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Le novelle della Pescara

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Le novelle della Pescara
AutoreGabriele D'Annunzio
1ª ed. originale1902
Genereprose
Lingua originaleitaliano

Le novelle della Pescara è un'opera di Gabriele D'Annunzio del 1902, pubblicata dai Fratelli Treves in sei volumi.

Si tratta di racconti ambientati nell'allora paese di Pescara (divenuto capoluogo di provincia nel 1927 grazie a personalità come lo stesso D'Annunzio) e nella campagna circostante. L'opera nasce come raccolta di canti, con temi diversi, che acquisiscono unitarietà proprio in relazione all'elemento caratterizzante che è il territorio. I personaggi sono presentati come impulsivi, irruenti e talvolta feroci.

Come Verga, D'Annunzio si concentra sulle emozioni del popolo e sulle sue rivolte, ma alla descrizione delle rivendicazioni sociali preferisce studiare gli stati d'animo, le energie quasi primordiali che vengono sprigionate nel momento della protesta.

Indice delle novelle

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Volume 1
  • La vergine Orsola
  • L'eroe
Volume 2
  • La vergine Anna
  • La veglia funebre
Volume 3
  • La contessa d'Amalfi
  • La madia
  • Mungià
Volume 4
  • Il traghettatore
  • La morte del duca d'Ofena
  • La fine di Candia
Volume 5
  • La fattura
  • L'agonia
  • I marenghi
  • Gli idolatri
Volume 6
  • La guerra del ponte
  • Turlendana ritorna
  • Turlendana ebro
  • Il cerusico di mare

Descrizione delle novelle

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L'ordine seguente delle novelle è preso dalla riedizione dell'opera da parte di Mondadori negli anni '30, ripubblicata nel 1969 nella collana "Oscar Mondadori", che per la distribuzione riporta alcune differenze rispetto all'edizione originale.

Il quartiere Porta Nuova di Pescara nel primo '900
  • La vergine Orsola: l'aprente è la novella primaria "Le vergini" estrapolata dal volume Il libro delle vergini. L'ambientazione è il rione Porta Nuova di Pescara, in una casa dove la ragazza è sul punto di morire per un grave male. Viene chiamato il parroco per una estrema unzione, mentre la descrizione si sposta sull'analisi anatomica e macabra dell'ammalata, finché non viene somministrato il sacramento. Tuttavia proprio tale sacramento sembra dare nuova vita ad Orsola, che lentamente inizia a riprendersi; D'Annunzio traccia un parallelismo tra la fame della convalescente di nutrirsi con una seconda fame insaziabile, che le fa perdere il suo stato di devota al Signore, casta e pura, che la farà entrare in rotta di collisione con la sorella Camilla. E lo si deduce dal fatto dell'improvviso interesse per Orsola di curare il suo aspetto nelle uscite pubbliche, iniziando con le cerimonia della Settimana santa, per poi continuare con l'interesse della vita quotidiana dei garzoni e dei popolani presso il porto della cittadina. Pian piano questo desiderio sconosciuto si trasforma nella fame d'amore, che verrà soddisfatta dal ladraccio Lindoro, che vive presso il bastione di Sant'Agostino. L'occasione dell'incontro avviene quando Lindoro diventa garzone porta-lettere di un tal Marcello, al secondo incontro, dopo un'altra descrizione anatomica dei sentimenti di affanno e di attesa di Orsola, giunge Lindoro, che s'accorge di essere desiderato dalla donna, benché lei non abbia il coraggio di rivelarsi, e la violenta. Nei giorni seguenti, Orsola sente sempre di più il suo antico aspetto di vergine morire, desiderando Lindoro, soprattutto quando si accorge di essersi abbandonata al pettegolezzo con una tessitrice sua vicina, riguardo al malcostume di alcune donne pescaresi, che si concedono facilmente ai soldati delle vicine caserme. Altri presentimenti sopraggiungono nei momenti di preghiera nella chiesa, quando Orsola prende atto di essere caduta nella dannazione per aver disobbedito ai suoi voti, e di ingannare in continuazione la sorella Camilla. Dopo un pensiero si suicidio, Orsola viene a sapere dell'arrivo del fattucchiero Spacone, e lo va a trovare pensando di trovare rimedio ai suoi mali, è proprio il giorno del "Corpus Domini", e in base a una serie di prodigi che aleggiano sulla figura del santone, e in base a litanie profetiche delle Sacre Scritture, Orsola durante il viaggio crede davvero di aver trovato la salvezza. Vien ricevuta dalla moglie del santone, e le confessa di essere incinta. La donna offre il rimedio, ma Orsola abortisce all'istante, a discapito di quanto promesso dalla strega. La vergine violata torna a Pescara nel momento massimo della sacra processione, sale in casa di un'amica, e muore sul pavimento, davanti a un vecchio cieco che la percuote col bastione, credendo fosse il cane.
  • La vergine Anna: è la storia agiografica immaginaria di una santa donna di Ortona a Mare, che allo stesso tempo risulta essere uno spaccato di storia della città, che copre l'arco di cento anni, dal 1789 al 1889 circa. Anna Minella nasce nel 1817, nel rione di Porta Caldari. Dopo un incidente nella Cattedrale di San Tommaso Apostolo nel 1823, durante la venerazione del Santo, essendo stata miracolata, Anna inizia i primi passi verso la strada della monacazione. I segnali si fanno ancora più evidenti quando Anna riceve la prima comunione, e in quest'occasione D'Annunzio ritrae il tipico topos della moltitudine di folla osannante, in un sentimento collettivo che sconfina nel fanatismo religioso, poiché le comari che avevano dormito sul pavimento della Cattedrale in occasione della festa patronale, per lo slancio di andare a venerare il busto reliquiario, finiscono schiacciate nella calca. Cresciuta, nel 1843 la ragazza diventa una raccoglitrice di olive, e si conosce con un ragazzo di Tollo con cui fa amicizia, nel frattempo il sentimento di pietà verso il prossimo si fa sempre più grande, così come l'avvicinamento a Dio, soprattutto dopo la situazione pietrosa in cui le muore l'asino di compagnia, barbaramente dileggiato dai contadini che infieriscono sulla carogna. Un male corporale inizia ad assillare Anna, sintomo della futura malattia del martirio, e fa voto di castità nella basilica di San Tommaso. Nel 1851 durante la festa del Rosario di Pescara, Anna s'ammala, ma pregando la Vergine rinsavisce immediatamente, provocando lo stupore generale. Nel 1865 in seguito alla morte del padre, Anna torna ad Ortona, e conosce nel lavoro Zacchiele, che la introduce allo studio elementare delle Sacre Scritture. Qualche tempo dopo i due iniziano ad amarsi e progettando di sposarsi, essendo una coppia "benedetta" per purezza spirituale. Nel 1857 una guerra tra confraternite pescaresi per la processione del Cristo, sconvolge Anna, tuttavia il capitano delle milizie riesce a mantenere la calma. L'episodio è interessante per la descrizione della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, oggi non più esistente a Pescara, posta su via dei Bastioni. Sempre in quest'anno i due si sposano, ma Zacchiele muore nell'alluvione della Pescara presso Porta Giulia, nel quartiere Cappuccini; Anna prende la tragedia come un castigo divino per la rottura del patto di castità, nel 1858 il nuovo male infantile dei polmoni si rifà vivo, ma la vergine trova la guarigione pregando una lapide ritraente Cristo nella stanza. L'anno 1860 è quello del trasloco verso Ortona, nonché un pezzo di storia della città, descritto da D'Annunzio con minuzia, che precede l'annessione dell'Abruzzo al Regno d'Italia: le milizie delle caserme borboniche vengono evacuate, il re Vittorio Emanuele II giunge in città tra grandi clamori. Anna va a vivere nel convento dei Cappuccini, esercitando l'arte della medicina farmaceutica, e fa amicizia con frate Mansueto, con cui spesso si reca in pellegrinaggi, offrendo le sue cure agli ammalati.
Il ponte di ferro sul fiume Pescara

Nel 1873 Anna si ammala per l'ultima volta, e durante l'orazione nella chiesa, essa cade in estasi mistica. La notizia della vita di rinunce della santa donna si sparge, e presto Anna inizia ad essere venerata, fino alla morte nel 1881.

  • Gli idolatri - L'eroe: sono due novelle unite, che sono diventate tra le più famose delle prose dannunziane sull'Abruzzo. Ambientate nel paese di Miglianico poco distante da Chieti, si narra della famosa processione di San Pantaleone, santo patrono del paese. Il santo dai miglianichesi è molto venerato, sin dal 1566, quando il paese fu attaccato dai Turchi, e il miracolo del santo avrebbe fatto sì che la gente non venisse massacrata, e che la sua statua non fosse rimasta inviolata dagli infedeli. D'Annunzio mette per l'ennesima volta in scena il fanatismo religioso abruzzese, facendo contrapporre ancora una volta le confraternite: del Patrono e di un tal San Gonselvo, traendo spunto da fatti di cronaca realmente accaduti nel chietino e non solo. Nello scontro rimane gravemente ferito il popolano Pallura, che aveva chiesto dei cari per il santo Pantaleone. La rabbia della gente monta, sospettando che autori del pestaggio siano stati i confratelli di San Gonselvo, e organizzano una spedizione punitiva, prelevando dalla cappella della parrocchia la statua di San Pantaleone, e soffermandosi davanti alla sede della confraternita nemica con urla e improperi. La chiesa viene presa d'assalto con le due torme di uomini che sorreggono le statue, e si compie una carneficina a suon di roncole e coltelli, finché non risulta vincitrice la confraternita di San Gonseolvo, dato che cade l'altra statua insieme ai confratelli.

Nella novella successiva, data la deposizione "simbolica" del santo patrono, viene celebrata una festa in onore di San Gonselvo, con offerte da parte del popolo. Un cafone soprannominato "Ummalidò", si inginocchia davanti alla statua, ha una mano molto danneggiata per lo scontro di pochi giorni prima, e dato che è perduta, il cafone col coltello se la taglia di netto, e l'offre in dono al santo, gridando "Sande Gunzelve, a te le offre!".

  • La veglia funebre: altra novella famosa, ambientata a Castellammare, descrive il compianto funebre al sindaco Biagio Mila nella camera ardente. La vedova Rosa è disperata, accompagnata dal chierico Emidio, fratello di Biagio. Durante la veglia notturna, dopo alcune battute scambiatesi, Emidio cerca di calmare Rosa, e da qui la narrazione si sposta brevemente a descrivere come i due siano stati in passato amanti segreti. Tornando al presente, la figura del morto in decomposizione sembra istigare i due a un nuovo adulterio, tanto che Emidio fa la prima mossa, e una folata di vento spegne le fiamme dei ceri. Allora l'abbandono è completo.
  • La contessa d'Amalfi: novella che descrive anche uno spaccato di vita altoborghese di Pescara e Castellammare. Donna Violetta Kutufà abbandona l'amante don Giovanni, che scoppia in pianto. La notizia si sparge per il paese, tra i frequentatori del caffè, nobili, dottori, avvocati. Da qui segue il racconto a ritroso mediante flashback sul conto di donna Violetta, un'attrice teatrale di Corfù, una sorta di fèmme fatale alla Madame Bovary, che giungendo nella tranquilla cittadina di provincia di Pescara, ha infiammato gli animi degli alto borghesi di turno e dei nobiluomini, in vista della sua piéce teatrale. Dopo aver descritta in carrellata nobiluomini e alti signori immaginari di Pescara e dintorni, D'Annunzio parlando del momento dello spettacolo, descrive la figura del dandy don Giovanni Ussorio, che cade innamorato della primadonna. Nei giorni seguenti, don Giovanni trova il modo di avvicinare Violetta nella festa del carnevale, e più avanti di dichiararle il suo amore. Successivamente lei va a vivere dal dandy in un palazzetto presso quella che oggi è la Piazza Garibaldi di Pescara. Le varie cerimonie e incontri che si tengono sono, alla maniera di Giovanni Verga, citando Mastro-don Gesualdo, un motivo semplice per descrivere una carrellata di curiosi personaggi di provincia, nell'intenzione di dipingere un quadro di vita locale, in grande fervore per la venuta della sensuale donna straniera, che ha scosso il comune andazzo della vita quotidiana. Tornando, al fine della novella, al presente, la cameriera Rosa di don Giovanni, riesce finalmente a consolare il dandy ferito nel cuore per la partenza improvvisa della "contessa d'Amalfi", e pian piano riuscirà ad ereditare tutti i suoi beni.
Casa natale di Gabriele d'Annunzio a Pescara
  • La morte del Duca d'Ofena: si chiama don Filippo Casauria, feudatario del borgo omonimo sull'alta valle del Tirino, ed è una storia giocata sul binomio attesa-massacro. Il duca viene a conoscenza della rivolta dei feudatari contadini, e attende all'ingresso col valletto Giovanni. Mentre la folla si mette al galoppo dal paese verso la villa di campagna, il duca chiama i valletti a rapporto, e accoglie un suo intimo: Carletto Grua, ferito dalle sassate del popolo. Nello stesso istante dell'arrivo del giovane, la folla inferocita ricompare, reggendo un gonfalone con in cima il cadavere dell'araldo mandato dal duca per patteggiare una somma; i nobili si arrampicano sul balcone, il secondo araldo Mazzagrogna cerca di sedare la folla, ma viene raggiunto da colpi di schioppo, e cade dal balcone, venendo deriso dalla folla e massacrato. Successivamente alla villa viene appiccato il fuoco, i servi riescono a respingere un primo assalto alla casa, ma il fuoco si propaga per l'edificio, il vecchio padre del duca muore infermo tra le fiamme, il duca esce con il corpo di Carletto, e in un impeto d'orgoglio, per non finire ucciso dalla plebe, torna tra le fiamme.
  • Il traghettatore: Donna Laura Albonico, sposata a un nobile per convenienza, quando aveva solo 18 anni ebbe un rapporto amoroso con il marchese di Fontanella, rimanendo incinte partorendo, senza però conoscere veramente suo figlio perché le fu immediatamente sottratto per evitare scandali. Passati molti anni, il marchese invecchia e arriva in punto di morte, e nel momento di spasimo finale, davanti a donna Laura, venuta a trovarlo riguardo al conto di suo figlio, viene a sapere che è un tal Luca Marino che vive a Pentima (ossia Corfinio). Ormai donna Laura è anch'essa anziana, sul punto di morire, e desidera andare a trovare il figlio che non ha mai conosciuto, e si mette in cammino, non senza gravi fatiche. Scopre che Luca fa il traghettatore sulla Pescara, e prosegue il viaggio, passando per un paese dove si assiste a una raccapricciante torma di vagabondi e miserevoli deformi che chiedono l'elemosina, fino a giungere alla sponda del fiume. Donna Laura non riesce a confidarsi con il figlio traghettatore, vinta dalla commozione, e dalla pausa di non riuscire a iniziare il filo del discorso, così arriva all'altra sponda del fiume, mentre i malati cenciosi di poco prima rincorrono la barca, aizzando un ritardato mentale a chiedere l'elemosina, al punto quasi di aggredire donna Laura, che proprio nel momento in cui Luca torna dall'altra parte del fiume, si getta in acqua per raggiungerlo, in un impeto di amore materno. Purtroppo però affoga, e viene ritrovata da Luca, tornato a riprenderla, quando si accorge di qualcosa che urta costantemente contro la barca.
  • Agonia: rappresenta la summa della sofferenza umana del gruppo di novelle dannunziane dove chiaramente è ripreso il naturalismo macabro presente nella raccolta Terra vergine (1882), mediante la metafora animalesca, dato che qui il bambino è paragonato a un macaco inebetito incapace di parlare. La scena è semplice, in una famiglia alto borghese un bambino di nome Sancio è gravemente ammalato, colto da meningite acuta con paralisi della mandibola. L'eccessiva e cieca premura della madre e della cognata non sembrano dar conto all'ultimo desiderio del bambino, di accarezzare il cane, e quanto più Sancio si avvicina ad esso, assai maggiormente la mamma si allontana dalla bestia, finché Sancio non muore di stenti, consumando le sue ultime forze tendendo le mani verso la bestia.
  • La fine di Candia: la lavandaia Candida Marcanda lavora presso la casa di donna Cristina Lamonica, una facoltosa donna di Pescara, occupandosi anche del tinello e del servizio di posate da cucina. Un giorno le donne si accorgono che manca un cucchiaio nel servizio posate, e immediatamente le colpe ricadono su Candia, additata come ladra e scacciata dalla famiglia e insultata dalla popolazione, benché lei non possa difendersi, non essendo creduta circa la sua innocenza. Viene persino convocata nel Comune riguardo alla faccenda, ma siccome non ci sono prove, Candia viene prosciolta, ma la sua dignità in paese è ormai compromessa per sempre, non venendo più chiamata da nessuna signora per i servigi. Passando del tempo, Candia si avvilisce sempre di più, arrivando a sbrigare pessimamente il suo lavoro, sino ad auto lesionarsi, e ad impazzire lentamente e a morire sola e non creduta, nemmeno nelle ore di agonia.
Il fiume presso Pescara
  • La fattura: Mastro Peppe "La Bravetta" per i suoi sette starnuti di mezzogiorno possiede un podere sulla riva destra della Pescara, nel rione Sant'Antonio abate, e in occasione della sua festa di gennaio, uccide annualmente un porco. Il giorno dell'uccisione dell'ennesimo maiale, La Bravetta incontra due amici che gli propongono un affare, anziché salare il maiale mastro Peppe lo venderà, mettendo in mezzo una possibile reazione della moglie, che aveva sempre tenuto sotto scacco il marito col suo carattere, adducendo la scusa che, in caso di richiesta da parte di lei, mastro Peppe dirà che gli hanno rubato il porco. Dato che mastro Peppe si rifiuta, gli amici pensano di burlarlo, per prendersi i soldi della vendita, facendo prima ubriacare mastro Peppe, poi portandolo a casa, e rubandosi infine il maiale ucciso. Il giorno dopo mastro Peppe dà in escandescenze per il furto del maiale, e gli amici gli propongono di rivolgersi a una fattucchiera per scoprire il ladro, facendosi dare altri soldi per la commessa. Gli amici vanno dal complice speziale, con del letame che fanno trasformare in due pillole zuccherate, da far prendere a mastro Peppe a mo' di medicina, in modo da far scoprire il ladro; ma gli amici ugualmente riuniscono altri compari del rione, dopo aver suggerito a mastro Peppe di aver mescolato le pillole nel vino Montepulciano, spiegandogli il potere del falso farmaco. Mastro Peppe dunque invita i compagni a far festa per Sant'Antonio e ingerisce le pillole, mentre i compagni fanno finta di far lo stesso, accompagnando con il vino, e immediatamente sente l'amaro in bocca, sputando e rimanendo gabbato davanti all'ilarità dei congiurati.
  • I marenghi: in una taverna, il viandante Passacantando ha un alterco con la locandiera "l'Africana", benché già si conoscano e siano amanti. Passacantando da buono strozzino è venuto a riscuotere la sua paga, e non essendoci molto, la donna gli indica la camera del marito. I due compiono il furto nel buio con successo; il soggetto è molto semplice e banale, poiché D'Annunzio di maggior risalto alla resa della forma, ossia con molti scambi di battute in dialetto, e con descrizione dei momenti di massima tensione, con numerose descrizioni fisiologiche dei protagonisti.
  • La madia: continuando il filone di bozzetti dove la figura dell'abruzzese è demonizzata e appiattita fino alla metamorfosi in essere bestiale e sanguinario, la storia narra dei due fratelli Luca e Ciro, quest'ultimo molto malandato e storpio, e anche sordo-muto, che spesso va a trovare l'altro per elemosinare. Dato che la madre non ha il coraggio di percuoterlo, Luca si avventa su Ciro e lo getta per le scale, picchiandolo, e le offese non vengono risparmiate nemmeno dalle gente e dai monelli delle strade. Neanche quando Ciro entra in chiesa a chiedere qualche soldo, la gente si muove a pietà, e così Ciro decide di tornare in segreto nella casa materna, per arraffare al volo qualcosa da mangiare, approfittando del fratello Luca che dorme. Tuttavia, aperta la madia, il furto non riesce, poiché Luca si sveglia e in un ennesimo acceso d'ira, preme il coperchio con estrema forza contro il collo di Ciro, rompendoglielo.
  • Mungià: si tratta di una sorta di vecchio cantore-santone cieco, paragonato da D'Annunzio ad un "Omero abruzzese". L'uomo ha una casa presso l'arco di Porta Nuova, e viene venerato dalla gente come un Cristo profetico e un potente taumaturgo, e la novella è in gran parte ricolma di descrizioni di guarigioni e miracoli da malattie, pustole, persone in punto di morte provenienti da mezzo Abruzzo, salvo poi brindare con bicchieri di vino, in un augurio abruzzese: "Quistu vino è dòlige e galante; a la saluta de tutti quante!".
  • La guerra del ponte: in riferimento alla lotta che si consumò realmente nella metà dell'Ottocento, tra Pescara e Castellammare, la novella si apre con un consigliere del Comune di Pescara che intende accendere la miccia per far avere più autonomia e potere alla cittadina contro Castellammare, proprio in vista dell'epidemia di colera. Si prosegue con alcuni brevi fatti di cronaca di piccoli focali di colera che si sono propagati nella Val Pescara. A causa del timore del nuovo focolaio, il mercato degli agricoltori di Pescara non fa un soldo, e dopo che si sparge la notizie della morte di tre donne di Villareale, anche a Pescara arrivano i primi casi di colera, e la descrizione si sofferma sulla stupidità dei paesani che rifiutano di prendere i rimedi dei dottori, spaventati dalla loro stessa coda, finendo per morire del male. Proprio in vista del colera, scoppia la guerra fratricida tra Pescara e Castellammare per il ponte di legno che permetteva il collegamento tra i due comuni, poiché Castellammare desiderava scalzare la vecchia città-caserma per i vantaggi del traffico commerciale, essendo sorto anche il rione del Borgo Marino alla foce del fiume, composto da pescatori. Essendo il ponte malandato, il sindaco di Castellammare fa in modo di chiudere il traffico, offrendo un pagamento ai pescaresi per il passaggio in barca all'altra sponda per accedere al mercato del pesce. Pescara risponde catturando i viandanti e i lanzichenecchi provenienti da Castellammare ("il Gran Nimico"). Ben presto a Pescara scoppia l'anarchia popolar,e la giunta comunale viene sciolta, e vengono erette barricate contro l'ambasciata castellammarese, e per un'intera giornata le due fazioni si lanciano insulti dalle due rive del fiume, finché tutto non si risolve in un nulla di fatto, che non abbia il sapore dello sfottò di fazioni rivali.
  • Turlenda ritorna - Turlendana ebro: sono due novelle legate dallo stesso filone narrativo; il contadino Turlendana si reca a Pescara dalle montagne, in groppo a un cavallo, suscitando la curiosità del popolo, poiché non tornava in città da molti anni, da quando aveva lasciato la moglie Rosalba Catena, scoprendo però che la donna si è risposta, avendolo creduto morto. Inizia la seconda novella dove Turlendana per la disperazione si ubriaca, vagando per Pescara in piena notte, in seguito correndo per la campagna, incontrando la carcassa del cavallo con cui era giunto in città. E così termina la sua vita oppresso dall'estremo dolore.
  • Il cerusico di mare: sei uomini s’imbarcano dal porto di Pescara per la giornata di pesca. Uno di questi, di nome Gialluca, mostra un bubbone di ferita non rimarginata, e all’inizio nessuno gli dà retta, finché la ferita inizia lentamente a suppurare e putrefarsi, provocando dolori lancinanti. Preso si scopre che la ferita è un tumore, e gli amici si improvvisano medici chirurgi per tagliare la parte marcia e medicarla alla meno peggio, ma più di una volta sbagliano l’operazione perché Gialluca terrorizzato si dimena, soffrendo ancora di più dolori atroci, fino al compimento dell’operazione. Dopo qualche giorno, Gialluca peggiora, e presto muore, invocando il suo protettore San Rocco, e il cadavere viene messo in un sacco e gettato in mare, e alle prime domande di alcuni pescatori, incontrati al ritorno al molo di Pescara, viene fatta correre la notizie di una tempesta, e della scomparsa in mare di Gialluca per le violente onde.

La raccolta è il frutto della rielaborazione di prose già pubblicate da D'Annunzio, come Terra vergine (1882), Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886); in sostanza di si tratta della ripubblicazione di quasi tutte le novenne del San Pantaleone con alcune correzioni, più l'aggiunta del racconto iniziale de La vergine Orsola, preso dal "Libro delle vergini", e ampiamente rielaborato. L'ispirazione per alcune storie proviene dalla lettura dei massimi autori dell'epoca come Gustave Flaubert per La vergine Anna, ispirata al racconto Un coeur simple, mentre per Guy de Maupassant, d'Annunzio ha rielaborato Il traghettatore prendendolo da L'abandonné, mentre Il cerusico di mare è preso da En mer, mentre il tema burlesco e semi-fantasioso de La fattura è ripreso dal "Bulfamacco" di Giovanni Boccaccio.

In sostanza l'antologia delle Novelle intende essere una dichiarazione di D'Annunzio di aver concepito un modello da seguire di prosa moderna in forma di racconti bravi, concepiti dalla sapiente mescolanza di naturalismo tratto da Giovanni Verga, e dal classicismo di Giosuè Carducci, svuotato però dei temi civili e melancolici delle Odi barbare o dei Juvenilia.

Il verismo di D'Annunzio

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Gabriele d'Annunzio

Mentre Giovanni Verga nei suoi bozzetti siciliani di Vita dei campi e Novelle rusticane, intendeva esprimere un programma ben preciso, ossia una sorta di ordine naturale delle cose che determinata il destino le diverse classi sociali della sua Sicilia, per D'Annunzio tutte queste tematiche della forma inerente al soggetto, della tecnica dell'impersonalità e della regressione del narratore non hanno valore. Egli si limita a creare una nuova forma di scrittura che abbia come tema le disgrazie dei contadini, di personaggi in grave situazione economica, di sciancati, ammalati, innamorati e figuri senza scrupoli e malvagi, più o meno seguendo la linea del Verga sul fatto che nel gruppo dei "vinti" chi prova a voler scavalcare il suo stato sociale subisce un destino amaro e tragico, ma D'Annunzio usa lo stile alto di Carducci riguardo alla descrizione della natura e dell'anatomia dei personaggi, per cui prevale la similitudine insieme alla metafora, che quasi sempre abbruttisce ancora di più la natura dei personaggi miserevoli, e li metamorfizza in forme animalesche con istinti bestiali e triviali.

Giovanni Verga

Mentre Verga intendeva muovere il lettore a pietà per i suoi personaggi, descrivendo una condizione sì storica degli strati più disastrati della società siciliana, ma anche volendo dichiarare una protesta contro il positivismo del nord Italia, che con l'Unità nel 1861 aveva beneficiato della centralizzazione dell'economia, lasciando il sud del Paese in una condizione miserevole, senza insomma che le attese di un benessere collettivo venissero esaudite, e dunque lasciando i poveracci delle novelle verghiane alla loro medesima condizione di subordinati a massari e latifondisti, come se nulla fosse cambiato nel tempo, il D'Annunzio nelle sue novelle non intende proporre un sentimento di protesta, ma anzi si compiace nel descrivere con enfasi e particolare abbondanza di metafore la condizione miserevole dei personaggi, in qualche novelle inserendo anche soggetti di condizione sociale più elevata o borghese, come ne La morte del duca d'Ofena, o La veglia funebre, senza però esimersi dall'inserire sempre elementi e deittici inerenti alla condizione animalesca congenita del popolo abruzzese[1]: sentimenti di sopraffazione, di omicidio, di lotta, di rubare, pulsioni erotiche, indifferenza della sofferenza del prossimo, istinti vari repressi, superstizione e fanatismo religioso la fanno da padroni nelle novelle dannunziane.

Non traspare insomma una particolare originalità dai vari racconti, poiché la somiglianza delle storie, ad accezione di alcuni pezzi di bravura, sembra fotografare, non senza toni di assoluto compiacimento macabro, la condizione di vita non solo dei cosiddetti "cafoni" abruzzesi dello strato più inferiore della società, ma tutto l'Abruzzo, ossia una terra sì affascinante e poco conosciuta nei salotti di Roma che d'Annunzio frequentava già dal 1883, per cui dovette di certo approfittare delle diverse leggende che circolavano tra la gente. Oltre a ciò si consideri già il primo fenomeno del decadentismo prosastico, ossia della ricerca di uno stile elevato e interessato al particolare e all'oscuro, così come l'uso di D'Annunzio della prosa ricca di elementi carducciani, svuotati del loro valore originale, così come il futuro tema del superuomo di Nietzsche unito alla prosa decadentista, e immiserito e privato dei suoi valori filosofici originali, il tutto rivolto al solo fine della celebrazione di sé stesso e della propria personalità mediante la prosa e la poesia.
Insomma le novelle sembrano trovare, nella rielaborazione finale del 1902, il proprio termine con l'ultimo racconto de Il cerusico di mare, che ripropone sì le tematiche presenti nelle altre storie, ma la struttura è più sobria e asciutta, quasi a sintetizzare tutto il programma tematico dell'antologia.

La rielaborazione di Terra vergine (1882)

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Frontespizio originale de Il libro delle vergini pubblicato da Sommaruga nel 1884

La prima raccolta di prose, nuovo esperimento per D'Annunzio nella narrativa, fu Terra vergine, volume pubblicato da Sommaruga editore nel 1882. Si tratta dell'antologia di 9 "figurine" abruzzesi che D'Annunzio già aveva pubblicato tra il 1880 e l'81, con l'aggiunta nell'83 di "Ecloga fluviale" e "Bestiame". Si tratta dell'esperimento di moderna novellistica abruzzese meglio riuscito e immediatamente conosciuto nel panorama letterario nazionale, benché già altri autori della regione si fossero cimentati nella narrativa, come Pasquale De Virgiliis o Raffaele d'Ortenzio, con I fidanzati abruzzesi (rielaborazione del romano manzoniano), mentre Ignazio Cerasoli pubblicò il volume delle Novelle abruzzesi nel 1880.

L'attenzione di D'Annunzio alla nuova corrente letteraria che si stava formando, ossia il decadentismo, fu in un certo senso determinante, anche perché la raccolta, insieme alle Novelle della Pescara, risulterà un perfetto sperimentalismo, una costante prova di esercitazione e di allenamento per il perfezionamento dello stile aulico carducciano, del descrittivismo naturale, per la comunione panica con la natura, per gli improvvisi accessi di follia e di voluttà dei personaggi che saranno temi frequentissimi in tutta la grande opera successiva delle poesie, dei romanzi e delle tragedie teatrali. La palestra dannunziana abruzzese inizia dunque con Terra vergine, assumendo un altro aspetto stilistico momentaneamente diverso in Il libro delle vergini, per poi tornare con più furore verista di stampo verghiano nel San Pantaleone. Nella prima raccolta la natura è il vero protagonista, che sembra forgiare il destino dei protagonisti, celebrata continuamente, con incalzante verbosità e descrittivismo dal D'Annunzio, e con la tipica sensualità e vitalità giovanile. La comunione panica avviene mediante la metafora, in ciascuna novella i personaggi sono paragonati oppure narrati almeno in un preciso punto con riferimento all'animale, come al giaguaro, al cane, all'orso, alla capra.

Proprio lo slancio vitale nella sua forma più grezza, nell'assenza di moralità da cui i personaggi sono completamente sganciati, determina in un certo senso l'originalità della raccolta, più che l'originalità dei soggetti stessi narrati.

«Più in là, sul fiume, s'allungava il ponte di ferro tagliando il cielo a piccoli quadri; in fondo, sotto il ponte, il verde degli alberi s'era oscurato. Dalle caserme veniva un rumorìo confuso di grida, di risi e di squilli.»

Nel Libro delle vergini D'Annunzio rielabora la novella iniziale "Le vergini", dove l'Orsola delle "Novelle della Pescara" è la vergine Giuliana. Il soggetto più o meno rimane inalterato, ma nella rielaborazione del 1902 cambia completamente lo stile, in cui ormai si evince la maturità dannunziana nella resa patetica e tragica della storia, con abbondanza di descrizioni anatomiche, mediche e naturali, nel tratteggiare il momento della malattia e della convalescenza.

L'Abruzzo secondo D'Annunzio

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Leopoldo Muzii, sindaco di Castellammare, che avviò Pescara verso la modernità, descritto nella novella "Veglia funebre"

Come lo stesso D'Annunzio scrisse in alcuni articoli dei giornali romani per cui collaborava, l'Abruzzo era sconosciuto, e molte leggende aleggiavano sul conto della regione soprattutto nell'ambiente intellettuale romano. D'Annunzio evidentemente, per alcune novelle con alcune tracce di fantasia e di stregoneria, s'ispirò sia a queste leggende, ma anche alla raccolta di storie di Giovanni Pansa, riguardo ai miti e alle leggende della regione, che avevano a che fare con la superstizione, ma anche con il paganesimo. Non ne furono esenti neppure il poeta Gabriele Rossetti oltre un secolo prima, e nemmeno il pittore Francesco Paolo Michetti insieme a Basilio Cascella, che apprezzarono insieme allo stesso D'Annunzio alcuni riti semi-pagani, come la processione dei Serpari di Cocullo in onore di San Domenico abate. Tuttavia le superstizioni spesso e volentieri, nel programma di D'Annunzio della composizione delle novelle, hanno a che fare con il gusto del macabro e dell'orrido, ripreso anche nel romanzo successivo de Il trionfo della morte (1894), ossia per il rito di esorcismo di un'infante da parte di una strega, o per le connotazioni bestiali e animalesche, di assoluta follia panica collettiva che assumono i pellegrinaggi nei santuari, come nel caso del viaggio verso il santuario dei Miracoli di Casalbordino, descritto sempre da D'Annunzio nel romanzo.

Indubbiamente D'Annunzio, così anche Michetti, si documentarono su tali pratiche, e riportarono in forma d'arte, non senza, probabilmente, eccessivi tratteggi riguardo allo sfogo delle pulsioni e degli istinti, e ciò è visibile anche nei vari carteggi, soprattutto riguardo al pellegrinaggio di Casalbordino, di cui ne parlò anche il compositore Francesco Paolo Tosti nel 1877, quando ci andò con una delle sue amanti romane.
Benché documenti e la stessa popolazione della regione, abbiano dato in parte conferma sulla considerazione che D'Annunzio, e anche il teatino Giuseppe Mezzanotte, avessero riguardo agli istinti primordiali, la critica ha riconosciuto molto bene il compiacimento degli stessi verso il gusto dell'esagerazione[2], ben oltre il verismo di Verga, per non parlare dell'uso del dialetto locale, cosa che lo scrittore siciliano rifiutò per le sue opere. Il dialetto venne usato da D'Annunzio invece per comunicar maggior schiettezza dei personaggi e maggior vivacità della storia.

Francavilla al Mare disegnata da Michetti nel 1877

Lo stesso Mezzanotte elaborò una teoria del tutto personale, per le sue raccolte di novelle, sostenendo che la "bestialità" e l'irruenza della popolazione situata sulla fascia teatino-pescarese proverrebbe dal garbino, che agita gli animi e li spinge a nervosismo e ad estrema vitalità e a manifestare pulsioni, piuttosto che usare la ragione. Non a caso anche D'Annunzio nella raccolta poetica Canto novo (1881), descrivendo i paesaggi campestri tra Pescara e Francavilla al Mare, si avvalse del garbino come giustificazione degli amplessi dei contadini e dell'estrema vitalità dei rapporti suoi con Elda Zucconi.
Fatto sta che D'Annunzio si sbilanciò molto più di Mezzanotte, facendo trasparire una grande generalizzazione dell'ambiente abruzzese agli occhi della critica letteraria nazionale, quando invece lo spazio e il tempo dei racconti si concentrano solo su una determinata fascia ristretta dell'Abruzzo, ossia l'area basso Vestina di Spoltore, Cepagatti e Tocco da Casauria, passando poi a Pescara e Castellammare Adriatico (si ricordi che dal 1807 al 1927 erano due comuni autonomi separati dal fiume, l'uno in provincia di Teramo, l'altro in quella di Chieti), e infine l'area sud del chietino, come Ripa Teatina, Francavilla al Mare, Miglianico, Ortona, Orsogna e Tollo.

Scorcio dell'incrocio tra il Corso Vittorio Emanuele e il Corso Umberto I presso Castellammare Adriatico, ai primi del Novecento. Le case oggi sono state quasi tutte demolite, e al posto del forno-drogheria in rilievo oggi sorge l'ex Banco di Napoli, del Ventennio

Nelle novelle, diverse sono le ambientazioni a sfondo abruzzese, per lo più campagne o piccoli borghi della Val Pescara, tra Chieti e Castellammare. Ovviamente la cittadina principale dove si snodano le storie, descritta con maggior minuzia è proprio Pescara, o meglio la parte storica di Porta Nuova, dove nacque D'Annunzio stesso, e la parte più moderna di Castellammare Adriatico. A giudicare le numerose modifiche urbane che si susseguirono nell'aspetto orografico della città attuale, unita in un solo comune nel 1927, quando prima ne erano due ben distinti, in due province separate dalla foce del fiume, le novelle pescaresi di D'Annunzio sono di grande utilità, e tracciano alcune immagini di una cittadina che alla fine dell'Ottocento, benché in lenta trasformazione, conservava ancora molto della sua storia. Nel rione di D'Annunzio di Porta Nuova si fanno riferimenti alla chiesa di San Cetteo, prima della sua demolizione e ricostruzione in cattedrale nel 1933, alle altre chiese di San Giacomo e del Rosario, di alcuni bastioni della vecchia fortezza spagnola semi-smantellata, come il quartiere dell'Ospedale al bastione di Sant'Agostino, corrispondente all'incrocio odierno di via Orazio-via Conte di Ruvo-viale D'Annunzio, alle casermette che ancora oggi costituiscono la parte rimanente della vecchia fortezza.
Mentre parlando di Castellammare, si fa riferimento al ponte di ferro della ferrovia, allora l'unica via di collegamento delle due città, per cui in La guerra del ponte, da un fatto di cronaca veramente accaduto, il poeta narra della lotta molto accesa tra i due comuni; successivamente in altre novelle, come in Veglia funebre", Castellammare viene presentata come una ridente cittadina costiera molto più attenta alle esigenza della nuova società borghese, provvista di moderni stradoni, ossia viale Carducci, Corso Umberto I, Corso Vittorio Emanuele II, Piazza Umberto I, e della nuova stazione ferroviaria, con un'economia fiorente e sempre più vitale, a differenza della vecchia Pescara, ancora legata fortemente alla vita di città-caserma, dove si viveva ancora di commercio agricolo-pescatorio, quartiere insomma di garzoni, di artigiani semplici, il rione più popolare vale a dire.

Non mancano chiari riferimenti, come si è detto, alla letteratura internazionale, con materiale di spoglio soprattutto dalle raccolte verghiane, ad esempio nella storia de Gli idolatri D'Annunzio fa combattere due schiere di fanatici religiosi provenienti da i borghi immaginari di Mascalico e Radusa, ripresi dalle borgate catanesi di Mascalì e Raddusa, che si fanno la guerra per la supremazia del santo patrono, opponendo San Pantaleone a San Gonselvo; in La vergine Orsola il veicolo della morbosità che abbruttisce interiormente il personaggio è la ricerca di cibo, mentre è in punto di morte, a dare una prima lettura analitica del suo istinto di voracità, malgrado sia lodata come vergine, tanto che la storia terminerà con una fuga d'amore, un aborto, e infine la morte; in La veglia funebre la vedova e il fratello del morto sentono accendersi nel sangue un desiderio insaziabile di voluttà, proprio mentre la descrizione si sposta sul cadavere che lentamente si disfà, e la storia finisce in un amplesso sfacciato proprio nella sala del morto, in La morte del duca d'Ofena, la tensione aumenta lentamente, dal momento che i villani assaltano il palazzo signorile, dandolo alle fiamme e massacrando la servitù, fino al momento in cui arrivano a giustiziare il duca stesso con il valletto.

Secondo Giargiulo e Marcazzan, Gabriele d'Annunzio novelliere si sarebbe formato nella prosa e nelle tematiche proprio con i bozzetti di stampo abruzzese, delle novelle-paesaggio, dove lo spazio e il tempo sono fondamentali, seguendo appunto anche la lezione di Mezzanotte, per stabilire e per far comprendere l'istinto per cui le normali pulsioni vitali dell'amore, delle passioni varie fisiologiche, vengono accentuate così tanto da sconfinare nella violenza, nella follia, e nell'omicidio; ma anche se D'Annunzio effettivamente si formò con questi topi, che riproporrà anche in alcuni brani dei suoi maggiori romanzi, dopo le prose abruzzesi, e la rielaborazione dell'antologia del 1902, non produrrà più nient'altro, se non si considerano le brevi prose autobiografiche de Le faville del maglio (1924-28).

  • Gabriele D'Annunzio, Le novelle della Pescara, Oscar Mondadori, Milano 1969.
  1. ^ Introduzione di Luigi Russi all'edizione Mondadori del 1969, pag. 12
  2. ^ Gianni Oliva, Centri e periferie. Particolari di geo-storia letteraria, cap. "L'Ottocento", Marsilio Editore 2006
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