, cocciuto, emanava una forza contagiosa e a volte imbarazzante, difficile da reggere e guardare negli occhi. Non sembrava neanche italiano, eppure era il meglio di tante cose che misteriosamente, magicamente il nostro paese ogni tanto sa proporre. (Maurizio Crosetti)
- Si tratta di uno dei più grandi atleti della storia dello sport italiano e mondiale. Sono legato a Pietro Mennea dal ricordo di Mosca dove venne con il piccolo lottatore Maenza a smaltire una forma di ansia che lo aveva preso. L'ho avuto addirittura come collaboratore di segreteria, poi ha fatto quello che ha fatto. Credo che quella vittoria rappresenti la sintesi della personalità dell'uomo prima che dell'atleta: difficoltà interiori superate combattendo con se stesso e poi esplodendo sul campo. Credo che sia uno degli ultimi 'visi pallidi' che si sono visti affermare nelle gare di velocità e poi da lì è cambiata la storia del velocismo. Sono rimasto traumatizzato, sia per l'etá, sia perché era un atleta in tutti i sensi. (Mario Pescante)
- Talvolta un po' diffidente, si apriva solo con una cerchia ristretta di amici. Gli piaceva stare da solo. A Formia, al Centro di preparazione olimpica, aveva una camera tutta per sé. Non era uno che usciva con gli altri, faceva una vita quasi da monaco. Ha avuto come tutti degli amori, due fidanzate, ma era un professionista in tutto e per tutto. Certi atleti vogliono solo staccare. Lui, dopo una gara, pensava subito a quella che sarebbe venuta dopo. Non è mai stato un uomo facile, come tutti i professionisti dello sport. Era anche prevenuto su alcune cose, aveva un certo tipo di idee. Veniva da un ambiente tradizionale, la sua realtà era quella della Barletta di quegli anni. L'atletica è stata per lui un trampolino vero per cambiare vita. (Gianni Merlo)
- Un simbolo italiano nel mondo, e non solo dello sport, ma della volontà, del riscatto che nasce dal Sud che tutti noi italiani abbiamo dentro. Aveva una determinazione e una volontà fortissime il dna italiano. Di tutti noi che ci portiamo dentro il nostro sud. (Cesare Prandelli)
- Un testardo dalla grinta inesauribile. Uno stakanovista degli allenamenti già con i primissimi professori Isef, l'avvocato senza toga Autorino e poi Mascolo per arrivare a Vittori. Instancabile anche sui libri. (Ubaldo Scanagatta)
- Una volta l'ho intervistato per due ore, poi mi sono accorto di non aver acceso il registratore, e lui mi ha rifatto l'intervista: un uomo d'altri tempi. (Gianni Minà)
- Con tutto il rispetto Pietro, meglio tu. La tua schiena piegata, le tue gambe storte, la tua stoffa ruvida. E quelle mani che litigavano con il traguardo, quasi a volerlo raddrizzare. Meglio quella tua curva affamata che sbucava nella felicità. Per noi sarà sempre perfetta così.
- Ha corso in velocità anche l'ultima curva. Ha lottato e sofferto in silenzio. Era orgoglioso, non chiedeva sconti, e ha nascosto a tutti la sua malattia Pietro Paolo Mennea correva storto, ma sapeva stare dritto. E far volare come Modugno togliendo il respiro.
- I duecento metri mondiali di Mennea per noi sono stati rabbia e poesia, talento e geometria, insofferenza e razionalità. E la sua maniera di correrli ci ha sempre fatti restare appesi al finale, meglio di un film giallo: ce la farà o sarà preso prima del traguardo? E lui lì ad arrancare, almeno così sembrava, e invece ecco che lui spuntava dalla curva, ecco che quando lo davano per finito lui cominciava a mangiare i metri e lì veramente cominciavano a scoppiare i cuori, anche quelli più introversi. E lui che finalmente aveva combattuto e vinto il mostro interno che lo azzannava alzava il dito. Non come il padrone che reclama una sua proprietà, ma come uno schiavo che si libera delle catene e mostra orgoglioso il frutto della sua liberazione. Non era un'Italia atletica quella di Mennea: jogging, esercizio fisico, palestra non andavano ancora di moda. E non era un'Italia mentalmente attrezzata ad affrontare alla pari gli avversari. Con Mennea qualcosa cambiò: il suo record dimostrò che non eravamo solo un paese pieno di talenti, spesso incompiuti, ma che avevamo anche la scienza e l'applicazione per costruire un primato che sarebbe durato quasi vent'anni. Lo sprint non era più Little Italy. In questo Mennea è stato e continua ancor oggi ad essere la nostra diversità. Ci ha fatti correre, soffrire, vincere. E soprattutto vivere controvento la nostra fragilità.
- Mennea ci ha divisi, come Coppi e Bartali, si è fatto odiare per le sue polemiche, per le sue contorsioni mentali, perché non ci voleva apatici e indifferenti, ma anzi ci voleva sentire schierati sulla sua pelle. Mennea non è stato il campione freddo che produce record per gli sponsor e per l'audience, ma l'uomo che per vincere ha bisogno di tutti, che è eternamente in lotta con la vita, con il grande nemico. Mennea non capiva come il suo grande avversario Borzov potesse sorridere ai blocchi di partenza. Come fa a essere così sereno?, chiedeva. Per lui davanti c'era solo la sofferenza, la smorfia di fatica, il lavoro atavico per uscire dal buio della caverna.
- Non si era mai visto un ragazzo del sud sfrecciare così veloce, uno che dietro non aveva né piste, né tradizione, ma solo tanta fame. Gliela leggevi in faccia: era magro, tirato, con la smorfia di chi patisce una condanna. Ruvido, sempre in salita, a lottare contro il destino. Conosceva la misura della fatica. Un fisico normale, non un superuomo.
- Per noi resterà sempre quel bianco sgraziato, ingobbito dalla fatica, che sembrava scivolare malamente fuori dalla curva e che un giorno ne riemerse rubando il tempo al mondo. [...] Per noi resterà sempre il piccolo italiano che ce la fece contro il mondo e che per diciassette anni, tanto è durato il suo record nei duecento, ci ha permesso di fare bella figura con gli altri. Gli altri avevano i belli, i felici, i vincenti. Quelli che arrivavano sul traguardo perché il destino aveva deciso così. Noi avevamo questo ragazzo del sud, di Barletta, mai amico di nessuno, mai in pace con se stesso, che per correre non aveva nemmeno una pista, che di sé parlava in terza persona come Cesare. Avevamo il "nero bianco", come lo definirono. Un atleta dai muscoli di seta, dalla volontà di ferro, e dalla rabbia feroce. In anni in cui il pianeta era dominato dai campioni scientifici dell'est, dagli afroamericani fisicamenti strepitosi, Mennea si mise in mezzo, si caricò l'Italia sulle spalle, anche borbottando, e lavorando come una bestia ci portò lassù, in cima alla velocità, perché tutti potessimo guardare la terra dall'alto in basso. Grazie a Mennea, correvamo.
- Pietro sfidò gli sprinter americani, li batté e ribatté, Little Italy non esisteva più. Loro erano magnifiche statue nate per correre, Pietro uno sgorbio con muscoli di seta.
- [Sul record del mondo sui 200 m] Quel giorno l'Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal meridione, era magro, un po' storto, molto contorto. Figlio di un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l'atletica addosso. Corsei primi cento in 10" 34 e i secondi in 9" 38. Una progressione strepitosa: dai 100 ai 150 metri alla velocità di 40 chilometri orari. Quell'anno l'Italia capì che correre alla Mennea era una scienza. Il professor Vittori studiava la formula, Pietro Paolo la realizzava. Trent'anni dopo un record così neorealista, made in Italy, non sembra più possibile.
- Era chiuso e scontroso. Incredibilmente suscettibile. Io ero Platone, lui Aristotele: agli antipodi. Del tormento ed estasi di Michelangelo, Mennea era solo tormento.
- La verità è che ognuno è campione del suo tempo: io vivevo di slanci dilettantistici, lui portò all'esasperazione il concetto di professionismo. Io correvo sulla terra battuta, lui sul sintetico. Io ero per lo sport come divertimento e lui come affermazione del proprio ego.
- [«Perché lei e Mennea non vi siete mai piaciuti?»] Perché appartenevamo a mondi diversi e antitetici. Io con il sorriso e la gioia di fare atletica, lui sempre tormentato e sofferente: il più grande masochista della storia della velocità.
- Rispettavo la sua dedizione e il suo atteggiamento maniacale. Lo sport, però, deve essere esempio per i giovani e io ancora oggi mi chiedo: quanto è stato utile tramandare quell'immagine di sofferenza?
- Scompare un asceta dello sport, interpretato sempre con ferocia, volontà, determinazione. Mennea è stato un inno alla resistenza, alla tenacia e alla sofferenza. All'atletica italiana manca questa grande voglia di emergere e di mettersi in luce. Tra noi c'è stato un rapporto molto dialettico: per lui l'atletica era un lavoro, io lo facevo per divertirmi; lui era pragmatico, io idealista. Il nostro è stato uno scontro, come tra Platone e Aristotele.
- [«Le mancherà Mennea almeno un po'?»] Sono d'accordo con Hegel quando diceva che il progresso è la dialettica degli opposti. Da ieri, ecco, mi mancherà il mio opposto.
- [Rispondendo alla domanda sulla diversità tra Valerij Borzov e Pietro Mennea.] Quanto sono diversi un tipico italiano e un tipico slavo. Però avevamo in comune il desiderio di interrompere il monopolio degli sprinter americani. E l’Europa può essere orgogliosa di noi: ce l’abbiamo fatta.
- Confesso che a volte provavo a sfruttare l’emotività di Pietro e la mia maggiore freddezza. Quando ci riscaldavamo andavo da lui e gli dicevo: “Mi sembra che il manto della pista sia troppo morbido, qui c’è il rischio di farsi male”. Giocavo sulla sua emotività che lo portava appunto a evitare di farsi male più che a correre veloce”.
- L'agonismo nel sangue. E nel cuore. Aveva, secondo me, tanto talento quanto infinito coraggio: lo dimostrò quando corse la sua quinta Olimpiade, a Seul.
- Pietro Mennea ha dato moltissimo all'Italia. Ha ricevuto tantissimo dagli italiani, per i quali era ed è rimasto "la Freccia del Sud". Era un uomo tenace, irriducibile; a volte testardo sino all'insopportabilità: chiedete a chi lo ha allenato. Bizzoso e cocciuto, voleva riconoscimenti che andassero aldilà dell'ambito sportivo. La sua vita era tutto un fissare nuovi record. Per questo, ha studiato come un forsennato: partendo da ragioniere, si è laureato due, tre, quattro volte. Scienze politiche, scienze motorie, legge, lettere. Voleva dimostrare che un atleta eccezionale i muscoli li aveva pure nel cervello e che correre più veloce del vento era un mezzo, non un fine. Ci è riuscito, con spirito polemico. Anzi, più che polemico, battagliero: in fondo, il suo carattere.
- Una persona – odio che si dica: un personaggio – come Mennea pensavamo non dovesse mai lasciarci. Infatti, è solo morto. Nel nostro immaginario è vivo più che mai. Eccolo ancora lì che corre, sgomita, sbuffa, rimonta, soffre, vince. E polemizza, litiga, si batte, si infiamma. E solleva sempre in aria quel dito, come dire al mondo, oggi sono io il Numero Uno, e non era arroganza. Era istinto: lui si sentiva (e lo fu) il piè veloce Achille.
- Io e Pietro lavoravamo lontano dai riflettori. Eravamo due atleti fuori moda. Lo siamo rimasti. Caparbi, sinceri, due che non si adeguano. Lui anche più di me. Siamo cresciuti in un mondo meno asettico, dove c'era più spazio per essere veri. Quando abbiamo smesso non ci hanno mai coinvolti nello sport. Troppo spigolosi, poco comunicativi.
- La fatica che abbiamo condiviso. Le rivincite che ci siamo presi. Ci allenavamo insieme a Formia in solitudine e con pochi mezzi. Quando mi demoralizzavo guardavo dall'altra parte della corsia dove correva Pietro. Mi dava coraggio. Non ce lo siamo mai detto, ma credo che in quel deserto di tutto, senza parametri, senza aiuti, senza niente e con la paura di sbagliare, siamo stati di stimolo l'uno per l'altra.
- Pietro appariva un ragazzo chiuso, qualche volta inavvicinabile, scontroso. Non era vero: lui era delizioso, dolce, intelligentissimo, in lotta continua con la vita per dimostrare non solo il suo valore ma che ogni traguardo non era impossibile. Mi diceva: hai visto, ho corso più forte degli americani, ha fatto il record del mondo. Di quel record, di quel 19"72, era fiero. E sapeva sorridere anche se non lo faceva spesso perché era in perenne lotta con se stesso.
- Se n'è andato un pezzo della mia vita. È un momento di tristezza incredibile, per me che ho vissuto anni bellissimi insieme a Pietro, allenandoci fianco a fianco, sopportando gli allenamenti insieme. Ci facevamo coraggio. Erano anni in cui non avevi la possibilità di avere riferimenti o qualcuno che ti potesse dare consigli. L'atletica in quegli anni era un fai da te, ci siamo costruiti con il nostro carattere e il nostro modo di fare ed abbiamo fatto risultati importanti. Pietro è stato grandissimo.
- Aveva un eccesso di senso della responsabilità; secondo me questa era addirittura una sua debolezza, che lo spingeva ad andare oltre.
- Di Pietro ho un ricordo lungo una vita, che non posso dimenticare. Lo vidi correre per la prima volta ai Campionati italiani giovanili, sulla pista di Ascoli Piceno, nel 1968, nei 300 metri: lì capii che era un talento naturale, una forza della natura. Lo conobbi nel 1970, quando il suo allenatore Mascolo lo portò a Formia. Pietro ha tracciato la vita metodologica del training, affermando con i fatti i timori che un velocista si potesse allenare poco, magari solo perché era stato dotato da madre natura. Pietro ha invece dimostrato che, allenandosi in maniera meticolosa, poteva migliorare. Le doti che gli riconosco sono l'impegno e la testardaggine: era davvero un martello pneumatico.
- Era sempre atterrito, assaliva se stesso, aveva sensi di colpa che si generavano uno dall'altro, anche per colpa della madre, fervente cattolica. Non gli stava mai bene niente e niente gli bastava, era sempre in cerca di un'immaginaria perfezione. Ma la verità è che era proprio questa la sua magica benzina: la più assoluta dedizione al dovere e alla fatica.
- Lui era capace di affrontare qualunque sfida, fisicamente parlando. L'importante è che non gli si chiedesse di alterare il suo stile di vita, che nessuno lo costringesse a fare anche una minima bisboccia. O a sorridere a comando.
- Macchina umana nel vero senso della parola, con la sua componente temperamentale, caratteriale e psichica. Che gli ha permesso di sfruttare strade nuove e considerate impercorribili, nel periodo in cui i tempi passavano dal rilevamento manuale a quello elettronico.
- Pietro aveva quasi una personalità sdoppiata. Era diffidente ma anche molto responsabile. Aveva paura ma era spietato. L'oro olimpico ne sbloccò i traumi, antichissimi e ben radicati. Il suo grande terrore era: gareggio da primatista del mondo e posso perdere. Non l'accettava.
Note
[modifica]- ↑ a b c Dall'intervista di Luca Argentieri, La voglia di Pietro, la Repubblica, 26 gennaio 1988.
- ↑ a b c Citato in Emanuela Audisio, Il monaco della velocità, la Repubblica, 22 marzo 2013.
- ↑ Citato in Morte Mennea: l'amicizia con Mourinho. "Mi ha fatto diventare tifoso dell'Inter", Gazzetta.it, 21 marzo 2013.
- ↑ a b c d Citato in Ubaldo Scanagatta, 50 anni di Credito Sportivo. Mezzo secolo di campioni; citato in Addio a Pietro Mennea, la Freccia del Sud, Ubitennis.com, 23 marzo 2013.
- ↑ a b c d e f Citato in Pietro Mennea, spinter, oro e umiltà: le frasi, Repubblica.it, 21 marzo 2013.
- ↑ a b c Citato in Morte Mennea. La condanna al doping: "Una scorciatoia per arrivare al successo", Gazzetta.it, 21 marzo 2013.
- ↑ a b Citato in Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, Dalai Editore, 1992, p. 46, ISBN 88-8598-826-2
- ↑ a b Citato in Maurizio Crosetti, Business, ma non troppo. Ecco il calcio di Mennea, la Repubblica, 5 febbraio 1998.
- ↑ Da un'intervista rilasciata il 10 agosto 2012; citato in Mennea: ultima intervista all'Ansa, "Migliore è Bolt", Ansa.it, 21 marzo 2013.
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