WeAreModena: I sogni diventano realtà
Di autori vari
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A cura di Andrea De Carlo e Emi Paolo Palma
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Anteprima del libro
WeAreModena - autori vari
WeAreModena
I sogni diventano realtà
Prima Edizione Ebook 2018 © Edizioni del Loggione, Modena-Bologna
ISBN: 978-88-9347-075-9
Grafica copertina: Adriana Perrino
Edizioni del Loggione
Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena
http://www.loggione.it e-mail: loggione@loggione.it
Indice
WE ARE MODENA
LA QUIETE DELLA MORTE
NELLA SOLITUDINE DI UN GERANIO VERDE
PORTICI DI SANGUE
LA FINESTRA SUL GIARDINO
ROUTINE
I DOLORI DEL GIOVANE JACOPO VERDI
NONNA SPESSO TI PENSO
MI POSSO SEDERE?
SOLO PAROLE VUOTE
CIÒ CHE RESTA DELLA MATURITÀ
HOMO HOMINI LUPUS
DASNEWIDA
PALLOTTOLA
LACRIME DI SPERANZA
RICORDO
COME NON CRESCERE IN UN MONDO DI ADULTI
BACK TO LIFE
PENSIERI DI VETRO
LA RAGAZZA DELLA FOTOGRAFIA
SBAGLIATO, DIVERSO O UNICO
LE NONNE VANNO IN PARADISO
UN GIORNO DI ORDINARIA MONOTONIA
UN AMORE CHE NON SEGUE LA MODA
IL RISCATTO
TI REGALO IL MONDO
UNKNOWN PLEASURES
MOONLIGHT
SALLY
UN AMORE MALATO
A DUE CENTIMETRI DA TE
HOW CAN I BE ALRIGHT
NOCI D’AUTUNNO
Catalogo Edizioni del Loggione
Alessia Leone
WE ARE MODENA
L’idea di dare vita a un libro così particolare come ‘We Are Modena’ nasce da un valore che abbiamo condiviso entrambi fin da quando eravamo piccoli: la ricchezza dell’essere diversi. Siamo sempre stati due cugini con caratteristiche diametralmente opposte: uno alto, l’altro basso, uno razionale, l’altro irrazionale, uno pratico, l’altro sognatore. Nella rispettiva crescita, abbiamo sperimentato modi differenti di completarci, ma è risultato chiaro a entrambi fin da subito, seppur all’inizio in maniera inconscia, che il non affrontare la quotidianità nella stessa maniera rappresentasse tutt’altro che un ostacolo. Una volta divenuti maggiorenni, abbiamo cercato un modo per trasferire nel concreto l’idea della diversità come valore, e abbiamo pensato, mentre uno era negli Stati Uniti e l’altro stava tornando da una visita ai parenti in Puglia, di provare a realizzare questo progetto.
‘We Are Modena’ pone i ragazzi al centro, invitandoli a raccontare e a raccontarsi, comunicando, attraverso la scrittura, tutto ciò che li circonda, dai problemi di ogni giorno, passando per ferite mai ricucite, momenti di felicità e fantastiche fughe dal mondo reale. In questo libro sono presenti a nostro parere tre grandi caratteristiche, comuni a tutti gli adolescenti, che esprimono in modo tangibile ciò di cui sono capaci i giovani studenti delle scuole superiori. La caratteristica numero uno è la voglia di mettersi in gioco. Sono bastati qualche video di presentazione del progetto e una comunicazione dei rappresentanti d’istituto locali per attivare i ragazzi e motivarli a mettersi all’opera, segno del fatto che, dietro a uno stimolo vicino alla propria aspirazione, ciascun giovane sente il richiamo e lo segue senza pensarci più di tanto. La seconda caratteristica ha a che fare col contenuto dei racconti. Sfogliando le pagine di ‘We Are Modena’ troviamo uno spaccato della società intera, vista con gli occhi di adolescenti di un’età compresa tra i 14 e i 20 anni, riuscendo in questo modo ad avere la possibilità di comprendere al meglio modi di pensare e di agire tipici di questa generazione dei ‘millennials’.
La terza caratteristica, ultima ma non meno importante, riguarda proprio quella parola da cui siamo partiti: differenze. A raccontarci il complicato mondo di un adolescente modenese ci sono maschi e femmine, studenti all’inizio della propria esperienza alle superiori, altri che ne sono appena usciti, ragazzi spensierati, ragazzi a cui scoppia la testa da quanto pensano, ragazzi soli e ragazzi pieni di amici, giovani innamorati e giovani delusi: insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti.
Ci teniamo infine a ringraziare le nostre famiglie per la pazienza che hanno sempre mostrato e dimostrato nei confronti delle nostre strane idee di collaborazione fin dalla tenera età, e la casa editrice ‘Edizioni del Loggione’, nelle persone di Massimo Casarini e Katia Brentani, per la grande fiducia nei nostri confronti. Rivolgiamo infine un enorme grazie ai protagonisti di questo libro: i ragazzi che ci hanno permesso di metterci in discussione e continuare a credere nella reale bellezza di cooperare tutti insieme, tanto da portarci a compire la scelta, una volta terminato il concorso, di ampliare il numero di racconti selezionati da venti a trenta.
E ora, buona lettura!
Andrea De Carlo
Emi Paolo Palma
LA QUIETE DELLA MORTE
NELLA SOLITUDINE DI UN GERANIO VERDE
Aleksandr Vladimirovič Nuss
Sono nato il 23/10/1999 a Saratov, in Volgograd, Russia.
Studente all’Accademia Atestina Adolfo Venturi
,
indirizzo arti figurative di Modena.
Lara Iacone
Sinceramente non so che farmene della vita che mi hanno dato. Non so cosa scrivere sulle pagine bianche del poderoso libro della mia vita. Non ho una penna o matita oppure sangue con cui scrivere. Non ho forza per scrivere. Forse però potrei avere tutto, ma forse sono diventato cieco, perché io non vedo una strada da seguire. Sì, riesco a vedere le persone camminare accanto a me in questa desolata strada di periferia, mentre tutte le luminarie una ad una si spengono. Sono cieco di me stesso: ecco il dilemma. Ho perso la possibilità di vedere quelle che sono le mie ambizioni, la mia forza, la mia passione.
Ho abbandonato dietro il mio cammino la mia casa, per trovare conforto sulla strada e sugli uomini senza cuore che la abitano, pensando che quel mondo mi avrebbe rafforzato e aiutato a distogliere lo sguardo dalle cose futili, per riuscire a focalizzarlo sulla mia individualità, analizzandola completamente per trovare ciò di cui veramente ho bisogno. Invece divenni solo un mezzo di piacere per quegli uomini di passaggio. Il mio volto cambiò. Il mio corpo cambiò. Io, seduto su una Mercedes di vecchia tipologia, oppure su una Opel di diversi tipi e colori, come una Fiat di diverse generazioni... Esse erano la mia casa oramai.
Mi ricordo che la prima volta che lo feci, socchiusi le palpebre dal piacere: fu la prima volta che vidi mio nonno. Era davanti a me, morto, muto, vuoto e senza alcuna forza vitale in corpo. Il profumo di falegname era rapidamente svanito dalla doccia, e dagli incensi e i profumi della ditta delle pompe funebri. L’odore delle assi di ciliegio appena tagliato, scartavetrato. Il soffice tocco d’analisi di ciò che sarebbe stato il suo finale aspetto e impiego. L’odore della forte e aspra acquaragia (dopo un po’ che la si sniffa, però, compare in secondo piano un odore dolciastro, mellifluo e quasi sommessamente venefico) venne messo a tacere da un banale completo di giacca e pantaloni neri, camicia rigorosamente bianca e cravatta blu. Tutto era svanito. Gli occhi furono chiusi. La bocca era chiusa per paura che potesse dire qualcosa che negli ultimi momenti della sua travagliata malattia non era riuscito a dire.
Solo, in un’aura grigio fumo, io, a soli dieci anni. Avevo sentito tutti i suoi rantoli animaleschi e strozzati alla Luna, al Sole, alla Vita, a sua mamma e infine alla Morte, domandando loro spiegazioni. Domandando loro soprattutto pietà. Vidi tutta quest’impressione di vita, mentre il parroco del limitrofo paese diceva cose indefinite, non certe e nemmeno chiare, cose alle quali io non diedi mai importanza. Ero più concentrato a capire perché nemmeno una lacrima strisciasse sul selciato roseo della mia pelle. Sapevo che la ragione poteva essere probabilmente ch’era il mio reagire a un inaspettato miracolo misericordioso per il defunto. Poteva essere ch’io non riuscissi a piangere perché avevo capito che una pietà divina infine era giunta in soccorso di mio nonno morto. Poteva essere ch’io ne fossi sinceramente lieto e rasserenato, anche se già sentivo opprimente il silenzio attorno alla mia esistenza. Sentivo già l’abbandono, l’ennesimo abbandono. Già sentivo la segheria con i suoi strumenti, di cui già dimenticavo le nomenclature, silenziata nel degrado della solitudine. Era già sin troppo silenzioso il mondo.
La camminata era la solita, quella presente in un funerale come tanti, nella quale ipocritamente un rispettoso silenzio veniva condotto in pompa magna. Già si scorgevano sbadigli nei volti mestamente abbassati. Già si vedevano le finte lacrime che luccicavano e mai scendevano, e che rimanevano belle belle in perfetta posizione senza intaccare i volti curati dei lontani parenti. Le lesene decorate di motivi zoomorfi e naturalistici, compiute tramite l’utilizzo di finte dorature, appesantivano la scena. Il parroco che continuava a dire ciò che doveva dire. La cassa già chiusa e già tiravo un sospiro di sollievo, seduto al banco in prima fila, per il fatto che non avrei più visto quel forzato completo nero e classico che stonava con la figura e lo spirito del nonno. E mi ricordai che mancavano i suoi gemelli di madreperla che egli non mise mai per uggia. Infine mi ricordai che essi mancavano come mancava allo sguardo la cassa, quando la terra l’aveva già sigillata per sempre, per poi mutarla in una poltiglia di puro degrado naturale e primordiale. Lacrime amare scendevano in quegli istanti quando tutto ritornava a galla, mentre plasmavo il mio corpo in una massa informe di mondana passione, di superficialità e di sottomissione esistenziale. E molte volte pensavo: Se io fossi foco, arderei, per tutti i miei delitti e peccati Se io fossi acqua, annegherei nel mio cuore impuro per ritornare sui miei passi Se io fossi fumo e aria svanirei assieme a tutto ciò che vorrei dimenticare
.
A volte mentre fumo rimembro ciò che è definitivamente passato. Ciò che ora è irraggiungibile. Ho iniziato a fumare perché nel fumo e nella cenere trovo tutti i miei ricordi. Il fumo sono tutti i ricordi che mi fanno capire che ciò che contengono sono rimorsi di misere e riprovevoli azioni. La cenere, invece, è tutto quello che mi rimane di buono e sotto brucia quel rosso che è l’anima della sigaretta, la speranza che tutto possa cambiare in me, che possa ritrovare la forza di rialzarmi e di ritornare a scrivere. A vivere. A volte sembra di rivedermi giocare con il nonno, quel vecchietto di nuda e calva nuca, contornata da candidi capelli sottili ai lati dietro le orecchie, gli occhiali con finta doratura esfoliata oramai dagli anni vissuti e consumati. Gli occhi, piccole fessure di nero e luccicante e paterno e buono sguardo. Mi ricordo che la cosa più bella che noi due solitamente facevamo, che faceva preoccupare mia madre e che per questo motivo non smettevamo mai di riproporcelo, era fare un giro o due per il cortile: lui alla guida di una Punto di vecchio modello (quando il marchio delle vetture della Fiat erano ancora cinque o sei sbarrette inclinate di colore alluminio su un bluastro sfondo) e io sopra la vettura tenendo stretta nelle mie mani la sbarra del portapacchi impolverato di trucioli e segatura. Quando partiva, sentivo ogni volta una piacevole e leggera brezza accarezzarmi, sentivo tutta la mia giovane infanzia bruciare e vivere dentro il mio cuore. Sentivo che una vita così bella nessuno l’aveva né mai l’avrebbe vissuta. Solo io avevo questo privilegio.
Non so dove mi trovo. So solo che poco fa, ma molto poco fa, feci visita a un pub irlandese avente un drago come insegna, anche se non ricordo che colore avessero utilizzato per dipingerlo. Le vetrate piombate e la costruzione rigorosamente visibile in legno già un po’ consunto per dare l’illusione di un possibile collegamento con un passato di qualità per quelle birre che vendevano: come se tutto ciò che ha una data avesse qualità e tutto ciò che è solo presente facesse realmente così schifo da non essere messa in mostra. Mai una boutique o un bar o una cioccolateria hanno sulla propria insegna una data che non sia precedente agli anni Sessanta o agli anni Cinquanta.
Non so dove mi trovo. Forse ho fumato così tante sigarette che il fumo dei rimasugli nel posacenere non svanirà via come il mio senso di colpa per qualcosa di inspiegabile. Oltre per la ragione di essere colui che vende gratis il proprio corpo al fine irraggiungibile di sentirsi sempre più libero dal proprio essere, sempre così tanto severo con se stesso. Non so veramente spiegare perché mai mi dovrei continuare a sentirmi in colpa. Non ho ancora compiuto diciotto anni e già corrodo il mio essere nel dubbio e nel senso di colpa, come se facessi una doccia nell’acido sera dopo sera. Non so veramente dove mi trovo. La strada non è più nera, ma ha assorbito una sfumatura verdastra, e le luci delle luminarie riflesse sulla rugosa superficie hanno invece assorbito quella di un rosa antico leggiadro. Tutto era contrastante, come i colori anche il tempo: era una notte stallata con un pieno di Luna pallida e lucente, eppure iniziò a diluviare.
E quella notte feci come facevo una volta, quando mia mamma si tratteneva nei pomeriggi di diluvio in riunioni scolastiche: io, mentre mio nonno scartavetrava le porte per incontentabili borghesi di campagna e mia nonna leggeva i suoi libri preferiti, danzavo sotto la pioggia con un grande ombrello nero, proprio come quei musical di molti anni addietro, molto più datati di me. Forse datati come lo erano i miei nonni. Sentivo, come sentivo molti anni fa, i tuoni in arrivo. Invece di proteggermi, mettermi al riparo, io continuavo con maggiore intensità e maggior voglia. Io necessitavo di quella danza propiziatoria. Lo so che ci poteva essere benissimo alla guida di quella danza tutta la birra che avevo bevuto in quel pub irlandese, ma credo che la birra mi avrebbe condotto anche al coperto mentre danzavo. Invece c’era dietro qualcosa di più profondo. Un possibile ritorno alle origini. Una purificazione. Chi lo sa?
Le lacrime, sempre più consistenti di quella magnifica pioggia argentea, rilucevano come galassie in uno sconfinato Universo. Un Universo alla deriva, mi permetto di aggiungere. E con alle spalle i fari di una vettura irriconoscibile puntati dietro le spalle. Si fermò, mi suonò e attese. Io mi voltai e, poco curante dell’accecante luce sparata sulla mia faccia e nemmeno della vettura davanti a me ferma, mi sdraiai sull’asfalto. Ho sempre amato l’odore della combinazione di asfalto e pioggia. Il caldo estivo svaniva. Ma il suo svanire si percepiva come una bassa coltre di calore che non superava mai le ginocchia. Un caldo tenue, già con l’umidità presente in lui. Già il suo disfacimento molecolare, da parte mia, si percepiva e si elogiava e si venerava.
E per la prima volta sentivo quella leggera e morente coltre di caldo, già reso tiepido dalla continua pioggia, sui miei capelli, sul mio volto che guardava tanto attentamente svanire la prospettiva della caduta di lacrima dopo lacrima di quell’infinito diluvio sulle lenti dei miei occhiali. Tutto si offuscava e tutto già si adattava al rigore delle linee curve e incontenibili e irregolari dell’acqua. Continuavo ad ogni modo a osservare il continuo della mia vita sotto la pioggia. E vidi un’ombra che usciva dalla vettura e si avvicinava a me.
E tutto allora si adattò a quell’oscurità appena giunta.
PORTICI DI SANGUE
Alessandro Solmi
Ho studiato presso il liceo linguistico Allegretti di Vignola
e frequento l’università di Economia di Bologna.
Le mie passioni sono il calcio e gli amici
Teresa Morselli
Dovevo comprare la carne per quattro persone. Erano le 8 e la macelleria apriva alle 9.