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Evelyn Franceschi Marini

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Evelyn Franceschi Marini, nata Evelyn de la Touche e nota anche come Evelyn (1855–1920), storica dell'arte, giornalista e scrittrice italiana di origini britanniche.

Antichi pittori italiani

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  • Cimabue si mostrò svogliato in quanto allo studio, e solo avido di imparare il disegno, per cui sentiva una forte inclinazione. (p. 11)
  • Duccio di Siena visse e dipinse poco dopo il Cimabue e precedette Giotto. Egli forma dunque, in quel periodo intermediario, come un anello di congiunzione tra quei due maestri fiorentini; fu capo di una nuova scuola di pittura che, quantunque ispirata alla maniera di quei sommi, serbò nonostante una nota tutta propria di soave e graziosa originalità. (p. 54)
  • Simone Martini fu uno dei più grandi maestri della scuola Senese trecentista.
    Il suo genio insieme soave e forte sarebbe certo bastato ad immortalarlo, se il suo nome non fosse anche stato eternato dal Petrarca in due suoi sonetti.
    Il sommo Poeta aveva, difatti, debito di gratitudine verso il pittore, perché gli aveva dipinto il ritratto di Madonna Laura, la dama dei suoi pensieri, e scrivendo ad un amico ne disse: «Ho conosciuto due pittori d'ingegno ed eccellenti, Giotto di Firenze, la cui fama tra i moderni è grande, e Simone da Siena». (p. 56)
  • Alla Corte di Avignone[1], Simone Martini fu molto onorato, e, a quanto sembra, generosamente retribuito: perché egli poté con i guadagni fatti comprarsi case e terreni nella sua nativa Siena, ove sperò sempre far ritorno e passare la sua vecchiaia.
    Ma egli non doveva più rivedere la sua dolce patria, perché morì ad Avignone nel Luglio 1344, in ancora verde età, [...]. (p. 58)
  • La vita di Pietro Lorenzetti è più oscura di quella del suo illustre fratello [Ambrogio]. Egli deve aver menato un'esistenza alquanto meno brillante, più ritirata e modesta, quantunque anch'essa del tutto dedicata all'arte, come lo provano i mirabili dipinti da lui lasciati.
    Egli lavorò a Siena, Firenze, Arezzo, Pistoia ed anche a Roma ove, secondo il Vasari, fece «molte cose», che andarono distrutte quando la Basilica di San Pietro fu riedificata. (p. 66)
  • Se Masolino rappresenta la soavità e la grazia originale e un po' bizzarra nella pittura, Tommaso di S. Giovanni, meglio conosciuto col soprannome di Masaccio, ne raffigura il vigore ed il verismo. (p. 87)
  • Gli affreschi del Masaccio al Carmine[2] sono tra i più preziosi tesori artistici del mondo. Quella piccola cappella dei Brancacci è stato tempio e scuola d'arte ad ogni successiva generazione di pittori; lì, sono andati a studiare e a cercarvi ispirazione i più famosi artisti, quali Ghirlandaio, Botticelli, Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, Michelangelo e perfino il divino Raffaello; ed anche oggi vi si recano in artistico pellegrinaggio i più celebri pittori moderni. (p. 91)
  • Masaccio morì in giovane età, non ancora trentenne, nella piena forza del suo mirabile ingegno; v'è chi dice forse avvelenato da qualche rivale geloso della fama di lui. (p. 91)
  • Tra gli antichi pittori fiorentini, uno dei più originali fu Paolo Uccello [...].
    Appassionato per gli animali, riusciva bravissimo nel dipingerli; e specialmente gli piaceva ritrarre nei suoi quadri gli uccelli, tantoché gli venne dato il soprannome di Paolo Uccello. (p. 107)
  • Altra predilezione [oltre a quella per gli uccelli] del bravo artista [Paolo Uccello] era il color verde che, difatti, predomina nei suoi quadri. Portava poi all'esagerazione l'amore della prospettiva e, come dice il Vasari: «Consumando tutto il tempo in questi ghiribizzi si trovò, mentre che visse, più povero che famoso».
    Si racconta, a proposito di questa sua passione, che egli passava spesso la notte nello studio di qualche difficile disegno, e, quando veniva avvertito che era già tardi e tempo di andar a letto, usava rispondere: – Oh! lasciatemi in pace, non mi disturbate! Oh! che dolce cosa è questa prospettiva! (p. 107)
  • [Andrea del Castagno] Di carattere impetuoso, aspro e violento, – vero tipo dell'uomo dei monti, un po' solitario e selvaggio, – sembrava che, perfino nei suoi lavori, si riflettesse l'indole sua burrascosa ed irrequieta. (p. 116)
  • [Andrea del Castagno] Questo pittore fu soprannominato Andrea degli Impiccati perché venne incaricato dalla Signoria di Firenze di dipingere sulla facciata del Palazzo del Podestà i ritratti di quei cospiratori contro i Medici, che furono ivi giustiziati. (p. 117)
  • [...] di lavori certi di Domenico Veneziano a Firenze esiste soltanto la bella tavola da lui dipinta per l'altare di Santa Lucia de' Bardi e che ora ammirasi nella galleria degli Uffizi.
    Questa pittura costituendo appunto un tesoro rarissimo ha per i devoti dell'arte un interesse speciale, e pel suo squisito colore fa ben comprendere l'invidiosa gara sorta allora tra gli artisti contemporanei del pittore per rapirgli il magico segreto del suo pennello ammaliatore. (p. 124)
  • [...] tutta l'opera più importante di Domenico Veneziano, è disgraziatamente andata perduta; e sono distrutti anche gli affreschi ch'egli dipinse insieme al discepolo Piero della Francesca, nella chiesa di Loreto.
    Però quel poco che rimane ancora della pittura di Domenico, basta per farci ammirare e gustare questi pittore finissimo, questo grande maestro quattrocentista, la cui vita operosa, si avvolge in una nebbia di mistero. (p. 126)
  • [...] il Gozzoli, al pari di quasi tutti i pittori suoi contemporanei, commetteva mille graziosi anacronismi nelle sue opere di data e di ambiente; né egli si curava punto di ciò che oggi chiamasi colore locale, cioè di dare al soggetto che stava dipingendo la vera intonazione storica e geografica, o di vestire i suoi personaggi secondo la moda del paese e dell'epoca.
    Egli non badava difatti a tali sottigliezze, e rappresentava invece le sue figure nel costume dei propri contemporanei; e per lo sfondo ai suoi quadri ed affreschi si ispirava al bel paesaggio toscano che vedeva intorno a sé. (p. 153)
  • L'ultima opera importante di Benozzo Gozzoli, la più grandiosa forse per le sue proporzioni, e alla quale consacrò gli ultimi anni di sua vita fu la serie di affreschi nel Campo Santo di Pisa. [...]
    Il Gozzolì incominciò quel lavoro, che doveva durare sedici anni, coll'affresco rappresentante l'Ubriachezza di Noè, e nel quale trovasi la famosa figura detta la Vergognosa di Pisa, una donna che fugge, scandalizzata, coprendosi il viso colle mani.
    In questo affresco bellissimo, Benozzo Gozzoli, col suo solito realismo, si valse del soggetto per rappresentare una vendemmia toscana; difatti tutto il brio, tutto il colore, il sole, il tripudio gioioso della vendemmia sembrano qui concentrati; tutto vi è verde, fresco, ridente; le viti cariche di grappoli color ambra e porpora, si intrecciano a ghirlanda tra i bassi pioppi; intanto passano e ripassano liete brigate di fanciulle e di giovani recanti sul capo o in braccio le colme paniere; cantano e ridono i vendemmiatori, bevono il vin nuovo ed inneggiano; mentre il vecchio Noè, nel suo profondo letargo, briaco, giace all'ombra delle proprie vigne noncurante ed inconscio di ciò che avviene attorno. (pp. 153-154)
  • Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio, fu contemporaneo e amico del Botticelli, ma assai meno profondo di questo nel sentimento.
    Mentre Sandro Botticelli, pittore del simbolismo mistico, sacrificò talvolta la forma all'idea, il Ghirlandaio invece, fu pittore verista e grande maestro del disegno; egli non si distinse per sublimità d'ispirazione, né per profondità di pensiero, né per originalità di concetto; ma piuttosto per le sue cognizioni tecniche dell'arte e per la sua maestria nel disegnare le figure ed aggrupparle abilmente con bellissimi e talvolta artificiosi effetti di architettura e di paesaggio. (p. 275)
  • [...], Domenico Bigordi esordì nell'arte come orefice, e tant'era la sua abilità nel cesellare l'oro e l'argento per formarne quei graziosi serti con i quali le donne fiorentine usavano allora adornarsi il capo, che gli venne dato il soprannome di Ghirlandaio. (p. 275)
  • Filippino Lippi fu figlio di Fra Filippo Lippi e di Lucrezia Buti l'ex monaca. Egli ereditò il genio pittorico del padre, che in alcune sue opere superò non tanto per vigorìa di disegno quanto per grazia di forma e di sentimento e ricchezza di fantasia. (p. 291)
  • Roma, l'immortale alma-mater dell'umana civiltà, esercitò anche sull'animo suscettibile di Filippino Lippi una seduzione irresistibile; la vista dei suoi antichi monumenti grandiosi fu per lui come una rivelazione del bello classico, ne rimase suggestionato, e, d'allora innanzi, in tutte le sue opere vedesi qualche reminiscenza di antica architettura romana. Certo è che quella visita all'eterna città gli lasciò un ricordo indimenticabile non solo, ma ebbe anche un'importante influenza sul suo ingegno.
    Difatti, d'allora in poi, la sua arte si perfezionò, e la sua maniera si fece più larga e più vigorosa, come ne fa prova l'opera da lui eseguita al suo ritorno a Firenze nella Cappella Strozzi a S. Maria Novella, opera considerata suo capolavoro. (pp. 294-297)
  • Simile a molti altri grandi artisti quattrocentisti, anche il Francia nacque da modesta famiglia (in Bologna nel 1450) ed incominciò a studiare disegno sotto un maestro orefice.
    All'arte dell'oreficeria che richiede tanta delicatezza di tocco, esattezza d'occhio e gusto fine, Francesco Francia dovette, insieme a quel primo insegnamento e primo tirocinio, quella sicurezza nella forma e quella precisione nei particolari, che più tardi lo distinse come pittore. (pp. 301-302)
  • Come tutti i pittori del suo tempo, anche Bartolommeo studiò gli affreschi immortali del Masaccio al Carmine[2], e da questi si ispirò per dipingere nel chiostro dell'Ospizio di S. Maria Nuova un grande affresco rappresentante il Giudizio Finale.
    Di questa pittura, che al dire del Vasari, fece acquistare all'artista «fama grandissima», rimangono oggi soltanto poche traccie; ma tuttavia, da quel poco si può giudicare ancora quanto ne dovesse essere grandioso il concetto e con qual tocco largo e vigoroso fosse eseguito. (pp. 312-313)
  • Nel tempo in cui Bartolommeo dipingeva ancora insieme col suo amico Albertinelli[3], predicava in Firenze fra Girolamo Savonarola. Quelle prediche impressionarono profondamente il pittore che ne rimase entusiasta e divenne devoto ammiratore e discepolo del grande Domenicano.
    Fu allora, nel Carnevale del 1477, che, come Lorenzo di Credi, Botticelli ed altri artisti fiorentini, anche Bartolommeo, per obbedire alle ingiunzioni dell'austero predicatore iconoclasta, sacrificò nei grandi auto-da-fè, accesi dal fanatismo popolare, quasi tutti i suoi quadri e disegni di soggetto profano! (pp. 313-314)
  • L'inclinazione di Leonardo per la pittura si rivelò in modo strano: negli ozi di un'estate, mentre si trovava col padre e la famiglia in villa, il giovane si era divertito a dipingere su una rotella – o tondo di legno – un mostro composto di un insieme di brutti e schifosi animali ed insetti, quali serpi, scorpioni, ragni, nottole, lucertole, rospi ed altri, ch'egli aveva raccolti e copiati dal vero. Quel mostro era così orribile, e nello stesso tempo così vivo e naturale, che incuteva spavento a chi lo vedeva, e fu giudicato meraviglioso per essere stato ideato e dipinto da un così giovane artista. (pp. 327-328)
  • Bernardino Luini fu soprattutto eccellente nell'affresco, e le chiese di Milano sono ricche delle sue pitture murali; il colorito vi è assai soave e ricco; egli prediligeva le tinte delicate, quali il grigio, il rosa, il verde ed il color violetto; amava pure unire in modo armonioso il celeste col verde (come Correggio il celeste col rosa) e dava molta importanza ai suoi colori. (p 354)
  • [Bernardino Luini] Le sue figure di Madonne e di Santi sono ispirate ad una soave e quasi mistica devozione; in esse si ritrova quasi sempre lo stesso modello femminile assai dolce e grazioso, dal viso ovale, dalla larga fronte serena incorniciata da bella chioma ondulata leonardesca, dai grandi occhi quasi sempre abbassati in atto pensoso, e dalla bocca atteggiata ad un lieve e modesto sorriso. Come il Botticelli, anche il Luini ha saputo mettere nello sguardo materno delle sue Madonne una profetica mestizia; e, come Leonardo, egli ha pure raggiunto il colmo dell'arte nel tenue sorriso – vago raggio di sole morale – che illumina il viso pensoso delle sue donne e dà loro una così fine grazia spirituale. (pp. 354-355)
  • [Il Sodoma] [...], come artista fu impareggiabile, come uomo era moralmente molto imperfetto! Di umore stravagante e capriccioso, venne soprannominato il «Mattaccio». Amante del lusso, del piacere, del dolce far niente, egli campava spensieratamente, senza curarsi dell'indomani e lavorando sul serio solo quando ne veniva costretto dalla necessità, e come dice il Vasari «il suo pennello ballava secondo il suon de' denari». (pp. 362-363)
  • [Il Sodoma] Appassionato per gli animali, ne teneva presso di sé di ogni specie, tanto che la sua piccola casa pareva un'«Arca di Noè», piena di «tassi, scoiattoli, bertuccie, barberi da correre palii, cavallini dell'Elba, ghiandaie, galline nane, tortore indiane ed altri sì fatti animali, quanti gliene potevano venire alle mani»[4]. Ma tra tutte quelle bestie, la preferita del pittore era un grosso corvo nero, dal becco e dalle zampe gialle, che aveva imparato così bene a pronunziare il nome del padrone, Giannantonio, ed imitare il suo modo di parlare, che, quando questi era fuori e qualcuno picchiava alla porta, il corvo rispondeva per lui, colla medesima sua voce! (p. 363)
  • L'opera di Andrea del Sarto è plasticamente bella e perfetta, ed attira ed incanta l'occhio; ma essa non possiede quel fascino mistico e suggestivo, quel sentimento profondo, quel senso altamente spirituale che distinguono le pitture del divino Leonardo o del Botticelli. Se manca, tuttavia, ad Andrea l'ingenuità soave de' mistici, vi è una umanità e una certa malinconia nelle sue figure che obbliga a pensare. (p. 382)
  • Nulla di mistico, o di suggestivo, nell'opera di Andrea; egli vide ed amò il bello e seppe interpretarlo vivacemente, nulla più; ma ciò è già molto, e serve per soddisfare il gusto popolare. Perciò Andrea del Sarto è forse, tra tutti i pittori fiorentini, il più popolare nel vero senso della parola. (p. 382)
  • Il Rinascimento nel suo apogeo, cioè appunto nel periodo in cui dipinse Raffaello, fu l'epoca unica, nella storia del mondo moderno, in cui l'arte arrivò ad esprimersi con una perfezione tale di forma e di sentimento, non mai ancora sognata, né più raggiunta dopo quel tempo, per un equilibrio completo tra l'ideale e il reale, tra l'anima e il corpo, tra l'arte e la natura. (p. 397)
  • In questo periodo meraviglioso per l'Italia [il Rinascimento], che durò circa un secolo, compreso tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento, sembrerebbe che, per qualche strana ed insolita munificenza della fortuna, L'Italia desse una così ricca fioritura di genio, da esaurire in tale sforzo la sua potenza creatrice; poiché, dopo Michelangelo, l'arte – come pianta stanca di aver dato tanta abbondanza di frutti – cadde nel languore, per poi morire d'inedia verso la fine del Seicento. (pp. 397-398)
  • Giulio Romano o Pippi, come era più famigliarmente chiamato, dotato di un bell'ingegno, di una indole vivace e geniale, di un fisico piacevole, era assai popolare tra gli artisti di Roma, sua città nativa. [...] Valentissimo disegnatore e dotato di una fantasia vivace ed esuberante, egli riuscì più specialmente nell'affresco, ove occorre sicurezza di matita e rapidità di pennello, e lavorò molto insieme col maestro [Raffaello] al Vaticano ed alla Farnesina. (pp. 424-427)
  • [...] la sala [nel palazzo Te di Mantova] ove il pittore [Giulio Romano] sfogò maggiormente la sua fantasia bizzarra ed ingegnosa fu quella dei Giganti, ove rappresentò i Titani i quali volendo prendere d'assalto l'Olimpo, vengono respinti e fulminati da Giove.
    Difatti, in alto, sul trono, siede Giove e scaglia i suoi fulmini contro i giganti che precipitano a basso, mentre che a quello spettacolo terribile tutte le Dee e le ninfe della corte celestiale, guardano spaurite e fuggono chi di qua, chi di là, per mettersi al riparo. E per rendere più orribile quella scena, Giulio ebbe la strana idea di fare costruire la sala con le porte e le finestre fuori piombo, come se davvero i muri stessero per crollare per effetto del terremoto! Non sappiamo a quale uso fosse destinata quella sala – certo per il suo tetro aspetto non doveva invogliare di starvi a lungo – ma essa rimane tuttora quale testimonianza curiosa della fantasia esuberante e si direbbe Michelangiolesca, del grande pittore romano. (p. 429)
  • Le tendenze artistiche di Michelangelo si rivelarono di buon'ora, ma non trovarono da prima incoraggiamento nella famiglia del giovane. Difatti, anche in questo, diversamente da Leonardo e da Raffaello i quali crebbero in un ambiente favorevole allo sviluppo del loro genio in erba, Michelangelo, invece, incontrò nel padre suo una opposizione seria. (p. 437)
  • [...] a destare la vera e feconda scintilla dell'arte quattrocentista in Venezia giunse il soave pittore umbro Gentile da Fabriano[5] il quale dipinse nel palazzo pubblico di Venezia, per ordine del Senato, una grande battaglia navale. Quel bell'affresco andò poi distrutto, forse nel famoso incendio del 1577; ma l'influenza del delicato pittore umbro fu feconda ed ispirò il primo vero periodo dell'arte Veneta; [...]. (p. 492)
  • Il modo di dipingere ad olio, (già praticato, come sappiamo, a Firenze, sul principio del quattrocento, dal grande pittore Domenico Veneziano) era stato introdotto a Venezia circa la stessa epoca da un certo Antonello da Messina che l'aveva, alla sua volta, imparato dai Fiamminghi. Si racconta in proposito, che Antonello essendo assai geloso di questa sua nuova arte, non voleva insegnarla ad alcuno; e che, per potergli rapire il prezioso segreto, Giovanni Bellini, travestito da ricco patrizio veneto, si fece ritrarre da lui, e così, durante la posa, riuscì ad imparare il metodo. (pp. 492-493)
  • Giovanni Bellini, il più fine e spirituale dei vecchi maestri veneziani, [...] fu molto stimato anche dai suoi contemporanei, e giudicato come «il migliore dei pittori» dal celebre Alberto Dürer. (p. 493)
  • [Lorenzo Lotto] Egli dipinse in modo originale e grazioso, con una curiosa nota di verismo e con una minuzia e finitezza nei particolari, che ricorda un poco la maniera del Carpaccio. Egli amava di trattare in piccole scene famigliari dei soggetti religiosi, dandovi un'impronta locale ed intima, come per esempio nella sua Annunciazione conservata in una Chiesa di Recanati. (p. 500)
  • Quasi contemporaneo del Bellini fu Carlo Crivelli (nato tra il 1430 e il 1440 e morto dopo il 1494), lo strano pittore del pianto e del dolore. Egli dipinse di preferenza la Pietà e mise nell'espressione delle sue figure un sentimento quasi convulso di angoscia. Usava firmare i suoi dipinti: Karolus Chrivellus venetus, oppure Opus Caroli Crivelli veneti. La forma nei dipinti del Crivelli è ancora un po' dura e rigida, né possiede la grazia del Bellini; egli è un primitivo, ma un primitivo di una rara e strana e squisita originalità. (pp. 500-501)
  • Il Carpaccio era un pittore finissimo e minuzioso che ricercava l'effetto ed il realismo nei suoi quadri. Perciò egli rappresentava i personaggi biblici non nel costume orientale del loro tempo, ma vestiti invece nel ricco costume veneziano del quattrocento. (p. 506)
  • Se egli [Vittore Carpaccio] non eguagliò il suo maestro Giovanni Bellini nel sentimento e nel disegno, né per vivacità di colore, lo superò forse nell'originalità della composizione e nella forza descrittiva pittorica. (p. 506)
  • [Sebastiano del Piombo] Per ordine del Chigi[6], egli si mise a lavorare nella Farnesina; e in quella stessa sala terrena ove Raffaello aveva allora terminato di dipingere il Trionfo di Galatea, Sebastiano frescò alcuni paesaggi ed una gigantesca figura di Polifemo.
    Quel suo stile veneziano, dai ricchi colori, dalla forma perfetta, larga e pastosa, sembrò nuovo e piacque ai Romani, e Sebastiano divenne in breve il pittore di moda, tanto più perché era valente ritrattista. (p. 544)
  • Mentre che Sebastiano dipingeva a Roma, ove, per la generosità del Chigi, menava vita agiata, gli venne conferito dal Papa l'Ufficio del Piombo[7] assai da lui ambito, e che, essendo dignità della Curia Vaticana, lo obbligava a rivestire l'abito monacale.
    Così egli divenne Fra Sebastiano del Piombo; ma poiché, come dice il proverbio l'abito non fa il monaco, quest'onorificenza semi religiosa non lo distolse dal suo modo allegro di vivere; [...]. (p. 547)
  • Meno abile colorista del Tiziano, [Tintoretto] lo superò nell'arditezza del concetto e nella potenza del disegno. Sommo maestro del chiaroscuro e dello scorcio audace, egli fu il vero Michelangelo della pittura Veneziana. (p. 553)
  • Grande ricercatore dell'effetto drammatico e decorativo, il Tintoretto si valse molto della luce viva o dell'ombra oscura, delle grandi masse aeree soleggiate e nuvolose, per dare l'intonazione lieta o triste ai suoi quadri ed accentuarne il sentimento. Figlio del popolo e della natura, nemico del classicismo, egli dipinse le sue scene bibliche sotto un aspetto moderno, e i personaggi sacri sotto il costume dei patrizi o dei popolani Veneziani, ciò che diede una nota viva ai soggetti vecchi. (pp. 557-558)
  • Al pari del Bernini, il celebre scultore che lo aveva preceduto, il Tiepolo fu alquanto artificioso e mirò più all'effetto che al sentimento. Nonostante, egli ebbe il merito di risanare il gusto popolare, viziato dalle tenebrose e manierate produzioni di quasi un secolo di mediocri pittori.
    Allora, sotto al suo pennello magistrale ed ammaliatore, rifiorì, come per incanto, l'antico smagliante colorito veneziano, lo splendore della forma, il brio e la vastità della composizione, le meraviglie del chiaroscuro e le sublimi arditezze dello scorcio. (p. 578)
  • Domenichino fu profondo nello studio della natura, in ispecie della fisionomia, e del sentimento. Si racconta che egli usava frequentare i mercati, le piazze e tutti i ritrovi pubblici, ovunque si radunava il popolo, per studiare la fisionomia, il gesto, il modo di muoversi e di parlare del volgo; poi, tornato a casa, faceva rapidi schizzi di ciò che gli aveva colpito la fantasia. Così egli si mostrò sempre verace nel rappresentare il sentimento, tanto che un critico, il Bellori[8], disse di lui «che riuscì a delineare gli animi ed a colorire la vita». (p. 600)
  • Simile ai Carracci[9], anche il Domenichino fu un grande colorista e si distinse per l'impasto dei colori e per l'eleganza della forma; egli era lento nel lavoro, perché ricercava sempre la perfezione, il finito.
    Si narra di lui, che accusato dai frati di una chiesa ove dipingeva, di perdere il tempo stando per delle ore immobile davanti alla pittura, senza toccarla, egli rispose, meravigliato dell'ingiusto rimprovero:
    –Eppure! Io la sto continuamente dipingendo entro di me!– (p. 601)
  • [Domenichino] Quantunque la sua maniera fosse grandiosa, egli era ricercatore del minuzioso nei particolari, come si può osservare nel suo capo-lavoro la Comunione di S. Girolamo ove ogni accessorio è curato con la stessa esattezza delle figure.
    Questo grande quadro che può numerarsi tra i più celebri del mondo artistico, trovasi nella Pinacoteca del Vaticano, di faccia alla ancora più celebre Trasfigurazione di Raffaello; ed il confronto dei due quadri prova la verità del parere di Poussin[10], cioè che il Domenichino fosse il miglior pittore dopo Raffaello. (p. 601)
  • Simile a Pietro Perugino, il quale nella sua bottega di Perugia, si era lasciato andare in vecchiaia a fabbricare quadri devozionali, alla dozzina, per solo amor del guadagno, Guido Reni, aveva fatto del suo studio di Bologna una specie di officina, di dove uscivano a centinaie pitture originali e copie dei suoi quadri eseguite dagli scolari e poi ritoccate da lui. Si dice, che tanto grande era la richiesta dei quadri di Guido, per ornare chiese e palazzi, ch'egli lavorava ad un tanto l'ora per i negozianti, i quali aspettavano presso il suo cavalletto pronti a portare via la tela appena terminata ed ancora umida di colore! (p. 614)

Note

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  1. La sede del papato, dal 1309 al 1377, fu spostata da Roma ad Avignone.
  2. a b Nella basilica di Santa Maria del Carmine a Firenze.
  3. Mariotto Albertinelli (1474-1515), pittore italiano.
  4. Vasari. [Nota dell'Autrice]
  5. Gentile, pur se attivo in varie regioni italiane, tra cui l'Umbria, la Lombardia, il Veneto, la Toscana e il Lazio, era nato nella marchigiana Fabriano.
  6. Agostino Chigi (1466 – 1520), banchiere senese e mecenate; nel rione Trastevere di Roma fece costruire ed affrescare villa Farnesina.
  7. Piombatore pontificio, ossia guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche.
  8. Giovanni Pietro Bellori (1613-1696), scrittore e storico dell'arte.
  9. I pittori Agostino (1557-1602), Annibale (1560-1609) e Ludovico Carracci (1555-1619).
  10. Nicolas Poussin (1594-1665), pittore francese.

Bibliografia

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Altri progetti

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