Presentazione
A chi la visitasse per la prima volta, Pagford apparirebbe come un’idilliaca cittadina inglese. Un
gioiello incastonato tra verdi colline, con un’antica abbazia, una piazza lastricata di ciottoli, case
eleganti e prati ordinatamente falciati.
Ma sotto lo smalto perfetto di questo villaggio di provincia si nascondono ipocrisia, rancori e
tradimenti. Tutti a Pagford, dietro le tende ben tirate delle loro case, sembrano aver intrapreso
una guerra personale e universale: figli contro genitori, mogli contro mariti, benestanti contro
emarginati. La morte di Barry Fairbrother, il consigliere più amato e odiato della città, porta alla
luce il vero cuore di Pagford e dei suoi abitanti: la lotta per il suo posto all’interno
dell’amministrazione locale è un terremoto che sbriciola le fondamenta, che rimescola divisioni e
alleanze. Eppure, dalla crisi totale, dalla distruzione di certezze e valori, ecco emergere una verità
spiazzante, ironica, purificatrice: che la vita è imprevedibile e spietata, e affrontarla con coraggio
è l’unico modo per non farsi travolgere, oltre che dalle sue tragedie, anche dal ridicolo.
J.K. Rowling firma un romanzo forte e disarmante sulla società contemporanea, una commedia
aspra e commovente sulla nozione di impegno e responsabilità. In questo libro di conflitti
generazionali e riscatti le trame si intrecciano in modo magistrale e i personaggi rimangono
impressi come un marchio a fuoco. Farà arrabbiare, farà piangere, farà ridere, ma non si potrà
distoglierne lo sguardo, perché Pagford, con tutte le sue contraddizioni e le sue bassezze, è una
realtà così vicina, così conosciuta, da non lasciare nessuno indifferente.
J. K. Rowling è l’autrice della saga di Harry Potter: sette libri pubblicati tra il 1998 e il 2008,
tradotti in 73 lingue, che hanno venduto più di 450 milioni di copie in tutto il mondo e da cui sono
stati tratti otto fortunatissimi film.
Oltre a essere stata insignita dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico (OBE) per il suo
prezioso contributo alla letteratura per ragazzi, J.K. Rowling ha ricevuto numerosi altri premi e
onorificenze, tra cui il Premio Principe delle Asturie, la Legione d’onore francese e il Premio Hans
Christian Andersen. Nel 2008 ha aperto la cerimonia di consegna delle lauree presso l’Università
di Harvard. Sostiene numerosi progetti di beneficenza ed è la fondatrice di Lumos,
un’associazione creata allo scopo di migliorare le vite dei bambini più disagiati.
J.K. Rowling vive a Edimburgo con suo marito e i suoi tre figli.
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A Neil
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Parte Prima
6.11 Una vacanza è da ritenersi imprevista:
a) quando un consigliere di un’amministrazione locale non dichiara, entro i termini stabiliti, di
accettare il mandato; oppure
b) quando viene ricevuto il suo avviso di dimissioni; oppure
c) in caso di morte...
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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Domenica
Barry Fairbrother non voleva uscire a cena. Aveva avuto un mal di testa martellante per quasi
tutto il fine settimana e stava lottando contro il tempo per consegnare il pezzo al giornale locale
entro la scadenza.
A pranzo, tuttavia, sua moglie era stata un po’ fredda e taciturna, e Barry aveva concluso che il
biglietto di buon anniversario non aveva attenuato il crimine di essere rimasto tutta la mattina
chiuso nel suo studio. Il fatto poi che avesse scritto di Krystal, che Mary non poteva soffrire pur
non dandolo a vedere, non migliorava le cose.
«Mary, voglio portarti fuori a cena» aveva mentito, per sciogliere il gelo. «Diciannove anni,
ragazzi! Diciannove anni e vostra madre non è mai stata più bella.»
Mary si era ammorbidita e aveva sorriso, così Barry aveva telefonato al circolo del golf, che era
vicino a casa e dove sicuramente avrebbero trovato un tavolo. Cercava di compiacere sua moglie
nelle piccole cose, perché si era reso conto, dopo quasi vent’anni trascorsi insieme, di quante
volte l’aveva delusa in quelle grandi. Non lo aveva mai fatto apposta. Semplicemente, avevano
opinioni molto diverse sulle cose alle quali dare più spazio nella vita.
I quattro figli di Barry e Mary erano abbastanza grandi per non aver più bisogno della baby-sitter.
Quando li salutò per l’ultima volta stavano guardando la televisione e soltanto Declan, il più
piccolo, si girò a guardarlo e sollevò la mano per ricambiare il saluto.
Quando Barry fece marcia indietro nel vialetto di casa e poi si addentrò nella graziosa cittadina di
Pagford, dove vivevano da quando erano sposati, il mal di testa continuava a pulsare dietro
l’orecchio. Percorsero Church Row, la strada ripida dove si ergevano in tutta la loro stravaganza e
solidità vittoriane le case più costose, svoltarono davanti alla chiesa neogotica, nella quale una
volta aveva visto le sue gemelle interpretare Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat, e
attraversarono la Piazza, dove poterono avere una visuale completa dello scuro scheletro
dell’abbazia in rovina che dominava il profilo del paese, in alto su una collina a fondersi nel cielo
violetto.
Girando il volante fra le dita per imboccare le curve familiari, Barry riusciva a pensare soltanto
agli errori che era certo di aver fatto, nella fretta di finire l’articolo che aveva appena spedito per
e-mail alla Yarvil and District Gazette. Loquace e simpatico di persona, faticava a trasferire sulla
carta la sua personalità.
Il circolo del golf distava appena quattro minuti dalla Piazza: era poco più in là del punto in cui la
cittadina moriva in un ultimo rantolo di vecchie villette. Barry parcheggiò la monovolume davanti
al ristorante del circolo, il Birdie, e per un attimo restò lì, accanto alla macchina, mentre Mary si
ritoccava il rossetto. Era bello sentire sul viso l’aria fresca della sera. Guardando i contorni del
campo di golf disfarsi al crepuscolo, Barry si chiese perché fosse ancora iscritto al circolo. Come
golfista era scarso: aveva uno swing irregolare e un handicap alto. E aveva tante cose da fare. La
testa ora pulsava più che mai.
Mary spense la luce dello specchietto e chiuse la portiera del passeggero. Barry premette il
telecomando appeso al portachiavi che aveva in mano; i tacchi alti di sua moglie ticchettarono
sull’asfalto, il sistema di chiusura della monovolume fece un bip e Barry sperò che mangiando gli
passasse la nausea.
Poi un dolore che non aveva mai provato gli spaccò in due il cervello come una palla da
demolizione. Del bruciore alle ginocchia, quando batterono sull’asfalto freddo, quasi non si
accorse; sentì nel cranio un’ondata di fuoco e sangue; fu una fitta straziante, insopportabile,
sennonché dovette sopportarla, visto che all’oblio mancava ancora un minuto.
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Mary urlò – e continuò a urlare. Dal bar arrivarono di corsa parecchi uomini. Uno tornò subito
dentro a vedere se tra i membri presenti c’era uno dei medici in pensione del circolo. Una coppia
sposata, due conoscenti di Barry e Mary, udì il trambusto dal ristorante e abbandonò gli antipasti
per precipitarsi fuori a vedere se poteva fare qualcosa. Il marito chiamò soccorso dal cellulare.
L’ambulanza doveva arrivare dalla città vicina, Yarvil, e ci mise venticinque minuti. Quando la luce
intermittente blu si riversò sopra la scena, Barry era sdraiato a terra, immobile e inerte in una
pozza di vomito; Mary era accovacciata accanto a lui, con i collant strappati sulle ginocchia, a
tenergli la mano, singhiozzando e sussurrando il suo nome.
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Lunedì
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I
«Tieniti forte» disse Miles Mollison, in piedi nella cucina di una delle grandi case di Church Row.
Aveva aspettato le sei e mezzo del mattino per fare quella telefonata. Era stata una nottataccia,
piena di lunghi momenti di veglia intervallati da sprazzi di sonno agitato. Alle quattro del mattino
aveva capito che anche sua moglie era sveglia e per un po’ avevano parlato al buio, a bassa voce.
E perfino allora, mentre discutevano di quanto erano stati costretti a vedere, ciascuno cercando
di scacciare il vago senso di paura e turbamento, piccole, impalpabili ondate di eccitazione
avevano solleticato le viscere di Miles al pensiero di comunicare la notizia a suo padre. Aveva
pensato di aspettare fino alle sette, ma il timore che qualcun altro potesse batterlo sul tempo lo
aveva spinto a telefonare prima.
«Cos’è successo?» rimbombò la voce di Howard, con una lieve nota metallica: Miles aveva messo
il vivavoce per Samantha. Lei, marrone mogano nella vestaglia rosa chiaro, aveva approfittato
dell’alzataccia per dare un’altra mano di autoabbronzante sopra la tintarella naturale che
cominciava a scolorire. La cucina odorava di un miscuglio di caffè istantaneo e cocco sintetico.
«È morto Fairbrother. È crollato ieri sera al circolo del golf. Sam e io eravamo a cena al Birdie.»
«Fairbrother morto?» ruggì Howard.
Dalla modulazione della voce si capiva che, sì, si era aspettato un cambiamento drastico nelle
condizioni di Barry Fairbrother, ma nemmeno lui era arrivato a prevederne la morte.
«Crollato nel parcheggio» ripeté Miles.
«Dio santo» disse Howard. «Aveva poco più di quarant’anni, vero? Dio santo.»
Miles e Samantha ascoltarono Howard respirare come un cavallo spompato. Era sempre a corto
di fiato, la mattina.
«Cos’è stato? Il cuore?»
«Qualcosa nel cervello, si pensa. Abbiamo accompagnato Mary all’ospedale e...»
Ma Howard non stava ascoltando. Miles e Samantha lo sentirono parlare lontano dal ricevitore.
«Barry Fairbrother! Morto! È Miles!»
Miles e Samantha sorseggiarono il caffè, in attesa che Howard tornasse. Quando Samantha si
sedette al tavolo della cucina la vestaglia si aprì, scoprendo il profilo dei grandi seni appoggiati
sugli avambracci. La pressione verso l’alto li faceva apparire più pieni e lisci di quanto lo fossero
quando pendevano liberi. Dalla pelle coriacea appena sopra l’incavo si irradiavano fenditure
sottili che ormai non scomparivano più. Da giovane aveva fatto uso frequente del lettino solare.
«Cosa?» chiese Howard, tornato al telefono. «Cosa dicevi dell’ospedale?»
«Sam e io siamo saliti sull’ambulanza» scandì bene Miles. «Con Mary e il corpo.»
Samantha notò come la seconda versione di Miles mettesse in risalto l’aspetto più commerciale
della storia, per così dire. Non lo biasimò. La ricompensa per aver dovuto sopportare
quell’esperienza orribile era il diritto di raccontarla agli altri. Sapeva che non l’avrebbe mai
dimenticata: Mary che piangeva; gli occhi di Barry ancora mezzo aperti sopra la mascherina a
forma di museruola; lei e Miles che cercavano di interpretare l’espressione del paramedico; lo
sballottamento in quello spazio angusto; i finestrini scuri; il terrore.
«Dio santo» disse Howard per la terza volta, ignorando le domande di Shirley che si udivano
attutite nel sottofondo e dedicando tutta l’attenzione a Miles. «È morto nel parcheggio così, di
colpo?»
«Già» rispose Miles. «Quando l’ho visto io, ormai era chiaro che non c’era più niente da fare.»
Era la sua prima bugia e dicendola distolse lo sguardo dalla moglie. Lei ricordò il suo grande
braccio protettivo attorno alle spalle tremanti di Mary: Ce la farà... ce la farà...
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Ma in fondo, pensò Samantha, volendo essere giusta con Miles, come si faceva a sapere se ce
l’avrebbe fatta o no, mentre quelli mettevano mascherine e infilavano aghi? Sembrava che
stessero cercando di salvarlo e né lei né Miles avevano capito che tutto sarebbe stato inutile
finché quella giovane dottoressa non si era avvicinata a Mary. Samantha vedeva ancora, con
orribile nitidezza, la faccia nuda e atterrita di Mary e l’espressione della giovane donna in camice
bianco, con gli occhiali e i capelli lisci e lustri: composta ma un po’ circospetta... erano scene che
si vedevano continuamente, nelle serie tv, ma poi, quando succedeva davvero...
«Per niente» stava dicendo Miles. «Proprio giovedì Gavin aveva giocato con lui a squash.»
«E gli era sembrato che stesse bene?»
«Sì, sì. Aveva battuto Gavin alla grande.»
«Dio santo. Ma guarda un po’... Aspetta un attimo, la mamma vuole parlarti.»
Un rumore sordo, uno metallico e si udì la voce delicata di Shirley.
«Che brutta esperienza, Miles» disse. «Tu stai bene?»
Samantha si riempì maldestramente la bocca di caffè, che colò giù dagli angoli delle labbra fin sui
lati del mento, e lei si asciugò il viso e il petto con la manica. Miles aveva assunto la voce che
usava spesso quando parlava con la madre: più profonda del solito, un tono da «ho il controllo
della situazione», «niente mi turba», tutto vigore e senso pratico. Certe volte, soprattutto
quando era ubriaca, Samantha imitava i dialoghi di Miles e Shirley. «Non preoccuparti, mamma.
C’è qui il tuo Miles. Il tuo soldatino.» «Tesoro, sei meraviglioso: così grande, coraggioso,
intelligente.» In un paio di occasioni, negli ultimi tempi, Samantha si era esibita nella scenetta di
fronte ad altri, lasciando Miles contrariato e impermalito, benché fingesse di ridere. L’ultima volta
avevano litigato in macchina tornando a casa.
«L’avete accompagnata fino all’ospedale?» stava dicendo Shirley in vivavoce.
No, pensò Samantha, a metà strada ci siamo stufati e abbiamo chiesto di scendere.
«Era il minimo che potessimo fare. Avremmo voluto fare di più.»
Samantha si alzò e andò al tostapane.
«Mary vi sarà stata grata» disse Shirley. Samantha aprì rumorosamente il contenitore del pane e
infilò quattro fette nelle fessure. La voce di Miles si normalizzò un po’.
«Sì, be’, quando i medici hanno detto che... hanno confermato che era morto, lei ha voluto Colin
e Tessa Wall. Sam gli ha telefonato, abbiamo aspettato che arrivassero e poi siamo andati via.»
«Be’, è stata una bella fortuna per Mary che ci foste voi» commentò Shirley. «Papà vuole parlare
di nuovo con te, Miles, te lo passo. Ci sentiamo più avanti.»
«‘Ci sentiamo più avanti’» le fece il verso Samantha rivolta al bollitore, senza emettere suono e
dimenando la testa. Il suo riflesso distorto era gonfio, dopo la notte insonne, e gli occhi color
nocciola erano arrossati. Nella fretta di assistere al resoconto per Howard, si era passata per
sbaglio l’autoabbronzante sull’orlo delle palpebre.
«Perché tu e Sam non venite da noi, stasera?» stava rimbombando la voce di Howard. «No,
aspetta un attimo... La mamma mi ha ricordato che abbiamo il bridge con i Bulgen. Venite
domani. A cena. Verso le sette.»
«Vediamo» rispose Miles, lanciando uno sguardo a Samantha. «Sentirò che impegni ha Sam.»
Lei non gli fece segno per dire se ne aveva voglia o no. Quando Miles mise giù il telefono,
nell’atmosfera si avvertì uno strano calo di tensione.
«Non riescono a crederci» disse, come se lei non avesse sentito niente.
Mangiarono il pane tostato e bevvero dell’altro caffè in silenzio. Masticando, Samantha sentì
attenuarsi l’insofferenza. Le venne in mente di quando, a notte fonda, si era svegliata di
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soprassalto nella camera buia e aveva provato un sollievo e una gratitudine insensati nel sentire
Miles accanto a lei, grosso, panciuto, che sapeva di vetiver e sudore stantio. Poi immaginò se
stessa raccontare alle clienti del negozio di un uomo che era morto proprio davanti ai suoi occhi e
della corsa disperata verso l’ospedale. Pensò a come descrivere i vari aspetti del viaggio e alla
scena culminante con la dottoressa. La giovinezza di quella donna padrona di sé aveva reso tutto
ancora peggiore. Avrebbero dovuto darlo a una persona più anziana, il compito di comunicare la
notizia. Poi, con maggior sollievo, ricordò che l’indomani aveva appuntamento con il
rappresentante della Champêtre: al telefono era stato gradevolmente galante.
«Farò meglio ad andare» disse Miles e finì di bere il caffè, con gli occhi posati sul cielo che
schiariva oltre la finestra. Portando al lavandino il piatto e la tazza vuoti, tirò un sospiro profondo
e batté la mano sulla spalla della moglie.
«Però, Cristo, è una cosa che rimette tutto in prospettiva, eh?»
E scrollando la testa dai capelli cortissimi e brizzolati, uscì dalla cucina.
Certe volte Samantha trovava Miles assurdo e, sempre più spesso, noioso. Ogni tanto, però, la
sua ampollosità le piaceva, come nelle occasioni formali le piaceva indossare un cappello. Quella
mattina, dopo tutto, un po’ di solennità e serietà ci stavano bene. Finì il pane tostato e
sparecchiò, mettendo a punto mentalmente la storia che pensava di raccontare alla sua
commessa.
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II
«È morto Barry Fairbrother» ansimò Ruth Price.
Aveva quasi fatto una corsa su per il gelido sentiero del giardino per trascorrere ancora qualche
minuto con il marito prima che lui uscisse per andare al lavoro. Non si era fermata all’ingresso a
togliersi il cappotto ma, ancora intabarrata e con i guanti infilati, si era precipitata in cucina, dove
Simon e i loro figli adolescenti stavano facendo colazione.
Suo marito si bloccò di colpo, con la fetta di pane tostato a metà strada, che poi abbassò con
teatrale lentezza. I due ragazzi, entrambi in divisa scolastica, guardarono prima un genitore e poi
l’altro, con moderato interesse.
«Un aneurisma, si pensa» disse Ruth, ancora un po’ affannata, e intanto si tolse i guanti
pizzicandosi un dito dopo l’altro, srotolò la sciarpa e sbottonò il cappotto. Donna scura e
magrolina, dagli occhi provati, dolenti, stava bene con l’uniforme azzurra da infermiera. «È
crollato al circolo del golf... L’hanno portato da noi Sam e Miles Mollison... Poi sono arrivati Colin
e Tessa Wall...»
Scattò via per andare ad appendere le sue cose fuori, all’ingresso, e tornò in tempo per
rispondere alla domanda che Simon aveva gridato.
«Cos’è un naneurisma?»
«Aneurisma. La rottura di un’arteria nel cervello.»
Si avvicinò rapidamente al bollitore, lo accese e poi, al piano di lavoro, cominciò a raccogliere le
briciole attorno al tostapane, sempre parlando.
«Deve aver avuto un’emorragia cerebrale enorme. Sua moglie, poverina... è completamente
distrutta...»
Per un attimo scossa, Ruth guardò dalla finestra della cucina, al di là del fresco candore del suo
prato ricoperto di brina, l’abbazia dall’altra parte della valle, spoglia e scheletrica contro il cielo
rosa pallido e grigio, e il panorama che era il vanto di Casa Bellavista. Pagford, che di notte era
niente più di un grappolo di luci sfavillanti in una nera valletta molto più giù, stava sbucando nella
fredda luce del sole. Tutte cose che Ruth non vide: mentalmente era ancora all’ospedale, a
guardare Mary che usciva dalla stanza in cui giaceva Barry, dopo che tutti gli inutili apparecchi per
tenerlo in vita erano stati rimossi. La pietà di Ruth Price sgorgava liberamente e sinceramente per
coloro che credeva simili a lei. «No, no, no, no» aveva singhiozzato Mary, e quell’istintivo diniego
si era riverberato in Ruth, perché le era stata offerta l’occasione di vedere una fuggevole
immagine di se stessa in una situazione identica...
Quasi incapace di sopportare il pensiero, si girò a guardare Simon. I capelli castano chiaro erano
ancora folti, il fisico asciutto quasi come quando aveva vent’anni e le rughette agli angoli degli
occhi erano soltanto affascinanti, ma Ruth, tornata al lavoro di infermiera dopo molto tempo, si
era ritrovata a dover fare di nuovo i conti con le mille possibili disfunzioni del corpo umano. Da
giovane era stata più distaccata; adesso capiva quanto erano fortunati, tutti loro, a essere vivi.
«Non hanno potuto far niente?» chiese Simon. «Non potevano tappargliela?»
Era deluso, come se la professione medica, ancora una volta, avesse combinato un pasticcio
rifiutandosi di fare la cosa più semplice e ovvia.
Andrew sprizzava feroce piacere. Aveva notato che negli ultimi tempi suo padre aveva preso
l’abitudine di opporre ai termini medici utilizzati da sua madre delle parole rozze, ignoranti.
Emorragia cerebrale. Tappargliela. Sua madre non si accorse di niente. Non si accorgeva mai di
cosa faceva suo padre. Andrew mangiava i suoi Weetabix e bruciava di odio.
«Era troppo tardi per fare qualcosa, quando ce l’hanno portato» rispose Ruth, immergendo le
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bustine del tè nella teiera. «È morto in ambulanza, appena prima di arrivare.»
«Porca miseria» disse Simon. «Cos’aveva, quarant’anni?»
Ma Ruth si era distratta.
«Paul, dietro hai i capelli tutti arruffati. Non te li sei spazzolati, vero?»
Tirò fuori dalla borsetta una spazzola e la cacciò in mano al figlio minore.
«Non c’era stata, non so, qualche avvisaglia?» chiese Simon, mentre Paul spingeva la spazzola nei
folti capelli arruffati.
«Pare che avesse un gran mal di testa da un paio di giorni.»
«Ah» fece Simon, a bocca piena. «E non ha fatto niente?»
«No, non gli sembrava preoccupante.»
Simon mandò giù il boccone.
«Ma guarda un po’. Eh, bisogna stare attenti» disse, solenne.
Quanta saggezza, pensò Andrew, pieno di rabbia e disprezzo; che profondità. Quindi, se a Barry
Fairbrother era scoppiato il cervello, la colpa era solo sua. Sarai contento, stronzo, gridò a suo
padre, tra sé.
Simon indicò il figlio maggiore con il coltello «Ah, a proposito. Questo adesso si trova un lavoro. Il
Faccia di pizza qui.»
Ruth trasalì e spostò lo sguardo dal marito al figlio. Andrew chinò la testa sopra la scodella di
pappetta beige e sulla guancia che si imporporava l’acne spiccò livida e lucente.
«Sì» riprese Simon. «Questa merdina scansafatiche comincerà a guadagnarsi i suoi soldi. Vuole
fumare? Che si compri le sigarette con il suo stipendio. Basta con la paghetta.»
«Andrew!» gemette Ruth. «Non avrai mica...?»
«Oh, sì, invece. L’ho beccato nella rimessa» disse Simon, con un’espressione che era un distillato
d’astio.
«Andrew!»
«Da noi non avrai più neanche un soldo. Vuoi le sigarette? Compratele» riprese Simon.
«Ma avevamo detto» piagnucolò Ruth, «avevamo detto che adesso, con gli esami...»
«Col casino che ha fatto con i test, saremo fortunati se riuscirà mai a prendersi un titolo di studio.
Che vada a lavorare da McDonald’s, così almeno si farà un’esperienza.» Simon si alzò e accostò la
sedia, gustandosi la vista della testa china di Andrew e dello scuro profilo brufoloso. «Perché se
dovrai ripetere gli esami, bello mio, noi non ti finanzieremo. Adesso o mai più.»
«Oh, Simon» lo rimproverò Ruth.
«Cosa vuoi?»
Simon fece due passi verso la moglie. Ruth indietreggiò verso il lavandino. A Paul sfuggì di mano
la spazzola di plastica rosa.
«Non ho nessuna intenzione di finanziare i vizi schifosi di questo stronzetto! Ci vuole un bel
fegato, cazzo, a fumare nella mia cazzo di rimessa!»
Alla parola ‘mia’, Simon si batté la mano sul petto: a quel colpo sordo, Ruth trasalì di nuovo.
«Io, quando ero un ragazzino brufoloso dell’età di questo qui, portavo a casa uno stipendio. Se
vuole le sigarette, che se le compri coi suoi soldi, è chiaro? Chiaro?»
Aveva la faccia a quindici centimetri di distanza da quella di Ruth.
«Sì, Simon» disse lei con un filo di voce.
Andrew si sentì sciogliere le budella. Si era fatto una promessa nemmeno dieci giorni prima: il
momento era già arrivato? Ma suo padre si allontanò da sua madre e uscì a grandi passi dalla
cucina dirigendosi verso la porta di casa. Ruth, Andrew e Paul restarono lì fermi, come se
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avessero promesso di non muoversi in sua assenza.
«Hai fatto benzina?» le urlò Simon, come sempre quando lei aveva il turno di notte.
«Sì» gridò Ruth di rimando, in un tono che voleva tanto essere allegro, normale.
La porta si aprì e poi sbatté.
Ruth si occupò della teiera, aspettando che l’ondata di tensione defluisse. Solo quando Andrew si
alzò per andare a lavarsi i denti lei parlò.
«Si preoccupa per te, Andrew. Per la tua salute.»
Sì, col cazzo.
Nella sua mente, Andrew ribatteva alle parolacce di suo padre con altrettante parolacce. Nella
sua mente, poteva sfidare Simon ad armi pari.
A voce alta, a sua madre, disse: «Sì, certo.»
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III
Evertree Crescent era una falce di luna di bassi villini degli anni Trenta, a due minuti di distanza
dalla piazza principale di Pagford. Al numero trentasei, in una casa affittata da più tempo di
qualsiasi altra casa della via, Shirley Mollison, appoggiata al guanciale, era seduta a sorseggiare il
tè che il marito le aveva portato. Il riflesso nelle ante a specchio dell’armadio a muro che aveva di
fronte era un po’ annebbiato, in parte perché in quel momento lei non portava gli occhiali e in
parte per via del debole chiarore che traspariva dalla fantasia di rose delle tende. A quella luce
tenue e lusinghiera, il viso bianco e rosa con le fossette nelle guance e coronato da corti capelli
argentei pareva quello di un angioletto.
La camera aveva spazio a malapena per il letto singolo di Shirley e quello matrimoniale di
Howard, letti gemelli non identici. Il materasso di Howard, che recava ancora la sua colossale
impronta, era vuoto. Dal punto in cui Shirley e il suo roseo riflesso sedevano l’uno di fronte
all’altra, ad assaporare la notizia che pareva ancora spumare nell’aria come champagne, si udiva
il ronzare e il sibilare della doccia.
Barry Fairbrother era morto. Defunto. Schiattato. Nessun evento di importanza nazionale,
nessuna guerra, nessun crollo di borsa, nessun attacco terroristico avrebbe potuto accendere in
Shirley l’eccitato terrore, l’avido interesse e le frenetiche congetture che in quel momento la
consumavano.
Aveva odiato Barry Fairbrother. Shirley e suo marito, che in fatto di amicizie e inimicizie di solito
erano una persona sola, su questo punto avevano perso un po’ il passo. Qualche volta Howard
aveva ammesso di trovare divertente quell’omino barbuto che lo avversava implacabilmente ai
tavoli graffiati della sala parrocchiale di Pagford: ma per Shirley non c’era alcuna differenza fra
questioni politiche e questioni personali. Barry aveva contrastato Howard nell’impresa più
importante della sua vita e questo aveva reso Barry il nemico acerrimo di Shirley.
La lealtà nei confronti del marito era la ragione principale dell’appassionata antipatia di Shirley,
ma non l’unica. Il suo istinto verso il prossimo era affinato per un unico scopo, come l’olfatto in
un cane antidroga: Shirley era perennemente tesa a scovare la condiscendenza e già da tempo ne
aveva fiutato il puzzo negli atteggiamenti di Barry Fairbrother e dei suoi amici del Consiglio locale.
I Fairbrother del mondo partivano dal presupposto che la loro istruzione universitaria li rendesse
migliori di persone come lei e Howard, che le loro opinioni contassero di più. Be’, quel giorno la
loro arroganza si era presa una bella sberla. La morte improvvisa di Fairbrother rafforzava Shirley
nella convinzione, da lei nutrita da tempo, che qualunque cosa potessero aver pensato lui e i suoi
seguaci, Fairbrother apparteneva a un ordine inferiore e più debole rispetto a suo marito, il
quale, oltre a tutte le altre virtù, aveva quella di essere sopravvissuto sette anni prima a un
infarto.
(Mai, neppure per un istante, Shirley aveva pensato che il suo Howard sarebbe morto, neanche
durante l’intervento chirurgico. La presenza di Howard sulla terra era per lei un dato di fatto,
come la luce del sole e l’ossigeno. Era quanto aveva detto agli amici e ai vicini di casa che poi
avevano parlato di miracolo, della fortuna di avere un reparto di cardiologia così vicino, a Yarvil, e
delle pene atroci che lei doveva aver passato.
«Io ho sempre saputo che ce l’avrebbe fatta» aveva risposto Shirley, tranquilla e serena. «Non ne
ho mai dubitato.»
E lui infatti era lì, sano come sempre, e Fairbrother invece all’obitorio. Ma guarda un po’!)
Nell’euforia di quella mattina, a Shirley tornò in mente il giorno dopo la nascita di suo figlio Miles.
Quella volta, tanti anni prima, era seduta a letto proprio come adesso, con la luce del sole che si
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riversava dalla finestra nella stanza d’ospedale, in mano una tazza di tè che qualcun altro le aveva
preparato, in attesa che le portassero il suo nuovo bellissimo bambino perché lo allattasse.
Nascita e morte: tanto nell’una quanto nell’altra l’esistenza umana sembrava più intensa, e lei
stessa più importante. La notizia dell’improvvisa scomparsa di Barry Fairbrother era sulle sue
ginocchia come un neonato paffutello da esporre all’invidia di amici e conoscenti; e lei era la
fonte, la sorgente, perché era stata la prima, o quasi, a riceverla.
Finché Howard era stato nella stanza, niente era trapelato di quella gioia effervescente che si
agitava in lei. Prima che lui si alzasse per andare a fare la doccia, si erano soltanto scambiati i
commenti di rito che una morte improvvisa richiede. Mentre le frasi fatte e i luoghi comuni
scivolavano dall’uno all’altra come le sfere di un abaco, Shirley ovviamente sapeva che Howard
traboccava di gioia quanto lei; ma esprimere quei sentimenti ad alta voce, quando la notizia della
morte era ancora fresca nell’aria, sarebbe equivalso a ballare nudi e urlare oscenità, e Howard e
Shirley erano vestiti, sempre, di un invisibile strato di decoro che non si toglievano mai.
A Shirley venne un altro pensiero felice. Posò la tazza sul comodino, sgusciò fuori dal letto e
percorse il corridoio a passi felpati per andare a bussare alla porta del bagno.
«Howard?»
Sovrastando il tamburellare della doccia, le rispose un verso interrogativo.
«Secondo te dovrei mettere qualcosa sul sito? Su Fairbrother?»
«Buona idea» gridò lui da dietro la porta, dopo un istante di riflessione. «Ottima idea.»
Così lei andò in tutta fretta nello studio. Prima era stata la camera da letto più piccola della
villetta, da tempo ormai lasciata libera dalla loro figlia Patricia, che si era trasferita a Londra e
veniva nominata di rado.
Shirley era immensamente orgogliosa della sua capacità di usare Internet. Aveva fatto un corso
serale a Yarvil dieci anni prima, dov’era stata fra gli allievi più vecchi e più tardi. Cionondimeno
aveva perseverato, decisa a diventare l’amministratore dell’emozionante nuovo sito del Consiglio
locale di Pagford. Si autenticò e aprì la pagina del sito.
Il breve comunicato fluì con facilità, quasi come se fossero state le sue dita stesse a comporlo.
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Consigliere Barry Fairbrother
È con immenso dolore che annunciamo la morte del consigliere Barry Fairbrother. Siamo vicini
alla sua famiglia in questo difficile momento.
Rilesse con attenzione, premette invio e restò a guardare il messaggio che compariva nella
bacheca.
Quando la principessa Diana era morta, la regina aveva ammainato la bandiera di Buckingham
Palace. Sua Maestà occupava un posto molto speciale nella vita interiore di Shirley.
Contemplando il messaggio sul sito, fu soddisfatta e felice di aver fatto quel che andava fatto. È
dai migliori che si impara...
Uscì dalla bacheca del Consiglio locale e aprì il suo sito di medicina preferito, dove digitò
accuratamente le parole «cervello» e «morte» nella maschera di ricerca.
Le occorrenze erano infinite. Shirley fece scorrere le varie possibilità, con gli occhi che andavano
su e giù, chiedendosi a quale di quelle patologie mortali, alcune impronunciabili, doveva la sua
attuale felicità. Shirley faceva volontariato all’ospedale: da quando aveva cominciato a lavorare al
Policlinico South West aveva maturato un certo interesse per la medicina e di tanto in tanto
offriva diagnosi ai suoi amici.
Ma quella mattina era impossibile concentrarsi sulle parole lunghe e sui sintomi; il pensiero
fuggiva sempre via, per posarsi sulla divulgazione della notizia: mentalmente stava già
componendo e ricomponendo un elenco di numeri di telefono. Chissà, pensò, se Aubrey e Julia lo
avevano saputo e cosa avrebbero detto; e chissà se Howard le avrebbe permesso di dirlo a
Maureen o invece voleva tenersi per sé il piacere di farlo.
Era tutto straordinariamente emozionante.
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IV
Andrew Price chiuse la porta di ingresso della piccola casa bianca e seguì il fratello minore giù per
il ripido sentiero crocchiante di brina che dal giardino conduceva al gelido cancello di metallo e
alla stradina al di là. Nessuno dei due ragazzi degnò di un’occhiata la familiare veduta che si aprì
ai loro piedi: la piccolissima cittadina di Pagford raccolta a coppa in una valletta fra tre colline,
una delle quali sormontata dalle rovine dell’abbazia del Millecento. Un fiumiciattolo che
serpeggiava attorno alla collina attraversava il paese, scavalcato da un ponte di pietra che pareva
un giocattolo. Per i due fratelli era una scena trita e noiosa come un fondale dipinto; Andrew
disprezzava il fatto che suo padre, nelle rare occasioni in cui la famiglia aveva ospiti, credesse di
potersene fare un vanto, come se fosse stato lui a progettare e costruire quel panorama. Negli
ultimi tempi Andrew aveva deciso che avrebbe preferito una vista su asfalto, finestre rotte e
graffiti; sognava Londra e una vita che contasse qualcosa.
I fratelli arrivarono spediti in fondo alla stradina, poi rallentarono e all’incrocio con la strada più
ampia si fermarono. Andrew infilò la mano nella siepe e ci frugò dentro un po’ finché tirò fuori un
pacchetto di Benson & Hedges mezzo pieno e una scatola di fiammiferi umidiccia. Dopo vari
tentativi falliti, con la capocchia del fiammifero che si sbriciolava ogni volta, riuscì ad accendersi
la sigaretta. Due o tre boccate profonde e il brontolio del motore dello scuolabus ruppe il silenzio.
Andrew fece saltar via meticolosamente l’estremità accesa della sigaretta e infilò l’avanzo nel
pacchetto.
Lo scuolabus, quando arrivava alla svolta per Casa Bellavista, era già pieno per due terzi, perché
aveva già rastrellato le case e le cascine più sperdute. I fratelli si sedettero in posti separati come
sempre: ciascuno occupò un sedile doppio e si girò a guardare dal finestrino, con lo scuolabus che
scendeva verso Pagford rombando e sbandando.
Ai piedi della loro collina c’era una casa in un giardino a forma di cuneo. I quattro Fairbrother di
solito aspettavano davanti al cancello principale, ma quel giorno non c’era nessuno. Le tende
erano tutte chiuse. Andrew si chiese se, quando moriva qualcuno in famiglia, si dovesse stare in
casa al buio.
Qualche settimana prima, a una festa nel teatro scolastico, Andrew si era sbaciucchiato con
Niamh Fairbrother, una delle due gemelle. Da allora, lei aveva mostrato per un po’ l’antipatica
tendenza a seguirlo come un’ombra. I genitori di Andrew conoscevano appena i Fairbrother;
Simon e Ruth quasi non ne avevano, di amici, ma gli era sembrato che manifestassero una tiepida
simpatia per Barry, direttore della minuscola filiale dell’unica banca ancora presente a Pagford. Il
nome di Fairbrother usciva spesso, quando si parlava per esempio del Consiglio locale, delle
rappresentazioni al teatro municipale e delle maratone parrocchiali. Erano tutte cose che a
Andrew non interessavano e dalle quali i suoi genitori si tenevano alla larga, tranne che per una
sottoscrizione o un biglietto di una lotteria ogni tanto.
Quando lo scuolabus svoltò a sinistra in Church Row per poi passare davanti alle ampie case
vittoriane allineate su terrazze digradanti, Andrew si abbandonò a una piccola fantasticheria in
cui suo padre cadeva stecchito, ammazzato a colpi d’arma da fuoco da un cecchino invisibile.
Immaginava se stesso che batteva la mano sulla spalla di sua madre parlando al telefono con
l’impresario di pompe funebri. Con la sigaretta fra le labbra, ordinava la bara più economica.
I tre Jawanda – Jaswant, Sukhvinder e Rajpal – salirono sullo scuolabus in fondo a Church Row.
Andrew aveva cercato scrupolosamente un posto dietro a un sedile vuoto e sperava che
Sukhvinder si sedesse davanti a lui, non per lei (Ciccio, il migliore amico di Andrew, la chiamava
BB, abbreviazione di Bocce e Baffi), ma perché Lei molto spesso sceglieva di sedersi accanto a
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Sukhvinder. E, vuoi che quella mattina le sue sollecitazioni telepatiche fossero particolarmente
potenti, vuoi per altri motivi, sta di fatto che Sukhvinder si sedette proprio davanti a lui. Andrew,
felice come una pasqua, guardò il finestrino sporco senza vederlo e avvicinò a sé lo zainetto per
nascondere l’erezione causata dall’intenso vibrare dello scuolabus.
Le aspettative montavano a ogni strappo e ogni spinta generati dell’ingombrante veicolo che
avanzava in quelle stradine anguste, svoltava nello stretto incrocio per immettersi nella piazza del
paese e di lì puntava verso la Sua via.
Andrew non aveva mai provato tanto interesse per una ragazza. Era nuova; strano momento, il
secondo semestre prima degli esami del quinto anno, per cambiare scuola. Si chiamava Gaia ed
era un nome adatto, perché lui non lo aveva mai sentito e lei era una novità assoluta. Era salita
sullo scuolabus una mattina come per testimoniare in tutta semplicità le vette sublimi cui la
natura sapeva arrivare e poi si era seduta due file davanti a lui, che ne aveva contemplato la
perfezione delle spalle e della nuca.
Aveva i capelli castano ramati che ricadevano in ampie volute appena sotto le scapole; il naso,
perfettamente diritto, stretto e all’insù, metteva in risalto la provocante pienezza della bocca
pallida; gli occhi, dalle ciglia folte, erano distanti fra loro e di un nocciola dalle mille screziature
verdi, come una mela renetta. Andrew non l’aveva mai vista truccata e niente deturpava la sua
pelle, né brufoli né macchie. Il suo viso era una sintesi di simmetria perfetta e proporzioni
insolite; avrebbe potuto guardarla per ore, per cercare di individuare la fonte di quel fascino.
Appena la settimana prima era tornato a casa dopo due ore di biologia in cui, grazie a una
disposizione casuale ma divina dei banchi e delle teste, era riuscito a guardarla quasi
costantemente. Poi, al sicuro nella sua camera, aveva scritto (dopo che per mezz’ora aveva
fissato il muro, in seguito a una seduta masturbatoria) «la bellezza è geometria.» Aveva strappato
subito il foglio e si sentiva stupido tutte le volte che ci pensava; e tuttavia in quelle parole c’era
qualcosa di vero. Quella magnifica bellezza era questione di minime correzioni di un modello,
dalle quali risultava un’armonia mozzafiato.
Lei sarebbe arrivata da un momento all’altro e, se si fosse seduta accanto a quella tracagnotta e
musona di Sukhvinder, come faceva tanto spesso, avrebbe potuto sentire l’odore di nicotina che
lui emanava. Gli piaceva vedere oggetti inanimati reagire al suo corpo; gli piaceva vedere il sedile
cedere un po’ quando lei vi adagiava sopra il suo peso, e quella massa di capelli ororamati
incurvarsi contro la sbarra d’acciaio.
L’autista rallentò e Andrew distolse lo sguardo dalle porte, fingendosi assorto; si sarebbe girato
quando lei fosse salita, come se si fosse accorto solo in quel momento che si erano fermati;
avrebbe cercato i suoi occhi, magari le avrebbe rivolto un cenno di saluto. Aspettò di sentire le
porte che si aprivano, ma il pulsare sommesso del motore non fu interrotto dal familiare cigolio
seguito da un tonfo sordo.
Andrew si guardò attorno e non vide nient’altro che una piccola, breve e desolata Hope Street:
due file di case a schiera. L’autista si era sporto per assicurarsi che lei non stesse arrivando.
Andrew avrebbe voluto dirgli di aspettare, perché appena la settimana prima lei si era precipitata
fuori da una di quelle casette e aveva fatto una corsa sul marciapiede (non c’era stato niente di
male a guardare, visto che tutti guardavano) e l’immagine di lei che correva era bastata per
occupargli la mente per ore, ma l’autista ruotò il grande volante e lo scuolabus ripartì. Andrew
tornò alla sua contemplazione del finestrino sporco con il cuore spezzato e i testicoli in fiamme.
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V
Un tempo, le case a schiera di Hope Street erano state case di operai. Gavin Hughes si stava
rasando lentamente e con insolita cura nel bagno del numero dieci. Era così biondo e la sua barba
era così rada che in realtà era un’operazione necessaria due sole volte alla settimana; ma quel
bagno gelido e un po’ sporco era l’unico rifugio. Se fosse riuscito a tirare le otto lì dentro, sarebbe
stato plausibile che uscisse subito di casa per andare al lavoro. Aveva una paura tremenda di
parlare con Kay.
La sera prima era riuscito a schivare la discussione solo intraprendendo la copula più lunga e
inventiva in cui si fossero mai avventurati dopo i primissimi tempi della loro relazione. Kay aveva
risposto subito e con sconcertante entusiasmo: guizzando da una posizione all’altra; sollevando le
gambe tozze e forti; contorcendosi come l’acrobata slava cui tanto somigliava, con quella pelle
olivastra e i cortissimi capelli scuri. Gavin aveva capito troppo tardi che lei aveva preso
quell’insolito atto assertivo per la tacita confessione delle cose che era determinato a non dirle.
Kay lo aveva baciato avidamente; all’inizio lui aveva trovato erotici i suoi baci umidi e profondi,
ma adesso gli riuscivano quasi ripugnanti. Ci mise molto a raggiungere l’orgasmo: l’orrore per ciò
che aveva scatenato minacciava continuamente di indebolire l’erezione. E anche questo aveva
giocato a suo sfavore: lei, a quanto pareva, aveva preso la sua insolita resistenza per sfoggio di
virtuosismo.
Quando finalmente tutto si era concluso, lei si era accoccolata al suo fianco e gli aveva
accarezzato un po’ i capelli, al buio. Lui era rimasto a fissare tristemente il vuoto, consapevole di
aver stretto, senza volerlo, i legami che aveva vagamente pianificato di allentare. Quando lei si
era addormentata, se n’era stato lì, con un braccio intrappolato sotto di lei e il lenzuolo umido
che aderiva sgradevolmente alla coscia, su un materasso con le molle vecchie e pieno di bitorzoli,
a invocare il coraggio di fare il bastardo, di svignarsela e non tornare mai più.
Il bagno di Kay puzzava di muffa e spugne bagnate. Numerosi capelli erano appiccicati alle pareti
della piccola vasca. Certi punti dei muri erano scrostati.
«Bisognerebbe dargli una sistemata» aveva detto Kay.
Gavin si era guardato bene dall’offrirle aiuto. Le cose che non le aveva detto erano il suo
talismano, la sua corazza; le mise in fila mentalmente e le passò tutte come le perle di un rosario.
Non aveva mai pronunciato la parola ‘amore’. Non aveva mai parlato di matrimonio. Non le
aveva mai chiesto di trasferirsi a Pagford. Però lei era lì, e lui di questo, in un modo o nell’altro, si
sentiva responsabile.
La sua faccia lo guardava dallo specchio annerito. Sotto gli occhi aveva delle ombre violacee e i
capelli biondi, ormai radi, erano secchi e sottili. La lampadina nuda sopra di lui illuminava la faccia
inerme e caprina con una crudeltà da interrogatorio.
Trentaquattro anni, pensò, e ne dimostro almeno quaranta.
Sollevò il rasoio e delicatamente andò all’attacco dei due spessi peli che crescevano su un lato e
sull’altro del pomo d’Adamo.
Alla porta del bagno arrivò una scarica di colpi. A Gavin scivolò la mano e dal mento colò del
sangue sulla camicia bianca fresca di bucato.
«Il tuo fidanzato» urlò una voce femminile inferocita «è ancora in bagno e io farò tardi!»
«Ho finito!» gridò lui.
La ferita gli faceva male, ma che gliene importava? Ecco la scusa pronta: Guarda cosa mi ha fatto
fare tua figlia. Così adesso prima di andare al lavoro dovrò passare da casa a cambiarmi la
camicia. Quasi rasserenato, afferrò la giacca e la cravatta che aveva appeso al gancio dietro la
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porta e girò la chiave.
Gaia si fece largo, entrò, sbatté la porta e fece scattare la serratura. Fuori, sul piccolissimo
ballatoio, che puzzava di gomma bruciata, a Gavin tornarono in mente la testiera che sbatteva
contro il muro, gli scricchiolii del letto di pino da due soldi e i gemiti e gli strilli di Kay della sera
prima. Certe volte era facile dimenticare che sua figlia era in casa.
Trotterellò giù per la scala spoglia. Kay gli aveva detto che pensava di levigarla e lucidarla, ma lui
dubitava che lo avrebbe mai fatto; anche l’appartamento di Londra era sempre stato trasandato
e maltenuto. In ogni modo, era convinto che lei contasse di andare presto a vivere da lui, cosa
che invece non sarebbe mai successa: quello era l’ultimo bastione e lui, se costretto, lì si sarebbe
asserragliato.
«Cosa ti sei fatto?» strillò Kay vedendo il sangue sulla camicia. Era avvolta nel dozzinale kimono
scarlatto che a lui non piaceva ma che le stava tanto bene.
«Gaia ha preso a pugni la porta e mi ha fatto fare un salto. Adesso dovrò andare a casa a
cambiarmi.»
«Ma ti ho preparato la colazione!» disse lei, prontamente.
Lui capì che la puzza di gomma bruciata era in realtà odore di uova strapazzate. Sembravano
anemiche e troppo cotte.
«Non posso, Kay, devo cambiarmi questa camicia, devo...»
Lei stava già servendo cucchiaiate di massa rappresa nei piatti.
«Cinque minuti, potrai stare cinque minuti...?»
Nella tasca della giacca il cellulare suonò e lui lo tirò fuori, chiedendosi se avrebbe avuto il
coraggio di fingere che fosse una convocazione urgente.
«Cristo santo» disse, senza dover simulare il suo orrore.
«Cosa c’è?»
«Barry. Barry Fairbrother! È... cazzo, è... è morto! È Miles. Cristo santo. Cazzo cazzo cazzo!»
Lei posò il cucchiaio di legno.
«Chi è Barry Fairbrother?»
«Uno con cui gioco a squash. Ha quarantaquattro anni! Cristo santo!»
Rilesse il messaggio. Kay lo guardava, confusa. Sapeva che Miles era il suo socio dello studio
legale, ma Gavin non glielo aveva mai presentato. E Barry Fairbrother era solo un nome, per lei.
Dalle scale arrivarono dei colpi fragorosi: Gaia scendeva di corsa, sbattendo i piedi.
«Uova» constatò, al tavolo della cucina. «Come tutte le mattine. No. E grazie a lui» gettò
un’occhiata velenosa in direzione della nuca di Gavin, «probabilmente ho perso quel cavolo di
scuolabus.»
«Be’, se non fossi stata tanto lì a pettinarti» gridò Kay alle spalle della figlia, che invece di
rispondere si precipitò come una furia nel corridoio, con la borsa che rimbalzava contro le pareti,
per poi uscire sbattendo la porta.
«Kay, devo andare» disse Gavin.
«Ma ho già preparato tutto, in un attimo...»
«Devo cambiarmi la camicia. E poi, merda, l’ho fatto io il testamento a Barry, dovrò tenermi
pronto. No, mi spiace, devo andare. Non posso crederci» aggiunse, rileggendo il messaggio di
Miles. «Non posso crederci. Avevamo giocato a squash giovedì. Non posso... Cristo.»
Un uomo era morto: lei non poteva dir niente, niente che non la mettesse dalla parte del torto.
Lui la baciò velocemente sulla bocca inerte e se ne andò, imboccando lo stretto corridoio buio.
«Ci vediamo...?»
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«Dopo ti chiamo» le gridò, fingendo di non aver sentito.
Gavin attraversò in fretta la strada per andare alla macchina, riempiendosi dell’aria fredda e
frizzante e trattenendo nella mente la morte di Barry come la fiala di un liquido volatile che non si
azzardava ad agitare. Girando la chiave dell’accensione immaginò le gemelle di Barry che
piangevano, a faccia in giù nel letto a castello. Le aveva viste in quella posizione, l’una sopra
l’altra, ciascuna a giocare con il suo Nintendo DS, quando era passato davanti alla porta della loro
camera l’ultima volta che era stato a cena da Barry.
I Fairbrother erano la coppia più affezionata che avesse mai conosciuto. Non avrebbe più
mangiato a casa loro. A Barry aveva detto spesso quant’era fortunato. Mica poi tanto, in fondo.
Qualcuno gli stava venendo incontro sul marciapiede; preso dal panico al pensiero che fosse Gaia
uscita a sgridarlo o a chiedere un passaggio, fece retromarcia in modo troppo deciso e urtò l’auto
parcheggiata dietro: la vecchia Vauxhall Corsa di Kay. La passante entrò nella visuale del
finestrino e lui vide una vecchia smunta e zoppicante in pantofole. Sudato, ruotò il volante fino in
fondo e uscì dal posteggio. Accelerando diede un’occhiata nel retrovisore e scorse Gaia tornare
nella casa di Kay.
Cominciava ad avere qualche difficoltà di respirazione. E aveva un nodo allo stomaco. Solo adesso
capiva che Barry Fairbrother era stato il suo migliore amico.
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VI
Lo scuolabus era arrivato ai Fields, il complesso edilizio che si estendeva sgangheratamente alla
periferia della città di Yarvil. Case grigio sporco, alcune con sopra iniziali e oscenità scritte con la
bomboletta; qua e là una finestra sbarrata con assi di legno; antenne paraboliche ed erba lasciata
andare: niente di tutto questo, al pari delle rovine dell’abbazia di Pagford scintillanti di brina, era
degno del minimo sforzo d’attenzione da parte di Andrew. Una volta i Fields lo avevano
incuriosito e intimorito, ma ormai da tempo l’abitudine li aveva resi banali.
Sui marciapiedi sciamavano bambini e adolescenti che andavano a scuola, molti in T-shirt
nonostante il freddo. Andrew individuò Krystal Weedon, leggenda della scuola e oggetto di
battute volgari. Ridendo sguaiatamente, ballonzolava su e giù in mezzo a un gruppo assortito di
adolescenti. Da ciascun orecchio oscillavano orecchini multipli e la strisciolina del tanga spuntava
visibilmente sopra la vita bassa dei pantaloni scampanati della tuta. Andrew la conosceva dai
tempi delle elementari e la ragazzina figurava in molti dei ricordi più coloriti della sua estrema
giovinezza. L’avevano presa in giro per il suo nome
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, ma Krystal, al contrario di quanto avrebbe fatto qualsiasi altra bambina di cinque anni, era stata
allo scherzo, ridacchiando e strillando: «Weed-on! Krystal weed-on!» Si era tirata giù le
mutandine in mezzo all’aula e aveva finto di fare la pipì. Andrew aveva un ricordo nitido della sua
nuda vulva rosea; era come se in mezzo a loro fosse arrivato di colpo Babbo Natale; e ricordava la
Oates che, paonazza, trascinava via Krystal dall’aula.
A dodici anni, dopo il trasferimento alla scuola polivalente, Krystal era la ragazza più sviluppata
della classe e un giorno si era fermata in fondo all’aula, dove durante il compito in classe di
matematica si depositavano gli esercizi completati e si prendevano quelli da completare. Come
fosse cominciato tutto, Andrew (tra gli ultimi a finire il compito, come sempre) non ne aveva
idea, fatto sta che quando era andato alle cassette di plastica dei compiti, ordinatamente
allineate sugli armadietti in fondo, aveva trovato Rob Calder e Mark Richards che a turno
prendevano in mano e strizzavano i seni di Krystal. Quasi tutti gli altri maschi guardavano
elettrizzati, le facce nascoste dietro i libri tenuti in piedi, mentre le ragazze, molte delle quali
rosse in viso, fingevano di non aver visto niente. Andrew aveva capito che metà dei ragazzi
avevano già avuto la loro parte e si aspettavano che anche lui si prendesse la sua. Da un lato lo
desiderava, dall’altro no. A spaventarlo non era il suo seno, ma la spavalda espressione di sfida
sul suo viso: aveva paura di sbagliare. Quando alla fine l’ignaro e inefficace professor Simmonds,
sollevati gli occhi, aveva detto: «Krystal, sei lì da un secolo; prendi un foglio e siediti», Andrew si
era sentito quasi sollevato.
Benché da tempo fossero in gruppi di lavoro diversi, appartenevano sempre alla stessa classe,
così Andrew sapeva che Krystal faceva più assenze che presenze e che si cacciava sempre nei
guai. Era una che non conosceva la paura, come i ragazzi che arrivavano a scuola con un
tatuaggio fatto in casa, un labbro spaccato e le sigarette, e con storie di scontri con la polizia,
droga e sesso facile.
La scuola secondaria polivalente Winterdown era appena dentro i confini di Yarvil, un grande
edificio a tre piani, brutto, con l’esterno fatto di finestre intervallate da pannelli dipinti di
turchese. Quando le porte dello scuolabus si aprirono, Andrew si unì alle masse in pullover e
giacca nera che attraversavano disordinatamente il parcheggio per arrivare ai due ingressi
principali della scuola. Stava per raggiungere la folla che si ammassava davanti alla doppia porta
quando vide accostare una Nissan Micra, così si allontanò per aspettare il suo migliore amico.
Bombolo, Botte, Botolo, Svampo, Wally, Cicciobombo, Ciccio: Stuart Wall era il ragazzo con più
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soprannomi della scuola. L’andatura dinoccolata, l’estrema magrezza, la faccia lunga e
giallognola, le orecchie enormi e l’espressione invariabilmente offesa erano caratteristiche già
abbastanza particolari, ma a distinguerlo erano l’umorismo tagliente, il distacco e il contegno.
Riusciva a scrollarsi di dosso tutti quei difetti che in altri avrebbero determinato un carattere
meno forte, infischiandosene di essere figlio di un vicepreside deriso e malvisto e di una psicologa
scolastica grassa e trasandata. Lui era anzitutto e soprattutto se stesso: Ciccio, notabile della
scuola, punto di riferimento, e perfino gli abitanti dei Fields ridevano alle sue battute, mentre
raramente si azzardavano a ridere – tali erano la freddezza e la crudeltà con cui lui restituiva i
colpi – delle sue sfortunate parentele.
La compostezza di Ciccio restò assoluta anche quella mattina in cui, in bella vista davanti alle orde
di ragazzi che fluivano senza genitori al seguito, dovette scendere dalla Nissan in compagnia non
solo della madre ma anche del padre, che di solito arrivavano a scuola separatamente. Quando
Ciccio, con la sua lunga falcata, si avvicinò, Andrew ripensò a Krystal Weedon e alla strisciolina del
tanga.
«Tutto a posto, Arf?» disse Ciccio.
«Ciccio.»
Si infilarono insieme nella folla, con lo zaino buttato in spalla che, sbattendo in faccia ai ragazzi
più bassi, creava un piccolo varco alle loro spalle.
«Cubicolo piangeva» disse Ciccio, mentre salivano le scale gremite.
«Eh?»
«Ieri sera è morto Barry Fairbrother.»
«Ah, sì, ho sentito» rispose Andrew.
Ciccio gli lanciò lo sguardo furbo e beffardo che riservava a chi esagerava, chi fingeva di sapere
più di quanto sapeva, chi fingeva di essere più di quel che era.
«Mia mamma era all’ospedale, quando l’hanno portato lì» disse Andrew, punto sul vivo. «Ci
lavora, all’ospedale, ti ricordi?»
«Ah, già» rispose Ciccio, e lo sguardo furbo si spense. «Vabbè, comunque lui e Cubicolo erano
culo e camicia. Oggi Cubicolo farà l’annuncio. Brutta roba, Arf.»
In cima alle scale si separarono per andare ciascuno nella sua classe. I compagni di Andrew erano
già quasi tutti dentro, seduti sui banchi a dondolare le gambe o appoggiati agli armadietti sui lati.
Gli zaini erano sotto le sedie. Il lunedì mattina si parlava di più e più forte del solito, perché per
andare all’adunata in palestra bisognava uscire dall’edificio. La professoressa era seduta alla
cattedra, a segnare le presenze man mano che gli alunni entravano. Non faceva mai l’appello
vero e proprio: era uno dei piccoli stratagemmi con cui cercava di ingraziarseli, e per questo tutta
la classe la disprezzava.
Krystal arrivò quando la campanella dell’adunata stava già squillando. Dalla porta gridò: «Ci sono,
prof!» e fece subito dietro front. Tutti gli altri la seguirono, sempre parlando. Andrew e Ciccio si
riunirono in cima alle scale e il flusso li trasportò oltre le porte del retro e poi nel grande cortile
asfaltato.
La palestra puzzava di sudore e scarpe da ginnastica; contro le spoglie pareti imbiancate
rimbalzava il baccano di milleduecento adolescenti che parlavano avidamente. Il pavimento era
ricoperto di un duro rivestimento color grigio industriale e pieno di macchie, provvisto di varie
righe colorate che delimitavano i campi di badminton, tennis, hockey e calcio; se ci si cadeva a
gambe nude provocava tremende sbucciature, ma per chi ci doveva star seduto per tutta
l’adunata risultava meno scomodo del legno. Andrew e Ciccio avevano ormai ottenuto il
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privilegio di sedere sulle sedie con lo schienale di plastica e le gambe tubolari allineate in fondo
alla palestra per gli allievi di quinta e sesta.
Di fronte ai ragazzi c’era un vecchio leggio di legno, accanto al quale sedeva la preside, la
professoressa Shawcross. Il padre di Ciccio, Colin ‘Cubicolo’ Wall, si avvicinò per andare a
prendere posto accanto a lei. Altissimo, aveva la fronte spaziosa accentuata dalla calvizie e
un’andatura imitabilissima, con le braccia rigide che andavano su e giù più di quanto fosse
necessario per la normale deambulazione. Tutti lo chiamavano Cubicolo per via della sua
famigerata ossessione di assicurarsi che le caselle alla parete fuori dal suo ufficio fossero sempre
in ordine. In alcune venivano sistemati i registri dopo la compilazione, mentre altre avevano un
utilizzo più specifico. «Mi raccomando, Ailsa, mettilo nel cubicolo giusto!» «Non lasciarlo lì mezzo
fuori, Kevin, se no va a finire che cade giù dal cubicolo!» «Non calpestarlo, ragazzina! Raccoglilo,
dammelo qui, questo deve stare in un cubicolo!»
Tutti gli altri professori le chiamavano sempre caselle. Era opinione diffusa che facessero così per
distinguersi da Cubicolo.
«Scorrete, scorrete» disse Meacher, il professore di falegnameria, a Andrew e Ciccio, che
avevano lasciato un posto vuoto fra loro e Kevin Cooper.
Cubicolo prese posto dietro il leggio. I ragazzi non si zittirono subito, come invece avrebbero fatto
con la preside. Nel preciso istante in cui l’ultima voce si spense, si aprì una doppia porta al centro
della parete di destra ed entrò Gaia.
Diede un’occhiata in giro (Andrew poté permettersi di guardarla, dal momento che la guardava
mezza palestra: era arrivata in ritardo, era nuova ed era bella, e tanto stava parlando Cubicolo) e
a passo spedito ma non troppo (perché aveva come Ciccio il dono della padronanza di sé) passò
dietro i ragazzi. Andrew non poteva ruotare ulteriormente la testa per continuare a guardarla, ma
si rese conto, e fu un colpo tanto forte da fargli fischiare le orecchie, che scorrendo insieme a
Ciccio aveva lasciato libero il posto accanto a sé.
Udì avvicinarsi dei passi rapidi e leggeri e un attimo dopo eccola: si era seduta proprio lì. Spinse
appena la sedia di Andrew, il corpo di lei che muoveva quello di lui. Andrew sentì nelle narici un
sussurro di profumo. Aveva tutto il lato sinistro del corpo che bruciava al pensiero che lei fosse lì
ed era un sollievo che da quella parte l’acne fosse molto meno grave che sulla guancia destra.
Non era mai stato così vicino a lei e non sapeva se azzardarsi a guardarla, farle un cenno di saluto,
ma subito capì di essere rimasto bloccato troppo a lungo e che ormai era troppo tardi perché
risultasse naturale.
Grattandosi la tempia sinistra per nascondersi il viso, ruotò le orbite in giù per guardarle le mani,
abbandonate l’una nell’altra sulle ginocchia. Le unghie erano corte, pulite e senza smalto. A un
mignolo c’era un semplice anello d’argento.
Ciccio mosse discretamente il gomito per premerlo contro il fianco di Andrew.
«Infine» disse Cubicolo, e Andrew si rese conto che quella parola gliel’aveva già sentita ripetere
due volte e che nella sala la quiete si era solidificata in vero e proprio silenzio: nessuno muoveva
più un muscolo e l’aria era carica di curiosità, gioia e turbamento.
«Infine» ripeté Cubicolo, e perse il controllo della voce, «devo fare un... devo fare un annuncio
molto triste. Il signor Barry Fairbrother, che ha allenato il nostro brovi... bravi... bravissimo
equipaggio femminile di canottaggio negli ultimi due anni, è...»
Emise un verso strozzato e si passò una mano sugli occhi.
«... morto...»
Cubicolo Wall stava piangendo davanti a tutti; la testa pelata e bitorzoluta gli ricadde sul petto.
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Un suono soffocato e una risatina attraversarono simultaneamente la folla che assisteva e molte
teste si girarono in direzione di Ciccio, che restò sublimamente sereno; un tantino beffardo, ma
per il resto imperturbato.
«... morto...» singhiozzò Cubicolo, e la preside si alzò in piedi, con l’aria seccata.
«... è morto... ieri sera.»
Un versaccio si levò, acuto, da un punto imprecisato in una delle ultime file di sedie.
«Chi ha riso?» ruggì Cubicolo, e l’aria crepitò di deliziosa tensione. «COME TI PERMETTI? Chi è la
ragazza che ha riso, chi è?»
Il professor Meacher era già in piedi e gesticolava furiosamente a qualcuno seduto in mezzo alla
fila appena dietro Andrew e Ciccio; la sedia di Andrew ricevette un’altra lieve spinta, perché Gaia,
come tutti gli altri, si era girata a guardare. Era come se Andrew avesse acquisito nuove capacità
supersensoriali: sentiva il corpo di Gaia chino verso il suo. Se si fosse girato dalla parte opposta, si
sarebbero ritrovati petto contro seno.
«Chi ha riso?» ripeté Cubicolo, sollevandosi assurdamente in punta di piedi, come se da lì potesse
scoprire il colpevole. Intanto Meacher muoveva la bocca e rivolgeva freneticamente dei cenni alla
persona su cui aveva scelto di far ricadere la colpa.
«Chi è, professor Meacher?» gridò Cubicolo.
Meacher sembrava restio a rispondere; aveva ancora le sue difficoltà a convincere la colpevole ad
alzarsi dalla sedia, ma siccome Cubicolo cominciava a dare segni preoccupanti di voler
abbandonare il leggio per indagare personalmente, Krystal Weedon scattò in piedi, paonazza, e
cominciò a farsi strada per uscire dalla fila di sedie.
«Ci vediamo nel mio ufficio subito dopo l’adunata!» urlò Cubicolo. «È una vergogna. Una
mancanza assoluta di rispetto! Sparisci!»
Ma Krystal si fermò in fondo alla fila, tirò su il dito medio e gridò: «IO NON HO FATTO NIENTE,
COGLIONE!»
Ci fu un’esplosione di risate e chiacchiericcio concitato; gli insegnanti fecero qualche inutile
tentativo di ristabilire il silenzio e uno o due cercarono di intimidire le loro scolaresche alzandosi
in piedi.
Le doppie porte si richiusero alle spalle di Krystal e del professor Meacher.
«Silenzio!» urlò la preside, e nella sala tornò una quiete precaria, carica di rumorini e bisbigli.
Ciccio guardava fisso davanti a sé e una volta tanto nella sua aria indifferente c’era qualcosa di
forzato e sulla sua pelle un’ombra più scura.
Andrew sentì Gaia riappoggiarsi alla sedia. Raccolto tutto il coraggio che aveva, guardò a sinistra
e le rivolse un ampio sorriso. Lei gli sorrise a sua volta.
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VII
Anche se la salumeria di Pagford apriva alle nove e trenta, Howard Mollison era arrivato prima.
Era un uomo straordinariamente obeso di sessantaquattro anni. La pancia era un grembiulone
che gli ricadeva sulle cosce, tanto in basso che quasi tutti, la prima volta che posavano gli occhi su
di lui, pensavano subito al suo pene, chiedendosi quando fosse stata l’ultima volta che lo aveva
visto, come facesse a lavarselo, come facesse a compiere uno qualsiasi degli atti per cui il pene è
concepito. Un po’ per le riflessioni che il suo fisico suscitava, un po’ per le sue battute sempre sul
filo del rasoio, Howard riusciva a mettere a disagio e disarmare in ugual misura, tanto che i
clienti, la prima volta che entravano nel suo negozio, acquistavano sempre più del previsto. Lui
lavorando non lasciava mai cadere la conversazione: mentre la manona tozza spingeva
morbidamente l’affettatrice avanti e indietro e sul cellophane sottostante si increspavano seriche
fettine di prosciutto, i rotondi occhi azzurri erano sempre pronti all’ammicco e il mento al
tremolio di una risata.
Per il suo lavoro, Howard si era inventato un costume: camicia bianca, un grembiule di tela
sostenuta verde scuro, pantaloni a coste e il tipico berretto da cacciatore di cervi nel quale aveva
inserito un certo numero di esche artificiali per la pesca. Se il berretto da cacciatore di cervi era
mai stato uno scherzo, da molto tempo non lo era più. Tutte le mattine dei giorni feriali, Howard
se lo posizionava con serissima precisione sui folti riccioli grigi, aiutato da uno specchietto nel
bagno del personale.
L’apertura mattutina era fonte di costante piacere per Howard. Che bello girare nel negozio
quando l’unico rumore era il sommesso ronzio delle celle frigorifere, quanto gli piaceva riportare
tutto in vita – accendere le luci, aprire le saracinesche, sollevare i coperchi e scoprire i tesori del
banco refrigerato: i carciofi di un grigioverde chiaro, le olive nero onice, i pomodori secchi
arricciati come cavallucci marini rosso rubino nel loro olio screziato d’erbe.
Quella mattina, tuttavia, il piacere era mescolato all’impazienza. La sua socia in affari Maureen
era già in ritardo e, come prima era successo a Miles, Howard aveva paura che qualcuno lo
battesse sul tempo nel darle la sensazionale notizia, perché lei non aveva il cellulare.
Si fermò accanto all’arco da poco aperto nel muro fra la salumeria e il vecchio negozio di
calzature, destinato a diventare presto il caffè più nuovo di Pagford, e controllò lo spesso telo di
plastica trasparente che impediva alla polvere di depositarsi nella salumeria. Contavano di aprire
il caffè prima di Pasqua, in tempo per attirare i turisti in vacanza nella West Country per i quali
ogni anno Howard riempiva le vetrine di sidro locale, formaggi, bamboline di foglie di granturco.
Alle sue spalle tintinnò il campanello e lui si girò, con il cuore ricucito e rinforzato che batteva
forte per l’emozione.
Maureen era una donnina di sessantadue anni dalle spalle curve, vedova dell’originario socio di
Howard. La sua postura ingobbita la faceva sembrare molto più vecchia della sua età, anche se lei
si sforzava in vari modi di tenersi stretta la giovinezza: tingendosi i capelli di nero corvino,
indossando colori vivaci e dondolando sui tacchi imprudentemente alti, che in negozio venivano
abbandonati per un paio di sandali Dr Scholl.
«Giorno, Mo» disse Howard.
Per non rovinare l’annuncio si era riproposto di non cedere alla fretta, ma presto sarebbero
arrivati i clienti e le cose da dire erano molte.
«Sentito la notizia?»
Maureen aggrottò la fronte in un’espressione interrogativa.
«È morto Barry Fairbrother.»
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Lei restò a bocca aperta.
«No! E come?»
Howard si batté il dito sulla testa.
«Qualcosa è andato storto. Qua dentro. Miles era lì, ha visto tutto. Nel parcheggio del circolo del
golf.»
«No!» ripeté lei.
«Morto stecchito» disse Howard, come se la morte avesse diverse sfumature e quella toccata a
Barry fosse stata particolarmente sordida.
Con la bocca accesa di rossetto ancora mollemente aperta, Maureen si fece il segno della croce.
La sua fede cattolica aggiungeva sempre una nota pittoresca, in momenti come quello.
«Miles era lì?» gracchiò. Nella sua voce profonda di ex fumatrice, lui colse la smania di sapere
tutti i particolari.
«Magari metti su il tè, Mo?»
Almeno per qualche minuto poteva prolungare l’agonia di Maureen. Lei, nella fretta di tornare, si
rovesciò sulla mano del tè bollente. Si sedettero insieme dietro il banco, sugli alti sgabelli di legno
che Howard aveva sistemato lì per i momenti di calma, e Maureen si alleviò la bruciatura con una
manciata di ghiaccio preso dal vassoio delle olive. Insieme sviscerarono gli aspetti più
convenzionali della tragedia: la vedova («si sentirà persa, lei viveva per Barry»); i figli («quattro,
ancora ragazzi; sarà dura senza un padre»); la relativa giovinezza del morto («era poco più grande
di Miles, vero?»); poi, alla fine, arrivarono al vero punto di partenza, prima del quale tutto era
soltanto inutile divagazione.
«E adesso cosa succederà?» chiese Maureen, avida.
«Ah» rispose Howard. «Be’, be’, questa è una bella domanda. Si è creata una vacanza imprevista,
Mo, e questo potrebbe cambiare le carte in tavola.»
«Si è creata una...?» domandò Maureen, temendo di essersi persa un elemento cruciale.
«Una vacanza imprevista» ripeté Howard. «È così che si dice quando un seggio del Consiglio resta
vacante in seguito a una morte. È l’espressione corretta» le spiegò, con fare didattico.
Howard era presidente del Consiglio locale e primo cittadino di Pagford. La carica gli era valsa una
catena onorifica dorata e smaltata: ora giaceva in una piccolissima cassaforte che lui e Shirley
avevano messo sul fondo dell’armadio a muro. Se la circoscrizione di Pagford fosse mai stata
elevata al rango di comune, lui avrebbe potuto assumere il titolo di sindaco; ma per come
stavano le cose, era comunque un sindaco a tutti gli effetti. Shirley l’aveva detto chiaro e tondo
nella homepage del sito del Consiglio locale, dove, sotto l’immagine florida e raggiante di un
Howard con la catena di primo cittadino al collo, si faceva presente che avrebbe gradito l’invito a
presenziare a cerimonie istituzionali e di soggetti privati. Appena qualche settimana prima aveva
consegnato gli attestati di idoneità alla guida della bicicletta nella scuola elementare locale.
Howard sorseggiò il tè e disse, con un sorriso che voleva sottrarre durezza alle parole:
«Intendiamoci, Mo, Fairbrother era un gran bastardo. Riusciva a essere proprio un gran
bastardo.»
«Oh, lo so» replicò lei. «Lo so.»
«Se non fosse morto, prima o poi avrei dovuto chiarire le cose con lui. Chiedi a Shirley se non era
un subdolo bastardo.»
«Oh, lo so.»
«Be’, vedremo. Vedremo. A questo punto la faccenda dovrebbe essere chiusa. Non che volessi
vincere così, intendiamoci» aggiunse, con un sospiro profondo, «ma per il bene di Pagford... per
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la comunità... non è un fatto tutto negativo...»
Howard controllò l’ora.
«Sono quasi le nove e mezzo, Mo.»
Non aprivano mai in ritardo, né chiudevano mai in anticipo: il negozio era gestito con la ritualità e
la regolarità di un tempio.
Maureen, col suo passo malfermo, andò a girare la chiave nella serratura e a tirare su le
saracinesche. Al loro sollevarsi, la Piazza, a piccoli scatti, si ingrandì e prese forma: era pittoresca
e curata, grazie soprattutto agli sforzi congiunti dei proprietari degli immobili che vi si
affacciavano. La punteggiavano cesti sospesi e fioriere sui davanzali e per terra, pieni di colori
rinnovati ogni anno di mutuo accordo. Il Black Canon (uno dei pub più antichi d’Inghilterra) era di
fronte a Mollison & Lowe, sul lato opposto della Piazza. Howard entrò nella stanza sul retro e ne
uscì con i lunghi piatti rettangolari dei pâté freschi, che dispose con cura, insieme alle lucide
bacche e striscioline di agrumi che li decoravano come gioielli, sotto il vetro del banco. Soffiando
un po’ per lo sforzo, che si aggiungeva a quella lunga conversazione di prima mattina, Howard
sistemò l’ultimo pâté e restò lì qualche istante a guardare fuori verso il monumento ai caduti al
centro della Piazza.
Pagford era bella come sempre, quella mattina, e Howard provò un istante di esultanza sublime,
sua ma anche della città di cui era – così si percepiva lui – il cuore pulsante. Se ne stette lì a
godersi lo spettacolo: le panchine di un nero lucente, i fiori rossi e viola, i raggi del sole che
indoravano la cima della croce di pietra – e Barry Fairbrother non c’era più. Era difficile non
vedere un disegno superiore nell’improvviso capovolgimento di sorte in ciò che per Howard era il
campo di battaglia su cui per tanto tempo si era scontrato con Barry.
«Howard» disse Maureen, brusca. «Howard.»
Una donna stava attraversando spedita la Piazza, una donna esile in trench, con i capelli neri e la
carnagione scura, che camminando si guardava corrucciata gli stivali.
«Secondo te... ha saputo?» bisbigliò Maureen.
«Mah» rispose Howard.
Maureen, che non aveva ancora trovato il tempo di mettersi i Dr Scholl, allontanandosi in fretta e
furia dalla vetrina per infilarsi dietro il banco per poco non si prese una storta alla caviglia.
Howard incedette maestosamente verso la cassa, come un artigliere che va a prendere posto.
Il campanello tintinnò e la dottoressa Parminder Jawanda, sempre corrucciata, spinse la porta
della salumeria. Invece di salutare, andò dritto allo scaffale dell’olio. Gli occhi di Maureen la
seguirono con la concentrazione e l’imperturbabilità del falco che punta un topolino.
«Buongiorno» disse Howard, quando Parminder si avvicinò al banco con una bottiglia in mano.
«Buongiorno.»
Era raro che la dottoressa Jawanda lo guardasse negli occhi, sia alle riunioni del Consiglio sia
quando si incontravano davanti alla sala parrocchiale. Howard era sempre divertito dalla sua
incapacità di dissimulare l’antipatia che nutriva per lui: lo rendeva gioviale, prodigo di garbo e
assurde galanterie.
«Niente lavoro, oggi?»
«No» rispose Parminder, frugando nella borsetta.
Maureen non riuscì a trattenersi.
«Che notizia orribile, eh?» disse, con la sua voce roca, incrinata. «Barry Fairbrother.»
«Mm» fece Parminder, ma poi: «Come?»
«Barry Fairbrother» ripeté Maureen.
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«Cos’ha fatto?»
Dopo sedici anni a Pagford, Parminder aveva ancora un forte accento di Birmingham. Un
profondo solco verticale fra le sopracciglia le conferiva un’espressione perennemente intensa, a
volte di cruccio, altre di concentrazione.
«È morto» rispose Maureen, scavandole avidamente con lo sguardo il viso corrucciato. «Ieri sera.
Me lo diceva adesso Howard.»
Parminder restò immobile, con la mano nella borsetta. Poi il suo sguardo scivolò su Howard.
«È crollato ed è morto nel parcheggio del circolo del golf» confermò lui. «Miles era lì, ha visto
tutto.»
Passarono i secondi.
«Cos’è, uno scherzo?» chiese Parminder, la voce dura e stridula.
«No che non è uno scherzo» rispose Maureen, assaporando il proprio sdegno. «Chi mai
scherzerebbe su una cosa simile?»
Parminder sbatté la bottiglia d’olio sul ripiano di vetro del banco e uscì dal negozio.
«Ma tu guarda!» esclamò Maureen, in un’estasi di disapprovazione. «‘Cos’è, uno scherzo?’ Che
simpatica!»
«È lo choc» fu la saggia spiegazione di Howard, che intanto guardava Parminder riattraversare in
fretta la Piazza, con le falde del trench che svolazzavano dietro di lei. «Mi sa che quella lì soffrirà
come la vedova. Sarà interessante» aggiunse, grattandosi distrattamente la piega della pancia,
che gli prudeva spesso, «vedere che cosa...»
Lasciò la frase in sospeso, ma non importava: Maureen capì perfettamente lo stesso. Entrambi,
guardando la consigliera Jawanda scomparire dietro un angolo, contemplavano la vacanza
imprevista: e vi videro non un vuoto bensì la tasca di un prestigiatore, piena di possibilità.
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VIII
Delle case vittoriane di Church Row, la Vecchia Canonica era l’ultima e la più imponente. Si
ergeva nella parte più bassa della via, in un giardino d’angolo di fronte a St Michael and All Saints.
Parminder, che aveva fatto di corsa gli ultimi metri, armeggiò con la serratura un po’ dura della
porta d’ingresso ed entrò. Non ci avrebbe creduto finché non lo avesse sentito da qualcun altro,
chiunque altro; ma il telefono, in cucina, stava già squillando minacciosamente.
«Sì?»
«Sono Vikram.»
Il marito di Parminder era un cardiochirurgo. Esercitava al Policlinico South West di Yarvil e non
chiamava mai dal lavoro. Parminder strinse il ricevitore così forte che le dita le fecero male.
«L’ho saputo per caso. Pare che sia stato un aneurisma. Ho chiesto a Huw Jeffries di fare uno
strappo e anticipare l’autopsia. Meglio che Mary sappia cos’è stato. Potrebbero aver già
cominciato.»
«Bene» sussurrò Parminder.
«Tessa Wall era lì» disse lui. «Chiama Tessa.»
«Sì» rispose Parminder. «Va bene.»
Ma dopo aver chiuso la telefonata, si lasciò andare su una sedia della cucina e fissò dalla finestra
il giardino del retro senza vederlo, con le dita premute sulla bocca.
Era crollato tutto. Il fatto che ogni cosa fosse ancora al suo posto – i muri, le sedie, le foto dei figli
alle pareti – non significava nulla. In un istante ogni atomo era stato sbriciolato e ricostruito, ed
era risibile che ogni cosa avesse quell’aria solida e permanente: tutto si sarebbe dissolto al
minimo tocco, perché di colpo tutto era sottile e friabile come carta velina.
Aveva perso il controllo dei pensieri: anche quelli si erano infranti, e frammenti di ricordi a caso
emergevano e svanivano: lei che ballava con Barry alla festa di capodanno in casa Wall, gli
sciocchi discorsi che avevano fatto tornando dall’ultima riunione del Consiglio.
«La tua casa ha la faccia di mucca» gli aveva detto lei.
«La faccia di mucca? E come sarebbe?»
«È più stretta davanti che dietro. Porta fortuna. Però hai attraversato un incrocio senza guardare.
E questo porta sfortuna.»
«Quindi non siamo né fortunati né sfortunati» aveva detto Barry.
Anche in quel momento l’arteria nella sua testa doveva essere pericolosamente gonfia, e nessuno
dei due lo sapeva.
Parminder passò con sguardo cieco dalla cucina al buio soggiorno, una stanza oscurata
perennemente, bello o brutto che fosse il tempo, dal pino silvestre che torreggiava in giardino. Lo
odiava, quell’albero, e lei e Vikram lo lasciavano sopravvivere solo perché sapevano che, se lo
avessero abbattuto, i vicini avrebbero fatto un mucchio di storie.
Non riusciva a star ferma. Andò nel corridoio e poi di nuovo in cucina, dove prese il telefono e
chiamò Tessa Wall, che non rispose. Doveva essere al lavoro. Parminder, tremando, tornò a
sedersi sulla sedia della cucina.
Il dolore era tanto grande e lancinante da spaventarla, come una bestia feroce sbucata dalle assi
del parquet. Barry, il piccolo Barry barbuto, il suo amico, il suo alleato.
Era morto esattamente come suo padre. Un giorno, quando lei aveva quindici anni, tornati dalla
città lo avevano trovato riverso sul prato, con il tosaerba accanto e il sole caldo sulla nuca.
Parminder non sopportava le morti improvvise. Per lei, la lunga agonia che a tanta gente faceva
paura era una prospettiva confortante: avere il tempo di sistemare e organizzare, avere il tempo
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di dire addio...
Aveva ancora le mani premute forte sulla bocca. Guardò il viso serio e dolce di Guru Nanak
attaccato alla bacheca di sughero.
(A Vikram non piaceva quell’immaginetta.
«Che ci fa lì, quello?»
«A me piace» aveva detto lei, con aria di sfida.)
Barry, morto.
Represse il terribile impulso di piangere con una determinazione che sua madre aveva sempre
deplorato, soprattutto durante la veglia funebre, quando le altre figlie, le zie e le cugine non
facevano che piangere e battersi il petto. «Proprio tu, che eri la sua preferita!» Ma le lacrime non
versate Parminder le teneva dentro, dove sembravano subire una trasformazione alchemica ed
erano restituite al mondo esterno sotto forma di colate laviche di rabbia, vomitate
periodicamente sui suoi figli e sulle segretarie dell’ambulatorio.
Vedeva ancora Howard e Maureen, dietro il banco del negozio, lui enorme, lei scheletrica; nella
sua immaginazione, guardandola dall’alto le dicevano che il suo amico era morto. In un rigurgito
d’ira e odio che trovò quasi gradevole pensò: Saranno contenti. Adesso penseranno di vincere.
Scattò di nuovo in piedi, tornò nel soggiorno e prese dall’ultimo scaffale in alto uno dei volumi dei
Sainchi, il suo testo sacro nuovo fiammante. Apertolo a caso lesse, senza sorprendersi, ma
piuttosto con la sensazione di guardare in uno specchio il proprio viso devastato:
O mente, il mondo è un pozzo buio e profondo. Da ogni parte, Morte getta la sua rete.
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IX
Nella scuola secondaria polivalente Winterdown, la stanza del servizio di psicologia si apriva sulla
biblioteca. Era cieca e illuminata da un unico tubo fluorescente.
Tessa Wall, psicologa della scuola e moglie del vicepreside, vi entrò alle dieci e mezzo, intontita
dalla stanchezza e con una tazza di caffè forte che aveva portato dalla sala docenti. Era una
donna bassa, tarchiata, dalla faccia qualunque, che si tagliava da sola i capelli brizzolati – la
frangia fitta era spesso un po’ storta – portava vestiti di fattura creativo-artigianale e prediligeva
bigiotteria di legno e perline. La gonna lunga che indossava quel giorno sembrava fatta di tela di
sacco e lei l’aveva accoppiata con un pesante cardigan verde pisello tutto bitorzoluto. Tessa non
si guardava mai in specchi che la mostrassero dalla testa ai piedi ed evitava accuratamente i
negozi dove non se ne poteva fare a meno.
Per cercare di attenuare la somiglianza della sua stanza a una cella aveva appeso un arazzo
nepalese che possedeva fin dai tempi dell’università: un arcobaleno con un sole e una luna gialli
che emettevano sinuosi raggi stilizzati. Per il resto, le pareti libere erano ricoperte di un
assortimento di poster che fornivano consigli utili per rafforzare l’autostima oppure numeri
telefonici per chiedere aiuto in forma anonima su vari aspetti della salute del corpo e della
mente. La preside, l’ultima volta che era passata nella stanza, aveva fatto al riguardo
un’osservazione un po’ sarcastica.
«Capisco: se tutto il resto fallisce, possono sempre chiamare il Telefono Azzurro» aveva detto,
indicando il poster più cospicuo.
Tessa si lasciò cadere di peso sulla sedia con un lungo gemito, si sfilò dal polso l’orologio, che
pizzicava, e lo posò sulla scrivania accanto a vari appunti e fogli stampati. Dubitava di riuscire a
rispettare i programmi della giornata; dubitava perfino che Krystal Weedon si presentasse.
Krystal, quando era turbata, arrabbiata o stufa, spesso se ne andava da scuola. A volte veniva
catturata prima di arrivare al cancello e riportata dentro di peso, tra urla e imprecazioni; altre
volte riusciva a sfuggire e allora per giorni non si faceva vedere. Arrivarono le dieci e quaranta, la
campanella suonò e Tessa continuò ad aspettare.
Alle dieci e cinquantuno, Krystal spalancò la porta e la sbatté alle sue spalle. Si buttò sulla sedia di
fronte a Tessa, con le braccia incrociate sul petto abbondante e gli orecchini da quattro soldi che
dondolavano.
«Può dire a suo marito» esordì, con voce tremante, «che non ho riso, cazzo.»
«Krystal, per favore, con me niente parolacce» disse Tessa.
«Non ho riso, okay?» strillò Krystal.
Nella biblioteca era entrato un gruppo di allievi di sesta con le loro cartellette. Gettarono
un’occhiata dalla finestrella della porta; uno sorrise vedendo la nuca di Krystal. Tessa si alzò per
andare ad abbassare la tendina e poi tornò al suo posto davanti alla luna e al sole.
«D’accordo, Krystal. Perché non mi racconti cos’è successo?»
«Siccome suo marito aveva detto qualcosa del signor Fairbrother, no?, e io non avevo sentito
bene, no?, allora me lo sono fatto dire da Nikki, solo che, cazzo...»
«Krystal!»
«... io non ci potevo credere, no?, così ho strillato, ma non ho riso! Cazzo, non ho...»
«Krystal!»
«Non ho riso, okay?» gridò Krystal, con le braccia ben strette al petto e le gambe attorcigliate
insieme.
«D’accordo, Krystal.»
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Tessa era abituata alla rabbia degli studenti che riceveva più di frequente. Molti erano sprovvisti
dei principi morali più elementari; per loro mentire, comportarsi male e imbrogliare era la prassi,
eppure se accusati ingiustamente manifestavano un’ira smisurata ma credibile. Tessa pensò di
riconoscere in quello sfogo uno sdegno autentico, molto diverso da quello artificioso di cui
Krystal era un’esperta. In ogni modo, il versaccio che Tessa aveva udito durante l’adunata le era
sembrato un grido di orrore e sconcerto, più che di divertimento, ed era rimasta sbigottita
quando Colin lo aveva definito pubblicamente una risata.
«Sono stata da Cubicolo...»
«Krystal!»
«Gliel’ho detto a suo marito, cazzo...»
«Krystal, per favore, per l’ultima volta, niente parolacce...»
«Gliel’ho detto, che non ho riso. Gliel’ho detto! E lui mi ha dato lo stesso la punizione, cazzo!»
Negli occhi cerchiati di trucco pesante luccicavano lacrime di rabbia. Il sangue le era affluito in
viso: rosa peonia, lanciò a Tessa uno sguardo di fuoco, pronta a scappare, a imprecare, a
mostrare il medio anche a Tessa. La fiducia, sottile come tela di ragno, che laboriosamente era
stata tessuta fra loro in quei due anni, era quasi al punto di rottura.
«Ti credo, Krystal. Ci credo che non hai riso, ma per favore, non dire parolacce quando sei con
me.»
Lei, di colpo, si portò le tozze dita al viso e si strofinò gli occhi. Tessa tirò fuori dal cassetto della
scrivania una manciata di fazzolettini di carta e li passò a Krystal, che senza un grazie li afferrò, se
li premette prima su un occhio e poi sull’altro e infine si soffiò il naso. Le mani erano la parte del
corpo più commovente di Krystal: le unghie erano larghe e corte e pasticciate di smalto, e tutti i
movimenti delle mani erano ingenui e diretti come quelli di un bambino.
Tessa aspettò che il respiro di Krystal, scosso dai singhiozzi, si calmasse. Poi riprese: «La morte del
signor Fairbrother ti ha turbata molto...»
«Sì, infatti» ribatté Krystal, con notevole aggressività. «E allora?»
A Tessa sembrò all’improvviso di vedere Barry che ascoltava la loro conversazione. Immaginò il
suo mesto sorriso; gli sentì dire, molto distintamente: «Povera piccola.» Chiuse gli occhi brucianti,
incapace di parlare. Poi udì i piccoli movimenti di disagio di Krystal; contò lentamente fino a dieci
e riaprì gli occhi. Krystal la guardava, ancora a braccia conserte, rossa in viso e con un’espressione
di sfida.
«Anche a me dispiace molto per il signor Fairbrother» disse Tessa. «In effetti era un nostro
vecchio amico. È per questo che il professor Wall è un po’...»
«Io gliel’ho detto che non ho...»
«Krystal, per favore, fammi finire. Oggi il professor Wall è molto turbato e probabilmente è per
questa ragione che ha... che ha frainteso quello che hai fatto. Gli parlerò io.»
«Tanto col cazzo che cambia ide...»
«Krystal!»
«Be’, non cambierà idea.»
Krystal batté il piede contro la gamba della scrivania, scandendo un ritmo veloce. Tessa, tolti i
gomiti dal ripiano per non sentire la vibrazione, disse: «Parlerò io con il professor Wall.»
Assunse un’espressione che sperò neutra e aspettò pazientemente che Krystal dicesse qualcosa.
Krystal, in bellicoso silenzio, tirava calci alla gamba del tavolo e deglutiva regolarmente.
«Cos’è successo al signor Fairbrother?» chiese alla fine.
«Pare che gli sia scoppiata un’arteria nel cervello» rispose Tessa.
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«Perché?»
«Era nato con un’anomalia, ma nessuno l’aveva mai scoperta.»
Tessa sapeva che Krystal aveva maggior dimestichezza di lei con la morte improvvisa.
Nell’ambiente della madre di Krystal si moriva prematuramente con una frequenza tale da far
credere che là si combattesse una guerra segreta di cui tutto il resto del mondo era all’oscuro.
Krystal aveva raccontato a Tessa che una volta, a sei anni, aveva trovato il cadavere di un giovane
sconosciuto in bagno. L’episodio aveva fatto precipitare la situazione e Krystal era stata affidata
alle cure di nonna Cath, com’era già successo più di una volta. Nonna Cath giganteggiava in molte
storie d’infanzia di Krystal: un singolare miscuglio di salvatrice e flagello di Dio.
«Così adesso il nostro equipaggio ce l’ha nel culo» disse Krystal.
«No, non è vero» replicò Tessa. «E basta parolacce, Krystal, per favore.»
«Sì che è vero.»
Tessa avrebbe voluto continuare a contraddirla, ma la stanchezza soffocò l’impulso. E poi Krystal
aveva ragione, le sussurrava una parte autonoma, razionale del cervello. Era vero, il canottaggio
era finito. Nessuno oltre a Barry sarebbe mai riuscito a mettere Krystal in un gruppo e farcela
rimanere. Se ne sarebbe andata, Tessa lo sapeva; e probabilmente lo sapeva anche Krystal. Per
un po’ tacquero e Tessa era troppo stanca per cercare parole capaci di cambiare l’atmosfera che
aleggiava fra loro. Si sentiva fragile, scoperta, nuda fino all’osso. Non dormiva da più di
ventiquattro ore.
(Samantha Mollison aveva chiamato dall’ospedale alle dieci, proprio mentre Tessa usciva da un
lungo bagno caldo per andare a vedere il telegiornale della BBC. Si era rivestita in fretta e furia
mentre Colin emetteva suoni inarticolati e inciampava nei mobili. Avevano gridato al figlio, al
piano di sopra, dove stavano andando e poi erano corsi alla macchina. Colin aveva spinto troppo
sull’acceleratore, per arrivare a Yarvil, come se facendo il tragitto a tempo di record avesse
potuto riportare Barry in vita: superare la realtà e, con un trucco, ricomporla com’era prima.)
«Vabbè, se non gliene frega niente di parlare con me, io vado» disse Krystal.
«Non essere maleducata, Krystal, per favore» replicò Tessa. «Stamattina sono molto stanca.
Stanotte, insieme al professor Wall, sono stata in ospedale con la moglie del signor Fairbrother.
Sono nostri cari amici.»
(Vedendo Tessa, Mary si era abbandonata completamente: l’aveva abbracciata e con un gemito
acuto, terribile, le aveva sepolto il viso nell’incavo del collo. E sebbene anche le sue lacrime
avessero cominciato a scorrere, bagnando la stretta nuca di Mary, Tessa aveva pensato con
chiarezza che quel grido si chiamava lamento funebre. Quel corpo snello, minuto, che Tessa tante
volte aveva invidiato, aveva tremato fra le sue braccia, incapace di contenere il dolore che gli si
richiedeva di portare.
Tessa non ricordava Miles e Samantha che se ne andavano. Non li conosceva bene. Immaginava
che fossero stati contenti di andar via.)
«L’ho vista, sua moglie» riprese Krystal. «Una bionda. Era venuta a vedere la gara.»
«Sì» disse Tessa.
Krystal si stava mordendo le unghie.
«Lui doveva portarmi a parlare al giornale» aggiunse, all’improvviso.
«Cosa?» chiese Tessa, confusa.
«Il signor Fairbrother. Doveva farmi intervistare. Me e basta.»
Sul giornale locale era uscito un articolo sull’otto della Winterdown, quando aveva vinto le finali
regionali. Krystal, che leggeva male, aveva portato il giornale per mostrarlo a Tessa e lei lo aveva
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letto ad alta voce, intercalando esclamazioni di piacere e ammirazione. Era stata la seduta più
felice che le fosse mai capitata.
«Volevano intervistarti di nuovo sul canottaggio?» s’informò Tessa.
«No» rispose Krystal. «Altra roba.» Poi: «Quand’è il funerale?»
«Non si sa ancora» disse Tessa.
Krystal si mangiava le unghie e Tessa non riusciva a raccogliere le energie per fare breccia nel
silenzio che si inspessiva attorno a loro.
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X
L’annuncio della morte di Barry sul sito web del Consiglio locale produsse a malapena
un’increspatura: un sassolino microscopico nel vasto oceano. Ciononostante le linee telefoniche
di Pagford, quel lunedì, erano più occupate del solito e sugli stretti marciapiedi piccoli gruppi di
passanti continuavano a riunirsi per controllare l’esattezza delle informazioni.
Man mano che la notizia viaggiava, si produceva una singolare trasformazione. Accadde alla firma
riportata sui documenti nell’ufficio di Barry e alle e-mail che ingombravano le caselle della posta
in entrata delle sue numerosissime conoscenze, che si caricavano di pathos come le briciole
sparse sul cammino da un bambino smarrito nel bosco. Quelle parole scribacchiate in fretta, quei
pixel composti da dita ormai ferme per sempre, assunsero l’aspetto macabro di gusci vuoti. Gavin
aveva già provato un pizzico di repulsione vedendo sul cellulare gli sms dell’amico morto; una
ragazza dell’otto di canottaggio, tornata ancora in lacrime dall’adunata, aveva trovato nello zaino
un modulo firmato da Barry e le era quasi venuto un attacco isterico.
La ventitreenne giornalista della Yarvil and District Gazette non immaginava che il cervello di
Barry, vulcanico fino a pochi giorni prima, fosse ormai un pesante mucchietto di tessuto
spugnoso su un vassoio metallico del Policlinico South West. Lesse da cima a fondo le e-mail che
lui le aveva inviato un’ora prima della morte e poi compose il numero del suo cellulare, ma
nessuno rispose. Il cellulare di Barry, spento su richiesta di Mary prima che uscissero per andare
al circolo del golf, se ne stava in silenzio in cucina, sul forno a microonde, insieme a tutti gli altri
effetti personali consegnati dall’ospedale. Nessuno li aveva toccati. Quegli oggetti familiari – il
suo portachiavi, il suo cellulare, il suo vecchio portafogli liso – sembravano pezzi di lui: avrebbero
potuto essere le sue dita, i suoi polmoni.
Intanto la notizia della morte di Barry si spargeva in lungo e in largo, propagandosi, come un
alone di luce, da quanti erano stati all’ospedale. In lungo e in largo fino a Yarvil, fino a chi Barry lo
conosceva solo di vista, di fama o di nome. Poco a poco i fatti perdevano forma e nitidezza; in
certi casi arrivarono distorti. Qua e là Barry stesso scompariva dietro la natura della sua fine,
riducendosi a eruzione di vomito e piscio, catastrofe fatta carne convulsa, e allora sembrava
incongruo, perfino tragicomico, che un uomo fosse morto così scompostamente proprio davanti
al piccolo, tronfio circolo del golf.
Fu così che Simon Price, uno dei primi a ricevere la notizia della morte di Barry, nella sua casa in
cima alla collina che sovrastava Pagford, ne trovò una seconda versione alla tipografia HarcourtWalsh di Yarvil, dove lavorava da quando non andava più a scuola. Gli fu portata dalla bocca
piena di gomma da masticare di un giovane guidatore di muletto, che Simon trovò sfaccendato
accanto alla porta del proprio ufficio tornando dalla puntatina in bagno del tardo pomeriggio.
Il ragazzo in realtà non era affatto venuto a parlare di Barry.
«Quella cosa che diceva che forse le interessava» bofonchiò, dopo aver seguito Simon in ufficio, e
Simon chiuse la porta. «Gliela posso fare mercoledì, se le va ancora.»
«Ah, sì?» disse Simon. «Non avevi detto che era già tutto fatto?»
«Sì, è tutto fatto, ma prima di mercoledì non riesco a farlo arrivare.»
«Quant’è che avevi detto?»
«Ottanta, contanti.»
Il ragazzo masticava energicamente; Simon sentiva il lavorio della saliva. Le cicche erano una
delle molte cose che detestava.
«Ma funziona, vero?» chiese Simon. «Non sarà una di quelle baracche trovate in giro?»
«Arriva dritto dal magazzino» rispose il ragazzo, muovendo nervosamente i piedi e le spalle.
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«Tutto regolare, ancora imballato.»
«Va bene, allora» disse Simon. «Portalo qui mercoledì.»
«Come, qui?» Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. «No, qua al lavoro no... Dov’è che abita?»
«A Pagford.»
«Pagford dove?»
L’avversione di Simon a pronunciare il nome della sua casa rasentava la superstizione. Lui non
solo detestava avere ospiti – invasori della sua privacy e potenziali saccheggiatori dei suoi beni –
ma vedeva in Casa Bellavista un mondo inviolato, immacolato, lontano da Yarvil e dal baccano
infernale della tipografia.
«Verrò a prenderlo dopo il lavoro» disse, ignorando la domanda. «Dov’è che lo tieni?»
Il ragazzo non sembrava contento. Simon lo fulminò con lo sguardo.
«Be’, i soldi mi servirebbero in anticipo» temporeggiò il guidatore di muletto.
«Avrai i soldi quando io avrò la merce.»
«Guardi che non funziona così.»
Simon pensò che forse gli stava venendo il mal di testa. Non riusciva a togliersi dalla mente l’idea
terribile, inculcatagli quella mattina da quella sconsiderata di sua moglie, che una piccola bomba
potesse ticchettare chissà da quanto tempo nel cervello di un uomo senza che nessuno se ne
fosse mai accorto. Il costante fracasso prodotto dalla pressa da stampa al di là della porta non gli
faceva bene: quel battere incessante doveva avergli assottigliato l’arteria per anni.
«D’accordo» sbuffò e ruotò sulla sedia per prendere il portafogli dalla tasca posteriore. Il ragazzo
si avvicinò alla scrivania con la mano tesa.
«Non è che per caso abita vicino al circolo del golf di Pagford?» chiese, mentre Simon contava e
consegnava uno a uno i biglietti da dieci. «Un mio amico era là ieri sera e ha visto un tipo morire
stecchito. Ha vomitato, è caduto in ginocchio ed è morto lì nel parcheggio, cazzo.»
«Sì, ho sentito» rispose Simon, strofinando l’ultima banconota fra le dita prima di consegnarla
per controllare bene che non fossero due attaccate insieme.
«Un consigliere corrotto, era. Il tipo che è morto. Prendeva mazzette. La Grays lo pagava per
avere gli appalti.»
«Ah, sì?» disse Simon, ma la cosa gli interessava immensamente.
Barry Fairbrother, chi l’avrebbe mai detto?
«Vabbè, allora ci si vede» concluse il ragazzo, cacciandosi nella tasca posteriore le ottanta
sterline. «E mercoledì andiamo a prenderlo.»
La porta dell’ufficio si richiuse. Del mal di testa, che in realtà era poco più di un fastidio, Simon si
dimenticò subito, affascinato com’era dalla rivelazione che Barry Fairbrother fosse un corrotto.
Barry Fairbrother, così socievole e indaffarato, così allegro e benvoluto, e che intanto si metteva
in tasca le mazzette della Grays.
La notizia, capace di scuotere chiunque avesse conosciuto Barry, o quasi chiunque, non ebbe lo
stesso effetto su Simon, né svilì Barry ai suoi occhi: al contrario, aumentò in lui il rispetto per il
defunto. Chiunque avesse un po’ di cervello si dava da fare, continuamente e segretamente, per
arraffare più che poteva: Simon lo sapeva. Sordo al baccano della pressa dietro il vetro
impolverato, guardò con occhi ciechi il foglio elettronico sul monitor del computer.
Per chi aveva famiglia non c’era scelta, bisognava lavorare dalla mattina alla sera, ma Simon
aveva sempre saputo che c’erano altri sistemi, sistemi migliori; che una vita di agi e lussi gli
dondolava sopra la testa come la pentolaccia dell’albero della cuccagna e per spaccarla bastava
avere un bastone abbastanza grosso e sapere quando colpire. Come i bambini, era convinto che il
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resto del mondo esistesse unicamente per fare da palcoscenico al suo personalissimo dramma,
credeva che il destino, chino sopra di lui, disseminasse il suo cammino di segni e dritte: e
nemmeno stavolta poté fare a meno di pensare di aver ricevuto la grazia di un segno, una
strizzata d’occhio celeste.
L’intervento soprannaturale era all’origine di molte altre decisioni all’apparenza
donchisciottesche prese da Simon in passato. Anni prima, quando alla tipografia occupava ancora
il ruolo di semplice apprendista, con un mutuo che faticava a pagare e la moglie incinta da poco,
aveva scommesso cento sterline su un cavallo favorito al Grand National che si chiamava Figlio di
Ruthie e che poi si era piazzato penultimo. Poco dopo l’acquisto di Casa Bellavista, aveva investito
milleduecento sterline, che Ruth aveva sperato di spendere in tende e tappeti, nel progetto di
una multiproprietà che faceva capo a una sua vecchia conoscenza di Yarvil, uno tutta apparenza e
mala sostanza. L’investimento era svanito insieme al direttore dell’impresa, ma, pur avendo dato
in escandescenze, imprecato e preso a calci il figlio minore che gli intralciava il passo sulle scale,
non aveva avvertito la polizia. Prima di metterci i soldi aveva scoperto qualche irregolarità nel
modo di operare dell’impresa e temeva domande imbarazzanti.
A compensare queste avversità, tuttavia, c’erano colpi di fortuna, sotterfugi riusciti, intuizioni
fruttuose, tutte cose alle quali Simon dava grande peso, quando faceva un bilancio: quei successi
lo inducevano a continuare a credere nella sua buona stella, lo rafforzavano nella convinzione che
l’universo avesse in serbo per lui ben altro che quella stupidaggine di lavorare per uno stipendio
da fame fino alla pensione o alla morte. Scorciatoie e raggiri; spintarelle e mani che lavano mani;
tutti facevano così, compreso, adesso lo sapeva, il piccolo Barry Fairbrother.
E lì, nel suo squallido ufficetto, Simon Price pensò con desiderio a quel vuoto fra i ranghi degli
eletti, a quel luogo in cui ora il denaro stillava su una poltrona vuota, senza ginocchia per
raccoglierlo.
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(Bei vecchi tempi)
Violazione di proprietà
12.43 Come contro coloro che violano una proprietà privata (i quali, per principio generale, lo
fanno a loro rischio e pericolo, quale che sia la condizione della proprietà e dei suoi occupanti)...
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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___
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I
Il Consiglio locale di Pagford era, per le dimensioni che aveva, una potenza impressionante. Si
riuniva una volta al mese in una bella sala parrocchiale vittoriana e ogni tentativo di ridurne il
budget, di appropriarsi di una qualsiasi delle sue prerogative o di assorbirlo in un’ennesima nuova
circoscrizione amministrativa trovava da decenni una strenua ed efficace resistenza. Di tutti i
consigli locali che facevano capo al Consiglio distrettuale di Yarvil, Pagford aveva il vanto di essere
il più indisciplinato, il più diretto e il più indipendente.
Fino a domenica sera era consistito di sedici consiglieri, uomini e donne. Dal momento che
l’elettorato tendeva a dare per scontato che il desiderio di avere un mandato nel Consiglio locale
implicasse il possesso delle competenze necessarie allo scopo, tutti e sedici i consiglieri avevano
ottenuto incontrastati il loro seggio.
Oggi, tuttavia, questo organismo pacificamente designato era attraversato da una guerra
intestina. Una questione che a Pagford causava rabbia e risentimento da sessanta e rotti anni era
arrivata a un punto di non ritorno e attorno ai due capi carismatici si erano raccolte due fazioni.
Per cogliere fino in fondo l’origine della disputa era necessario comprendere con precisione la
portata dell’avversione e della sfiducia nutrite da Pagford nei confronti della città di Yarvil, che si
trovava al confine settentrionale.
I negozi, le imprese e le fabbriche di Yarvil, come pure il Policlinico South West, fornivano ai
pagfordiani il grosso dell’occupazione. E nei locali e nei cinema di Yarvil i giovani di Pagford di
solito andavano a trascorrere il sabato sera. La città aveva una cattedrale, vari parchi e due centri
commerciali enormi, tutti posti che si visitavano con piacere, dopo che ci si era saziati delle
superiori attrattive di Pagford. E tuttavia Yarvil, per gli autentici pagfordiani, era poco più che un
male necessario. Il loro atteggiamento trovava un simbolo nell’alta collina, coronata dall’abbazia
di Pargetter, che oscurando Yarvil dalla visuale dei pagfordiani alimentava in loro l’illusione che la
città fosse molto più lontana di quanto fosse nella realtà.
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II
Si dava il caso che la collina Pargetter oscurasse dalla visuale di Pagford anche un altro posto, ma
un posto, in questo caso, che Pagford aveva sempre considerato suo. Era Villa Sweetlove,
mirabile dimora color miele che risaliva ai tempi della regina Anna, posta in ettari e ettari di parco
e terreno agricolo. Apparteneva al territorio di Pagford e si trovava a metà strada fra la cittadina
e Yarvil.
Per quasi due secoli, la dimora era passata senza scosse da una generazione all’altra della stirpe
aristocratica degli Sweetlove, finché, ai primi del Novecento, la famiglia si era estinta. Dei secolari
legami degli Sweetlove con Pagford restavano ormai solo la monumentale tomba nella chiesa di
St Michael and All Saints e una spolveratura di stemmi e iniziali su documenti e edifici del posto,
come impronte e coproliti di creature estinte.
Alla morte degli ultimi Sweetlove, la dimora aveva cambiato padrone con una rapidità
inquietante. A Pagford si tremava all’idea che un imprenditore potesse comprare e mutilare
l’amato sito storico. Poi, negli anni Cinquanta, la proprietà fu acquistata da un certo Aubrey
Fawley. Ben presto si scoprì che Fawley possedeva una ricchezza personale considerevole,
integrata a Londra per vie misteriose. Aveva quattro figli e il desiderio di stabilirsi
definitivamente. Alla notizia, circolata in fretta, che per un ramo collaterale di parentela Fawley
discendeva dagli Sweetlove, il benestare di Pagford raggiunse vette vertiginose di entusiasmo.
Quell’uomo era ormai praticamente uno del posto, un alleato naturale di Pagford, piuttosto che
di Yarvil. Nella vecchia Pagford era convinzione diffusa che l’avvento di Aubrey Fawley significasse
il ritorno ai tempi d’oro. Fawley sarebbe stato il fatino buono della cittadina, come i suoi avi
prima di lui, coprendo di lustro e fascino le sue strade acciottolate.
Howard Mollison ricordava ancora quel giorno in cui sua madre si era precipitata nella
piccolissima cucina di Hope Street con la notizia che Aubrey era stato invitato a prendere parte
alla giuria della mostra floreale locale. I fagiolini della madre avevano vinto tre volte consecutive
il premio delle verdure e lei non vedeva l’ora di ricevere la coppa di rose in silver plate dalle mani
di un uomo che ai suoi occhi era già una figura romantica dei bei vecchi tempi.
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III
Ma poi, come narrava la leggenda locale, calarono improvvisamente le tenebre che sempre
accompagnano l’arrivo della strega cattiva.
Proprio mentre a Pagford ci si rallegrava di vedere che Villa Sweetlove era passata in mani sicure,
nella periferia meridionale di Yarvil si costruiva alacremente una distesa di case popolari. Le
nuove strade, come a Pagford si constatò con disagio, si stavano mangiando pezzi di terra fra la
città e il paese.
Tutti sapevano che, dal dopoguerra, la richiesta di abitazioni a prezzi popolari aumentava, ma
nella cittadina, dopo la momentanea distrazione dell’arrivo di Aubrey Fawley, cominciarono a
levarsi mormorii di diffidenza nei confronti delle reali intenzioni di Yarvil. Quelle barriere naturali
che erano il fiume e la collina, prima garanti della sovranità di Pagford, sembravano assottigliarsi
al ritmo frenetico con cui le case di mattoni rossi si moltiplicavano. Yarvil riempì ogni centimetro
di terreno a sua disposizione e si fermò solo al confine settentrionale del territorio di Pagford.
La cittadina tirò un respiro di sollievo che presto, tuttavia, si rivelò prematuro. Il complesso
Cantermill fu subito giudicato insufficiente a soddisfare le necessità della popolazione e la città si
guardò attorno in cerca di altra terra da colonizzare.
Fu allora che Aubrey Fawley (che agli occhi dei pagfordiani non aveva smesso di essere più mito
che uomo) prese una decisione che scatenò un malanimo destinato a spargere veleno per
sessant’anni.
Non sapendo che farsene dei pochi campi incolti che si trovavano proprio dietro il nuovo
complesso edilizio, li vendette a buon prezzo alla città di Yarvil e utilizzò i soldi per restaurare i
pannelli deformati che rivestivano l’atrio di Villa Sweetlove.
A Pagford si scatenò il furore. Nella difesa contro la città che avanzava, i campi di Sweetlove
erano stati un baluardo importante; ora, l’antico confine territoriale era minacciato da un
quartiere satellite di yarviliani indigenti. Tumultuose riunioni di consiglio, lettere di fuoco ai
giornali e al Consiglio di Yarvil, rimostranze personali alle autorità preposte... nulla riuscì a
cambiare il corso degli eventi.
Le case popolari ripresero l’avanzata, ma con una differenza. Nel breve iato creatosi dopo il
completamento del primo complesso edilizio, il Consiglio di Yarvil si era reso conto di poter
edificare a costi più contenuti. Così, la nuova eruzione di case non fu di mattoni rossi bensì di
cemento colato in armature d’acciaio. Questo secondo complesso prese localmente il nome di
‘Fields’ per via dei campi su cui si ergeva, e si distingueva da Cantermill per la qualità inferiore dei
materiali e del progetto architettonico. Fu in una delle case di cemento armato dei Fields, dove
già alla fine degli anni Sessanta i muri avevano cominciato a creparsi e il legno a imbarcarsi, che
nacque Barry Fairbrother.
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IV
Nonostante le blande assicurazioni del Consiglio di Yarvil di farsi carico della manutenzione del
nuovo complesso edilizio, di lì a poco Pagford – come i suoi furibondi abitanti avevano previsto
fin dall’inizio – si vide addossare nuove spese. Mentre i costi della gran parte dei servizi rivolti ai
Fields ricadevano sul Consiglio di Yarvil, restavano altre questioni che la città, nella sua
supponenza, delegava alla circoscrizione minore: la manutenzione di sentieri e marciapiedi,
dell’illuminazione pubblica e delle panchine, quella delle pensiline dell’autobus e del verde
pubblico.
Sui ponti che collegavano Pagford a Yarvil fiorivano i graffiti; le pensiline dei Fields venivano
vandalizzate; gli adolescenti dei Fields disseminavano il parco giochi di bottiglie di birra e
prendevano i lampioni a sassate. Un sentiero della zona, molto amato dai turisti e dagli
escursionisti, fu trasformato dai giovani dei Fields in un frequentato punto di aggregazione, «anzi,
peggio», come diceva la madre di Howard in tono sinistro. A Pagford toccava pulire, riparare e
sostituire, e fin dall’inizio fu chiaro che i fondi erogati da Yarvil erano inadeguati al compito, sia
per i costi sia per il tempo che questo comportava.
Di tutti gli oneri indesiderati che gravavano su Pagford, nessuno causò maggior rabbia o acredine
del fatto che ora i Fields ricadessero nel bacino di utenza della scuola elementare St Thomas
Church of England. I piccoli fieldsiani avevano diritto a indossare la tanto desiderata divisa bianca
e blu, giocare nel cortile a pochi passi dalla prima pietra posata da Lady Charlotte Sweetlove e
assordare gli occupanti delle piccolissime aule con il loro stridulo accento yarviliano.
In un batter d’occhio, a Pagford si diffuse la convinzione che avere una casa ai Fields fosse
diventata la ragione di vita di tutte le famiglie di Yarvil con un sussidio pubblico e figli in età
scolare; che al confine con Cantermill, insomma, ci fosse ressa continua, un po’ come i messicani
che invadevano il Texas. La loro bellissima scuola St Thomas – un grande richiamo per i
pagfordiani costretti per lavoro ad andare tutti i giorni a Yarvil, attirati dalle classi piccolissime, i
banchi con l’alzata a scomparsa, l’antico edificio di pietra e il campo giochi verdissimo – sarebbe
stata inondata e infestata dalla prole di parassiti sociali, drogati e madri con figli di padri tutti
diversi.
Questo scenario da incubo non si era mai trasformato completamente in realtà, perché la scuola
St Thomas, sebbene comportasse innegabili vantaggi, qualche pecca ce l’aveva: la necessità di
comprare la divisa, o altrimenti di compilare tutti i moduli richiesti per poter accedere al sussidio
per l’acquisto; l’esigenza di procurarsi il tesserino dell’autobus e di svegliarsi prima perché i
bambini arrivassero a scuola in orario. Per certe famiglie dei Fields, questi erano ostacoli
insormontabili, così i loro figli confluivano nella vasta scuola elementare costruita per i bambini di
Cantermill, alla quale si accedeva senza divisa. Molti alunni fieldsiani della St Thomas si
integrarono bene con i loro coetanei di Pagford. Tant’è vero che il piccolo Barry Fairbrother,
intelligente, benvoluto e sempre pronto a divertire i compagni, era avanzato di classe in classe
accorgendosi solo ogni tanto che, quando diceva dove abitava, sulle labbra del genitore
pagfordiano di turno il sorriso si irrigidiva.
A volte, tuttavia, la St Thomas era costretta ad accogliere un allievo dei Fields di innegabile indole
distruttiva. Krystal Weedon, quando per lei era arrivato il momento di cominciare la scuola,
abitava con la bisnonna in Hope Street, così era stato impossibile evitare che finisse alla St
Thomas, anche se poi, quando a otto anni era tornata a vivere con la madre ai Fields, tutti
avevano sperato ardentemente che lasciasse quella scuola per sempre.
Krystal era passata lentamente da una classe all’altra come una capra che avanza nel corpo di un
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boa constrictor: visibilissima e disagevole per entrambe le parti. Non che Krystal fosse sempre in
classe: per gran parte della sua carriera scolastica alla St Thomas aveva preso lezioni individuali
da un’insegnante di sostegno.
Per un crudele scherzo del destino, Krystal era capitata nella stessa classe della nipote di Howard
e Shirley, Lexie. Una volta, Krystal aveva tirato a Lexie un pugno tanto forte da farle saltare due
denti. Per i genitori e i nonni di Lexie, il fatto che già traballassero non era stata una grande
attenuante.
Era stata la convinzione che ad attendere le loro figlie alla scuola secondaria polivalente
Winterdown ci fossero intere classi di Krystal a indurre Miles e Samantha Mollison, alla fine, a
trasferirle tutt’e due alla St Anne, la scuola privata femminile di Yarvil, dove erano entrate a
convitto e da cui tornavano solo nel fine settimana. Il fatto che per colpa di Krystal Weedon le
sue nipotine fossero state estromesse dalla scuola in cui per diritto spettava loro un posto era
diventato ben presto uno degli esempi preferiti di Howard per illustrare agli altri l’influenza
nefasta che quel complesso edilizio esercitava sulla vita di Pagford.
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V
A Pagford, il primo effluvio di indignazione si era solidificato in un rancore più quieto ma non per
questo meno potente. I Fields inquinavano e corrompevano un luogo di pace e bellezza e gli
abitanti di Pagford, nella loro quiescenza, restavano determinati a staccarsi e mandare i Fields
alla deriva. Tuttavia, dopo che si erano succeduti vari progetti di revisione dei confini e riforme
dell’amministrazione locale, niente era cambiato: i Fields restavano parte di Pagford. I nuovi
arrivati in paese imparavano presto che avere in esecrazione il complesso edilizio era il
passaporto necessario per farsi benvolere dai pagfordiani più intransigenti, che avevano il
controllo di tutto.
Ma ecco che finalmente – sessant’anni dopo che il vecchio Aubrey Fawley aveva ceduto a Yarvil
quel fatale pezzo di terra – dopo decenni di lavoro paziente, di strategie e petizioni, di collazioni
di notizie e invettive di sottocomitati – ecco che finalmente gli antifieldsiani di Pagford si
ritrovavano, frementi, a un passo dalla vittoria.
La recessione stava costringendo le autorità locali a semplificare, tagliare e riorganizzare. Tra chi
deteneva le più alte cariche del Consiglio distrettuale di Yarvil c’era chi vedeva in quel piccolo,
fatiscente complesso edilizio, che rischiava di passarsela male sotto i colpi di scure del governo
nazionale, la possibilità di un proprio vantaggio elettorale: bastava annetterselo e unire al proprio
elettorato quello dei suoi abitanti insoddisfatti.
Pagford aveva un suo rappresentante a Yarvil: il consigliere distrettuale Aubrey Fawley. Non era
lo stesso Aubrey Fawley che aveva reso possibile la costruzione dei Fields, ma suo figlio, ‘il
giovane Aubrey’, che aveva ereditato Villa Sweetlove e lavorava tutta la settimana come
promotore finanziario a Londra. Il suo impegno nella vita pubblica di Pagford sapeva di penitenza,
come se si sentisse in dovere di riparare il torto che il padre, con tanta leggerezza, aveva fatto alla
cittadina. Lui e la moglie Julia facevano donazioni e consegnavano premi all’esposizione agricola,
erano membri di numerosi comitati locali e tutti gli anni organizzavano una festa di Natale alla
quale tutti speravano di essere invitati.
Per Howard era un vanto e un piacere pensare che lui e Aubrey erano alleati tanto stretti nella
lotta indefessa per la riassegnazione dei Fields a Yarvil, perché Aubrey si muoveva in una più alta
sfera di commerci, e questo suscitava in Howard un affascinato rispetto. Tutte le sere, dopo aver
chiuso la salumeria, Howard estraeva il cassetto dalla cassa vecchio stile e contava la moneta e le
sudice banconote prima di metterle in cassaforte. Aubrey, invece, nell’orario di lavoro non
toccava mai il denaro, eppure ne faceva circolare quantità inimmaginabili da un continente
all’altro. Lui lo gestiva e lo moltiplicava e, quando la fortuna si mostrava meno propizia,
autorevolmente lo guardava svanire. Per Howard, Aubrey aveva un’aura di mistero che
nemmeno una crisi finanziaria mondiale poteva scalfire; il salumiere si spazientiva quando
qualcuno incolpava quelli come Aubrey di aver causato il disastro in cui versava il Paese. Finché le
cose erano andate bene, però, nessuno si era mai lamentato, era il commento che ripeteva
spesso, e riservava a Aubrey lo stesso rispetto che si doveva a un generale ferito in una guerra
impopolare.
Intanto Aubrey, in qualità di consigliere distrettuale, era al corrente di interessanti statistiche di
ogni genere e in condizione di informare Howard sul problematico quartiere satellite di Pagford. I
due conoscevano con precisione l’ammontare delle risorse distrettuali che venivano riversate, a
fondo perduto e senza alcun miglioramento evidente, nelle vie devastate dei Fields (mentre le
case di mattoni rossi di Cantermill erano ormai quasi tutte in mano ai privati: si erano
imborghesite fino a diventare quasi irriconoscibili, con i loro fiori alle finestre e i porticati e i prati
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ben curati); sapevano che due terzi degli abitanti dei Fields vivevano esclusivamente di sussidi
statali; e che una percentuale considerevole aveva varcato l’ingresso del Centro per la
tossicodipendenza Bellchapel.
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VI
L’immagine dei Fields, Howard se la portava sempre dentro come il ricordo di un incubo: finestre
sbarrate con le assi imbrattate di oscenità; adolescenti che ciondolavano con la sigaretta in bocca
sotto le pensiline degli autobus perennemente deturpate; antenne paraboliche ovunque, rivolte
al cielo come ovuli nudi di tristi fiori metallici. Spesso si chiedeva retoricamente perché non si
fossero mai organizzati per ripulire e sistemare tutto quanto: cosa ci voleva a mettere insieme le
loro magre risorse e comprare un tosaerba? E invece niente: i Fields aspettavano che fossero i
due consigli, distrettuale e locale, a pulire, riparare, fare manutenzione; dare, dare, dare e ancora
dare.
Dopodiché Howard ripensava alla Hope Street della sua fanciullezza, con quei giardini piccolissimi
sul retro delle case, ciascuno un quadrato di terra poco più grande di una tovaglia, ma quasi tutti,
compreso quello di sua madre, irti di fagiolini e patate. Niente, agli occhi di Howard, impediva ai
fieldsiani di farsi degli orti; niente gli impediva di insegnare la disciplina ai loro figli, ragazzi sinistri
incappucciati nella felpa e armati di bomboletta spray; niente gli impediva di mettere insieme le
forze e combattere insieme il sudiciume e la sciatteria; niente gli impediva di ripulirsi e trovarsi
un lavoro; proprio niente. Così Howard era costretto a concludere che quella vita se l’erano scelta
loro, di loro spontanea volontà, e che quell’aria di degradazione vagamente minacciosa che
avevano i Fields non era altro che una manifestazione fisica di ignoranza e indolenza.
Pagford, al contrario, risplendeva nella mente di Howard di una specie di luce morale, come se
l’anima collettiva della comunità si incarnasse nelle sue strade acciottolate, nelle sue colline,
nelle sue case pittoresche. Per Howard, il suo luogo di nascita era molto più del ricordo di vecchi
edifici, di un fiume che scorreva veloce fra gli alberi, della maestosa silhouette dell’abbazia o dei
cesti fioriti appesi nella Piazza. Per lui, la cittadina era un ideale, un modo di essere; una civiltà in
miniatura che si reggeva saldamente in piedi in mezzo al degrado nazionale.
«Io sono di Pagford» diceva ai turisti, «nato e cresciuto a Pagford.» Così dicendo, si faceva un
grande complimento camuffato da banalità. Lui a Pagford era nato e a Pagford sarebbe morto, e
non si era mai sognato di andarsene, né aveva mai desiderato cambiamenti di scena diversi da
quelli che le stagioni imprimevano al fiume e ai boschi circostanti, alla Piazza che fioriva in
primavera o scintillava a Natale.
Erano tutte cose che Barry Fairbrother sapeva; anzi, che diceva. Aveva riso, al tavolo della sala
parrocchiale, aveva riso in faccia a Howard. «Sai una cosa, Howard? Tu per me sei Pagford.» E
Howard, senza scomporsi di un filo (perché alle battute di Barry aveva sempre ribattuto a tono),
aveva detto: «Lo prendo per un gran complimento, Barry, comunque lo intendessi tu.»
Poteva concedersi una risata. L’unica ambizione che a Howard restava nella vita era a portata di
mano: la restituzione dei Fields a Yarvil era certa e imminente.
Poi, due giorni prima che Barry Fairbrother morisse stecchito in un parcheggio, Howard aveva
saputo da fonte irrefutabile che il suo avversario, infrangendo tutte le regole del combattimento,
si era presentato al giornale locale con un articolo su quanto era stato salutare per Krystal
Weedon andare a scuola alla St Thomas.
L’idea che Krystal Weedon venisse esibita di fronte ai lettori come esempio della riuscita
integrazione dei fieldsiani a Pagford avrebbe forse potuto (così disse Howard) suscitare ilarità, se
non fosse stata una questione tanto grave. Senza dubbio Fairbrother avrebbe imboccato la
ragazzina, così la verità sulla sua scurrilità, sul suo incessante disturbo in classe, sui pianti dei
compagni, sulle ripetute espulsioni e reintegrazioni sarebbe stata sommersa dalle bugie.
Howard aveva fiducia nel buon senso dei suoi compaesani, ma temeva gli effetti giornalistici e le
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interferenze degli ignoranti armati di buone intenzioni. La sua obiezione atteneva tanto ai principi
quanto al vissuto personale: non aveva ancora dimenticato la nipotina che piangeva fra le sue
braccia, con le gengive che sanguinavano là dove prima c’erano stati i denti, e lui che cercava di
consolarla promettendole che la fatina dei denti le avrebbe portato un premio triplo.
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Martedì
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I
Due mattine dopo la morte del marito, Mary Fairbrother si svegliò alle cinque. Aveva dormito nel
letto matrimoniale con il figlio di dodici anni, Declan, che era arrivato da lei in lacrime poco dopo
la mezzanotte. Ora dormiva profondamente, così Mary uscì in punta di piedi dalla stanza e scese
in cucina a piangere più liberamente. Ogni ora che passava aggiungeva dolore al dolore, perché la
portava un po’ più lontano da lui vivo e perché era un piccolissimo assaggio dell’eternità che
avrebbe trascorso senza di lui. Scopriva ripetutamente di essersi dimenticata, per lo spazio di un
secondo, che lui non ci sarebbe stato mai più e che lei non poteva chiedergli di consolarla.
Quando la sorella e il cognato vennero a preparare la colazione, Mary prese il cellulare di Barry e
si ritirò nello studio, dove cominciò a cercare i numeri di alcuni dei conoscenti più importanti del
marito. Si era messa all’opera da pochi minuti quando il cellulare squillò.
«Sì?» mormorò.
«Oh, buongiorno! Cercavo Barry Fairbrother. Sono Alison Jenkins della Yarvil and District
Gazette.»
All’orecchio di Mary, la voce allegra della giovane donna arrivò assordante e orribile come una
fanfara trionfale: con il suo fragore cancellò il senso delle parole.
«Come?»
«Alison Jenkins, della Yarvil and District Gazette. Vorrei parlare con Barry Fairbrother. È per il suo
articolo sui Fields.»
«Ah» fece Mary.
«Sì, non ci ha dato i recapiti di quella ragazzina di cui parla. Dovremmo intervistarla. Krystal
Weedon.»
Ciascuna parola arrivava a Mary come uno schiaffo. Con una sorta di gusto perverso restò ferma
e zitta nella vecchia poltroncina girevole di Barry, a ricevere i colpi.
«Mi sente?»
«Sì» rispose Mary, con voce rotta. «La sento.»
«So che il signor Fairbrother teneva molto ad assistere all’intervista, ma il tempo stringe e...»
«Non potrà assistere» disse Mary, con la voce che sfumava in un grido. «E non potrà più parlare
di quei cacchio di Fields, né di nient’altro, mai più!»
«Eh?» fece la ragazza all’altro capo della linea.
«Mio marito è morto, chiaro? Morto. Quindi i Fields dovranno cavarsela senza di lui, va bene?»
Tremava così tanto che il cellulare le sfuggì dalle dita e, negli istanti che le ci vollero per chiudere
la comunicazione, si rese conto che la giornalista l’aveva sentita singhiozzare amaramente. Poi
ricordò che Barry aveva dedicato gran parte del suo ultimo giorno di vita, nonché anniversario di
matrimonio, alla sua ossessione per i Fields e Krystal Weedon; esplose di rabbia: scaraventò il
cellulare alla cieca, tanto forte da mandarlo a sbattere contro una fotografia incorniciata dei suoi
quattro figli, che finì a terra. Si mise a gridare e piangere, tutt’e due le cose insieme, e la sorella e
il cognato fecero di corsa le scale per precipitarsi da lei.
«I Fields, quei maledetti, maledetti Fields...» fu quanto riuscirono a cavarle di bocca all’inizio.
«Io e Barry ci siamo nati, ai Fields» disse il cognato a mezza voce, ma poi rinunciò alla
spiegazione, per paura di scatenare un attacco isterico.
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II
L’assistente sociale Kay Bawden e la figlia Gaia si erano trasferite da Londra solo quattro
settimane prima ed erano le cittadine più recenti di Pagford. Kay non aveva familiarità con la
storia dei Fields e le polemiche che vi ruotavano attorno: per lei i Fields erano semplicemente il
quartiere in cui viveva gran parte delle persone che assisteva. Di Barry Fairbrother sapeva
soltanto che la sua morte aveva fatto precipitare la situazione nella cucina di casa sua, quando
Gavin l’aveva piantata lì con le sue uova strapazzate ed era uscito, distruggendo così tutte le
speranze che quella notte di passione aveva alimentato in lei.
Kay trascorse l’ora di pranzo in macchina, in una piazzola di sosta fra Pagford e Yarvil, a mangiare
un panino leggendo una pila enorme di appunti. Una collega era in congedo per stress, con il
risultato immediato che Kay si era dovuta sobbarcare un terzo dei suoi casi. Ripartì poco dopo
l’una, dirigendosi verso i Fields.
Era già stata altre volte nel quartiere, ma in quel dedalo di strade non si ritrovava ancora. Alla
fine riuscì ad arrivare in Foley Road e da lontano individuò la casa che poteva essere quella dei
Weedon. Nel dossier si specificava bene cosa aspettarsi e la casa corrispondeva all’idea che se
n’era fatta.
Contro la facciata principale erano ammucchiati dei rifiuti: sacchetti di plastica gonfi di
immondizia gettati alla rinfusa insieme a vestiti vecchi e pannolini usati. Qualcosa era scivolato
giù – o qualcuno lo aveva buttato – sul pezzetto di prato pieno di erbacce, ma il grosso era
accatastato lì, sotto una delle due finestre del pianterreno. In mezzo al prato c’era un vecchio
pneumatico liscio; era stato spostato di recente, perché un passo più in là si vedeva un cerchio
marroncino di erba morta e appiattita. Dopo aver suonato alla porta, Kay si accorse che sull’erba
accanto al suo piede luccicava un preservativo usato, simile al finissimo bozzolo di una larva
enorme.
Sentiva quella lieve apprensione che non era mai riuscita a vincere completamente, anche se non
era niente in confronto alla tensione provata ai primi tempi davanti a porte di sconosciuti. Poi,
malgrado il tirocinio, malgrado il fatto che di solito l’accompagnasse un collega, qualche volta
aveva avuto veramente paura. Cani minacciosi; uomini con il coltello in mano; bambini con ferite
mostruose: nei suoi anni di visite a sconosciuti aveva visto questo e anche di peggio.
Nessuno venne ad aprire, ma dalla finestra di sinistra del pianterreno, che era socchiusa, le arrivò
un piagnucolio di bambino piccolo. Provò allora a bussare, e una piccola scaglia di pittura color
crema si staccò e le atterrò sulla punta della scarpa. Le ricordò le condizioni della casa in cui si era
trasferita da poco. Che bello se Gavin si fosse offerto di aiutare a sistemarla; invece non aveva
detto niente. Certe volte Kay contava le cose che lui non aveva detto o fatto, come un avaro che
passa al vaglio le cambiali, e provava rabbia e amarezza, e si riprometteva di fargliela pagare.
Bussò di nuovo, prima di quanto avrebbe fatto se non avesse voluto distrarsi dai suoi pensieri, e
stavolta una voce lontana disse: «Arrivo, cazzo.»
La porta si spalancò e Kay vide una donna che sembrava contemporaneamente una bambina e
una vecchia, vestita con una lurida T-shirt azzurra e i pantaloni di un pigiama da uomo. Era alta
come Kay, ma rinsecchita: le ossa del viso e lo sterno sporgevano vistosamente sotto la sottile
pelle bianca. I capelli, sfibrati e di quel rosso acceso delle tinte fatte in casa, sembravano una
parrucca infilata su un cranio, le pupille erano minuscole e il petto praticamente piatto.
«Buongiorno, lei è Terri? Io sono Kay Bawden, dei servizi sociali. Sostituisco Mattie Knox.»
Sulle fragili braccia grigiastre della donna c’erano dei segni argentei e una ferita aperta, rosso
vivo, sul lato interno dell’avambraccio. Un’ampia area di tessuto cicatrizzato sul braccio destro e
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sulla parte bassa del collo dava alla pelle l’aspetto di plastica lucida. A Londra, Kay aveva
conosciuto una tossicodipendente che per sbaglio aveva dato fuoco alla casa e si era accorta
troppo tardi dell’accaduto.
«Sì, sono io» rispose Terri, dopo una pausa troppo lunga. Parlando sembrava molto più vecchia:
le mancavano parecchi denti. Voltò le spalle a Kay e fece qualche passo malfermo nel corridoio
buio. Kay la seguì. In casa aleggiava un odore di cibo guasto, sudore e immondizia. Terri, arrivata
alla prima porta a sinistra, condusse Kay in un salottino.
Nessun libro, nessun quadro, nessuna fotografia, niente televisore: nulla tranne un paio di
vecchie poltrone lerce e qualche scaffale rotto. Il pavimento era ricoperto di rifiuti. Unica nota
discordante, una pila di scatoloni nuovissimi addossata alla parete.
Un bambino piccolo era in piedi a gambe nude in mezzo alla stanza, vestito con una maglietta e
un voluminoso pannolino. Kay aveva letto nel dossier che aveva tre anni e mezzo. Il suo
piagnucolio aveva tutta l’aria di essere involontario e immotivato, un po’ come il rumore di un
motore, che semplicemente segnala la sua presenza. Stringeva in mano una scatola di cereali in
miniatura.
«E lui è Robbie, immagino?» disse Kay.
Sentendo pronunciare il suo nome, il bambino la guardò, ma continuò a piagnucolare.
Terri tolse di mezzo una vecchia scatola di latta tutta graffiata per liberare una delle due
malconce poltrone, sulla quale si rannicchiò guardando Kay da dietro le palpebre pesanti. Kay
occupò l’altra poltrona, che aveva sul bracciolo un posacenere pieno zeppo. Dei mozziconi erano
caduti sul sedile: Kay li sentì sotto le cosce.
«Ciao, Robbie» lo salutò, aprendo il dossier di Terri.
Il bambino continuò a piagnucolare, agitando la scatola di cereali; dentro c’era qualcosa che
sbatteva.
«Che cos’hai lì dentro?» chiese Kay.
Lui, invece di rispondere, agitò la scatola ancora più forte. Ne volò fuori un pupazzetto di plastica,
che descrisse un arco e atterrò dietro gli scatoloni. Robbie scoppiò a piangere. Kay guardò Terri,
che fissava suo figlio con sguardo vacuo. Alla fine Terri mormorò: «Che c’hai, Robbie?»
«Dai, vediamo se riesco a riprendertelo» disse Kay, approfittando della situazione per alzarsi e
pulirsi le gambe dei pantaloni. «Andiamo a dare un’occhiata.»
Si chinò verso la parete per guardare dietro gli scatoloni. Il pupazzetto era incastrato quasi in
cima. Lei infilò la mano nell’interstizio. Erano scatoloni pesanti, difficili da spostare. Riuscì ad
afferrare il pupazzetto e, quando lo ebbe in mano, vide che era un omino tracagnotto, grasso
come un buddha, rosso porpora da capo a piedi.
«Tieni» disse Kay.
Robbie smise di piangere; prese il pupazzetto e lo ributtò dentro la scatola dei cereali, che poi
riprese a scuotere.
Kay si guardò attorno. Sugli scaffali rotti c’erano due macchinine ribaltate.
«Ti piacciono le macchine?» chiese a Robbie, indicandole.
Lui non seguì la direzione del dito, ma restò a guardarla tra il diffidente e l’incuriosito. Poi corse a
prendere una macchinina e la sollevò per mostrargliela.
«Brum» fece. «Macca.»
«Giusto» commentò Kay. «Bravissimo. Macchina. Brum brum.»
Tornò a sedersi e tirò fuori dalla borsa il taccuino.
«Allora, Terri. Come andiamo?»
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Dopo una pausa, Terri rispose: «Bene.»
«Tanto per chiarire: Mattie è a casa in malattia e io la sto sostituendo. Bisognerà che rivediamo
insieme gli appunti che mi ha lasciato, per controllare se è cambiato qualcosa da quando vi siete
viste la settimana scorsa, d’accordo?
«Allora, vediamo: adesso Robbie va all’asilo, giusto? Quattro mattine e due pomeriggi alla
settimana?»
La voce di Kay sembrava arrivare a Terri da molto lontano. Era come parlare con qualcuno seduto
in fondo a un pozzo.
«Sì» rispose Terri, dopo una pausa.
«E come va? Gli piace?»
Robbie ficcò nella scatola dei cereali anche la macchinina. Poi prese un mozzicone caduto dai
pantaloni di Kay e spinse dentro anche quello, sopra la macchinina e il buddha rosso porpora.
«Sì» rispose Terri, con la voce impastata di sonno.
Ma Kay stava cercando di decifrare l’ultima annotazione che Mattie aveva scarabocchiato prima
di mettersi in malattia.
«Oggi non dovrebbe essere là, Terri? Il martedì non è uno dei giorni in cui va all’asilo?»
Terri sembrava combattere con il desiderio di dormire. Una o due volte la testa si inclinò un po’
verso la spalla. Alla fine disse: «Doveva portarcelo Krystal, ma poi...»
«Krystal è sua figlia, vero? Quanti anni ha?»
«Quattordici» rispose Terri, assente, «e mezzo.»
Kay lesse che invece ne aveva sedici. Seguì una lunga pausa.
Ai piedi della poltrona di Terri c’erano due tazze sbeccate. In una c’era un liquido nerastro che
sembrava sangue. Terri aveva le braccia incrociate contro il poco seno.
«Lo avevo vestito» riprese, trascinando le parole dal fondo della coscienza.
«Mi scusi, Terri, ma devo chiederglielo» la interruppe Kay. «Stamattina ha fatto uso di droghe?»
Terri si passò sulla bocca una mano simile a un artiglio.
«Naaa.»
«Caca» fece Robbie e scattò verso la porta.
«Bisogna aiutarlo?» chiese Kay, ma Robbie aveva già cominciato a salire rumorosamente le scale.
«No, ce ’a fa ’a solo» smozzicò Terri. Appoggiò la testa ciondolante sul pugno, con il gomito
piantato sul bracciolo. Robbie si mise a urlare dal pianerottolo.
«Potta! Potta!»
Lo sentirono battere contro la porta. Terri non si mosse.
«Vado ad aiutarlo?» si offrì Kay.
«Sì» rispose Terri.
Kay salì le scale e dovette armeggiare con la maniglia dura per far entrare Robbie. Il bagno
puzzava. La vasca era grigiastra e incrostata di righe marroni; lo sciacquone non era stato tirato.
Provvide Kay, per poi aiutare Robbie a sedersi sull’asse del water. Lui, con la faccia tutta
contratta, cominciò a spingere rumorosamente, come se lei non ci fosse. Si udì un gran tonfo e
l’aria già putrida si caricò di un fetore nuovo. Poi Robbie scese dal water e si tirò su il pannolino
senza pulirsi; Kay lo fece tornare e cercò di convincerlo a pulirsi da solo, ma evidentemente era
una pratica a lui sconosciuta. Alla fine dovette farlo lei. Il bambino aveva il sedere malconcio:
arrossato, irritato, pieno di croste. Il pannolino puzzava di ammoniaca. Kay cercò di toglierglielo,
ma lui si mise a strillare e tirar calci, si liberò e scappò giù in salotto, con il pannolino penzoloni.
Kay voleva lavarsi le mani, ma non c’era sapone. Cercando di trattenere il fiato chiuse la porta del
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bagno alle sue spalle.
Prima di scendere le scale sbirciò nelle camere da letto. In tutt’e tre c’era roba sparsa
dappertutto, che debordava fin sul pianerottolo, già gremito. Tutti dormivano su materassi
gettati sul pavimento. Robbie, evidentemente, condivideva la stanza con la madre: tra i vestiti
sporchi sparsi per terra spuntavano un paio di giocattoli. Kay notò con sorpresa che il piumino era
provvisto della sua sacca e i due cuscini di federe.
In salotto, Robbie si era rimesso a piagnucolare, battendo il pugno contro la catasta di scatoloni.
Terri guardava con gli occhi a mezz’asta. Kay, prima di tornare a sedersi, diede un pulita al sedile
della poltrona.
«Terri, lei sta facendo la terapia col metadone a Bellchapel, giusto?»
«Mm» rispose Terri, sempre insonnolita.
«E come procede, Terri?»
Con la penna pronta in mano, Kay aspettò, fingendo di non avere la risposta davanti agli occhi.
«Va ancora al Centro per la tossicodipendenza, Terri?»
«Settimana scorsa. Di venerdì, ci vado.»
Robbie martellava gli scatoloni con i pugni.
«Mi sa dire quanto metadone sta prendendo?»
«Centoquindici ml» rispose Terri.
Che ricordasse questo e non l’età di sua figlia non fu una sorpresa per Kay.
«Qui Mattie segnala che sua madre le dava una mano con Robbie e Krystal; è ancora così?»
Robbie si lanciò con tutto il peso del sodo corpicino contro la pila di scatoloni, che vacillò.
«Sta’ attento, Robbie» disse Kay, alla quale si aggiunse Terri: «Lasciali stare» e a Kay sembrò
finalmente di cogliere in quella voce quasi un segno di vitalità.
Robbie riprese a battere i pugni contro gli scatoloni, per il puro piacere, a quanto pareva, di udire
quel tambureggiare sordo.
«Terri, sua madre le dà ancora una mano con Robbie?»
«Non madre. Nonna.»
«La nonna di Robbie?»
«No, mia. No, non... non sta bene.»
Kay diede un’altra occhiata a Robbie, sempre con la penna pronta. Non era sottopeso: lo aveva
capito guardandolo e anche toccandolo, quando lo aveva pulito. La maglietta era sporca, ma
quando si era chinata sopra di lui aveva colto un sorprendente profumo di shampoo sui suoi
capelli. Sulle braccia e le gambe bianco latte non c’erano lividi, però c’era quel pannolino gonfio e
zuppo; e lui aveva tre anni e mezzo.
«Fame» si mise a strepitare, con un ultimo, inutile pugno contro uno scatolone. «Fame.»
«Mangia un biscotto» biascicò Terri, senza muoversi. Gli strepiti di Robbie si trasformarono in
pianti e urla. Terri non cercò neanche di alzarsi dalla poltrona. Era impossibile parlare, con quel
baccano.
«Vado a prendergliene uno?» gridò Kay.
«Sì.»
Robbie scattò di corsa per precedere Kay in cucina. Era sporca quasi quanto il bagno. Gli unici
elettrodomestici erano il frigorifero, i fornelli e la lavatrice; sul piano di lavoro c’erano solo piatti
sporchi, un altro posacenere pieno zeppo, sacchetti di plastica, pane ammuffito. Il linoleum era
appiccicoso e si incollava alle suole. Un cartone della pizza stava in equilibrio precario sul mucchio
di spazzatura che quasi traboccava dalla pattumiera.
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«Lì» disse Robbie, puntando il dito verso il pensile senza guardare Kay. «Lì.»
L’armadietto era più fornito di quanto Kay avesse immaginato: scatolette, un pacco di biscotti, un
vasetto di caffè istantaneo. Prese due biscotti e li porse al bambino, che glieli strappò di mano e
tornò di corsa dalla madre.
«Allora, Robbie, ti piace andare all’asilo?» gli chiese, mentre lui ingollava i biscotti seduto per
terra.
Il bambino non rispose.
«Sì, gli piace» intervenne Terri, appena più sveglia. «Vero, Robbie? Gli piace.»
«Quand’è stata l’ultima volta che ci è andato, Terri?»
«L’ultima volta. Ieri.»
«Ieri era lunedì, non può esserci andato ieri» obiettò Kay, prendendo appunti. «Il lunedì non ci
va.»
«Eh?»
«Le chiedevo dell’asilo. Oggi Robbie sarebbe dovuto essere all’asilo. Volevo sapere quand’è stata
l’ultima volta che ci è andato.»
«Gliel’ho detto, no? L’ultima volta.»
Kay non l’aveva mai vista con gli occhi tanto aperti. Il timbro della voce era ancora piatto, ma
l’ostilità cominciava faticosamente a emergere.
«Lei è lesbica?» chiese.
«No» rispose Kay, sempre scrivendo.
«A me sembra lesbica.»
Kay continuò a scrivere.
«Succo» urlò Robbie, con il mento sporco di cioccolato.
Stavolta Kay non si mosse. Dopo un’altra lunga pausa, Terri, vacillando, si tirò su dalla poltrona e
imboccò faticosamente il corridoio. Kay si chinò e sollevò il coperchio, chiuso male, dalla scatola
di latta che Terri aveva tolto di mezzo per sedersi. Dentro c’erano una siringa, un pezzo di ovatta
sporca, un cucchiaio arrugginito e un sacchetto di polietilene impolverato. Sotto lo sguardo di
Robbie, Kay richiuse bene il coperchio. Dopo un rumore di piatti, Terri tornò con una tazza di
succo, che cacciò in mano al bambino.
«Tieni» disse, rivolta più a Kay che al figlio, e tornò al suo posto. Al primo tentativo sbagliò mira e
andò a sbattere contro il bracciolo; Kay udì l’urto dell’osso contro il legno, ma Terri non accusò
dolore. Si sistemò di nuovo tra i cuscini incavati e restò a contemplare l’assistente sociale con uno
sguardo di annebbiata indifferenza.
Kay aveva letto il dossier dalla prima all’ultima pagina. Sapeva che quasi tutte le cose cui Terri
Weedon aveva tenuto di più nella sua vita erano state risucchiate nel buco nero della sua
tossicodipendenza; che questa le era costata due figli; che a fatica riusciva a tenersene altri due;
che si prostituiva per pagarsi l’eroina; che aveva commesso piccoli crimini di ogni genere; e che
stava cercando di disintossicarsi per l’ennesima volta.
Anche se non provare niente, fregarsene di tutto... In questo istante, pensò Kay, lei è più felice di
me.
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III
Prima che cominciassero le ultime due ore pomeridiane di lezione, Stuart ‘Ciccio’ Wall uscì da
scuola. Il suo esperimento di fuga non aveva nulla di impulsivo: già dalla sera prima aveva deciso
di saltare le ultime due ore, quelle di informatica. Avrebbe potuto scegliere di saltare altre
materie, ma si dava il caso che il suo migliore amico, Andrew Price (Arf per Ciccio), in informatica
fosse in un altro gruppo di lavoro e Ciccio, nonostante i suoi sforzi, non era riuscito a farsi
retrocedere per entrare nel suo gruppo.
Ciccio e Andrew avevano probabilmente pari consapevolezza del fatto che quasi tutta
l’ammirazione, all’interno del loro rapporto di amicizia, procedesse a senso unico: da Andrew a
Ciccio; solo Ciccio, tuttavia, aveva l’impressione di aver bisogno di Andrew più di quanto Andrew
avesse bisogno di lui. In questa sua dipendenza, negli ultimi tempi Ciccio aveva cominciato a
intravedere una debolezza, ma aveva concluso che, siccome la compagnia di Andrew continuava
a piacergli, tanto valeva saltare due ore in cui avrebbe comunque dovuto far senza.
Ciccio aveva saputo da un informatore attendibile che il solo modo sicuro di svignarsela dalla
Winterdown senza essere visti dalle finestre era scavalcare il muro laterale vicino alla rimessa
delle bici. E così fece, lasciandosi scivolare piano piano nel vicolo che c’era al di là. Atterrò senza
incidenti, si incamminò a passo spedito nella stradina e poi imboccò a sinistra la via principale,
sporca e trafficata.
Ormai al sicuro, si accese una sigaretta e passò davanti ai negozietti fatiscenti. Dopo cinque isolati
svoltò di nuovo a sinistra, nella prima via dei Fields. Sempre camminando si sciolse con una mano
la cravatta della divisa, ma non la sfilò. Se ne infischiava di far capire a tutti che era uno scolaro.
Ciccio non si era mai sforzato in alcun modo di personalizzare la sua divisa: di attaccare delle
spillette sul bavero o farsi il nodo alla cravatta secondo la moda del momento; lui indossava la
divisa con lo sprezzo di un carcerato.
Lo sbaglio che faceva il novantanove per cento dell’umanità, secondo Ciccio, era quello di
vergognarsi di se stessi: mentire su come si è, cercare di essere qualcun altro. La sincerità era il
punto di forza di Ciccio, la sua arma, la sua forma di difesa. Le persone sincere spaventavano,
scandalizzavano. Gli altri, aveva scoperto Ciccio, affondavano nell’imbarazzo e nella simulazione,
atterriti al pensiero che la loro verità potesse trapelare; Ciccio era invece attratto dalla
schiettezza, da qualunque cosa, anche brutta, fosse autentica, dalle cose sporche che in quelli
come suo padre suscitavano umiliazione e disgusto. Ciccio pensava molto ai messia e agli
emarginati; a chi aveva ricevuto l’etichetta di pazzo o criminale; ai nobili disadattati che le masse
sonnolente evitavano.
La cosa difficile, la cosa magnifica, era essere chi si era veramente, cattivi o pericolosi che si fosse,
soprattutto se si era cattivi o pericolosi. Ci voleva coraggio a non dissimulare la propria natura
animalesca. D’altro canto bisognava anche evitare di fingersi più animali del vero: bastava
imboccare quella via, cominciare a esagerare o simulare, e ci si trasformava in un Cubicolo come
tanti, un impostore, un ipocrita esattamente come lui. Autentico e inautentico erano parole che
Ciccio usava spesso, mentalmente; applicate a se stesso e agli altri, erano per lui concetti dalla
precisione chirurgica.
Ciccio aveva stabilito di possedere dei tratti autentici, che dunque dovevano essere sostenuti e
coltivati; ma aveva anche capito che certi suoi comportamenti erano il frutto innaturale della
sciagurata educazione ricevuta, dunque inautentici e da purgare. Negli ultimi tempi si stava
esercitando ad agire unicamente in base agli impulsi che considerava autentici, ignorando o
reprimendo il senso di colpa e la paura (inautentici) che tali azioni suscitavano in lui. Con la
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pratica le cose miglioravano, non c’era dubbio. Voleva rafforzarsi interiormente, diventare
invulnerabile, liberarsi della paura delle conseguenze: sbarazzarsi di qualsiasi concetto spurio di
bene e male.
Uno degli aspetti che cominciavano a irritarlo della sua dipendenza da Andrew era che talvolta la
presenza dell’amico ostacolava e limitava la piena espressione dell’io autentico di Ciccio. Era
come se Andrew avesse una visione tutta sua delle regole del gioco e Ciccio, negli ultimi tempi,
aveva colto sul viso del suo vecchio amico malcelate espressioni di dispiacere, perplessità e
delusione. Di fronte agli eccessi di scherno e provocazione, Andrew si tirava indietro. Ciccio non
gliene faceva una colpa: far propri quegli eccessi sarebbe stato inautentico da parte di Andrew, a
meno che quello fosse stato il suo vero desiderio. Il problema era che Andrew si mostrava legato
proprio a quel concetto di morale contro cui Ciccio combatteva una guerra di giorno in giorno più
aspra. Ciccio aveva la brutta impressione che la cosa giusta da fare, il gesto corretto e scevro da
sentimentalismi che occorreva compiere per giungere alla piena autenticità, fosse staccarsi da
Andrew; e tuttavia continuava a preferire la sua compagnia a quella di chiunque altro.
Ciccio era convinto di conoscersi bene: esplorava gli anfratti più riposti della sua psiche con
un’attenzione che da qualche tempo non dedicava a nient’altro. Si interrogava per ore sui suoi
impulsi, i suoi desideri, le sue paure, cercando di distinguere quelli veramente suoi da quelli che
gli altri gli avevano insegnato a provare. Passava al vaglio i suoi legami (nessuno, ne era certo, era
mai stato tanto onesto con se stesso: gli altri si lasciavano trasportare, mezzo imbambolati, dalla
corrente della vita): e le conclusioni erano che Andrew, suo amico dall’età di cinque anni, era la
persona per la quale provava l’affetto più sincero; che, pur essendo ormai abbastanza grande da
capire chi era sua madre, continuava ad avere con lei un legame di cui non era lui il colpevole;
infine che disprezzava vivamente Cubicolo, somma vetta di inautenticità.
Sulla sua pagina Facebook, che curava con un’attenzione tutta particolare, aveva trascritto una
citazione da un libro trovato in casa:
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Non voglio ‘credenti’, penso di essere troppo malizioso per credere a me stesso... Ho una paura
spaventosa che un giorno mi facciano santo... Non voglio essere un santo, allora piuttosto un
buffone... Forse sono un buffone...
A Andrew la citazione piaceva molto e a Ciccio piaceva che lui ne fosse rimasto tanto colpito.
Nel poco tempo che ci mise a passare davanti alla sala scommesse – qualche secondo – i pensieri
di Ciccio si accesero sul vecchio amico morto del padre, Barry Fairbrother. Tre belle falcate
davanti ai manifesti dei cavalli da corsa dietro il vetro sporco e Ciccio prima vide la faccia barbuta
e gioviale di Barry e poi udì Cubicolo esplodere in una sottospecie di risata – quasi spenta prima
che l’altro avesse concluso una delle sue misere battute – scatenata puramente dall’entusiasmo
di essere in compagnia di Barry. Ciccio non aveva nessuna voglia di analizzare questi ricordi; non
si interrogò sulle ragioni di quella sua istintiva avversione; non cercò di capire se il morto fosse
stato una persona autentica o inautentica: allontanò il pensiero di Barry Fairbrother e della
ridicola sofferenza di suo padre e tirò dritto.
Ciccio era stranamente triste in quei giorni, pur facendo sempre ridere tutti come prima. La sua
impresa di liberarsi dai lacci della morale corrente era il tentativo di riappropriarsi di qualcosa
che, ne era certo, era stato soffocato in lui, qualcosa che aveva perduto uscendo dall’infanzia.
Ciccio voleva ritrovare una sorta di innocenza e la strada che aveva scelto per riconquistarla
passava per tutte le cose che gli altri consideravano riprovevoli ma che, paradossalmente, erano
per lui l’unica via verso l’autenticità; verso una sorta di purezza. Curioso come tutto spesso si
rovesciasse, come tutto fosse il contrario di quanto gli altri insegnavano, Ciccio cominciava a
pensare che sarebbe bastato capovolgere, l’una dopo l’altra, tutte le opinioni convenzionali per
ottenere la verità. Voleva attraversare labirinti bui e combattere con le sconosciute creature che
li abitavano; voleva rompere il guscio della pietà e scoprire l’ipocrisia; voleva infrangere tabù e
spremere saggezza dai loro cuori insanguinati; voleva raggiungere uno stato di grazia amorale e
ricevere l’antibattesimo dell’ignoranza e della semplicità.
E così decise di contravvenire a una delle poche regole scolastiche che non aveva ancora violato e
si infilò nei Fields. Il fatto non era semplicemente che lì, più che in qualsiasi altro posto di sua
conoscenza, sembrava pulsare la cruda realtà: Ciccio nutriva anche la vaga speranza di incrociare
certi malfamati individui che lo incuriosivano e, quasi senza rendersene conto, perché era uno dei
suoi pochi desideri per i quali non aveva le parole, andava alla ricerca di una porta aperta, un
principio di agnizione, un’accoglienza in una casa che non sapeva di avere.
Passando davanti a quelle case color mastice a piedi, invece che in macchina con sua madre, si
accorse che molte erano prive di graffiti e immondizia e che alcune imitavano (così le vide lui)
l’affettazione pagfordiana, con le tendine di tulle alle finestre e i fiori sui davanzali. Da un veicolo
in marcia, dove gli occhi di Ciccio erano attratti irresistibilmente da finestre sprangate e prati
cosparsi di rifiuti, erano particolari meno evidenti. Quelle case ripulite non interessavano a Ciccio.
Ad attirare la sua attenzione erano i posti in cui spiccavano il caos e l’anarchia, fossero anche di
quel genere puerile da bomboletta spray.
Da quelle parti (non sapeva di preciso dove) abitava Dane Tully. La famiglia di Tully aveva una
pessima reputazione. I due fratelli maggiori e il padre si erano fatti un bel po’ di galera. E girava
voce che, l’ultima volta che Dane aveva fatto a botte (con un diciannovenne di Cantermill, così
narrava la leggenda), suo padre lo avesse accompagnato al luogo dell’incontro e anche lui avesse
fatto a botte, con i fratelli maggiori dell’avversario di Dane. Tully era arrivato a scuola con la
faccia gonfia, un labbro spaccato e un occhio nero. Tutti si erano trovati d’accordo nel dire che si
era fatto vivo a scuola, come accadeva di rado, solo per mostrare le ferite.
Ciccio era abbastanza certo che al suo posto non si sarebbe comportato così. Preoccuparsi di
mostrare agli altri la propria faccia tumefatta era inautentico. Lui sarebbe stato ben contento di
fare a botte e poi riprendere la sua vita normale, e gli altri avrebbero capito cos’era successo solo
incrociandolo per caso.
A Ciccio nessuno le aveva mai date, nonostante le sue continue e crescenti provocazioni. Negli
ultimi tempi pensava spesso come sarebbe stato fare a botte con qualcuno. Aveva il sospetto che
la condizione di autenticità verso cui tendeva implicasse la violenza; o che almeno non la
precludesse. Essere pronto a colpire e a essere colpito gli sembrava una forma di coraggio alla
quale aspirare. Non aveva mai avuto bisogno dei pugni: gli era sempre bastata la lingua; ma il
nuovo Ciccio cominciava a disprezzare la sua eloquenza e ad ammirare la brutalità (autentica).
Sulla questione del coltello, Ciccio era più cauto. Comprare un coltello e far sapere in giro di
averlo in tasca sarebbe stato un atto di assoluta inautenticità, una penosa scimmiottatura di
quelli come Dane Tully; al solo pensiero gli si torceva lo stomaco. Se mai si fosse trovato nella
condizione di aver bisogno di un coltello, allora se ne sarebbe potuto riparlare. Ciccio non
escludeva la possibilità che quel giorno potesse arrivare, anche se – lo riconosceva – l’idea lo
atterriva. Ciccio aveva paura di qualsiasi cosa penetrasse la carne, aghi e lame. Alla St Thomas,
quando tutti erano stati vaccinati contro la meningite, era stato l’unico a svenire. Andrew aveva
scoperto che un sistema per turbare Ciccio era quello di sfoderargli sotto il naso la sua EpiPen, la
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siringa piena di adrenalina che Andrew doveva sempre portarsi in tasca per via della sua grave
allergia alla frutta a guscio. Ciccio stava male, quando Andrew gliela agitava davanti agli occhi o
fingeva di ficcargliela nel braccio.
Vagando senza una meta precisa, posò per caso gli occhi sulla targa di Foley Road. Era la via in cui
abitava Krystal Weedon. Ciccio non sapeva se quel giorno lei era a scuola e non aveva alcuna
intenzione di farle credere di essere lì a cercare lei.
Erano d’accordo di vedersi venerdì sera. Ciccio aveva detto ai genitori che doveva andare da
Andrew per una ricerca di inglese da fare con lui. Gli sembrava che Krystal avesse capito lo scopo
di quell’appuntamento; gli era sembrata disponibile. Fino ad allora si era lasciata infilare dentro
due dita: era bollente, dura e scivolosa; lui le aveva sganciato il reggiseno e aveva avuto il
permesso di posare le mani sui suoi seni, caldi e pesanti. Poi alla festa di Natale l’aveva cercata;
sotto gli occhi increduli di Andrew e degli altri, l’aveva portata fuori, dietro il teatro della scuola.
Lei gli era parsa sorpresa come tutti gli altri, ma non aveva opposto, come lui aveva pensato e
sperato, alcuna resistenza. Era stata una scelta deliberata quella di puntare Krystal; e, quando si
era trattato di affrontare le frecciate dei compagni, la replica era già pronta, gelida e insolente.
«Solo un coglione va al banco delle insalate, se vuole le patatine.»
Era una metafora preparata, meditata, ma era stato costretto a tradurla.
«Voi continuate pure a farvi le seghe. Io voglio scopare.»
A queste parole, il sorriso sulle facce presenti si era spento. E Ciccio aveva capito che tutti,
compreso Andrew, avevano dovuto rimangiarsi lo scherno, ammirati di fronte alla fredda
determinazione con cui lui aveva perseguito il suo unico, autentico obiettivo. Per ottenerlo, Ciccio
aveva preso senza dubbio la strada più diretta; nessuno poteva contestare il suo spirito pratico, e
Ciccio sapeva che ciascuno di loro si stava rammaricando di non aver avuto il fegato di
considerare quel mezzo per un fine più soddisfacente.
«Fammi un favore, non dire niente a mia madre, ok?» Ciccio aveva mormorato a Krystal quando
avevano preso una boccata d’aria prima di ricominciare le umide esplorazioni l’uno della bocca
dell’altra, con i pollici di lui che strofinavano, avanti e indietro, i capezzoli di lei.
Krystal aveva ridacchiato e poi lo aveva baciato con più irruenza. Non gli aveva chiesto perché
avesse scelto lei, non gli aveva chiesto niente, in realtà; come Ciccio, sembrava soddisfatta delle
reazioni delle due distinte tribù, orgogliosa dello sconcerto altrui, orgogliosa perfino della scena
di disgusto messa in piedi dagli amici di lui. Nelle tre sedute di esplorazione e sperimentazione
carnali che erano seguite, Ciccio e Krystal quasi non avevano proferito verbo. Era sempre stato
Ciccio a prendere l’iniziativa, ma lei si era resa più disponibile del solito, scegliendo di frequentare
posti in cui sarebbe stato più facile incrociarsi. Quello di venerdì era il primo appuntamento vero
e proprio. Lui aveva comprato i preservativi.
La prospettiva di quell’appuntamento, e di andare finalmente fino in fondo, si legava in un certo
senso alla sua fuga da scuola e alla visita ai Fields, ma lui non pensava propriamente a Krystal
(pensava semmai al suo splendido seno e a quella vagina miracolosamente accessibile) quando
lesse il nome della sua via.
Ciccio fece dietro front, accendendosi un’altra sigaretta. Vedendo il nome di Foley Road aveva
avuto la strana sensazione di aver sbagliato momento. Quel giorno i Fields erano banali e
impenetrabili e quello che lui cercava, la cosa che sperava di riconoscere a colpo d’occhio, era
rintanata chissà dove, invisibile. Così Ciccio tornò a scuola.
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IV
Nessuno rispondeva al telefono. Kay, tornata nell’ufficio dell’Assistenza all’infanzia, da due ore
batteva sui tasti del telefono fra un lavoro e l’altro e lasciava messaggi in cui chiedeva di essere
richiamata: all’assistente sanitario dei Weedon, al medico di famiglia, all’asilo di Cantermill e al
Centro per la tossicodipendenza Bellchapel. Il dossier di Terri era aperto sulla sua scrivania,
gonfio e rovinato.
«Ci è ricascata, eh?» disse Alex, una delle colleghe con cui condivideva l’ufficio. «Stavolta la
buttano fuori da Bellchapel e lì non torna più. Dice sempre di avere tanta paura che le tolgano
Robbie ma poi non riesce a non farsi.»
«È la terza volta che inizia la cura a Bellchapel» intervenne Una.
Dopo l’esperienza di quel pomeriggio, Kay pensava che fosse arrivato il momento di riunire i vari
professionisti che, ciascuno per la sua parte, condividevano la responsabilità del caso Terri
Weedon e rivedere insieme il caso. Continuava a interrompere il lavoro per premere il tasto
redial mentre nell’angolo il telefono dell’ufficio squillava ripetutamente e subito scattava la
segreteria telefonica. L’ufficio del personale dell’Assistenza all’infanzia era angusto e zeppo di
roba, e puzzava sempre di latte cagliato perché Alex e Una, dopo aver bevuto il caffè, avevano il
brutto vizio di vuotare la tazza nella tristissima yucca che c’era nell’angolo.
Gli appunti più recenti di Mattie erano caotici, quasi illeggibili, pieni di cancellature, incompleti e
con le date sbagliate. Nella cartellina mancavano vari documenti essenziali, compresa una lettera
inviata dal Centro per la tossicodipendenza quindici giorni prima. Si faceva prima a chiedere
informazioni ad Alex e Una.
«L’ultima revisione del caso è stata fatta...» rispose Alex, corrugando la fronte in direzione della
yucca, «più di un anno fa, direi.»
«E hanno giudicato opportuno che Robbie restasse con lei, evidentemente» aggiunse Kay, che
intanto, con la cornetta premuta tra l’orecchio e la spalla, cercava il resoconto della riunione nel
faldone zeppo, senza trovarlo.
«Non si trattava di decidere se lasciarlo a lei, ma se farlo tornare a stare con lei. Lo avevano dato
in affidamento perché Terri era stata picchiata da un cliente ed era finita all’ospedale. Poi lei era
guarita, era uscita e aveva fatto il diavolo a quattro per riavere Robbie. Era tornata a Bellchapel,
aveva smesso di fare la vita e insomma ce la stava mettendo tutta. Sua madre aveva detto che
l’avrebbe aiutata. Così ha riavuto il bambino e qualche mese dopo ha ricominciato a bucarsi.»
«Però non è la madre ad aiutarla» la corresse Kay, che nello sforzo di decifrare la scrittura
disordinata di Mattie cominciava ad avere il mal di testa. «È la nonna, la bisnonna del bambino.
Così, evidentemente ha ripreso a farsi, e stamattina mi ha detto che sua nonna è malata. Se
adesso Terri è l’unica a occuparsi del bambino...»
«La figlia ha sedici anni» disse Una. «È soprattutto lei a occuparsi di Robbie.»
«Be’, non se la sta cavando benissimo» commentò Kay. «Stamattina, quando sono andata là, il
bambino era in uno stato...»
D’altra parte aveva visto di molto peggio: segni di frusta e piaghe, tagli e bruciature, lividi neri;
scabbia e pidocchi; neonati su tappeti ricoperti di escrementi di cane; ragazzini che si
trascinavano sulle ossa rotte; e una volta (lo sognava ancora) un bambino che il patrigno
psicotico aveva tenuto chiuso in un armadio per cinque giorni. Quest’ultimo caso era arrivato
sulla stampa nazionale. Il pericolo più immediato che minacciava la sicurezza di Robbie era la pila
di pesanti scatoloni in salotto, su cui lui aveva cercato di montare vedendo che così riusciva ad
attirare l’attenzione di Kay. Kay, prima di uscire, l’aveva divisa con cura in due pile più basse.
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Questo suo gesto non era piaciuto a Terri, né le era piaciuto sentirsi dire da Kay che bisognava
cambiare il pannolino sporco a Robbie. Anzi, Terri era esplosa di rabbia, per quanto ancora
intontita, e le aveva detto di andare a fanculo e rimanerci.
Il cellulare di Kay squillò e lei rispose. Era la responsabile del programma di disintossicazione di
Terri.
«Sono giorni che ti cerco» disse, stizzita. Kay ci mise qualche minuto a spiegarle che non era
Mattie, ma senza riuscire a mitigare la sua ostilità.
«Sì, viene ancora, ma la settimana scorsa è risultata positiva al test. La prossima volta che si fa è
fuori. In questo momento ci sono venti persone che potrebbero prendere il suo posto e magari
trarre qualche beneficio dal programma. È la terza volta che prova a smettere.»
Kay non le disse che quella mattina Terri si era fatta di nuovo.
«Avete del paracetamolo?» chiese ad Alex e Una, dopo che la responsabile del programma di
disintossicazione l’ebbe messa al corrente per filo e per segno delle presenze e della mancanza di
progressi di Terri per poi chiudere la telefonata.
Kay, non avendo le energie per alzarsi e andare al distributore d’acqua fresca nel corridoio, prese
l’analgesico con del tè intiepidito. Nell’ufficio si soffocava, con il termosifone al massimo. Man
mano che fuori la luce del sole si spegneva, quella al neon sopra la scrivania si faceva più intensa,
colorando la sua miriade di fogli di un biancogiallo acceso: un brulichio di parole nere marciavano
in file infinite.
«Vedrete che chiuderanno Bellchapel» disse Una, che stava lavorando al computer di spalle a
Kay. «Dovranno tagliare le spese. Yarvil finanzia il personale. Ma lo stabile è proprietà di Pagford,
e ho sentito che vogliono dargli una ripulita e cercare di affittarlo a qualcuno che gli dia più soldi.
Ce l’hanno a morte da anni, con quel Centro.»
A Kay pulsavano le tempie. Al nome della sua nuova cittadina di residenza si rattristò. Senza
riflettere, fece quello che la sera prima, visto che lui non aveva chiamato, si era ripromessa di non
fare: prese il cellulare e compose il numero dell’ufficio di Gavin.
«Edward Collins & Co.» disse una voce di donna al terzo squillo. Nel settore privato rispondevano
subito al telefono, quando potevano esserci di mezzo dei soldi.
«Posso parlare con Gavin Hughes, per favore?» chiese Kay, con la testa china sopra il file di Terri.
«Chi devo dire, prego?»
«Kay Bawden.»
Non sollevò la testa; non voleva incrociare lo sguardo di Alex o Una. Trascorse un momento che
le sembrò interminabile.
(Si erano conosciuti a Londra, alla festa di compleanno del fratello di Gavin. Kay non conosceva
nessuno alla festa, a parte l’amica che l’aveva trascinata per non andarci da sola. Gavin aveva
appena rotto con Lisa; era un po’ ubriaco, ma le era sembrato decoroso, affidabile e
convenzionale, tutto diverso dal tipo d’uomo che Kay sceglieva di solito. Le aveva spiattellato la
storia del suo amore finito e poi l’aveva accompagnata al suo appartamento di Hackney. Era stato
appassionato fintanto che era stata una relazione a distanza: andava a trovarla tutti i fine
settimana e le telefonava regolarmente; quando però, per miracolo, lei aveva trovato un lavoro a
Yarvil, meno redditizio, e aveva messo in vendita la casa di Hackney, lui aveva cominciato a dare
segni di paura...)
«Ha la linea occupata. Vuole attendere?»
«Sì, grazie» rispose Kay, tristemente.
(Se la storia con Gavin non avesse funzionato... no, doveva funzionare. Per lui si era trasferita,
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aveva cambiato lavoro, aveva sradicato la figlia dalla sua città. Lui non glielo avrebbe mai lasciato
fare se non avesse avuto intenzioni serie, no? Doveva pur aver riflettuto sulle conseguenze di
un’eventuale rottura: doveva pur aver pensato a quanto sarebbe stato imbarazzante continuare
a incontrarsi per caso in una cittadina piccola come Pagford.)
«Glielo passo» annunciò la segretaria, e le speranze di Kay decollarono.
«Ciao» disse Gavin. «Come stai?»
«Bene» mentì Kay, perché Alex e Una ascoltavano. «Come va il lavoro?»
«Tanto» rispose Gavin. «Lì?»
«Anche.»
Aspettò, con il telefono premuto bene contro l’orecchio, fingendo che lui le stesse parlando e
ascoltando il silenzio.
«Pensavo che stasera magari potevamo vederci» chiese alla fine, e stava già male.
«Mmm... stasera non posso, credo» rispose lui.
«Credo?» Come fai a non saperlo? Di che cosa ti fai?
«È probabile che debba... Mary. La moglie di Barry. Vuole che anch’io porti la bara. Quindi è
probabile che... Credo che dovrò capire un po’ la faccenda, cosa comporta eccetera.»
Certe volte, se lei stava zitta e lasciava riverberare nell’aria l’inadeguatezza dei suoi pretesti,
Gavin si vergognava e faceva un passo indietro.
«Ma immagino che non ci vorrà tutta la serata» riprese lui. «Potremmo vederci dopo, se vuoi.»
«Bene, allora. Vuoi venire tu da me, visto che domani è giorno di scuola?»
«Mmm... sì, d’accordo.»
«A che ora?» chiese lei, perché fosse lui a decidere almeno una cosa.
«Non so... verso le nove?»
Dopo che lui ebbe messo giù, Kay restò per qualche istante con il telefono incollato all’orecchio e
poi disse, perché Alex e Una sentissero: «Anch’io. A dopo, tesoro.»
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V
Come psicologa della scuola, Tessa aveva un orario più flessibile di quello del marito. Di solito
aspettava la fine della giornata di scuola per portare a casa il figlio, a bordo della Nissan, e Colin
(Tessa – pur sapendo com’era soprannominato dal resto del mondo, compresi quasi tutti i
genitori, che avevano preso l’abitudine dai figli – non lo chiamava mai Cubicolo) li raggiungeva a
casa un paio d’ore dopo con la Toyota. Ma quel pomeriggio, Colin e Tessa si ritrovarono nel
parcheggio alle quattro e venti, mentre gli studenti sciamavano ancora dai cancelli per andare
alle auto dei genitori o agli autobus messi gratuitamente a loro disposizione.
Il cielo era di un freddo grigio ferro, come il rovescio di uno scudo. Una brezza tagliente sollevava
gli orli delle gonne e scuoteva le foglie sui giovani alberelli: un vento gelido, cattivo, che ti frugava
dentro per cercare il punto più vulnerabile, la nuca, l’incavo delle ginocchia, e che negava il
conforto del sogno, di un breve ritiro dalla realtà. Anche in macchina, dopo averlo chiuso fuori,
Tessa continuò a sentirsi arruffata e infastidita, come se qualcuno l’avesse urtata senza poi
scusarsi.
Sul sedile accanto, con le ginocchia sproporzionatamente alte nell’angusto perimetro dell’auto,
Colin riferì a Tessa quello che il professore di informatica, venti minuti prima, era andato a dirgli
nel suo ufficio.
«... assente. Per tutt’e due le ore. Pensava che fosse il caso di dirmelo subito. Ecco, così domani
ne parleranno tutti, in sala professori. Esattamente quel che voleva» disse Colin, furibondo, e
Tessa capì che non parlava più del professore di informatica. «Me lo vuol mettere in quel posto,
come al solito.»
Suo marito era pallido di stanchezza, con due ombre scure sotto gli occhi arrossati e le mani che
si muovevano nervosamente sulla maniglia della cartella. Belle, con le nocche grandi e le dita
lunghe e affusolate, erano mani non del tutto dissimili da quelle del figlio. Tessa lo aveva fatto
notare a tutti e due, ultimamente; né l’uno né l’altro avevano manifestato il benché minimo
piacere al pensiero che fra loro potesse esserci anche una piccola somiglianza fisica.
«Secondo me non è...» cominciò Tessa, ma Colin aveva già ripreso a parlare.
«Si prenderà la punizione come tutti gli altri, a scuola e anche a casa, per Dio. Allora sì che si
divertirà. Allora vedremo se c’è tanto da ridere. Intanto cominciamo a vietargli di uscire per una
settimana, così vedrà che bel divertimento.»
Trattenendosi dal replicare, Tessa passò lo sguardo sul mare di studenti nerovestiti, che
camminavano a testa china, tremando, stringendosi bene addosso il soprabito leggero, con i
capelli che volavano in bocca. Un ragazzino del primo anno, con le guance arrossate, si guardava
attorno un po’ smarrito, cercando chi doveva venire a prenderlo e ancora non c’era. La folla si
aprì e spuntò Ciccio, che con le sue grandi falcate camminava al fianco di Arf Price, come sempre,
mentre il vento gli soffiava via i capelli dal viso scarno. A volte, da certe angolazioni, sotto una
certa luce, era facile prevedere come sarebbe stato Ciccio da vecchio. Per un attimo, dalle
profondità della sua stanchezza, Tessa vide in lui un perfetto sconosciuto e trovò straordinario
che stesse staccandosi dagli altri per venire verso la macchina e che lei sarebbe dovuta scendere
nuovamente in quell’orribile brezza iperrealistica per farlo salire. Ma quando lui arrivò e le rivolse
quella sua smorfietta di sorriso, si ritrasformò subito nel ragazzo che lei, malgrado tutto, amava:
Tessa scese di nuovo e, sferzata dal vento, aspettò stoicamente che lui si sistemasse in macchina,
dove il padre non aveva neanche fatto il gesto di muoversi.
Uscirono dal parcheggio, davanti agli autobus vuoti, e si inoltrarono nelle vie di Yarvil, passando
davanti alle case brutte e fatiscenti dei Fields per dirigersi verso la tangenziale che in un attimo li
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avrebbe riportati a Pagford. Tessa guardò Ciccio nello specchietto. Era seduto mollemente a
guardare dal finestrino, come se i genitori fossero due estranei che gli avevano dato un
passaggio, legati a lui soltanto dal caso e dalla prossimità.
Colin aspettò che arrivassero alla tangenziale e poi chiese: «Dove sei stato questo pomeriggio,
durante la lezione di informatica?»
Tessa, incapace di resistere, gettò un’altra occhiata nello specchietto. Vide il figlio sbadigliare.
Certe volte, pur ostinandosi a negarlo di fronte a Colin, Tessa sospettava che Ciccio stesse
facendo al padre una guerra sporca e personale, sotto gli occhi di tutta la scuola. Di suo figlio
sapeva cose che non avrebbe mai saputo, se non fosse stata la psicologa della scuola; gliele
raccontavano gli studenti, a volte candidamente, altre con malignità.
A casa Ciccio può fumare? Glielo lascia fare?
Quel bottino di rivelazioni, ottenuto involontariamente, lo teneva sotto chiave e non ne faceva
parola né al marito né al figlio, anche se era un peso da portare.
«In giro» rispose Ciccio, calmo. «Volevo sgranchirmi un po’ le gambe.»
Colin si girò di scatto a guardarlo e urlò, con la cintura di sicurezza che lo teneva incollato al sedile
e i gesti intralciati dal soprabito e dalla cartella. Siccome quando perdeva le staffe la voce gli si
faceva stridula e acuta, in quel momento stava urlando quasi in falsetto. Ciccio, con un mezzo
sorriso insolente che gli curvava la bocca sottile, lo lasciò urlare, finché suo padre cominciò a
lanciargli insulti, insulti smorzati dall’innata avversione di Colin per il turpiloquio, dall’imbarazzo
di farne uso.
«Che razza di egoista, che sfacciataggine... sei proprio una merda» strillò, e Tessa, con gli occhi
così pieni di lacrime da non riuscire quasi a vedere la strada, sapeva che Ciccio, l’indomani
mattina, avrebbe fatto il verso a Colin, ripetendo la sua timida parolaccia in falsetto a beneficio di
Andrew Price.
Ciccio sa fare un’imitazione fantastica della camminata di Cubicolo, l’ha mai vista?
«Come osi parlarmi così? E come ti permetti di saltare le lezioni?»
Colin strillava e inveiva, e intanto Tessa, all’uscita per Pagford, dovette battere le palpebre per
togliersi le lacrime dagli occhi; poi attraversò la Piazza, passando davanti a Mollison & Lowe, al
monumento ai caduti e al Black Canon; arrivata a St Michael and All Saints svoltò a sinistra in
Church Row e infine imboccò il vialetto di casa, quando Colin, a furia di urlare, emetteva ormai
solo squittii rochi e le guance di Tessa erano lucide e salate. Dopo che tutti furono scesi dalla
macchina, Ciccio, con un’espressione che non era cambiata di una virgola per tutta la lunga
invettiva del padre, entrò in casa aprendo con la sua chiave e se ne andò di sopra in tutta calma,
senza guardarsi indietro.
Colin buttò la cartella a terra nel corridoio buio e attaccò con Tessa. Unica fonte di illuminazione
era il riquadro di vetro colorato sopra la porta d’ingresso, che gettava sulla cupola un po’
sguarnita e agitata della testa di Colin una strana luce variegata, per metà rosso sangue e per
metà di un azzurro spettrale.
«L’hai visto?» gridò, scuotendo le lunghe braccia. «Hai visto come fa?»
«Sì» rispose lei, prendendo una manciata di fazzoletti di carta dalla scatola sul tavolino per
asciugarsi la faccia e soffiarsi il naso. «Sì, ho visto.»
«Non ha un briciolo di riguardo per quello che stiamo passando!» continuò Colin, e si mise a
singhiozzare, grossi singhiozzi convulsi e senza lacrime, come un bambino con la crup. Tessa
accorse ad abbracciarlo, cingendolo appena sopra la vita, perché, bassa e tozza com’era, più in su
non riusciva ad arrivare. Lui si chinò, si aggrappò a lei, che lo sentì tremare, con il costato che si
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alzava e abbassava sotto la giacca.
Qualche minuto dopo, lei delicatamente si staccò, lo condusse in cucina e gli preparò un tè.
«Vado da Mary a portarle uno spezzatino» disse Tessa, dopo essere stata zitta per un po’ a
tormentarsi le mani. «C’è là mezzo parentado. Poi torno e andiamo a letto presto.»
Lui annuì e tirò su col naso, e lei lo baciò sulla tempia per poi dirigersi verso il freezer. Quando
tornò, portando il pesante piatto ghiacciato, lui era seduto al tavolo, con la tazza avvolta nelle
grandi mani e gli occhi chiusi.
Tessa posò lo spezzatino, chiuso in un sacchetto di plastica, sulle mattonelle accanto alla porta di
casa. Si infilò il cardigan verde tutto bitorzoluto che usava al posto del giaccone, ma non le
scarpe. Salì le scale in punta di piedi fino al pianerottolo e poi, senza più preoccuparsi tanto di
non far rumore, fece la seconda rampa che portava alla mansarda.
Avvicinandosi alla porta, udì un sommesso rumore improvviso, come di topi che sgombrano il
campo. Bussò, per dare a Ciccio il tempo di nascondere quello che stava guardando online, caso
mai ce ne fosse bisogno, o magari le sigarette, di cui lui non sapeva che lei sapesse.
«Sì?»
Tessa spinse la porta. Suo figlio era studiatamente curvo sullo zaino.
«Proprio oggi dovevi saltare una lezione?»
Ciccio si drizzò, lungo e flessuoso; sovrastava sua madre.
«C’ero, a lezione. Sono arrivato in ritardo. Bennett non se n’è accorto. Quell’imbranato.»
«Stuart, per favore. Per favore.»
Certe volte avrebbe voluto sgridare anche gli altri ragazzi, quelli che andavano da lei a scuola.
Avrebbe voluto urlare: Devi accettare il fatto che esistono anche gli altri. Tu credi che la realtà si
possa negoziare, credi di potercela imporre a tuo piacimento. E invece devi accettare il fatto che
noi siamo reali quanto te; devi accettare il fatto di non essere Dio.
«Tuo padre è sconvolto, Stu. Per Barry. Non lo capisci, questo?»
«Sì» rispose Ciccio.
«È come se a te morisse un amico come Arf, no?»
Lui non replicò, né cambiò granché espressione, eppure lei fiutò il suo sdegno, il suo
divertimento.
«Lo so che secondo te tu e Arf siete su un altro piano, rispetto a tuo padre e Barry...»
«No» disse Ciccio, ma solo – lei lo sapeva – nella speranza di chiudere il discorso.
«Io esco per portare a Mary qualcosa da mangiare. Stuart, ti prego di non fare nulla che possa
fare arrabbiare tuo padre in mia assenza. Per favore, Stu.»
«Bene» disse lui, con qualcosa a metà fra la risata e la scrollata di spalle. Poi lo sentì rituffarsi nei
suoi pensieri, come una rondine, prima ancora che lei avesse richiuso la porta.
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VI
Il vento maligno spazzò via le nubi basse del tardo pomeriggio e, al tramonto, si calmò. Tre case
più in là di quella della fammiglia Wall, Samantha Mollison sedeva davanti al riflesso che la
specchiera illuminata le restituiva, pensando a quanto la deprimevano quel silenzio e quella
quiete.
Erano state due giornate deludenti. Non aveva venduto pressoché nulla. Il rappresentante della
Champêtre si era rivelato un mascellone dai modi abrasivi e con la valigia piena di reggiseni
orrendi. Evidentemente riservava la sua simpatia agli approcci preliminari, perché di persona si
era mostrato tutto affari ed efficienza, l’aveva trattata dall’alto in basso, aveva criticato le sue
collezioni e cercato di strapparle un ordine. Lei si era immaginata un uomo più giovane, più alto e
più sexy; non vedeva l’ora che lui e la sua merce pacchiana uscissero dal suo negozio.
Durante la pausa pranzo aveva comprato un biglietto prestampato («Le mie più sentite
condoglianze») per Mary Fairbrother, ma non riusciva a farsi venire in mente cosa scrivere,
perché, dopo quel viaggio da incubo che avevano fatto insieme verso l’ospedale, la semplice
firma non le sembrava sufficiente. Non avevano mai avuto rapporti stretti. In un paesino come
Pagford era impossibile non incrociarsi ogni tanto, ma lei e Miles non avevano mai frequentato
veramente Barry e Mary. Anzi, si poteva forse dire che fossero in campi opposti, con tutti quegli
interminabili scontri sui Fields tra Howard e Barry... non che a lei, Samantha, importasse
qualcosa. Lei si teneva al di sopra delle piccinerie della politica locale.
Stanca, giù di tono e gonfia dopo tutta una giornata di spuntini indiscriminati, sperava di non
dover andare con Miles a cena dai suoceri. Guardandosi allo specchio, mise le mani aperte sui
due lati della faccia e tirò delicatamente la pelle verso le orecchie. Millimetro dopo millimetro,
comparve una Samantha ringiovanita. Ruotò lentamente la faccia da una parte e dall’altra per
esaminare quella maschera tesa. Meglio, molto meglio. Si chiese quanto sarebbe costato, quanto
sarebbe stato doloroso, se avrebbe mai avuto il coraggio. Cercò di immaginare cos’avrebbe detto
sua suocera se si fosse presentata con una nuova faccia soda. Shirley e Howard stavano
contribuendo, come Shirley non mancava mai di ricordare a entrambi, a pagare gli studi alle
nipoti.
Miles entrò nella camera da letto; Samantha lasciò andare la pelle, prese il copriocchiaie e reclinò
la testa all’indietro, come faceva sempre quando si truccava: così la pelle un po’ cascante del
profilo si tendeva e le borse sotto gli occhi si attenuavano. Lungo il bordo delle labbra c’erano
delle rughette corte e sottili. Potevano essere riempite, aveva letto, con una sostanza sintetica
iniettabile. Chissà se funzionava, pensò; di sicuro sarebbe stato meno costoso di un lifting e forse
Shirley non si sarebbe accorta di niente. Nello specchio vide Miles che, sopra le sue spalle, si
sfilava la cravatta e la camicia, con la pancia che debordava sui pantaloni del completo.
«Non dovevi vedere qualcuno, oggi? Un rappresentante?» chiese. Guardando dentro l’armadio si
grattava distrattamente l’ombelico peloso.
«Sì, ma non aveva niente di che» rispose Samantha. «Robaccia.»
Miles era contento che lei facesse quel lavoro; era cresciuto in una famiglia in cui vendere era
l’unica cosa che contasse e il rispetto per il commercio istillatogli da Howard non era mai venuto
meno. E poi il genere merceologico trattato dalla moglie offriva sempre spunti per una battuta e
per altre forme meno finemente dissimulate di autocompiacimento. Miles sembrava non
stancarsi mai di sparare le sue solite spiritosaggini e le sue allusioni salaci.
«Forme poco anatomiche?» chiese, con aria esperta.
«Forme brutte. E colori orribili.»
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Samantha si spazzolò i folti e secchi capelli castani e li raccolse dietro la nuca, guardando nello
specchio Miles che si infilava un paio di chino e una polo. Lei era un fascio di nervi: sentiva che
alla minima provocazione poteva esplodere o mettersi a piangere.
Evertree Crescent era ad appena qualche minuto a piedi, ma Church Row era ripida, così presero
la macchina. Ormai faceva proprio buio e in cima alla via passarono davanti a un uomo in ombra
che aveva la sagoma e l’andatura di Barry Fairbrother; Samantha restò di sasso e si girò a
guardarlo chiedendosi chi fosse. L’auto di Miles, in cima alla salita, svoltò a sinistra e poi,
nemmeno un minuto dopo, a destra, entrando nella mezzaluna di villini anni Trenta.
La casa di Shirley e Howard, una costruzione bassa di mattoni rossi, provvista di ampie finestre,
esibiva generose distese di prato verde sia davanti sia sul retro, che d’estate Miles falciava
formando un disegno a strisce. Nei lunghi anni vissuti in quella casa, Howard e Shirley avevano
aggiunto lanterne, un cancello di ferro battuto bianco, vasi di terracotta pieni di gerani ai lati
della porta. Inoltre avevano messo, accanto al campanello, un pezzo tondo di legno lucidato su
cui c’era scritto, a nere lettere goticheggianti, con tanto di virgolette, ‘Ambleside’.
Talvolta Samantha era crudelmente arguta, sulla casa dei suoceri. Miles tollerava le sue stoccate,
che implicitamente riconoscevano il buon gusto suo e di Samantha, con i loro pavimenti e le loro
porte di legno sabbiato, le litografie incorniciate e lo scomodo divano moderno; ma in cuor suo
preferiva il villino in cui era cresciuto. Quasi tutte le superfici erano ricoperte di qualcosa di
soffice e accogliente; non c’erano correnti d’aria e le poltrone reclinabili erano deliziosamente
confortevoli. D’estate, dopo aver rasato il prato, si sistemava lì, in una di quelle poltrone, a
guardare il cricket sul grande schermo della tivù, e Shirley gli portava una birra fresca. Certe volte
una delle sue figlie lo accompagnava e si sedeva accanto a lui, a mangiare il gelato con la salsa di
cioccolato che Shirley preparava espressamente per le nipoti.
«Ciao, tesoro» cinguettò Shirley, quando aprì la porta. La sua figura bassa e compatta evocava un
bel macinino del pepe, avvolto nel suo grembiulino ricamato. Si mise in punta di piedi per farsi
baciare dal figlio e poi disse: «Ciao, Sam» e si girò subito dall’altra parte. «La cena è quasi pronta.
Howard! Miles e Sam sono arrivati!»
Nella casa aleggiava un odore di cera per i mobili mescolato con un buon profumo di cucina.
Howard arrivò nel corridoio con una bottiglia di vino in una mano e il cavatappi nell’altra. Shirley,
con mossa esperta, indietreggiò agilmente nella sala da pranzo per dare modo a Howard, che
occupava quasi tutta la larghezza del corridoio, di passare, dopodiché trotterellò in cucina.
«Eccoli qua, i buoni samaritani» tuonò Howard. «E come va la vendita di reggiseni, Sammy? Col
vento in poppa nonostante la recessione?»
«Mah, ti dirò: non vedo cedimenti» rispose Samantha.
Howard scoppiò in una risata fragorosa e Samantha era certa che le avrebbe anche dato una
pacca sul sedere, se non avesse avuto in mano il cavatappi e la bottiglia. Tollerava tutti i pizzicotti
e le manate di suo suocero, vedendovi l’innocuo esibizionismo di un uomo ormai troppo grasso e
vecchio per fare di più; e comunque infastidivano Shirley, cosa che a Samantha faceva sempre
piacere. Shirley non manifestava mai apertamente il suo fastidio; il suo sorriso non vacillava, né si
incrinava il suo tono di dolce ragionevolezza, ma poco dopo il gesto lascivo di Howard lanciava
sempre una stoccata alla nuora, nascondendola accuratamente in una vaporosa infiorettatura.
Commentava l’aumento delle tasse scolastiche delle ragazze; manifestava un sollecito interesse
per la dieta di Samantha; chiedeva a Miles se secondo lui Mary Fairbrother non aveva una
splendida figura. Samantha sopportava tutto, col sorriso sulle labbra, e dopo puniva Miles.
«Ciao, Mo!» disse Miles, precedendo Samantha nella stanza che Howard e Shirley chiamavano
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sala. «Non sapevo che venissi anche tu!»
«Ciao, bell’uomo» disse Maureen, con la sua voce grave e ruvida. «Dammi un bacio.»
La socia in affari di Howard era seduta in un angolo del divano, con un bicchierino di sherry
stretto fra le dita. Indossava un vestito rosa fucsia con collant neri e scarpe di vernice a tacco alto.
I capelli nero corvino erano cotonati e spruzzati di una pesante mano di lacca, con sotto una
faccia pallida e scimmiesca, attraversata da una spessa striscia di rossetto rosa shocking che si
increspò quando Miles si chinò a baciarle la guancia.
«Si parlava di lavoro. I progetti per il nuovo caffè. Ciao, Sam, tesoro» aggiunse Maureen, dando
qualche colpetto accanto a sé sul divano. «Oh, ma che bella tintarella, è ancora quella di Ibiza?
Vieni a sederti qui accanto a me. Che colpo per voi al circolo del golf. Dev’essere stato
agghiacciante.»
«Sì, infatti» disse Samantha.
E per la prima volta si ritrovò a raccontare a qualcuno la storia della morte di Barry, con Miles che
le ronzava attorno pronto a cogliere l’occasione per interromperla. Howard distribuì grandi
bicchieri di Pinot grigio, seguendo con molta attenzione il racconto di Samantha. Gradualmente,
al calore dell’interesse suscitato in Howard e Maureen, e con l’alcol che accendeva in lei un bel
focherello, la tensione che Samantha si portava addosso da due giorni cominciò a scemare,
facendo affiorare un seppur fragile senso di benessere.
La stanza era accogliente e immacolata. Sulle scaffalature che fiancheggiavano il caminetto a gas
era esposto un assortimento di porcellane ornamentali, quasi tutte a commemorazione di un
evento legato alla casa reale o di un anniversario del regno di Elisabetta II. Una piccola libreria
nell’angolo conteneva varie biografie reali e i libri di ricette illustrati per i quali in cucina non c’era
più posto. Mensole e pareti erano adorne di fotografie: Miles e la sorella minore Patricia, in divisa
scolastica abbinata, sorridevano raggianti in una cornice doppia; le due figlie di Miles e Samantha,
Lexie e Libby, erano raffigurate più e più volte, dai primi giorni di vita all’adolescenza. Samantha
figurava una sola volta, nella galleria di famiglia, anche se quell’unica foto era una delle più grandi
e più cospicue di tutte. Mostrava lei e Miles il giorno del matrimonio, sedici anni prima. Miles era
giovane e bello, con i penetranti occhi azzurri che guardavano sorridenti il fotografo, mentre
quelli di Samantha erano semichiusi, il suo viso ripreso di sghembo e il mento raddoppiato dal
sorriso rivolto a un altro fotografo. Il raso bianco del vestito tirava sui seni già gonfiati dal
principio di gravidanza, facendola sembrare enorme.
Maureen, con una delle sottili mani ad artiglio, stava giocherellando con la catenina che portava
sempre al collo, alla quale erano appesi un crocifisso e la fede del marito morto. Quando
Samantha arrivò al punto in cui la dottoressa aveva detto a Mary che non c’era più niente da fare,
Maureen posò la mano libera sul ginocchio di Samantha e strinse.
«È pronto!» gridò Shirley. Anche se venuta malvolentieri, Samantha si sentiva meglio di quanto si
fosse sentita negli ultimi due giorni. Maureen e Howard la trattavano come se fosse qualcosa a
metà fra l’eroina e l’invalida ed entrambi le diedero qualche pacchetta sulla schiena quando lei li
precedette in sala da pranzo.
Shirley aveva abbassato il varialuce e acceso delle lunghe candele, rosa per intonarsi alla carta da
parati e ai tovaglioli più belli. Il vapore che, nella penombra, saliva dalle zuppe conferiva una
certa spiritualità perfino al florido faccione di Howard. Dopo aver bevuto quasi tutto il suo grande
bicchiere di vino, Samantha pensò a come sarebbe stato divertente se Howard avesse annunciato
una seduta spiritica per chiedere a Barry la sua versione dei fatti accaduti al circolo del golf.
«Be’» dichiarò Howard, con voce grave, «direi che bisogna levare i calici a Barry Fairbrother.»
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Samantha si affrettò a portare alle labbra il suo, per impedire a Shirley di accorgersi che era già
praticamente vuoto.
«È stato quasi di sicuro un aneurisma» annunciò Miles nell’istante in cui i bicchieri si posarono di
nuovo sulla tovaglia. Perfino a Samantha aveva taciuto questo particolare e pensava di aver fatto
bene, perché la moglie, sapendolo, avrebbe potuto parlarne a Maureen e Howard bruciandogli
l’effetto. «Gavin ha telefonato a Mary per farle le condoglianze da parte di tutto lo studio e
cominciare a parlare del testamento, e lei glielo ha confermato. In sostanza, un’arteria cerebrale
si è gonfiata ed è scoppiata» (tornato in studio dopo aver parlato con Gavin, aveva controllato
l’ortografia corretta del termine e lo aveva cercato su Internet). «Poteva succedere in qualsiasi
momento. Un disturbo congenito, qualcosa del genere.»
«Che cosa orrenda» commentò Howard; ma poi vide che il bicchiere di Samantha era vuoto e si
sollevò dalla sedia per rabboccarglielo. Per un po’ Shirley mangiò la zuppa con le sopracciglia che
sfioravano l’attaccatura dei capelli. Samantha, per sfida, buttò giù un’altra bella sorsata di vino.
«Sapete una cosa?» disse, con la lingua un po’ impastata, «venendo qui mi è sembrato di
vederlo. Al buio. Barry.»
«Sarà stato un suo fratello» la liquidò Shirley. «Sono tutti uguali.»
Ma Maureen le coprì la voce.
«Anche a me era sembrato di vedere Ken, la sera dopo la sua morte» gracchiò. «Me lo ricordo
come fosse adesso: in piedi in giardino che mi guardava dalla finestra della cucina. In mezzo alle
sue rose.»
Nessuno commentò; era una storia che avevano già sentito. Per un minuto non si sentì altro che
un lieve sorbire generale, poi Maureen riprese nel suo stridulo tono da corvo: «Gavin è molto
amico dei Fairbrother, vero, Miles? Non gioca a squash con Barry? Giocava, volevo dire.»
«Sì, Barry lo batteva una volta alla settimana. Gavin dev’essere proprio una schiappa, visto che
Barry aveva dieci anni più di lui.»
Al chiarore delle candele, un’espressione quasi identica di compiaciuto divertimento si dipinse sul
viso delle tre donne a tavola. Se non altro, infatti, le accomunava un interesse un po’ perverso nei
confronti del giovane spilungone che lavorava con Miles. Nel caso di Maureen era una semplice
manifestazione del suo insaziabile appetito per tutti i pettegolezzi di Pagford, e le vicende di un
giovane scapolo erano bocconcini di prima scelta. Shirley, dal canto suo, era attratta soprattutto
dalle debolezze e insicurezze di Gavin, perché contrastavano deliziosamente con i successi e
l’atteggiamento assertivo delle due divinità gemelle della sua vita, Howard e Miles. In Samantha,
invece, la passività e la prudenza di quel giovane suscitavano addirittura una crudeltà felina: lei
moriva dalla voglia di vedere un surrogato di donna risvegliarlo a colpi di sberle, bacchettarlo,
insomma, dargli una regolata. Le poche volte che si incontravano, lo trattava con una certa
prepotenza, compiaciuta al pensiero che lui la trovasse intrattabile, schiacciante.
«E come sta andando con quella sua fidanzata di Londra?» chiese Maureen.
«Non abita più a Londra, Mo. Si è trasferita in Hope Street» la corresse Miles. «E se volete la mia
opinione, lui si è pentito amaramente di averla conosciuta. Sapete com’è Gavin. È uno che ha
paura della sua ombra.»
A scuola Miles era sempre stato di qualche anno più avanti, rispetto a Gavin, e nel modo in cui
parlava del suo socio c’era ancora una traccia dell’atteggiamento dell’anziano nei confronti del
nuovo arrivato.
«È una bruna? Capelli cortissimi?»
«Sì» rispose Miles. «Assistente sociale. Scarpe basse.»
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«Allora è venuta da noi in salumeria, vero, How?» disse Maureen tutta animata. «Così, a naso,
non mi è sembrata una gran cuoca.»
La zuppa fu seguita da un arrosto di lonza di maiale. Con la complicità di Howard, Samantha stava
scivolando dolcemente verso una piacevole ebbrezza, ma c’era qualcosa in lei che opponeva una
disperata resistenza, come un uomo finito in mare. Cercò di annegarlo in altro vino.
Sulla tavola calò un silenzio come una tovaglia immacolata e stirata di fresco, ricca di aspettative,
e stavolta tutti parvero capire che toccava a Howard introdurre il nuovo argomento di
conversazione. Lui per un po’ continuò a mangiare, a grandi bocconi innaffiati di vino, come
ignaro di avere gli occhi puntati addosso. Poi, dopo aver vuotato il piatto per metà, finalmente si
pulì la bocca nel tovagliolo e prese la parola.
«Sì, sarà interessante vedere cosa succederà adesso nel Consiglio.» Fu costretto a interrompersi
per reprimere un potente rutto; per un attimo parve sul punto di vomitare. Si batté il petto.
«Scusatemi. Sì. Sarà proprio interessante. Adesso che Fairbrother non c’è più» – passato alle
questioni serie, Howard era tornato all’uso del cognome, per lui più consueto – «non vedo come
il suo articolo possa uscire. A meno che non ci pensi Maledir, ovviamente» aggiunse.
Howard aveva soprannominato Parminder Jawanda ‘Maledir Bhutto’ alla sua prima comparsa in
veste di consigliera. E presso gli antifieldsiani il gioco di parole aveva attecchito.
«La faccia che ha fatto» disse Maureen, rivolta a Shirley. «La faccia che ha fatto quando
gliel’abbiamo detto. Mah... ho sempre pensato... ma tu lo sai bene...»
Samantha drizzò le orecchie, ma l’insinuazione di Maureen era assurda. Parminder era la moglie
dell’uomo più bello di Pagford: l’alto e aitante Vikram, dal naso aquilino, le lunghe ciglia nere e un
sorriso sornione e indolente. Per anni Samantha si era ravviata i capelli e aveva riso più del
necessario tutte le volte che si era fermata per strada a fare quattro chiacchiere con lui, che
aveva lo stesso fisico di Miles prima che Miles abbandonasse il rugby e mettesse su ciccia e
pancia.
Samantha aveva sentito dire, poco dopo che erano diventati loro vicini, che il matrimonio di
Vikram e Parminder fosse stato un matrimonio combinato. E le era sembrata un’idea
indescrivibilmente erotica. Pensare di ricevere l’ordine di sposare Vikram, di essere costretta a
sposarlo: Samantha si era costruita una piccola fantasia in cui lei, con il capo velato, veniva fatta
entrare in una stanza come una vergine condannata al suo destino... e poi, sollevata la testa,
scopriva che il suo destino era lui... Per non dire dell’ulteriore fremito di eccitazione che le dava il
suo lavoro: con tante responsabilità sulle spalle, anche un uomo molto più brutto sarebbe
apparso sexy...
(Era stato Vikram, sette anni prima, a operare Howard per l’inserimento di un quadruplo bypass.
Per questa ragione, Vikram non poteva mettere piede da Mollison & Lowe senza diventare subito
oggetto di una raffica di allegre attenzioni.
«Prego, dottor Jawanda, salti pure la fila! Signore, per piacere, fatelo passare – no, dottor
Jawanda, insisto – quest’uomo mi ha salvato la vita, ha rappezzato il mio vecchio cuore – cosa le
do, dottor Jawanda?»
Howard insisteva sempre perché Vikram accettasse qualche piccolo omaggio della casa e non
mancava di aggiungere un rinforzino qualunque cosa lui acquistasse. E proprio per questo,
pensava Samantha, Vikram aveva ormai quasi smesso di andare in salumeria.)
Aveva perso il filo del discorso, ma non importava. Si stava parlando ancora di Barry Fairbrother,
di qualcosa che aveva scritto per il giornale locale.
«... avevo intenzione di dirgliene quattro, su questo punto» ruggì Howard. «È stata una grande
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scorrettezza da parte sua. Ma... be’... ormai è acqua passata.
«Adesso bisogna pensare a chi prenderà il posto di Fairbrother. E non dovremmo sottovalutare
Maledir, per quanto sia addolorata. Sarebbe un grave sbaglio. È probabile che lei stia già
cercando qualcuno, quindi anche noi dovremo metterci a pensare a un buon sostituto, prima o
poi. Meglio prima che poi. Si tratta semplicemente di garantire il buon governo.»
«E questo cosa significherà, di preciso?» chiese Miles. «Nuove elezioni?»
«Probabile» rispose Howard, prudente, «ma ne dubito. È solo una vacanza imprevista. Se le
elezioni non dovessero riscuotere abbastanza interesse... anche se, come dicevo, non dobbiamo
sottovalutare Maledir... ma se lei non riuscirà a trovare nove persone per proporre una chiamata
alle urne, si tratterà semplicemente di cooptare un nuovo consigliere. In tal caso ci servirebbero
nove voti per la ratifica della cooptazione. Nove è il quorum. Mancano ancora tre anni alla
scadenza del mandato di Fairbrother. Ne vale la pena. Con uno dei nostri al posto di Fairbrother,
gli equilibri si sposterebbero.»
Howard tamburellò le tozze dita contro il calice di vino, guardando il figlio dall’altra parte del
tavolo. Anche Shirley e Maureen lo guardavano, e Miles, pensò Samantha, restituiva lo sguardo al
padre come un grosso e grasso labrador che freme in attesa di un bocconcino.
Sebbene senza la prontezza che avrebbe avuto da sobria, Samantha capì di cosa si stava parlando
e capì l’origine di quella strana atmosfera di celebrazione che si respirava a tavola. L’ebbrezza,
dopo essere stata liberatoria, adesso di colpo la inibiva: dopo una bottiglia di vino e un lungo
silenzio, temeva di non avere la lingua abbastanza docile. Così, invece di articolare le parole, le
pensò.
Farai meglio a dirgli, caro il mio Miles, che prima dovrai discuterne con me.
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VII
Tessa Wall non aveva pensato di fermarsi molto da Mary – non si fidava mai a lasciare suo marito
e Ciccio insieme senza di lei – ma, per una ragione o per l’altra, la visita si era prolungata e lei era
lì ormai da due ore. La casa dei Fairbrother era invasa di brandine e sacchi a pelo; i parenti erano
giunti da ogni dove per riempire il vuoto profondo lasciato dalla morte, ma non c’era verso: il
rumore e l’animazione non riuscivano a nascondere l’abisso che aveva inghiottito Barry.
Abbandonandosi ai suoi pensieri per la prima volta da quando il loro amico era morto, Tessa
ripercorse al buio Church Row, con il mal di piedi e il cardigan troppo leggero per ripararla dal
freddo. L’unico rumore era lo sbatacchiare delle perline di legno che portava al collo, oltre alle
voci attutite della televisione che arrivavano dalle case davanti alle quali passava.
Di colpo pensò: Chissà se Barry sapeva.
Non le era mai venuto in mente che suo marito potesse aver confidato a Barry il grande segreto
della sua vita, l’orribile menzogna da lei nascosta nei recessi del loro matrimonio. Lei e Colin non
ne parlavano mai (anche se il suo sentore aleggiava in certi discorsi che facevano, soprattutto
negli ultimi tempi...)
Quella sera, però, a Tessa era parso di ricevere da Mary una strana occhiata, quando si era
parlato di Ciccio...
Sei stanca, ti inventi le cose, si disse Tessa, fermamente. La riservatezza di Colin era così forte,
così radicata, che non poteva averlo detto a qualcuno, neanche a Barry, che pure idolatrava.
Tessa non voleva neanche pensare che Barry potesse saperlo... che all’origine della sua simpatia
per Colin potesse esserci stata la pietà per quello che lei, Tessa, aveva fatto...
Quando entrò in soggiorno, il marito, con gli occhiali inforcati, era seduto davanti alla tivù che
trasmetteva il telegiornale. Aveva sulle ginocchia una pila di fogli e in mano una penna. Con
sollievo di Tessa, di Ciccio non c’era traccia.
«Come sta?» chiese Colin.
«Be’, sai... non benissimo» rispose Tessa. Si buttò in una delle vecchie poltrone con un gemito di
sollievo e si sfilò le scarpe scalcagnate. «Ma il fratello di Barry è bravissimo.»
«In che senso?»
«Be’... l’aiuta.»
Chiuse gli occhi e, con il pollice e l’indice, si strofinò l’attaccatura del naso e le palpebre.
«Ho sempre pensato che fosse un po’ inaffidabile» disse la voce di Colin.
«Ah, sì?» fece Tessa, dai recessi di quel buio volontario.
«Sì. Ti ricordi quando aveva detto che sarebbe venuto ad arbitrare la partita contro Paxton High?
E poi, mezz’ora prima, ha disdetto e ha dovuto sostituirlo Bateman?»
Tessa cercò di reprimere l’impulso di ribattere aspramente. Colin aveva il brutto vizio di dare
giudizi affrettati, fondati sulla prima impressione, su un unico episodio. Non riusciva mai a
cogliere l’immensa mutevolezza della natura umana, né che dietro ogni faccia, anche la più
anonima, si nascondeva un mondo unico e in continuo fermento esattamente come il suo.
«Be’, con i ragazzi se la sta cavando benissimo» replicò Tessa, cauta. «Devo andare a letto.»
Non si mosse: restò lì, concentrata sui vari dolori delle varie parti del corpo: i piedi, la zona
lombare, le spalle.
«Tess, stavo pensando a una cosa.»
«Mmm?»
Gli occhi di Colin, dietro le lenti, erano ridotti alle dimensioni di nei, così che la fronte alta,
sporgente e senza capelli sembrava ancora più pronunciata.
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«A tutto quello che Barry stava cercando di fare al Consiglio locale. Tutto quello per cui stava
combattendo. I Fields. Il Centro per la tossicodipendenza. È tutto il giorno che ci penso.» Tirò un
respiro profondo. «Credo di aver deciso di continuare la sua lotta.»
Tessa fu colta da un orribile presagio, che la inchiodò alla poltrona lasciandola per un attimo
senza parole. Si sforzò di tenere un’espressione neutra, professionale.
«Barry avrebbe voluto così, ne sono certo» disse Colin. Il suo strano entusiasmo era soffuso di
diffidenza.
Barry non avrebbe voluto mai, pensò Tessa, con la parte più sincera di sé, nemmeno per un
secondo, che a farlo fossi tu. Avrebbe capito che saresti stato la persona meno adatta del mondo.
«Oddio» disse. «Be’. So che Barry era molto... ma sarebbe un impegno enorme, Colin. E poi
Parminder non è mica sparita. Lei è ancora lì, e cercherà di portare a termine tutti i progetti di
Barry.»
Avrei dovuto telefonare a Parminder, pensò Tessa parlando, lo stomaco improvvisamente stretto
dal senso di colpa. Dio santo, ma perché non mi è venuto in mente di telefonare a Parminder?
«Ma le servirà sostegno; da sola non riuscirà mai a tener testa a loro» obiettò Colin. «E sono
sicuro che Howard Mollison sta già pensando a un suo fantoccio da mettere lì al posto di Barry.
Anzi, forse l’ha già...»
«Oh, Colin...»
«Ci scommetto! Lo sai anche tu com’è fatto!»
I fogli gli caddero dalle ginocchia, senza che neanche se ne accorgesse, e atterrarono in una
cascata bianca e liscia.
«Voglio farlo per Barry. Riprenderò da dove lui ha lasciato. Farò in modo che i suoi sforzi non
finiscano in fumo. So quali erano le sue argomentazioni. Diceva sempre di aver avuto delle
opportunità che non avrebbe mai potuto avere altrimenti, e guarda quanto ha dato alla
comunità. No, ho deciso, lo faccio. Domani vado a informarmi su come procedere.»
«D’accordo» disse Tessa. Anni di esperienza le avevano insegnato che bisognava evitare di
opporsi a Colin nei primi momenti di entusiasmo, perché così non si faceva che rafforzarlo nella
decisione presa. E quegli stessi anni avevano insegnato a Colin che spesso Tessa prima si fingeva
d’accordo e poi si metteva a sollevare obiezioni. Questi loro discorsi erano sempre viziati dal
tacito, mutuo ricordo di quel segreto da tanto tempo sepolto. Tessa si sentiva in debito con lui.
Lui si sentiva in credito.
«Tessa, è una cosa che assolutamente voglio fare.»
«L’ho capito, Colin.»
Tessa si tirò su dalla poltrona, chiedendosi se avesse le energie per salire in camera.
«Vieni a letto?»
«Tra un minuto. Prima voglio finire di guardare questi.»
Stava raccogliendo i fogli caduti; quel suo nuovo, sventato progetto evidentemente gli dava
un’energia febbrile.
Tessa, in camera da letto, si svestì lentamente. Era come se la forza di gravità fosse aumentata:
che fatica sollevare le braccia, le gambe, sottomettere la lampo, recalcitrante, alla sua volontà. Si
infilò la vestaglia ed entrò in bagno, dove udì Ciccio muoversi al piano di sopra. Erano giorni in cui
spesso si sentiva sola e sfinita, a fare la spola tra il figlio e il marito, che sembravano esistere
ciascuno per conto suo, estranei l’uno all’altro come il padrone di casa con il suo inquilino.
Tessa fece per togliersi l’orologio e poi si rese conto di averlo lasciato chissà dove il giorno prima.
Era così stanca... perdeva sempre tutto... e come aveva fatto a dimenticarsi di telefonare a
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Parminder? Sull’orlo del pianto, tesa, preoccupata, si rifugiò a letto.
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Mercoledì
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I
In seguito a una lite particolarmente violenta con la madre, Krystal Weedon aveva trascorso le
notti di lunedì e martedì dall’amica Nikki, sul pavimento della sua camera da letto. Tutto era
cominciato quando Krystal, dopo essere stata con le amiche nei dintorni, era tornata a casa e
sulla porta aveva trovato Terri che parlava con Obbo. Tutti conoscevano Obbo, ai Fields, con la
sua faccia gonfia e mite e il suo sorriso sdentato, gli occhiali spessi come fondi di bottiglia e la
vecchia, lurida giacca di pelle.
«Allora, Ter? Me li tieni qui un paio di giorni? Ci fai qualche soldino.»
«Cos’è che deve tenere?» aveva chiesto Krystal. Robbie era sbucato dalle gambe di Terri per
correre ad aggrapparsi alle ginocchia di Krystal. A lui non piaceva che venissero degli uomini in
casa. E non senza ragione.
«Niente. Dei computer.»
«No» aveva detto Krystal a Terri.
Non voleva che sua madre avesse dei soldi da spendere. E sapeva che Obbo sarebbe stato
capacissimo di semplificarle le cose ricompensandola del favore direttamente con un sacchetto di
ero.
«Non prenderli.»
Ma Terri aveva detto di sì. Per tutta la vita, Krystal aveva sentito sua madre dire di sì a tutto e
tutti: concordava, accettava, acconsentiva: sì, certo, bene, d’accordo, come no?
Krystal se n’era andata, era stata con le amiche alle altalene, sotto un cielo che poco a poco
scuriva. Era nervosa, irascibile. Non si era ancora fatta una ragione della morte di Fairbrother, ma
continuava a sentire come dei colpi allo stomaco che le facevano venire la voglia di prendere a
pugni qualcuno. E in più si sentiva inquieta e colpevole per aver rubato l’orologio di Tessa Wall.
Ma perché quella cogliona glielo aveva messo proprio sotto il naso e aveva chiuso gli occhi? Che
cosa si aspettava?
Stare in compagnia non aveva migliorato le cose. Jemma aveva continuato a punzecchiarla su
Ciccio Wall; alla fine Krystal era esplosa e le era saltata addosso; Nikki e Leanne erano dovute
intervenire per fermarla. Così Krystal era tornata a casa come una furia e lì aveva visto che i
computer di Obbo erano arrivati. Robbie stava cercando di salire sugli scatoloni impilati nel
salotto, mentre Terri se ne stava imbambolata in poltrona, l’armamentario sparso a terra. Come
Krystal aveva temuto, Obbo aveva pagato Terri con un sacchetto di eroina.
«Sei proprio una tossica di merda. Così ti sbatteranno fuori un’altra volta da quel cazzo di
Centro!»
Ma l’eroina portava sua madre dove lei, Krystal, non poteva arrivare. La madre era riuscita a dare
alla figlia della stronza e della puttana, ma in tono assente, distaccato. Krystal le aveva tirato uno
schiaffo in faccia. Terri le aveva detto di andare a fanculo e crepare.
«Perché cazzo non ci pensi tu a lui, tanto per fare una cosa nuova, eh? Tossica di merda! Stronza
vacca cogliona!» aveva urlato Krystal. Robbie, strillando, l’aveva inseguita di corsa per il corridoio,
ma lei era uscita sbattendogli la porta in faccia.
A Krystal la casa di Nikki piaceva più di tutte. Non era pulita come quella di nonna Cath, però era
più accogliente, piena di voci, di movimento. Nikki aveva due fratelli e una sorella, così Krystal
dormì su un piumino gettato per terra fra i due letti delle sorelle. Le pareti erano tappezzate di
ritagli di riviste, che formavano un collage di maschi desiderabili e belle ragazze. A Krystal non era
mai venuto in mente di decorare le pareti della sua camera.
Ma il senso di colpa le attanagliava lo stomaco: continuava a ripensare alla faccia terrorizzata di
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Robbie quando lei aveva sbattuto la porta, così mercoledì mattina tornò a casa. E in ogni modo i
genitori di Nikki non vedevano di buon occhio che lei dormisse da loro più di due notti di fila. Una
volta Nikki le aveva detto, con la sua tipica schiettezza, che a sua madre stava bene, se non
capitava troppo spesso, ma che Krystal doveva piantarla di andare e venire come se quello fosse
un albergo e soprattutto di presentarsi alla porta a mezzanotte passata.
Terri, come sempre quando Krystal tornava, sembrò contenta di rivederla. Le parlò della visita
della nuova assistente sociale, e Krystal si domandò nervosamente cosa potesse aver pensato
quell’estranea della loro casa, che negli ultimi tempi era conciata peggio del solito. La sua
preoccupazione maggiore era che Kay avesse trovato Robbie a casa, quando invece sarebbe
dovuto essere all’asilo: Robbie aveva cominciato ad andarci durante l’affidamento e l’impegno
preso da Terri di continuare a mandarcelo era stata una condizione essenziale per riavere il
bambino l’anno prima. In più, l’assistente sociale doveva aver trovato Robbie con il pannolino
addosso, dopo i tanti sforzi di Krystal per convincerlo a usare il bagno, e questo la mandava in
bestia.
«E cos’ha detto?» chiese a Terri.
«Che tornerà» rispose Terri.
Krystal ebbe un brutto presentimento. L’assistente sociale di prima si era sempre accontentata di
vederle tirare avanti senza intromettersi troppo. Sconclusionata, distratta, sbagliava spesso i
nomi e confondeva i vari casi che seguiva: si presentava ogni due settimane con l’unico scopo, a
quanto pareva, di controllare che Robbie fosse ancora vivo.
La nuova minaccia peggiorò l’umore di Krystal. Terri, quando non era fatta, si lasciava intimorire
dalla rabbia della figlia e comandare a bacchetta. Così Krystal, cercando di sfruttare al massimo la
propria temporanea autorità, ordinò a Terri di vestirsi come si deve, infilò a Robbie un paio di
mutande pulite ricordandogli che in quelle non doveva pisciare e lo portò all’asilo. Lui si mise a
piagnucolare quando lei fece per andarsene; lei sulle prime lo trattò male, ma alla fine si
accovacciò sui talloni e gli promise di tornare a prenderlo all’una, e lui la lasciò andare.
Dopodiché Krystal marinò la scuola, anche se il mercoledì era il suo giorno preferito, perché
c’erano sia educazione fisica sia la seduta di psicologia, e si mise a fare un po’ di pulizie: lavò il
pavimento della cucina con una secchiata di disinfettante all’aroma di pino, grattò via gli avanzi
secchi di cibo e buttò i mozziconi nella spazzatura. Poi nascose la scatola di latta
dell’armamentario di Terri e trasferì i computer rimasti (tre erano già stati ritirati) nell’armadio
del corridoio.
Raschiando sporcizia dai piatti, Krystal continuava a pensare al canottaggio. L’indomani
pomeriggio avrebbe avuto gli allenamenti, se Fairbrother fosse stato ancora vivo. Di solito lui le
dava un passaggio sulla sua monovolume sia all’andata sia al ritorno, perché per lei non c’erano
altri modi di arrivare al canale di Yarvil. In macchina c’erano con lei anche le due figlie gemelle di
Fairbrother, Niamh e Siobhan, e Sukhvinder Jawanda. Krystal non le frequentava durante le ore di
scuola ma, da quando erano tutt’e quattro nell’equipaggio, se si incrociavano nei corridoi si
rivolgevano un breve saluto. Krystal si era aspettata che la trattassero dall’alto in basso; invece
non erano antipatiche, se le si conosceva. Quando lei faceva una battuta, loro ridevano. E
avevano adottato alcune delle sue espressioni preferite. In un certo senso, Krystal era il capitano
dell’equipaggio.
Nessuno nella famiglia di Krystal aveva mai posseduto un’automobile. Lei, concentrandosi,
riusciva a sentire l’odore della monovolume, anche nella puzza della cucina di Terri. Come le
piaceva quel caldo aroma di plastica. Su quella macchina non sarebbe salita mai più. Ogni tanto
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aveva fatto il viaggio con tutte le altre su un pullmino preso a noleggio, con Fairbrother al
volante, e le volte che avevano gareggiato con scuole lontane erano anche rimasti fuori a
dormire. In fondo al pullmino si cantava Umbrella di Rihanna: era diventato il loro rito
portafortuna, il loro inno, con Krystal che rappava l’introduzione di Jay-Z. Fairbrother, la prima
volta che l’aveva sentita in quell’assolo, si era quasi pisciato sotto dal ridere:
Uh huh uh huh, Rihanna...
Good girl gone bad –
Take three –
Action.
No clouds in my storms...
Let it rain, I hydroplane into fame
Comin’ down with the Dow Jones...
2
Krystal non aveva mai capito le parole.
Cubicolo Wall aveva mandato a tutte una lettera per dire che gli incontri erano sospesi finché non
avessero trovato un nuovo allenatore, ma un allenatore non lo avrebbero trovato mai, quindi
erano tutte cazzate, e lo sapevano.
Loro erano state l’equipaggio di Fairbrother, il suo progetto più caro. Quando Krystal ci era
entrata, Nikki e gli altri l’avevano coperta di scherno. Ma le loro manifestazioni di disprezzo
nascondevano incredulità e, in seguito, ammirazione, perché l’equipaggio aveva vinto delle
medaglie. (Krystal teneva le sue in una scatola che aveva trafugato in casa di Nikki. Se una
persona le stava simpatica, lei aveva la tendenza a rubarle qualcosa. La scatola in questione era di
plastica, con una decorazione di rose: un portagioie per bambine, in realtà. Adesso, arrotolato
dentro, c’era anche l’orologio di Tessa.)
Il momento più bello di tutti era stato quando avevano battuto quelle stronzette smorfiose della
St Anne: era stato il giorno più fantastico della sua vita. Alla prima adunata, la preside aveva fatto
schierare l’equipaggio davanti all’intera scolaresca (sulle prime Krystal si era sentita un po’
umiliata: Nikki e Leanne ridevano di lei) e poi tutti avevano applaudito... non era mica una cosa
da niente che la Winterdown avesse battuto la St Anne.
Ma adesso era tutto finito, tutto: i viaggi in macchina, il canottaggio, l’intervista al giornale locale.
Le era piaciuta l’idea di fare un’altra intervista. Fairbrother le aveva detto che ci sarebbe stato
anche lui, che le sarebbe stato accanto.
«Ma di cosa vogliono farmi parlare, tipo?»
«Della tua vita. Gli interessa la tua vita.»
Come una celebrità. Krystal non aveva i soldi per le riviste, ma le vedeva a casa di Nikki e dal
dottore, quando ci portava Robbie. Quella volta sarebbe stato ancora meglio di quando era stata
intervistata con tutto l’equipaggio. La prospettiva l’aveva entusiasmata, ma era riuscita lo stesso
a tenere chiusa la bocca e non se n’era vantata neanche con Nikki o Leanne. Voleva fargli una
sorpresa. Tanto meglio. Sul giornale non ci sarebbe andata mai più.
Krystal sentì un vuoto allo stomaco. Girando per casa a pulire qua e là, inesperta ma caparbia,
mentre la madre era seduta in cucina a fumare guardando fuori dalla finestra, cercò di non
pensare più a Fairbrother.
Poco prima di mezzogiorno, davanti alla casa arrivò una donna al volante di una vecchia Vauxhall
blu. Krystal la vide dalla finestra della camera di Robbie. Aveva i capelli neri e cortissimi,
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indossava pantaloni neri e una collana di perline in stile etnico, e portava in spalla una grande
sporta che sembrava piena di cartelline.
Krystal corse al piano di sotto.
«Mi sa che è arrivata» gridò a Terri, che era ancora in cucina. «L’assistente sociale.»
La donna bussò e Krystal aprì la porta.
«Ciao, sono Kay. Sostituisco Mattie. Tu sei Krystal, immagino?»
«Sì» rispose Krystal, senza preoccuparsi di restituirle il sorriso. La condusse in salotto e vide le sue
reazioni di fronte alla nuova, approssimativa pulizia: il posacenere svuotato e quasi tutta la roba
che era in giro ammucchiata sugli scaffali rotti. La moquette era ancora lercia, perché
l’aspirapolvere non funzionava, e per terra erano rimasti l’asciugamano e la pomata allo zinco,
con una macchinina di Robbie in bilico sulla bacinella di plastica. Krystal, pulendogli il sedere,
aveva cercato di distrarlo.
«Robbie è all’asilo» disse Krystal a Kay. «Ce l’ho portato io. Gli ho rimesso le mutande. Lei
continua a mettergli il pannolino. Gli ho messo la crema sul sedere. Non è grave, è solo
un’irritazione da pannolino.»
Kay le sorrise di nuovo. Krystal si affacciò alla porta e gridò: «Mamma!»
Terri arrivò dalla cucina. Era vestita con una vecchia felpa sporca e i jeans, e aveva l’aria meno
impresentabile solo perché era un po’ più coperta.
«Buongiorno, Terri» la salutò Kay.
«’Giorno» rispose Terri, aspirando forte dalla sigaretta.
«Siediti» ordinò Krystal a sua madre, la quale ubbidì, rannicchiandosi nella stessa poltrona della
volta prima. «Vuole un tè? O qualcos’altro?» chiese poi a Kay.
«Prenderei volentieri un tè, grazie» rispose Kay, che si sedette e aprì il dossier.
Krystal uscì subito dalla stanza. Tese l’orecchio per sentire quello che Kay diceva a sua madre.
«Probabilmente non si aspettava di vedermi così presto, Terri» (Kay aveva uno strano accento: di
Londra, le sembrava, lo stesso di quella stronza con la puzza sotto il naso che era arrivata da poco
a scuola e aveva tutti i maschi che le sbavavano dietro), «ma ieri mi sono un po’ preoccupata per
Robbie. Krystal diceva che oggi è tornato all’asilo. È così?»
«Sì» rispose Terri. «Ce l’ha portato lei. È tornata stamattina.»
«È tornata? E dov’era?»
«Niente, ero... sono stata a dormire da un’amica» disse Krystal, che si era precipitata in salotto
per anticipare la madre.
«Sì, ma stamattina è tornata» aggiunse Terri.
Krystal tornò al bollitore. L’acqua in ebollizione fece tanto baccano che lei non riuscì a cogliere
neanche una parola di quello che si dicevano sua madre e l’assistente sociale. Buttò nelle tazze le
bustine di tè, ci versò un po’ di latte, cercando di fare più in fretta che poteva, e arrivò in salotto
con le tre tazze di liquido fumante in tempo per sentire Kay che diceva: «... parlato con la signora
Harper, ieri all’asilo...»
«Quella stronza» fece Terri.
«Tenga» disse Krystal a Kay, mettendo le tazze per terra, una con il manico girato verso di lei.
«Grazie mille, Krystal. Terri, la signora Harper mi ha detto che Robbie ha fatto molte assenze,
negli ultimi tre mesi. È da un po’ che non fa una settimana intera di fila, vero?»
«Eh?» replicò Terri. «No, no. Sì. Solo ieri, non c’è andato. E quando ha avuto il mal di gola.»
«Quand’è stato?»
«Eh? Un mese fa... ’n mese e mezzo... tipo.»
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Krystal si sedette sul bracciolo della poltrona di sua madre. Dall’alto della sua postazione,
guardava Kay di traverso, masticando energicamente una gomma, a braccia conserte come la
madre. Kay aveva uno spesso dossier aperto sulle ginocchia. Krystal non sopportava i dossier.
Tutta quella roba che scrivevano su di te e che poi conservavano per ritorcertela contro.
«Robbie lo porto io all’asilo» disse. «Andando a scuola.»
«Be’, stando alla signora Harper, le assenze di Robbie sono aumentate un po’» puntualizzò Kay,
consultando gli appunti che aveva preso durante il colloquio con la direttrice dell’asilo. «Il fatto è,
Terri, che l’anno scorso, quando ha riavuto Robbie, lei si è impegnata a mandarlo alla scuola
materna.»
«Occazzo, io non...» cominciò Terri.
«No, sta’ zitta, okay?» ordinò Krystal a sua madre, ad alta voce. Poi si rivolse a Kay: «Era malato.
Aveva le tonsille tutte infiammate. Sono andata dal dottore a prendergli gli antibiotici.»
«E quando è successo?»
«Tre settimane fa... una cosa così...»
«Ieri, quando sono venuta qui» riprese Kay, rivolgendosi di nuovo alla madre di Robbie (Krystal
stava sempre masticando vigorosamente, con le braccia davanti alle costole come una doppia
barriera), «mi è sembrato che lei facesse una gran fatica a rispondere alle esigenze di Robbie,
Terri.»
Krystal gettò un’occhiata a sua madre. La sua coscia, sul bracciolo, era grossa il doppio di quella di
Terri.
«Io non... non ho mai...» Poi Terri cambiò idea. «Robbie sta benissimo.»
Un sospetto oscurò la mente di Krystal come l’ombra di un avvoltoio.
«Terri, lei aveva fatto uso di droghe, ieri. Vero?»
«No, cazzo, no! Non è un cazzo... non è... non mi ero bucata, va bene?»
Krystal sentiva un peso sul petto e le fischiavano le orecchie. Obbo doveva aver dato a sua madre
non un sacchetto di roba, ma chissà quanti. L’assistente sociale l’aveva vista fatta. La prossima
volta, a Bellchapel, Terri sarebbe risultata positiva e loro l’avrebbero cacciata di nuovo...
(... e senza metadone, sarebbero sprofondate di nuovo nell’incubo in cui Terri diventava un
animale e ricominciava a prendere in quella sua bocca sdentata il cazzo di sconosciuti, per poter
riempirsi le vene. E Robbie lo avrebbero portato via, di nuovo, e stavolta forse non sarebbe
tornato mai più. In un cuoricino di plastica appeso al portachiavi che Krystal teneva in tasca c’era
una foto di Robbie, all’età di un anno. Il cuore vero di Krystal si era messo a martellare come
quando remava a più non posso, come quando spingeva, spingeva, spingeva nell’acqua, con i
muscoli che cantavano, e guardava l’altro equipaggio scivolare indietro...)
«Sei una cogliona» gridò, ma nessuno sentì, perché Terri stava ancora strillando con Kay, che era
seduta impassibile con la tazza fra le mani.
«Non mi ero bucata, cazzo, lei non ha un cazzo di prova per...»
«Cogliona» ripeté Krystal, più forte.
«Non mi ero bucata, cazzo, è una bugia, cazzo» urlò Terri: un animale braccato che si dimenava,
avvolgendosi nella rete ancora di più. «Non è un cazzo vero, va bene? Non è...»
«Povera stronza che sei, adesso ti butteranno fuori dal Centro, razza di cogliona!»
«Non azzardarti a parlarmi così, cazzo!»
«Bene, adesso basta» disse forte Kay, cercando di sovrastare le urla; riappoggiò a terra la tazza e
si alzò in piedi, spaventata di vedere cos’aveva scatenato. Poi gridò «Terri!» con autentico
allarme quando lei si tirò su per rannicchiarsi sopra l’altro bracciolo, di fronte a sua figlia: come
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due gargolle, erano quasi naso contro naso, a strillare.
«Krystal!» gridò Kay quando la ragazza sollevò il pugno.
Krystal saltò giù dalla poltrona, via dalla madre. Si sorprese di sentir scorrere sulle guance un
liquido caldo e pensò confusamente al sangue, ma erano lacrime, solo lacrime, chiare e luccicanti
sulla punta delle dita, quando se le asciugò.
«Basta» ripeté Kay, con i nervi tesi. «Adesso calmiamoci, per favore.»
«Calmati tu, cazzo» protestò Krystal. Tremante, si asciugò la faccia con l’avambraccio e poi si
riavvicinò alla poltrona della madre. Terri si irrigidì, ma Krystal prese di scatto il pacchetto di
sigarette, ne tirò fuori una e accese. Tirando boccate si allontanò dalla madre, andò alla finestra e
restò voltata di spalle, cercando di reprimere le altre lacrime prima che uscissero.
«Bene» disse Kay, sempre in piedi, «adesso magari cerchiamo di parlarne con calma...»
«Ma vaffanculo» fece Terri, spompata.
«Qui si tratta di Robbie.» Kay era ancora in piedi: rilassarsi la spaventava. «È per lui che sono qui.
Per controllare che Robbie stia bene.»
«Vabbè, per qualche giorno non è andato al suo cazzo di asilo, e allora?» intervenne Krystal,
sempre alla finestra. «Mica abbiamo ammazzato nessuno.»
«... ammazzato nessuno» concordò Terri, in una molle eco.
«Non si tratta solo dell’asilo» precisò Kay. «Ieri, quando l’ho visto, Robbie non stava bene, era
pieno di irritazioni. È troppo grande per portare ancora il pannolino.»
«Ma io gliel’ho tolto, quel cazzo di pannolino, gliel’ho detto!» ribatté Krystal, furiosa.
«Mi dispiace, Terri» riprese Kay, «ma non era affatto in condizione di badare da sola a un
bambino.»
«Io non...»
«Lei può anche continuare a dirmi che non si era bucata» disse Kay; e Krystal, per la prima volta,
colse nella voce di Kay qualcosa di autentico e umano: stizza, esasperazione. «Ma al Centro le
faranno il test. E tutt’e due sappiamo che sarà positivo. Dicono che questa è la sua ultima
occasione, che la cacceranno di nuovo.»
Terri si asciugò la bocca con il dorso della mano.
«Stia a sentire, vedo che nessuna delle due vuole perdere Robbie...»
«E allora non ce lo porti via, cazzo!» urlò Krystal.
«Non è così semplice» obiettò Kay. Si sedette, raccolse il pesante dossier da terra, dov’era
caduto, e se lo mise sulle ginocchia. «L’anno scorso, quando Robbie è tornato da lei, lei aveva
smesso di bucarsi. E si è presa il grande impegno di stare lontano dall’eroina e concludere la
terapia, e ha accettato anche altre condizioni, per esempio di continuare a mandare Robbie
all’asilo...»
«E infatti ce l’ho portato...»
«... per un po’» disse Kay. «Per un po’ ce l’ha portato, ma, Terri, uno sforzo simbolico non basta.
Dopo quello che ho visto qui ieri, e dopo aver parlato con l’operatrice del Centro e con la signora
Harper, credo purtroppo che sia necessario rivedere un po’ tutto quanto.»
«Cioè? Cioè?» intervenne Krystal. «Un’altra revisione del caso? Ma a cosa vi serve? A che cazzo vi
serve? Lui sta benissimo, ci bado io, a lui – e tu sta’ zitta, cazzo!» sbraitò a Terri, che cercava di
strillare a sua volta. «Lei non... ci penso io, a lui, okay?» tornò a tuonare verso Kay, puntandosi il
dito contro il petto, rossa in viso e con le lacrime di rabbia che le colmavano gli occhi cerchiati di
una spessa riga di kajal.
Krystal era andata a trovare Robbie regolarmente, nel mese in cui era stato in affidamento. Ogni
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volta il fratellino si era aggrappato a lei, aveva voluto che lei si fermasse a cena, aveva pianto
quando lei aveva fatto per andarsene. Era stato come farsi togliere metà budella e lasciarle in
ostaggio. Krystal avrebbe voluto che Robbie andasse da nonna Cath, come spesso aveva fatto lei
da piccola quando Terri era crollata. Ma ormai nonna Cath era vecchia e acciaccata e non aveva
tempo per Robbie.
«Capisco che vuoi bene a tuo fratello e fai tutto il possibile per lui, Krystal» disse Kay, «ma, dal
punto di vista legale, tu non sei...»
«E perché no? Sono sua sorella, cazzo.»
«D’accordo» riprese Kay, in tono fermo. «Terri, qui bisogna affrontare le cose come stanno. Se a
Bellchapel dirà di non essersi bucata e poi risulterà positiva al test, la cacceranno
definitivamente. L’operatrice che la segue è stata chiarissima con me, al telefono.»
Terri, rannicchiata nella poltrona come uno strano ibrido a metà fra la vecchia e la bambina, con
quella bocca sdentata, aveva lo sguardo vuoto e sconsolato.
«Credo che l’unico modo di non farsi cacciare» continuò Kay, «sia riconoscere di sua iniziativa di
esserci ricaduta, assumersi tutte le responsabilità dell’errore e mostrare il suo impegno a voltare
pagina.»
Terri restò lì a guardare nel vuoto. Per lei, il solo modo di reagire alle tante accuse che le
venivano mosse era mentire. Sì, certo, bene, d’accordo, e poi: No, mai, mai fatto, cazzo...
«C’è una ragione particolare per cui questa settimana ha fatto uso di eroina, quando stava già
prendendo un’alta dose di metadone?» chiese Kay.
«Sì» rispose Krystal. «Sì, perché si è fatto vivo quello stronzo di Obbo e lei a Obbo non gli dice mai
di no!»
«Sta’ zitta» disse Terri, ma senza vigore. Sembrava che stesse cercando di capire quello che le
aveva detto Kay: quello strano consiglio, quel pericoloso consiglio di dire la verità.
«Obbo» ripeté Kay. «Chi è Obbo?»
«Un cazzo di tossico» rispose Krystal.
«Il suo pusher?»
«Sta’ zitta» suggerì di nuovo Terri a Krystal.
«Perché non gli hai detto di no e basta?» gridò Krystal a sua madre.
«D’accordo» ripeté Kay. «Terri, richiamerò l’operatrice del Centro. Cercherò di convincerla, le
dirò che, secondo me, se lei continuerà la terapia la famiglia ne avrà un beneficio.»
«Veramente?» chiese Krystal, stupefatta. Kay le era sembrata una grandissima stronza, ancora
più stronza di quella tipa da cui era stato Robbie in affidamento, con la sua cucina lustra e quel
modo di parlare gentile con lei, che la faceva solo sentire ancora di più una merda.
«Sì» disse Kay, «veramente. Però, Terri, per quanto ci riguarda, intendo dire per noi
dell’Assistenza all’infanzia, la cosa è seria. Dovremo monitorare la situazione di Robbie qui a casa.
E bisognerà che vediamo dei cambiamenti, Terri.»
«Sì, certo» rispose Terri: mostrandosi d’accordo come faceva sempre su tutto e con tutti.
Ma Krystal rispose: «Sì, ci saranno. Cambierà, vedrà. L’aiuterò io. Cambierà.»
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II
Tutti i mercoledì, Shirley Mollison era al Policlinico South West di Yarvil. Ci andava per svolgere,
insieme a una decina di altri volontari, varie mansioni non di carattere medico, come per esempio
passare fra i letti con il carrello dei libri, curare i fiori dei pazienti e andare giù nel negozio
dell’atrio a fare qualche commissione per chi era costretto a letto e non riceveva visite. L’attività
preferita di Shirley era prendere le ordinazioni per i pasti. Una volta, con il suo portablocco per gli
appunti e il badge plastificato, aveva incrociato un medico che l’aveva presa per una
dell’amministrazione.
L’idea del volontariato in ospedale le era venuta durante la conversazione più lunga che avesse
mai avuto con Julia Fawley, a una delle stupende feste di Natale a Villa Sweetlove. In quella
circostanza aveva saputo che Julia era impegnata nella ricerca di fondi per il reparto pediatrico
dell’ospedale locale.
«Ci servirebbe proprio una visita reale» aveva detto Julia, con lo sguardo che scavalcava le spalle
di Shirley per posarsi sulla porta. «Farò in modo che Aubrey scambi qualche parolina discreta con
Norman Bailey. Mi scusi, devo salutare Lawrence...»
E l’aveva piantata lì, accanto al pianoforte a coda, a rispondere «Oh, ma certo» rivolta al nulla.
Shirley non aveva idea di chi fosse Norman Bailey, ma era inebriata. L’indomani stesso, tacendo
perfino a Howard le sue intenzioni, aveva telefonato al South West per informarsi sul lavoro di
volontariato. Accertato che gli unici requisiti erano moralità irreprensibile, mente sana e gambe
forti, aveva chiesto un modulo per fare domanda.
A Shirley, il volontariato aveva aperto un mondo tutto nuovo, meraviglioso. Fu questo il sogno
che Julia Fawley, senza saperlo, le aveva consegnato quella volta accanto al pianoforte a coda:
Shirley in piedi, con le mani decorosamente intrecciate davanti a sé e il badge plastificato appeso
al collo, e la regina che avanzava lentamente davanti alla fila dei raggianti volenterosi. Poi Shirley
che si produceva in un inchino perfetto, attirando così lo sguardo della regina e inducendola a
fermarsi a scambiare qualche parola con lei: si congratulava con Shirley per la generosità con cui
offriva il suo tempo libero... il bagliore di un flash, una fotografia, e il giorno dopo, sui giornali...
«Sua Maestà chiacchiera con Shirley Mollison, volontaria dell’ospedale...» Certe volte, quando si
concentrava bene sulla sua fantasticheria, Shirley provava un’emozione quasi mistica.
E il volontariato in ospedale aveva fornito a Shirley un’arma formidabile con cui far abbassare la
cresta a Maureen. Quando la vedova di Ken si era trasformata, come Cenerentola, da commessa
di negozio in socia, si era fatta venire delle arie che Shirley (pur sopportando tutto con un sorriso
da gattina) trovava esasperanti. Ma poi Shirley aveva riguadagnato terreno: anche lei lavorava, e
non per il profitto ma per bontà d’animo. Il volontariato era chic: lo facevano le donne che non
avevano bisogno di altri soldi, donne come lei e Julia Fawley. Inoltre, cosa ancora più importante,
l’ospedale le dava accesso a una miniera inesauribile di pettegolezzi con cui soffocare le
noiosissime chiacchiere di Maureen sul caffè di prossima apertura.
Quella mattina, Shirley espresse in tono fermo al responsabile del personale volontario la sua
preferenza per il padiglione ventotto e fu debitamente mandata al reparto di oncologia. L’unica
infermiera con cui avesse stretto amicizia era al padiglione ventotto: certe giovani infermiere
erano brusche e paternalistiche con i volontari; Ruth Price, invece, che era tornata da poco a quel
lavoro dopo un intervallo di sedici anni, era stata deliziosa fin dall’inizio. Entrambe erano, come
diceva Shirley, donne di Pagford, e questo le legava.
(Anche se, a dire il vero, Shirley non era nata a Pagford. Lei e la sorella minore erano cresciute
con la madre in un appartamento sporco e angusto di Yarvil. La madre beveva parecchio; e non
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aveva mai divorziato dal padre, che loro tuttavia non avevano mai visto. Tutti gli uomini della
zona, a quanto pareva, sapevano come si chiamava la madre di Shirley e pronunciando il suo
nome facevano un sorrisino... ma erano tutte cose che appartenevano a un passato lontano e
secondo Shirley bastava non parlarne mai e il passato si disfaceva. Lei si rifiutava di ricordare.)
Shirley e Ruth si salutarono calorosamente, ma era una mattinata pesante ed ebbero appena il
tempo per qualche commento sbrigativo sull’improvvisa morte di Barry Fairbrother. Si misero
d’accordo di vedersi alle dodici e mezzo per il pranzo e poi Shirley se ne andò a prendere il
carrello dei libri.
Era d’umore splendido. Vedeva il futuro nitidamente, come se lo avesse già alle spalle. Howard,
Miles e Aubrey Fawley si sarebbero uniti per staccare i Fields da Pagford una volta per tutte e
quella sarebbe stata l’occasione per festeggiare con una bella cena a Villa Sweetlove...
Shirley trovava quella casa strabiliante: l’immenso giardino con la meridiana, le siepi scolpite e i
laghetti; l’ampio atrio rivestito di legno; sul pianoforte a coda, la fotografia incorniciata d’argento
del proprietario che scambiava una battuta con la principessa reale. Non aveva mai avuto il
minimo sentore di condiscendenza, nell’atteggiamento dei Fawley nei confronti suoi o del marito;
ma era pur vero che, ogniqualvolta entrava nell’orbita dei Fawley, erano molti i profumi che
distraevano la sua attenzione. Vedeva già la scena: loro cinque a una cena privata, in una di
quelle deliziose salette, Howard seduto accanto a Julia, lei alla destra di Aubrey e Miles in mezzo.
(Nella fantasticheria di Shirley, Samantha era immancabilmente trattenuta altrove da altri
impegni.)
Shirley e Ruth si incontrarono alle dodici e mezzo agli yogurt. La mensa, che risuonava di
acciottolii, non era ancora gremita come lo sarebbe stata all’una e l’infermiera e la volontaria
trovarono, senza troppe difficoltà, un tavolo per due, appiccicoso e pieno di briciole, addossato
alla parete.
«Come sta Simon? Come vanno i ragazzi?» chiese Shirley, dopo che Ruth ebbe pulito il tavolo e
tutt’e due ebbero tolto i piatti dai vassoi e si furono sedute l’una di fronte all’altra, pronte per la
chiacchierata.
«Simon sta bene, grazie, sta bene. Oggi ci porta a casa un computer nuovo. I ragazzi non vedono
l’ora; puoi immaginare.»
Niente di più falso. Andrew e Paul avevano ciascuno un vecchio portatile; il pc era in un angolo
del piccolissimo salotto e nessuno dei due lo toccava: cercavano di astenersi da qualsiasi attività
che li portasse nelle vicinanze del padre. Con Shirley, Ruth parlava spesso dei suoi figli come se
fossero molto più piccoli della loro età: docili, pronti a essere trascinati qua e là e facili al
divertimento. Forse sperava così di ringiovanirsi, di sottolineare la differenza di età fra lei e
Shirley – quasi vent’anni – di renderle ancora di più madre e figlia. La madre di Ruth era morta
dieci anni prima; lei sentiva la mancanza di una donna più anziana e Shirley, come aveva
accennato a Ruth, non aveva un rapporto idilliaco con la figlia.
«Io e Miles siamo sempre stati molto legati. Patricia, invece... be’, lei ha sempre avuto un
carattere un po’ difficile. Adesso abita a Londra.»
Ruth avrebbe tanto voluto sondare, ma una qualità che lei e Shirley avevano in comune e
ammiravano l’una nell’altra era la loro signorile reticenza: l’orgoglio di mostrare al mondo una
superficie imperturbata. Così Ruth aveva messo da parte la curiosità, pur senza rinunciare alla
segreta speranza di scoprire un giorno, al momento opportuno, che cos’era a rendere Patricia
una persona tanto difficile.
Shirley e Ruth si erano trovate subito simpatiche perché ciascuna aveva riconosciuto nell’altra
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una donna come lei, una donna il cui orgoglio più grande era quello di aver conquistato e
conservato l’affetto del marito. Come i massoni, condividevano lo stesso codice di valori e
dunque quand’erano insieme si sentivano tranquille come con nessun’altra donna. La loro
complicità era tanto più gradevole in quanto condita di un senso di superiorità, perché ciascuna,
in cuor suo, compativa l’altra per la scelta del marito. Ruth considerava Howard fisicamente
grottesco e non capiva come la sua amica, che conservava una sua bellezza delicata, malgrado
qualche rotondità, potesse mai aver accettato di sposarlo. D’altro canto a Shirley, che non
ricordava di aver mai visto Simon né di averlo mai sentito nominare quando si parlava delle cose
importanti di Pagford e che riteneva la sua amica priva della benché minima vita sociale,
sembrava che il marito di Ruth fosse un solitario e un disadattato.
«Ero qui, quando Miles e Samantha hanno portato Barry» disse Ruth, introducendo l’argomento
principale senza preamboli. Non aveva le stesse finezze di Shirley, nell’arte della conversazione, e
faticava a dissimulare la sua avidità di pettegolezzi su Pagford, che a lei, confinata com’era su
quell’alta collina e isolata per colpa della scontrosità di Simon, erano negati. «Ma loro hanno
proprio visto tutto?»
«Oh, sì» rispose Shirley. «Erano a cena al circolo del golf. Sai com’è... era domenica sera, le
ragazze erano tornate in collegio... e Sam preferisce mangiare fuori... non è una gran cuoca...»
Pezzetto dopo pezzetto, una pausa caffè dopo l’altra, Ruth era stata messa al corrente dei piccoli
segreti della vita matrimoniale di Miles e Samantha. Shirley le aveva raccontato che suo figlio era
stato costretto a sposare Samantha perché lei era incinta di Lexie.
«Hanno fatto quel che potevano» aveva sospirato Shirley, con vivace coraggio. «Miles ha fatto il
suo dovere; era il meglio che potessi aspettarmi da lui. Le ragazze sono incantevoli. Però è un
peccato che Miles non abbia avuto un maschio; sarebbe stato meraviglioso con lui. Ma Sam non
voleva un terzo figlio.»
Ruth coglieva e conservava gelosamente qualsiasi critica, per quanto velata, Shirley muovesse
alla nuora. Per Samantha aveva provato un’immediata antipatia quando, anni prima, aveva
portato Andrew, allora di cinque anni, all’asilo della St Thomas e là l’aveva incontrata con la figlia
Lexie. Con quella sua risata sguaiata, quel suo décolleté immenso e con quelle battute a un passo
dalla volgarità che faceva alle altre mamme davanti alla scuola, Samantha le aveva dato
l’impressione di una pericolosa predatrice. Per anni Ruth l’aveva vista con sdegno sporgere in
fuori quel petto imponente per mettersi a parlare con Vikram Jawanda alle riunioni dei genitori, e
aveva trascinato Simon dall’altra parte dell’aula per evitare di rivolgerle la parola.
Shirley stava ancora facendo il suo resoconto di seconda mano dell’ultimo viaggio di Barry,
rimarcando quanto poteva il ruolo di Miles, che aveva avuto la presenza di spirito di chiamare
l’ambulanza, offerto sostegno a Mary Fairbrother e insistito per restare con lei in ospedale fino
all’arrivo dei Wall. Ruth ascoltò tutto attentamente, anche se con un pizzico di impazienza:
Shirley era molto più interessante quando enumerava i difetti di Samantha che non quando
celebrava le virtù di Miles. Inoltre, Ruth scoppiava dalla voglia di dare a Shirley una notizia
pazzesca.
«Così, adesso nel Consiglio locale c’è un posto vuoto» commentò Ruth, dopo che Miles e
Samantha, nel racconto di Shirley, ebbero ceduto la scena a Colin e Tessa Wall.
«Si chiama vacanza imprevista» la corresse Shirley, gentile.
Ruth tirò un gran respiro.
«E Simon» disse, eccitata al solo pensiero di parlarne, «sta pensando di candidarsi!»
Shirley fece un sorriso automatico, sollevò le sopracciglia in segno di gentile sorpresa e prese un
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sorso di tè per nascondere il viso dietro la tazza. Ruth non si accorse minimamente di aver detto
una cosa capace di turbare l’amica. Dava per scontato che a Shirley facesse piacere immaginare i
due mariti seduti fianco a fianco al Consiglio locale e pensava vagamente che Shirley avrebbe
forse potuto contribuire alla buona riuscita del progetto. «Me l’ha detto ieri sera» continuò Ruth,
dandosi un’aria di importanza. «È da un po’ che ci pensa.»
Certe altre cose che aveva detto Simon, come la possibilità di ereditare le tangenti che la Grays
versava per continuare ad avere gli appalti, Ruth se le era cacciate di mente, come si cacciava di
mente tutte le piccole malefatte di Simon, i suoi meschini furtarelli.
«Non sapevo che a Simon interessasse entrare nel Consiglio locale» commentò Shirley, in tono
lieve e affabile.
«Oh, sì» disse Ruth, che lo aveva scoperto il giorno prima, «gli interessa molto.»
«Ha parlato con la dottoressa Jawanda?» chiese Shirley, tornando a sorseggiare il tè. «È stata lei a
suggerirgli di candidarsi?»
La domanda lasciò Ruth interdetta: un’espressione di sincero sconcerto le spuntò in viso.
«No, non... Simon non va dal medico da un pezzo. Sì, insomma, scoppia di salute.»
Shirley sorrise. Se agiva da solo, senza il sostegno della fazione jawandiana, allora Simon era una
minaccia decisamente trascurabile. Anzi, Ruth era solo da compatire, visto che l’aspettava una
brutta sorpresa. Lei, Shirley, che conosceva tutti quelli che contavano a Pagford, Simon non lo
avrebbe neanche riconosciuto, se avesse messo piede nella salumeria: quindi chi diavolo avrebbe
potuto votarlo, secondo Ruth? D’altra parte sapeva che Howard e Aubrey avrebbero apprezzato
che lei ponesse la domanda di routine.
«Simon ha sempre vissuto a Pagford, vero?»
«No, è nato ai Fields.»
«Ah.»
Shirley aprì il coperchietto di stagnola dello yogurt e, assorta, ne prese una cucchiaiata. Che
Simon potesse avere un preconcetto a favore dei Fields, quali che fossero le sue prospettive
elettorali, era un bene saperlo.
«La procedura per candidarsi sarà pubblicata sul sito del Consiglio?» chiese Ruth, sperando
ancora in un tardivo moto di entusiasmo e in un aiuto da parte dell’amica.
«Sì» rispose Shirley, vaga. «Immagino di sì.»
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III
Andrew, Ciccio e altri ventisette studenti trascorsero l’ultima ora di scuola di mercoledì
pomeriggio nel gruppo di ‘spasticmatica’, come lo chiamava Ciccio, cioè il gruppo di lavoro di
matematica del penultimo livello, tenuto dalla professoressa più incompetente di tutto il corpo
insegnante della scuola: una giovane con la faccia a chiazze, fresca di tirocinio, incapace di
mantenere la disciplina e sempre lì lì per piangere. Ciccio, che l’anno prima si era messo
d’impegno per ottenere un rendimento quanto più possibile scarso, era riuscito a farsi
retrocedere dal gruppo di livello più alto a quello di spasticmatica. Andrew, che invece
combatteva da sempre con i numeri, viveva nel terrore di finire nel gruppo degli ultimi, insieme a
Krystal Weedon e suo cugino, Dane Tully.
Andrew e Ciccio erano in fondo all’aula, seduti vicini. Ogni tanto Ciccio, quando si stufava di
intrattenere i compagni o scatenare ulteriore caos, mostrava a Andrew come fare una somma. Il
baccano era assordante. La Harvey, urlando per farsi sentire, chiedeva di far silenzio. I fogli degli
esercizi erano deturpati da oscenità; tutti si alzavano in continuazione, facendo stridere le sedie
per terra, e si scambiavano visite; tutte le volte che la Harvey si girava dall’altra parte, piccoli
missili di varia natura volavano qua e là nell’aula. Per Ciccio ogni pretesto era buono per mettersi
a camminare avanti e indietro imitando la rigida falcata di Cubicolo, con le braccia diritte che
oscillavano su e giù. Era la lezione in cui Ciccio lasciava libero sfogo al suo umorismo: nelle ore di
inglese, dove sia lui sia Andrew erano nel gruppo dei migliori, non si degnava affatto di usare
Cubicolo per i suoi scherzi.
Sukhvinder Jawanda era seduta davanti a Andrew. Molto tempo prima, alle elementari, Andrew,
Ciccio e gli altri maschi le tiravano la lunga treccia nerazzurra; era la cosa più facile da afferrare
quando si giocava a rincorrersi, ed era sempre stata una tentazione irresistibile quando, come
adesso, le pendeva lungo la schiena, nascosta alla vista della maestra. Ma Andrew aveva perso il
desiderio di tirargliela, e anche di toccare qualsiasi altra parte di Sukhvinder: era una delle poche
ragazze sulle quali il suo sguardo scivolava via senza alcun interesse. Da quando Ciccio gliel’aveva
fatto notare, non riusciva più a non vedere quella sottile peluria nera sopra il labbro superiore. La
sorella maggiore di Sukhvinder, Jaswant, aveva il fisico snello e flessuoso, la vita strettissima e un
viso che, prima dell’avvento di Gaia, a Andrew era parso bellissimo, con gli zigomi alti, la pelle
liscia e dorata e gli occhi a mandorla di un castano luminoso. Naturalmente Jaswant era sempre
stata un sogno impossibile: aveva due anni più di lui, era la più brava della sesta e sembrava ben
consapevole, fino all’ultima delle erezioni, del proprio fascino.
Sukhvinder era l’unica persona nell’aula a non emettere il minimo rumore. Con la schiena curva e
la testa china sopra il foglio, sembrava avviluppata nella propria concentrazione. Si era tirata giù
la manica sinistra del maglione fino a coprire completamente la mano, racchiusa al punto di
formare un pugno di lana. La sua immobilità assoluta sapeva quasi di ostentazione.
«Il grande ermafrodito è zitto e fermo» mormorò Ciccio, con lo sguardo fisso sulla nuca di
Sukhvinder. «Baffuta, ma al tempo stesso dotata di ampie mammelle, la strana creatura metà
maschio e metà femmina non cessa di sconcertare gli scienziati.»
Andrew ridacchiò, ma non era completamente a suo agio. Si sarebbe divertito di più se avesse
avuto la certezza che Sukhvinder non sentisse. L’ultima volta che era stato a casa di Ciccio, lui gli
aveva mostrato i messaggi che inviava regolarmente alla pagina Facebook di Sukhvinder. Aveva
setacciato la rete per cercare immagini e informazioni sull’irsutismo e inviava una citazione o
un’immagine al giorno.
Era abbastanza divertente, ma metteva Andrew in imbarazzo. In fondo lei non se lo meritava: era
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un bersaglio troppo facile. Andrew preferiva che Ciccio usasse la sua lingua tagliente per colpire
le figure dell’autorità, i pretenziosi o gli arroganti.
«Separato dal branco barbuto e reggipettoruto» disse Ciccio, «esso siede, assorto, a chiedersi se
il pizzetto gli donerebbe.»
Andrew rise, poi si sentì in colpa, ma Ciccio perse interesse e si mise a trasformare tutti gli zeri del
suo foglio in altrettanti ani raggrinziti. Andrew, dal canto suo, tornò a cercare di imbroccare il
posto giusto dove mettere la virgola dei decimali e a contemplare il tragitto sullo scuolabus fino a
casa, con Gaia. Al ritorno era sempre molto più difficile trovare un posto da cui poterla avere
sott’occhio, perché spesso, quando lui saliva, lei era già seduta in mezzo ad altri oppure troppo
lontana. Il divertimento condiviso all’adunata di lunedì non aveva portato a niente: le due
mattine seguenti, lei non aveva mai incrociato il suo sguardo, né gli aveva fatto capire in alcun
modo di accorgersi della sua esistenza. In quelle quattro settimane di infatuazione, Andrew non
aveva praticamente mai rivolto la parola a Gaia. Cercava di formulare qualche frase di approccio
in mezzo al baccano degli spasticmatici. «Bello, lunedì, all’adunata...»
«Sukhvinder, stai bene?»
La Harvey, che si era chinata sopra il compito di Sukhvinder per correggerlo, la stava guardando
in faccia con un’espressione ebete. Andrew vide Sukhvinder annuire e ritrarre le mani a coprirsi il
viso, sempre china sopra il foglio.
«Wally!» chiamò Kevin Cooper due file più avanti, in un forte bisbiglio. «Wally! Nocciolina!»
Cercava di indirizzare la loro attenzione su una cosa che già sapevano: che Sukhvinder, come
mostrava il lieve tremito delle spalle, stava piangendo e che la Harvey la stava assillando
inutilmente per capire cosa c’era che non andava. La classe, cogliendo un’ulteriore caduta di
attenzione da parte della professoressa, si scatenò più che mai.
«Nocciolina! Wally!»
Andrew non aveva mai capito se Kevin Cooper facesse apposta a essere fastidioso o gli venisse
naturale, ma aveva un vero talento per dare sui nervi. ‘Nocciolina’ era un vecchio soprannome
appioppato a Andrew alle elementari e lui lo aveva sempre odiato. Era stato Ciccio a farlo passare
di moda, smettendo di usarlo; nelle questioni come questa era lui l’arbitro supremo. Cooper
aveva sbagliato anche il suo nomignolo: ‘Wally’ era dell’anno prima e la sua popolarità era stata
breve.
«Nocciolina! Wally!»
«Vaffanculo, Cooper, testa di cazzo» disse Ciccio sottovoce. Cooper, mezzo avvitato sulla sedia,
fissava Sukhvinder rannicchiata con la faccia quasi sul banco, mentre la Harvey, accovacciata
accanto a lei, gesticolava comicamente nell’impossibilità di toccarla, e non riusciva a strapparle la
ragione della sua tristezza. Qualcun altro si era accorto dell’insolita interruzione e si era messo a
guardare; ma ai banchi più avanti molti ragazzi continuavano a fare il solito baccano, ignari di
tutto tranne che del loro divertimento. Uno prese il cancellino che la professoressa aveva lasciato
sulla cattedra. Lo lanciò.
Il cancellino attraversò in volo la stanza e andò a finire contro l’orologio appeso alla parete di
fondo, facendolo crollare a terra, dove si ruppe: schegge di plastica e meccanismi di metallo si
sparpagliarono dappertutto e molte ragazze, oltre alla professoressa Harvey, si misero a strillare.
La porta dell’aula si aprì di scatto e rimbalzò contro il muro con uno schianto. Di colpo calò il
silenzio. Comparve Cubicolo, paonazzo e furibondo.
«Che cosa succede, qui? Cos’è questo baccano?»
La professoressa Harvey, al banco di Sukhvinder, scattò in piedi come un pupazzo a molla, con
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l’aria colpevole e spaventata insieme.
«Professoressa Harvey! La sua classe sta facendo un baccano infernale! Cosa succede?»
La professoressa Harvey sembrava aver perso la parola. Kevin Cooper si girò di nuovo e, con un
sorriso cattivo, passò più volte lo sguardo dalla Harvey a Cubicolo a Ciccio.
Fu Ciccio a prendere la parola.
«Be’, padre, in tutta franchezza, stavamo dando del filo da torcere a questa povera donna.»
Esplose una risata. Il collo della professoressa Harvey cominciò a coprirsi di uno sfogo
marroncino. Ciccio, con la faccia impassibile, si dondolava con nonchalance sulle gambe
posteriori della sedia, fissando Cubicolo con provocatorio distacco.
«Basta così» disse Cubicolo. «Se sento un’altra volta un baccano del genere in questa classe, vi
metto tutti in punizione. Chiaro? Tutti.»
Uscì sbattendo la porta mentre ancora ridevano.
«Avete sentito il vicepreside o no?» strillò la Harvey, sgambettando per riguadagnare la cattedra.
«Silenzio! Voglio che facciate silenzio! Tu – Andrew – e tu, Stuart: voi pulite per terra! Raccogliete
tutti quei pezzi di orologio!»
Loro attaccarono le lamentele di prammatica, sostenuti dallo stridulo vociare di un paio di
ragazze. I veri colpevoli del disastro, dei quali, come tutti sapevano, la Harvey aveva paura,
sedevano ai loro banchi sogghignando. Siccome mancavano solo cinque minuti all’uscita, Andrew
e Ciccio si misero a raccogliere i cocci con lentezza strategica. Mentre Ciccio raggranellava
qualche altra risata con l’imitazione di Cubicolo, ballonzolando qua e là con le braccia rigide,
Sukhvinder si asciugò furtivamente gli occhi con la mano avvolta nella lana e scivolò di nuovo
nell’oblio.
Allo squillo della campanella, la professoressa Harvey non cercò nemmeno di contenere il
baccano assordante che si levò né la corsa generale verso la porta. Andrew e Ciccio, con un
calcio, buttarono vari pezzi di orologio sotto gli armadietti in fondo all’aula e si misero in spalla lo
zainetto.
«Wally! Wally!» gridò Kevin Cooper, allungando il passo per raggiungere Andrew e Ciccio che
camminavano nel corridoio. «Anche a casa Cubicolo lo chiami ‘padre’? Veramente? Eh?»
Pensava di aver colto Ciccio in fallo; pensava di averlo fregato.
«Cooper, sei un coglione» disse Ciccio stancamente e Andrew rise.
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IV
«La dottoressa Jawanda è in ritardo di circa un quarto d’ora» annunciò la segretaria a Tessa.
«Ah, non importa» rispose lei. «Non ho fretta.»
Era tardo pomeriggio e le finestre della sala d’attesa gettavano sulle pareti delle chiazze di luce
blu. C’erano due sole persone, oltre a lei: una vecchia contorta e ansimante con le pantofole ai
piedi e una giovane mamma che leggeva una rivista mentre la bambina rovistava nello scatolone
dei giocattoli in un angolo. Tessa prese un vecchio numero della rivista Heat, tutto sciupato, e si
sedette a sfogliarlo, guardando le immagini. Il ritardo le offriva del tempo in più per pensare a
cosa dire a Parminder.
Si erano parlate al telefono, brevemente, quella mattina stessa. Tessa si era profusa in scuse per
non averla chiamata subito, per non averle detto subito di Barry. Parminder le aveva risposto che
non era il caso di scusarsi, non aveva importanza e lei non se l’era presa per niente; ma Tessa,
forte della sua lunga esperienza con le persone fragili e suscettibili, aveva capito che Parminder,
sotto quel suo carapace irto di spine, era ferita. Aveva cercato di spiegarle che negli ultimi due
giorni era stata stanca morta, che aveva dovuto occuparsi di Mary, Colin, Ciccio e Krystal
Weedon, che si era sentita sopraffatta, persa, ed era riuscita a malapena a pensare ai problemi
che le erano arrivati addosso. Ma a metà di quel caotico diluvio di scuse, Parminder l’aveva
interrotta per dirle con calma che potevano vedersi quella mattina stessa in ambulatorio.
Il dottor Crawford, un orso d’uomo bianco di capelli, sbucò dalla porta del suo studio, salutò
allegramente Tessa con la mano e disse: «Maisie Lawford?» La giovane mamma ebbe qualche
difficoltà a convincere la figlia ad abbandonare il vecchio telefono con le rotelle trovato nello
scatolone dei giocattoli. Mentre, seguendo il dottor Crawford, la tirava delicatamente per la
mano, la bambina guardava con desiderio il telefono alle sue spalle, sapendo ormai di non poter
più scoprirne i segreti.
Quando la porta si richiuse, Tessa si rese conto di avere sulle labbra un sorriso ebete e si
ricompose in fretta. Sarebbe finita come quelle vecchie orribili che si fermano a vezzeggiare tutti i
bambini piccoli che vedono, spaventandoli e basta. Le sarebbe piaciuto tanto avere una
femminuccia bionda e paffutella, oltre al maschio magro e bruno che già aveva. Era tremendo,
pensava, ricordare Ciccio da piccolo; che tortura, quei piccoli fantasmi lasciati dai figli man mano
che diventavano grandi; i figli non avrebbero mai saputo, e non avrebbero tollerato di saperlo,
quanto si soffriva a vederli crescere.
La porta di Parminder si aprì: Tessa tirò su gli occhi.
«Signora Weedon» disse Parminder. Incrociò lo sguardo di Tessa e le rivolse un sorriso che non
era affatto un sorriso ma solo una contrazione delle labbra. La vecchietta in pantofole si alzò
faticosamente e poi, malferma sulle gambe, seguì Parminder dietro il tramezzo. Tessa udì lo
scatto della porta che si chiudeva.
Lesse le didascalie di una serie di foto della moglie di un calciatore ritratta con i vari abiti
indossati negli ultimi cinque giorni. Osservando le gambe lunghe e sottili della giovane donna,
Tessa si chiese se la sua vita sarebbe stata diversa, con un paio di gambe così. E non poté evitare
di rispondersi che sarebbe stata quasi completamente diversa. Tessa aveva le gambe grosse,
corte e informi; se fosse stato per lei, le avrebbe tenute sempre nascoste dentro un paio di stivali,
ma era difficile trovarne che riuscissero a chiudersi attorno ai suoi polpacci. Ricordava di aver
detto una volta a una ragazza grassoccia che il fisico non contava, che la personalità era molto più
importante. Quante stupidaggini diciamo ai ragazzi, pensò, voltando la pagina della rivista.
Una porta fuori dal suo campo visivo si aprì fragorosamente. Qualcuno urlava con voce rotta.
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«Lei mi fa stare peggio. Non è giusto. Sono venuta qui per farmi aiutare. È il suo lavoro... è il
suo...»
Tessa e la segretaria si scambiarono uno sguardo e poi si girarono verso la fonte delle urla. Tessa
udì la voce di Parminder, con quell’accento di Birmingham che trapelava ancora dopo tanti anni a
Pagford.
«Signora Weedon, lei continua a fumare, e il fumo incide sulla dose che le ho prescritto. Se lei
smettesse di fumare... i fumatori metabolizzano la teofillina più rapidamente, quindi le sigarette
non solo aggravano l’enfisema, ma influiscono sulla capacità del farmaco di...»
«La smetta di gridare! Ne ho piene le palle di lei! Io la denuncio! Mi ha dato le pillole sbagliate!
Voglio farmi visitare da un altro! Voglio il dottor Crawford!»
La vecchia spuntò dal tramezzo, zoppicante, col fiato grosso e rossa in viso.
«Mi farà crepare, quella vacca di pachistana! Stia alla larga da lei, neh?» gridò a Tessa. «Quella
pachistana di merda ti ammazza, con le sue pillole.»
Si avvicinò all’uscita traballando sulle gambine secche, con le pantofole ai piedi, imprecando con
tutto il fiato che i polmoni malconci le consentivano. La porta si richiuse alle sue spalle. La
segretaria scambiò con Tessa un’altra occhiata. Udirono di nuovo lo scatto della porta di
Parminder.
Ci vollero cinque minuti perché Parminder ricomparisse. La segretaria guardava ostentatamente
il monitor.
«Signora Wall» disse Parminder, con un’altra contrazione delle labbra.
«Cos’è successo?» chiese Tessa, dopo aver preso posto alla scrivania, di fronte a Parminder.
«La nuova medicina che ho dato alla signora Weedon le dà fastidio allo stomaco» rispose
Parminder, calma. «Allora. Dobbiamo fare le analisi del sangue, vero?»
«Sì» rispose Tessa, intimorita e insieme offesa dall’atteggiamento freddo e professionale di
Parminder. «Come stai, Minda?»
«Io? Bene. Perché?»
«Be’... Barry... So cosa significava per te e cosa significavi tu per lui.»
Gli occhi di Parminder si riempirono di lacrime, che lei cercò di cacciare via battendo le palpebre,
ma era troppo tardi: Tessa le aveva viste.
«Minda» le disse, posando la mano grassoccia su quella sottile di Parminder, ma Parminder la
spostò subito come se Tessa gliel’avesse punta; poi, tradita dai suoi stessi riflessi, scoppiò a
piangere davvero; impossibile nascondersi, in quella stanzetta, anche se, ruotando la sedia
girevole, si voltò più presto che poté.
«Sono stata malissimo, quando mi sono accorta di non averti chiamata» continuò Tessa, mentre
Parminder si sforzava in tutti i modi di soffocare i singhiozzi. «Me ne sono dette tante! Volevo
chiamarti» mentì, «ma non avevamo dormito, eravamo stati tutta la notte in ospedale, poi siamo
dovuti andare direttamente al lavoro. All’adunata, quando ha annunciato la notizia, Colin è
scoppiato in lacrime e poi ha fatto una scenata orribile a Krystal Weedon davanti a tutti.
Dopodiché Stuart ha pensato bene di saltare la scuola. E poi Mary distrutta... Però mi dispiace
tanto, Minda, avrei dovuto chiamare.»
«...surdo» mormorò Parminder con la voce impastata, la faccia nascosta dietro un fazzoletto che
aveva tirato fuori dalla manica. «... Mary... più importante...»
«Tu saresti stata una delle primissime persone che Barry avrebbe chiamato» riprese Tessa con
tristezza e poi, con suo orrore, anche lei scoppiò a piangere.
«Minda, mi dispiace» singhiozzò, «ma dovevo occuparmi di Colin e tutti gli altri.»
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«Non fare la stupida» disse Parminder, deglutendo e asciugandosi il viso sottile. «Che stupide,
tutt’e due.»
No, non è vero. Oh, insomma, Parminder, lasciati andare, una buona volta...
Ma la dottoressa raddrizzò le spalle minute, si soffiò il naso e si ricompose sulla sedia.
«È stato Vikram a dirtelo?» chiese Tessa, prendendo una manciata di fazzoletti dalla scatola sulla
scrivania.
«No. Howard Mollison. In salumeria.»
«Oddio, Minda, mi dispiace tanto.»
«Non fare la stupida. Non importa.»
Parminder si era un po’ ripresa, dopo il pianto: era meglio disposta con Tessa, che si stava
asciugando quella sua faccia gentile e non bella. Era un sollievo, perché Barry ormai non c’era più
e Tessa era l’unica vera amica di Parminder, a Pagford. (Si ripeteva sempre «a Pagford» per
illudersi che fuori di lì, chissà dove, ci fosse ad aspettarla una miriade di amici leali. Non aveva
mai ammesso fino in fondo, nemmeno a se stessa, che degli ex compagni di scuola di
Birmingham, persi di vista tanti anni prima per colpa delle vicissitudini della vita, le restava ormai
solo il ricordo; e che i ragazzi di medicina con cui aveva studiato e fatto il tirocinio, e che ancora le
mandavano un biglietto d’auguri a Natale, non andavano mai a trovarla, né lei andava a trovare
loro.)
«Colin come sta?»
Tessa emise un gemito.
«Oh, Minda... Pensa. Dice che vuole candidarsi per il posto di Barry in Consiglio.»
Fra le sopracciglia scure e folte di Parminder, il solco verticale, già pronunciato, si scavò
ulteriormente.
«Te lo vedi Colin candidarsi alle elezioni?» chiese Tessa, con i fazzoletti sporchi appallottolati nel
pugno. «Affrontare personaggi come Aubrey Fawley e Howard Mollison? Cercare di prendere il
posto di Barry, dirsi che deve vincere la battaglia per Barry... tutte quelle responsabilità...»
«Colin ha molte responsabilità, a scuola.»
«Ma va’» replicò Tessa, d’impulso. Si sentì subito sleale e scoppiò di nuovo a piangere. Assurdo:
era venuta in ambulatorio sperando di poter confortare Parminder e invece era lì a parlare dei
propri guai. «Sai com’è Colin: si prende tutto troppo a cuore, fa di tutto una questione
personale...»
«Be’, ma se la cava molto bene, tutto considerato» osservò Parminder.
«Sì, sì, lo so» tagliò corto Tessa, stanca. Le era passata la voglia di combattere. «Lo so.»
Colin era forse l’unica persona nei confronti della quale Parminder, così chiusa e severa, fosse
sempre pronta a mostrare compassione. Colin, in cambio, non permetteva a nessuno di parlare
male di lei: la difendeva sempre a spada tratta; «ottimo medico» ribatteva a chi si azzardava a
criticarla davanti a lui, «il migliore che abbia mai avuto.» Parminder non aveva molti difensori;
non era vista di buon occhio, presso la vecchia guardia di Pagford: tutti sapevano quant’era
difficile strapparle un antibiotico e farsi rinnovare una ricetta.
«Non ci sarà nessuna elezione, se Howard Mollison si metterà in mezzo» disse Parminder.
«Cioè?»
«Ha fatto girare un’e-mail. È arrivata un’ora fa.»
Parminder si girò verso il computer, digitò una password e aprì la posta. Ruotò il monitor in modo
che Tessa potesse leggere il messaggio di Howard. Nella prima frase si rammaricava della morte
di Barry. Nella seconda suggeriva che, considerato il fatto che era già passato un anno dall’inizio
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del mandato di Barry, fosse preferibile cooptare un sostituto che assumersi i costi di una nuova
chiamata alle urne.
«Sa già chi metterci» affermò Parminder. «Sta cercando di piazzare uno dei suoi prima che
qualcuno riesca a impedirglielo. Non mi sorprenderei se fosse Miles.»
«Ma no, impossibile» replicò immediatamente Tessa. «Miles era in ospedale con Barry... no, era
sconvolto...»
«Sei proprio un’ingenua, Tessa» disse Parminder, con un’asprezza che scioccò l’amica. «Tu non
hai capito chi è Howard Mollison. Quello è un uomo spregevole. Spregevole. Tu non hai sentito
cos’ha detto, quando ha scoperto che Barry aveva mandato al giornale quel pezzo sui Fields. E
non sai cosa sta cercando di fare con il Centro per la tossicodipendenza. Aspetta e vedrai.»
La mano le tremava così tanto che riuscì a chiudere l’e-mail di Mollison solo dopo alcuni tentativi.
«Vedrai» ripeté. «Bene, adesso mettiamoci al lavoro. Laura deve uscire fra un minuto. Anzitutto
ti misuro la pressione.»
Parminder le stava facendo un favore, visitandola a quell’ora tarda, dopo la scuola. L’infermiera
dell’ambulatorio, che abitava a Yarvil, tornando a casa avrebbe lasciato il campione di sangue di
Tessa al laboratorio dell’ospedale. Sentendosi nervosa e stranamente vulnerabile, Tessa si
arrotolò la manica del vecchio cardigan verde. La dottoressa le avvolse il manicotto di velcro
attorno al braccio. Da vicino, la forte somiglianza di Parminder con la seconda figlia spiccava
subito, perché la differenza di corporatura (asciutta quella di Parminder, prosperosa quella di
Sukhvinder) passava in secondo piano per lasciar emergere le affinità di lineamenti: il naso un po’
aquilino, l’ampia bocca con il labbro inferiore generoso e i grandi occhi tondi e scuri. Il manicotto
si strinse dolorosamente attorno al braccio di Tessa, mentre Parminder guardava il manometro.
«Centosessantacinque su ottantotto» disse Parminder, corrugando la fronte. «È alta, Tessa.
Troppo alta.»
Svelta e precisa nei movimenti come sempre, strappò l’involucro di una siringa sterile, distese il
pallido braccio di Tessa pieno di nei e infilò l’ago nell’incavo del gomito.
«Domani sera porto Stuart a Yarvil» disse Tessa, guardando il soffitto. «A comprargli un completo
per il funerale. Non voglio pensare alla scenata, se cercherà di venirci in jeans. Colin andrà fuori di
sé.»
Cercava di distogliere il pensiero dal liquido scuro e misterioso che fluiva nel piccolo tubo di
plastica. Aveva paura che la tradisse; di non avere fatto la brava quanto avrebbe dovuto; che
tutto il cioccolato e i muffin ingurgitati tornassero proditoriamente a galla sotto forma di
glucosio.
Poi, con amarezza, pensò che sarebbe stato molto più facile resistere al cioccolato, se avesse
fatto una vita meno stressante. Cos’era un muffin, quando dalla mattina alla sera si cercava di
aiutare gli altri? Guardando Parminder etichettare le provette del suo sangue, si sorprese a
sperare una cosa che suo marito e i suoi amici avrebbero considerato un’eresia: che Howard
Mollison trionfasse, impedendo così le elezioni.
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V
Simon Price lavorava tutti i giorni fino alle cinque in punto, non un minuto di più, poi usciva dalla
tipografia. Basta, le sue ore le aveva fatte; la sua casa lo aspettava fresca e lustra in cima alla
collina, ad anni luce di distanza dal baccano infernale dell’officina di Yarvil. Sforare l’orario di
lavoro e fermarsi più del dovuto (pur essendo ormai un dirigente, Simon aveva ancora l’abito
mentale dell’apprendista) sarebbe stata la fatale ammissione di non avere una vita familiare o,
peggio ancora, di leccare i piedi per ottenere un avanzamento di carriera.
Tuttavia quel mercoledì, prima di rincasare, Simon doveva fare una piccola deviazione. Lui e il
ragazzo del muletto, quello con la gomma sempre in bocca, si incontrarono nel parcheggio,
montarono in macchina e insieme, con il ragazzo che gli indicava la strada, si inoltrarono nelle vie
ormai quasi buie dei Fields, passando anche davanti alla casa in cui Simon era cresciuto. Non ci
tornava da anni: la madre era morta e il padre non lo vedeva da quando aveva quattordici anni,
né sapeva dove fosse. Vedere la sua vecchia casa con una finestra ricoperta di assi e l’erba alta
fino alle ginocchia lo turbò e lo depresse. La sua povera mamma era sempre stata molto
orgogliosa della sua casa.
Il ragazzo disse a Simon di parcheggiare in fondo a Foley Road, poi scese dalla macchina da solo e
si diresse verso una casa ancora più squallida delle altre. Alla luce del lampione più vicino, a
Simon parve di scorgere un cumulo di immondizia sotto una finestra del pianterreno. Soltanto
allora gli venne il dubbio che non fosse stata una gran bella mossa quella di andare a prendere il
computer rubato con la sua macchina. Visti i tempi, di sicuro nel quartiere avevano installato una
telecamera, per tener d’occhio vandali e delinquenti vari. Si guardò attorno, ma non vide
dispositivi di sicurezza; non gli sembrava di essere osservato, fatta eccezione per una cicciona che
lo guardava apertamente da una di quelle tante anonime finestrelle quadrate. Simon le lanciò
un’occhiataccia, ma lei continuò imperterrita a fissarlo, fumando la sua sigaretta, così lui si
nascose la faccia con la mano e si mise a guardare fuori dal parabrezza.
Il suo passeggero stava già uscendo dalla casa; tornò alla macchina a gambe divaricate per
sopportare meglio il peso dello scatolone con il computer. Alle sue spalle, all’ingresso della casa
da cui era appena uscito, Simon vide un’adolescente con un bambino ai piedi, ma la ragazza,
trascinandosi dietro il piccolo, uscì dalla visuale nell’attimo in cui lui guardò.
Appena il masticatore di gomma si avvicinò, Simon accese il motore e diede un colpo di
acceleratore.
«Fai piano» disse Simon, allungandosi di lato per aprire la portiera del passeggero. «Mettilo pure
qui.»
Il ragazzo posò lo scatolone sul sedile del passeggero, ancora caldo. Simon aveva pensato di
aprirlo per controllare che ci fosse dentro la merce pagata, ma su quel desiderio prevalse la
crescente preoccupazione di aver commesso un’imprudenza. Si accontentò così di dare una
spintarella: lo scatolone era troppo pesante per muoversi; Simon voleva andarsene di lì.
«Va bene se ti lascio qua?» disse al ragazzo, a voce alta come se fosse già ripartito a tutta velocità
senza di lui.
«Non può darmi un passaggio fino al Crannock Hotel?»
«Mi spiace, ma vado dall’altra parte» rispose Simon. «Ciao.»
Premette l’acceleratore. Nello specchietto vide il ragazzo impietrito e indignato; vide le sue
labbra formare la parola «vaffanculo!» ma Simon se ne fregò. Se si fosse sbrigato, forse sarebbe
riuscito a evitare che il numero di targa finisse in uno di quei video sgranati in bianco e nero che
si vedono al telegiornale.
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Dieci minuti dopo era sulla tangenziale, ma anche dopo essersi lasciato Yarvil alle spalle, essere
uscito dalla strada a doppia corsia e aver imboccato la salita che portava all’abbazia in rovina, era
teso, scombussolato, e quella sera non provò nemmeno un pizzico della soddisfazione che
sempre provava quando, di sera, arrivava in cima alla collina e cominciava a scorgere un pezzetto
della sua casa, dall’altra parte della valletta in cui si trovava Pagford, un fazzolettino bianco sul
versante opposto.
Ruth, benché a casa da meno di dieci minuti, aveva già messo la cena sul fuoco e stava
apparecchiando la tavola quando Simon arrivò con il computer; a Casa Bellavista si cenava presto,
com’era nelle preferenze di Simon. Le esclamazioni di entusiasmo di Ruth alla vista dello
scatolone irritarono il marito. Non aveva idea di cos’aveva passato lui; non voleva metterselo in
testa che lui, per risparmiare, correva dei bei rischi. Lei, dal canto suo, intuì subito che Simon era
una bomba pronta a esplodere e affrontò la situazione nell’unico modo che conosceva:
chiacchierando allegramente della giornata in ospedale, nella speranza che il malumore passasse
una volta che lui avesse avuto la pancia piena e che nient’altro intervenisse a disturbarlo.
Alle sei in punto, dopo che Simon ebbe tirato fuori il computer dalla scatola e scoperto che
mancava il manuale di istruzioni, la famiglia si sedette a tavola.
Andrew capì che sua madre era tesa, perché parlava a vanvera in quel solito tono artificialmente
allegro. Evidentemente credeva, anche se gli anni di esperienza avrebbero dovuto suggerirle il
contrario, che se fosse riuscita a creare un’atmosfera un po’ più garbata, suo padre non avrebbe
avuto il coraggio di rovinarla. Andrew si servì il pasticcio di carne con purè (cucinato da Ruth e
scongelato le sere in cui lavorava) ed evitò di incrociare lo sguardo di Simon. Aveva cose più
interessanti dei genitori alle quali pensare. Gaia Bawden gli aveva detto ‘ciao’ quando si erano
ritrovati faccia a faccia davanti al laboratorio di biologia; lo aveva detto automaticamente e quasi
distrattamente, senza più rivolgergli uno sguardo per tutta la lezione.
Andrew avrebbe voluto saperne di più, delle ragazze; non ne aveva mai conosciuta una
abbastanza bene per capire come funzionava la loro psicologia. Era una grande lacuna di cui non
gli era mai importato granché, fino al giorno in cui Gaia era salita sullo scuolabus, suscitando un
interesse acuto e preciso, focalizzato su di lei in quanto individuo: una sensazione molto diversa
dal fascino generico che negli ultimi anni aveva provato con crescente intensità verso lo sbocciare
di seni e spalline di reggiseni sotto le camicie bianche della divisa, e diversa anche dalla curiosità,
mescolata a un pizzico di ribrezzo, di sapere esattamente che cosa comportassero le
mestruazioni.
Ciccio aveva delle cugine che ogni tanto andavano a trovarlo. Una volta Andrew, entrato nel
bagno subito dopo che lo aveva usato la più carina di loro, aveva trovato uno di quei sottili
involucri degli assorbenti ai piedi della pattumiera. La prova concreta e incontrovertibile che in
quel momento, nelle sue immediate vicinanze, una ragazza aveva le mestruazioni non era stata
dissimile, ai suoi occhi di tredicenne, dall’avvistamento di una rara cometa. Andrew aveva avuto il
buon senso di non dire a Ciccio cos’aveva visto, cos’aveva scoperto, né dell’emozione che quel
ritrovamento aveva comportato. Aveva invece raccolto l’involucro con la punta delle dita, lo
aveva lasciato cadere nella pattumiera e poi si era lavato le mani più energicamente che mai.
Andrew passava un mucchio di tempo davanti al portatile a guardare la pagina Facebook di Gaia
e per ore scrutava le fotografie degli amici che lei aveva frequentato nella capitale. In quel
contesto, Gaia intimoriva ancor più che di persona. Veniva da un mondo diverso: aveva amici
neri, amici asiatici, amici con nomi che lui non sarebbe mai riuscito a pronunciare. C’era una foto
di lei in costume da bagno che gli si era impressa a fuoco nel cervello e un’altra in cui era
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appiccicata a un tipo con la pelle color caffè bello da far schifo. Uno senza brufoli e con la barba –
barba vera. Grazie a un attento esame di tutti i messaggi di Gaia, aveva concluso che il tipo aveva
diciott’anni e si chiamava Marco de Luca. Andrew se ne stava lì a leggere la corrispondenza di
Marco e Gaia con la concentrazione di chi cerca di decifrare un codice, senza peraltro riuscire ad
appurare se i due stessero insieme o no.
Le sue ricerche facebookiane si venavano spesso d’ansia, perché Simon, che aveva una
comprensione limitata di come funzionava Internet e istintivamente diffidava di quell’unico
spazio in cui i suoi figli godevano di una certa libertà, ogni tanto faceva delle improvvisate in
camera per controllare cosa guardavano. Simon diceva che voleva solo assicurarsi di non dover
poi pagare una bolletta esorbitante, ma Andrew sapeva che il suo era solo un modo come tanti di
manifestare il bisogno di esercitare il potere, così, ogni volta che Andrew sottoponeva ad attenta
lettura il profilo di Gaia, il cursore restava pronto sul quadratino che avrebbe chiuso la pagina.
Ruth stava ancora passando sgangheratamente da un argomento all’altro nello sterile tentativo
di cavare da Simon qualcosa in più dei suoi cupi monosillabi.
«Uuuuuh» esclamò, di punto in bianco. «Dimenticavo: oggi ho parlato con Shirley, Simon, della
tua candidatura al Consiglio.»
Le parole arrivarono a Andrew come un pugno.
«Vuoi candidarti al Consiglio?» si lasciò sfuggire.
Simon sollevò lentamente le sopracciglia. Un muscolo della mascella si contraeva.
«Qualcosa in contrario?» chiese, con la voce che vibrava di aggressività.
«No» mentì Andrew.
Stai scherzando, spero. Tu? Tu che ti candidi alle elezioni? No, cazzo.
«A me invece sembra che tu abbia qualcosa in contrario» disse Simon, sempre guardando il figlio
dritto negli occhi.
«No» ripeté Andrew, chinando lo sguardo sul pasticcio di carne.
«Cosa c’è che non va nella mia candidatura?» riprese Simon. Non aveva intenzione di mollare.
Non vedeva l’ora di sfogare la tensione accumulata in un’esplosione di rabbia catartica.
«Non c’è niente che non va. Sono solo sorpreso.»
«Avrei dovuto consultarti prima?»
«No.»
«Oh, grazie mille» ribatté Simon. Aveva la mandibola inferiore che sporgeva, come sempre
quando stava per perdere le staffe. «Tu intanto, razza di parassita, te lo sei trovato un lavoro?»
«No.»
Simon gli lanciò un’occhiata di fuoco, lasciando raffreddare a mezz’aria una forchettata di
pasticcio di carne. Andrew tornò a occuparsi del suo piatto, ben deciso a non offrire altre
provocazioni. In cucina, la pressione dell’aria sembrava aumentata. Il coltello di Paul tintinnò sulla
ceramica.
«Shirley dice» riattaccò Ruth, nel suo tono pimpante, determinata a fare come se niente fosse
fino all’ultimo momento possibile, «che lo spiegheranno sul sito del Consiglio, come presentare la
propria candidatura.»
Simon non replicò.
Dopo che quell’ultimo tentativo – il migliore – fu naufragato, tacque anche Ruth. Aveva la brutta
sensazione di sapere qual era la ragione del malumore di Simon. L’ansia la tormentava; era una
che si preoccupava per qualsiasi cosa, lo era sempre stata; non poteva farci niente. E sapeva di
far imbestialire Simon, quando gli chiedeva qualche rassicurazione. Doveva stare zitta.
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«Simon?»
«Che c’è?»
«Tutto bene, vero? Con il computer, dico.»
Era una pessima attrice. Cercava di parlare con calma, con nonchalance, e invece le usciva di
bocca una voce stridula e incerta.
Non era la prima volta che in casa loro entrava merce rubata. Simon aveva anche trovato il modo
di manomettere il contatore della luce e in tipografia faceva qualche lavoretto in nero per
arrotondare lo stipendio. Tutte cose che le davano un lieve malessere e la tenevano sveglia di
notte; ma Simon disprezzava chi non aveva il fegato di prendere qualche scorciatoia (e una delle
ragioni per cui Ruth si era innamorata di lui era che un ragazzo così ruvido, rozzo e sprezzante,
così aggressivo con tutti, si fosse dato da fare per sedurla; che lui, tanto difficile da accontentare,
avesse deciso che lei e solo lei era degna di lui).
«Ma cosa dici?» chiese Simon, a bassa voce. Il suo sguardo si spostò da Andrew a Ruth, ma restò
lo stesso sguardo fermo e venefico di prima.
«Sì, insomma, non ci saranno... problemi, vero?»
Simon provò l’impulso feroce di punirla per aver intuito le sue paure e averle ingigantite con la
propria ansia.
«Sì, be’, non volevo parlarne» disse, lentamente per darsi il tempo di inventarsi una storia, «ma
durante il furto c’è stato un problemino, pare.» Andrew e Paul smisero di mangiare e lo
guardarono. «Una guardia giurata è stata presa a botte. Quando l’ho saputo era troppo tardi.
Spero che non ci siano conseguenze.»
Ruth era senza fiato. Era incredibile che lui parlasse così, calmo e pacifico, di una rapina violenta.
Comunque questo spiegava come mai fosse tanto di malumore quando era tornato; spiegava
tutto.
«Perciò è assolutamente necessario che nessuno ne parli, di questo computer» sentenziò Simon.
E inflisse un’occhiata severa a ciascuno dei tre, per stampargli bene nel cervello, con la sola forza
della personalità, i pericoli cui altrimenti sarebbero andati incontro.
«Non diremo niente» sussurrò Ruth.
La sua pronta immaginazione le mostrava già la polizia alla porta; l’ispezione del computer;
l’arresto di Simon, con l’accusa erronea di furto aggravato; la prigione.
«Avete sentito papà?» si rivolse ai suoi figli, in un tono appena sopra il bisbiglio. «Non dovete dire
a nessuno che abbiamo un computer nuovo.»
«Non ci saranno problemi» aggiunse Simon. «Dovrebbe andare tutto liscio. A patto che tutti
tengano chiusa la bocca.»
E tornò al suo pasticcio di carne. Lo sguardo di Ruth guizzava da Simon ai figli e di nuovo a Simon.
Paul cincischiava con la forchetta nel piatto, muto, spaventato.
Ma Andrew non credeva a una sola parola di quel che aveva detto suo padre.
Che stronzo, quante palle racconti. Vuoi solo spaventarla.
Finita la cena, Simon si alzò e disse: «Vabbè, vediamo se almeno funziona, quel cazzo di aggeggio.
Tu» – indicò Paul – «va’ a tirarlo fuori dalla scatola e mettilo delicatamente – delicatamente – sul
tavolino. E tu» – indicò Andrew – «tu studi informatica, no? Quindi mi dirai cosa fare.»
Simon li condusse in salotto. Andrew sapeva che li aspettava al varco, che non vedeva l’ora di
vederli combinare un guaio: Paul, che era piccolo e nervoso, poteva far cadere il computer, e lui,
Andrew, di sicuro avrebbe sbagliato qualcosa. Intanto, in cucina, Ruth sparecchiava,
rumoreggiando con le stoviglie. Lei, almeno, era fuori dall’immediata linea di tiro.
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Andrew andò ad assistere Paul, che stava tirando fuori l’hard disk.
«Ce la fa da solo. Frocio sì, ma non fino a questo punto!» sbottò Simon.
Paul, per miracolo, con le braccia tremanti, lo posò sul tavolino senza incidenti, dopodiché restò
lì, con le braccia molli lungo i fianchi, impedendo a suo padre l’accesso al computer.
«Togliti di mezzo, razza di scemo» urlò Simon. Paul scappò via e si mise dietro il divano a
guardare la scena. Simon prese su un cavetto a casaccio e si rivolse a Andrew.
«Questo dove lo metto?»
Ficcatelo nel culo, stronzo.
«Se me lo dai...»
«Ti ho chiesto dove cazzo lo metto!» ruggì Simon. «Fai informatica, no? Dimmi dove va questo!»
Andrew si chinò a guardare dietro il computer; prima diede a Simon l’istruzione sbagliata, ma poi,
per caso, imbroccò la presa giusta.
Quando Ruth li raggiunse in salotto avevano quasi finito. Andrew, guardandola di sfuggita, intuì le
sue speranze: che il computer non funzionasse; che Simon lo togliesse di mezzo, lo buttasse via, e
al diavolo le ottanta sterline.
Simon si sedette davanti al monitor. Dopo vari tentativi falliti, si rese conto che nel mouse
cordless mancavano le pile. Paul fu spedito in cucina a prenderle. Quando le porse al padre, lui
gliele strappò di mano come se Paul volesse tenersele.
Simon, con la lingua fra il labbro e i denti inferiori, di modo che il mento sporgeva dandogli
un’aria da ebete, armeggiò spropositatamente per inserire le pile. Faceva sempre quella smorfia
assurda da bruto, quando voleva avvertire tutti di essere a un passo dall’esasperazione, di aver
quasi raggiunto il punto fatidico al di là del quale non avrebbe più risposto delle sue azioni.
Andrew fantasticò di andarsene e mollarlo lì a sbrigarsela da solo, privandolo del pubblico che
tanto gli piaceva avere quando si agitava; gli sembrava quasi di sentire la botta del mouse dietro
l’orecchio quando, nella sua immaginazione, gli voltava le spalle per andarsene.
«Eddai, cazzo, ENTRA!»
Simon cominciò a emettere un verso cavernoso, animalesco, di cui solo lui era capace e che ben
si accompagnava a quella faccia imbottita di aggressività.
«Uhhlll... uhhlll... CHE STRONZA! Basta, metticele tu. Tu, con quei ditini merdosi da
femminuccia!»
E sbatté mouse e pile contro il petto di Paul. Paul, con le mani che tremavano, infilò i cilindretti
nella loro sede, poi richiuse lo sportellino di plastica e consegnò il mouse a suo padre.
«Grazie, Pauline.»
Simon aveva ancora il mento in fuori come un uomo di Neanderthal. Si comportava sempre come
se gli oggetti inanimati cospirassero contro di lui. Di nuovo, posò il mouse sul tappetino.
Fa’ che funzioni.
Una freccina bianca comparve sullo schermo e si mise a saltare allegramente qua e là a ogni
movimento del mouse.
La paura se ne andò di colpo; tre dei presenti tirarono un respiro di sollievo e Simon smise di fare
la faccia di Neanderthal. Andrew vide mentalmente una fila di uomini e donne giapponesi in
camice bianco: le persone che avevano montato quella macchina perfetta, tutte dotate di dita
agili e delicate come Paul; gli facevano un inchino, deliziosamente educate e gentili. Andrew
rivolse a loro e alle loro famiglie il suo muto ringraziamento. Non avrebbero mai saputo quanto
era stato importante che quella macchina funzionasse.
Ruth, Andrew e Paul aspettarono, attenti, che Simon facesse tutte le prove. Richiamò i menù, con
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qualche difficoltà li richiuse, cliccò su icone senza sapere a cosa servivano e nemmeno dopo ne
capì la funzione, ma ormai era cominciata la discesa dalle pericolose vette su cui l’aveva spinto la
rabbia. Dopo essere faticosamente riuscito a tornare al desktop, disse, guardando in su verso
Ruth: «Funziona tutto, mi pare, no?»
«È bellissimo!» esclamò subito lei, sforzandosi di sorridere, come se l’ultima mezz’ora non fosse
mai esistita, lui avesse comprato il computer al Dixons e lo avesse fatto partire senza minacciare
di esplodere. «È veloce, Simon. Molto più veloce di quello che avevamo.»
Che stupida che sei, non ha ancora aperto Internet.
«Sì, sembra anche a me.»
Rivolse ai due figli il suo sguardo di fuoco.
«Questo computer è nuovo di pacca e costa una fortuna. Quindi trattatelo con rispetto, siamo
intesi? E non dite niente a nessuno» aggiunse, con una nuova folata di cattiveria che gelò la
stanza. «Siamo intesi? Avete capito?»
Loro annuirono di nuovo. Paul aveva la faccia tirata. Senza che il padre vedesse, con il sottile dito
indice si disegnava un otto sulla gamba.
«E qualcuno tiri le tende. Perché sono ancora aperte?»
Perché eravamo tutti qui a guardare te che facevi le tue puttanate.
Andrew chiuse le tende e uscì dalla stanza.
Nemmeno in camera, dopo essersi sdraiato sul letto, Andrew riuscì a tornare alle sue piacevoli
meditazioni su Gaia Bawden. La prospettiva di suo padre candidato alle elezioni era sbucata dal
nulla come un iceberg gigantesco, gettando la sua ombra su tutto quanto, perfino su Gaia.
Per tutta la vita di Andrew, Simon era stato orgogliosamente prigioniero del proprio disprezzo per
l’umanità e aveva fatto della sua casa una fortezza contro gli assalti del mondo, nella quale la sua
volontà era legge e il suo umore faceva il bello e il brutto tempo. Crescendo, Andrew aveva
capito che l’isolamento quasi assoluto della sua famiglia non era normale e aveva cominciato a
vergognarsene un po’. I genitori degli amici gli chiedevano dove abitava, non riuscendo a farsi
venire in mente la sua famiglia; e gli buttavano lì qualche domanda sulle intenzioni della madre o
del padre di partecipare a eventi sociali o raccolte di fondi. Certe volte ricordavano di aver visto
Ruth alla scuola elementare, quando le mamme si raccoglievano davanti all’uscita in attesa dei
figli. Lei era molto più socievole di Simon. Forse, se non avesse sposato un uomo tanto chiuso,
sarebbe stata un po’ come la madre di Ciccio, che vedeva le amiche a pranzo o a cena e
partecipava attivamente alla vita di Pagford.
Le rare volte che Simon si trovava a tu per tu con qualcuno che secondo lui valeva la pena di
corteggiare, assumeva quel tono ipocrita da grand’uomo che a Andrew faceva rivoltare le
budella. Simon gli parlava sopra, faceva battute grossolane e spesso urtava la sensibilità altrui
con gaffe di ogni genere, perché delle persone con cui era costretto a conversare non sapeva
niente e non gli importava niente. Negli ultimi tempi, Andrew si chiedeva se Simon si rendesse
conto che gli altri esistevano davvero.
Perché mai a suo padre fosse venuta l’aspirazione di esibirsi sul grande palcoscenico cittadino era
un mistero, ma una cosa era certa: il disastro era inevitabile. Andrew conosceva genitori che
partecipavano a gare ciclistiche per raccogliere i fondi con cui comprare le luci natalizie per la
Piazza, genitori che si occupavano delle scout, genitori che fondavano circoli di lettura. Simon
non faceva niente che richiedesse la collaborazione altrui e non aveva mai manifestato il minimo
interesse per cose che non gli procurassero un beneficio diretto.
Nella mente agitata di Andrew cominciavano a levarsi terribili scenari: Simon che teneva un
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discorso infarcito delle palesi menzogne che sua moglie inghiottiva in un sol boccone; Simon che
si metteva la sua maschera neanderthaliana nel tentativo di intimorire un avversario; Simon che
perdeva le staffe e cominciava a sputare in un microfono il suo repertorio preferito di scurrilità:
cazzo, merda, stronzo, frocio...
Andrew avvicinò a sé il portatile, ma subito lo riallontanò. E non fece neanche il gesto di prendere
il cellulare che era sulla scrivania. Un sms o un’e-mail non potevano contenere la vastità
dell’ansia e della vergogna che provava: era solo ad affrontarla; nemmeno Ciccio avrebbe capito.
E non sapeva cosa fare.
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Venerdì
Il cadavere di Barry Fairbrother era stato trasferito alle pompe funebri. Le profonde ferite nere
nel cranio bianco, simili ai solchi lasciati nel ghiaccio dai pattini, erano nascoste sotto la fitta
foresta dei capelli. Freddo, cereo e vuoto, rivestito della camicia e dei pantaloni che Barry aveva
indossato per la cena dell’anniversario di matrimonio, il corpo giaceva alla luce fioca di una
camera ardente dove risuonava una musica dolce. Una mano discreta di trucco aveva restituito
alla pelle un colorito che imitava la vita. Era come se dormisse; quasi.
Alla vigilia del funerale, i due fratelli di Barry, la vedova e i suoi quattro figli andarono a dare
l’addio al corpo. Mary, fino all’ultimo momento, era stata incerta se fosse il caso che tutti e
quattro i suoi figli vedessero le spoglie del padre. Declan era un bambino sensibile, facile agli
incubi. Mary si trovava all’apice della più febbrile incertezza, quel venerdì pomeriggio, quando si
verificò un contrattempo.
Colin ‘Cubicolo’ Wall aveva deciso di andare anche lui a dire addio alla salma di Barry. Mary, di
solito gentile e accomodante, lo trovò eccessivo. Al telefono con Tessa alzò la voce; poi si mise di
nuovo a piangere, dicendo che non aveva previsto una veglia funebre in grande, che voleva
coinvolgere soltanto la famiglia... Tessa, profondendosi in scuse, rispose che comprendeva
benissimo e toccò a lei, poi, spiegarlo a Colin, che si trincerò dietro un silenzio di offesa e
umiliazione.
Lui voleva soltanto stare un po’ da solo accanto al corpo di Barry e rendere un omaggio silenzioso
a un uomo che aveva occupato un posto unico nella sua vita. Colin gli aveva confidato segreti e
verità che mai aveva rivelato ad altri amici e gli occhietti castani di Barry, vivaci come quelli di un
pettirosso, non avevano mai smesso di guardarlo con simpatia e gentilezza. Barry era stato
l’amico più caro che Colin avesse mai avuto, gli aveva regalato un’esperienza di amicizia maschile
che lui non aveva mai avuto prima di trasferirsi a Pagford e che, ne era certo, non si sarebbe
ripetuta mai più. Che lui, Colin, lo strambo, il perennemente escluso, per il quale la vita era tutti i
giorni una guerra, fosse riuscito a forgiare un’amicizia con l’allegro, popolare, eternamente
ottimista Barry gli era sempre sembrato un miracolo. Colin si aggrappò alla poca dignità che gli
restava, decise di non prendersela con Mary e trascorse il resto della giornata a pensare a quanto
si sarebbe sorpreso e amareggiato Barry di fronte all’atteggiamento di sua moglie.
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A cinque chilometri da Pagford, in un grazioso villino chiamato Vecchia Fucina, Gavin Hughes
cercava di reprimere una tristezza crescente. Mary aveva chiamato poco prima. Con la voce che
tremava sotto il peso delle lacrime, gli aveva spiegato che tutti i suoi figli avevano proposto delle
idee per i funerali dell’indomani. Siobhan, che aveva coltivato un girasole, avrebbe reciso il fiore
per deporlo sulla bara. Tutti e quattro avevano scritto delle lettere da mettere dentro la cassa
insieme al padre. Anche Mary ne aveva scritta una e l’avrebbe infilata nel taschino della camicia
di Barry, sopra il cuore.
Gavin, quando riagganciò, aveva la nausea. Non voleva sapere niente delle lettere dei bambini,
né del girasole tanto a lungo coltivato, eppure, mangiando da solo le sue lasagne al tavolo della
cucina, con la mente tornava sempre lì. E anche se mai e poi mai, neanche costretto, avrebbe
voluto leggere la lettera di Mary, continuava a chiedersi che cosa potesse avergli scritto.
In camera, un completo nero era appeso nella sacca di polietilene della tintoria, come un ospite
indesiderato. La gratitudine provata per l’onore che Mary gli aveva fatto dichiarandolo
pubblicamente una delle persone più vicine al popolare Barry era stata ormai da tempo
schiacciata dalla paura e, lavando il piatto e le posate, Gavin pensava che avrebbe volentieri
disertato il funerale. Quanto poi all’idea di andare a vedere il corpo dell’amico, non gli era né gli
sarebbe mai venuta.
La sera prima lui e Kay avevano litigato furiosamente e da allora non si erano più sentiti. Tutto
era nato perché Kay aveva chiesto a Gavin se gli faceva piacere che lei lo accompagnasse al
funerale.
«No, Cristo santo» aveva risposto Gavin, senza riuscire a trattenersi.
Aveva visto la sua espressione: aveva capito subito che lei aveva sentito. No, Cristo santo, tutti
penseranno che stiamo insieme. No, Cristo santo, perché dovrebbe farmi piacere? E, anche se i
suoi sentimenti erano precisamente questi, aveva cercato di cavarsela aggiustando un po’ il tiro.
«Cioè, non lo conoscevi neanche, no? Sarebbe un po’ strano, ti pare?»
Ma Kay ci aveva dato dentro: aveva cercato di metterlo spalle al muro, di tirargli fuori i suoi veri
sentimenti, il futuro che vedeva per loro. Lui si era difeso con tutte le armi del suo arsenale,
mostrandosi di volta in volta ottuso, evasivo e anche pedante, perché la ricerca della precisione,
applicata alle questioni sentimentali, aveva l’effetto meraviglioso di renderle oscure. Alla fine lei
gli aveva ordinato di andarsene da casa sua; lui aveva ubbidito, ma sapeva che non finiva lì.
Sarebbe stato sperare troppo. Le riflessioni di Gavin alla finestra della cucina erano tristi e
angosciose; il futuro rubato a Barry gli sembrava incombere come un minaccioso dirupo; si
sentiva inadeguato e in colpa, ma riusciva ancora a sperare che alla fine Kay tornasse a Londra.
La notte calava su Pagford e nella Vecchia Canonica Parminder Jawanda passava in rassegna il
guardaroba chiedendosi cosa mettersi per dire addio a Barry. Aveva molti abiti e completi neri,
tutti adatti all’occasione, eppure continuava a passare e ripassare lo sguardo lungo la fila di
vestiti, senza riuscire a decidersi.
Mettiti un sari. Shirley Mollison ci resterà di sasso. Dai, mettiti un sari.
Che cosa stupida da pensare – assurda e sbagliata – ma ancora più stupido era pensarla con la
voce di Barry. Barry era morto; lei lo piangeva da quasi cinque giorni e l’indomani lo avrebbero
sepolto, calato nella terra. Era una prospettiva che non le piaceva. Aveva sempre detestato l’idea
della tumulazione, di mettere sottoterra un corpo intero, che piano piano sarebbe marcito,
crivellato dai vermi. I sikh cremavano il corpo e spargevano le ceneri nell’acqua dei fiumi.
I suoi occhi correvano avanti e indietro sui vestiti appesi, ma i sari, che a Birmingham aveva
sempre indossato ai matrimoni e alle riunioni di famiglia, sembravano chiamarla. Perché tanta
voglia di indossarne uno? Quell’esibizionismo non era da lei. Tese la mano per toccare le pieghe
del suo preferito, blu e oro. L’ultima volta che lo aveva indossato era alla festa di capodanno dei
Fairbrother, quando Barry aveva cercato di insegnarle a ballare il jive. Era stato un esperimento
dei più infruttuosi, principalmente perché neanche lui lo sapeva ballare; ma Parminder ricordava
di aver riso forse come mai le era capitato nella vita, pazzamente, senza inibizioni, come aveva
visto ridere le ubriache.
Il sari era elegante e femminile, indulgente con le forme arrotondate della mezza età: la madre di
Parminder, che aveva ottantadue anni, lo indossava tutti i giorni. Parminder, in realtà, non aveva
bisogno di camuffare rotondità: era ancora snella come a vent’anni. Tuttavia tirò fuori la lunga
pezza di stoffa morbida e scura e se l’accostò alla vestaglia, lasciandosi accarezzare i piedi nudi, e
guardò il fine ricamo che ne adornava l’orlo. Indossarlo sarebbe stato uno scherzo fra lei e Barry,
come la casa a forma di mucca e tutte le altre facezie che lui aveva detto su Howard tornando da
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quelle interminabili riunioni di consiglio svolte all’insegna del malumore.
Parminder aveva un gran peso sul petto, ma Guru Granth Sahib non esortava forse gli amici e i
parenti del defunto a evitare manifestazioni di dolore e a celebrare invece la riunione del proprio
caro con Dio? Nel tentativo di ricacciare giù le lacrime infide che sentiva salirle agli occhi,
Parminder intonò mentalmente la preghiera della sera, il kirtan sohila.
Amico mio, ti suggerisco di cogliere questo momento per servire i santi.
Raccogli un profitto divino in questo mondo e vivi in pace e sereno nel prossimo.
La vita si accorcia ogni giorno e ogni notte.
O spirito, va’ incontro al Guru e fa’ ordine nelle tue cose...
Coricata sul letto nella camera buia, Sukhvinder sentiva tutto quello che gli altri, in famiglia,
facevano. Dalla stanza di sotto arrivava il mormorio lontano della televisione, inframmezzato
dalle risate attutite del fratello e del padre, che guardavano un programma comico del venerdì. E
sentiva la voce della sorella maggiore che, dall’altra parte del corridoio, parlava al cellulare con
una delle sue tante amiche. Il rumore più vicino era quello della madre, che armeggiava
nell’armadio al di là della parete.
Sukhvinder aveva chiuso le tende e disposto un paraspifferi, a forma di bassotto allungato, contro
la base della porta. In mancanza di una serratura, il cane provvedeva a rallentare l’apertura, ad
avvertirla. Anche se sapeva che nessuno sarebbe entrato. Era dove doveva essere, a fare quel che
doveva fare. Così, almeno, credevano gli altri.
Aveva appena compiuto uno dei riti quotidiani più atroci: aveva aperto la sua pagina Facebook e
cancellato l’ennesimo post di un mittente sconosciuto. Lei ogni volta lo bloccava, ma quello
cambiava profilo e inviava altri post. Non poteva mai prevedere quando sarebbe arrivato il
prossimo. Il post di quel venerdì era un’immagine in bianco e nero, la riproduzione di un
manifesto circense dell’Ottocento.
La Véritable Femme à Barbe, Miss Annie Jones Elliot.
La fotografia raffigurava una donna in abito merlettato con i capelli lunghi e neri e con barba e
baffi folti.
Sukhvinder era convinta che fosse Ciccio Wall a inviarli, ma poteva anche essere qualcun altro.
Dane Tully e i suoi amici, per esempio, che facevano dei versi da scimmia tutte le volte che lei
prendeva la parola nelle ore di inglese. Si sarebbero comportati così con chiunque avesse avuto il
suo stesso colore di pelle; alla Winterdown era praticamente l’unica scura. Lei si sentiva stupida e
umiliata, soprattutto perché il professor Garry non li sgridava mai. Fingeva di non sentire, o di
sentire solo un chiacchiericcio di sottofondo. Forse anche lui pensava che Sukhvinder Kaur
Jawanda fosse una scimmia, una scimmia pelosa.
Sukhvinder, sdraiata sulle coperte, avrebbe tanto voluto essere morta. Se avesse potuto
suicidarsi semplicemente con la forza del pensiero, lo avrebbe fatto senza esitazione. La morte
aveva preso Fairbrother: perché non poteva prendere anche lei? Anzi, meglio, perché non
potevano scambiarsi di posto? Niamh e Siobhan avrebbero riavuto il padre e lei, Sukhvinder, si
sarebbe dissolta nel non essere: svanita, cancellata.
La repulsione che provava per se stessa era come un vestito di ortiche: la pungeva e irritava
dappertutto. E lei, momento dopo momento, era costretta a compiere uno sforzo di volontà per
sopportare, per restare dov’era; per non correre a fare la sola cosa capace di darle sollievo.
Bisognava prima aspettare che tutta la famiglia fosse a letto. Ma era una tortura starsene così, ad
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ascoltare il proprio respiro, a sentire sul letto l’inutile peso del proprio corpo brutto e disgustoso.
Le piaceva immaginare di affogare, sprofondare nella fresca acqua verde, sentirsi spingere
lentamente verso il nulla...
Il grande ermafrodito è zitto e fermo...
La vergogna, come uno sfogo bruciante, attraversò il suo corpo coricato al buio. Era una parola
che non aveva mai sentito, prima che Ciccio Wall la pronunciasse quel mercoledì all’ora di
matematica. Sukhvinder non aveva potuto cercarla sul dizionario: era dislessica. Ma Ciccio Wall le
aveva fatto la cortesia di spiegarle cosa significava, quindi non ce n’era stato bisogno.
La strana creatura metà maschio e metà femmina...
Era peggio di Dane Tully, il cui scherno non cambiava mai. Ciccio Wall, tutte le volte che la vedeva
riusciva con la sua lingua velenosa a confezionarle una tortura sempre nuova, su misura, e lei non
poteva sottrarsi. Tutte le sue stoccate, tutti i suoi insulti erano come marchiati a fuoco nella
memoria di Sukhvinder; restavano lì con una tenacia che altri ricordi, più utili, non avevano. Se
l’avessero interrogata su tutti i nomignoli che lui le aveva dato, per la prima e unica volta in vita
sua avrebbe preso il massimo dei voti. Bocce e Baffi. Ermafrodito. La foca barbuta.
Pelosa, grassa e stupida. Brutta e sgraziata. Pigra, secondo sua madre, che tutti i santi giorni la
sommergeva di critiche ed esasperazione. Un po’ lenta, diceva suo padre, con un affetto che non
attenuava la sua mancanza di interesse. Non gli costava granché mostrarsi indulgente, tutte le
volte che lei tornava con un brutto voto. Tanto c’erano Jaswant e Rajpal, primi della classe in
tutte le materie.
«Povera Cinciallegra mia» era il commento che buttava lì Vikram, dopo aver dato un’occhiata alla
pagella.
Ma l’indifferenza del padre era preferibile alla rabbia della madre. Parminder non riusciva a
capire come avesse fatto a generare una figlia senza alcuna dote; non lo capiva e non lo
accettava. Bastava che un professore facesse un minimo accenno alla possibilità che Sukhvinder
non si impegnasse abbastanza e lei ci si appigliava tutta trionfante.
«‘Sukhvinder si scoraggia facilmente e dovrebbe avere più fiducia in se stessa.’ Ecco, visto? Il
professore dice che non ti impegni abbastanza, Sukhvinder.»
In una sola materia Sukhvinder era riuscita a entrare nel secondo gruppo di lavoro: informatica
(siccome Ciccio Wall era in un altro gruppo, lei ogni tanto riusciva a trovare il coraggio di alzare la
mano per rispondere a una domanda) e su questo successo Parminder era riuscita solo a dire:
«Con tutto il tempo che voi ragazzi passate su Internet, mi stupisco che tu non sia nel primo
gruppo.»
Sukhvinder non si sarebbe mai sognata di raccontare ai genitori dei versi da scimmia o delle
incessanti battute cattive di Stuart Wall. Avrebbe significato ammettere che altre persone, oltre
ai genitori, vedevano in lei un’incapace, una fallita. E poi Parminder era amica della madre di
Stuart Wall. Certe volte Sukhvinder si chiedeva come mai quell’amicizia non lo preoccupasse:
evidentemente Stuart Wall sapeva che lei non avrebbe mai fatto il suo nome. Quel ragazzo
indovinava tutto di lei. Sapeva della sua vigliaccheria e sapeva quel che lei pensava di sé, e dava
voce ai suoi pensieri peggiori per il divertimento di Andrew Price. Tempo prima si era presa una
cotta, per Andrew Price, quando ancora non sapeva di non essere degna di prendersi cotte;
quando ancora non aveva capito di essere ridicola e strana.
Sukhvinder udì il padre e Rajpal salire le scale, con le voci che aumentavano di volume. La risata
di Rajpal arrivò al culmine proprio davanti alla sua porta.
«È tardi» sentì che la madre diceva dalla camera da letto. «Vikram, Rajpal dovrebbe essere già a
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letto.»
La voce di Vikram, vicina, alta e calda, filtrò dalla porta di Sukhvinder.
«Tu dormi già, Cincia?»
Era il soprannome che le era stato attribuito, ironicamente, quand’era piccola. A Jaswant
avevano dato quello di Jaz e Sukhvinder, bambina triste e frignona, che raramente sorrideva, era
diventata Cinciallegra o, per brevità, Cincia.
«No» rispose Sukhvinder. «Mi sono appena messa a letto.»
«Be’, forse ti interesserà sapere che tuo fratello, qui...»
Ma la notizia fu sommersa dalle urla di protesta e dalle risa di Rajpal; udì Vikram allontanarsi,
continuando a prendere in giro il figlio.
Sukhvinder aspettò che in casa calasse il silenzio. Si aggrappava alla sua unica consolazione come
avrebbe abbracciato un salvagente, aspettando, aspettando che tutti fossero a letto...
(E aspettando, ricordò quella sera non molto lontana in cui, dopo gli allenamenti di canottaggio,
al buio, stavano tornando al parcheggio accanto al canale. Che stanchezza, dopo aver remato. Le
facevano male le braccia e la pancia, ma era un dolore buono, pulito. Dopo gli allenamenti
dormiva sempre bene. E poi, all’improvviso, Krystal, in fondo al gruppo con Sukhvinder, le aveva
dato della stupida negra.
Era successo così, senza una ragione. Tutte stavano scherzando con Fairbrother. Krystal credeva
di fare la spiritosa. Era una che diceva ‘cazzo’ ogni due per tre, anche al posto delle virgole, senza
nemmeno accorgersi della differenza tra le due cose. E aveva detto ‘negra’ come avrebbe potuto
dire ‘deficiente’ o ‘idiota’. Sukhvinder si era sentita sbiancare ed era stata presa da quella
familiare fitta allo stomaco.
«Che cosa hai detto?»
Fairbrother si era girato a guardare Krystal. Nessuna di loro lo aveva mai visto arrabbiato sul
serio.
«Niente, non l’ho detto apposta» aveva risposto Krystal, un po’ sorpresa e un po’ sulla difensiva.
«L’ho detto solo per scherzo. Lei lo sa che dicevo per scherzo. Vero?» aveva chiesto a Sukhvinder,
la quale, pavida, aveva farfugliato che sì, lo sapeva che aveva detto per scherzo.
«Non voglio più che usi quella parola.»
Tutte sapevano quanto gli era simpatica Krystal. Tutte sapevano che almeno in due occasioni era
stato lui a pagare perché anche lei partecipasse alla trasferta. Nessuno rideva più forte di lui alle
battute di Krystal, che sapeva essere molto spiritosa.
Avevano ripreso il cammino, nell’imbarazzo generale. Sukhvinder aveva paura di guardare
Krystal; si sentiva in colpa, come sempre.
Erano quasi arrivati alla monovolume quando Krystal aveva detto, a voce tanto bassa che
nemmeno Fairbrother aveva sentito: «Dicevo per scherzo.»
E Sukhvinder aveva risposto subito: «Lo so.»
«Sì. Be’. Scus’.»
Appena un monosillabo, tutto sbocconcellato, e Sukhvinder aveva ritenuto più delicato non
rispondere. Tuttavia quella parola aveva fatto pulizia. Le aveva restituito dignità. In macchina,
tornando a Pagford, era stata lei, per la prima volta in assoluto, a dare il via alla loro canzone
portafortuna, chiedendo a Krystal di rappare l’introduzione di Jay-Z.)
Lentamente, molto lentamente, tutti stavano andando a letto. Jaswant restò in bagno
un’eternità, producendo tintinnii più o meno forti. Sukhvinder aspettò che Jaz finisse di
incremarsi e lustrarsi, che i genitori smettessero di parlare nella loro camera, che in casa calasse il
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silenzio.
Poi, finalmente, via libera. Si alzò a sedere e prese la lama di rasoio dal buco dell’orecchio del suo
vecchio coniglio di peluche. L’aveva rubata dalle scorte di Vikram trovate nell’armadietto del
bagno. Si alzò dal letto, cercò tastoni la torcia sullo scaffale, prese una manciata di fazzoletti di
carta e poi si rintanò nell’angolo più protetto della stanza, dal quale la luce della torcia non
sarebbe arrivata agli interstizi della porta. Si sedette di spalle alla parete, si rimboccò la manica
della camicia da notte ed esaminò alla luce della torcia i segni rimasti sul braccio dall’ultima volta,
scure ferite a zigzag ancora visibili ma in via di guarigione. Con un piccolo brivido di paura, che
esprimeva anche l’imminente sollievo, posò la lama a metà dell’avambraccio e incise la carne.
Una fitta cocente, lancinante, e subito sgorgò il sangue; dopo aver inciso fino all’incavo del
gomito, premette il pugno di fazzoletti sulla lunga ferita, badando a non sporcare la camicia da
notte o la moquette. Un paio di minuti dopo incise di nuovo, stavolta in orizzontale, tagliando
perpendicolarmente la prima incisione, e incidendo e tamponando si disegnò nella carne una
specie di scala. La lama risucchiava il dolore dei suoi pensieri disperati e li tramutava in
animalesco bruciore di nervi e pelle: a ogni taglio, sollievo e liberazione.
Alla fine pulì la lama e contemplò l’opera: le ferite sanguinanti che si intersecavano, tanto
dolorose da farla lacrimare. Avrebbe potuto addormentarsi, se il dolore non l’avesse tenuta
sveglia; ma doveva aspettare dieci, venti minuti, dare al sangue il tempo di coagularsi. Seduta con
le ginocchia tirate su, chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete sotto la finestra.
Un po’ dell’odio che provava per se stessa era sgorgato fuori insieme al sangue. I pensieri si
posarono su Gaia Bawden, la ragazza nuova, che l’aveva presa inspiegabilmente tanto in
simpatia. Gaia, con la sua bellezza e quell’accento londinese, avrebbe potuto frequentare
chiunque e invece, all’intervallo per il pranzo e sullo scuolabus, cercava sempre lei. Sukhvinder
non la capiva. Ogni tanto le veniva quasi voglia di chiedere a Gaia a che gioco giocava; si
aspettava giorno dopo giorno che la ragazza nuova si rendesse conto di chi fosse l’amica: una
scimmia pelosa, tarda, stupida, una da disprezzare, da insultare, da liquidare con un brontolio.
Sicuramente si sarebbe accorta presto dello sbaglio e allora Sukhvinder sarebbe tornata
all’annoiata pietà delle sue più vecchie amiche: le gemelle Fairbrother.
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Sabato
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I
Alle nove del mattino, in Church Row era già impossibile trovare parcheggio. In una direzione e
nell’altra camminavano persone vestite a lutto, sole, a coppie o in gruppo, per convergere, come
strisce di limatura di ferro attirate da una calamita, su St Michael and All Saints. Il sentiero che
conduceva al portone della chiesa si gremì e poi traboccò; il gruppo degli esclusi si aprì a
ventaglio fra le tombe, alla ricerca di suolo sicuro su cui posare i piedi, timoroso di calpestare i
morti e allo stesso tempo restii ad allontanarsi troppo dall’ingresso della chiesa. Era chiaro a tutti
che le panche non potevano bastare, per le tante persone venute a dire addio a Barry
Fairbrother.
I suoi colleghi della banca, raggruppati attorno alla più stravagante delle tombe dei Sweetlove,
non vedevano l’ora che l’augusto rappresentante della direzione generale si spostasse un po’ in là
portandosi via le sue stupide chiacchiere e le sue fiacche battute. Lauren, Holly e Jennifer,
dell’otto di canottaggio, si erano allontanate dai genitori per raggrupparsi all’ombra dei rami
muscosi di un tasso. Un variegato assortimento di consiglieri locali parlava con fare grave in
mezzo al sentiero: un gruppetto di teste pelate e occhiali dalle lenti spesse; una spolveratura di
pagliette nere e perle coltivate. Compagni di squash e di golf si scambiavano saluti sommessi;
vecchi amici dell’università si riconoscevano da lontano e lentamente si ricongiungevano; e in
mezzo, sembrava essersi riunita tutta Pagford, vestita degli abiti più eleganti e più scuri che
aveva. L’aria frusciava di conversazioni a fior di labbra; i volti fremevano, osservavano,
aspettavano.
Il cappotto migliore di Tessa Wall, di lana grigia, era tagliato tanto stretto attorno alle ascelle da
impedirle di sollevare le braccia al di sopra dell’altezza del petto. In piedi accanto a suo figlio su
un lato del sentiero della chiesa, stava scambiando con i conoscenti qualche cenno di saluto e
qualche triste sorriso e intanto continuava a litigare con Ciccio, cercando di contenere i
movimenti delle labbra.
«Santo cielo, Stu. Era il migliore amico di tuo padre. Porta un po’ di rispetto, una volta tanto.»
«Nessuno mi aveva detto che ’sta cazzo di roba sarebbe andata così per le lunghe. Tu avevi detto
che alle undici e mezzo sarebbe stato tutto finito.»
«Niente parolacce. Io ti avevo detto che verso le undici e mezzo saremmo stati fuori da St
Michael...»
«... e quindi pensavo che a quell’ora finisse, no? E mi sono messo d’accordo di vedermi con Arf.»
«Ma non puoi non venire alla sepoltura. Tuo padre deve portare la bara! Chiama Arf e digli che vi
vedrete domani.»
«Lui domani non può. E poi non ho portato il cellulare. Cubicolo mi ha detto di non portarlo in
chiesa.»
«Non chiamare tuo padre Cubicolo! Puoi usare il mio» disse Tessa, frugando nella tasca.
«Non lo so mica a memoria, il numero» mentì freddamente Ciccio.
La sera prima, Tessa e Colin avevano cenato senza Ciccio perché lui aveva preso la bici ed era
andato a casa di Andrew, dove dovevano fare una ricerca di inglese insieme. Questa, almeno, era
la storia che Ciccio aveva raccontato a sua madre, e Tessa aveva fatto finta di crederci. Era stata
ben contenta che Ciccio se ne andasse fuori dai piedi, dove non poteva fare arrabbiare Colin.
Almeno indossava il completo nuovo che Tessa gli aveva comprato a Yarvil. Al terzo negozio le
aveva fatto saltare i nervi: qualsiasi cosa provasse sembrava uno spaventapasseri, goffo e
sgraziato, e lei aveva pensato con rabbia che lo facesse apposta; che avrebbe potuto convincere
quei vestiti a modellarlo un po’ meglio, se solo avesse voluto.
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«Ssst!» disse Tessa preventivamente. Ciccio non stava parlando, ma Colin si stava avvicinando,
facendo strada ai Jawanda; nello stato di agitazione in cui era, sembrava aver scambiato il ruolo
di portatore di bara per quello di usciere: si appostava ai cancelli, accoglieva le persone.
Parminder, in sari e con i figli alle calcagna, era cupa e scavata in viso; Vikram, in completo scuro,
sembrava una star del cinema.
A qualche metro di distanza dal portone della chiesa, Samantha Mollison aspettava accanto al
marito e rivolgeva gli occhi al luminoso cielo biancastro pensando allo spreco con cui il sole
mandava i suoi raggi su quell’alta volta di nubi. Da quel sentiero di terra battuta nessuno
l’avrebbe smossa; che le vecchie si raffreddassero pure le caviglie in mezzo all’erba: lei non si
sarebbe spostata sulla terra soffice a infangare i suoi tacchi alti di vernice.
Miles e Samantha rispondevano affabili ai saluti dei conoscenti, ma tra loro non si parlavano. La
sera prima avevano litigato. Qualcuno chiedeva di Lexie e Libby, che di solito tornavano a casa nei
fine settimana, ma le due ragazze erano rimaste a dormire da amiche. Samantha sapeva che
Miles si rammaricava di non averle lì: gli piaceva un mondo mostrarsi in pubblico nella parte del
pater familias. Forse, pensò, con un gradevolissimo moto di rabbia, avrebbe chiesto a lei e alle
ragazze di posare con lui per una foto da mettere sul volantino elettorale. Ci avrebbe goduto, a
rispondergli cosa ne pensava.
Si capiva benissimo che Miles era sorpreso della grande affluenza. Sicuramente gli dispiaceva di
non avere una parte di protagonista nella prossima cerimonia: con quel grande pubblico coatto di
votanti a sua disposizione, avrebbe potuto aprire surrettiziamente la sua campagna elettorale nel
migliore dei modi. Samantha si ripromise di cogliere la prima occasione per buttargli lì una
battuta sarcastica su quel treno perso.
«Gavin!» gridò Miles, vedendo una testa familiare, bionda e dal viso allungato.
«Oh, ciao, Miles. Ciao, Sam.»
La nuova cravatta nera di Gavin brillava sulla camicia bianca. Sotto gli occhi chiari c’erano delle
borse violacee. Samantha si sollevò sulle punte per avvicinare il viso, così lui non poté proprio
astenersi dal baciarla sulla guancia, inalando il suo profumo muschiato.
«Quanta gente, eh?» commentò Gavin, guardandosi attorno.
«Gavin porterà la bara» disse Miles a sua moglie, usando lo stesso tono con cui avrebbe
annunciato che un bambino poco promettente aveva vinto un libro per l’impegno profuso. In
realtà si era sorpreso un po’ quando Gavin gli aveva detto dell’onore che gli era stato concesso.
Miles aveva vagamente immaginato che lui e Samantha sarebbero stati degli ospiti privilegiati,
circondati da una cert’aura di mistero e importanza, dal momento che erano stati al capezzale di
Barry. Sarebbe stato un bel gesto da parte di Mary, o qualcuno a lei vicino, chiedere a lui, Miles,
di leggere qualche versetto o dire due parole, riconoscendogli il ruolo importante che aveva
avuto negli ultimi momenti di Barry.
Samantha, invece, non manifestò alcuna sorpresa alla notizia che Gavin era uno dei prescelti.
«Tu e Barry eravate molto legati, vero, Gav?»
Lui annuì. Era agitato e aveva un filo di nausea. Aveva dormito malissimo, risvegliato a notte
fonda da incubi orribili: prima, in chiesa, faceva cadere la bara e il corpo di Barry finiva per terra;
poi non si svegliava in tempo per il funerale e, quando arrivava a St Michael and All Saints, Mary
era sola nel camposanto, pallida, e gli urlava rabbiosa che lui aveva rovinato tutto.
«Non so bene cosa fare, dove andare» disse, guardandosi attorno. «È la prima volta che lo
faccio.»
«Non c’è niente da sapere» replicò Miles. «Sta’ attento solo a non far cadere niente, ih-ih-ih.»
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La risata da bambina di Miles strideva con la voce profonda con cui normalmente parlava. Né
Gavin né Samantha sorrisero.
Colin Wall torreggiava sopra la massa di corpi. Grosso, sgraziato, con quella fronte alta e
sporgente, a Samantha rievocava sempre il mostro di Frankenstein.
«Gavin» disse. «Eccoti qua. Meglio uscire sul marciapiede; saranno qui da un momento all’altro.»
«Perfetto» rispose Gavin, sollevato di ricevere finalmente ordini.
«Colin» disse Miles, con un cenno del capo.
«Sì, ciao» lo salutò Colin, tutto agitato, e si girò per riattraversare la massa di dolenti.
Poi ci fu un altro piccolo fremito, un movimento, e Samantha udì levarsi, alta, la voce di Howard:
«Permesso... mi scusi tanto... dobbiamo andare da mio figlio...» La folla, per evitare la sua pancia,
si aprì e lui comparve, immenso, in un soprabito rivestito di velluto. Shirley e Maureen si
muovevano su e giù nella sua scia, Shirley in un sobrio blu marina e Maureen secca come un
uccellaccio, con un cappello nero a veletta.
«Buongiorno, buongiorno» disse Howard, stampando un bacio su entrambe le guance di
Samantha. «Come sta la nostra Sammy?»
La risposta fu inghiottita nello scomposto scalpiccio generale dei presenti che arretravano per
sgombrare il sentiero: ciascuno, discretamente, manovrava per non perdere posizioni; nessuno
voleva rinunciare al diritto di avere un posto vicino all’ingresso della chiesa. Lungo la fenditura
della folla, spuntavano da un lato e dall’altro facce familiari come semi in un frutto tagliato a
metà. Samantha individuò quelle dei Jawanda: color caffè in mezzo a tanto bianco latte; Vikram,
di una bellezza assurda nel suo completo scuro, e Parminder in sari (perché? non sapeva di fare il
gioco di Howard e Shirley, vestita così?); accanto a lei Tessa Wall, bassa, tracagnotta, in un
cappotto grigio con i bottoni che tiravano.
Mary Fairbrother e i figli si avvicinavano a passi lenti sul sentiero. Mary era terribilmente pallida e
sembrava dimagrita di chili. Possibile che ne avesse persi tanti in sei giorni? Teneva per mano una
gemella e l’altro braccio era posato sulle spalle del figlio minore, mentre il maggiore, Fergus, li
seguiva. Camminava con lo sguardo fisso davanti a sé e le morbide labbra serrate. Alle spalle di
Mary e dei figli c’erano i parenti; il corteo arrivò sulla soglia e la tetra navata lo inghiottì.
Gli altri, allora, tutti insieme, avanzarono verso il portone, causando un ingorgo indecoroso. I
Mollison si ritrovarono gomito a gomito con i Jawanda.
«Prego, dottor Jawanda, dopo di lei...» tuonò Howard, tendendo il braccio per cedere il passo al
chirurgo. Ma intanto usava la sua mole per non cederlo a nessun altro e, subito dopo che Vikram
fu entrato, entrò anche lui, lasciando che le rispettive famiglie trovassero da sé il modo di seguirli.
Un tappeto blu scuro correva per tutta la lunghezza della navata di St Michael and All Saints. Nel
soffitto a volta luccicavano delle stelle dorate; placche di bronzo riflettevano la luce delle
lampade sospese. Le vetrate erano finemente decorate e rilucevano splendide. A metà della
navata, sul lato dell’Epistola, san Michele guardava giù dalla vetrata più grande vestito di
un’armatura d’argento. Dalle spalle sporgevano due ali azzurre; in una mano reggeva una spada e
nell’altra una bilancia dorata. Un piede, calzato in un sandalo, era posato sulla schiena di un
Satana grigio scuro e con ali di pipistrello che nello sforzo di sollevarsi si contorceva. Il santo
aveva un’espressione serena.
Howard si fermò all’altezza di san Michele e fece segno al suo gruppo di infilarsi nella panca a
sinistra; Vikram andò in quella a destra. Mentre gli altri Mollison e Maureen sfilavano davanti a
lui per guadagnare i loro posti, Howard indugiò sul tappeto blu e si rivolse a Parminder quando la
incrociò.
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«Terribile, questa cosa di Barry. Proprio un choc.»
«Sì» disse lei, altera.
«Ho sempre pensato che fossero comodi, quei vestiti lì, vero?» aggiunse lui, con un cenno verso il
sari.
Lei, senza rispondere, andò a prendere posto accanto a Jaswant. Anche Howard si sedette: un
tappo immenso che sbarrava l’accesso alla panca a eventuali nuovi venuti.
Shirley si guardava rispettosamente le ginocchia e aveva le mani giunte come se pregasse, ma in
realtà si rivoltava in testa il breve scambio di battute di Howard e Parminder. Lei apparteneva a
quel gruppo di pagfordiani che tacitamente deplorava il fatto che la Vecchia Canonica, costruita
tanto tempo prima per ospitare un parroco della Chiesa alta provvisto di scopettoni nonché di
domestiche in grembiule inamidato, fosse oggi abitata da una famiglia di indù (Shirley non aveva
mai capito bene a che religione appartenessero i Jawanda). Pensava che, se lei e Howard fossero
andati in un tempio, o in una moschea... insomma, in quel diavolo di posto in cui i Jawanda
andavano a pregare, sicuramente avrebbero dovuto coprirsi il capo, togliersi le scarpe e
rispettare chissà quali altre regole, per non far scoppiare una sommossa. Parminder, invece, si
presentava in chiesa con un sari e nessuno diceva niente. E i vestiti normali mica le mancavano,
visto che se li metteva tutti i giorni per andare a lavorare. Insomma, Parminder non aveva
pensato neppure per un attimo che così avrebbe mancato di rispetto alla loro religione e, per
estensione, anche a Barry, che pure – così si diceva – le era stato tanto caro.
Shirley disgiunse le mani, sollevò la testa e dedicò tutta la sua attenzione all’abbigliamento di chi
passava e al numero e alle dimensioni delle corone di fiori. Alcune erano state appoggiate contro
la balaustra dell’altare. Shirley individuò quella del Consiglio, della quale si erano occupati lei e
Howard. Era una grande corona tradizionale di fiori bianchi e azzurri, i colori dello stemma di
Pagford. Quella e tutte le altre erano oscurate da un remo a grandezza naturale di crisantemi
color bronzo, dono delle ragazze dell’equipaggio.
Sukhvinder si girò sulla panca per cercare Lauren: era stata sua madre, fiorista, a realizzare il
remo e lei voleva dire all’amica, con qualche cenno, che l’aveva visto e le piaceva, ma in quella
folla così fitta non la vide. Pur nel suo dolore, Sukhvinder era orgogliosa di quel dono e lo fu
soprattutto quando vide che la gente, sedendosi, lo indicava con il dito. Delle otto ragazze
dell’equipaggio, solo cinque avevano contribuito alla spesa. Lauren aveva raccontato a
Sukhvinder di essere andata a parlare con Krystal Weedon durante l’intervallo del pranzo,
facendosi prendere per il culo dalle amiche di Krystal sedute a fumare su un muretto vicino al
giornalaio. Lauren le aveva chiesto se voleva partecipare alla colletta. «Sì, va bene, okay» aveva
risposto Krystal; ma poi i soldi non erano arrivati, così il suo nome non era sul biglietto. Né,
evidentemente, Krystal era venuta al funerale.
Sukhvinder aveva lo stomaco pesante come piombo, ma il dolore all’avambraccio sinistro
accompagnato dalle fitte atroci che sentiva quando lo muoveva faceva da antidoto e almeno
Ciccio Wall, tutto imbronciato nel suo completo nero, non era vicino a lei. Nei pochi istanti in cui
le loro famiglie si erano incontrate nel camposanto, lui non aveva incrociato il suo sguardo; la
presenza dei genitori, suoi e di Sukhvinder, lo inibivano, come certe volte lo inibiva la presenza di
Andrew Price.
La sera prima, il suo cibertormentatore anonimo le aveva inviato una fotografia in bianco e nero
d’epoca vittoriana in cui posava, nudo, un bambino ricoperto di peluria scura. Lei l’aveva vista e
subito cancellata mentre si preparava per il funerale.
Quando era stata felice per l’ultima volta? Ricordava che in un’altra vita, molto prima che gli altri
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cominciassero a farle il verso della scimmia, era venuta in quella stessa chiesa per anni, e sempre
molto volentieri; aveva cantato con brio a Natale, a Pasqua e alla Festa della mietitura. La statua
di san Michele le era sempre piaciuta, con quel viso preraffaellita, grazioso, femmineo, coronato
da riccioli d’oro... ma stamattina, per la prima volta, san Michele le sembrava diverso, con quel
piede posato quasi con disinvoltura sulla schiena dello scuro diavolo contorto, e quella sua
espressione imperturbata le appariva sinistra e arrogante.
Le panche scoppiavano di gente. L’aria era animata dagli scricchiolii sommessi, gli echi di passi e i
lievi fruscii dei molti sfortunati che continuavano a entrare in chiesa e si disponevano lungo il
muro di sinistra. Qualche anima speranzosa avanzava in punta di piedi nella navata per vedere se
per caso era rimasto un posto libero nelle panche gremite. Howard restò fermo, irremovibile
finché Shirley gli batté un dito sulla spalla e gli bisbigliò: «Aubrey e Julia!»
Al che Howard si girò con tutta la sua mole e sventolò il programma della funzione per attirare
l’attenzione dei Fawley. Loro avanzarono a passo spedito sul tappeto della navata: Aubrey, alto,
magro e stempiato, in completo scuro e Julia con i capelli rossicci raccolti in uno chignon.
Ringraziarono Howard con un sorriso quando lui, costringendo gli altri ad alzarsi e scalare di
posto, si spostò perché i Fawley potessero sedersi in tutta comodità.
Samantha era schiacciata fra Miles e Maureen, al punto che sentiva nella carne l’anca appuntita
di Maureen da una parte e le chiavi nella tasca di Miles dall’altra. Seccata, cercò di prendersi
qualche centimetro in più, ma né Miles né Maureen avevano spazio per spostarsi, così, con lo
sguardo fisso davanti a sé, dirottò i suoi pensieri di vendetta su Vikram, che non aveva perduto
neanche un pizzico del suo fascino dall’ultima volta che lo aveva visto, più o meno un mese
prima. Era bello di una bellezza così eclatante, così inconfutabile, che ti veniva quasi da ridere.
Con le sue gambe lunghe, le spalle larghe, il ventre assolutamente piatto là dove la camicia si
infilava nei pantaloni, quegli occhi scuri con le loro belle ciglia folte, sembrava un dio, in
confronto agli altri uomini di Pagford, che erano così pallidi, flaccidi e grassi. Quando Miles si
sporse a scambiare con Julia Fawley qualche parola di cortesia pronunciata a fior di labbra,
Samantha sentì le sue chiavi schiacciarsi dolorosamente nel fianco e immaginò Vikram strapparle
il vestito blu a portafoglio che indossava, sotto il quale, nella sua fantasia, non aveva messo la
canottiera di raso che nascondeva il vertiginoso solco fra i seni...
I registri dell’organo scricchiolarono e calò un silenzio generale, appena increspato da un
frusciare sommesso. Le teste si girarono: la bara avanzava nella navata.
Gli uomini che la portavano erano così male assortiti da creare un effetto quasi comico: entrambi
i fratelli di Barry erano alti un metro e settanta e Colin Wall, di dietro, uno e novanta, così che la
parte posteriore della bara risultava notevolmente più sollevata di quella anteriore. La bara, poi,
non era di mogano lucido ma di vimini.
Cristo santo, sembra un cesto da picnic! pensò Howard, scandalizzato.
Man mano che la cassa di vimini avanzava, su un viso dopo l’altro spuntava un’espressione di
sorpresa, ma c’era qualcuno che sapeva già di quella bara. Mary aveva detto a Tessa (la quale lo
aveva detto a Parminder) che a scegliere il legno era stato Fergus, il figlio maggiore di Barry, e che
aveva voluto i vimini perché erano un materiale sostenibile, a basso impatto ambientale, ricavato
da un albero a crescita rapida. Fergus era molto sensibile ai temi dell’ecologia e
dell’ambientalismo.
A Parminder, la bara di vimini piaceva di più, molto di più, delle casse di legno massiccio in cui
quasi tutti gli inglesi sistemavano i loro morti. Sua nonna aveva sempre nutrito la paura
superstiziosa che l’anima, dentro un contenitore solido e pesante, potesse restare intrappolata e
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aveva deplorato gli impresari di pompe funebri inglesi con la loro abitudine di inchiodare i
coperchi. Gli uomini calarono la bara su un catafalco ricoperto di broccato e si ritirarono: il figlio, i
fratelli e il cognato di Barry andarono a sedersi nelle prime file e Colin, muovendosi a scatti, tornò
dalla sua famiglia.
Gavin esitò per due secondi, nel panico. Parminder capì che non sapeva dove andare; l’unica
soluzione era ripercorrere la navata sotto gli occhi di trecento persone. Ma Mary evidentemente
gli aveva fatto un cenno, perché lui, paonazzo, a testa china andò a sedersi in prima fila accanto
alla madre di Barry. Parminder aveva parlato con lui in una sola occasione: quando gli aveva
diagnosticato e curato un’infezione da clamidia. Lui non l’aveva mai più guardata in faccia.
«Io sono la risurrezione e la vita, disse il Signore; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque
vive e crede in me non morirà in eterno...»
Il parroco non sembrava pensare al significato delle parole che gli uscivano di bocca ma solo
all’intonazione, ritmica, cantilenante. Era uno stile che Parminder conosceva bene: per anni era
stata alle funzioni di Natale con tutti gli altri genitori della St Thomas. Quella familiarità, tuttavia,
non l’aveva mai riconciliata con il santo guerriero dalla faccia bianca che la guardava dall’alto, né
con tutto quel legno scuro, le panche scomode, lo strano altare con la sua croce d’oro tempestata
di gemme, né con i suoi canti funebri, che trovava macabri, inquietanti.
Così distolse l’attenzione dal salmodiare compiaciuto del parroco e tornò a pensare a suo padre.
Lo aveva visto dalla finestra della cucina, riverso a terra, con la radio sulla gabbia dei conigli che
andava ancora a tutto volume. Era accasciato lì da due ore, mentre lei, la madre e le sorelle erano
state a fare compere al Topshop. Le sembrava ancora di sentire la spalla di suo padre sotto la
camicia quando gliel’aveva scossa. «Papààà. Papààààà.»
Avevano sparso le ceneri di Darshan nel piccolo, tristissimo fiume Rea, a Birmingham. Parminder
ricordava ancora la sua superficie lenta e argillosa, sotto un cielo coperto di giugno, e la striscia di
scagliette bianche e grigie che, portata dalla corrente, si allontanava da lei.
L’organo cigolò, ansimò e prese vita, e lei si alzò in piedi come tutti gli altri. Scorse da lontano le
nuche rossodorate di Niamh e Siobhan; avevano la stessa età che aveva lei quando aveva perso il
padre. Provò un moto di tenerezza, e un grande dolore, e un vago desiderio di abbracciarle e dire
che capiva, le capiva, sapeva...
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Morning has broken, like the first morning...
3
Gavin udì una nota acuta arrivare dalla sua fila: il figlio minore di Barry non aveva ancora
cambiato voce. Sapeva che era stato Declan a scegliere l’inno. Un altro particolare straziante
della cerimonia del quale Mary aveva voluto parlargli.
Quel funerale era una prova ancora più ardua di quanto avesse temuto. L’avrebbe forse
sopportata meglio se la bara fosse stata di legno: ma del corpo di Barry, in quella leggera cassa di
vimini, sentiva atrocemente, visceralmente la presenza; ne sentiva il peso fisico, e ne era
sconvolto. Tutta quella gente che aveva guardato serafica la bara passare: non aveva capito che
cosa stava portando, concretamente, sulle spalle?
Poi c’era stato quel momento di panico in cui si era reso conto che nessuno gli aveva tenuto un
posto e che sarebbe dovuto tornare indietro sotto gli occhi di tutti per andare a mescolarsi alla
folla in piedi in fondo alla chiesa... e invece, con suo orrore, era stato costretto a sedersi nella
prima fila, in bella vista. Era come sedere in testa sull’ottovolante, sostenere la violenza di ogni
curva, di ogni discesa.
Seduto lì, a pochi passi dal girasole di Siobhan, la corolla grande come il coperchio di una padella,
e in mezzo a un’esplosione di fresie ed emerocallidi gialle, avrebbe preferito che Kay lo avesse
accompagnato; nemmeno lui ci credeva, eppure era così. La presenza di qualcuno che stesse
dalla sua parte gli sarebbe stata di conforto; anche soltanto qualcuno che gli avesse tenuto un
posto. Non aveva pensato alla figura da triste poveraccio che avrebbe fatto, presentandosi da
solo.
L’inno terminò. Il fratello maggiore di Barry andò al microfono. Gavin non capiva come potesse
tenere un discorso, con il cadavere di Barry lì davanti, sotto il girasole (coltivato da seme, per
mesi); né capiva come Mary potesse starsene seduta così tranquilla, a capo chino, a quanto
pareva a guardarsi le mani intrecciate in grembo. Gavin cercò coscientemente di crearsi delle
interferenze interiori che diluissero l’impatto dell’elogio funebre.
Adesso racconterà dell’incontro con Mary... dopo che avrà finito con queste storie del piccolo
Barry... l’infanzia felice, le ragazzate, sì, sì... muoviti, su, va’ avanti...
Poi, per andare a seppellirlo, bisognava caricarlo di nuovo in macchina e andare fino al cimitero di
Yarvil, perché il piccolo camposanto di St Michael and All Saints era stato dichiarato al completo
vent’anni prima. Gavin si vedeva già calare la bara di vimini nella fossa sotto gli occhi della stessa
folla. Portarlo avanti e indietro nella chiesa non sarebbe stato niente in confronto a quello...
Una gemella piangeva. Con la coda dell’occhio, Gavin vide Mary allungare la mano per prendere
quella della figlia.
E dai, cazzo, procedi. Per favore.
«Nessuno mi smentirà se dico che Barry ha sempre saputo cosa voleva» stava dicendo il fratello
di Barry, rauco. Raccontando le marachelle del piccolo Barry era riuscito a strappare qualche
risata. La tensione, nella voce, era evidente. «Aveva ventiquattro anni quando partimmo per
festeggiare a Liverpool il mio ultimo fine settimana da celibe. La prima sera usciamo dal
campeggio, andiamo al pub e là, dietro il banco, vediamo questa bellissima ragazza bionda, una
studentessa. Era la figlia del padrone, che gli dava una mano il sabato sera. Barry passò tutta la
serata appiccicato al banco a farle la corte, mettendola nei pasticci con suo padre e fingendo di
non conoscere il gruppo di scalmanati nell’angolo.»
Una piccola risata. Mary chinò ancora di più la testa; seduta tra le figlie, teneva una mano a
ciascuna delle due.
«Quella sera, in tenda, mi disse che l’avrebbe sposata. Pensai: Ehi, aspetta un attimo, quello
ubriaco dovrei essere io.» Un’altra risatina. «La sera dopo, Baz ci costrinse a tornare nello stesso
pub. A casa, la prima cosa che fece fu comprare una cartolina e mandargliela, per dirle che
sarebbe tornato il fine settimana seguente. Si sposarono un anno preciso dopo il primo incontro
e chiunque li abbia conosciuti sarà d’accordo con me che Barry ci aveva visto bene. Insieme
hanno avuto quattro bellissimi figli, Fergus, Niamh, Siobhan e Declan...»
Gavin si concentrò sulla respirazione, dentro, fuori, dentro, fuori, cercando di non ascoltare e
chiedendosi cosa mai avrebbe avuto da dire suo fratello nelle stesse circostanze. Lui non aveva
avuto la fortuna di Barry; la sua vita sentimentale non era una bella storia. Non aveva mai trovato
in un pub la moglie perfetta, bionda, sorridente e pronta a servirgli una pinta. No, lui aveva avuto
Lisa, una che lo aveva sempre considerato un mediocre; sette anni di guerra sempre più aspra e,
per finire in bellezza, lo scolo; dopodiché, quasi senza soluzione di continuità, c’era stata Kay, che
si era attaccata a lui come una patella feroce e minacciosa...
Ma dopo le avrebbe telefonato lo stesso, perché non ce l’avrebbe fatta a tornare nella sua casa
vuota, dopo una giornata del genere. Sarebbe stato sincero: le avrebbe detto quanto era stato
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orribile e stressante, quel funerale, e quanto gli sarebbe piaciuto averla accanto. Queste parole le
avrebbero sicuramente fatto dimenticare eventuali rancori. Non voleva essere solo, quella sera.
Due panche più indietro, Colin Wall piangeva in un grande fazzoletto bagnato, a singhiozzi piccoli
ma udibili. Tessa gli stringeva delicatamente la coscia. Pensava a Barry; a quanto aveva contato
su di lui per farsi aiutare con Colin; al conforto delle risate fatte insieme; alla sua immensa
generosità d’animo. Lo vedeva chiaramente, bassetto e rubicondo, che ballava il jive con
Parminder all’ultima festa; che imitava le tirate di Howard Mollison contro i Fields; che, con il
tatto di cui solo lui era capace, suggeriva a Colin di considerare il comportamento di Ciccio quello
di un adolescente, più che di uno psicopatico.
Tessa aveva paura delle conseguenze che la perdita di Barry Fairbrother avrebbe comportato per
l’uomo accanto a lei; aveva paura di non riuscire a supplire a quel vuoto immenso; paura che
Colin avesse fatto al defunto una promessa cui non avrebbe saputo tener fede e paura che lui
non capisse la poca simpatia che Mary, con la quale si ostinava a voler parlare, nutriva per lui. E a
tanta angoscia e tanto dolore si mescolava, in Tessa, la sua solita preoccupazione, che la rodeva
come un tarlo: Ciccio, e come evitare l’esplosione, come indurlo a venire alla sepoltura, o come
nascondere a Colin la sua assenza – cosa che in fondo sarebbe stata più semplice.
«Concluderemo la funzione con un canto scelto dalle figlie di Barry, Niamh e Siobhan, un canto
caro a loro e al loro papà» annunciò il parroco. Riuscì, con il tono di voce, a dissociarsi
personalmente da quanto stava per succedere.
Dagli altoparlanti nascosti, risuonarono colpi di batteria tanto fragorosi da far sussultare tutti i
fedeli. Una voce dall’accento americano stava scandendo, forte, «ah hah, ah hah» e Jay-Z rappò:
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Good girl gone bad –
Take three –
Action.
No clouds in my storms...
Let it rain, I hydroplane into fame
Comin’ down with the Dow Jones...
Qualcuno pensò a un errore: Howard e Shirley si scambiarono uno sguardo scandalizzato, ma
nessuno premette lo stop né corse al microfono a scusarsi. Poi attaccò una voce femminile, sexy
e potente:
You had my heart
And we’ll never be worlds apart
Maybe in magazines
But you’ll still be my star...
4
Gli uomini stavano ripercorrendo la navata con la bara di vimini sulle spalle, seguiti da Mary con i
figli.
... Now that it’s raining more than ever
Know that we’ll still have each other
You can stand under my umbuh-rella
You can stand under my umbuh-rella
5
I fedeli uscirono dalla chiesa in lenta processione, cercando di non camminare al ritmo della
musica.
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II
Andrew Price impugnò il manubrio della bici da corsa di suo padre e cautamente la spinse fuori
dal garage, stando attento a non rigare la macchina. Se la caricò in spalla per scendere i gradini e
varcare il cancello di ferro; poi, nella stradina, posò un piede sul pedale e con l’altro corse per
qualche metro per poi montare in sella. Virò a sinistra e si tuffò, senza mai toccare i freni, giù per
la vertiginosa discesa che portava in paese.
Le siepi e il cielo si confondevano in un’unica macchia; mentre il vento gli scompigliava i capelli
puliti e gli sferzava la faccia appena lavata con cura, immaginò di correre in un velodromo.
All’altezza del cuneo formato dal giardino dei Fairbrother frenò, perché qualche mese prima,
prendendo troppo forte quella curva, era caduto ed era dovuto tornare subito a casa, con i jeans
strappati e un lato del viso tutto scorticato...
Imboccò Church Row a ruota libera, tenendo il manubrio con una sola mano, e si godette
l’accelerazione di quella seconda discesa, benché meno ripida, finché dovette rallentare vedendo
che davanti alla chiesa stavano caricando una bara su un carro funebre e una folla vestita di nero
usciva dal pesante portone di legno. Con una pedalata vigorosa scomparve dietro l’angolo. Non
voleva vedere Ciccio sbucare dalla chiesa – insieme a un Cubicolo pazzo di dolore – vestito con
quel completo e quella cravatta da quattro soldi che il giorno prima, durante l’ora di inglese,
Ciccio aveva descritto con comico disgusto. Sarebbe stato come sorprendere l’amico seduto sul
cesso.
Pedalando lentamente nella Piazza, con la mano si lisciò all’indietro i capelli, curioso di sapere in
che modo l’aria fredda avesse agito sulle pustole rosso fuoco e se il sapone antibatterico ne
avesse attenuato un po’ l’aspetto virulento. E ripassò il pretesto che si era inventato: stava
tornando da casa di Ciccio (assolutamente plausibile, non vedeva perché no) e dunque era
naturale passare in Hope Street per andare al fiume, naturale come tagliare per la prima traversa.
Quindi Gaia Bawden non avrebbe avuto alcun motivo di credere (ammesso che fosse affacciata
alla finestra, ammesso che lo vedesse e ammesso che lo riconoscesse) che lui avesse fatto quella
strada perché ci abitava lei. Andrew non si aspettava di doverle spiegare come mai fosse capitato
in bicicletta nella sua via, ma cercava di tenersi a mente quella storiella perché gli sembrava di
ricavarne una cert’aria disinvolta di distacco.
Voleva solo sapere qual era la sua casa. Ben due volte, nei fine settimana, era passato in bici in
quella breve via terrazzata, tutto agitato, eppure non era ancora riuscito a scoprire quale di
quelle case custodisse il Graal. Sapeva soltanto, grazie a qualche occhiata furtiva dai finestrini
sporchi dello scuolabus, che lei abitava sul lato destro, quello dei numeri pari.
Prima di svoltare cercò di assumere un’espressione composta, cercò di mettere i panni di un
giovane che, pedalando tranquillamente, si dirige verso il fiume per la strada più breve, serio,
assorto nei suoi pensieri, ma pronto a salutare una compagna di classe, se ne avesse vista una...
C’era. Sul marciapiede. Le gambe di Andrew continuarono a pedalare, ma lui non sentiva più i
pedali e di colpo si rese conto di quanto fossero sottili le gomme su cui si reggeva. Lei stava
rovistando nella borsa di pelle, con i capelli castanoramati che le ricadevano sul viso. Dietro di lei,
una porta socchiusa con sopra il numero dieci e, a scoprirle appena la vita, una T-shirt nera; una
striscia di pelle nuda, una cintura pesante e i jeans attillati... stava per passarle davanti quando lei
chiuse la porta e si girò; i capelli le scoprirono il bel viso e lei disse, molto chiaramente, con il suo
accento londinese: «Oh, ciao.»
«Ciao» rispose lui. Le gambe non avevano smesso di pedalare. Due metri, cinque metri; ma
perché non si era fermato? Andava avanti spinto dall’emozione, non osava girarsi; ormai era in
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fondo alla via; ti prego, cazzo, non cadere; e svoltò, troppo sbalordito per cercare di capire se
fosse più sollevato o più deluso di essersela lasciata alle spalle.
Porca puttana.
Si diresse verso il boschetto ai piedi della collina Pargetter, dove il fiume scintillava a
intermittenza fra gli alberi; ma lui l’unica cosa che vedeva era Gaia, che gli bruciava sulla retina
come una luce al neon. La strada, stretta, si trasformò in un sentiero di terra battuta e la leggera
brezza a fior d’acqua gli accarezzò il viso, che probabilmente non aveva fatto in tempo ad
arrossire, tanto era successo tutto in fretta.
«Cazzooooo!» urlò all’aria fresca e al sentiero deserto.
Con emozione incontenibile passò in rassegna i meravigliosi, inaspettati tesori ritrovati: il suo
corpo perfetto, messo in risalto dal denim aderente e dal cotone elasticizzato; il numero dieci
dietro di lei, su una porta blu tutta scrostata; quell’«oh, ciao» così spontaneo, così naturale –
quindi nei recessi della mente che pulsava dietro quel viso straordinario doveva essere rimasta
qualche traccia di lui.
La bici sobbalzava sulla superficie irregolare di ghiaia. Andrew, euforico, scese solo quando
cominciò a perdere l’equilibrio. Spinse la bici fra gli alberi e, sbucato sulla stretta riva del fiume, la
lasciò cadere a terra fra gli anemoni di bosco che, dall’ultima volta, si erano aperti come piccole
stelle bianche.
Suo padre, la prima volta che gli aveva prestato la bici, aveva detto: «Mi raccomando, se entri in
un negozio, metti la catena. Ti avverto, se te la rubano...»
Ma la catena era troppo corta per girare attorno a un albero e poi Andrew, più si allontanava da
suo padre, meno lo temeva. Sempre pensando ai centimetri di pancia scoperta e allo splendido
viso di Gaia, andò con passo energico là dove la riva incontrava il fianco eroso della collina, che
sovrastava il rapido flusso d’acqua verde come uno strapiombo di terra e roccia.
Il tratto più stretto di sponda, scivoloso e malfermo, correva lungo i piedi della collina. L’unico
sistema per attraversarlo, se i piedi erano ormai lunghi il doppio rispetto alla prima volta che
avevano compiuto il tragitto, era procedere a piccoli passi laterali, premendosi contro la parete
verticale e aggrappandosi bene alle radici e alle sporgenze rocciose.
Andrew conosceva profondamente quell’odore di decomposizione che si levava dal fiume
mescolato al sentore di terra bagnata, come conosceva la sensazione che dava quella stretta
lingua di terra ed erba sotto i piedi, e le rocce e le fenditure che cercava con le mani nel fianco
della collina. Lui e Ciccio avevano trovato quel posto segreto all’età di undici anni. Avevano capito
di fare una cosa proibita e imprudente; erano stati avvertiti dei pericoli del fiume. Con la paura
nel cuore, ma decisi a non confessarla l’uno all’altro, avevano percorso di traverso quel tratto
rischioso, aggrappandosi a qualsiasi sporgenza e, nel punto più stretto, alla maglietta del
compagno.
Dopo anni di pratica Andrew, pur avendo la mente altrove, non ebbe difficoltà a incamminarsi di
sghembo lungo la parete di terra e roccia, con l’acqua che ribolliva a poche decine di centimetri
dalle scarpe da ginnastica; poi, con un’agile rotazione del corpo, abbassò la testa ed entrò nella
cavità scoperta tanto tempo prima. A quell’epoca gli era sembrata una ricompensa divina per il
loro ardire. Ormai non riusciva più a starci dentro in piedi, ma quella specie di grotta, poco più
grande di una tenda per due, dava modo a due ragazzi di quell’età di stare sdraiati fianco a
fianco, con il fiume che scorreva e gli alberi che screziavano il cielo, incorniciato dal triangolo
dell’ingresso.
La prima volta avevano sondato le pareti con un bastone, ma senza trovare un passaggio segreto
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che portasse su all’abbazia; però erano riusciti lo stesso a esultare per aver scoperto, soltanto
loro, quel nascondiglio e avevano promesso solennemente di non rivelare a nessuno il loro
segreto, mai. Andrew aveva il vago ricordo di una specie di rito, con tanto di sputi e parolacce.
All’epoca della scoperta l’avevano battezzata la Grotta, ma ormai, da qualche tempo, era
diventato il cubicolo.
In quei recessi c’era odore di terra, anche se il soffitto, inclinato, era di roccia. Un segno verde
scuro lasciato dall’acqua mostrava che in passato il fiume era straripato, raggiungendo quasi il
soffitto. Il fondo era cosparso di mozziconi di sigaretta e dei filtri di cartone usati per le canne.
Andrew si sedette, con le gambe penzoloni sopra l’acqua verde fango, e tirò fuori dalla giacca le
sigarette e l’accendino, comprati con quel che restava dei soldi ricevuti per il compleanno, ora
che i tempi della paghetta erano finiti. Accese, prese una bella boccata e rivisse il meraviglioso
incontro con Gaia Bawden cercando di rievocarla nei minimi particolari: vita sottile e fianchi
rotondi; pelle burrosa tra cuoio e T-shirt; bocca ampia e carnosa; «oh, ciao.» Era la prima volta
che la vedeva senza la divisa scolastica. Dove stava andando, sola soletta con la sua borsa di
pelle? Che cos’aveva da fare, a Pagford, un sabato mattina? Andava forse a prendere l’autobus
per Yarvil? Che cosa combinava quando lui non c’era? Quali misteri femminili la tenevano
occupata?
E per l’ennesima volta si chiese se fosse concepibile che un miracolo di carne e ossa come quello
potesse davvero contenere una personalità banale. Gaia era l’unica persona che avesse mai
suscitato in lui questo interrogativo: prima di posare gli occhi su di lei, non era mai stato sfiorato
dal pensiero che spirito e corpo potessero essere due entità separate. Pur cercando di
indovinare, in base agli indizi raccolti grazie a una camicia appena trasparente e un reggiseno
bianco, come fosse fatto il suo seno e che sensazioni gli avrebbe dato toccarlo, non poteva
credere che il fascino da lei esercitato fosse di natura puramente fisica. Gaia aveva un modo di
muoversi che lo commuoveva come la musica, e la musica era la cosa che lo commuoveva di più.
Quindi anche lo spirito che animava quel corpo impareggiabile doveva essere eccezionale. Per
forza. Perché la natura avrebbe forgiato un recipiente così, se non per metterci dentro qualcosa
di ancora più prezioso?
Andrew sapeva com’era fatta una donna nuda, perché il computer di Ciccio, nella sua camera
mansardata, era sprovvisto di filtri per Internet. Insieme avevano esplorato tutto il materiale
porno online al quale si potesse accedere gratis: vulve depilate; piccole e grandi labbra rosa
aperte che mostravano fessure buie e profonde; natiche spalancate che rivelavano ani raggrinziti,
bocche rosse di rossetto da cui colava sperma. L’eccitazione di Andrew era attenuata, sempre,
dalla terribile consapevolezza del fatto che a segnalare un’eventuale improvvisata della signora
Wall ci fosse solo, tardivo, lo scricchiolio del gradino a metà scala. Certe volte trovavano delle
cose strane che li facevano ridere come matti, anche quando Andrew non capiva se ne fosse più
eccitato o disgustato (fruste e selle, briglie, corde, tubi di gomma; e una volta – nemmeno Ciccio
era riuscito a ridere – primi piani di aggeggi borchiati, aghi infilzati nella carne, facce di donna
pietrificate che urlavano).
Insieme, lui e Ciccio erano diventati degli esperti in materia di seni siliconati, tesi, tondi, enormi.
«Plastica» osservava uno dei due, con distacco, guardando il monitor, con la porta chiusa a
doppia mandata per non far entrare i genitori di Ciccio. La bionda sullo schermo cavalcava un
uomo peloso tenendo sollevate le braccia, con i seni dai grossi capezzoli bruni che pendevano
dalla stretta cassa toracica come palle da bowling, ciascuno con sotto una sottile riga violacea là
dove era stato inserito il silicone. Quasi si capiva come dovevano essere al tatto: rigidi, come se
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sotto la pelle ci fossero due palloni da calcio. Andrew non riusciva a immaginare niente di più
erotico di un seno naturale, morbido e spugnoso e magari un po’ elastico, con i capezzoli, invece
(sperava), duri.
E tutte quelle immagini, di notte, gli si confondevano nella mente con le possibilità offerte dalle
ragazze reali, dalle ragazze umane, e con quel poco che si poteva sentire da sopra i vestiti quando
si riusciva ad avvicinarsi abbastanza. Niamh era la meno carina delle gemelle Fairbrother, ma
anche quella che si era mostrata più disponibile durante la festa di Natale, nell’aria soffocante del
teatro scolastico. In un angolo buio, mezzo nascosti dietro il sipario ammuffito, si erano premuti
l’uno contro l’altra e Andrew le aveva infilato la lingua in bocca. Piano piano, aveva spostato le
mani fino alla spallina del reggiseno, ma senza andare più in là, perché lei si sottraeva
continuamente. Lo aveva fatto, soprattutto, perché sapeva che fuori, al buio, chissà dove, Ciccio
si stava spingendo ancora più là. E adesso il cervello era pieno di Gaia, pulsava e pullulava di lei.
Lei era la ragazza più sexy che avesse mai visto ed era la fonte di un altro desiderio, un desiderio
assolutamente inspiegabile. Certi passaggi armonici e certi ritmi gli davano un brivido profondo e
in Gaia c’era qualcosa che lo scuoteva così.
Si accese un’altra sigaretta con la prima e buttò il mozzicone nell’acqua. Poi udì uno strascichio di
piedi familiare e si sporse a guardare: Ciccio, ancora vestito con il completo del funerale, premuto
contro la parete della collina a braccia e gambe divaricate, avanzava di appiglio in appiglio lungo
la stretta sponda per raggiungere la grotta.
«Ciccio.»
«Arf.»
Andrew tirò dentro le gambe per far entrare Ciccio nel cubicolo.
«Cazzo» disse Ciccio, dopo essersi arrampicato dentro. Pur nella sua goffaggine sembrava un
ragno, con quegli arti lunghi e la magrezza messa in risalto dal completo nero.
Andrew gli diede una sigaretta. Ciccio accendeva sempre come se ci fosse un vento forte, con una
mano chiusa a coppa attorno alla fiamma per ripararla, corrugando un po’ la fronte. Aspirò, soffiò
un anello di fumo fuori dal cubicolo e si allentò la cravatta grigio scuro. Con quel completo, che
nel tragitto per arrivare alla grotta si era sporcato di terra sulle ginocchia e sui polsini, sembrava
più grande, e tutto sommato non tanto stupido.
«Mi sa che quei due erano veramente culo e camicia» disse Ciccio, dopo aver preso un’altra
profonda boccata di fumo.
«Cubicolo era sconvolto, eh?»
«Sconvolto? Cazzo, è isterico. Si è fatto venire il singhiozzo, perfino. Peggio della vedova, cazzo.»
Andrew rise. Ciccio soffiò fuori un altro anello di fumo e si tirò una di quelle enormi orecchie che
si ritrovava.
«Sono andato via prima. Non lo avevano ancora sepolto.»
Per un minuto fumarono in silenzio, guardando il fiume limaccioso. Andrew rifletté sulle parole
«sono andato via prima» e alla grande autonomia che sembrava avere Ciccio rispetto a lui. Fra
Andrew e la sua libertà c’erano Simon e la sua furia: a Casa Bellavista rischiavi di prenderti una
punizione solo perché c’eri. Una volta, a filosofia e religione, Andrew era stato colpito da una
lezione sugli dei primitivi in cui si era parlato della loro ira, della loro violenza arbitraria e dei
tentativi di placarli compiuti dalle antiche civiltà. Così aveva riflettuto sulla natura della giustizia
come l’aveva conosciuta lui: suo padre in veste di dio pagano e sua madre in veste di somma
sacerdotessa del culto che cercava di interpretare e intercedere, di solito senza riuscirci e tuttavia
ostinandosi a sostenere, a dispetto di ogni evidenza, che nel suo dio ci fossero una magnanimità
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e una ragionevolezza di fondo.
Ciccio posò la testa contro la parete di roccia del cubicolo e mandò degli anelli di fumo verso il
soffitto. Stava pensando a quello che voleva dire a Andrew. Per tutta la messa aveva ripassato
mentalmente l’inizio del discorso, tra i singulti di suo padre che piangeva nel fazzoletto. Era tanto
emozionato alla prospettiva di dirgli quella cosa, che faticava a trattenersi; ma si era ripromesso
di non essere precipitoso. Raccontargli quella cosa aveva per lui la stessa importanza che farla.
Non voleva far pensare a Andrew che fosse corso lì tanto in fretta per dirgliela.
«Lo sai, vero, che Fairbrother era nel Consiglio locale?» disse Andrew.
«Sì» rispose Ciccio, contento che Andrew avesse provveduto a un argomento tappabuchi.
«Simoncino dice che si candiderà per il suo posto.»
«Simoncino si candida?»
Ciccio, con la fronte aggrottata, guardò Andrew.
«Ma che cazzo gli è venuto in testa?»
«Ha sentito dire che Fairbrother prendeva mazzette da un imprenditore.»
Andrew aveva sentito Simon parlarne con Ruth quella mattina. E questo spiegava tutto. «Vuole la
sua fetta di torta.»
«Non era Barry Fairbrother, quello» disse Ciccio, ridendo, e scrollò la cenere per terra. «E non era
il Consiglio locale. No, era... come si chiama... Frierly, a Yarvil. Era nel consiglio scolastico della
Winterdown. A Cubicolo per poco gli veniva un colpo, cazzo. Con il giornale locale che lo
chiamava per chiedergli commenti e robe così. Frierly l’hanno preso. Simoncino non la legge, la
Yarvil and District Gazette?»
Andrew lo guardò.
«Tipico, cazzo.»
Spense la sigaretta per terra, imbarazzato di avere un padre così idiota. Simon non aveva capito
niente, tanto per cambiare. Se ne stava nella sua casa di merda in cima alla collina, tutto
orgoglioso del suo isolamento, a disprezzare la collettività locale e deridere le preoccupazioni dei
concittadini; poi un giorno riceveva un’informazione falsa, la prendeva per vera e la usava per
decidere di esporre tutta la famiglia all’umiliazione.
«Non ci sta proprio con la testa, Simoncino, eh?» disse Ciccio.
Lo chiamavano Simoncino perché quello era il soprannome che Ruth aveva dato al marito. Ciccio
gliel’aveva sentito usare una volta, un pomeriggio che era a casa loro, e da quel giorno lo
chiamava così.
«Già» fece Andrew e intanto si chiedeva se sarebbe riuscito a dissuadere suo padre dal
presentarsi spiegandogli che aveva sbagliato uomo e consiglio.
«Comunque è una strana coincidenza» osservò Ciccio, «visto che anche Cubicolo si candida.»
Poi buttò fuori il fumo dalle narici, fissando il soffitto roccioso sopra la testa di Andrew.
«Chi vincerà? Lo stronzo o il coglione?»
Andrew rise. Poche cose lo divertivano di più che sentire suo padre prendersi dello stronzo da
Ciccio.
«Ma adesso guarda un po’ qua» disse Ciccio, ficcandosi la sigaretta fra le labbra per tastarsi i
fianchi, pur sapendo benissimo che la busta era nel taschino della giacca. «Ah, eccola.» La tirò
fuori e l’aprì per mostrare a Andrew cosa c’era dentro: delle palline marroni, piccole come grani
di pepe, in un miscuglio di foglie e steli essiccati. «Sensimilla.»
«Cos’è?»
«Cime e steli di normale marijuana, ma non fecondata» gli spiegò Ciccio, «preparati
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appositamente per i piaceri del fumo.»
«E che differenza c’è tra questa e quella normale?» chiese Andrew, con cui Ciccio, nel cubicolo,
aveva già spartito numerosi pezzi di resina di cannabis, neri e gommosi.
«Ma niente, è tanto per fumare una cosa diversa» rispose Ciccio, spegnendo la sigaretta. Tirò
fuori dalla tasca un pacchetto di Rizla, prese tre cartine e le incollò insieme.
«Te l’ha data Kirby?» volle poi sapere Andrew, tastando e annusando il contenuto della busta.
Tutti sapevano che per rifornirsi di droghe bisognava andare da Skye Kirby. Era in una classe più
avanti di loro, al penultimo anno. Suo nonno era un vecchio hippy, processato più volte per aver
coltivato cannabis in proprio.
«Sì. Però c’è un altro tipo, ai Fields» disse Ciccio, tagliando delle sigarette per il lungo e
vuotandone il tabacco sulle cartine, «uno che si chiama Obbo, che può procurarti qualsiasi cosa.
Anche l’ero, se la vuoi.»
«Ma noi non la vogliamo» disse Andrew, guardando Ciccio in faccia.
«Naa» fece Ciccio, che riprese in mano la busta e sparse la sensimilla sul tabacco. Rollò la canna,
leccò il bordo delle cartine per sigillarlo, sistemò meglio il filtro e arrotolò la punta.
«Grande» disse, contento.
Aveva deciso di dare a Andrew la notizia dopo averlo introdotto alla sensimilla, che sarebbe
servita a scaldarli un po’. Tese la mano per farsi passare l’accendino, si mise l’estremità di
cartoncino fra le labbra, accese, fece un bel tiro con aria meditativa, soffiò una lunga striscia di
fumo blu e poi, daccapo, un altro bel tiro.
«Mmm» commentò, trattenendo il fumo nei polmoni e imitando Cubicolo, al quale una volta, per
Natale, Tessa aveva regalato un corso di degustazione di vini. «Aroma erbaceo. Retrogusto forte.
Sapore... fanculo...»
Ebbe un giramento di testa fortissimo, pur essendo seduto, ed esalò il fumo ridendo.
«... provalo.»
Andrew si girò per prendere la canna e fece un risolino di pregustazione vedendo il sorriso beato
in faccia a Ciccio, un’espressione che tanto contrastava con il suo solito immobile cipiglio.
Inalò e sentì la forza della droga irradiarsi dai polmoni, rilassante, liberatoria. Un altro tiro e si
sentì scuotere come un piumino, che poi si riassestò senza pieghe, finché tutto diventò liscio,
semplice, facile e bello.
«Grande» fece eco a Ciccio, sorridendo al suono della propria voce. Passò di nuovo la canna nelle
dita in attesa di Ciccio e assaporò quella sensazione di benessere.
«La vuoi sapere una cosa interessante?» disse Ciccio, ridacchiando fuori controllo.
«Vai.»
«Ieri sera ho scopato.»
Andrew stava quasi per chiedergli: «con chi?», ma poi il cervello intorpidito ricordò: con Krystal
Weedon, chiaro; Krystal Weedon, chi se no?
«Dove?» fu la domanda stupida che gli fece. Non era questo che voleva sapere.
Ciccio, nel suo completo del funerale, si sdraiò con i piedi verso il fiume. Andrew, senza parlare, si
distese accanto a lui, nella direzione opposta. Come avevano sempre fatto da bambini le notti
che avevano dormito l’uno a casa dell’altro. Andrew guardò in su verso il soffitto, dove il fumo
indugiava formando lente spirali, e aspettò che Ciccio gli raccontasse tutto.
«A Cubicolo e a Tess ho detto che ero da te, tanto perché tu lo sappia» cominciò Ciccio. Passò la
canna nelle dita tese di Andrew, incrociò le mani sul petto e ascoltò la propria storia. «Poi ho
preso l’autobus e sono andato ai Fields. Ci siamo visti davanti a Oddbins.»
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«Vicino al Tesco?» chiese Andrew. Non capiva perché continuava a fare domande stupide.
«Sì» rispose Ciccio. «Siamo andati al campo giochi. Nell’angolo dietro i cessi ci sono degli alberi.
Un posticino tranquillo. Cominciava a far buio.»
Ciccio cambiò posizione e Andrew gli restituì la canna.
«Credevo che fosse più facile entrare» disse Ciccio, e Andrew era magnetizzato; un po’ gli veniva
da ridere e un po’ aveva paura di perdersi i particolari più crudi. «Era più bagnata, quando avevo
messo dentro il dito.»
Nel petto di Andrew si levò un risolino ma lì restò, come gas intrappolato.
«Ho dovuto spingere un bel po’ per entrare. È più stretta di come pensavo.»
Andrew vide una striscia di fumo sollevarsi dal punto in cui doveva esserci la testa di Ciccio.
«Sono venuto più o meno dopo dieci secondi. Cazzo, è troppo bello quando sei dentro.»
Andrew represse un’altra risata, caso mai Ciccio non avesse finito.
«Avevo il preservativo. Senza sarebbe stato meglio.»
Ripassò la canna a Andrew, che fece un tiro, riflettendo. Entrare, più difficile del previsto; tutto
finito in dieci secondi. Non gli sembrava granché; eppure, cos’avrebbe dato... Immaginò Gaia
Bawden sdraiata sotto di lui e gli sfuggì un gemito, che Ciccio non mostrò di sentire. Perso in una
ridda fumosa di immagini erotiche, Andrew restò lì, su quel pezzo di terra scaldato dal suo corpo,
con la sua erezione, a tirare dalla canna ascoltando il sommesso rumore dell’acqua che scorreva
poco più in là della sua testa.
«Che cos’è che conta, Arf?» chiese Ciccio, dopo una lunga pausa trasognata.
Con la testa che fluttuava piacevolmente, Andrew rispose: «Il sesso.»
«Sì» disse Ciccio, entusiasta. «Scopare. È questo che conta. Porpa... propagare la specie. Niente
preservativi. Moltiplicarsi.»
«Sì» fece Andrew, ridendo.
«E la morte» aggiunse Ciccio. Era rimasto impressionato dalla realtà fisica di quella bara, e
dall’esiguità della barriera che separava un cadavere dagli avvoltoi accorsi a vedere. Non si
pentiva di essersene andato prima che venisse calato nella terra. «Per forza, no? La morte.»
«Già» rispose Andrew, pensando alle guerre e agli incidenti stradali, alla morte in odore di gloria
e velocità.
«Sì. Scopare e morire. Giusto? Scopare e morire. Ecco cos’è la vita.»
«Cercare di farsi una scopata e cercare di non morire.»
«O cercare di morire» disse Ciccio. «Per qualcuno è così. Rischiare.»
«Già. Rischiare.»
Calò di nuovo il silenzio e nel loro nascondiglio l’aria era fresca e fumosa.
«E la musica» disse Andrew, sottovoce, guardando il fumo blu sospeso sotto la roccia scura.
«Sì» replicò Ciccio, da lontano. «E la musica.»
Il fiume intanto passava impetuoso davanti al cubicolo.
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Parte Seconda
Diritto di critica
7.33 Critiche e commenti, esposti in forma continente, a fatti di interesse, non sono punibili.
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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I
La pioggia scendeva sulla tomba di Barry Fairbrother. Sui biglietti si allargavano macchie di
inchiostro. L’imponente corolla del girasole di Siobhan resisteva all’urto delle gocce battenti, ma
le fresie e le emerocallidi di Mary si sciuparono e infine si disfecero. Il remo di crisantemi,
annerendosi, marcì. La pioggia gonfiò il fiume, trasformando i fossi in torrenti e rendendo viscide
e infide le strade ripide che entravano a Pagford. I finestrini dello scuolabus erano appannati di
condensa; i cesti di fiori appesi in Piazza si inzupparono e Samantha Mollison, tergicristalli al
massimo, fece un piccolo incidente tornando dalla città dopo il lavoro.
Una copia della Yarvil and District Gazette sporse dalla buca della porta della signora Catherine
Weedon per tre giorni, finché si infradiciò e diventò illeggibile. Quando l’assistente sociale Kay
Bawden finalmente la tirò fuori e sbirciò dalla buca arrugginita, vide la vecchia signora giacere a
terra lunga e distesa. Un poliziotto l’aiutò a entrare forzando la porta di ingresso e la signora
Weedon fu portata in ambulanza al South West.
La pioggia continuava, costringendo i pittori di insegne che dovevano cambiare il nome del
vecchio negozio di scarpe a rimandare il lavoro. Piovve a dirotto per giorni e notti; nella Piazza era
un viavai di gente ingobbita sotto gli impermeabili, e gli ombrelli si scontravano sugli stretti
marciapiedi.
Howard Mollison trovava rilassante quel delicato tamburellare contro la finestra buia. Era seduto
nello studio, ex camera da letto della figlia Patricia, a rileggere l’e-mail ricevuta dal giornale
locale. Avevano deciso di pubblicare l’articolo del consigliere Fairbrother sull’opportunità che i
Fields restassero sotto l’amministrazione di Pagford, ma per amore di contraddittorio si
auguravano di poter ospitare sul prossimo numero il parere opposto di un altro consigliere.
Un bel boomerang, eh, Fairbrother? pensò Howard, tutto felice. Credevi di poter fare di testa tua
e invece...
Chiuse l’e-mail e si girò verso la piccola pila di fogli che aveva accanto. Erano le poche lettere
arrivate in cui si chiedeva un’elezione per il seggio lasciato vacante da Barry. In base alla
costituzione, occorrevano nove richieste per indire le elezioni e lui ne aveva ricevute dieci. Le
rilesse, mentre in cucina le voci della moglie e della socia si alzavano e abbassavano spolpando
fra loro fino all’osso il gustoso scandalo del malore della vecchia signora Weedon e la sua tardiva
scoperta.
«... mica pianti il tuo medico per niente, no? Urlava come una matta, diceva Karen...»
«... che le aveva dato le medicine sbagliate, sì, lo so» continuò per lei Shirley, che facendo
volontariato in ospedale pensava di avere il monopolio della speculazione medico-scientifica.
«Immagino che al South West faranno tutte le analisi del caso.»
«Sarei molto preoccupata, al posto della dottoressa Jawanda.»
«Probabilmente spera che i Weedon siano troppo ignoranti per farle causa, ma non servirà a
niente, se al South West scopriranno che le ha dato le medicine sbagliate.»
«Sarà radiata dall’albo» disse Maureen con gusto.
«Infatti» replicò Shirley, «e per molti sarà una gran bella liberazione. Ah, che liberazione!»
Howard divise metodicamente la corrispondenza. I moduli per la candidatura di Miles, già
compilati, li mise in una pila a parte. Le altre missive arrivavano da alcuni colleghi del Consiglio
locale. Non lo avevano sorpreso: quando Parminder gli aveva mandato un’e-mail per dirgli che
conosceva qualcuno interessato a candidarsi per il posto di Barry, si era aspettato subito che quei
sei si raccogliessero attorno a lei, chiedendo un’elezione. Erano i sei che, insieme a Maledir,
formavano il gruppo da lui chiamato Fazione ribelle, che da poco aveva perso il leader. Su quella
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pila aggiunse i moduli compilati di Colin Wall, il loro candidato prescelto.
In una terza pila mise altre quattro lettere, anche quelle tutt’altro che inaspettate: arrivavano dai
professionisti pagfordiani della lamentela, noti a Howard per la perenne insoddisfazione e
l’inesauribile diffidenza, che subissavano di lettere la Yarvil and District Gazette. Ciascuno aveva il
suo interesse ossessivo per una qualche esoterica questione locale e tutti si consideravano ‘spiriti
indipendenti’; erano quelli che molto probabilmente avrebbero gridato al nepotismo se fosse
stato cooptato Miles; ma erano anche i più accesi antifieldsiani di Pagford.
Howard prese le ultime due lettere e, ciascuna in una mano, le soppesò. Una era di una donna
che non conosceva e che sosteneva (Howard non si fidava mai troppo) di lavorare al Centro per la
tossicodipendenza Bellchapel. Dopo qualche esitazione volle crederle e mise la lettera sopra i
moduli di Cubicolo Wall.
L’ultima lettera, anonima e battuta al computer, invocava le elezioni con una certa intemperanza.
Era stata scritta di fretta e mostrava molti refusi e altre sciatterie. L’autore decantava le virtù di
Barry Fairbrother e giudicava Miles ‘indegno di prendere il suo posto’. A Howard venne il dubbio
che la lettera fosse di un cliente insoddisfatto di Miles, uno che forse avrebbe potuto mettere il
figlio in imbarazzo. Era un bene poter prevedere questi potenziali pericoli. Tuttavia Howard non
pensava che una lettera anonima contasse come voto a favore delle elezioni. Così la mise nel
piccolo tritadocumenti portatile che Shirley gli aveva regalato per Natale.
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II
Lo studio legale Edward Collins & Co. di Pagford occupava il piano superiore di una casa a schiera
di mattoni, che al pianterreno ospitava un ottico. Dalla morte di Edward Collins, la sua società era
composta di due uomini: Gavin Hughes, socio stipendiato, con un ufficio a una finestra, e Miles
Mollison, socio di capitale, due finestre. Avevano una segretaria in due, ventotto anni, single,
niente di speciale ma con un bel fisico. Shona rideva troppo alle battute di Miles e trattava Gavin
con una sufficienza quasi offensiva.
Il venerdì dopo il funerale di Barry, all’una, Miles bussò alla porta di Gavin ed entrò senza
aspettare l’invito. Trovò il socio che guardava il cielo grigio scuro dietro la finestra rigata di
pioggia.
«Vado a mangiare un boccone» disse Miles. «Se Lucy Bevan arriva prima, le dici che torno alle
due? Shona non c’è.»
«Sì, va bene» rispose Gavin.
«Tutto a posto?»
«Ha chiamato Mary. C’è un problemino con la polizza vita di Barry. Vuole che l’aiuti a risolverlo.»
«Ah. Ce la fai da solo, vero? Comunque alle due sono qui.»
Miles si infilò il soprabito, scese svelto la scala ripida e si incamminò pimpante per la via bagnata
di pioggia che portava alla Piazza. Da un temporaneo squarcio fra le nubi la luce del sole si riversò
sul luccicante monumento ai caduti e sui cesti sospesi. Miles provò un moto di orgoglio atavico,
attraversando di buon passo la Piazza per andare da Mollison & Lowe, vera e propria istituzione,
a Pagford, il più chic di tutti i negozi; un orgoglio che l’abitudine non aveva mai spento, ma al
contrario accresciuto e affinato.
Quando Miles aprì la porta, il campanello tintinnò. C’era un po’ di calca da ora di pranzo: una fila
di otto persone aspettava davanti al banco e Howard, decorato delle sue insegne mercantili, con
le esche artificiali infilate nel berretto da cacciatore di cervi, aveva la lingua che andava a pieno
regime.
«... ecco la tua bella vaschetta di olive nere, Rosemary. Nient’altro? Nient’altro per Rosemary...
sono otto sterline e sessantadue pence; facciamo otto sterline, cara, in nome della nostra
fruttuosa amicizia...»
Risolini e gratitudine; ronzii e tintinnii di cassa.
«Ed ecco qua il mio avvocato. È venuto a controllare la situazione» tuonò Howard, rivolgendo
risatine e strizzatine d’occhio a Miles sopra le teste in coda. «Se ha la cortesia di aspettarmi nel
retro, avvocato, cercherò di non dire nulla di incriminante alla signora Howson...»
Miles sorrise alle clienti, signore di mezza età che ricambiarono con un sorriso ancora più grande.
Alto, folti capelli brizzolati tagliati a spazzola, grandi e tondi occhi azzurri, la grossa pancia
nascosta sotto il soprabito scuro, Miles era un’aggiunta piuttosto attraente ai biscotti fatti in casa
e ai formaggi locali. Si spostò con prudenza fra le alte pile di prelibatezze disposte sui tavolini e si
fermò ai piedi del grande arco ricavato fra la salumeria e il vecchio negozio di scarpe, per la prima
volta denudato della protezione di plastica. In mezzo, Maureen (Miles riconobbe la sua scrittura)
aveva messo un cartello a cavalletto che diceva: Vietato l’ingresso. Prossima apertura... Il Bricco
di Rame. Miles sbirciò nello spazio vuoto e pulito che presto sarebbe diventato il caffè più nuovo
di Pagford, nonché il migliore; era stato intonacato e pitturato, e le assi del pavimento, nere,
erano verniciate di fresco.
Girò intorno al banco e passò cautamente davanti a Maureen, che stava usando l’affettatrice,
offrendole l’occasione di lanciargli una risataccia rauca, poi abbassò la testa per entrare nella
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stanzetta misera del retrobottega. C’era un tavolo di formica, con sopra, piegato, il Daily Mail di
Maureen; il suo cappotto e quello di Howard erano appesi a dei ganci e il bagno, al di là di una
porta, emanava un odore di lavanda artificiale. Miles appese il soprabito e scostò una vecchia
sedia dal tavolo.
Howard arrivò un paio di minuti dopo, reggendo due piatti colmi di prelibatezze.
«Allora ‘Bricco di Rame’ è la decisione definitiva?» chiese Miles.
«Be’, a Mo piace» rispose Howard, posando un piatto davanti al figlio.
Trascinò fuori la sua mole e, tornato con due bottiglie di birra, chiuse la porta con il piede: la
stanza, priva di finestre, si avvolse in una penombra attenuata soltanto da una fioca luce al
soffitto. Howard, con un brontolio, si sedette. A metà mattina, al telefono, aveva usato toni di
cospirazione e adesso tenne il figlio sulle spine ancora un po’, il tempo di stappare una bottiglia.
«Wall ha mandato la candidatura» disse finalmente, passando la birra.
«Ah» fece Miles.
«Metterò una scadenza. Due settimane da oggi, per presentarsi.»
«Benissimo.»
«Questo Price, secondo la mamma, sarebbe ancora interessato. Hai chiesto a Sam se ha capito
chi è?»
«No» rispose Miles.
Howard si sedette, facendo cigolare la sedia, e si grattò una piega della pancia, che gli era
ricaduta quasi sulle ginocchia.
«Tutto bene, fra te e Sam?»
Miles ammirò, come sempre, la sua perspicacia quasi paranormale.
«Non benissimo, no.»
Alla madre non lo avrebbe mai confessato, per non alimentare la guerra costante fra lei e
Samantha, nella quale lui era insieme ostaggio e trofeo.
«Non le va che mi candidi» fu la risposta che elaborò. Howard sollevò le bionde sopracciglia, con
le mascelle che, impegnate nella masticazione, ondeggiavano. «Non capisco che diavolo le è
preso. È in uno dei suoi momenti anti-Pagford.»
Howard inghiottì con calma. Si pulì la bocca con un tovagliolo di carta e ruttò.
«Vedrai che si riprenderà subito, quando ci sarai dentro» disse. «Le serate mondane. Una
cuccagna, per le mogli. I ricevimenti a Villa Sweetlove. Lei ci sguazzerà.» Buttò giù un’altra sorsata
di birra e si grattò di nuovo la pancia.
«Non so proprio chi sia, questo Price» disse Miles, per tornare al punto essenziale, «ma mi pare
che avesse un figlio in classe con Lexie, alla St Thomas.»
«Comunque è nato ai Fields, l’importante è questo. È uno dei Fields, e la cosa potrebbe tornare a
nostro vantaggio. Lui e Wall si spartiranno i voti pro-Fields, spaccando in due il loro elettorato.»
«Sì» assentì Miles. «È plausibile.»
A lui non era venuto in mente. L’acume di suo padre non finiva di stupirlo.
«La mamma ha già telefonato a sua moglie per dirle di scaricargli i moduli. Magari stasera le
chiedo di chiamare di nuovo per avvertirla che ha solo due settimane, per cercare di serrare un
po’ i tempi.»
«Quindi i candidati saranno tre?» chiese Miles. «Con Colin Wall?»
«Sì, a quanto ne so. Ma può sempre darsi che si faccia avanti qualcun altro quando il sito
pubblicherà i particolari per la presentazione della candidatura. Comunque sono fiducioso che ce
la faremo. Sono fiducioso. Ha chiamato Aubrey» aggiunse Howard. Nella sua voce c’era sempre
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un pizzico di solennità in più, quando chiamava Aubrey Fawley con il nome di battesimo. «Hai il
suo appoggio, ovviamente. Torna stasera. È andato in città.»
Di solito, quando un pagfordiano diceva ‘in città’, parlava di Yarvil. Howard e Shirley, invece, a
imitazione di Aubrey Fawley, usavano l’espressione per dire ‘a Londra’.
«Dice che ci si potrebbe vedere tutti quanti per fare una chiacchierata. Domani, magari. Probabile
addirittura che ci inviti a casa sua. A Sam farà piacere.»
Miles aveva appena preso un gran boccone di pane irlandese spalmato di pâté di fegato, ma
riuscì ugualmente a esprimere il suo assenso con un cenno vigoroso della testa. Gli piaceva l’idea
di ‘appoggiarsi’ a Aubrey Fawley. Samantha poteva anche ridere della soggezione che avevano i
suoi genitori per i Fawley, ma Miles si era accorto che la moglie, nelle rare occasioni in cui si
trovava a tu per tu con Aubrey o Julia, mutava quasi impercettibilmente accento e assumeva
maniere decisamente più decorose.
«Un’altra cosa» riprese Howard, grattandosi di nuovo la pancia. «Ho ricevuto un’e-mail dalla
Yarvil and District Gazette, stamattina. Mi chiedono un parere sui Fields. In veste di presidente
del Consiglio locale.»
«Stai scherzando! Credevo che Fairbrother se li fosse cucinati...»
«Invece è stato un boomerang» disse Howard, con immensa soddisfazione. «Il suo articolo uscirà,
ma per la settimana dopo vogliono qualcuno che esprima un parere diverso. Che dia voce all’altra
campana. Avrei bisogno di una mano. Un po’ di stile avvocatesco, diciamo.»
«Non c’è problema» rispose Miles. «Potremmo parlare di quello schifo di Centro per la
tossicodipendenza. Potrebbe essere convincente.»
«Sì, buona idea, ottima.»
Sull’onda dell’entusiasmo aveva ingurgitato troppo in una volta e Miles dovette battergli la
schiena finché la tosse passò. Poi, asciugandosi gli occhi con un tovagliolo, Howard riprese, senza
fiato: «Aubrey chiederà al Consiglio distrettuale di tagliare i fondi che gli competono e io, ai
nostri, dirò che è ora di liberare l’edificio. Non sarebbe male sollevare il caso sulla stampa. Dire
quanto tempo e quanti soldi abbiamo speso inutilmente per quello schifo di posto. I numeri ce li
ho.» Emise un rutto fragoroso. «Sono scandalosi. Scusami.»
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III
Quella sera, a casa, Gavin cucinò per Kay, aprendo scatolette e schiacciando aglio con un pizzico
di violenza.
Dopo una lite, per garantirsi una tregua bisognava dire certe cose: era la regola, lo sapevano tutti.
Gavin aveva telefonato a Kay tornando in macchina dal funerale di Barry e le aveva detto che gli
era dispiaciuto non averla accanto, che era stata una giornata orribile e che sperava di vederla
quella sera. Queste umili ammissioni erano per lui né più né meno che il prezzo da pagare per
una serata da trascorrere insieme senza tante pretese.
Kay, invece, a quanto pareva le aveva considerate una caparra per la rinegoziazione di un
contratto. Ti sono mancata. In quel brutto momento hai avuto bisogno di me. Ti dispiace che non
siamo andati insieme al funerale, come una vera coppia. Be’, è stato uno sbaglio e non lo faremo
mai più. Da allora aveva mostrato un certo compiacimento; una nuova energia, come se avesse
rinnovate aspettative.
Gavin stava preparando degli spaghetti al ragù; apposta, non aveva comprato un dolce né aveva
apparecchiato prima del suo arrivo; faceva il possibile per mostrarle che non si stava impegnando
più di tanto. Kay non colse niente di tutto questo, anzi, sembrava determinata a prendere la
disinvoltura di Gavin per un complimento. Si sedette al piccolo tavolo della cucina, a parlargli
mentre la pioggia tamburellava sul lucernario, lasciando correre lo sguardo su mobili e oggetti.
Non era stata spesso a casa sua.
«Immagino che sia stata Lisa a scegliere questo giallo, vero?»
Ecco che ricominciava: infrangeva i tabù, come se avessero da poco raggiunto un nuovo livello di
intimità. Gavin, potendo, preferiva non parlare di Lisa: Kay ormai doveva saperlo, no? Aggiunse
l’origano nella padella del trito di carne e rispose: «No, è stato il proprietario precedente. Non ho
ancora trovato il tempo di ritinteggiare.»
«Ah» disse lei, sorseggiando il vino. «Be’, ma non è tanto male. Un po’ anonimo.»
Queste parole gli bruciarono: secondo lui gli interni della Vecchia Fucina erano in tutto e per
tutto superiori a quelli del dieci di Hope Street. Dandole le spalle, guardò la pasta che bolliva.
«Sai una cosa?» disse Kay. «Oggi pomeriggio ho incontrato Samantha Mollison.»
Gavin si girò di scatto; come faceva Kay a sapere anche solo com’era fatta, Samantha Mollison?
«In Piazza, proprio davanti alla salumeria; stavo entrando per comprare questa» disse Kay,
facendo tintinnare un’unghia contro la bottiglia di vino accanto a lei. «Mi ha chiesto se ero la
fidanzata di Gavin.»
Lo disse maliziosa, ma in realtà quelle parole le avevano scaldato il cuore: era stato un sollievo
pensare che Gavin la descrivesse così ai suoi amici.
«E tu cos’hai detto?»
«Ho detto... ho detto di sì.»
All’improvviso aveva l’aria mogia. Gavin non avrebbe voluto essere così aggressivo, con quella
domanda. Ma avrebbe dato molto per evitare un incontro fra Kay e Samantha.
«Comunque» riprese Kay, con la voce un po’ tesa, «ci ha invitati a cena venerdì prossimo. Fra una
settimana.»
«Oh, merda» sbottò Gavin, stizzito.
Il buonumore di Kay se n’era ormai andato quasi tutto.
«Qual è il problema?»
«Niente... niente» rispose lui, rimestando gli spaghetti nell’acqua. «È solo che... Miles lo vedo già
fin troppo in studio, francamente.»
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Era sempre stata questa la sua paura: che lei si insinuasse piano piano e loro alla fine finissero per
diventare Gavin-e-Kay, con una vita sociale in comune; a quel punto sarebbe stato sempre più
difficile farla uscire dalla sua vita. Come aveva potuto permettere che si arrivasse a tanto? Perché
l’aveva lasciata trasferirsi a Pagford? La rabbia che provava contro se stesso non tardò ad
abbattersi su di lei. Perché non capiva che lui non voleva saperne di lei e non si toglieva di mezzo
da sola, invece di costringerlo a fare il cattivo della situazione? Scolò gli spaghetti nel lavello,
imprecando a fior di labbra quando si spruzzò di acqua bollente.
«Allora farai meglio a chiamare Miles e Samantha per dirgli di no» ribatté Kay.
La sua voce si era indurita. Com’era nelle sue più inveterate abitudini, Gavin cercò di evitare
l’imminente conflitto, confidando che il tempo avrebbe risolto tutto.
«No, no» fece, asciugandosi la camicia con uno strofinaccio. «Ci andremo. Non fa niente. Ci
andremo.»
Ma non cercò di dissimulare la sua mancanza di entusiasmo, caso mai in futuro gli fosse tornato
utile accennarvi. Lo sapevi che non volevo andarci. No, non mi sono divertito. No, non voglio che si
ripeta mai più.
Per lunghi minuti mangiarono in silenzio. Gavin aveva paura che scoppiasse un’altra lite e che Kay
lo costringesse di nuovo a parlare dei problemi che c’erano dietro. Cercò di farsi venire in mente
qualcosa da dire e alla fine si mise a raccontarle di Mary Fairbrother e della polizza vita.
«Stanno facendo proprio i bastardi» disse. «Era assicurato per un mucchio di soldi, ma gli
avvocati della compagnia stanno tentando di tutto per non pagare. Stanno cercando di
dimostrare che è stato reticente.»
«In che senso?»
«Be’, anche uno zio era morto di aneurisma. Mary giura che Barry lo aveva detto all’agente della
compagnia, quando aveva firmato la polizza, ma nei moduli non risulta. Probabilmente l’agente
non aveva pensato che fosse un disturbo genetico. Forse neanche Barry lo sapeva, visto...»
La voce si incrinò. Sconvolto, imbarazzato, con le guance in fiamme, chinò la testa sopra il piatto.
Aveva un nodo di dolore in gola che non se ne voleva andare. Le gambe della sedia di Kay
raschiarono per terra; lui sperò che lei si fosse alzata per andare in bagno, ma poi sentì attorno
alle spalle le sue braccia che lo stringevano. Senza rifletterci, anche lui la strinse, con un solo
braccio.
Che bello essere abbracciato. E che bello se la loro relazione fosse stata fatta di semplici, muti
gesti affettuosi e nient’altro. Perché diavolo gli esseri umani avevano imparato a parlare?
Le aveva sporcato di moccio il dietro della camicia.
«Scusami» disse, rauco, pulendoglielo con il tovagliolo.
Si staccò da lei per soffiarsi il naso. Kay trascinò la sedia accanto a lui e gli posò una mano sul
braccio. Quanto la preferiva quando lei non parlava e aveva quell’espressione dolce e
preoccupata, come adesso.
«Non riesco ancora... era una brava persona» disse Gavin. «Barry. Era una brava persona.»
«Sì, lo dicono tutti.»
Kay non aveva mai potuto incontrare il famoso Barry Fairbrother, ma il dolore manifestato da
Gavin e l’uomo che lo aveva suscitato la incuriosivano.
«Era spiritoso?» chiese, perché se lo vedeva, Gavin, affascinato da un grande intrattenitore, da
un caciarone sempre col bicchiere in mano.
«Sì, credo di sì. Be’, però non particolarmente. Normale. Uno a cui piaceva farsi qualche risata...
ma era così... così una brava persona. Gli piaceva la gente, capisci?»
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Lei aspettò, ma evidentemente Gavin non riusciva a spiegarle meglio in cosa consistessero le
buone qualità di Barry.
«E i ragazzi... e Mary... povera Mary... Dio, non hai idea.»
Kay intanto gli dava dei colpetti leggeri sul braccio, ma la sua compassione si era po’ raffreddata.
Lei non aveva idea, pensava, di cosa significava restare sola? Non aveva idea di cosa volesse dire
essere l’unica a mandare avanti una famiglia? Dov’era la pietà di Gavin per lei, per Kay?
«Erano così felici» riprese Gavin, con voce rotta. «Mary è a pezzi.»
Kay, senza dire una parola, lo accarezzava sul braccio, riflettendo che lei, invece, non si era mai
potuta permettere di crollare.
«Adesso va meglio» disse Gavin; si soffiò il naso nel tovagliolo e prese la forchetta. Con un
fremito quasi impercettibile le fece capire che doveva levare la mano.
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IV
L’invito a cena che Samantha aveva rivolto a Kay era motivato tanto da uno spirito di vendetta
quanto dalla noia. Era una ripicca contro Miles, sempre impegnato in grandi manovre in cui lei
non aveva voce in capitolo ma per le quali lui si aspettava sempre la sua collaborazione; voleva
proprio vedere che faccia avrebbe fatto constatando che lei aveva organizzato qualcosa senza
consultarlo. E poi si sarebbe procurata un vantaggio su Maureen e Shirley, quelle vecchie arpie
ficcanaso, che erano tanto affascinate dalla vita privata di Gavin ma poi non sapevano
praticamente niente della relazione con la fidanzata di Londra. Infine, sarebbe stata un’altra
occasione per dare a Gavin qualche altra graffiata per la vigliaccheria e l’incertezza con cui
conduceva la sua vita amorosa: avrebbe potuto parlare di matrimoni davanti a Kay o dirsi felice di
vedere che Gavin finalmente aveva deciso di fare sul serio.
Tuttavia, il piacere che trasse da quel piano non fu all’altezza delle aspettative. Sabato mattina,
quando disse a Miles cos’aveva fatto, lui reagì con un entusiasmo sospetto.
«Ottimo, sì, sono secoli che non abbiamo Gavin qui a cena. E poi sarà bello, per te, conoscere
Kay.»
«Perché?»
«Be’, con Lisa sei sempre andata d’accordo, no?»
«Miles, io odiavo Lisa.»
«Ah... be’... magari Kay ti sarà più simpatica!»
Lei lo guardò di traverso, chiedendosi da dove arrivasse tanto buonumore. Lexie e Libby, tornate
per il fine settimana e costrette in casa dalla pioggia, erano in soggiorno a guardare un dvd
musicale; la chitarra di una ballata sparata a tutto volume si sentiva fino in cucina, dove i loro
genitori stavano parlando.
«Ah, senti» disse Miles, brandendo il cellulare, «Aubrey vuole fare due chiacchiere con me, per il
Consiglio. Ho appena chiamato papà e dice che i Fawley ci hanno invitati tutti a cena stasera a
Villa...»
«No, grazie» lo interruppe Samantha. Improvvisamente era piena di rabbia, una rabbia che non
sapeva spiegare nemmeno a se stessa. Uscì dalla stanza.
Per tutto il giorno litigarono sottovoce in giro per casa, cercando di non rovinare il fine settimana
alle figlie. Samantha non volle saperne di cambiare idea né di discutere le sue ragioni. Miles,
temendo di arrabbiarsi con lei, si mostrava ora conciliante ora freddo.
«Cosa credi che penseranno, se non vieni?» disse alle otto meno dieci di sera, sulla porta del
soggiorno, pronto a uscire, in completo e cravatta.
«Io non c’entro niente, Miles» replicò Samantha. «Sei tu quello che si candida.»
Come le piaceva vederlo così indeciso. Sapeva che era terrorizzato all’idea di arrivare in ritardo e
che tuttavia era lì a chiedersi se avesse ancora qualche speranza di convincerla.
«Lo sai che ci aspettano tutti e due.»
«Ah, sì? Io non ho ricevuto nessun invito.»
«Ma dai, Sam, non fare così, lo sai che... era implicito...»
«Bravi stupidi, allora. Io non ne ho voglia. E adesso farai meglio ad andare. Non vorrai mica fare
aspettare papino e mammina.»
Lui uscì. Samantha sentì la macchina percorrere il vialetto in retromarcia e poi andò in cucina,
aprì una bottiglia di vino e la portò in soggiorno con un bicchiere. Continuava a immaginare
Howard, Shirley e Miles tutti insieme a cena a Villa Sweetlove. Di sicuro per Shirley sarebbe stato
il primo orgasmo da anni.
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Il pensiero virò irresistibilmente su quel che le aveva detto il commercialista durante la
settimana. Il negozio andava male, nonostante quel che lei aveva raccontato a Howard. Tanto
che il commercialista le aveva consigliato di chiuderlo e concentrarsi solo sulla vendita online.
Avrebbe significato ammettere la sconfitta e Samantha non era disposta a farlo. Se non altro
perché Shirley sarebbe stata fuori di sé dalla gioia; fin dall’inizio si era comportata da gran
bastarda. Mi spiace, Sam, ma non fa per i miei gusti... un filino sopra le righe... Ma Samantha
adorava il suo negozietto rosso e nero di Yarvil; adorava fuggire da Pagford ogni giorno,
chiacchierare con le clienti, spettegolare con Carly, la sua commessa. Senza il negozio, che aveva
coltivato per quattordici anni, il suo mondo sarebbe diventato minuscolo; si sarebbe
rimpicciolito, insomma, entro i confini di Pagford.
(Pagford, maledetta Pagford. Samantha non aveva mai pensato di viverci. Lei e Miles avevano
deciso di viaggiare per un anno intorno al mondo, prima di cominciare a lavorare. Avevano fissato
l’itinerario, ottenuto i visti. Samantha aveva sognato di passeggiare a piedi nudi e mano nella
mano sulle lunghe, bianche spiagge australiane. Poi aveva scoperto di essere incinta.
Era andata a trovare Miles a Ambleside, all’indomani del test di gravidanza, la settimana dopo la
laurea. Sarebbero dovuti partire per Singapore di lì a otto giorni.
Non aveva voluto dargli la notizia in casa dei suoi genitori; aveva paura che la sentissero. Ogni
volta che apriva una porta, ci trovava dietro Shirley.
Così aveva aspettato, finché un giorno si era ritrovata seduta con lui a un tavolino del Black
Canon, in un angolo buio. Rivedeva ancora la mascella di Miles irrigidirsi nell’istante in cui glielo
diceva; alla notizia era come invecchiato di colpo, in una qualche maniera indefinibile.
Era rimasto pietrificato, in silenzio, per qualche secondo. Poi aveva detto: «Bene. Ci sposiamo.»
Le aveva detto che aveva già comprato l’anello, che aveva pensato di farle la proposta in un
qualche bel posto, come la cima di Ayers Rock. E in effetti, quando erano tornati al villino, aveva
tirato fuori la scatolina che teneva nascosta nello zaino. Era un piccolo diamante solitario
comprato in una gioielleria di Yarvil, con un po’ dei soldi che gli aveva lasciato la nonna.
Samantha si era seduta sulla sponda del letto di Miles e aveva pianto a dirotto. Si erano sposati
tre mesi dopo.)
Sola con la sua bottiglia di vino, Samantha accese il televisore. Il dvd che Lexie e Libby avevano
guardato era ancora inserito: comparve l’immagine fissa di quattro ragazzi in jeans attillati che
cantavano; sembravano appena maggiorenni. Samantha pigiò play. Terminata la canzone, il dvd
passò a un’intervista. Samantha vuotò il bicchiere di vino guardando i ragazzi scherzare tra loro e
poi farsi seri per illustrare quanto amavano i propri fan. Samantha pensò che anche con l’audio
spento avrebbe capito che erano americani. Avevano denti perfetti.
Si fece tardi; mise il dvd in pausa e andò al piano di sopra a dire alle ragazze di spegnere la
PlayStation e andare a letto. Poi tornò in soggiorno; aveva bevuto tre quarti della bottiglia. Non
aveva acceso le luci. Premette di nuovo play e continuò a bere. Finito il dvd, tornò all’inizio per
guardare la parte che si era persa.
Uno dei ragazzi pareva decisamente più maturo degli altri tre. Era più largo di spalle, con i bicipiti
che sporgevano sotto le maniche corte della T-shirt, il collo grosso e robusto, la mascella
quadrata. Samantha guardò i suoi movimenti sinuosi e il suo sguardo grave e distaccato rivolto
alla macchina da presa; aveva un bel viso, tutto angoli e sfaccettature e sopracciglia nere ad ala di
gabbiano.
Pensò al sesso con Miles. L’ultima volta era stata tre settimane prima. La prestazione del marito
era stata prevedibile come una stretta di mano fra massoni. Uno dei suoi motti preferiti era «quel
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che funziona non si cambia.»
Samantha si versò il vino che avanzava e immaginò di fare l’amore con il ragazzo del dvd. Con il
reggiseno ormai ci guadagnava: quando si sdraiava, il seno scivolava giù dappertutto e lei si
sentiva flaccida, orribile. Immaginò di essere tenuta a forza contro il muro, una gamba tirata su, il
vestito sollevato fino alla vita, e quel ragazzo bruno e muscoloso che, con i jeans alle caviglie,
spingeva avanti e indietro dentro di lei...
Con uno spasmo nello stomaco che assomigliava alla felicità, udì la macchina svoltare nel vialetto
e nel soggiorno buio passò il fascio di luce dei fari.
Armeggiò con il telecomando per cercare il canale del telegiornale, operazione che richiese più
tempo del dovuto; cacciò la bottiglia vuota sotto il divano e tenne in mano il bicchiere tanto per
avere qualcosa cui aggrapparsi. La porta di ingresso si aprì e si richiuse. Miles entrò alle sue
spalle.
«Perché sei qui al buio?»
Lui accese una lampada e lei, dal divano, lo guardò. Era ancora in ordine com’era stato al
momento di uscire, tranne che per le gocce di pioggia sulle spalle della giacca.
«Com’è andata?»
«Bene. È spiaciuto a tutti che tu non ci fossi. Aubrey e Julia speravano di vederti.»
«Oh, certo. E scommetto che tua madre si è messa a piangere per la delusione.»
Lui si sedette su un bracciolo, ad angolo retto rispetto a lei, e la guardò.
«Che cosa c’è, Sam?»
«Se non lo capisci da solo, Miles...»
Ma nemmeno lei era sicura di saperlo; o meglio, non sapeva riassumere in un’accusa precisa
quella confusa sensazione di subire un affronto.
«Non vedo come la mia candidatura per il Consiglio locale...»
«Ma fammi il piacere, Miles!» gridò lei e poi si sorprese un po’ del volume della sua voce.
«Vorrei che mi spiegassi cosa cambia per te» disse lui.
Lei lo guardò furiosa, cercando di formulare la risposta in un modo capace di renderla
comprensibile al suo cervello pedante di avvocato, che, come un paio di pinzette minuscole,
spesso sapeva afferrare le parole più infelici di un discorso ma non il suo senso generale. Cosa
poteva dirgli perché lui capisse? Che le chiacchiere interminabili di Shirley sul Consiglio
l’annoiavano a morte? Che era già abbastanza noioso sentirgli raccontare i suoi aneddoti triti e
ritriti dei bei tempi in cui giocava a rugby e le sue tronfie storie di lavoro, e non aveva nessuna
voglia di aggiungerci anche le tirate saccenti sui Fields?
«Be’, io ero convinta» rispose Samantha, nella penombra del soggiorno, «che avessimo altri
progetti.»
«Per esempio? Di cosa parli?»
«Avevamo detto» scandì bene Samantha sopra l’orlo del bicchiere, che tremava, «avevamo detto
che, quando le ragazze fossero uscite dal collegio, avremmo viaggiato. Ce l’eravamo promesso, ti
ricordi?»
Il groviglio informe di rabbia e tristezza che la consumava da quando Miles aveva annunciato
l’intenzione di candidarsi non l’aveva mai indotta a rimpiangere quel viaggio intorno al mondo,
ma adesso le sembrava proprio questo il vero problema; o almeno che quel progetto mancato
riuscisse a esprimere meglio di ogni altra cosa l’ostilità e lo struggimento che provava.
Miles sembrava sconcertato.
«Ma insomma, cosa stai dicendo?»
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«Quando sono rimasta incinta di Lexie» rispose lei, alzando la voce, «e abbiamo dovuto
rinunciare al nostro viaggio, e quell’arpia di tua madre ci ha fatti sposare in fretta e furia, e tuo
padre ti ha trovato quel lavoro con Edward Collins, tu hai detto, anzi, insieme abbiamo deciso,
che quel viaggio lo avremmo fatto quando le bambine sarebbero diventate grandi; avevamo
detto che saremmo partiti e avremmo fatto tutte le cose che non avevamo potuto fare.»
Lui scosse lentamente la testa.
«Questa mi giunge nuova» disse. «Come diavolo ti è venuta in testa?»
«Miles, eravamo al Black Canon. Io ti ho detto che ero incinta e tu... oh, insomma, Miles... io ti ho
detto che ero incinta e tu hai promesso, hai promesso...»
«Vuoi fare una vacanza?» la interruppe Miles. «È questo? Vuoi una vacanza?»
«No, merda. Non voglio una vacanza, Miles, io voglio... ma non te lo ricordi? Avevamo detto che,
quando le bambine sarebbero state grandi, ci saremmo presi un anno per noi e saremmo
partiti!»
«Va bene, allora.» Sembrava innervosito, deciso a liquidarla. «D’accordo. Quando Libby avrà
diciott’anni; fra quattro anni ne riparleremo. Non vedo come il fatto di diventare consigliere
possa influire minimamente su questo.»
«No, certo, a parte la noia mortale di ascoltare quelle tue lagne sui Fields, tue e dei tuoi, tutti i
giorni vita natural durante...»
«Vita natural durante?» ripeté Miles, con un sorrisino furbo. «Naturale invece di...?»
«Vaffanculo» sputò lei. «Piantala di fare il saccente, Miles; potrà anche funzionare con tua
madre, ma...»
«Be’, francamente continuo a non vedere che problema...»
«Il problema» urlò lei «è che qui ne va del nostro futuro, Miles. Il nostro futuro. E non voglio
parlarne fra quattro anni. Voglio parlarne adesso!»
«Faresti meglio a mettere qualcosa nello stomaco» disse Miles. Si alzò in piedi. «Hai bevuto
abbastanza.»
«Fottiti, Miles!»
«Scusa, ma se cominci con gli insulti...»
Le voltò le spalle e se ne andò. Lei si trattenne a stento da scaraventargli addosso il bicchiere.
Il Consiglio: se ci fosse entrato, non ne sarebbe mai uscito; ci sarebbe rimasto attaccato, a quella
poltrona, non avrebbe mai rinunciato alla possibilità di essere un notabile di Pagford, come
Howard. Si stava riconsegnando a Pagford, stava rinnovando i suoi voti alla città natia, a un
avvenire molto diverso da quello promesso alla novella futura sposa seduta in lacrime sul suo
letto.
Quand’era stata l’ultima volta che avevano parlato del viaggio intorno al mondo? Non lo
ricordava bene. Forse anni e anni prima, ma adesso Samantha aveva stabilito che lei, almeno,
non aveva mai cambiato idea. Sì, lei si era sempre aspettata che un giorno avrebbero fatto le
valigie e sarebbero partiti, alla ricerca del caldo e della libertà, a mezzo globo di distanza da
Pagford, Shirley, Mollison & Lowe, la pioggia, le meschinerie e la monotonia. Forse non aveva
pensato con desiderio, per tanti anni, alle sabbie bianche dell’Australia e di Singapore, ma di
sicuro avrebbe preferito essere là, anche con le sue cosce ingrossate e le sue smagliature, che
non qua, intrappolata a Pagford, costretta a vedere Miles trasformarsi piano piano in Howard.
Si lasciò sprofondare nel divano, prese il telecomando e tornò al dvd di Libby. La band, ora in
bianco e nero, camminava lentamente lungo una spiaggia vuota, cantando. La brezza aprì di
colpo la camicia del ragazzo dalle spalle larghe. Dall’ombelico, una sottile strisciolina di peli
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scendeva fin dentro i jeans.
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V
Alison Jenkins, la giornalista della Yarvil and District Gazette, era riuscita finalmente a stabilire
presso quale delle varie famiglie Weedon viveva Krystal. Non era stato facile: a quell’indirizzo non
comparivano iscrizioni alle liste elettorali né un numero telefonico. Domenica, Alison era andata
di persona in Foley Road, ma Krystal non c’era e Terri, diffidente e aggressiva, non aveva voluto
dirle quando sarebbe tornata né confermare che la ragazza abitava lì.
Krystal era arrivata a casa nemmeno venti minuti dopo che la giornalista era rimontata in
macchina e tra lei e sua madre era scoppiata una nuova lite.
«Perché non le hai detto di aspettarmi? Doveva intervistarmi sui Fields e tutto il resto!»
«Intervistare te? Ma non dire cazzate. E perché mai?»
I toni si erano inaspriti e Krystal se n’era andata di nuovo di casa per rifugiarsi da Nikki, non senza
essersi messa nei pantaloni della tuta il cellulare di Terri. Se la svignava spesso con quel cellulare;
poi sua madre le chiedeva di restituirglielo, lei diceva di non saperne niente e così litigavano.
Krystal aveva la vaga speranza che la giornalista conoscesse il numero, chissà come, e chiamasse.
Era in un caffè affollato e rumoroso del centro commerciale a raccontare a Nikki e Leanne della
giornalista quando il cellulare squillò.
«Pronto chi è? La giornalista?»
«... ch... ’rla... ’erri?»
«Sono Krystal. Chi è?»
«...’ono tu... ia... ’rella di... ’adre.»
«Eh?» urlò Krystal. Con un dito premuto nell’orecchio libero, zigzagò tra i tavolini affollati per
andare a mettersi in un posto più tranquillo.
«Danielle» disse la donna, forte e chiaro dall’altro capo della linea. «La sorella di tua mamma.»
«Ah, sì» fece Krystal, delusa.
Quella stronza di fighetta, diceva Terri tutte le volte che veniva nominata Danielle. Krystal non si
ricordava se l’aveva mai incontrata.
«Chiamo per la tua ’isnonna.»
«Eh?»
«Nonna Cath» disse Danielle, spazientita. Krystal andò al balcone che dava sul piazzale del centro
commerciale; lì la ricezione era migliore; si fermò.
«Cos’è successo?» chiese. Era come se lo stomaco facesse le capriole, come quando da piccola
scavalcava le ringhiere come quella che aveva davanti. Dieci metri più giù, la folla fluttuava
reggendo sacchetti di plastica, spingendo passeggini e trascinando bambini.
«È al South West. Da una settimana. Ha avuto un ictus.»
«Da una settimana?» esclamò Krystal, con lo stomaco che faceva un altro balzo. «Nessuno ci
aveva detto niente.»
«Sì, be’, sai, non riesce a parlare bene, ma ha fatto due volte il tuo nome.»
«Il mio?» ripeté Krystal, stringendo forte il cellulare.
«Sì. Vuole vederti, credo. È grave. Dicono che forse non guarirà.»
«Dov’è? In che reparto?» chiese Krystal, con le orecchie che ronzavano.
«Padiglione dodici. Terapia intensiva. Gli orari delle visite sono da mezzogiorno alle quattro e
dalle sei alle otto. Hai capito tutto?»
«Ma è...?»
«Devo andare. Volevo solo dirtelo, caso mai volevi andare a trovarla. Ciao.»
La linea si interruppe. Krystal staccò il cellulare dall’orecchio e guardò il display. Pigiò più volte il
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pollice su un tasto finché comparve la scritta ‘numero privato’.
Krystal tornò da Nikki e Leanne. Capirono subito che era successo qualcosa.
«Va’ a trovarla, no?» disse Nikki, guardando l’ora sul suo cellulare. «Per le due sei là. Prendi
l’autobus.»
«Sì» rispose Krystal, assente.
Pensò di passare da sua madre, di portare anche lei e Robbie a trovare nonna Cath, ma l’anno
prima c’era stata una lite furiosa e da allora sua madre e nonna Cath non si erano più sentite.
Sapeva che avrebbe dovuto fare una grande opera di convincimento per trascinare Terri in
ospedale e non era neanche sicura che a nonna Cath avrebbe fatto piacere vederla.
È grave. Dicono che forse non guarirà.
«I soldi ce li hai?» chiese Leanne, frugandosi nelle tasche mentre tutt’e tre andavano alla fermata
dell’autobus.
«Sì» rispose Krystal, dopo aver controllato. «È solo una sterlina, per l’ospedale, vero?»
Prima che arrivasse il ventisette ebbero il tempo di fumare una sigaretta in tre. Nikki e Leanne
restarono lì a salutarla con la mano come se stesse partendo per andare in un bel posto.
All’ultimo momento, Krystal ebbe paura e fu lì lì per gridare: «Venite con me!» ma poi l’autobus
si staccò dal marciapiede e Nikki e Leanne si erano già girate per allontanarsi, chiacchierando.
Il sedile, coperto di stoffa vecchia e puzzolente, pizzicava. L’autobus, arrancando, si immise sulla
strada che fiancheggiava l’area pedonale e svoltò a destra in una delle arterie principali dove si
trovavano i negozi di tutte le grandi firme.
La paura pulsava nella pancia di Krystal come un feto. Sapeva che nonna Cath stava diventando
vecchia e fragile, ma si era aspettata, in un modo confuso e irrazionale, di vederla rigenerarsi,
tornare al pieno fulgore che aveva conservato per tanto tempo; di vedere i suoi capelli
ridiventare neri, la sua spina dorsale raddrizzarsi, la memoria affilarsi, come la sua lingua caustica.
Non aveva mai pensato che nonna Cath potesse morire; l’aveva sempre associata alla robustezza
e all’invulnerabilità. Se mai avesse fatto caso al petto deformato di nonna Cath e alle
innumerevoli rughe che si incrociavano sul suo viso, vi avrebbe visto le gloriose ferite riportate
nella sua vittoriosa battaglia per la sopravvivenza. Nessuna delle persone vicine a Krystal era mai
morta di vecchiaia.
(Si moriva giovani, nell’ambiente della madre, a volte quando il viso e il corpo non avevano
ancora avuto il tempo di emaciarsi e devastarsi. Il corpo trovato da Krystal nel bagno quando
aveva sei anni era quello di un uomo giovane e bello, bianco e perfetto come una statua; lei
almeno lo rammentava così. Ma certe volte quel ricordo la confondeva e allora era assalita dai
dubbi. Era difficile sapere cosa credere. Da piccola aveva spesso sentito cose che poi i grandi
avevano contraddetto e smentito. Avrebbe giurato di aver sentito Terri che diceva: «Era tuo
papà.» Ma poi, molto tempo dopo, le aveva detto: «Non fare la stupida. Tuo papà non è morto.
Lo sai che è a Bristol, no?» Così Krystal aveva dovuto riabituarsi all’esistenza di Schizzo: era così
che tutti chiamavano l’uomo che dicevano fosse suo padre.
Nonna Cath, invece, c’era sempre stata, almeno nello sfondo. Se Krystal era riuscita a evitare
l’affidamento, era stato grazie a lei, a nonna Cath, che era a Pagford pronta ad aspettarla, a
offrirle un rifugio sicuro, per quanto scomodo. Imprecando furibonda, aggressiva tanto con Terri
quanto con gli assistenti sociali, era arrivata come un falco a prendersi la sua bisnipote
altrettanto arrabbiata.
Quella casetta di Hope Street, Krystal non sapeva se l’aveva amata o odiata. Era squallida e
puzzava di candeggina; sembrava di essere in prigione. Ma allo stesso tempo era un posto sicuro,
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assolutamente sicuro. Nessuno entrava in casa di nonna Cath, se lei non lo voleva. Sul bordo in
fondo alla vasca c’erano delle vecchie saponette in un vaso di vetro.)
E se, arrivata da nonna Cath, avesse trovato là altre persone? Non avrebbe saputo riconoscere
neanche la metà dei suoi parenti e l’idea di ritrovarsi a tu per tu con degli sconosciuti con cui
aveva dei legami di sangue la spaventava. Sua madre aveva molte sorellastre, nate dalle
numerose relazioni del padre, che nemmeno Terri aveva mai incontrato; ma nonna Cath aveva
sempre cercato di non perdere di vista nessuno, ostinandosi a tenere i contatti con la grande
famiglia disseminata qua e là che i suoi figli avevano creato. Di tanto in tanto, negli anni, a casa di
nonna Cath si erano presentati dei parenti che Krystal non conosceva. Aveva avuto l’impressione
che la guardassero di traverso e bisbigliassero delle cose a nonna Cath, ma aveva sempre fatto
finta di niente e aspettato che se ne andassero, per riavere nonna Cath tutta per sé. La cosa che
proprio non le andava giù era che ci fossero altri bambini nella vita di nonna Cath.
(«Loro chi sono?» le aveva chiesto una volta, a nove anni, rosa dalla gelosia, indicando la foto
incorniciata di due bambini vestiti con la divisa della Paxton High che nonna Cath aveva sulla
credenza.
«Sono due dei miei bisnipoti» aveva risposto nonna Cath. «Questo è Dan e questo Ricky. Sono
tuoi cugini.»
Krystal non li voleva come cugini e non li voleva sulla credenza di nonna Cath.
«E questa qua invece chi è?» chiese, puntando il dito verso una ricciolina bionda.
«Lei è la figlia di Michael, Rhiannon, quando aveva cinque anni. Com’era bella, eh? Ma poi ha
sposato un negro» aveva risposto nonna Cath.
Sulla credenza di nonna Cath non c’era mai stata una foto di Robbie.
Non sai neanche chi è suo padre, eh, puttana? Io me ne lavo le mani. Ne ho abbastanza, Terri, ne
ho fin qua: te la vedrai da sola.) L’autobus continuò ad arrancare per la cittadina, passando
davanti a folle di gente uscita a fare le spese della domenica pomeriggio. Quando Krystal era
piccola, Terri l’aveva portata nel centro di Yarvil quasi tutti i fine settimana, costringendola nel
passeggino anche quando lei non ne aveva più bisogno, perché con un passeggino rubare era
molto più semplice: bastava infilare la roba dietro le gambe della bambina, nasconderla nelle
borse sotto il sedile. Qualche volta Terri andava a rubare nei negozi in tandem con la sola sorella
cui rivolgesse la parola, Cheryl, che era sposata con Shane Tully. Cheryl e Terri abitavano tutt’e
due ai Fields, a quattro vie di distanza l’una dall’altra, e quando litigavano – spesso – l’aria
impietriva, alle loro parolacce. Krystal non aveva mai capito bene se ci si aspettava che lei e i
cugini Tully si rivolgessero la parola o no, e ormai da tempo non si preoccupava più di cercarli, ma
tutte le volte che incrociava Dane gli parlava. Una volta avevano scopato, dopo essersi scolati una
bottiglia di sidro in due nel campo giochi, quando avevano quattordici anni. Da allora nessuno dei
due ne aveva mai parlato. Krystal non sapeva bene se fosse legale farlo con un cugino. Una volta
Nikki aveva detto qualcosa che le aveva fatto pensare di no.
L’autobus si immise nella via che portava all’ingresso principale del Policlinico South West e si
fermò una ventina di metri da un edificio enorme, a pianta rettangolare, fatto di vetro e parti
grigie. C’erano delle macchie di prato ben tenuto, qualche alberello e una foresta di cartelli.
Krystal seguì due vecchie giù dall’autobus e restò lì con le mani nelle tasche dei pantaloni della
tuta, a guardarsi attorno. Aveva già dimenticato il nome del padiglione che le aveva detto
Danielle; ricordava solo il numero dodici. Si avvicinò al cartello più vicino con aria disinvolta,
fingendo di posarci sopra gli occhi per caso: era fitto di parole dall’aspetto impenetrabile, lunghe
quanto il suo braccio, e di frecce puntate a sinistra, destra e in diagonale. Krystal non era brava a
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leggere; oltre una certa quantità di parole, si sentiva intimorita, minacciata. Dopo varie occhiate
furtive alle frecce, decise che lì di numeri non ce n’erano, così seguì le due vecchie verso la
doppia porta a vetri della palazzina principale.
L’atrio, affollato, la confuse ancor più dei cartelli. C’era un negozio, preso d’assalto, che era
separato dall’atrio da vetrine alte fino al soffitto; c’erano file di sedie di plastica piene di gente
che mangiava panini; c’era un caffè zeppo nell’angolo; e, in mezzo all’atrio, una specie di banco
esagonale al quale delle donne rispondevano alle richieste di informazioni consultando i
computer. Krystal si diresse lì, sempre con le mani in tasca.
«Dov’è il reparto dodici?» chiese, brusca, a una delle donne.
«Terzo piano» rispose l’altra, adeguando il tono a quello di Krystal.
Krystal, per orgoglio, non volle chiedere altre indicazioni, così voltò le spalle e si allontanò, finché
individuò gli ascensori in fondo all’atrio e ne prese uno che saliva.
Ci mise quasi un quarto d’ora a trovare il reparto. Perché non usavano i numeri e le frecce, invece
di quelle parole lunghissime? Ma poi, mentre percorreva un corridoio verde chiaro con le scarpe
da ginnastica che stridevano sul linoleum, qualcuno la chiamò.
«Krystal?»
Era sua zia Cheryl, grande e grossa nella gonna di denim e la canotta bianca attillata, con i capelli
giallo banana e la ricrescita nera. Era tatuata dalle nocche alle spalle e da ciascun orecchio
pendevano dei cerchi d’oro multipli che sembravano anelli delle tende. In mano aveva una lattina
di Coca.
«Quindi non si è scomodata, eh?» disse Cheryl. Le gambe, nude, erano ben piantate a terra,
divaricate come se fosse una sentinella.
«Chi?»
«Terri. Non è voluta venire?»
«Non sa ancora niente. L’ho appena saputo. Mi ha chiamata Danielle, per dirmelo.»
Cheryl strappò via la linguetta metallica e si mise a sorbire la Coca, scrutando Krystal da sopra la
lattina con quegli occhietti microscopici, sprofondati in una faccia larga e piatta tutta chiazzata
come il manzo sotto sale.
«Gliel’ho detto io a Danielle di chiamarti, quando è successo. Tre giorni là per terra e un cazzo di
nessuno che se ne accorge. Era in uno stato... porca troia.»
Krystal non domandò a Cheryl perché non avesse fatto lei quel breve tragitto per andare a dare la
notizia a Terri. Evidentemente le due sorelle avevano litigato di nuovo. Era impossibile starci
dietro.
«Dov’è?» chiese Krystal.
Cheryl fece strada, con le infradito che sbattevano per terra a ogni passo.
«Ah, a proposito» disse, mentre camminavano. «Mi ha chiamata una giornalista che chiedeva di
te.»
«Davvero?»
«Mi ha dato un numero.»
Krystal avrebbe voluto farle altre domande, ma erano entrate in un reparto dove c’era un gran
silenzio e improvvisamente ebbe paura. Quell’odore non le piaceva.
Nonna Cath era quasi irriconoscibile. Mezza faccia era contratta in una smorfia orribile, come se i
muscoli fossero tirati da un cavo. La bocca piegava da una parte; perfino un occhio era allungato
all’ingiù. Aveva dei tubicini fissati col cerotto e un ago nel braccio. I rilievi delle lenzuola erano in
punti insoliti, come se quella testa grottesca, fissata su un collo rinsecchito, uscisse da un barile.
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Quando Krystal si sedette accanto a lei, nonna Cath non si mosse. Aveva lo sguardo fisso. La
piccola mano tremò appena.
«Adesso non parla, ma ieri sera ha detto il tuo nome, due volte» disse Cheryl, guardando
tristemente da dietro la lattina.
Krystal sentì un peso sul petto. Non sapeva se prendendo la mano di nonna Cath le avrebbe fatto
male. Avvicinò piano piano le dita finché furono a qualche centimetro da lei, ma poi le lasciò sul
copriletto.
«È venuta Rhiannon» riprese Cheryl. «E anche John e Sue. Sue sta cercando Anne-Marie per
dirglielo.»
Krystal si illuminò.
«Dov’è?» chiese a Cheryl.
«Dalle parti di Frenchay. Lo sai che adesso ha un bambino?»
«Sì, ho sentito. Maschio o femmina?»
«Non so» rispose Cheryl e buttò giù un’altra sorsata di Coca.
Qualcuno a scuola le aveva detto: «Ehi, Krystal, tua sorella è incinta!» Si era emozionata, alla
notizia. Sarebbe diventata zia, anche se poi il bambino non lo aveva mai visto. Per tutta la vita era
stata affascinata da quell’Anne-Marie, sottratta alla madre prima che lei nascesse; catapultata in
un’altra dimensione come il personaggio di una fiaba, bella e misteriosa come l’uomo morto nel
bagno di Terri.
Le labbra di nonna Cath si mossero.
«Cosa c’è?» disse Krystal, chinandosi verso di lei, tra la gioia e la paura.
«Vuoi qualcosa, nonna Cath?» scandì Cheryl, tanto forte che gli altri parenti in visita smisero di
sussurrare e si girarono a guardarle.
Krystal udiva solo una specie di sibilo affannato, ma sembrava proprio che nonna Cath si stesse
sforzando di articolare una parola. Cheryl era china sull’altra sponda del letto, aggrappata con
una mano alle barre della testiera.
«... ah... oh...» fece nonna Cath.
«Cosa?» chiesero Krystal e Cheryl insieme.
Gli occhi si erano mossi di qualche millimetro: occhi umidi e arrossati fissi sulla giovane faccia
liscia di Krystal, che a bocca aperta era china sopra la bisnonna, tra la confusione, l’impazienza e
la paura.
«... taggio...» pronunciò, rotta, la vecchia voce.
«Straparla» gridò Cheryl, girandosi verso la coppia in visita alla paziente accanto. «Tre giorni sola
per terra, tre giorni, cazzo. Non c’è da stupirsi se poi...»
Ma Krystal aveva gli occhi velati di lacrime. La stanza, con le sue alte finestre, si dissolse in luci e
ombre bianche; le parve di vedere un lampo, un bel raggio di sole sull’acqua verde chiaro, che si
frammentava in mille schegge scintillanti a ogni colpo di remi.
«Sì» sussurrò a nonna Cath. «Sì, faccio canottaggio, nonna.»
Ma ormai non era più vero, perché Fairbrother era morto.
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VI
«Che cazzo ti sei fatto in faccia? Sei caduto un’altra volta in bici?» chiese Ciccio.
«No» rispose Andrew. «Le ho prese da Simoncino. Stavo cercando di spiegare a quel coglione che
gli avevano dato un’informazione sbagliata su Fairbrother.»
Lui e il padre erano nella rimessa, a riempire le ceste da mettere da una parte e dall’altra del
caminetto del salotto. Simon lo aveva colpito in testa con un ciocco facendolo finire sulla catasta
di legna e la guancia, ricoperta di acne, si era graffiata tutta.
Credi di saperla più lunga di me, eh, merdina pustolosa? Se vengo a sapere che vai in giro a dire
anche una sola parola di quel che succede in casa nostra...
Non ho...
Ti spello vivo, hai capito? Come fai a sapere che non prendeva mazzette anche Fairbrother?
L’altro può essere stato semplicemente l’unico coglione a farsi beccare, no?
Poi, per orgoglio o provocazione, o perché le sue fantasie di denaro facile gli avevano dato tanto
alla testa da resistere anche alla realtà dei fatti, Simon aveva inviato la richiesta di candidatura.
L’umiliazione, con tutte le sue conseguenze per il resto della famiglia, era ormai inevitabile.
Sabotaggio. Andrew si rigirava in testa questa parola. Voleva far scendere il padre da quelle cime
sulle quali era stato spinto dal suo sogno di denaro facile e voleva farlo, ammesso che fosse
possibile (perché preferiva la gloria senza morte), senza che Simon venisse mai a sapere chi aveva
manovrato per mandare in frantumi le sue ambizioni.
Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Ciccio. A Ciccio diceva quasi tutto, ma le poche
omissioni riguardavano i grandi temi, quelli che occupavano quasi tutta la sua vita interiore. Una
cosa era chiudersi in camera con Ciccio a eccitarsi davanti a una scena lesbo online; tutt’altra
cosa era confessargli l’ossessività con cui meditava su come attaccare bottone con Gaia Bawden.
Allo stesso modo, era facile starsene nel cubicolo a dare del coglione a suo padre, ma mai
avrebbe raccontato del freddo alle mani e del nodo allo stomaco che gli davano le sfuriate di
Simon.
Ma poi era arrivato il momento che aveva cambiato tutto. Al principio era stato niente più che un
desiderio di nicotina e bellezza. La pioggia finalmente era cessata e un pallido sole di primavera
risplendeva sulle incrostazioni di fango dei finestrini dello scuolabus, che sterzava e sobbalzava
per le strette vie di Pagford. Andrew era in un posto delle ultime file e non riusciva a vedere Gaia,
che era seduta più avanti, nascosta da Sukhvinder e le orfane Fairbrother, da poco tornate a
scuola. Quel giorno non l’aveva quasi mai incrociata e prevedeva già la serata triste che avrebbe
passato, a cercare di consolarsi con le solite, trite foto di Facebook.
Poco prima che lo scuolabus imboccasse Hope Street, gli venne in mente che i suoi non erano a
casa: nessuno si sarebbe accorto della sua assenza. Nella tasca interna aveva tre sigarette che gli
aveva dato Ciccio; e Gaia si stava alzando, tenendosi forte alla barra del sedile; si preparava a
scendere, sempre chiacchierando con Sukhvinder Jawanda.
Perché no? Perché no?
Così si alzò anche lui, si mise lo zainetto in spalla e, quando lo scuolabus si fermò, si affrettò a
raggiungere le due ragazze che scendevano.
«Ci vediamo a casa» buttò là a Paul, che restò a guardarlo stupefatto.
Saltò sul marciapiede illuminato dal sole e lo scuolabus ripartì. Accendendo una sigaretta, guardò
Gaia e Sukhvinder sopra le mani chiuse a coppa. Non si erano incamminate verso la casa di Gaia,
in Hope Street, ma si allontanavano tranquillamente in direzione della Piazza. Sigaretta in bocca e
sguardo un po’ da duro, in un’impacciata imitazione della persona meno impacciata che avesse
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mai conosciuto – Ciccio – Andrew le seguì, divorando con gli occhi i capelli castanoramati di Gaia
che le rimbalzavano sulle scapole a ogni passo e le oscillazioni della gonna al suo ancheggiare.
Giunte quasi alla Piazza, le due ragazze rallentarono e si diressero verso Mollison & Lowe, il
negozio più d’effetto di tutti, con la sua larga insegna azzurro e oro e i quattro cesti di fiori.
Andrew rallentò per restare un po’ indietro. Le ragazze si fermarono a guardare un piccolo
cartello bianco attaccato alla vetrina del nuovo caffè e poi scomparvero nella salumeria.
Andrew fece il giro della Piazza, passando davanti al Black Canon e all’hotel George, e si fermò
davanti al cartello. Era un annuncio scritto a mano: il negozio cercava personale per i fine
settimana.
Più consapevole che mai della sua acne, che in quei giorni era più virulenta del solito, fece saltar
via l’estremità accesa della sigaretta, si mise in tasca il lungo mozzicone e seguì Gaia e Sukhvinder
dentro la salumeria.
Le ragazze erano accanto a un tavolino sul quale erano impilate scatole di biscotti d’avena e
cracker, a guardare l’uomo dietro il banco, enorme e con un berretto da cacciatore di cervi, che
parlava con un anziano cliente. Quando il campanello tintinnò, Gaia si girò a guardare.
«Ciao» disse Andrew, con la bocca asciutta.
«Ciao» rispose lei.
Stordito dal proprio ardire, Andrew si avvicinò e lo zainetto, che aveva in spalla, andò a sbattere
contro l’espositore girevole pieno di guide di Pagford e di Ricette della West Country. Appoggiò le
mani sull’espositore per tenerlo fermo e si tolse subito lo zainetto dalle spalle.
«Sei qui per il lavoro?» gli chiese Gaia sottovoce, nel suo mirabile accento di Londra.
«Sì» rispose lui. «Tu?»
Lei annuì.
«Mettilo sulla pagina dei suggerimenti, Eddie» stava dicendo Howard con la sua voce stentorea al
cliente. «Postalo sul sito e io lo faccio mettere nell’ordine del giorno. Consiglio locale di Pagford –
una sola parola – punto co, punto uk, slash, Suggerimenti. Oppure clicca sul link. Consiglio...» –
ripeté lentamente mentre il signore, con mano tremante, tirava fuori carta e penna – «...
locale...»
Howard lanciò un’occhiata ai tre ragazzi che aspettavano senza fiatare accanto ai biscotti da
dessert. Indossavano la divisa della Winterdown, o almeno quel che ne restava: le varianti
permesse erano così numerose che ormai non la si poteva neanche più chiamare divisa (a
differenza della divisa della St Anne, che comprendeva una bella gonna scozzese e un blazer).
D’altra parte la ragazza bianca era notevole; un diamante dal taglio perfetto accanto alla figlia
bruttina dei Jawanda, della quale Howard non conosceva il nome, e un ragazzo con i capelli color
topo e delle eruzioni spaventose in faccia.
Con uno scricchiolare di scarpe il cliente uscì e il campanello tintinnò.
«Desideri?» chiese Howard, con gli occhi puntati su Gaia.
«Sì, dunque» disse lei, avvicinandosi al banco. «Mmm. È per il lavoro.» Indicò il piccolo cartello
alla vetrina.
«Ah, sì» fece Howard, raggiante. La nuova cameriera lo aveva mollato qualche giorno prima;
aveva rinunciato al caffè per un posto al supermercato di Yarvil. «Sì, sì. Cerchiamo una cameriera.
Ti interessa? Stipendio minimo, dalle nove alle cinque e trenta il sabato e dalle dodici alle cinque
e trenta la domenica. Apriamo fra due settimane; formazione inclusa. Quanti anni hai, tesoro?»
Era perfetta, perfetta, esattamente come l’aveva immaginata: visino fresco e curve al posto
giusto; se la vedeva già fasciata in un abitino nero con sopra un grembiule bianco dall’orlo
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merlettato. Le avrebbe insegnato a usare la cassa e mostrato il magazzino; si sarebbero scambiati
qualche battuta spiritosa e magari le avrebbe dato un piccolo bonus nelle giornate più proficue.
Howard uscì da dietro il banco e, ignorando Sukhvinder e Andrew, prese Gaia per il braccio e la
trascinò dall’altra parte dell’arco scavato nella parete divisoria. I tavoli e le sedie non c’erano
ancora, ma la cassa era stata installata, come pure era stato realizzato, sulla parete retrostante,
un murale di piastrelle nere e crema che raffigurava una Piazza d’altri tempi. Signore in crinoline
e uomini in cilindro sciamavano dappertutto; un brum era fermo davanti a un’insegna su cui si
leggeva distintamente ‘Mollison & Lowe’ e accanto c’era il piccolo caffè, ‘Il Bricco di Rame’.
L’artista aveva improvvisato una decorativa pompa dell’acqua al posto del monumento ai caduti.
Andrew e Sukhvinder erano stati lasciati a se stessi, impacciati e animati da una vaga rivalità.
«Prego, ditemi pure.»
Da una stanza del retro era sbucata una donna curva, con una cotonatura nero corvino. Andrew e
Sukhvinder farfugliarono che stavano aspettando e poi Howard e Gaia riapparvero sotto l’arco.
Howard, quando vide Maureen, lasciò andare Gaia, che distrattamente aveva continuato a
tenere per il braccio illustrandole le mansioni della cameriera.
«Forse abbiamo trovato qualcuno per il Bricco, Mo» annunciò.
«Ah, sì?» disse Maureen, spostando lo sguardo su Gaia. «Hai già un po’ di esperienza?»
Ma fu subito travolta dal vocione di Howard, che si mise a raccontare a Gaia della salumeria, una
specie di istituzione, a Pagford, come gli piaceva pensare, una specie di riferimento per tutta la
città.
«È qui da trentacinque anni» disse Howard, a dispetto del suo murale. «Mo, la signorina è nuova
di Pagford» aggiunse.
«E voi due? Anche voi cercate lavoro, vero?» chiese Maureen a Sukhvinder e Andrew.
Sukhvinder scosse la testa; Andrew mosse le spalle in un gesto ambiguo; ma Gaia, guardando la
ragazza, disse: «Dai. Avevi detto che magari...»
Howard squadrò Sukhvinder, che in tubino nero e grembiule fru fru molto probabilmente non ci
avrebbe guadagnato; ma la sua mente fertile e flessibile era già all’opera. Una cortesia fatta al
padre – che poteva avere una qualche influenza sulla madre – l’offerta di un servigio non
richiesto... bisognava fare qualche altra considerazione, oltre a quelle puramente estetiche.
«Be’, se il caffè andrà bene come prevediamo, magari potremmo anche assumerne due» disse,
grattandosi i menti e tenendo gli occhi puntati su Sukhvinder, sul cui viso comparve un rossore
tutt’altro che grazioso.
«Non...» cominciò a dire lei, ma Gaia insistette.
«Dai. Noi due insieme.»
Sukhvinder era paonazza e aveva le lacrime agli occhi.
«Io...»
«Dai» sussurrò Gaia.
«Io... va bene.»
«Allora la metteremo alla prova, signorina Jawanda» disse Howard.
Sukhvinder, terrorizzata, non riusciva quasi a respirare. Cos’avrebbe detto sua madre?
«E immagino che tu aspiri a un posto di garzone, vero?» tuonò Howard, rivolto a Andrew.
Garzone?
«Eh, ma qui ci servono muscoli, caro il mio giovanotto» disse Howard, mentre Andrew lo
guardava interdetto: dell’annuncio aveva letto solo la parte scritta in grande. «Pallet da
trasportare in magazzino, casse di latte da andare a prendere in cantina, sacchi della spazzatura
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da portare sul retro. Un vero e proprio lavoro manuale. Pensi di essere in grado?»
«Sì» rispose Andrew. Avrebbe avuto gli stessi orari di Gaia? Solo questo contava.
«Tu dovrai essere qui prima. Alle otto, magari. Per ora facciamo dalle otto alle tre, poi si vedrà.
Due settimane di prova.»
«Sì, va bene» disse Andrew.
«Come ti chiami?»
Howard, a quel nome, sollevò le sopracciglia.
«Tuo padre è Simon? Simon Price?»
«Sì.»
Andrew era agitato. Di solito nessuno sapeva chi era suo padre.
Howard disse alle due ragazze di tornare domenica pomeriggio, quando avrebbero consegnato il
registratore di cassa e lui avrebbe avuto modo di istruirle; poi, benché sembrasse voler
continuare la conversazione con Gaia, entrò un cliente e i ragazzi ne approfittarono per
andarsene.
A Andrew non venne in mente niente da dire, quando si ritrovarono tutti e tre dall’altra parte di
quella porta scampanellante; ma, prima che avesse il tempo di mettere ordine nei pensieri, Gaia
gli lanciò un distratto «allora ciao» e se ne andò con Sukhvinder. Andrew accese la seconda delle
tre sigarette di Ciccio (non era il momento per mezza sigaretta), procurandosi così un pretesto
per stare fermo a guardarla allontanarsi fra le ombre che si allungavano.
«Perché lo chiamano Nocciolina, quel tipo?» chiese Gaia a Sukhvinder, quando non furono più a
portata di orecchi dell’interessato.
«È allergico» rispose Sukhvinder. Era terrorizzata all’idea di dire a Parminder cos’aveva fatto. La
sua voce non le sembrava la sua. «Una volta per poco non è morto, alla St Thomas; qualcuno
gliene aveva messa una in un marshmallow.»
«Ah» disse Gaia. «Credevo che fosse perché aveva il cazzo piccolo.»
Rise, e Sukhvinder si sforzò di ridere anche lei, come se non facesse altro che sentire battute sui
peni, mattina e sera.
Andrew le vide girarsi a guardarlo ridendo e capì che stavano parlando di lui. Quelle risatine
potevano essere un buon segno; questo almeno lo aveva capito, delle ragazze. Rivolgendo un
sorriso al nulla, soltanto all’aria che rinfrescava, si incamminò e, zainetto in spalla, sigaretta in
mano, attraversò la Piazza dirigendosi verso Church Row, dove lo aspettavano quaranta minuti di
salita per arrivare a Casa Bellavista.
Alla luce del crepuscolo le siepi erano di un pallore spettrale, con i loro fiorellini bianchi, da una
parte e dall’altra i prugnoli erano sbocciati e i bordi della stradina erano ricoperti di celidonia, con
le sue foglioline lustre a forma di cuore. Il profumo dei fiori, il piacere profondo della sigaretta e
la promessa dei fine settimana con Gaia: mentre Andrew scarpinava su per la salita, tutto si
mescolava in una meravigliosa sinfonia di felicità e bellezza. La prossima volta che Simon gli
avesse detto: «Ce l’hai un lavoro, Faccia di pizza?» lui avrebbe potuto rispondere «Sì.» Nei fine
settimana sarebbe stato un collega di Gaia Bawden.
Tocco finale, ora sapeva esattamente qual era il modo di vibrare una pugnalata anonima fra le
scapole di suo padre.
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VII
Passato il primo impulso di vendetta, Samantha si pentì amaramente di aver invitato a cena
Gavin e Kay. Venerdì passò tutta la mattina a scherzare con la sua assistente sulla serata orribile
che l’aspettava, ma l’umore colò a picco a fine giornata, dopo aver lasciato a Carly la
responsabilità della Fiera delle Mongolfiere (Howard, la prima volta che aveva sentito il nome del
negozio, aveva riso tanto che gli era venuto un attacco d’asma; Shirley, invece, faceva gli
occhiacci tutte le volte che veniva pronunciato in sua presenza). Samantha, che si era messa in
macchina prima dell’ora di punta per avere il tempo di fare la spesa e cominciare a cucinare,
durante il tragitto cercò di tirarsi su il morale pensando alle domande cattive da fare a Gavin.
Forse poteva chiedere, come parlando fra sé, come mai Kay non si fosse trasferita da lui: sì,
questa non era male.
Dopo, a piedi, tornando dalla Piazza con due borse di Mollison & Lowe zeppe in mano, incrociò
Mary Fairbrother accanto al bancomat della banca di Barry.
«Mary, ciao... come stai?»
Mary era pallida e magra, con un paio di occhiaie grigie. La conversazione fu stentata e strana. Da
quella sera della corsa in ambulanza, Samantha non aveva più parlato con lei, se non per
rivolgerle qualche impacciata parola di condoglianze al funerale.
«Volevo passare da te» disse Mary, «sei stata così gentile... e volevo ringraziare Miles...»
«Non ce n’è bisogno» replicò Samantha, imbarazzata.
«Ma mi farebbe piacere...»
«Oh, ma allora vieni pure...»
Dopo che Mary si fu allontanata, Samantha ebbe la terribile sensazione di aver lasciato intendere
a Mary che quella fosse la serata ideale perché passasse a trovarli.
A casa, mollò le borse in corridoio e telefonò in studio a Miles per dirgli cos’aveva combinato, ma
lui mostrò una tranquillità esasperante alla prospettiva che si aggiungesse una recente vedova al
loro quartetto.
«Non vedo proprio dove sia il problema» disse. «A Mary farebbe bene uscire un po’.»
«Ma non le ho detto che avremmo avuto Gavin e Kay a cena...»
«Gav le è simpatico» replicò Miles. «Non me ne preoccuperei.»
Faceva apposta a mostrarsi ottuso, pensò Samantha, di sicuro per vendicarsi con lei perché non
lo aveva accompagnato a Villa Sweetlove. Dopo aver riagganciato si chiese se fosse il caso di
chiamare Mary per dirle di non venire quella sera, ma temeva di fare la figura della maleducata e
decise di affidarsi alla speranza che Mary, alla fine, non trovasse la forza di andare.
Entrò a grandi passi in soggiorno, fece partire il dvd di Libby, quello della boy band, a tutto
volume per sentirlo dalla cucina, poi portò dentro le borse della spesa e si mise a preparare lo
spezzatino e il Mississippi mud pie, il suo solito dolce di ripiego. Avrebbe voluto comprare una
delle grandi, ricche torte di Mollison & Lowe, per risparmiarsi un po’ di lavoro, ma la notizia
sarebbe subito arrivata a Shirley, che spesso le rimproverava un eccessivo affidamento sui
surgelati e i piatti pronti.
Samantha conosceva ormai tanto bene il dvd della boy band da riuscire a visualizzarne le
immagini abbinandole alla musica che arrivava a tutto volume in cucina. Quella settimana lo
aveva guardato più volte, mentre Miles era di sopra, nel suo studio o al telefono con Howard.
Quando sentì le prime battute della canzone in cui il ragazzo muscoloso camminava sulla
spiaggia, con la camicia che si apriva di colpo al sollevarsi della brezza, andò a guardare, con il
grembiule addosso, succhiandosi assente le dita sporche di cioccolato.
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Aveva in previsione di chiedere a Miles di apparecchiare per poter farsi una bella doccia,
dimenticando che Miles sarebbe arrivato tardi perché doveva andare a prendere le ragazze alla St
Anne, a Yarvil. Quando capì perché non c’era ancora e che al ritorno ci sarebbero state anche le
figlie, dovette preparare al volo la sala da pranzo e poi cercare qualcosa da mangiare da dare a
Lexie e Libby prima dell’arrivo degli ospiti. Quando Miles tornò, alle sette e mezzo, sua moglie
non si era ancora cambiata; la trovò in un bagno di sudore, arrabbiata e propensa a dare la colpa
a lui di un’idea che era stata sua.
Libby, quattordici anni, entrò sparata in soggiorno senza salutare sua madre e tolse il dvd dal
lettore.
«Uffa, non sapevo più dove cercarlo» disse. «Perché c’è la tele accesa? Non lo avrai mica
guardato?»
Certe volte Samantha pensava che sua figlia minore assomigliasse un po’ a Shirley.
«Stavo guardando il telegiornale, Libby. Non ho mica il tempo di guardare dvd. Dai, vieni, la pizza
è pronta. Stasera abbiamo ospiti.»
«Ancora pizza surgelata?»
«Miles! Io vado a cambiarmi. Puoi schiacciare tu le patate? Miles?»
Ma lui era sparito di sopra, così dovette schiacciare lei le patate, mentre le figlie mangiavano
all’isola in mezzo alla cucina. Libby aveva appoggiato la custodia del dvd al suo bicchiere di Pepsi
Diet e la guardava con il desiderio negli occhi.
«Mikey è così seducente» disse, con un grugnito di concupiscenza che lasciò Samantha di stucco;
ma il ragazzo muscoloso si chiamava Jake. Samantha era contenta che non piacesse a tutt’e due
lo stesso ragazzo.
Lexie, tutta animata e sicura di sé, stava raccontando della scuola: una raffica di informazioni su
ragazze che Samantha non conosceva e delle quali non riusciva a seguire gli scherzi, le vendette e
i continui cambiamenti di alleanze.
«Bene, ragazze, adesso devo andare a cambiarmi. Quando avete finito sparecchiate, d’accordo?»
Abbassò il fuoco sotto lo spezzatino e corse di sopra. Miles si stava abbottonando la camicia in
camera da letto, guardandosi allo specchio dell’armadio. La stanza era tutta un profumo di
sapone e dopobarba.
«Situazione sotto controllo, tesoro?»
«Sì, grazie. Mi fa molto piacere che tu abbia avuto il tempo di farti la doccia» sputò Samantha.
Tirò fuori la gonna lunga e la maglia preferite e chiuse l’anta dell’armadio con un colpo secco.
«Tu puoi farla adesso.»
«Arrivano fra dieci minuti; non farei in tempo ad asciugarmi i capelli e truccarmi.» Tirò due calci
per togliersi le scarpe; una finì contro il termosifone, sbattendo sonoramente. «Quando hai finito
di farti bello puoi andare a preparare gli aperitivi, per favore?»
Dopo che Miles fu uscito dalla stanza, lei cercò di districarsi i folti capelli e darsi un’aggiustatina al
trucco. Era un disastro. Solo dopo essersi cambiata si rese conto di aver messo il reggiseno
sbagliato per quella maglia aderente. Dopo una ricerca frenetica, le venne in mente che quello
giusto era giù in lavanderia ad asciugare; corse sul ballatoio ma in quel momento il campanello
suonò. Imprecando, tornò subito in camera da letto. Dalla stanza di Libby arrivava a tutto volume
la musica della boy band.
Gavin e Kay erano arrivati alle otto in punto perché Gavin temeva quello che avrebbe potuto dire
Samantha di un loro eventuale ritardo: che scopando avevano forse perso la nozione del tempo?
Che una lite li aveva trattenuti? Secondo lei, evidentemente, bastava essere sposati per avere il
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diritto di intromettersi nella vita sentimentale altrui e sparare commenti e giudizi. E in più era
convinta che il suo linguaggio volgare e disinibito, soprattutto quando era ubriaca, fosse
espressione di un senso dell’umorismo profondo e penetrante.
«Buonasera, buonasera» disse Miles, arretrando per far entrare Gavin e Kay. «Entrate, entrate.
Benvenuti a Casa Mollison.»
Baciò Kay su entrambe le guance e la liberò dei cioccolatini che aveva in mano.
«Per noi? Grazie, grazie molte. Che piacere conoscerti, finalmente. Gav ti ha tenuta nascosta per
troppo tempo.»
Poi prese la bottiglia di vino dalle mani di Gavin e gli diede una pacca sulla spalla, accolta con
fastidio.
«Venite, venite, Sam ci raggiunge fra un attimo. Cosa vi offro da bere?»
In condizioni normali, Kay avrebbe trovato Miles un po’ viscido e decisamente troppo disinvolto,
ma preferiva sospendere il giudizio. Quando si era in coppia, ciascuno dei due doveva accettare
gli amici dell’altro, cercare di andare d’accordo con loro. Quella serata era un passo avanti
significativo, l’inizio della sua penetrazione in quelle zone della vita di Gavin nelle quali lui le
aveva sempre impedito di entrare, e lei voleva mostrarsi a suo agio, in quella casa grande e
pretenziosa, voleva fargli capire che non c’era più alcun bisogno di escluderla. Così sorrise a
Miles, chiese un bicchiere di rosso e si complimentò per l’ampio soggiorno, con il suo parquet
sabbiato, il divano sovraccarico di cuscini e le litografie incorniciate.
«Abitiamo qui da... uh, quasi quattordici anni, ormai» disse Miles, armeggiando con il cavatappi.
«Tu abiti in Hope Street, vero? Ci sono delle belle casette, lì; si possono fare dei begli affari,
comprando e ristrutturando.»
Comparve Samantha, con un sorriso freddo sulle labbra. Kay, che l’aveva sempre vista in
cappotto, notò la maglia attillata arancione, sotto la quale si indovinava, nei minimi particolari, il
reggiseno lavorato. Il viso era ancora più scuro della pelle cotta dal sole del décolleté; la mano di
ombretto, troppo pesante, era poco lusinghiera; e i pendenti d’oro che le tintinnavano alle
orecchie, insieme ai sabot dorati a tacco alto, secondo Kay erano troppo volgari. Le sembrò di
vedere in Samantha quel genere di donna che ama scatenarsi la sera con le amiche, si diverte da
morire agli spettacolini di striptease regalati ai compleanni e alle feste flirta ubriaca con i mariti di
tutte.
«Ciao» li salutò Samantha. Diede un bacio a Gavin e sorrise a Kay. «Bene, state bevendo. Io
prendo quello che ha preso Kay, Miles.»
Avendo già fatto le sue valutazioni, voltò le spalle per sedersi: Kay aveva il seno piccolo e i fianchi
pesanti e sicuramente aveva scelto un paio di pantaloni neri per sfilare un po’ il sedere. Secondo
lei avrebbe fatto meglio a portare i tacchi, visto che era di gamba corta. Il viso era abbastanza
gradevole: incarnato olivastro, uniforme, grandi occhi scuri e bocca generosa; ma i capelli tagliati
a spazzola e quelle scarpe esasperatamente piatte erano segni inconfondibili di un attaccamento
a certi Valori sacri e inviolabili. Gavin ci era ricascato: si era scelto di nuovo una donna
dominatrice e priva di umorismo che gli avrebbe reso la vita un inferno.
«Allora!» disse Samantha allegramente, sollevando il bicchiere. «A Gavin-e-Kay!»
Sulle labbra di Gavin vide, non senza soddisfazione, un sorriso che era più una smorfia da cane
bastonato; ma non ebbe il tempo di tormentarlo di più né di spremere, da lui o da lei, qualche
confidenza sulla loro vita amorosa perché, di nuovo, suonarono alla porta.
Mary sembrava più fragile e ossuta che mai, soprattutto accanto a Miles, che la condusse in
soggiorno. Una T-shirt le ricadeva come vuota dalle clavicole sporgenti.
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«Oh» disse, fermandosi di colpo sulla porta. «Non sapevo che aveste...»
«Gavin e Kay sono appena arrivati» la interruppe Samantha, scegliendo le parole un po’ a caso.
«Vieni, Mary... posso offrirti qualcosa da bere?...»
«Mary, ti presento Kay» intervenne Miles. «Kay, Mary Fairbrother.»
«Oh» disse Kay, confusa; credeva che ci sarebbero stati solo loro quattro. «Sì, ciao.»
Gavin, avendo capito subito che Mary non aveva previsto una cena con altri ospiti ed era sul
punto di tornarsene da dov’era venuta, batté la mano accanto a sé sul divano; Mary si sedette
con un sorriso incerto. Era felicissimo che ci fosse anche lei. Sarebbe stata il suo paraurti: anche
Samantha era in grado di capire che le sue crasse provocazioni sarebbero state fuori luogo,
davanti a una signora in lutto; e poi il suo arrivo aveva spezzato l’oppressiva simmetria di una
cena a quattro.
«Come stai?» le domandò, sottovoce. «Ti avrei chiamata... per l’assicurazione... ci sono degli
sviluppi...»
«Sam, non abbiamo patatine, salatini...?» chiese Miles.
Samantha uscì dalla stanza, ribollendo di rabbia. Aprì la porta della cucina e fu investita da un
odore di carne bruciata.
«Occazzo, cazzo, cazzo, cazzo...»
Si era dimenticata completamente dello spezzatino, che si era asciugato tutto. Pezzi rinsecchiti di
carne e verdura giacevano derelitti, unici sopravvissuti alla catastrofe, sul fondo bruciacchiato
della pentola. Samantha ci buttò dentro del vino e del brodo, con il cucchiaio raschiò via le
incrostazioni dal bordo della pentola e mescolò energicamente, sudando per il caldo. Dal
soggiorno arrivò la risata stridula di Miles. Samantha mise a cuocere dei broccoli a gambo lungo
nella vaporiera, finì in un sorso il suo bicchiere di vino, aprì una confezione di nachos e un tubetto
di hummus e li vuotò in due ciotole.
Quando tornò in soggiorno, Mary e Gavin erano ancora sul divano a conversare sottovoce,
mentre Miles mostrava a Kay una fotografia aerea di Pagford impartendole una lezione di storia
locale. Samantha dispose le ciotole sul tavolino, si versò ancora da bere e si sedette in poltrona,
senza fare il minimo sforzo di aggregarsi all’uno o all’altro gruppo di conversazione. Che gran
comodità che ci fosse anche Mary: spandeva tanto dolore attorno a sé che era quasi come se
fosse entrata trascinando un sudario. Ma di sicuro se ne sarebbe andata prima della cena.
Gavin era ben deciso a far sì che Mary restasse. Discutendo con lei gli ultimi sviluppi della
battaglia in corso con la compagnia di assicurazioni, era molto più rilassato e padrone di sé di
quanto non fosse di solito in presenza di Miles e Samantha. Nessuno lo seccava, nessuno lo
trattava con condiscendenza e Miles lo stava assolvendo temporaneamente da ogni
responsabilità nei confronti di Kay.
«... e qui, appena fuori dalla visuale» stava dicendo Miles, con il dito posato a pochi centimetri
dal bordo della foto, «c’è Villa Sweetlove, dove abitano i Fawley. Una grande casa padronale
regina Anna, lucernari, conci di pietra... splendida, dovresti visitarla, le domeniche d’estate è
aperta al pubblico. Qui è una famiglia importante, quella dei Fawley.»
«Conci di pietra?» «Famiglia importante?» Oddio, sei proprio un poveraccio, Miles.
Samantha si tirò su dalla poltrona e tornò in cucina. Anche se lo spezzatino era morbido, l’odore
predominante era quello di bruciato. I broccoli erano mosci e insapori; il purè di patate freddo e
asciutto. Ma non poteva importargliene di meno; prese i piatti, ci schiaffò dentro tutto e li sbatté
sul tavolo rotondo della sala da pranzo.
«È pronto!» gridò verso la porta del soggiorno.
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«Oh, devo andare» disse Mary, scattando in piedi. «Non volevo...»
«No, no, no!» la interruppe Gavin, in un tono che Kay non gli aveva mai sentito: gentile,
carezzevole. «Ti farà bene mangiare... i bambini se la caveranno benissimo da soli, per
un’oretta.»
Miles gli diede man forte e Mary guardò incerta Samantha, che fu costretta a insistere a sua volta
e poi a tornare di corsa in sala da pranzo ad aggiungere un posto a tavola.
Invitò Mary a sedersi fra Gavin e Miles, perché metterla accanto a una donna avrebbe significato
sottolineare l’assenza del marito. Kay e Miles erano passati a parlare del lavoro di assistente
sociale.
«Non ti invidio» disse lui, servendole una cucchiaiata di spezzatino; Samantha vide spargersi sul
piatto bianco delle schegge nerastre di carne bruciata. «Che lavoro difficile.»
«Be’, le risorse sono perennemente insufficienti» ammise Kay, «ma può essere un lavoro
gratificante, soprattutto quando ci si rende conto di essere utili alla gente.»
E pensò alla famiglia Weedon. Il giorno prima, al Centro, i campioni di urina di Terri erano risultati
negativi e Robbie era andato all’asilo per una settimana di fila. Era un pensiero che la rallegrava e
che controbilanciava la sua lieve irritazione nel vedere che Gavin si dedicava tutto a Mary senza
preoccuparsi minimamente di aiutare lei a conversare con i suoi amici.
«E hai una figlia, vero, Kay?»
«Sì, Gaia. Ha sedici anni.»
«Come Lexie; dovremmo farle incontrare» disse Miles.
«Divorziata?» chiese Samantha, con delicatezza.
«No» rispose Kay. «Non eravamo sposati. Era un compagno di università e ci siamo lasciati poco
dopo la nascita di Gaia.»
«Già, anche io e Miles eravamo appena laureati» ricordò Samantha.
Kay non capì se, con queste parole, Samantha avesse voluto rimarcare la differenza fra lei, che
aveva sposato quel ciccione pieno di boria che era il padre delle sue figlie, e Kay, che era stata
lasciata... anche se Samantha non poteva sapere che Brendan l’aveva lasciata...
«A proposito, Gaia ha appena trovato lavoro da tuo padre» disse Kay a Miles. «Nei fine settimana
lavorerà nel nuovo caffè.»
Miles ne fu entusiasta. Gli faceva un piacere enorme pensare di essere insieme a Howard parte
integrante del tessuto sociale di Pagford, un elemento al quale tutti, in un modo o nell’altro
erano collegati, chi in veste di amico, chi di cliente, chi di dipendente. Gavin, masticando e
rimasticando un pezzo gommoso di carne che non voleva saperne di arrendersi ai denti, sentì un
peso nuovo posarsi sullo stomaco. Non sapeva che Gaia fosse stata assunta dal padre di Miles. E
aveva scordato che Kay possedeva in Gaia un altro mezzo potente con cui consolidare la sua
presenza a Pagford. Quando Gaia non era nelle immediate vicinanze a sbattere porte e lanciare
occhiate velenose, Gavin tendeva a dimenticare che lei era dotata di esistenza propria; che non
era solo una parte di quel brutto fondale di lenzuola fruste, cattiva cucina e vecchi rancori contro
il quale si trascinava, stentata, la sua storia con Kay.
«A Gaia piace Pagford?» chiese Samantha.
«Be’, è un posto un po’ tranquillo, rispetto a Hackney» rispose Kay, «ma si sta ambientando
bene.»
Bevve un gran sorso di vino per lavarsi la bocca dopo aver vomitato quell’enorme bugia. Ne
sarebbero seguite molte altre, prima della fine della serata.
(«Che cos’hai?» aveva chiesto a Gaia, che era seduta al tavolo, china sopra il portatile, con la
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vestaglia sopra i vestiti. Sullo schermo c’erano quattro o cinque finestre di dialogo aperte. Kay
sapeva che Gaia comunicava online con gli amici lasciati a Hackney, amici che aveva, quasi tutti,
dai tempi delle elementari.
«Gaia?»
Quel suo rifiuto di rispondere era un fatto nuovo e inquietante. Kay era abituata, semmai, alle
esplosioni di rabbia, le proprie, contro se stessa e soprattutto contro Gavin.
«Gaia, sto parlando con te.»
«Lo so, ho sentito.»
«E allora, per favore, mi fai la cortesia di rispondere.»
Nelle finestre della chat, saltellavano messaggi e icone buffe, che ammiccavano e si agitavano.
«Gaia, vuoi rispondermi, per favore?»
«Cosa c’è? Cosa vuoi?»
«Vorrei sapere com’è andata oggi.»
«Di merda. Oggi è andata di merda, ieri è andata di merda e domani andrà di merda.»
«A che ora sei rientrata?»
«Alla solita ora.»
Certe volte, anche dopo tanti anni, Gaia sembrava ancora prendersela con la madre perché
quando tornava lei non era a casa ad aspettarla come facevano le brave mamme delle fiabe.
«Hai voglia di dirmi perché è andata di merda?»
«Perché mi hai portata a vivere in un buco di culo.»
Kay si era sforzata di non urlare. Negli ultimi tempi c’erano state urla che di sicuro si erano sentite
in tutta la via.
«Lo sai, vero, che stasera esco con Gavin?»
Gaia aveva mormorato qualcosa che Kay non aveva colto.
«Cos’hai detto?»
«Ho detto: non credevo che gli piacesse uscire con te.»
«E con questo cosa vorresti dire?»
Ma Gaia non aveva risposto; aveva aggiunto invece una risposta nella chat, sotto le altre che
scorrevano. Kay era combattuta: avrebbe voluto insistere ma aveva paura di quello che avrebbe
potuto udire.
«Saremo a casa verso mezzanotte, credo.»
Gaia non aveva replicato. Kay era andata all’ingresso ad aspettare Gavin.)
«Gaia ha fatto amicizia» disse Kay a Miles «con una ragazza che abita in questa via; si chiama...
Narinder?»
«Sukhvinder» la corressero Miles e Samantha insieme.
«È una brava ragazza» intervenne Mary.
«Hai conosciuto suo padre?» chiese Samantha a Kay.
«No.»
«È un cardiochirurgo» la informò Samantha, che era al quarto bicchiere di vino. «Uno da mille e
una notte.»
«Oh» fece Kay.
«Uguale a una star di Bollywood.»
Nessuno, rifletté Samantha, si era preoccupato di dirle che la cena era squisita, quanto meno per
gentilezza, visto che faceva schifo. E se non poteva tormentare Gavin, nulla le impediva di
punzecchiare un po’ Miles.
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«Dammi retta, Vikram è l’unica cosa bella di questo posto dimenticato da Dio» disse Samantha.
«Puro sesso ambulante.»
«E sua moglie è il medico di base di Pagford» aggiunse Miles, «nonché consigliere locale. Tu
prendi lo stipendio dal Consiglio distrettuale di Yarvil, vero, Kay?»
«Sì. Ma sono quasi sempre ai Fields. Che tecnicamente appartengono a Pagford, giusto?»
No, i Fields no, pensò Samantha. Non tirate fuori quei cazzo di Fields.
«Ah» rispose Miles, con un sorriso di intesa. «Sì, be’, i Fields ricadono sotto l’amministrazione di
Pagford, tecnicamente. Tecnicamente sì. Argomento scottante, Kay.»
«Ah, sì? Come mai?» s’incuriosì Kay, sperando di coinvolgere tutti nella conversazione, visto che
Gavin stava ancora parlando sottovoce con la vedova.
«Be’, sai... è una cosa che risale agli anni Cinquanta.» Miles attaccò un discorso che aveva tutta
l’aria di essere ben collaudato. «A Yarvil volevano ampliare il complesso edilizio di Cantermill e,
invece di costruire a ovest, dove adesso c’è la tangenziale...»
«Gavin? Mary? Dell’altro vino?» si intromise Samantha, coprendo la voce del marito.
«... giocarono un po’ sporco; comprarono della terra senza chiarire bene l’uso che volevano
farne, dopodiché ampliarono il complesso edilizio sconfinando nel territorio di Pagford.»
«E come mai non parli del vecchio Aubrey Fawley, Miles?» chiese Samantha. Aveva finalmente
raggiunto quel grado di ebbrezza che da una parte le incattiviva la lingua e dall’altra le toglieva la
paura delle conseguenze, così che poteva provocare e irritare a volontà, inseguendo
esclusivamente il suo divertimento. «La verità è che il vecchio Aubrey Fawley, che un tempo
possedeva tutti quei bellissimi cionchi di pietra, o come diavolo si chiamano quei cosi che diceva
Miles, fregò tutti quanti...»
«Sam, sei ingiusta» protestò Miles, ma lei gli coprì di nuovo la voce.
«... si liberò di tutta la terra su cui adesso ci sono i Fields, si mise in tasca, non so, un
duecentocinquantamila, una cosa così...»
«Non dire stupidaggini, Sam. Negli anni Cinquanta?»
«... ma poi, quando vide che tutti erano incazzati con lui, cadde dal pero e disse che non aveva
mai immaginato di creare problemi. L’altoborghese dei miei stivali. Alcolizzato, per giunta»
concluse Samantha.
«Tutto assolutamente falso» disse Miles, con fermezza. «Per capire bene come stanno le cose,
Kay, bisogna che tu conosca un po’ di storia locale.»
Samantha, che aveva il mento appoggiato sulla mano, finse di avere un cedimento al gomito per
esprimere la noia. Kay rise, anche se Samantha non riusciva proprio a piacerle, e Gavin e Mary
interruppero la loro sommessa conversazione.
«Stiamo parlando dei Fields» disse Kay, in un tono volto a ricordare a Gavin che lei era lì; che lui
doveva darle un supporto morale.
Miles, Samantha e Gavin si resero conto di colpo, simultaneamente, di quanto fosse indelicato
parlare dei Fields davanti a Mary, dopo che su quel terreno si erano scontrati tanto aspramente
Barry e Howard.
«A quanto pare i Fields sono un argomento un po’ delicato, da queste parti» commentò Kay,
cercando di indurre Gavin a esprimere la sua opinione, coinvolgerlo nella conversazione.
«Mmm» fu il suo commento; poi si rivolse di nuovo a Mary per chiedere: «Allora, come se la cava
Declan a calcio?»
Kay provò una gran fitta di rabbia: Mary poteva anche essere in lutto, ma la sollecitudine di Gavin
era proprio esagerata. La serata che aveva previsto era molto diversa: una cena a quattro in cui
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Gavin sarebbe stato costretto a riconoscere che erano una coppia; invece nessuno, a quella
tavola, avrebbe potuto vedere in loro qualcosa di più di due semplici conoscenti. E, come se non
bastasse, la cucina di Samantha era orribile. Accostò la forchetta e il coltello sul piatto ancora
pieno per tre quarti – un gesto che a Samantha non sfuggì – e si rivolse di nuovo a Miles.
«Tu sei cresciuto a Pagford?»
«Sì, ahimè» rispose Miles, con un sorriso compiaciuto. «Sono nato nel vecchio ospedale Kelland,
in fondo alla via. È stato chiuso negli anni Ottanta.»
«E tu...?» chiese Kay a Samantha, che non le fece neanche finire la domanda.
«Oddio, no. Io sono qui per caso.»
«Scusa, Samantha, ma... tu che lavoro fai?» domandò Kay.
«Io ho un neg...»
«Vende reggiseni, taglie forti» disse Miles.
Samantha si alzò bruscamente da tavola e andò a prendere un’altra bottiglia di vino. Quando
tornò, Miles stava raccontando a Kay il gustoso aneddoto, certamente volto a illustrare come a
Pagford tutti conoscessero tutti, della sera in cui, in macchina, era stato fermato dalla polizia, per
poi scoprire che uno degli agenti era un vecchio amico delle elementari. Samantha conosceva già
per filo e per segno la circostanziata, noiosissima ricostruzione del dialogo avvenuto fra lui e
Steve Edwards. Girando fra i commensali a rabboccare i bicchieri, guardò l’espressione austera di
Kay: secondo Kay, evidentemente, sulla guida in stato di ebbrezza c’era poco da ridere.
«... così Steve prende l’etilometro, io sto per soffiarci dentro e, di punto in bianco, tutti e due
scoppiamo a ridere. Il suo collega resta lì interdetto, così» – e mimò un uomo stupito che ruota la
testa da una parte e dall’altra – «e Steve è piegato in due, se la fa sotto dal ridere, perché in quel
momento abbiamo una sola cosa in testa: il ricordo dell’ultima volta che mi aveva fatto soffiare
dentro qualcosa, una ventina di anni prima, e...»
«Era una bambola gonfiabile» disse Samantha, senza sorridere, afflosciandosi sulla sedia accanto
a Miles. «Miles e Steve la misero nel letto dei genitori del loro amico Ian alla sua festa dei
diciott’anni. Comunque andò a finire che Miles si prese mille sterline di multa e gli tolsero due
punti dalla patente, visto che era la seconda volta che lo beccavano per eccesso di velocità. Da
morir dal ridere.»
Il sorriso di Miles restò stupidamente lì dov’era, come un palloncino sgonfio dimenticato dopo
una festa. Nel breve silenzio che calò, ci fu un momento di gelo. Pur trovando Miles di una noia
mortale, Kay era dalla sua parte: a quella tavola era l’unico a darsi da fare per agevolarle
l’ingresso nella vita sociale di Pagford.
«Devo riconoscere che i Fields sono proprio un quartiere difficile» disse, tornando all’argomento
con cui Miles sembrava più a suo agio e ignorando ancora che la scelta di quel tema, in presenza
di Mary, fosse quanto mai infelice. «Avevo lavorato in centri urbani e non mi aspettavo di vedere
tanto disagio in una zona rurale, ma in realtà la situazione non è molto diversa da quella di
Londra. Certo, qui il miscuglio di etnie non è altrettanto complesso.»
«Eh, sì, anche noi abbiamo la nostra dose di drogati e scarti della società» confermò Miles. «Io mi
fermerei qui, Sam» aggiunse, spingendo avanti il piatto tutt’altro che vuoto.
Samantha cominciò a sparecchiare; Mary si alzò per aiutarla.
«No, no, lascia pure, Mary, tu rilassati» protestò Samantha. Kay si indispettì vedendo che anche
Gavin scattava in piedi e insisteva cavallerescamente perché Mary si sedesse. Ma anche Mary
insistette.
«Era squisito, Sam» disse Mary in cucina, mentre insieme a Samantha buttava nella spazzatura
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gran parte della cena.
«No, faceva schifo» replicò Samantha, che solo alzandosi in piedi aveva capito fino a che punto
era ubriaca. «Kay come ti sembra?»
«Non saprei. Non me l’aspettavo così.»
«Io invece sì» ribatté Samantha, tirando fuori i piatti per il dolce. «La copia precisa di Lisa.»
«Ma no, non dire così. Gavin si meriterebbe qualcosa di meglio, una volta tanto.»
Era un punto di vista assolutamente nuovo, per Samantha: uno smidollato come Gavin, secondo
lei, si meritava solo il castigo perpetuo.
In sala da pranzo, quando tornarono, si era scatenata un’accesa discussione fra Kay e Miles,
mentre Gavin taceva.
«... scrollarsi di dosso tutte le responsabilità e questo mi sembra di un egoismo e un’arroganza...»
«Be’, è interessante che tu abbia usato la parola ‘responsabilità’» disse Miles, «perché è proprio
questo il cuore del problema, ti pare? Il problema è: dove fissiamo il confine?»
«Al di là dei Fields, evidentemente.» Kay rise, con sufficienza. «Tu vorresti tracciare una linea di
demarcazione tra il ceto medio dei proprietari di case e i ceti inf...»
«Pagford è piena di proletari, Kay; solo che loro, quasi tutti, lavorano. Hai idea di quale sia la
percentuale degli abitanti dei Fields che vivono di sussidi? Responsabilità, dici tu: e dov’è andata
a finire la responsabilità individuale? Per anni gli abbiamo garantito un’istruzione nella scuola
locale: bambini nati in famiglie dove nessuno ha mai lavorato, dove nessuno ha la minima idea di
cosa significhi guadagnarsi da vivere; gente che da generazioni non alza un dito... e noi
dovremmo mantenerli...»
«Quindi la tua soluzione sarebbe delegare tutto a Yarvil» ribatté Kay, «invece di occuparsi del
problema con tutti gli anness...»
«Mississippi mud pie?» propose Samantha.
Gavin e Mary, ringraziando, ne presero una fetta ciascuno; con dispetto di Samantha, Kay,
immersa nella discussione con Miles, tese il piatto come se avesse davanti la cameriera.
«... il Centro per la tossicodipendenza, per esempio, una struttura assolutamente indispensabile:
a quanto pare ci sono pressioni perché venga smantellata...»
«Oh, be’, se vogliamo parlare di Bellchapel» disse Miles, scrollando la testa e sorridendo
sarcastico, «spero che ti sia informata bene sulle percentuali di successi, Kay. Penose,
francamente penose. Io li ho visti, i numeri, li guardavo proprio stamattina, e lasciamelo dire,
prima chiudono...»
«E i numeri di cui parli sarebbero...?»
«Le percentuali di successi, Kay, esattamente quel che ho detto: il numero di persone che hanno
smesso di drogarsi, quelle che ne sono uscite...»
«Scusami, ma questo è un modo molto ingenuo di considerare la questione; se pensi di poter
valutare la buona riuscita basandoti esclusivamente...»
«E su che altro dovremmo valutare la buona riuscita di un Centro per la tossicodipendenza?»
chiese Miles, incredulo. «A quanto ne so, a Bellchapel distribuiscono metadone e basta, che fra
l’altro viene poi usato dai pazienti insieme all’eroina.»
«Il problema della tossicodipendenza è estremamente complesso» ribatté Kay, «ed è ingenuo e
semplicistico discuterlo tracciando un confine fra chi fa uso...»
Ma Miles stava scrollando di nuovo la testa, sempre con il sorriso sulle labbra; Kay, che fino a
quel momento si era divertita a duellare con quell’avvocato pieno di sé, si scoprì di colpo
arrabbiata.
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«Be’, ti farò un esempio concreto di quello che sta facendo Bellchapel: sto seguendo una famiglia
– madre, figlia adolescente e figlio piccolo. Be’, se la madre non fosse sotto metadone, sarebbe
su un marciapiede a cercare di pagarsi il vizio; i figli stanno immensamente meglio...»
«Starebbero ancora meglio se fossero tolti alla madre, a quanto capisco» ribatté Miles.
«E dove suggeriresti di mandarli?»
«In affidamento presso una famiglia rispettabile, tanto per cominciare.»
«Sai quante famiglie sono disposte a prendere bambini in affido e quanti bambini ne avrebbero
bisogno?»
«La soluzione migliore sarebbe stata di darli in adozione alla nascita...»
«Fantastico. Aspetta che monto sulla macchina del tempo.»
«Be’, noi conosciamo una coppia che avrebbe tanto voluto adottare un figlio» disse Samantha,
dando inaspettatamente man forte al marito. Non era disposta a perdonare a Kay di averle teso
così maleducatamente il piatto; quella donna era un’arrogante comunista esattamente come
Lisa, che aveva monopolizzato tutte le riunioni fra amici con le sue idee politiche e le sue storie di
avvocato familista, disprezzando Samantha perché aveva un negozio di reggiseni. «Adam e
Janice» rammentò a Miles in un a parte, e lui annuì; «e hanno fatto di tutto, ma non sono mai
riusciti ad avere un bambino, vero?»
«Sì, un bambino piccolo» precisò Kay, sollevando gli occhi al cielo, «tutti vogliono un bambino
piccolo. Robbie ha quasi quattro anni. Porta ancora il pannolino, presenta un ritardo dello
sviluppo e quasi certamente è stato esposto a comportamenti sessuali impropri. Ai vostri amici
piacerebbe adottarlo?»
«Ma il punto è che, se lo avessero tolto alla madre al momento della nascita...»
«Lei non si drogava più, quando è nato, e stava facendo dei progressi...» disse Kay. «Gli voleva
bene e voleva tenerlo, e a quell’epoca riusciva a badare a lui. Aveva già cresciuto Krystal, con
l’aiuto della famiglia...»
«Krystal!» strillò Samantha. «Oddio, stiamo parlando dei Weedon?»
Kay ci rimase malissimo, non avrebbe dovuto fare nomi; a Londra non era una precauzione
importante, ma a Pagford evidentemente si conoscevano proprio tutti.
«Non avrei dovuto...»
Ma Miles e Samantha ridevano, e Mary aveva l’aria tesa. Kay, che era riuscita a mangiare ben
poco e il dolce non lo aveva neanche toccato, si rese conto di aver bevuto troppo; aveva
continuato a sorseggiare vino solo per nervosismo e adesso le era sfuggita una grave
indiscrezione. Ma ormai era troppo tardi per rimediare; la rabbia travolse ogni altra
considerazione.
«Krystal Weedon non fa buona pubblicità alle doti materne di quella donna» sentenziò Miles.
«Ma porca miseria, Krystal ce la sta mettendo tutta per tenere insieme la famiglia» ribatté Kay.
«Vuole un gran bene al fratellino e vive nel terrore che glielo portino via...»
«Io non mi fiderei neanche a lasciarle la responsabilità di cuocere un uovo» disse Miles, e
Samantha rise di nuovo. «Oh, insomma, che voglia bene al fratello le farà anche onore, ma quel
bambino non è mica un orsacchiotto...»
«Sì, lo so» scattò Kay, ricordando il sedere di Robbie, sporco e pieno di croste. «Ciò non toglie che
sia amato.»
«Krystal ha fatto la prepotente con nostra figlia Lexie» intervenne Samantha, «quindi
evidentemente abbiamo visto un lato di lei diverso da quello che mostra a te.»
«Senti, tutti sappiamo che Krystal ne ha passate tante» riprese Miles, «nessuno vuole negarlo. Io
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non me la prendo con lei: me la prendo con quella tossica di sua madre.»
«Be’, si dà il caso che in questo momento se la stia cavando molto bene, a Bellchapel.»
«Ma con il vissuto che si ritrova» disse Miles, «non ci vuole un genio per prevedere che ci
ricascherà, ti pare?»
«Se questa regola valesse per tutti, tu non dovresti avere la patente, visto che in base al tuo
vissuto ti rimetterai al volante ubriaco.»
Per un attimo Miles non seppe cosa dire, ma intervenne Samantha, fredda: «Secondo me è molto
diverso.»
«Ah, sì? Ma il principio è lo stesso.»
«Sì, be’» disse Miles. «Certe volte il problema sono proprio i principi. Spesso basterebbe un po’ di
buon senso.»
«Che è poi il modo in cui di solito chiamiamo i nostri preconcetti» aggiunse Kay.
«Secondo Nietzsche» disse una voce nuova, aspra, facendo trasalire tutti, «la filosofia è la
biografia del filosofo.»
Sulla porta c’era una Samantha in miniatura, una ragazza che poteva avere sedici anni, con il seno
prosperoso, i jeans aderenti e una T-shirt; mangiava un grappolo d’uva e sembrava piuttosto
soddisfatta di sé.
«Ecco Lexie, per chi non la conoscesse» annunciò Miles, con orgoglio. «Grazie, genietto.»
«Non c’è di che» rispose Lexie, impertinente, e sparì su per le scale.
Calò un silenzio greve. Senza sapere bene perché, Samantha, Miles e Kay guardarono tutti in
direzione di Mary, che sembrava sul punto di piangere.
«Caffè» disse Samantha, sollevandosi sulle gambe incerte. Mary scomparve in bagno.
«Andiamo a sederci di là» propose Miles, conscio della tensione generale ma fiducioso di poter
riportare l’armonia grazie a qualche battuta e alla sua simpatia naturale. «Portate i bicchieri.»
Le argomentazioni di Kay non avevano smosso le sue profonde convinzioni più di quanto una
brezza potrebbe spostare un macigno; tuttavia, Miles non provava per lei antipatia, ma semmai
pietà. Pur essendo il meno ubriaco di tutti, dopo i continui rabbocchi di vino, arrivato in soggiorno
si rese conto di avere la vescica che scoppiava.
«Metti su un po’ di musica, Gav; io vado a prendere i cioccolatini.»
Ma Gavin non fece neanche il gesto di avvicinarsi ai cd che riempivano le eleganti colonne di
plexiglas. Sembrava aspettare le accuse di Kay. E infatti, non appena Miles fu uscito, Kay sibilò:
«Be’, grazie tante, Gav. Grazie del sostegno.»
Gavin aveva bevuto per tutta la cena ancora più avidamente di Kay, per festeggiare in proprio la
fortuna di non essere stato offerto in sacrificio alla furia sarcastica di Samantha. Guardò in faccia
Kay, pieno di un coraggio nato non solo dal vino ma dal fatto che per un’ora intera Mary lo avesse
trattato da persona importante, competente e preziosa.
«Mi pareva che te la stessi cavando benissimo da sola» rispose.
In effetti, quel poco che aveva ascoltato della discussione di Kay e Miles aveva suscitato in lui una
netta impressione di déjà-vu; se non ci fosse stata Mary a distrarlo, probabilmente gli sarebbe
sembrato di rivivere la sera famosa in cui, in quella stessa sala da pranzo, Lisa aveva detto a Miles
che in lui si riassumevano tutte le storture della società, Miles le aveva riso in faccia e lei aveva
perso le staffe e se n’era andata prima del caffè. Non molto tempo dopo, Lisa aveva ammesso di
essere stata a letto con un socio del suo studio e consigliato a Gavin di fare il test per la clamidia.
«Io sono lì, in mezzo a gente che non conosco» disse Kay, «e tu non alzi neanche un dito per
aiutarmi!»
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«Cosa volevi che facessi?» chiese Gavin, con una serenità olimpica, protetto com’era
dall’imminente ritorno dei Mollison e di Mary, oltre che dalla gran quantità di Chianti
trangugiato. «Non avevo nessuna voglia di parlare dei Fields. Non me ne frega niente dei Fields. E
poi» aggiunse, «per Mary è un argomento delicato; Barry stava combattendo in Consiglio perché i
Fields continuassero a essere parte di Pagford.»
«E allora perché non me l’hai detto? Potevi fare un’allusione, farmelo capire.»
Lui rise, esattamente come Miles aveva riso di lei. Kay non fece in tempo a ribattere perché gli
altri tornarono, sfilando come i Re magi con i doni: Samantha portava un vassoio con le tazze,
Mary, dietro di lei, la caffettiera e, ultimo, Miles con i cioccolatini. Kay vide il fiocco sgargiante
sulla confezione e ripensò all’ottimismo con cui, comprando quei cioccolatini, aveva pregustato la
serata. Distolse lo sguardo, cercando di nascondere la rabbia, fremendo dalla voglia di urlare
contro Gavin e anche dalla voglia, improvvisa e sconcertante, di piangere.
«È stata un bella serata» sentì che Mary diceva, con la voce un po’ impastata: anche lei
evidentemente aveva pianto. «Ma non resto per il caffè, non voglio essere a casa tardi; Declan è
un po’... un po’ fragile, in questo momento. Grazie mille, Sam, grazie, Miles, mi ha fatto bene... sì,
insomma, uscire un po’.»
«Ti accompagno...» cominciò Miles, ma Gavin, con fare deciso, aveva già sovrastato la sua voce.
«Tu stai qui, Miles. Ci penso io a Mary. Mary, ti accompagno a casa. Sono solo cinque minuti. Là
in fondo alla via è così buio...»
Kay non riusciva quasi a respirare; era tutta concentrata a odiare l’arrogante Miles, la volgare
Samantha e la fragile, gracile Mary, ma più di tutti lui, Gavin.
«Ma certo» sentì la propria voce che diceva, mentre tutti la guardavano come in attesa del suo
benestare, «sì, sì, accompagna Mary a casa, Gav.»
La porta si chiuse, Gavin era andato. Miles stava versando il caffè. Lei guardò scendere il liquido
caldo e scuro e capì di colpo, con dolore, quanto aveva rischiato rivoluzionando la sua vita per
l’uomo che si stava allontanando nella notte con un’altra donna.
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VIII
Colin Wall vide Gavin e Mary passare sotto la finestra del suo studio. La silhouette di Mary la
riconobbe subito, ma prima che uscissero dall’alone di luce gettato dal lampione dovette
strizzare gli occhi per identificare l’uomo longilineo che l’accompagnava. Colin, davanti al
computer, restò mezzo sollevato dalla sedia a guardare a bocca aperta le due figure che
scomparivano nel buio.
La scena lo scosse profondamente: era convinto che Mary stesse osservando una specie di
purdah; che il santuario della sua casa fosse aperto esclusivamente alle donne, fra le quali Tessa,
che andava ancora da lei tutti i giorni. Non era mai stato sfiorato dal pensiero che Mary potesse
intrattenere rapporti sociali dopo il calar della sera, men che mai con uno scapolo. Si sentì
tradito: come se Mary gli avesse messo spiritualmente le corna.
Mary aveva consentito a Gavin di vedere il corpo di Barry? Gavin trascorreva le serate nella
poltrona preferita di Barry accanto al caminetto? Gavin e Mary erano... era mai possibile che
fossero...? In fondo erano cose che capitavano, capitavano tutti i giorni. Forse... forse ancora
prima della morte di Barry...?
Colin si trovava costretto a inorridire continuamente di fronte alla decadenza morale altrui. E per
proteggersi cercava di immaginare il peggio: evocava visioni di tradimenti e depravazione, invece
di aspettare che la verità esplodesse come una bomba lacerando il velo delle sue candide
illusioni. La vita, per Colin, era una lunga preparazione al dolore e alla delusione, e tutti, tranne
sua moglie, fino a prova contraria erano nemici.
Gli venne quasi voglia di scendere a dire a Tessa cos’aveva appena visto, perché forse lei poteva
dargli una spiegazione confortante di quella passeggiata notturna di Mary e convincerlo che la
vedova del suo migliore amico era sempre stata fedele al marito e lo era ancora. Tuttavia
resistette all’impulso, perché con Tessa era arrabbiato.
Perché Tessa mostrava così poco interesse per la sua prossima candidatura al Consiglio? Non
capiva l’ansia che lo divorava da quando aveva inviato la richiesta? Era un’ansia che aveva
previsto, certo, ma le previsioni non erano servite ad attenuarla, come vedere il treno che ti corre
incontro sui binari non attenua l’impatto; anzi, così Colin soffriva due volte: prima e durante la
catastrofe.
Le sue nuove angosciose fantasticherie ruotavano attorno ai Mollison e ai possibili stratagemmi
che avrebbero usato per attaccarlo. Si rivoltava continuamente in testa controargomentazioni,
spiegazioni, giustificazioni. Si vedeva già assediato, a combattere per la sua reputazione. La
tendenza paranoica che aveva sempre caratterizzato il suo rapporto con la realtà si stava facendo
più pronunciata; e intanto Tessa non accennava il minimo gesto per cercare di alleviargli quella
tensione tremenda che lo tormentava.
Lei non avrebbe voluto che si candidasse, lo sapeva. Forse anche lei aveva paura, forse temeva
che Howard Mollison scoperchiasse il putridume del loro passato e ne spargesse gli orribili segreti
per tutta Pagford, dandoli in pasto agli avvoltoi.
Colin aveva già fatto qualche telefonata a coloro sui quali Barry aveva contato. Era rimasto
sorpreso e incoraggiato dal fatto che nessuno di loro avesse contestato le sue credenziali o
l’avesse interrogato sulle questioni più spinose. Tutti, senza eccezione, avevano espresso il più
profondo cordoglio per la scomparsa di Barry e la più intensa avversione nei confronti di Howard
Mollison, «quel gran pezzo di bastardo», come l’aveva chiamato uno degli elettori più schietti.
«Ci vuol rifilare suo figlio, quello. Quando ha saputo che Barry era morto gli scappava da ridere.»
Colin, che si era preparato un elenco di argomentazioni a favore dei Fields, non aveva avuto
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bisogno di guardare il foglio nemmeno una volta. Per il momento, pareva che le sue principali
qualità di candidato fossero di essere stato amico di Barry e non chiamarsi Mollison.
La miniatura del suo ritratto in bianco e nero gli sorrideva dallo schermo del computer. Era tutta
la sera che cercava di scrivere il volantino per la campagna elettorale, per il quale aveva deciso di
usare la stessa fotografia del sito della Winterdown: inquadratura frontale, un sorriso
leggermente anodino, la fronte impervia e lucida. L’immagine aveva a suo favore di essere già
stata sottoposta al pubblico giudizio senza avergli arrecato ridicolo né rovina: un pregio che ne
raccomandava fortemente l’utilizzo. Ma sotto la fotografia, dove avrebbe dovuto esserci il profilo
biografico, c’erano due misere frasette incerte. Colin aveva passato le ultime due ore a comporre
parole e subito cancellarle; a un certo punto era riuscito a scrivere un periodo intero, per poi
distruggerlo, lettera dopo lettera, battendo nervosamente l’indice sul tasto di ritorno.
Incapace di sopportare l’incertezza e la solitudine, scattò in piedi e scese al piano di sotto. Tessa
era sdraiata sul divano del soggiorno e sembrava assopita, con il vocio della televisione nel
sottofondo.
«Come va?» chiese insonnolita, aprendo gli occhi.
«È appena passata Mary, giù nella via. Con Gavin Hughes.»
«Ah» disse Tessa. «Sì, mi aveva detto che sarebbe andata da Miles e Samantha. Evidentemente
c’era anche Gavin. Si vede che la stava accompagnando a casa.»
Colin inorridì. Mary che andava a trovare Miles, l’uomo che voleva prendere il posto di suo
marito, l’avversario di tutte le cause per le quali Barry si era battuto tanto?
«E che diavolo ci faceva dai Mollison?»
«Lo sai, no, che l’avevano accompagnata in ospedale?» spiegò Tessa, che con un piccolo gemito si
mise seduta e si stiracchiò le gambe. «Da allora non aveva avuto occasione di sentirli. Voleva
ringraziarli. Hai finito di scrivere il testo per il volantino?»
«Quasi. Senti, nelle informazioni – insomma, nel profilo biografico – metto anche le esperienze
precedenti? O solo la Winterdown?»
«Secondo me basta l’occupazione attuale. Ma perché non chiedi a Minda? Lei...» Tessa sbadigliò,
«... lei sa come si fa.»
«Sì» disse Colin. Aspettò, in piedi accanto a lei, ma Tessa non gli offrì il suo aiuto, né chiese di
leggere cos’aveva già scritto. «Sì, buona idea» aggiunse lui, alzando un po’ la voce. «Chiederò a
Minda di dare un’occhiata.»
Lei emise un altro gemito, massaggiandosi le caviglie, e lui uscì dalla stanza, pieno di orgoglio
ferito. Sua moglie non capiva proprio quanto stava male: l’insonnia, i crampi allo stomaco.
Tessa aveva solo finto di dormire. Dieci minuti prima era stata svegliata dai passi di Mary e Gavin.
Gavin, lo conosceva appena; aveva quindici anni meno di lei e Colin, ma il più grande ostacolo per
l’instaurazione di un rapporto d’amicizia era stata la gelosia che Colin provava per tutte le
persone legate a Barry.
«È stato meraviglioso, in questa storia dell’assicurazione» aveva detto Mary a Tessa al telefono
qualche ora prima. «Li chiama tutti i giorni, a quanto ho capito, e continua a dirmi di non
preoccuparmi per la parcella. Dio santo, Tessa, se quelli non pagano...»
«Vedrai che Gavin risolverà tutto» la rassicurò Tessa. «Ne sono certa.»
Sarebbe stato bello, pensò, ancora sul divano, indolenzita e assetata, che Mary stesse un po’ con
loro, tanto per cambiare aria e mangiare come si deve, ma c’era una barriera invalicabile: Mary
trovava Colin intrattabile, pesante. Questo fatto spiacevole, rimasto a lungo nascosto, era emerso
dopo la morte di Barry, lentamente, come relitti lasciati sulla riva al rifluire della marea. Che Mary
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volesse avere a che fare solo con Tessa non poteva essere più chiaro: scansava qualsiasi offerta
d’aiuto di Colin e cercava di tagliare corto quando lo sentiva al telefono. Si erano frequentati per
anni, tutti e quattro insieme, e l’avversione di Mary non era mai trapelata, nascosta,
evidentemente, dalla simpatia di Barry.
Per far fronte a quella nuova situazione, Tessa aveva dovuto dar prova di grande delicatezza. Era
riuscita a convincere Colin che Mary, in quel frangente, preferisse la compagnia delle donne.
Unico suo insuccesso era stato il funerale: quando la folla era uscita da St Michael, Colin era
riuscito a stanare Mary e aveva cercato di dirle, tra i singhiozzi convulsi, che si sarebbe candidato
per il seggio di Barry al Consiglio, per portare avanti il suo lavoro, per garantire a Barry la vittoria
finale, sebbene postuma. A Tessa non era sfuggita l’espressione di offesa e sdegno sul viso di
Mary, e lo aveva trascinato via.
Da allora, Colin aveva dichiarato un paio di volte l’intenzione di andare a mostrare a Mary il
materiale per la candidatura e chiederle cosa ne avrebbe pensato Barry; aveva perfino espresso il
proposito di farsi aiutare da lei a capire come Barry avrebbe condotto la campagna elettorale.
Alla fine Tessa aveva dovuto dirgli chiaro e tondo di non assillare Mary con le questioni del
Consiglio. Lui si era stizzito, ma Tessa preferiva vedere Colin arrabbiato con lei piuttosto che Mary
gravata di altre pene o costretta a rispondergli con un secco rifiuto, com’era successo quando lui
aveva insistito per vedere il corpo di Barry.
«Certo che... proprio i Mollison!» disse Colin, rientrando nella stanza con una tazza di tè. Non ne
aveva offerta una a Tessa: uno dei suoi piccoli gesti di egoismo, tipici di quando era troppo preso
dalle sue preoccupazioni. «Di tutte le persone con cui passare una serata. Gli oppositori di tutto
quello per cui Barry lottava!»
«Mi pare che esageri un po’, Col» replicò Tessa. «E poi a Mary non sono mai interessati i Fields
come a Barry.»
Ma Colin aveva un solo modo di intendere l’amore: per lui era lealtà incondizionata, tolleranza
infinita; e Mary aveva perso la sua stima, irreparabilmente.
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IX
«E dov’è che vai?» chiese Simon, piantato in mezzo al piccolo corridoio.
La porta di casa era aperta e la veranda a vetri alle sue spalle, piena di scarpe e cappotti, era
accecante, al bel sole di quel sabato mattina, e trasformava Simon in una sagoma scura. La sua
ombra si allungava sui gradini, fino a sfiorare quello su cui stava Andrew.
«In città con Ciccio.»
«I compiti? Finiti?»
«Sì.»
Era una bugia, ma Simon non si sarebbe preoccupato di controllare.
«Ruth! Ruth!»
Lei comparve sulla porta della cucina, con addosso il grembiule, rossa in viso, le mani sporche di
farina.
«Cosa c’è?»
«Ci serve qualcosa in città?»
«Eh? Mi pare di no.»
«Ci vai con la mia bici, vero?» chiese Simon a Andrew.
«Sì, pensavo di sì...»
«E la lasci da Ciccio?»
«Sì.»
«A che ora deve essere a casa?» disse Simon, rivolto di nuovo a Ruth.
«Non lo so, Simon» disse Ruth, spazientita. Le rare volte che si lasciava prendere dall’irritazione
davanti al marito erano quelle in cui lui, nonostante il relativo buonumore, si metteva a dettar
legge per il solo gusto di farlo. Andrew e Ciccio andavano spesso insieme in città, con il tacito
accordo che Andrew tornasse prima che facesse buio.
«Alle cinque, allora» decise Simon, arbitrariamente. «Un minuto di ritardo e per un bel po’ non
esci più.»
«Va bene» replicò Andrew.
Aveva la mano nella tasca della giacca, stretta attorno a un pezzo di carta ben ripiegato che non
gli usciva mai di mente, come una bomba a orologeria. La paura di perdere quel biglietto, sul
quale c’erano un codice annotato con cura e un certo numero di frasi cancellate, riformulate e
corrette, lo tormentava da una settimana. Se lo teneva sempre addosso e prima di dormire lo
infilava nella federa del cuscino.
Simon non si spostava, così Andrew, per uscire, dovette aggirarlo piano piano, con le dita serrate
attorno al pezzo di carta. Aveva il terrore che Simon gli facesse vuotare le tasche, per scoprire
eventuali sigarette.
«Allora ciao.»
Simon non rispose. Andrew entrò nel garage, dove tirò fuori il biglietto, lo aprì e lo lesse. Sapeva
che era irrazionale, sapeva che Simon, con la sua sola vicinanza, non poteva aver magicamente
trasformato quel pezzo di carta, ma volle controllare lo stesso. Rassicurato, lo ripiegò, se lo cacciò
di nuovo in tasca, ancora più in fondo, chiuse la tasca con l’automatico, spinse la bici fuori dal
garage e poi fuori dal cancello. Sentiva che suo padre lo guardava dalla porta a vetri della veranda
sperando, Andrew ci avrebbe giurato, di vederlo cadere o rovinare la bici in qualche altro modo.
Ai piedi di Andrew, Pagford era avvolta nella nebbiolina di quella giornata primaverile di sole,
l’aria fresca e frizzante. Quando Andrew pensò di essere uscito dalla visuale di Simon, fu come se
dalle sue spalle si sollevasse un peso.
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Si precipitò giù per la strada che portava in paese senza mai toccare i freni; poi svoltò in Church
Row. Più o meno a metà della via rallentò e, dandosi un contegno, imboccò in bicicletta il vialetto
di casa Wall, badando a non sfiorare la macchina di Cubicolo.
«Ciao, Andy» disse Tessa, aprendogli la porta.
«Buongiorno, signora Wall.»
Andrew condivideva il costume diffuso di vedere nei genitori di Ciccio due personaggi ridicoli.
Tessa era cicciotta e bruttarella, aveva una pettinatura assurda e delle mise imbarazzanti, mentre
Cubicolo faceva ridere per la sua ansia; eppure Andrew non poteva fare a meno di pensare che,
se i Wall fossero stati i suoi genitori, avrebbe avuto la tentazione di provare simpatia per loro.
Erano così educati, così gentili. A casa loro non si provava mai la sensazione che il pavimento
potesse aprirsi di colpo e sprofondare tutti nel caos.
Ciccio era seduto sul primo gradino, a infilarsi le scarpe da ginnastica. Dal taschino della giacca
sporgeva, chiaramente visibile, un pacchetto di tabacco.
«Arf.»
«Ciccio.»
«Vuoi mettere la bici di tuo padre in garage, Andy?»
«Sì, grazie, signora Wall.»
(Diceva sempre ‘tuo padre’, rifletté Andrew, mai ‘tuo papà’. Sapeva che Tessa detestava Simon; e
questa era una delle ragioni per cui era disposto a chiudere un occhio su quegli orribili vestiti
informi e quella frangia ingenerosa che sembrava tagliata con l’accetta.
L’antipatia di Tessa per Simon risaliva a quell’atroce, memorabile sabato di tanti anni prima in cui
Ciccio, che all’epoca aveva sei anni, era venuto per la prima volta a passare il pomeriggio a Casa
Bellavista. Nel garage, i due ragazzi, precariamente in bilico su uno scatolone per cercare di
prendere due vecchie racchette da badminton, avevano inavvertitamente fatto inclinare una
mensola traballante con tutto il suo carico.
Andrew ricordava la lattina dell’impregnante che cadeva e si apriva sbattendo sul tettuccio
dell’auto, l’angoscia che lo aveva preso e la sua incapacità di far capire all’amico, che intanto se la
ridacchiava, quale disastro si fossero tirati addosso.
Simon aveva sentito lo schianto. Era corso in garage, era avanzato verso di loro, con la mascella in
fuori e il verso animalesco che gli usciva di bocca, e poi si era messo a inveire, a minacciare
punizioni corporali spaventose, con i pugni serrati che sfioravano le loro faccine sconvolte.
Ciccio se l’era fatta sotto. Un rivolo di urina, scendendo per l’interno dei pantaloni, era colato per
terra. Ruth, sentite le urla dalla cucina, era accorsa per intervenire: «No, Simon... Simon, no... non
l’hanno fatto apposta.» Ciccio era pallido e tremava; voleva andare subito a casa; voleva la sua
mamma.
Era arrivata Tessa, e Ciccio, con i pantaloni bagnati, era corso in lacrime nelle sue braccia. Quella
era stata la prima e unica volta che Andrew avrebbe mai visto suo padre, inerme, fare marcia
indietro. Tessa, senza alzare la voce, senza levare minacce, senza alzare le mani, era riuscita a
esprimere tutto il suo furore: aveva compilato un assegno e lo aveva cacciato in mano a Simon,
con Ruth che intanto diceva: «No, no, non c’è bisogno, non c’è bisogno.» Simon l’aveva
accompagnata alla macchina cercando di buttarla sul ridere; ma Tessa gli aveva lanciato
un’occhiata di disprezzo, aveva messo Ciccio, ancora in lacrime, sul sedile del passeggero, era
montata anche lei e aveva sbattuto la portiera sul muso di Simon e sul suo sorriso. Andrew
l’aveva vista, l’espressione in faccia ai suoi: Tessa stava portando via con sé, giù per la discesa che
conduceva al paese, una cosa che di solito restava nascosta nella casa in cima alla collina.)
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Negli ultimi tempi Ciccio corteggiava Simon. Tutte le volte che veniva a Casa Bellavista ce la
metteva tutta per farlo ridere; e Simon, dal canto suo, accoglieva Ciccio a braccia aperte,
mostrava di divertirsi alle sue battute più volgari e di apprezzare i resoconti delle sue bricconate.
Tuttavia, quando era solo con Andrew, Ciccio era il primo a riconoscere, e con tutto il cuore, che
suo padre era uno stronzo fuoriclasse.
«Secondo me è lesbica» disse Ciccio, mentre passavano davanti alla Vecchia Canonica, buia
all’ombra del pino silvestre, con l’edera che ricopriva la facciata.
«Chi, tua mamma?» disse distrattamente Andrew, che lo ascoltava da un orecchio solo, perso nei
suoi pensieri.
«Eh?» scattò Ciccio, e Andrew vide che era indignato sul serio. «Vaffanculo. Sukhvinder
Jawanda.»
«Ah, ecco. Certo.»
Andrew rise e, dopo un po’, rise anche Ciccio.
L’autobus per Yarvil era affollato; Andrew e Ciccio dovettero sedersi l’uno accanto all’altro, invece
che su due sedili doppi come preferivano fare. Arrivati in fondo a Hope Street, Andrew gettò
un’occhiata lungo la via, ma non vide nessuno. Non vedeva Gaia dal pomeriggio in cui avevano
trovato lavoro al Bricco di Rame. Il caffè avrebbe aperto il fine settimana seguente; tutte le volte
che ci pensava provava un moto di euforia.
«Allora, Simoncino sta preparando la campagna elettorale?» chiese Ciccio, impegnato a rollare
sigarette. Aveva una gamba che sporgeva dal sedile e le persone, per passare, invece di chiedergli
di spostarla la scavalcavano. «Cubicolo si sta già cagando addosso, ed è ancora al volantino.»
«Sì, si sta dando da fare» rispose Andrew, e sopportò impassibile il panico che sentì esplodergli
nello stomaco.
Pensò ai suoi genitori al tavolo della cucina, dove li aveva visti tutte le sante sere dell’ultima
settimana; pensò a quegli stupidi volantini che Simon si era stampato in tipografia; alla scaletta
che Ruth lo aveva aiutato a preparare e che lui, ogni sera, teneva sotto gli occhi telefonando a
qualsiasi persona di sua conoscenza abitasse nella circoscrizione elettorale. Tutte cose che
parevano costargli uno sforzo sovrumano. Era stressato più che mai e ancora più aggressivo del
solito con i figli, come se si fosse sobbarcato un peso che sarebbe dovuto toccare a loro. A cena si
parlava sempre e soltanto di elezioni, con Simon e Ruth che almanaccavano sulle forze schierate
contro di lui. Prendevano come un affronto personale il fatto che altri avessero presentato la
candidatura per il posto di Barry Fairbrother e sembravano convinti che Colin Wall e Miles
Mollison passassero il tempo a tramare insieme rivolgendo lo sguardo verso Casa Bellavista,
nell’unico intento di sconfiggere l’uomo che viveva lassù.
Andrew controllò di nuovo se nella tasca c’era il biglietto ripiegato. Non aveva parlato a Ciccio dei
suoi propositi. Aveva paura che diffondesse la notizia; non era sicuro di riuscire a fargli cogliere
l’importanza della segretezza assoluta, di riuscire a ricordargli che il pazzo maniaco che una volta
aveva fatto pisciare addosso un bambino era ancora vivo e vegeto e abitava nella casa di Andrew.
«Cubicolo non teme granché Simoncino» riprese Ciccio. «Secondo lui la grande sfida è con Miles
Mollison.»
«Già» disse Andrew. Lo aveva sentito dire dai suoi. Sembravano tutti e due convinti che Shirley li
avesse traditi; che avrebbe dovuto impedire al figlio di presentarsi contro Simon.
«Sai, per Cubicolo è una specie di crociata» gli spiegò Ciccio, rollando una sigaretta tra il pollice e
l’indice. «Ha raccolto la bandiera del suo compagno caduto. Il caro Barry Fairbrother.»
Con un fiammifero spinse bene dentro la sigaretta i pezzetti di tabacco.
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«La moglie di Miles Mollison ha delle tette gigantesche» disse.
Un donna anziana seduta davanti a loro si girò per fulminare Ciccio con lo sguardo. Andrew
ricominciò a ridere.
«Due cocomeri da competizione» disse Ciccio a voce alta, dritto in quella faccia truce e rugosa.
«Due grosse e succulente mammelle.»
La signora, paonazza, tornò lentamente a guardare davanti a sé. Andrew non riusciva quasi più a
respirare.
Scesero dall’autobus nel centro di Yarvil, vicino alla zona pedonale e alla più importante strada
commerciale, e si fecero largo tra la folla, fumando le sigarette di Ciccio. Andrew non aveva
praticamente più soldi: lo stipendio di Howard Mollison sarebbe stata una manna.
La sgargiante insegna arancione dell’Internet café sembrava chiamarlo da lontano, invitandolo a
osare. Non riusciva a concentrarsi su quanto stava dicendo Ciccio. Allora, lo fai? continuava a
chiedersi. Lo fai?
Non ne era certo. I piedi avanzavano e l’insegna si ingrandiva a vista d’occhio, lo tentava, lo
ammaliava.
Se vengo a sapere che vai in giro a dire anche una sola parola di quel che succede in casa nostra,
ti spello vivo.
Ma l’alternativa... l’umiliazione di vedere Simon mostrare a tutti il suo vero volto; il dazio che
sarebbe ricaduto sulla famiglia quando, dopo settimane di attesa stupida e febbrile, sarebbe
stato sconfitto com’era destino... allora sarebbero arrivati la rabbia e il rancore, e la ferma
volontà di far pagare agli altri le sue folli decisioni. Solo la sera prima Ruth aveva detto, tutta
allegra: «I ragazzi andranno in giro per Pagford a mettere i volantini nelle buche della posta.»
Andrew, con la coda dell’occhio, aveva visto l’espressione di orrore in faccia a Paul e il suo
tentativo di attirare lo sguardo del fratello.
«Voglio entrare lì» mormorò Andrew, andando a destra.
Comprarono i biglietti con sopra i codici e si sedettero ciascuno davanti a un computer, divisi da
due posti occupati. L’uomo di mezza età alla destra di Andrew puzzava di fumo e sudore e
continuava a tirare su col naso.
Andrew aprì Internet e digitò l’indirizzo del sito: Consiglio... locale di... Pagford... punto... co...
punto... uk.
Nella homepage era raffigurato lo stemma bianco e azzurro della città e compariva una fotografia
di Pagford scattata da un punto non lontano da Casa Bellavista, con l’abbazia di Pargetter
stagliata controluce. Il sito, come Andrew sapeva già, avendolo guardato a un computer della
scuola, aveva l’aria datata e amatoriale. Non aveva osato entrarci dal suo portatile; suo padre
poteva anche non capirci niente, di computer, ma lui non si sentiva di escludere che potesse
trovare qualcuno sul lavoro capace di aiutarlo a investigare, a cose fatte...
Benché quel posto fosse pieno di gente e potesse garantirgli un certo anonimato, era impossibile
evitare che comparisse la data del post e fingere che lui quel giorno non fosse mai stato a Yarvil;
ma Simon non aveva mai messo piede in un Internet café e forse non sapeva neanche che
esistessero dei posti del genere.
Era doloroso sentire quelle rapide contrazioni del cuore. Scorse rapidamente la bacheca, che non
sembrava molto frequentata. C’erano dei thread intitolati Raccolta rifiuti – richiesta info e Nuovo
organico nel bacino di utenza scolastico Crampton e Little? All’incirca un post ogni dieci era
dell’amministratore, che allegava il verbale dell’ultimo Consiglio. L’ultimo thread, in fondo alla
pagina, era intitolato: Morte del consigliere Barry Fairbrother. Quest’ultimo era stato visto da 152
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utenti e presentava quarantatré risposte. Poi, sulla seconda pagina della bacheca, Andrew trovò
quel che aveva sperato di trovare: un post del defunto.
Due mesi prima, il gruppo di informatica di Andrew era stato seguito da un giovane supplente,
uno che aveva cercato di fare il figo per ingraziarsi la classe. Non avrebbe neanche dovuto
nominarle, le SQL injections: Andrew era abbastanza sicuro di non essere stato l’unico a tornare a
casa e guardarle su Internet. Tirò fuori il foglietto su cui aveva scritto il codice che aveva trovato a
scuola nei momenti liberi e andò sulla pagina di log-in del sito. Tutto il suo piano era fondato
sull’ipotesi che il sito fosse stato costruito molto tempo prima da un dilettante; che non fosse mai
stato concepito alcun sistema di protezione contro la più semplice e più classica tecnica di
hackeraggio.
Lentamente, usando solo il dito indice, inserì il codice miracoloso.
Lo rilesse due volte, assicurandosi che ogni apostrofo fosse dove doveva essere, esitò un secondo
sull’orlo dell’abisso, respirando affannosamente, poi schiacciò Invio.
Boccheggiò, felice come un bambino, e si trattenne a stento dall’urlare o agitare il pugno in segno
di vittoria. Era riuscito a penetrare in quel ridicolo sito al primo tentativo. Sullo schermo davanti a
lui c’erano le credenziali di Barry Fairbrother: username, password e tutto il profilo.
Andrew lisciò il magico foglio che aveva tenuto sotto il cuscino per tutta la settimana e si mise al
lavoro. Copiare il testo che seguiva il codice, con tutte le sue cancellature e riscritture, fu di gran
lunga più laborioso.
Aveva cercato lo stile più impersonale e più imperscrutabile possibile, il tono spassionato di un
giornalista di cronaca.
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Il candidato al Consiglio locale Simon Price auspica di farsi eleggere sulla base di un programma di
riduzione degli sprechi. Price non è nuovo al contenimento dei costi e sarà senza dubbio in grado
di estendere al Consiglio il beneficio dei suoi molti utili contatti. È stato capace di notevoli
risparmi nella propria economia domestica, facendo uso di merci rubate – ultima tra le quali un
pc – ed è la persona di riferimento, presso la tipografia Harcourt-Walsh, per chiunque abbia la
necessità di lavori di stampa a basso prezzo e in nero, dopo l’orario d’uscita dei dirigenti.
Andrew lesse il messaggio due volte. L’aveva ripassato tanto da saperlo quasi a memoria.
Sarebbero state molte le accuse che avrebbe potuto muovere a Simon, ma non esisteva un
tribunale in cui denunciare le vere colpe di suo padre, che accettasse come prove ricordi di paura
per la propria incolumità e di rituali umiliazioni. Andrew si poteva basare soltanto sulle misere
infrazioni alla legge di cui aveva sentito Simon vantarsi, e aveva scelto quei due esempi specifici –
il computer rubato e i lavori in nero – perché erano entrambi legati direttamente al suo posto di
lavoro. In tipografia c’era chi sapeva di queste cose, ed era plausibile che ne avessero parlato ad
amici, parenti, chiunque.
Dentro tremava tutto, come quando Simon perdeva le staffe sul serio e si preparava a saltare
addosso al primo che gli capitasse a tiro. Era spaventoso vedere il suo tradimento nero su bianco
sullo schermo.
«Che cazzo stai facendo?» chiese la voce tranquilla di Ciccio al suo orecchio.
Il puzzone di mezza età era andato via; Ciccio si era avvicinato e stava leggendo quello che
Andrew aveva scritto.
«Porca puttana» commentò.
Andrew aveva la bocca secca. La mano era posata inerte sul mouse.
«Come hai fatto a entrarci?» bisbigliò Ciccio.
«SQL injection» rispose Andrew. «È tutto su Internet. Hanno una protezione che fa schifo.»
Ciccio era entusiasta e ammiratissimo. Andrew si sentì un po’ lusingato e un po’ spaventato dalla
sua reazione.
«Non dovrai dirlo a...»
«Fammene fare uno su Cubicolo!»
«No!»
La mano di Andrew sottrasse il mouse alle dita di Ciccio. Quel brutto gesto di filiale slealtà era
scaturito dal brodo primordiale di rabbia, scontento e paura che gli sciaguattava dentro fin dalla
prima età della ragione, ma lui, per esprimere questo stato d’animo a Ciccio, non trovò parole
migliori di queste: «Mica lo faccio per divertirmi.»
Rilesse un’altra volta il messaggio e poi ci aggiunse un titolo. Percepiva accanto a sé l’eccitazione
di Ciccio, come se fossero davanti a uno dei soliti siti porno. Andrew fu colto da un improvviso
desiderio di colpirlo ancora di più.
«Guarda» disse e cambiò lo username di Barry in il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother.
Ciccio scoppiò a ridere. Le dita di Andrew spostarono il mouse, di sbieco. Lo avrebbe fatto, se non
ci fosse stato Ciccio? Non lo avrebbe mai saputo. Un solo clic e, in cima alla bacheca del Consiglio
locale di Pagford, comparve: Simon Price inadatto al Consiglio.
Fuori, sul marciapiede, l’uno di fronte all’altro, non respiravano più dal ridere, emozionati e
intimoriti da quanto era successo. Poi Andrew si fece dare i fiammiferi da Ciccio, diede fuoco al
biglietto sui cui aveva scritto la brutta del messaggio e restò a guardarlo disintegrarsi in fragili
falde nerastre, che si sparsero sul marciapiede sporco e svanirono sotto i piedi dei passanti.
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X
Andrew ripartì da Yarvil alle tre e mezzo, per poter essere a Casa Bellavista prima delle cinque.
Ciccio lo accompagnò alla fermata dell’autobus e poi, almeno apparentemente cambiando idea
all’improvviso, disse a Andrew che magari si sarebbe fermato ancora un pochino in città.
Ciccio aveva preso il mezzo impegno di trovarsi con Krystal al centro commerciale. Tornò verso i
negozi, pensando a quel che aveva fatto Andrew all’Internet café e cercando di sgarbugliare le
proprie reazioni emotive.
Doveva riconoscere di essere molto colpito; anzi, si sentiva surclassato, in un certo senso. Andrew
aveva organizzato tutto per bene senza dire niente a nessuno e poi, efficiente, aveva eseguito:
ammirevole. Gli bruciava un po’ che Andrew avesse preparato il colpo senza fargliene parola e
questo lo indusse a chiedersi se non fosse il caso di deplorare la sua scelta di agire
nell’anonimato. Non c’era, nel suo gesto, qualcosa di subdolo e di troppo cerebrale? Non sarebbe
stato più autentico sfidare Simon a viso aperto o tirargli un cazzotto?
Certo, Simon era un pezzo di merda, ma un pezzo di merda autentico, su questo non c’erano
dubbi; faceva quello che voleva quando voleva, senza sottomettersi alle costrizioni del vivere
sociale o alla morale convenzionale. Ciccio si chiese se le sue simpatie non dovessero andare a
Simon, che gli piaceva tanto intrattenere con il suo umorismo più crudo e volgare alle spese di
quelli che facevano la figura dei fessi o a cui capitavano gli incidenti più comici. Ciccio si era detto
spesso che preferiva Simon, con la sua instabilità, le sue fiammate improvvise – un degno
avversario, un vero combattente – a Cubicolo.
D’altra parte, Ciccio non aveva dimenticato la lattina di impregnante, la faccia e i pugni da bruto
di Simon, le urla terribili che aveva cacciato, il piscio che colava giù per le gambe e (forse la cosa
più vergognosa di tutte) il suo bisogno assoluto, disperato, che Tessa andasse a prenderlo e lo
riportasse al sicuro. Ciccio non aveva ancora raggiunto un grado di invulnerabilità capace di
renderlo insensibile al desiderio di rivalsa di Andrew.
Così, era tornato al punto di partenza: Andrew aveva compiuto un gesto audace, ingegnoso e
dalle conseguenze potenzialmente esplosive. Ciccio provò un’altra punta di dispiacere per non
essere stato lui a ideare quel piano. Era difficile scrollarsi di dosso, come da tempo cercava di
fare, l’abitudine acquisita, borghese, di affidarsi alle parole, quando quello era lo sport che gli
riusciva meglio, e camminando sulle mattonelle lucide dello spiazzo del centro commerciale, si
ritrovò a formulare mentalmente qualche frase che potesse distruggere le pretenziose aspirazioni
di Cubicolo ed esporlo al pubblico ludibrio...
Individuò Krystal in una piccola folla di ragazzi dei Fields, ammassati attorno alle panchine in
mezzo alla strada più frequentata del centro commerciale. C’erano anche Nikki, Leanne e Dane
Tully. Ciccio non esitò, né cercò di darsi un contegno, ma continuò a camminare dritto verso il
gruppo, senza cambiare passo, con le mani in tasca, e lo fendette tra gli occhi curiosi e critici che
lo squadravano dalla cima della testa alla punta delle scarpe da ginnastica.
«Ehi, Ciccio» lo salutò Leanne.
«Ehi» rispose Ciccio. Leanne bisbigliò qualcosa a Nikki, che ridacchiò. Krystal masticava
energicamente una gomma, le guance colorite; si scostò i capelli facendo danzare gli orecchini, si
tirò su i pantaloni della tuta.
«Tutto a posto?» disse Ciccio, solo a lei.
«Tutto a posto» rispose Krystal.
«Mammina lo sa che sei qui, Ciccio?» chiese Nikki.
«Sì, mi ci ha portato» rispose lui, calmo, nel silenzio avido. «Mi aspetta in macchina; dice di farmi
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pure una sveltina, prima di andare a casa a far merenda.»
Tutti scoppiarono a ridere tranne Krystal, che strillò: «Ma vaffanculo, faccia tosta di merda!» e
però sembrava gratificata.
«Ti rolli le sigarette?» grugnì Dane Tully, con lo sguardo sul taschino di Ciccio. Aveva una grossa
crosta sul labbro.
«Sì.»
«Anche mio zio» disse Dane. «Si è sputtanato i polmoni.»
Si tormentò distrattamente la crosta.
«Dov’è che andate, voi due?» chiese Leanne, sbirciando prima Ciccio e poi Krystal.
«Boh» rispose Krystal, sempre masticando, e guardando Ciccio in tralice.
Lui non informò nessuna delle due, ma indicò l’uscita del centro commerciale agitando il pollice.
«Ci si vede» fece Krystal agli altri, a voce alta.
Ciccio accennò appena un saluto con la mano e si allontanò, con Krystal al fianco. Udì altre risate
alle sue spalle, ma non gliene importava niente. Sapeva di essersela cavata bene.
«Dove andiamo?» chiese Krystal.
«Boh» rispose Ciccio. «Tu di solito dove vai?»
Lei scrollò le spalle, camminando e masticando. Uscirono dal centro commerciale e percorsero la
via principale. Non erano molto vicini al campo giochi in cui l’altra volta avevano cercato un po’ di
intimità.
«È vero che ti ha accompagnato tua mamma?» volle sapere Krystal.
«Ma non dire cazzate. Ho preso l’autobus, no?»
Krystal incassò senza rancore, guardando con la coda dell’occhio il riflesso di loro due insieme
nelle vetrine. Secco e strambo, a scuola Ciccio era una celebrità. Perfino Dane lo trovava
divertente.
«Ma quanto sei cogliona? Non vedi che ti usa e basta?» le aveva sputato Ashlee Mellor tre giorni
prima, all’angolo di Foley Road. «È che sei una puttana, cazzo, tale e quale a tua mamma.»
Ashlee era stata nella compagnia di Krystal finché si erano azzuffate per un ragazzo. Tutti
sapevano che Ashlee aveva qualche rotella fuori posto; era sempre pronta a esplodere di rabbia o
a scoppiare in lacrime e alla Winterdown divideva il suo tempo fra le lezioni di sostegno e le
sedute dalla psicologa. A dimostrazione ulteriore – se mai ce ne fosse stato bisogno – di quanto
fosse incapace di riflettere sulle conseguenze, aveva sfidato Krystal sul suo territorio, dove Krystal
poteva contare sull’appoggio delle amiche e lei era sola. Nikki, Jemma e Leanne avevano
contribuito a bloccarla e tenerla, e Krystal l’aveva riempita di botte finché, ritirando le nocche
dalla bocca di Ashlee, le aveva viste piene di sangue.
Krystal non si era preoccupata per eventuali ripercussioni.
«Stupidi come la merda e molli come la diarrea» aveva detto di lei e della sua famiglia.
Ma le parole di Ashlee avevano toccato la psiche di Krystal in un punto delicato, sensibile, così era
stato un sollievo quando, il giorno dopo, Ciccio l’aveva cercata a scuola e per la prima volta le
aveva dato un vero e proprio appuntamento per il fine settimana. Aveva detto subito a Nikki e
Leanne che sabato sarebbe uscita con Ciccio Wall e le era piaciuto vedere il loro sguardo
sorpreso. In più, lui era arrivato all’ora stabilita (o una mezz’oretta dopo) davanti a tutti i suoi
amici e se n’era andato con lei. Era stato come se stessero proprio insieme.
«Allora, novità?» chiese Ciccio, dopo che ebbero camminato per una cinquantina di metri in
silenzio, passando di nuovo davanti all’Internet café. Sentiva il bisogno convenzionale di tener
viva la conversazione, anche se intanto pensava a un posto più vicino del campo giochi, che era a
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mezz’ora di distanza. Voleva scopare dopo essersi fatto una canna con lei; era curioso di sapere
che effetto faceva.
«Stamattina sono andata a trovare mia nonna in ospedale. Ha avuto un ictus» disse Krystal.
Quella volta nonna Cath non aveva cercato di parlare, ma a Krystal era sembrato che si fosse
accorta della sua presenza. Come aveva previsto, Terri non aveva voluto vedere nonna Cath, così
Krystal era rimasta da sola accanto a lei per un’ora finché era arrivato il momento di andare al
centro commerciale.
Ciccio era incuriosito dai piccoli particolari della vita di Krystal, ma solo perché erano una porta
spalancata sulla vita pulsante dei Fields. Episodi come le visite all’ospedale non gli interessavano
per niente.
«E poi» aggiunse Krystal, con un irrefrenabile moto d’orgoglio, «mi hanno fatto un’intervista per
il giornale.»
«Eh?» esclamò Ciccio, stupefatto. «E perché?»
«Sui Fields. Com’è crescere lì.»
(La giornalista era stata di nuovo a casa sua e finalmente l’aveva trovata; poi, dopo aver
strappato a Terri il permesso, l’aveva portata a parlare in un caffè. Le aveva chiesto in
continuazione se andare alla St Thomas l’aveva aiutata, se le aveva cambiato in qualche modo la
vita. Si era mostrata un po’ spazientita e delusa, alle risposte di Krystal.
«Che voti hai a scuola?» le aveva chiesto e Krystal, diffidente, era stata evasiva.
«Il signor Fairbrother diceva che ti aveva allargato gli orizzonti.»
Krystal non sapeva cosa dire degli orizzonti. Quando pensava alla St Thomas, pensava a quanto
era bello stare in cortile, con quel grande ippocastano dal quale tutti gli anni piovevano enormi
castagne lucide; non aveva mai visto castagne d’India prima di andare alla St Thomas. Anche la
divisa all’inizio le piaceva: le piaceva essere come tutti gli altri. Ed era stato bello vedere il nome
del suo bisnonno scritto sul monumento ai caduti che c’era in mezzo alla Piazza: Samuel Weedon,
soldato semplice. C’era un solo altro bambino che aveva il cognome sul monumento, un figlio di
agricoltori che a nove anni sapeva già guidare il trattore e che una volta, per una ricerca, aveva
portato in classe un agnello. Krystal non aveva mai dimenticato la sensazione di quella lana sotto
la mano. Quando lo aveva raccontato a nonna Cath, lei aveva detto che un tempo nella loro
famiglia c’erano stati dei contadini.
E poi aveva amato il fiume, verde e lussureggiante, dov’erano andati a fare gite naturalistiche. Ma
le cose più belle di tutte erano state il rounders e l’atletica. In qualsiasi gioco di squadra era
sempre stata la prima a essere scelta e le piaceva da morire, quando veniva fatto il suo nome,
sentire l’oooh di delusione levarsi dalla squadra avversaria. Ogni tanto, poi, ripensava ai suoi
insegnanti di sostegno, soprattutto la Jameson, giovane e modaiola, dai lunghi capelli biondi.
Krystal aveva sempre immaginato Anne-Marie un po’ come lei.
E ricordava ancora con nettezza e precisione alcune cose che aveva imparato. I vulcani, per
esempio: sapeva che le eruzioni erano dovute ai movimenti delle placche sotterranee; avevano
costruito dei modellini che, riempiti di bicarbonato di sodio e detersivo per i piatti, avevano
eruttato su vassoi di plastica. Quanto le era piaciuto. E sapeva anche qualcosa dei Vichinghi:
navigavano sui drakar e indossavano elmi con le corna, anche se non si ricordava più quando
erano arrivati in Inghilterra né perché.
Ma fra i ricordi che aveva della St Thomas c’erano anche i commenti che le compagne di classe,
bisbigliando, avevano fatto sul suo conto – e le sberle che aveva dovuto distribuire. Dopo che i
servizi sociali le avevano permesso di tornare da sua madre, a un certo punto la divisa era
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diventata tanto stretta, corta e sudicia che la scuola aveva dovuto scrivere a casa, e nonna Cath e
Terri avevano litigato furiosamente. In classe le altre bambine non la volevano mai in gruppo con
loro, tranne che per le partite di rounders. Ricordava ancora quando Lexie Mollison aveva
distribuito a tutta la classe una piccola busta rosa con dentro un biglietto di invito a una festa: era
passata davanti a Krystal – lei almeno la ricordava così – sollevando il naso tutta sdegnosa.
In vita sua era stata invitata a due sole feste. Si chiese se Ciccio o sua madre ricordassero ancora
che una volta era andata a una festa di compleanno a casa loro. Tutta la classe era stata invitata e
nonna Cath le aveva comprato un vestito per l’occasione. Quindi sapeva che nel giardino di
Ciccio, enorme, c’erano uno stagno, un’altalena e un melo. Avevano mangiato gelatine e fatto la
corsa nei sacchi. E si era presa una sgridata da Tessa perché, nel disperato tentativo di vincere la
medaglia di plastica in palio, si era fatta largo spintonando gli altri bambini. A uno era uscito il
sangue dal naso.
«Però la St Thomas ti piaceva, vero?» aveva chiesto la giornalista.
«Sì» aveva risposto Krystal, ma aveva capito di non essere riuscita a esprimere quello che
Fairbrother avrebbe voluto e le dispiaceva che Fairbrother non fosse lì ad aiutarla. «Sì, mi
piaceva.»)
«E come mai volevano parlare con te dei Fields?» chiese Ciccio.
«È stata un’idea di Fairbrother» rispose Krystal.
Poi, dopo qualche minuto, Ciccio le chiese: «Fumi?»
«Cosa, erba, tipo? Sì, ho già fumato, con Dane.»
«Ne ho qui un po’» disse Ciccio.
«L’hai presa da Skye Kirby, eh?» chiese lei. A lui parve di intuire un pizzico di divertimento nella
sua voce; perché Skye era la scelta comoda, sicura, quello da cui andavano i ragazzi della buona
borghesia. Se era così, a Ciccio quella sua derisione stava bene: era autentica.
«Perché, tu dove vai a prenderla?» chiese, stavolta con interesse.
«Boh, era di Dane.»
«Da Obbo?»
«Quel tossico di merda.»
«Cos’ha che non va, Obbo?»
Ma Krystal non aveva le parole per dire cos’aveva che non andava; e anche se le avesse avute,
non avrebbe voluto parlarne con Ciccio. Obbo le faceva accapponare la pelle; certe volte veniva a
casa sua a farsi una pera con Terri; oppure a scoparsela, e Krystal lo incrociava sulle scale che si
tirava su quella cerniera schifosa, con gli occhi ammiccanti dietro le lenti spesse. Tante volte
Obbo aveva dei lavoretti da offrire a Terri, come per esempio nascondere dei computer, o dare
da dormire a sconosciuti, o altri servizi di cui Krystal ignorava la natura ma che facevano sparire
sua madre di casa per qualche ora.
In quei giorni Krystal aveva avuto un incubo in cui sua madre era stata legata mani e piedi a una
specie di cornice, con le gambe e le braccia divaricate e tirate allo stremo; era quasi soltanto un
buco grande e profondo, simile a un gigantesco pollo crudo e spennato; e nel sogno Obbo
continuava a entrare e uscire da quell’interno cavernoso e ad armeggiarci dentro, mentre la testa
minuscola di Terri si torceva di paura e dolore. Krystal si era svegliata nauseata e rabbiosa.
«È uno stronzo» disse.
«È uno alto, con la testa rasata e tutto coperto di tatuaggi fin dietro il collo?» chiese Ciccio, che
quella settimana aveva marinato la scuola per la seconda volta e se n’era stato per un’ora su un
muretto ai Fields, a guardare. Il pelato lo aveva incuriosito: stava trafficando nel retro di un
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vecchio camioncino bianco.
«Ma va’, quello lì è Pikey Pritchard» rispose Krystal, «se l’hai visto in Tarpen Road.»
«Cosa fa?»
«Boh. Chiedilo a Dane. Lui è amico del fratello di Pikey.»
Ma l’interesse mostrato da Ciccio le faceva piacere; era la prima volta che sembrava aver voglia di
parlare con lei.
«Pikey è fuori con la condizionale.»
«Perché? Cos’ha fatto?»
«Ha spaccato una bottiglia in faccia a uno al Cross Keys.»
«E perché?»
«Cazzo ne so? Mica c’ero» disse Krystal.
Era felice, e questo la rendeva sempre spavalda. Nonna Cath a parte (comunque era ancora viva,
quindi poteva sempre guarire), erano state due belle settimane. Terri aveva ripreso la terapia a
Bellchapel e Krystal controllava che Robbie andasse all’asilo tutti i giorni. Il sedere era quasi a
posto. L’assistente sociale le sembrava contenta, per quanto lo potessero essere quelli come lei.
Anche Krystal era andata a scuola tutti i giorni, benché non si fosse presentata alle sedute di
Tessa né lunedì né mercoledì. Non avrebbe saputo dire perché. A volte perdevi l’abitudine.
Guardò di nuovo Ciccio. Non le era mai passato per la testa di potersi mettere con lui; non finché
lui l’aveva puntata alla festa nel teatro. Lo conoscevano tutti; alcune delle sue battute giravano
come se fosse roba che davano in televisione. (Krystal faceva finta con tutti di avere la
televisione. La vedeva abbastanza spesso a casa delle amiche e da nonna Cath per reggere il bluff.
«Sì, faceva proprio schifo, eh?» «Lo so, per poco non mi pisciavo addosso» diceva, quando gli altri
parlavano di programmi che avevano visto.)
Ciccio stava cercando di immaginare come doveva essere farsi spaccare una bottiglia in faccia,
farsi tagliare la soffice carne della guancia dai cocci di vetro; gli sembrava di sentire il dolore dei
nervi scoperti, il bruciore sulla pelle lacerata, il calore del sangue. Avvertì una specie di solletico
intorno alla bocca, come se ci fosse già una cicatrice.
«Ha sempre il coltello, Dane?» chiese.
«Come fai a sapere che ha un coltello?» domandò Krystal.
«Ha minacciato Kevin Cooper.»
«Ah, già» concesse Krystal. «Bel coglione, Cooper, eh?»
«Gigantesco.»
«Dane ha il coltello solo per i fratelli Riordon» disse Krystal.
A Ciccio piaceva il suo tono disinvolto; il fatto che accettasse la necessità di un coltello, visto che
era in corso una faida e c’era la concreta possibilità di violenza. Era la cruda realtà della vita;
erano queste le cose che contavano davvero... prima che arrivasse Arf, quel giorno stesso,
Cubicolo stava scocciando Tessa per sapere se secondo lei era meglio stampare i suoi volantini
elettorali su carta gialla o su carta bianca...
«Lì dentro? Che ne dici?» suggerì Ciccio un momento dopo.
A destra, il cancello aperto in un lungo muro di pietra lasciava intravedere un prato e delle pietre.
«Sì, va bene» rispose Krystal. Era già stata una volta nel cimitero, con Nikki e Leanne; si erano
sedute su una tomba a scolarsi un paio di birre, con un certo disagio, per la verità, finché una
donna non si era messa a gridare e insultarle. Leanne le aveva tirato dietro una lattina vuota
prima di andar via.
Ma la posizione era troppo esposta, pensò Ciccio, percorrendo con Krystal l’ampio viale asfaltato
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tra le tombe: tutto verde e piatto, con le lapidi che praticamente non offrivano riparo. Poi vide le
siepi di crespino lungo il muro in fondo. Tagliò per il cimitero e Krystal, con le mani in tasca, lo
seguì fra i rettangoli di ghiaia e le lapidi incrinate e illeggibili. Era un cimitero grande e ben curato.
Lentamente, arrivarono alle tombe più recenti, di marmo ben levigato, con le iscrizioni a lettere
dorate, dov’erano stati deposti fiori freschi per chi se n’era andato da poco.
A Lyndsey Kyle, 15 settembre 1960 – 26 marzo 2008
Dormi bene, mamma.
«Sì, qua andrà bene» disse Ciccio, valutando la striscia buia fra i cespugli spinosi di fiori gialli e il
muro del cimitero.
Si buttarono a terra nell’ombra umida, con la schiena contro il muro freddo. Le lapidi sfilavano a
perdita d’occhio fra i rami dei cespugli, ma fra loro non c’era presenza umana. Ciccio svuotò e
rollò con mano esperta, sperando che Krystal guardasse ammirata.
Ma lei aveva lo sguardo perso sotto la volta di foglie scure e lucenti: pensava ad Anne-Marie, che
(così le aveva detto la zia Cheryl) giovedì era venuta a trovare nonna Cath. Magari avesse saltato
la scuola per andare a trovarla anche lei: si sarebbero conosciute, finalmente. Quante volte aveva
fantasticato un loro incontro, in cui Krystal le diceva: «Sono tua sorella.» Anne-Marie, in quelle
fantasie, era sempre felice e da allora continuavano a vedersi, e alla fine Anne-Marie proponeva a
Krystal di andare a vivere da lei. L’Anne-Marie immaginaria aveva una casa come quella di nonna
Cath, linda e ordinata, solo che era molto più moderna. Negli ultimi tempi Krystal aveva aggiunto,
in quelle fantasie, un bimbetto roseo, dolcissimo, in una culla fru fru.
«Tieni» disse Ciccio, allungando la canna a Krystal. Lei aspirò, trattenne il fumo nei polmoni per
qualche secondo e, sotto l’effetto magico della cannabis, le si addolcì l’espressione, si fece
trasognata.
«Tu non hai fratelli o sorelle» chiese, «vero?»
«No» rispose Ciccio, controllando che in tasca ci fossero i preservativi.
Krystal restituì la canna, con la testa piacevolmente leggera. Ciccio fece un tiro enorme e soffiò
fuori anelli di fumo.
«Sono stato adottato» disse, dopo un po’.
Krystal lo guardò con tanto d’occhi.
«Ah, sì? Adottato?»
Con i sensi un po’ attenuati, un po’ attutiti, si snocciolavano confidenze che era un piacere, tutto
era più facile.
«Anche mia sorella è stata adottata» disse Krystal, meravigliandosi della coincidenza, felice di
poter parlare di Anne-Marie.
«Già, io probabilmente vengo da una famiglia come la tua.»
Ma Krystal non ascoltava; voleva parlare.
«Avevo una sorella più grande e anche un fratello più grande, Liam, ma li hanno portati via. Io
non ero ancora nata.»
«Perché li hanno portati via?» chiese Ciccio.
Improvvisamente non si perdeva una parola.
«In quel periodo mia mamma stava con Ritchie Adams» raccontò Krystal. Fece un tiro profondo e
sparò fuori il fumo in una striscia lunga e sottile. «Uno fuori di brutto. Gli hanno dato l’ergastolo.
Ha ammazzato un tipo. Violento con mia mamma e con i bambini. Poi sono arrivati John e Sue e
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se li sono portati via, poi si sono messi in mezzo quelli del servizio sociale ed è andata a finire che
John e Sue se li sono tenuti.»
Tirò di nuovo dalla canna, riflettendo sulla sua vita prenatale impregnata di sangue, rabbia e buio.
Aveva saputo delle cose di Ritchie Adams, soprattutto da sua zia Cheryl. Per esempio che aveva
spento delle sigarette sulle braccia di Anne-Marie quando lei aveva un anno e l’aveva presa a
calci fino a romperle le costole. Aveva letteralmente spaccato la faccia a Terri, che infatti aveva
ancora lo zigomo sinistro un po’ infossato, rispetto al destro. La tossicodipendenza di Terri aveva
assunto proporzioni catastrofiche. La zia Cheryl, molto pragmaticamente, aveva deciso di
sottrarre i due figli brutalizzati e trascurati ai loro genitori.
«Bisognava farlo» aveva detto Cheryl.
John e Sue erano parenti alla lontana, senza figli. Krystal non aveva mai saputo dove né come si
inserissero nel suo complesso albero genealogico e nemmeno come avessero compiuto quello
che stando alle parole di Terri sembrava un rapimento. Fatto sta che, dopo una lunga
controversia con le autorità, avevano ottenuto l’adozione dei bambini. Terri, che era rimasta con
Ritchie fino al suo arresto, non aveva visto Anne-Marie e Liam mai più, per ragioni che Krystal non
capiva fino in fondo; era una storia marcia, che si aggrumava attorno a odio, parole e minacce
imperdonabili, ingiunzioni giudiziarie, schiere di assistenti sociali.
«E allora chi è tuo papà?» chiese Ciccio.
«Schizzo.» Krystal cercò di farsi venire in mente il suo nome vero. «Barry» mormorò, anche se
aveva il sospetto che non fosse quello. «Barry Coates. Però mi chiamo Weedon come mia
mamma.»
Il ricordo del giovane morto di overdose nel bagno di Terri tornò a fluttuarle nella mente tra il
fumo dolce e denso. Passò la canna a Ciccio, appoggiò la testa contro il muro di pietra e guardò in
su verso la scheggia di cielo chiazzata di foglie scure.
Ciccio stava pensando a Ritchie Adams, che aveva ucciso un uomo, e alla possibilità che anche
suo padre fosse in prigione, chissà dove; tatuato, come Pikey, asciutto e muscoloso. Accostò
mentalmente Cubicolo a quell’uomo forte, duro, autentico. Sapeva di essere stato separato dalla
madre biologica da molto piccolo, perché c’erano delle foto in cui era in braccio a Tessa: fragile
come un uccellino, con una cuffietta di lana bianca. Era nato prematuro. Tessa gli aveva
raccontato qualcosa, anche se lui non aveva mai chiesto. La madre vera lo aveva avuto da molto
giovane, questo lo sapeva. Forse era come Krystal; quella che a scuola si facevano tutti...
Adesso era fumato per bene. Mise la mano dietro il collo di Krystal, la tirò a sé e la baciò,
ficcandole la lingua in bocca. Con l’altra mano cercò il seno. Aveva il cervello annebbiato e le
membra pesanti; anche il tatto gli pareva alterato. Dovette armeggiare un po’ per infilare la
mano sotto la T-shirt e spingerla sotto il reggiseno. Lei aveva la bocca calda che sapeva di tabacco
ed erba; le labbra erano secche e screpolate. L’eccitazione scemò un po’; era come se le
informazioni sensorie gli arrivassero da sotto una coperta invisibile. Ci mise di più dell’altra volta
a levarle i vestiti, ed ebbe qualche difficoltà con il preservativo, perché le dita erano lente e
irrigidite; poi, per sbaglio, le conficcò il gomito, con tutto il peso del corpo, nella carne soffice
dell’ascella e lei strillò di dolore.
Era più asciutta della volta prima; la penetrò con forza, determinato a compiere la cosa per cui
era lì. Il tempo era rallentato, vischioso come colla, ma lui sentiva il proprio respiro accelerato e
questo lo agitò, perché era come se qualcuno, acquattato con loro in quella striscia buia,
guardasse e gli ansimasse all’orecchio. Krystal emise un piccolo gemito. Con la testa rovesciata
all’indietro, aveva le narici larghe, quasi animalesche. Le sollevò la T-shirt per guardare i seni che,
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bianchi e lisci, dondolavano appena nella molle costrizione del reggiseno slacciato. Venne
all’improvviso, con un grugnito di soddisfazione che gli parve arrivare dal guardone acquattato.
Si staccò da lei ruotando sul fianco, si tolse il preservativo e lo buttò per terra, poi, irrequieto,
guardandosi attorno per controllare che fossero veramente soli, si chiuse la patta. Krystal stava
tirandosi su le mutande con una mano e giù la T-shirt con l’altra, poi si allacciò il reggiseno dietro
la schiena.
Da quando si erano seduti dietro i cespugli, il cielo si era scurito e annuvolato. Ciccio sentiva nelle
orecchie un ronzio lontano; aveva una gran fame; il cervello aveva rallentato mentre l’udito si era
fatto acutissimo. La paura che qualcuno li avesse spiati, magari dalla cima del muro alle loro
spalle, non lo abbandonava. Voleva uscire di lì.
«Andiamo...?» mormorò e, senza aspettarla, uscì a quattro zampe dai cespugli, si rimise in piedi e
si spolverò i vestiti con le mani. Un centinaio di metri più in là c’era una coppia anziana
accovacciata davanti a una tomba. Voleva andarsene, sottrarsi a quei fantomatici occhi che forse,
chissà, lo avevano visto scopare con Krystal Weedon, ma allo stesso tempo la prospettiva di
trovare la fermata d’autobus giusta e mettersi in viaggio per Pagford gli sembrava al di là delle
sue forze. Che bello se avesse potuto essere trasportato, in quel preciso istante, nella sua camera
da letto mansardata.
Krystal, malferma sulle gambe, lo aveva seguito. Si stava riaggiustando la T-shirt, con lo sguardo
rivolto all’erba ai suoi piedi.
«Cazzo» mormorò.
«Cosa c’è?» fece Ciccio. «Dai, andiamo.»
«È Fairbrother» disse lei, senza muoversi.
«Eh?»
Gli indicò il tumulo davanti a loro. La lapide non c’era ancora, ma era tutto cosparso di mazzi di
fiori freschi.
«Vedi?» Krystal si accovacciò e puntò il dito verso i biglietti spillati al cellophane. «Lì dice
Fairbrother.» Non aveva fatto fatica a decifrare il nome, dopo le tante lettere della scuola
arrivate a sua madre perché rilasciasse l’autorizzazione per farla partire in pullmino. «‘A Barry’»
lesse, concentrata, e continuò: «E qui dice ‘A papà’» scandendo lentamente le parole, «da...»
Ma Niamh e Siobhan erano nomi troppo difficili per lei.
«E allora?» chiese Ciccio; ma in realtà la scoperta gli dava i brividi. Sotto i loro piedi giaceva quella
bara di vimini; dentro, il corpo corto e la faccia gioviale del più caro amico di Cubicolo, che tanto
spesso aveva visto a casa loro, marciva nella terra. Il Fantasma di Barry Fairbrother... Era
spaventato. Gli sembrava quasi un castigo.
«Dai, andiamo» disse, ma Krystal non si mosse. «Che cos’hai?»
«Ero nel suo equipaggio, no?» ribatté Krystal.
«Ah, già.»
Ciccio era nervoso, si muoveva come un cavallo recalcitrante, passo passo indietreggiava.
Krystal guardava giù verso il tumulo, con le braccia strette attorno a sé. Si sentiva vuota, triste e
sporca. Rimpiangeva di averlo fatto lì, tanto vicino a Fairbrother. Aveva freddo. A differenza di
Ciccio, non aveva la giacca.
«Dai, andiamo» ripeté Ciccio.
Lei lo seguì fuori dal cimitero e non si dissero neanche una parola. Krystal pensava a Fairbrother.
La chiamava sempre Krys, come nessuno aveva mai fatto. Le piaceva essere Krys. Com’era
spiritoso Fairbrother. Le veniva da piangere.
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Ciccio intanto pensava al modo di trasformare quell’episodio in una storiella divertente da
raccontare a Andrew: lui fumato che scopa con Krystal, la paranoia che qualcuno li spii, poi loro
che, uscendo, quasi inciampano nella tomba di Fairbrother. Ma per il momento non era
divertente; non ancora.
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Parte Terza
Duplicità
7.25 Una votazione non deve riguardare più di un tema... L’inosservanza di questa regola genera
confusione nel dibattito e può portare ad applicazioni equivoche...
Charles Arnold-Baker,
L’amministrazione del Consiglio locale,
Settima edizione
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___
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I
«... è corsa fuori come una pazza, gridando che era una pachistana di merda... e ora ha chiamato
il giornale per chiedere un commento, perché lei...»
Parminder sentì la voce della segretaria, appena più di un bisbiglio, passando davanti alla porta
socchiusa della sala riunioni. Con passo rapido e leggero, l’aprì e vide una delle segretarie e
l’infermiera dell’ambulatorio, molto vicine. Entrambe trasalirono e si voltarono di scatto.
«Dottoressa Jawan...»
«Le era chiara la clausola di riservatezza quando ha accettato questo lavoro, vero, Karen?»
La segretaria era atterrita.
«Sì, io non... Laura l’aveva già... Stavo venendo a dirle che ha chiamato la Yarvil and District
Gazette. La signora Weedon è morta e una nipote dice che...»
«E quella è per me?» chiese freddamente Parminder, indicando la cartella clinica in mano a
Karen.
«Ah... sì» disse Karen, imbarazzata. «Lui voleva vedere il dottor Crawford, ma...»
«Sarà meglio che torni al banco.»
Parminder prese la cartella e tornò alla sala d’attesa, furibonda. Quando fu davanti ai pazienti si
rese conto di non sapere chi chiamare, così guardò il faldone che aveva in mano.
«Signor... Mollison.»
Howard si sollevò in tutta la sua mole, sorridendo, e le andò incontro con il suo solito passo
dondolante. Il disprezzo risalì come bile nella gola di Parminder. Si girò e tornò nello studio,
seguita da Howard.
«Come va la nostra Parminder?» la salutò lui, dopo aver chiuso la porta ed essersi accomodato,
senza invito, sulla sedia del paziente.
Era il suo solito modo di salutare, ma oggi sapeva di sarcasmo.
«Qual è il problema?» chiese lei, brusca.
«Una piccola irritazione» rispose lui. «Qui. Mi serve una pomata, credo.»
Si tirò la camicia fuori dai pantaloni e la sollevò un poco. Parminder vide uno sfogo rosso vivo nel
punto in cui l’addome debordava sulle cosce.
«Devi toglierti la camicia.»
«Mi prude solo qui.»
«Devo vedere tutta la zona.»
Lui, con un sospiro, si alzò. E disse, sbottonandosi la camicia: «Hai visto l’ordine del giorno che ho
mandato stamattina?»
«No, stamattina non ho controllato l’e-mail.»
Era una bugia. Parminder lo aveva letto, l’ordine del giorno, ed era furiosa, ma non era il
momento giusto per parlarne. Le dava fastidio quel tentativo di portare le faccende del Consiglio
nel suo studio, quel brutto modo di ricordarle che c’era un posto in cui lei era una sua
subordinata, anche se lì, in quella stanza, poteva ordinargli di spogliarsi.
«Per favore... devo guardare sotto...»
Lui sollevò il vasto grembiule di carne, scoprendo prima la parte superiore delle gambe dei
pantaloni e poi la cintura. Con le braccia piene del proprio grasso le sorrise. Lei avvicinò la sedia,
con la testa all’altezza della vita.
Una brutta eruzione squamosa si estendeva nella piega dell’addome: l’infiammazione, di un rosso
acceso, andava da un lato all’altro del busto come un enorme sorriso sbavato. Una zaffata di
carne putrefatta le colpì le narici.
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«Intertrigine» sentenziò Parminder, «e lichen simplex dove ti sei grattato. Va bene, puoi
rimetterti la camicia.»
Lui lasciò ricadere l’addome e prese la camicia, imperturbato.
«Come vedrai ho messo Bellchapel all’ordine del giorno. In questo momento sta attirando
l’interesse della stampa.»
Lei stava scrivendo qualcosa al computer e non rispose.
«La Yarvil and District Gazette» continuò Howard. «Sto preparando un articolo per loro. Per far
sentire» disse, abbottonandosi la camicia, «l’altra campana.»
Parminder cercava di non ascoltarlo, ma il nome del giornale le fece stringere ancora di più il
nodo che aveva allo stomaco.
«Quando è stata l’ultima volta che hai misurato la pressione, Howard? Non vedo nulla negli ultimi
sei mesi.»
«Tutto a posto. Prendo le medicine.»
«Sarà meglio controllare, già che ci siamo.»
Lui sospirò di nuovo e si arrotolò faticosamente la manica.
«Prima pubblicheranno l’articolo di Barry, poi il mio» continuò. «Sapevi che aveva mandato un
articolo sui Fields?»
«Sì» rispose lei, contro ogni buon senso.
«Non è che per caso ne hai una copia? Per non rischiare di ripetere quello che ha detto lui.»
Le dita di lei tremarono leggermente sul bracciale. Non arrivava a chiudersi intorno al braccio di
Howard. Lo sganciò e andò a prenderne uno più grande.
«No» rispose, voltata di spalle. «Non l’ho mai visto.»
Lui la guardò azionare la pompetta e osservò il manometro con il sorriso indulgente di chi assiste
a un rituale pagano.
«È troppo alta» disse lei, quando la lancetta segnò centosettanta su cento.
«Ma le pillole le prendo» replicò lui, grattandosi il punto dov’era stato il bracciale per poi
abbassare la manica. «Il dottor Crawford mi pare soddisfatto.»
Lei esaminò l’elenco dei farmaci sul monitor.
«Prendi l’amlodipina e il bendroflumetiazide per la pressione, giusto? La simvastatina per il
cuore... niente betabloccanti...»
«Per via dell’asma» la informò Howard, lisciandosi la manica.
«... esatto... e aspirina.» Si girò a guardarlo. «Howard, il peso è la causa principale di tutti i tuoi
problemi di salute. Sei mai stato da un nutrizionista?»
«Faccio il salumiere da trentacinque anni» replicò lui, sempre sorridendo. «Non mi servono
lezioni sul cibo.»
«Cambiare un po’ lo stile di vita ti farebbe molto bene. Se riuscissi a perdere...»
Lui, accennando appena una strizzatina d’occhio, disse tranquillamente: «Non farla tanto
complicata. Mi serve solo una pomata per il prurito.»
Parminder sfogò la sua rabbia sulla tastiera picchiando sui tasti le ricette per la pomata
antimicotica e quella al cortisone, poi porse le stampate a Howard senza aggiungere altro.
«Ti ringrazio infinitamente» disse lui, tirandosi su faticosamente dalla sedia, «e ti auguro una
buona giornata.»
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II
«Che vuoi?»
Nel riquadro della porta, il corpo rinsecchito di Terri Weedon sembrava ancora più piccolo. Puntò
le mani ad artiglio contro gli stipiti per cercare di rendersi più imponente e sbarrare l’ingresso.
Erano le otto del mattino; Krystal era appena uscita con Robbie.
«Ti devo parlare» disse sua sorella. Massiccia e mascolina, in canottiera bianca e pantaloni della
tuta, Cheryl fumava una sigaretta e guardava Terri stringendo gli occhi per il fumo. «Nonna Cath
è morta.»
«Eh?»
«Nonna Cath è morta» ripeté Cheryl a voce alta. «Ma tanto a te non te ne frega un cazzo, eh?»
Ma Terri aveva sentito anche la prima volta. La notizia l’aveva colpita così forte allo stomaco che,
confusa, aveva dovuto chiederle di ripetere.
«Sei fatta?» domandò Cheryl, lanciando un’occhiataccia a quel viso tirato e vacuo.
«Fanculo. No.»
Era vero. Terri non si era fatta, quella mattina. Erano tre settimane che non si faceva. Non ne era
orgogliosa, non teneva un calendario in cucina su cui mettere le crocette. Era già riuscita a non
farsi per periodi anche più lunghi, perfino per mesi. Obbo era via da quindici giorni, quindi era
stato più facile. Ma l’armamentario era ancora nella vecchia scatola di latta e la voglia bruciava
come un fuoco eterno nel suo corpo fragile.
«È morta ieri» la informò Cheryl. «Quella stronza di Danielle me l’ha detto solo stamattina.
Pensare che oggi volevo andare a trovarla all’ospedale. Danielle vuole la casa. La casa di nonna
Cath. Avida di merda.»
Terri non andava nella piccola casa a schiera di Hope Street da molto tempo, ma quando Cheryl
ne parlò vide distintamente i ninnoli sulla credenza e le tendine di pizzo. Immaginò Danielle che si
metteva in tasca la roba, che rovistava nei pensili.
«Il funerale è martedì alle nove, al crematorio.»
«Bene.»
«Quella casa è nostra quanto di Danielle» disse Cheryl. «Le dirò che vogliamo la nostra parte,
eh?»
«Certo» rispose Terri.
Restò lì a guardare finché i capelli giallo canarino e i tatuaggi di Cheryl non furono spariti dietro
l’angolo e poi tornò in casa.
Nonna Cath era morta. Era da tanto che non si parlavano. Io me ne lavo le mani. Ne ho
abbastanza, Terri, ne ho fin qua. Però non aveva mai smesso di vedere Krystal. Krystal era
diventata la sua coccola. Andava a vederla remare in quelle sue stupide gare di canottaggio. Sul
letto di morte aveva chiamato Krystal, non Terri.
Bene, vecchia stronza. Come se mi fregasse qualcosa. È troppo tardi.
Tremante e con una stretta al cuore, Terri si aggirò per la cucina puzzolente in cerca delle
sigarette, ma in realtà con la sola voglia del cucchiaio, dell’accendino e dell’ago.
Troppo tardi, ormai, per dire alla vecchia quello che avrebbe dovuto dirle.
Troppo tardi, ormai, per essere di nuovo Terri-Baby. Le bimbe grandi non piangono... le bimbe
grandi non piangono... Ci aveva messo anni a capire che la canzone che nonna Cath le cantava,
con la sua voce roca da fumatrice, era in realtà Sherry Baby.
Le mani di Terri correvano veloci come scarafaggi fra la robaccia accumulata sui piani della
cucina: cercavano pacchetti di sigarette e li strappavano, trovandoli tutti vuoti. Krystal
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probabilmente aveva preso l’ultimo; era una stronza avida, proprio come Danielle, che taceva la
morte di nonna Cath per rovistare tranquillamente fra le sue cose.
Su un piatto unto c’era un lungo mozzicone: Terri lo pulì sulla maglietta e lo accese sul fornello a
gas. Sentiva ancora in testa la propria voce di undicenne.
Vorrei che fossi tu la mia mamma.
Non voleva ricordare. Si appoggiò al lavello, fumando, cercando di pensare all’immediato futuro,
allo scontro che ci sarebbe stato tra le due sorelle più grandi. Nessuno attaccava briga con Cheryl
e Shane: erano tutti e due bravi a fare a pugni e non molto prima Shane aveva ficcato uno
straccio acceso nella buca delle lettere di un qualche poveraccio. Era questo il motivo per cui era
andato in galera l’ultima volta, e sarebbe stato ancora dentro se in quel momento in casa ci fosse
stato qualcuno. Ma Danielle disponeva di armi che Cheryl non aveva: soldi, una casa sua e un
telefono fisso. Aveva delle conoscenze e sapeva come parlarci. Era una di quelle persone che
hanno sempre una chiave di riserva e documenti indecifrabili da usare contro di te.
Tuttavia Terri dubitava che Danielle avrebbe ottenuto la casa, nonostante le sue armi segrete.
Non c’erano solo loro tre: nonna Cath aveva una gran quantità di nipoti e pronipoti. Dopo che
Terri era stata data in affidamento, suo padre aveva avuto altri figli. Nove in tutto, secondo
Cheryl, da cinque madri diverse. Terri non aveva mai conosciuto i fratellastri, ma Krystal le aveva
detto che nonna Cath li vedeva.
«Ah, sì?» aveva ribattuto lei. «Spero che la lascino in mutande, quella vecchia rincoglionita.»
Quindi il resto della famiglia la frequentava, anche se, a quanto aveva capito Terri, non si trattava
esattamente di angeli. Soltanto con lei, quella che un tempo era stata Terri-Baby, nonna Cath
aveva tagliato i ponti per sempre.
Quando era pulita, dal buio che aveva dentro sgorgavano i brutti pensieri e i ricordi: mosche nere
che ronzavano, si attaccavano alle pareti del cranio.
Vorrei che fossi tu la mia mamma.
Con la canottiera che indossava quel giorno, le cicatrici sul braccio, sul collo e dietro le spalle
erano in bella vista, con quelle pieghe e quelle volute innaturali simili a gelato sciolto. A undici
anni era stata ricoverata per sei settimane al reparto ustionati del South West.
(«Com’è successo, tesoro?» aveva chiesto la madre del bambino nel letto accanto.
Suo padre le aveva tirato addosso la padella di olio bollente delle patatine fritte. La sua maglietta
degli Human League aveva preso fuoco.
«Un incidente» aveva mormorato Terri. Era quello che aveva raccontato a tutti, compresi gli
assistenti sociali e le infermiere. Avrebbe preferito bruciare viva, piuttosto che denunciare suo
padre.
Sua madre se n’era andata di casa poco dopo che lei aveva compiuto undici anni, abbandonando
le tre figlie. Tempo qualche giorno e Danielle e Cheryl si erano già trasferite dalle famiglie dei loro
ragazzi. Così Terri era rimasta da sola, a cercare di fare le patatine fritte per suo padre,
aggrappandosi alla speranza di veder tornare la madre. Anche nel dolore e nella paura di quei
primi giorni in ospedale, era stata contenta che fosse successo, perché era certa che sua madre
l’avrebbe saputo e sarebbe venuta a prenderla. Ogni volta che sentiva del movimento in fondo al
reparto, le saltava il cuore in gola.
Ma nelle sei lunghe settimane di dolore e solitudine, le uniche visite erano state quelle di nonna
Cath. Se n’era stata tranquilla per pomeriggi e serate accanto alla nipote, ricordandole di dire
grazie alle infermiere, scura in volto e severa ma capace di tenerezze inaspettate.
Aveva portato a Terri una bambola di plastica di poco prezzo, con addosso un impermeabile nero
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lucido, ma quando Terri l’aveva svestita, sotto non aveva trovato nulla.
«Non ha le mutande, nonna.»
E nonna Cath aveva ridacchiato. Non ridacchiava mai.
Vorrei che fossi tu la mia mamma.
Aveva voluto che nonna Cath la portasse a casa con sé. Gliel’aveva chiesto e la nonna aveva detto
di sì. A volte Terri pensava che quelle settimane in ospedale fossero state le più felici della sua
vita, nonostante il dolore. Era un posto sicuro, c’erano persone gentili che si occupavano di lei.
Aveva pensato che sarebbe andata a casa con nonna Cath, nella casa con le belle tendine di pizzo,
e non da suo padre: non dove la porta della camera da letto la notte si apriva di schianto, facendo
cadere il poster di David Essex lasciato da Cheryl, e suo padre si avvicinava con la mano sulla
patta mentre lei lo scongiurava di no...)
La Terri adulta gettò sul pavimento della cucina il filtro del mozzicone e andò spedita verso la
porta di casa. La nicotina non bastava. Percorse il vialetto e, in strada, si incamminò nella stessa
direzione di Cheryl. Con la coda dell’occhio vide due vicine che chiacchieravano sul marciapiede e
la guardavano. Volete una mia foto, stronze? Dura di più. Terri sapeva di essere oggetto perenne
di pettegolezzi; sapeva cosa dicevano di lei; a volte glielo gridavano dietro. Quella della casa
accanto, una stronza con la puzza sotto il naso, andava sempre al Consiglio a lamentarsi dello
stato del giardino di Terri. Fanculo, fanculo, fanculo...
Stava correndo, cercava di andare più in fretta dei ricordi.
Non sai neanche chi è suo padre, eh, puttana? Io me ne lavo le mani, Terri, ne ho abbastanza.
Quella era stata l’ultima volta che si erano parlate; nonna Cath l’aveva chiamata nel modo in cui
tutti gli altri la chiamavano e Terri aveva risposto per le rime.
E allora vaffanculo, vecchia rincoglionita, vaffanculo.
Non aveva mai detto: «Mi hai deluso, nonna Cath.» Non aveva mai detto: «Perché non mi hai
tenuta con te?» Non aveva mai detto: «Ti ho voluto bene più che a chiunque altro, nonna Cath.»
Sperava con tutto il cuore che Obbo fosse tornato. Sapeva che doveva tornare oggi; oggi o
domani. Doveva farsi. Sì, doveva.
«Ehi, Terri.»
«Hai visto Obbo?» chiese al ragazzo che fumava e beveva appoggiato al muro del negozio di
alcolici. Le sembrava che le cicatrici sulla schiena bruciassero di nuovo.
Lui scosse la testa, masticando e guardandola con aria di scherno. Lei passò oltre. Pensieri molesti
sull’assistente sociale, su Krystal, su Robbie: altre mosche nere, ma anche loro erano come i vicini
che giudicavano tutti; non capivano il bisogno urgente che la tormentava.
(Nonna Cath era andata a prenderla all’ospedale e l’aveva portata a casa, nella camera degli
ospiti. Era la stanza più pulita e bella in cui Terri avesse mai dormito. Tutt’e tre le sere che aveva
passato lì, dopo che nonna Cath le aveva dato il bacio della buonanotte, si era alzata a sedere sul
letto per cambiare la disposizione dei ninnoli sul davanzale accanto a sé. C’erano un mazzo di fiori
di vetro tintinnanti in un vaso, un fermacarte di plastica rosa con dentro una conchiglia e il
preferito di Terri, un cavallo di ceramica impennato con un sorriso sciocco sul muso.
«Mi piacciono i cavalli» aveva detto a nonna Cath.
La scuola li aveva portati a visitare la fiera agricola, poco prima che la madre di Terri se ne
andasse. La sua classe aveva visto un gigantesco Shire nero addobbato con fibbie d’ottone. Lei
era stata l’unica ad avere il coraggio di accarezzarlo. L’odore l’aveva inebriata. Aveva abbracciato
la zampa, imponente come una colonna, con l’enorme zoccolo ricoperto di lunghi ciuffi bianchi, e
aveva sentito la carne viva sotto il pelo, mentre l’insegnante le diceva: «Attenta, Terri, stai
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attenta!» e il vecchio che teneva il cavallo sorrideva e diceva che non c’era pericolo, che Samson
non avrebbe mai fatto male a una bella bambina come lei.
Quello di ceramica era di un altro colore, giallo con la criniera e la coda nere.
«Lo puoi prendere» le aveva detto nonna Cath e Terri aveva conosciuto la felicità.
Ma la quarta mattina era arrivato suo padre.
«Tu vieni a casa» aveva detto, e l’espressione sulla sua faccia l’aveva terrorizzata. «Non ci rimani,
con questa vecchia stronza spiona. No che non ci resti, cara la mia troietta.»
Nonna Cath era spaventata quanto Terri.
«Mikey, no» continuava a piagnucolare. Alcuni vicini sbirciavano dalle finestre. Nonna Cath
teneva Terri per un braccio e suo padre per l’altro.
«Tu vieni a casa con me!»
Aveva fatto a nonna Cath un occhio nero e trascinato Terri in macchina. Poi, a casa, l’aveva presa
a calci e pugni in tutte le parti del corpo possibili.)
«Hai visto Obbo?» gridò Terri alla vicina di Obbo, da una cinquantina di metri di distanza. «È
tornato?»
«Boh» rispose la donna, e le voltò le spalle.
(Quando Michael non picchiava Terri le faceva quelle altre cose, quelle di cui lei non poteva
parlare. Nonna Cath non l’aveva più cercata. Terri era scappata a tredici anni, ma non era andata
da nonna Cath: non voleva che suo padre la trovasse. L’avevano presa lo stesso e affidata ai
servizi sociali.)
Terri bussò alla porta di Obbo e aspettò. Riprovò, ma nessuno venne ad aprire. Si mise a sedere
sulla soglia, tremando, e cominciò a piangere.
Due ragazzine della Winterdown che marinavano la scuola le lanciarono un’occhiata.
«È la mamma di Krystal Weedon» disse una ad alta voce.
«Il troione?» rispose l’altra a pieni polmoni.
Terri non trovò la forza di insultarle, perché piangeva a dirotto. Ridacchiando, le ragazzine si
allontanarono.
«Zoccola!» le gridò una delle due, già in fondo alla strada.
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III
Gavin avrebbe potuto chiedere a Mary di venire in studio, per parlare del recente scambio di
lettere con l’assicurazione, ma decise invece di andare a trovarla a casa. Si era tenuto il tardo
pomeriggio libero da appuntamenti, nella remota possibilità che lei gli proponesse di restare a
mangiare qualcosa: era una cuoca fantastica.
Dopo quel periodo di regolare frequentazione, la ritrosia istintiva che lo aveva spinto a tenersi
alla larga dall’inerme dolore di lei era scomparsa. Mary gli era sempre piaciuta, ma quando erano
in mezzo agli altri Barry la eclissava. Non che lei avesse l’aria di risentirsi di quel ruolo secondario:
anzi, sembrava felice di abbellire lo sfondo, di ridere allegra alle battute di Barry, semplicemente
felice di stare con lui.
Gavin dubitava che Kay fosse mai stata contenta, in vita sua, di fare il secondo violino. Grattando
le marce lungo Church Row, pensò che la sola idea di cambiare comportamento o tacere le sue
opinioni per il piacere, la felicità o l’autostima del suo compagno per lei sarebbe stata scandalosa.
Quella con Kay gli sembrava la relazione più infelice della sua vita. Perfino quando la storia con
Lisa stava volgendo al termine c’erano state tregue temporanee, risate che improvvisamente li
avevano quasi riportati ai vecchi tempi. Con Kay, invece, sembrava di essere in guerra. A volte
dimenticava che fra loro avrebbe dovuto esserci dell’affetto; non era nemmeno sicuro di piacerle.
Avevano avuto il loro peggior litigio al telefono, la mattina dopo la cena da Miles e Samantha. Alla
fine Kay gli aveva sbattuto il telefono in faccia. Per ventiquattr’ore buone Gavin aveva creduto
che la loro relazione fosse finita e, malgrado fosse esattamente ciò che voleva, aveva provato più
paura che sollievo. Nelle sue fantasie, Kay tornava a Londra e spariva per sempre, ma la realtà era
che si era legata a Pagford mani e piedi, con un lavoro e una figlia alla Winterdown. Pensò alla
prospettiva di imbattersi in lei dappertutto, in quella città piccolissima. Forse Kay stava già
disseminando pettegolezzi velenosi su di lui: la immaginò ripetere a Samantha, o a quella vecchia
impicciona della salumeria che gli faceva venire la pelle d’oca, alcune delle cose che gli aveva
detto al telefono.
Ho sradicato mia figlia, ho lasciato il mio lavoro e mi sono trasferita per te e tu mi tratti come una
puttana che non devi nemmeno pagare.
La gente avrebbe detto che lui si era comportato male. E forse era vero. Forse c’era stato un
momento cruciale in cui avrebbe dovuto tirarsi indietro, ma gli era sfuggito.
Per tutto il fine settimana, Gavin aveva pensato a come ci si doveva sentire con la parte del
cattivo addosso. Una parte assolutamente nuova, per lui: dopo che Lisa l’aveva lasciato, tutti si
erano mostrati carini e solidali, specialmente i Fairbrother. Il senso di colpa e la paura lo avevano
tormentato finché, domenica sera, non era crollato e aveva chiamato Kay per chiederle scusa.
Così era tornato al punto in cui non voleva essere, e odiava Kay per questo.
Parcheggiò nel vialetto dei Fairbrother, come aveva fatto tante volte quando Barry era vivo, e si
diresse verso la porta, notando che dalla sua ultima visita qualcuno aveva passato il tosaerba.
Mary venne ad aprire quasi subito.
«Ciao, come... Mary, che succede?»
Lei aveva il viso bagnato e gli occhi pieni di lacrime, splendenti come gemme. Deglutì un paio di
volte, scosse la testa; poi, quasi senza sapere come, Gavin si ritrovò a stringerla fra le braccia sulla
soglia.
«Mary, è successo qualcosa?»
La sentì annuire. Imbarazzato di trovarsi all’aperto, con la strada alle spalle, Gavin la fece entrare.
Era piccola e fragile fra le sue braccia; si era avvinghiata a lui, affondandogli il viso nella giacca.
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Gavin lasciò andare la valigetta più dolcemente che poté, ma il rumore che fece toccando il
pavimento fece ritrarre Mary, con il respiro corto e le mani sulla bocca.
«Scusami... scusami... oddio, Gav...»
«Cos’è successo?»
Lo chiese con una voce diversa dal solito: forte, autorevole, più simile al modo in cui parlava
Miles nei momenti di emergenza, al lavoro.
«Qualcuno... Non... Qualcuno ha messo...»
Gli fece cenno di entrare nello studio, stipato, trasandato e confortevole, con i vecchi trofei di
canottaggio di Barry sullo scaffale e, alla parete, una grande foto incorniciata: otto ragazze con il
pugno in aria e la medaglia al collo. Mary puntò un dito tremante verso lo schermo del computer.
Ancora con il soprabito addosso, Gavin si sedette a guardare la bacheca del sito del Consiglio
locale di Pagford.
«Stamattina ero in salumeria e Maureen Lowe mi ha detto che c’erano tanti messaggi di
condoglianze sul sito... così v-volevo scrivere per r-ringraziare. E guarda...»
L’aveva visto prima che Mary finisse di parlare. Simon Price inadatto al Consiglio, postato da Il
Fantasma di Barry Fairbrother.
«Oh, Cristo» disse Gavin, disgustato.
Mary si sciolse di nuovo in lacrime. Gavin avrebbe voluto abbracciarla ancora, ma non osava,
soprattutto lì, in quella stanzetta così piena di Barry. Optò per un compromesso, prendendo Mary
per il polso, così sottile, e portandola in cucina.
«Hai bisogno di bere qualcosa» le disse, con quell’insolita voce forte e autorevole. «Niente caffè.
Dov’è la roba seria?»
Ma se lo ricordò prima che lei rispondesse: aveva visto spesso Barry tirare fuori le bottiglie dai
pensili e le preparò un piccolo gin tonic, l’unica cosa che le avesse mai visto bere prima di cena.
«Gav, sono le quattro del pomeriggio.»
«E chi se ne frega?» ribatté Gavin con la sua nuova voce. «Butta giù.»
Una risata inconsulta ruppe i singhiozzi di Mary, che accettò il bicchiere e bevve un piccolo sorso.
Lui prese la carta da cucina per asciugarle il viso e gli occhi.
«Sei gentile, Gav. Non vuoi qualcosa anche tu? Un caffè o... una birra?» chiese, con un’altra
risatina.
Gavin andò a prendersi una bottiglia nel frigo, si tolse il soprabito e si sedette all’isola in mezzo
alla stanza, di fronte a lei. Dopo un po’, bevuto quasi tutto il gin tonic, Mary tornò tranquilla e
silenziosa, come lui l’aveva sempre pensata.
«Secondo te chi è stato?» domandò.
«Un bastardo» rispose Gavin.
«Si stanno litigando il suo posto nel Consiglio. Si azzuffano sui Fields, come al solito. E lui è ancora
lì a dire la sua. Il Fantasma di Barry Fairbrother. Forse è stato davvero lui a scrivere quel post.»
Gavin non capì se era una battuta e optò per un timido sorriso, facile da spegnere.
«Sai, mi piacerebbe pensare che ovunque si trovi si preoccupa per noi, per me e per i bambini.
Ma ne dubito. Scommetto che i suoi pensieri sarebbero ancora per Krystal Weedon. Sai cosa mi
direbbe se fosse qui?»
Vuotò il bicchiere. A Gavin non pareva di averci messo molto gin, ma le guance le si erano
imporporate.
«No» rispose, cauto.
«Mi direbbe che ho tante persone che mi sostengono» disse Mary, e Gavin, che in quella voce
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aveva sentito sempre solo dolcezza, con suo grande stupore vi colse la rabbia. «Sì, probabilmente
direbbe: ‘Tu hai la famiglia, gli amici e i bambini, ma Krystal...’» Mary stava alzando la voce, «‘...
Krystal non ha nessuno’. Sai come ha passato il nostro anniversario di matrimonio?»
«No» ripeté Gavin.
«A scrivere un articolo per il giornale, su Krystal. Krystal e i Fields. Quei maledetti Fields. Quando
non ne sentirò più parlare sarà sempre troppo tardi. Voglio un altro gin. Non bevo abbastanza.»
Gavin, con gesto meccanico, prese il suo bicchiere e tornò all’armadietto dei liquori, sbalordito.
Aveva sempre pensato che il matrimonio di Mary e Barry fosse letteralmente perfetto. Non lo
aveva mai sfiorato l’idea che Mary potesse non approvare al cento per cento ogni impresa, ogni
crociata in cui l’iperattivo Barry si lanciava.
«Di pomeriggio gli allenamenti di canottaggio e nei fine settimana le gare» disse Mary, tra il
tintinnio del ghiaccio che Gavin stava mettendo nel bicchiere, «quasi tutte le sere al computer, a
convincere la gente a sostenere la sua battaglia sui Fields e a scrivere ordini del giorno per le
riunioni del Consiglio. Tutti dicevano: ‘Barry è meraviglioso, quante cose fa per la comunità,
quanto impegno ci mette’.» Bevve un lungo sorso del secondo gin tonic. «Oh, sì, meraviglioso.
Tanto meraviglioso che è morto. Il giorno del nostro anniversario è stato lì a scrivere dalla
mattina alla sera, per rispettare quella stupida scadenza. E non gliel’hanno ancora pubblicato.»
Gavin non riusciva a staccare gli occhi da lei. La rabbia e l’alcol avevano restituito colore al viso.
Stava dritta sulla sedia, invece che curva e spaurita come negli ultimi tempi.
«È questo che l’ha ucciso» affermò con voce stentorea, che riecheggiò appena nella cucina. «Ha
dato sempre tutto a tutti. Tranne che a me.»
Fin dal giorno del funerale di Barry, Gavin aveva riflettuto, con un senso di profonda
inadeguatezza, sul piccolo vuoto che avrebbe lasciato lui nella comunità se fosse morto.
Guardando Mary, si chiese se non sarebbe stato meglio lasciare un vuoto enorme nel cuore di
una sola persona. Possibile che Barry non avesse capito cosa provava Mary? Non si era reso
conto della sua fortuna?
La porta d’ingresso si aprì con uno scatto sonoro e Gavin sentì entrare i quattro ragazzi: voci,
passi, rumore di scarpe e zaini.
«Ciao, Gav» lo salutò il diciottenne Fergus, baciando sua madre sulla testa. «Stai bevendo,
mamma?»
«Colpa mia» disse Gavin. «Prenditela con me.»
Erano così carini, i piccoli Fairbrother. A Gavin piaceva il modo in cui parlavano con la madre,
l’abbracciavano, chiacchieravano fra loro e con lui. Erano aperti, educati e spiritosi. Pensò a Gaia,
alle sue osservazioni maligne, ai suoi silenzi taglienti come vetri rotti, all’astio con cui gli si
rivolgeva.
«Gav, non abbiamo nemmeno parlato dell’assicurazione» si ricordò Mary, mentre i ragazzi
invadevano la cucina, prendendo da bere e da mangiare.
«Non importa» disse Gavin senza riflettere, prima di correggersi in fretta: «Andiamo a parlare in
salotto o...?»
«Sì, andiamo.»
Lei vacillò appena scendendo dall’alto sgabello della cucina e lui la prese di nuovo per il braccio.
«Rimani a cena, Gav?» chiese Fergus.
«Rimani, se vuoi» disse Mary.
Un’ondata di calore lo avvolse.
«Volentieri» rispose. «Grazie.»
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IV
«Molto triste» disse Howard Mollison, dondolandosi appena davanti alla mensola del caminetto.
«Davvero molto triste.»
Maureen gli aveva appena raccontato della morte di Catherine Weedon; aveva saputo tutto
quella sera dalla sua amica Karen, la segretaria; tutto, compreso il reclamo della nipote di Cath
Weedon. Aveva il viso contratto da un’espressione di sdegno compiaciuto; Samantha, che era di
pessimo umore, pensò che le ricordava il sedere di una scimmia. Miles emetteva esclamazioni di
circostanza per esprimere sorpresa e compassione, ma Shirley fissava il soffitto con sguardo
vacuo: odiava quando Maureen conquistava il centro dell’attenzione con notizie che lei avrebbe
dovuto sapere per prima.
«Mia madre conosceva quella famiglia» disse Howard a Samantha, che lo sapeva già. «Erano
vicini di casa in Hope Street. Cath era una persona per bene, a suo modo. Teneva la casa sempre
lustra e ha lavorato fino a più di sessant’anni. Eh, sì, Cath Weedon era una gran lavoratrice,
checché ne sia stato del resto della famiglia.»
A Howard piaceva riconoscere a ciascuno i suoi meriti, quando ce n’erano.
«Il marito perse il lavoro quando chiusero l’acciaieria. Beveva parecchio. No, Cath non ha sempre
avuto vita facile.»
Samantha riusciva a malapena a simulare interesse, ma per fortuna Maureen lo interruppe.
«E la Gazette che dà addosso alla dottoressa Jawanda!» gracchiò. «Immagina come deve sentirsi,
ora che è finita sui giornali! La famiglia ha fatto fuoco e fiamme... be’, non posso biasimarli, sola
in quella casa per tre giorni. Tu la conosci, Howard? Qual è Danielle Fowler?»
Shirley, con il grembiule addosso, si alzò e uscì dalla stanza. Samantha sorseggiò un altro po’ di
vino, sorridendo.
«Fammi pensare, fammi pensare» rifletté Howard. Si vantava di conoscere quasi tutti a Pagford,
ma le ultime generazioni dei Weedon appartenevano più a Yarvil. «Non può essere una figlia,
perché lei, Cath, aveva quattro maschi. Una nipote, direi.»
«E vuole un’inchiesta» disse Maureen. «Be’, si sapeva che sarebbe finita così, era destino. Anzi,
mi meraviglia che ci sia voluto così tanto. La dottoressa Jawanda non ha voluto dare gli antibiotici
al figlio degli Hubbard e lui è finito in ospedale per l’asma. Ha studiato in India o...?»
Shirley, che ascoltava dalla cucina mescolando la salsa, era irritata, come sempre, dal fatto che
Maureen stesse monopolizzando la conversazione; o, quanto meno, così Shirley diceva a se
stessa. Decisa a non tornare di là finché Maureen non avesse finito, andò nello studio per vedere
se qualcuno aveva comunicato la propria assenza alla prossima riunione del Consiglio; in veste di
segretaria, stava già stilando l’ordine del giorno.
«Howard... Miles... venite a vedere!»
La voce di Shirley aveva perso la sua abituale dolcezza flautata e s’era fatta stridula.
Howard uscì dal salotto seguito da Miles, che indossava ancora il completo con cui era stato al
lavoro tutto il giorno. Gli occhi di Maureen, sfioriti, iniettati di sangue e carichi di mascara, erano
fissi sulla soglia come quelli di un segugio: la brama di sapere cosa aveva visto o trovato Shirley
era quasi palpabile. Le sue dita, un groviglio di nocche sporgenti coperte da una pelle quasi
trasparente e maculata, giocherellavano con la fede nuziale e il crocifisso, mandandoli su e giù
per la catenina che aveva al collo. Le rughe profonde che dagli angoli della bocca scendevano fino
al mento avevano sempre ricordato a Samantha il pupazzo di un ventriloquo.
Perché sei sempre qui? strillò Samantha a quella vecchia, nella sua testa. Io non potrei mai
sentirmi tanto sola da voler mettere le tende in casa di Howard e Shirley.
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Sentì salire il disgusto, come un conato di vomito. Avrebbe voluto prendere quella stanza troppo
calda e affollata e schiacciarla con le mani, finché le porcellane, il caminetto a gas e le fotografie
di Miles nelle cornici dorate non si fossero schiantate in mille pezzi; poi lanciare quel rottame,
con tanto di Maureen vizza, truccata e sbraitante intrappolata dentro, scaraventarlo verso il
lontano tramonto, in una specie di lancio del peso siderale. Immaginò il salotto stritolato con
dentro la vecchia strega maledetta sfrecciare nel cielo e piombare nell’oceano sconfinato,
lasciando Samantha sola nel silenzio infinito dell’universo.
Era stato un pomeriggio tremendo. Il commercialista le aveva detto altre cose inquietanti; non
ricordava molto del viaggio di ritorno da Yarvil. Avrebbe voluto sfogarsi con Miles, ma lui, dopo
aver mollato la valigetta ed essersi tolto la cravatta in corridoio, le aveva detto: «Non hai ancora
cominciato a preparare la cena, vero?»
Aveva annusato ostentatamente l’aria e poi si era risposto da solo.
«No, infatti. Meglio così, perché mamma e papà ci hanno invitati.» E prima che lei potesse
protestare aveva aggiunto in tono energico: «Niente a che vedere con il Consiglio. È per
l’organizzazione dei sessantacinque anni di papà.»
La rabbia era quasi un sollievo: oscurava l’ansia, la paura. Aveva seguito Miles alla macchina,
crogiolandosi nella propria frustrazione. Quando lui finalmente le aveva chiesto, all’angolo con
Evertree Crescent: «Com’è andata oggi?» aveva risposto: «Una figata.»
«Chissà che succede» s’incuriosì Maureen, rompendo il silenzio calato in salotto.
Samantha scrollò le spalle. Era tipico di Shirley chiamare a raccolta i maschi e lasciare le donne
nel limbo; Samantha non avrebbe dato alla suocera la soddisfazione di mostrarsi interessata.
I passi elefantini di Howard fecero cigolare il parquet sotto il tappeto dell’ingresso. Maureen
socchiuse la bocca, in attesa.
«Be’, be’, be’» tuonò Howard, tornando in salotto.
«Stavo controllando le comunicazioni di assenza sul sito del Consiglio» cominciò a raccontare
Shirley, che lo seguiva con il fiato un po’ corto, «per la prossima riunione...»
«Qualcuno ha postato delle accuse contro Simon Price» disse Miles a Samantha, battendo sul
tempo i genitori per arrogarsi l’onore dell’annuncio.
«Accuse di che tipo?» chiese Samantha.
«Ricettazione» rispose Howard, reclamando con decisione i riflettori, «e di fregare i suoi capi alla
tipografia.»
Samantha fu lieta di scoprirsi imperturbata. Aveva solo una vaga idea di chi fosse Simon Price.
«Hanno postato sotto pseudonimo» proseguì Howard, «e non è uno pseudonimo di buon gusto.»
«È volgare?» chiese Samantha. «Tipo Cazzogrosso o cose simili?»
La risata di Howard rimbombò nella stanza, mentre Maureen emise un gridolino affettato di
orrore, ma Miles le fece gli occhiacci e Shirley la guardò furibonda.
«No, Sammy, non proprio» rispose Howard. «No, si è firmato ‘Il Fantasma di Barry Fairbrother’.»
«Oh» sospirò Samantha, spegnendo il sorriso. Non le piaceva. Dopotutto c’era stata lei
nell’ambulanza quando avevano inserito aghi e tubi nel corpo inerte di Barry; l’aveva visto morire
sotto la mascherina di plastica; aveva visto Mary afferrargli la mano, aveva sentito i suoi gemiti e i
suoi singhiozzi.
«Oh, no, non è bello.» C’era del compiacimento nella voce di rospo di Maureen. «No, è una
porcheria. Mettere le parole in bocca ai morti. Usare un nome altrui. Non è giusto.»
«No» convenne Howard. Quasi distrattamente attraversò il salotto, prese la bottiglia di vino e
tornò da Samantha per riempirle il bicchiere vuoto. «Ma a quanto pare c’è in giro qualcuno che
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non si cura del buon gusto, pur di mettere Simon Price fuori gioco.»
«Se pensi quello che credo tu stia pensando, papà» disse Miles, «non avrebbero dovuto
prendersela con me, invece che con Price?»
«Come fai a sapere che non l’hanno fatto, Miles?»
«Sarebbe a dire?» chiese subito Miles.
«Sarebbe a dire» disse Howard, felice catalizzatore dell’attenzione di tutti, «che un paio di
settimane fa ho ricevuto una lettera anonima su di te. Niente di specifico. Diceva solo che eri
indegno di prendere il posto di Fairbrother. Mi stupirebbe molto se la lettera non arrivasse dalla
stessa persona che ha scritto quel post. Tutti e due parlano di Fairbrother.»
Samantha inclinò il bicchiere con eccessivo entusiasmo e il vino le gocciolò ai lati del mento, nel
punto esatto dove senza dubbio, col tempo, sarebbero apparsi i suoi solchi da pupazzo di
ventriloquo. Si asciugò il viso con la manica.
«Dov’è la lettera?» chiese Miles, sforzandosi di non apparire scosso.
«L’ho stracciata. Era anonima, non contava niente.»
«Non volevamo turbarti, caro» disse Shirley, dando al figlio un colpetto sul braccio.
«E comunque non possono avere niente contro di te» lo rassicurò Howard, «altrimenti
l’avrebbero già spiattellato, come per Price.»
«La moglie di Simon Price è una ragazza deliziosa» disse Shirley, con una punta di rimpianto.
«Non posso credere che Ruth sappia che suo marito è un poco di buono. È un’amica
dell’ospedale» spiegò a Maureen. «Un’infermiera esterna.»
«Non sarebbe la prima moglie che non vede cosa succede sotto il suo naso» rispose Maureen,
ribattendo alla conoscenza diretta con la saggezza della donna di mondo.
«Usare il nome di Barry Fairbrother è proprio da sfrontati» disse Shirley, fingendo di non aver
sentito Maureen. «Nemmeno un riguardo per la vedova, per la famiglia. L’unica cosa che gli
importa è il loro interesse; sono disposti a sacrificare qualsiasi cosa.»
«La dice lunga su chi abbiamo contro» sentenziò Howard. Si grattò la piega della pancia,
riflettendo. «Dal punto di vista strategico è una mossa astuta. Ho capito fin dall’inizio che Price
avrebbe spaccato il fronte pro-Fields. Maledir non è nata ieri; anche lei l’ha capito e lo vuole fuori
dai piedi.»
«Però» disse Samantha «potrebbe non aver niente a che fare con Parminder e tutti quelli lì.
Potrebbe venire da qualcuno che non conosciamo, qualcuno che ce l’ha con Simon Price.»
«Oh, Sam» disse Shirley con una risata argentina, scuotendo la testa. «Si vede che sei nuova della
politica.»
Oh, Shirley, vaffanculo.
«E perché avrebbero usato il nome di Barry Fairbrother, allora?» chiese Miles, rivoltandosi contro
la moglie.
«Be’, è sul sito, no? È il suo, il seggio vacante.»
«E chi è che si mette a cercare un’informazione del genere sul sito del consiglio? No» concluse lui
in tono grave, «è qualcuno da dentro.»
Dentro... Libby una volta aveva detto a Samantha che dentro una goccia d’acqua di stagno
potevano esserci migliaia di specie microscopiche. Com’erano assurdi, tutti quanti, pensò
Samantha, seduti davanti ai piatti commemorativi di Shirley come se fossero nella stanza del
Consiglio dei ministri a Downing Street, come se un misero pettegolezzo sul sito di un consiglio
locale rappresentasse una campagna organizzata, come se tutto ciò avesse una qualsiasi
importanza.
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Deliberatamente e temerariamente, Samantha distolse l’attenzione dagli altri. Fissò lo sguardo
sulla finestra e sul limpido cielo della sera, pensando a Jake, il ragazzo muscoloso della band
preferita di Libby. All’ora di pranzo era uscita a prendere dei panini e aveva comprato una rivista
musicale con un’intervista a Jake e agli altri membri della band. C’erano un sacco di foto.
«È per Libby» aveva detto alla ragazza che l’aiutava in negozio.
«Urca, guarda quello. Non lo butterei fuori dal letto nemmeno se me lo riempisse di briciole»
aveva risposto Carly indicando Jake, nudo dalla vita in su, con la testa all’indietro e il collo
muscoloso in evidenza. «Ah, ma ha solo ventun anni. No, non sono una pedofila.»
Carly aveva ventisei anni. Samantha non si era presa la briga di sottrarre l’età di Jake dalla
propria. Aveva mangiato il panino, letto l’intervista ed esaminato tutte le foto. Jake con le mani
che stringevano una sbarra sopra la testa, i bicipiti gonfi sotto la maglietta nera; Jake in camicia
bianca aperta, con gli addominali scolpiti sopra i jeans sbottonati.
Samantha beveva il vino di Howard e guardava il cielo sopra la siepe nera di ligustro; era di una
delicata sfumatura di rosa, esattamente il colore che avevano i suoi capezzoli prima di scurirsi e
distendersi con la gravidanza e l’allattamento. Si immaginò a diciannove anni contro i ventuno di
Jake, con la vita di nuovo stretta, curve sode nei punti giusti e un ventre piatto e forte, che stava
comodamente negli shorts bianchi taglia quarantadue. Ricordava perfettamente cosa si provava
a sedersi sulle ginocchia di un ragazzo con quegli shorts: sentire sotto le cosce nude i jeans ruvidi
e caldi di sole, mani grandi intorno alla vita sottile. Si immaginò sul collo il fiato di Jake; immaginò
di guardarlo negli occhi azzurri, a pochi centimetri dai suoi zigomi alti e da quelle labbra sode e
scolpite...
«... nella sala parrocchiale, e per il catering andremo da Bucknoles» stava dicendo Howard.
«Abbiamo invitato tutti: Aubrey e Julia... tutti. Con un po’ di fortuna sarà un doppio
festeggiamento: la tua elezione e il mio genetliaco...»
Samantha si sentiva brilla e arrapata. Ma quando si mangiava? Si accorse che Shirley era uscita
dalla stanza: per mettere il cibo in tavola, sperò.
Il telefono squillò accanto al suo gomito e la fece trasalire. Prima che chiunque potesse muoversi,
Shirley era rientrata di corsa. Una mano era infilata in un guanto da forno a fiori: con l’altra prese
la cornetta.
«Pronto casa Mollison» cantilenò Shirley, in crescendo. «Oh... Ruth, cara, ciao!»
Howard, Miles e Maureen si misero in ascolto, irrigiditi. Shirley si voltò a guardare intensamente
il marito, come se volesse trasmettergli per telepatia la voce di Ruth.
«Sì» cinguettò Shirley. «Sì...»
Samantha, che era la più vicina al ricevitore, riusciva a sentire la voce dell’altra donna, ma senza
distinguere le parole.
«Ah, davvero...?»
Maureen aveva di nuovo la bocca aperta: era come un antico uccellino, o forse uno pterodattilo,
in famelica attesa di notizie rigurgitate.
«Sì, cara, capisco... oh, non dovrebbe essere un problema... no, no, lo spiego io a Howard. Nessun
disturbo.»
I piccoli occhi nocciola di Shirley non si erano mossi da quelli grandi, azzurri e sporgenti di
Howard.
«Ruth, cara» disse Shirley, «non vorrei farti preoccupare, ma hai visto il sito del Consiglio, oggi?...
Ecco... non è una bella cosa, ma credo che tu debba saperlo... qualcuno ha postato una cattiveria
su Simon... be’, credo che dovresti leggerla tu stessa, io non... va bene, cara. D’accordo. Ci
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vediamo mercoledì, spero. Sì. Ciao.»
Shirley posò il ricevitore.
«Non lo sapeva» constatò Miles.
Shirley scosse la testa.
«Perché ha chiamato?»
«Suo figlio» disse Shirley a Howard. «Il tuo nuovo garzone. È allergico alla frutta a guscio.»
«Molto comodo, in un caffè» commentò Howard.
«Voleva chiederti se puoi tenere in frigo una siringa di adrenalina, per sicurezza» disse Shirley.
Maureen tirò su col naso.
«I ragazzi di oggi sono tutti allergici.»
La mano non guantata di Shirley era ancora sulla cornetta. Inconsciamente sperava che la linea le
trasmettesse dei tremori da Casa Bellavista.
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V
Ruth era sola nel salotto, alla luce dell’abat-jour, e continuava a stringere la cornetta che aveva
appena rimesso a posto.
Casa Bellavista era piccola e compatta. Era sempre facile stabilire dove fosse ciascuno dei quattro
Price, perché voci, passi e rumori di porte che si aprivano e chiudevano risuonavano
perfettamente, in quel vecchio edificio. Ruth sapeva che suo marito era ancora sotto la doccia
perché sentiva il sibilo e i tintinnii dello scaldabagno nel sottoscala. Aveva aspettato che Simon
aprisse l’acqua prima di chiamare Shirley; temeva che per lui anche la semplice raccomandazione
di tenere in negozio un’EpiPen volesse dire fraternizzare con il nemico.
Il pc di casa era in un angolo del salotto, dove Simon poteva tenerlo d’occhio e assicurarsi che
nessuno facesse salire vertiginosamente le bollette alle sue spalle. Ruth mollò il telefono e corse
alla tastiera.
Il computer le sembrò metterci un secolo a caricare il sito del Consiglio di Pagford. Si spinse sul
naso gli occhiali da lettura e cominciò a scorrere le pagine. Alla fine trovò la bacheca dei
messaggi. Il nome di suo marito le balzò agli occhi in uno spettrale bianco e nero: Simon Price
inadatto al Consiglio.
Cliccò due volte sul titolo, aprì il messaggio per intero e lesse. Le pareva che tutto intorno a lei
girasse vorticosamente.
«Oddio» bisbigliò.
Lo scaldabagno aveva smesso di fare rumore. Simon stava probabilmente indossando il pigiama
che aveva messo a scaldare sul termosifone. Aveva già tirato le tende del salotto e acceso gli
abat-jour e la stufa a legna, in modo da potersi stendere sul divano a guardare il telegiornale.
Ruth sapeva di doverglielo dire. Non farlo e lasciare che lo scoprisse da solo era fuori discussione:
non sarebbe stata capace di tenerselo per sé. Si sentiva spaventata e in colpa, anche se non
sapeva perché.
Lo sentì scendere le scale e poi lo vide sulla soglia con il suo pigiama di cotone felpato blu.
«Simon» sussurrò lei.
«Che c’è?» disse lui, già irritato. Aveva capito che era successo qualcosa: che il suo voluttuoso
programma di divano, fuoco e telegiornale stava per andare a rotoli.
Lei indicò il monitor, l’altra mano premuta scioccamente sulla bocca come una bambina. Quel
terrore lo contagiò. Si avvicinò a grandi passi al pc e guardò lo schermo, accigliato. Non era un
lettore veloce. Lesse ogni riga, ogni parola, con diligenza e attenzione.
Quando ebbe finito rimase immobile, passando mentalmente in rassegna i potenziali spioni.
Pensò al ragazzo del muletto, quello con la gomma perennemente in bocca, che aveva lasciato a
piedi ai Fields quando erano andati a prendere il nuovo computer. Pensò a Jim e Tommy, che
facevano i lavoretti in nero con lui. Qualcuno al lavoro doveva aver parlato. Rabbia e paura
cozzarono dentro di lui, innescando una reazione incendiaria.
Andò ai piedi delle scale e urlò: «Voi due! Venite SUBITO GIÙ!»
Ruth aveva ancora la mano sulla bocca. Simon provò l’impulso sadico di togliergliela con la forza,
di dirle di darsi un cazzo di contegno, che era lui quello nella merda.
Andrew entrò nella stanza per primo, con Paul dietro. Vide le insegne del Consiglio locale di
Pagford sul monitor e sua madre con la mano sulla bocca. Avanzò a piedi nudi sulla vecchia
moquette, con la sensazione di precipitare nel vuoto dentro un ascensore rotto.
«Qualcuno» disse Simon, fulminando i suoi figli con lo sguardo, «ha parlato in giro di cose che ho
detto in questa casa.»
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Paul si era portato giù il libro degli esercizi di chimica e lo teneva come un messale. Andrew aveva
gli occhi fissi su suo padre, cercando di trasmettere un misto di confusione e curiosità.
«Chi ha spifferato che abbiamo un computer rubato?» chiese Simon.
«Io no» si difese Andrew.
Paul guardava suo padre con occhi vacui, cercando di assimilare la domanda. Andrew pregava
che suo fratello parlasse. Perché era così lento?
«Allora?» ringhiò Simon a Paul.
«Non credo di...»
«Non credi? Non credi di averlo detto a qualcuno?»
«No, non credo di averlo detto...»
«Ah, interessante» disse Simon, camminando su e giù davanti a Paul. «Interessante.»
Con uno schiaffo gli fece volare di mano il libro degli esercizi.
«Cerca di riflettere, coglione» abbaiò. «Cerca di riflettere, cazzo. Hai detto a qualcuno che
abbiamo un computer rubato?»
«Non rubato» precisò Paul. «Non ho mai detto a nessuno... credo di non aver nemmeno detto
che ne abbiamo uno nuovo.»
«Ho capito» disse Simon. «Allora la notizia è circolata da sola, no?»
Stava indicando il monitor.
«Qualcuno ha parlato, cazzo!» urlò. «Perché ora è su Internet, Cristo! E sarà una fortuna se non
perderò il – mio – cazzo – di – lavoro!»
Rimarcò ciascuna delle ultime cinque parole battendo il pugno sulla testa di Paul. Paul si
rannicchiò tutto, si fece piccolo piccolo. Un liquido nero gli gocciolò dalla narice sinistra; perdeva
sangue dal naso svariate volte alla settimana.
«E tu?» ruggì Simon a sua moglie, ancora immobile accanto al computer, con gli occhi sgranati
dietro le lenti e la mano sulla bocca come un velo islamico. «Ti sei messa a spettegolare?»
Ruth si tolse il bavaglio.
«No, Simon» sussurrò, «l’unica persona a cui ho parlato del computer nuovo è Shirley, e lei non
avrebbe mai...»
Stupida, cogliona, perché gliel’hai detto?
«Cos’hai fatto?» chiese Simon, piano.
«L’ho detto a Shirley» gemette Ruth. «Non ho detto che era rubato, però, Simon, ho solo detto
che lo stavi portando a casa...»
«Direi che è tutto chiaro, no?» ruggì Simon, alzando la voce fino a urlare. «Quello stronzo di suo
figlio vuole essere eletto, è ovvio che lei mi vuole fuori dalle palle!»
«Ma è stata lei a dirmelo, Simon, proprio adesso, non avrebbe...»
Lui le piombò addosso e la colpì sul viso, come aveva voluto fare fin da quando aveva visto la sua
stupida espressione spaventata; gli occhiali rotearono nell’aria e si schiantarono contro la libreria;
la schiaffeggiò di nuovo e la mandò a sbattere contro il tavolino da computer che aveva
comprato, tutta orgogliosa, con il primo stipendio del South West.
Andrew si era fatto una promessa: gli pareva di muoversi al rallentatore e tutto era freddo,
appiccicoso e vagamente irreale.
«Non picchiarla» disse, mettendosi tra i suoi genitori. «Non...»
Il labbro gli si spaccò, schiacciato fra i propri incisivi e le nocche di Simon, e Andrew cadde
all’indietro sopra sua madre, riversa sulla tastiera; un altro pugno lo colpì sulle braccia che aveva
alzato per ripararsi il viso; mentre Andrew cercava di sollevarsi da sua madre e lei si divincolava,
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Simon, invasato, li colpiva entrambi alla cieca...
«Non permetterti di dirmi cosa devo fare... non permetterti, vigliacco, pezzo di merda, sacco di
piscio...»
Andrew si mise in ginocchio per cercare di sottrarsi e Simon gli sferrò un calcio nelle costole. Paul
mugolò in tono patetico: «Fermati!» Simon tirò un altro calcio, ma Andrew lo schivò e suo padre,
finito con il piede contro i mattoni del caminetto, improvvisamente, assurdamente, si mise a
ululare dal dolore.
Andrew cercò come poté di scansarsi; Simon si teneva il piede, saltellando e imprecando in
falsetto; Ruth era crollata sulla sedia girevole e singhiozzava con il viso tra le mani. Andrew si
alzò: sentiva in bocca il sapore del proprio sangue.
«Chiunque potrebbe aver parlato di quel computer» ansimò, preparandosi ad altre botte; ora che
la lotta era cominciata si sentiva più coraggioso; era l’attesa che ti snervava, vedere il mento di
Simon cominciare a sporgere in fuori e sentirgli crescere nella voce la voglia di violenza. «Hai
detto che hanno picchiato una guardia giurata. Chiunque può aver parlato. Non siamo stati noi...»
«Non... stronzetto... mi sono rotto il dito, cazzo!» ansimò Simon, ricadendo all’indietro su una
poltrona, sempre con il piede in mano. Sembrava aspettarsi un po’ di solidarietà.
Andrew immaginò di prendere una pistola e sparargli in faccia, vedere i suoi connotati esplodere
e il cervello imbrattare la stanza.
«E Pauline ha di nuovo le mestruazioni!» gridò Simon a Paul, che con le dita cercava di contenere
il sangue che gli colava dal naso. «Levati dalla moquette! Levati da quella cazzo di moquette,
finocchietto!»
Paul uscì in fretta dalla stanza. Andrew si premette l’orlo della maglietta sul labbro che bruciava.
«E i lavori in nero?» singhiozzò Ruth, con la guancia arrossata per il pugno e le lacrime che le
scendevano lungo il mento. Andrew odiava vederla così, umiliata e patetica; ma quasi odiava
anche lei per essersi messa in quella situazione, quando chiunque avrebbe capito... «Lì si parla dei
lavori in nero. Shirley non ne sa niente, come farebbe a saperlo? È stato qualcuno della
tipografia. Te l’avevo detto, Simon, di non fare quei lavori, ti hanno sempre messo in ansia...»
«Piantala di piagnucolare, cretina. Quando c’era da spendere i soldi mica ti tiravi indietro!» gridò
Simon, di nuovo con la mascella protesa. Andrew voleva urlare a sua madre di stare zitta:
continuava a blaterare quando anche un idiota avrebbe capito che doveva tacere, e taceva
quando avrebbe fatto bene a parlare; non imparava mai, non capiva mai niente.
Per un minuto nessuno parlò. Ruth si asciugava gli occhi con il dorso della mano e ogni tanto
tirava su col naso. Simon, con la mascella contratta, si teneva il piede e respirava
rumorosamente. Andrew si leccava il sangue dal labbro, che bruciava e si stava gonfiando.
«Mi costerà il lavoro, cazzo» disse Simon, guardandosi intorno nella stanza con occhi da pazzo,
come se in giro potesse esserci qualcuno che aveva dimenticato di picchiare. «Già parlano di
esuberi. È la fine. È la...» Sbatté la lampada giù dal tavolino, ma non si ruppe e rotolò sul
pavimento. La raccolse, staccò la spina, la sollevò sopra la testa e la scagliò verso Andrew, che la
evitò.
«Chi cazzo ha parlato?» urlò Simon, mentre la base della lampada si spaccava contro il muro.
«Qualcuno ha parlato, merda!»
«Qualche bastardo in tipografia!» gridò Andrew di rimando; il labbro era gonfio e pulsava,
sembrava uno spicchio di mandarino. «Non pensi che... non pensi che ormai abbiamo imparato a
tenere la bocca chiusa?»
Era come capire le intenzioni di un animale selvaggio. Pur vedendo che i muscoli della mascella si
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contraevano ancora, Andrew capì che suo padre stava riflettendo sulle sue parole.
«Quando è stato scritto?» abbaiò a Ruth. «Guarda! Guarda la data!»
Sempre singhiozzando, Ruth guardò lo schermo, ma con gli occhiali rotti doveva avvicinare la
punta del naso a pochi centimetri.
«Il quindici» bisbigliò.
«Il quindici... domenica» disse Simon. «Domenica, no?»
Né Andrew né Ruth lo corressero. Andrew non riusciva a credere alla propria fortuna, né che
sarebbe durata a lungo.
«Domenica» ripeté Simon. «Vuol dire che chiunque... cazzo, il dito» urlò, alzandosi in piedi, e
zoppicando esageratamente si avvicinò a Ruth. «Levati di mezzo!»
Lei si alzò subito e lo guardò leggere di nuovo il messaggio. Soffiava dal naso come una bestia, per
liberarsi le vie aeree. Andrew pensò che sarebbe stato capace di strangolare suo padre in
quell’istante, se solo avesse avuto un fil di ferro a portata di mano.
«È stato qualcuno al lavoro» concluse Simon, come se ci fosse arrivato in quel momento e non
avesse sentito sua moglie e suo figlio avanzare l’ipotesi. Mise le mani sulla tastiera e si rivolse a
Andrew. «Come lo elimino?»
«Cosa?»
«Tu fai informatica, cazzo! Come lo cancello?»
«Non si può... non puoi» balbettò Andrew. «Bisogna essere amministratori.»
«Allora diventa amministratore» disse Simon, saltando in piedi e indicando a Andrew la sedia
girevole.
«Non posso» disse Andrew. Temeva che Simon covasse una nuova esplosione di violenza.
«Bisogna avere lo username e la password giusti.»
«Togliti, cazzo, non servi a niente.»
Simon spinse via Andrew con una manata nello sterno e lo mandò a sbattere contro la mensola
del camino.
«Passami il telefono!» gridò Simon alla moglie, sedendosi di nuovo in poltrona.
Ruth prese il telefono e fece i pochi passi che la separavano da Simon. Lui glielo strappò di mano
e picchiò sui tasti.
Andrew e Ruth aspettarono in silenzio che Simon chiamasse prima Jim e poi Tommy, quelli con
cui aveva fatto i lavori in nero alla tipografia. La rabbia e il sospetto verso i complici si riversavano
nel telefono in forma di frasi brusche e piene di improperi.
Paul non era tornato. Forse stava ancora cercando di tamponarsi il sangue dal naso, ma più
probabilmente era troppo spaventato. Andrew pensò che non fosse una mossa furba. La cosa
migliore era andarsene solo dopo che Simon ti aveva dato il permesso.
Finite le telefonate, Simon, senza parlare, tese il telefono a Ruth, che lo prese e lo rimise subito a
posto.
Simon restò seduto a pensare, con il dito fratturato che pulsava; pieno di rabbia impotente,
sudava davanti alla stufa. Le botte che aveva somministrato a sua moglie e a suo figlio non erano
niente, non ci pensava nemmeno; gli era appena successa una cosa terribile ed era naturale che
la rabbia fosse esplosa contro chi gli era più vicino: così andava la vita. E comunque quella
cogliona di Ruth aveva ammesso di averlo detto a Shirley...
Simon stava facendo la sua personale ricostruzione dei fatti. Qualche bastardo (i sospetti
ricadevano sul ragazzo del muletto, che si era incazzato non poco quando Simon l’aveva mollato
ai Fields) aveva parlato di lui con i Mollison (in maniera del tutto illogica, l’ammissione di Ruth di
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aver parlato a Shirley del computer rendeva tutto questo più plausibile) e loro (i Mollison, il
sistema, quelli che ti sorridevano e poi ti pugnalavano alle spalle, che difendevano il loro potere)
avevano scritto quel messaggio sul sito (era quella vecchia rincoglionita di Shirley a gestire il sito,
il che metteva il sigillo sulla sua teoria).
«È quella stronza della tua amica» disse Simon alla moglie, ancora tremante e con il viso bagnato.
«Quella stronza di Shirley. È stata lei. Mi butta il fango addosso per togliermi dalle palle di suo
figlio. Ecco chi è stato.»
«Ma Simon...»
Zitta, cretina, zitta, pensò Andrew.
«Ancora la difendi?» latrò Simon, riuscendo ad alzarsi di nuovo.
«No!» strillò Ruth e lui sprofondò di nuovo in poltrona, felice di alleviare dal peso il piede che
pulsava.
La direzione della Harcourt-Walsh non sarebbe stata contenta di quei lavori in nero, pensò
Simon. E non poteva escludere che gli sbirri venissero a impicciarsi del computer. Sentiva il
bisogno di agire.
«Tu» disse, indicando Andrew. «Stacca quel computer. Prese e tutto quanto. Vieni con me.»
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VI
Cose negate, cose taciute, cose nascoste e dissimulate.
Il torbido fiume Orr scorreva sui rottami del computer rubato, gettato a mezzanotte dal vecchio
ponte di pietra. Simon andò a lavorare zoppicando sul suo dito rotto e disse a tutti che era
scivolato sul vialetto del giardino. Ruth si mise del ghiaccio sui lividi e li coprì con mano inesperta
sotto uno strato di vecchio fondotinta; sul labbro di Andrew si formò una crosta, come quella di
Dane Tully; Paul ebbe un’altra emorragia dal naso sull’autobus e arrivato a scuola dovette correre
subito in infermeria.
Shirley Mollison, che era andata a fare spese a Yarvil, rispose alle ripetute chiamate di Ruth solo
nel tardo pomeriggio, dopo che Andrew e Paul erano già tornati da scuola. Dalle scale davanti al
salotto, Andrew ascoltò Ruth che evidentemente stava cercando di risolvere la faccenda prima
del ritorno di Simon, perché Simon era più che capace di strapparle il telefono di mano e mettersi
a inveire contro la sua amica.
«... solo sciocchezze» stava dicendo in tono gioviale, «ma ti saremmo molto grati se potessi
cancellarlo, Shirley.»
Lui fece una smorfia e il taglio sul labbro gonfio minacciò di riaprirsi. Non sopportava che sua
madre chiedesse un favore a quella donna. In quel momento provò un fastidio irrazionale all’idea
che il post non fosse stato ancora tolto; poi ricordò che l’aveva scritto lui, che era stato lui la
causa di tutto: dei lividi sul volto di sua madre, del proprio labbro spaccato e dell’atmosfera di
terrore che pervadeva la casa alla prospettiva del ritorno di Simon.
«So bene che hai un sacco di cose da fare...» stava dicendo vigliaccamente Ruth, «ma capisci che
danno potrebbe fare a Simon, se la gente credesse...?»
Era esattamente così, pensò Andrew, che Ruth parlava a Simon nelle rare occasioni in cui si
sentiva obbligata a contraddirlo: servile, esitante, piena di scuse. Perché sua madre non le
ordinava senza tante storie di cancellare subito il post? Perché era sempre così codarda, perché si
scusava in continuazione? Perché non lasciava suo padre?
Aveva sempre considerato Ruth diversa dagli altri, buona, pura. Da bambino aveva visto i genitori
in un netto bianco e nero, uno cattivo e spaventoso, l’altra buona e gentile. Crescendo, tuttavia,
aveva dovuto fare i conti con la cecità volontaria di Ruth, con le sue ostinate apologie del padre,
con la sua incrollabile devozione a quel falso idolo.
Andrew la sentì riattaccare e scese rumorosamente le scale, per incrociarla mentre usciva dal
salotto.
«Chiamavi quella del sito?»
«Sì» disse Ruth, in tono stanco. «Toglierà quelle cose su papà, così si spera che sia tutto finito.»
Andrew sapeva che sua madre era intelligente e che in casa se la cavava molto meglio di
quell’impiastro di suo padre. Era in grado di guadagnarsi da vivere da sola.
«Perché non ha eliminato subito il post, se siete amiche?» chiese, seguendola in cucina. Per la
prima volta in vita sua, la pietà che provava per Ruth si mescolava a un senso di frustrazione che
rasentava la rabbia.
«Ha avuto da fare» sbottò Ruth.
Aveva un occhio iniettato di sangue per via del pugno di Simon.
«Le hai detto che potrebbe finire nei guai per aver lasciato del materiale diffamatorio online, se è
lei che modera la bacheca? L’abbiamo studiato in infor...»
«Ti ho detto che lo toglie, Andrew» lo interruppe Ruth con rabbia.
Non aveva paura di mostrarsi arrabbiata ai figli. Forse perché loro non la picchiavano? O per
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qualche altro motivo? Andrew sapeva che la faccia le faceva male quanto a lui.
«Secondo te chi è stato a scrivere quella roba su papà?» le chiese, temerariamente.
Lei lo guardò furibonda.
«Non lo so» disse, «ma chiunque sia stato ha fatto una cosa riprovevole e vigliacca. Tutti hanno
qualcosa da nascondere. Che succederebbe se papà mettesse su Internet certe cose che sa di
altre persone? Ma lui non lo farebbe mai.»
«Sarebbe contrario ai suoi principi morali, vero?»
«Tu non conosci tuo padre quanto credi!» gridò Ruth, con le lacrime agli occhi. «Vattene... vai a
fare i compiti... non mi interessa... basta che te ne vai!»
Andrew, che era sceso per andare in cucina a mangiare qualcosa, tornò in camera affamato e
restò a lungo disteso sul letto a chiedersi se quel post non fosse stato un grande sbaglio e a
chiedersi anche cosa mai avrebbe dovuto fare Simon a uno di loro perché sua madre capisse
finalmente che lui di principi morali non ne aveva.
Nel frattempo, nello studio del suo villino, a un chilometro di distanza da Casa Bellavista, Shirley
Mollison cercava di ricordare come si faceva a cancellare un post dalla bacheca. I messaggi erano
così poco frequenti che di solito li lasciava lì anche per tre anni. Alla fine tirò fuori dallo schedario
nell’angolo la guida semplificata all’amministrazione del sito che lei stessa si era scritta quando
aveva cominciato e dopo vari tentativi maldestri riuscì a rimuovere le accuse contro Simon. Lo
fece solo perché glielo aveva chiesto Ruth, che le era simpatica; non si sentiva minimamente
responsabile della faccenda.
Tuttavia la cancellazione del post non bastò a rimuoverlo dalle coscienze di coloro che avevano
un forte interesse nella corsa al seggio di Barry. Parminder Jawanda aveva salvato il messaggio sul
proprio computer e continuava ad aprirlo, sottoponendo ogni frase a uno scrutinio degno di un
esperto della scientifica che esamina le fibre su un cadavere, in cerca di tracce del DNA letterario
di Howard Mollison. Nonostante tutti gli sforzi per dissimulare la sua inconfondibile fraseologia,
Parminder era sicura di riconoscerne la pomposità in quel ‘Price non è nuovo al contenimento dei
costi’ e in ‘il beneficio dei suoi molti utili contatti’.
«Minda, tu non conosci Simon Price» disse Tessa Wall. Lei e Colin stavano cenando con i Jawanda
nella cucina della Vecchia Canonica e Parminder aveva attaccato a parlare di quel post
nell’istante in cui loro avevano messo piede in casa. «È un uomo molto sgradevole e può essersi
inimicato molte persone. Francamente non credo che si tratti di Howard Mollison. Non ce lo vedo
a fare una mossa così scoperta.»
«Non illuderti, Tessa» replicò Parminder. «Howard farà di tutto perché Miles venga eletto. Stai a
vedere. La prossima volta se la prenderà con Colin.»
Tessa vide le nocche di Colin impallidire attorno al manico della forchetta e pensò che Parminder
avrebbe fatto bene a pensare prima di parlare. Doveva pur sapere com’era fatto Colin: glielo
prescriveva lei, il Prozac.
Vikram era seduto a capotavola in silenzio. Il suo bel viso si compose con naturalezza in un sorriso
vagamente sardonico. Tessa aveva sempre avuto soggezione del chirurgo, come di tutti gli uomini
molto belli. Parminder era una delle sue migliori amiche, ma Vikram lo conosceva a stento;
lavorava fino a tardi ed era molto meno coinvolto di sua moglie nelle vicende di Pagford.
«Ti ho detto dell’ordine del giorno, no?» Parminder non smetteva un attimo di parlare. «Quello
per la prossima riunione. Howard vuole proporre sia una mozione sui Fields, da trasmettere alla
commissione di Yarvil per la definizione dei collegi elettorali, sia una risoluzione per lo sfratto del
Centro per la tossicodipendenza. Sta cercando di accelerare tutto, fintanto che il seggio di Barry è
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vacante.»
Continuava ad alzarsi da tavola per prendere delle cose, aprendo più armadietti del necessario,
distratta, svagata. Per due volte dimenticò il motivo per cui si era alzata e tornò al tavolo a mani
vuote. Vikram, da sotto le folte ciglia, seguiva ogni suo movimento.
«Ieri sera l’ho chiamato» disse Parminder, «e gli ho detto che secondo me dovremmo aspettare
di avere di nuovo il Consiglio al completo, prima di votare su temi così importanti. Ha riso; ha
detto che non si può aspettare. Dice che Yarvil vuole sapere la nostra opinione, con la revisione
dei collegi alle porte. Quello che teme veramente è che Colin ottenga il seggio di Barry, perché
allora non sarebbe tanto facile imporci quelle decisioni. Ho scritto un’e-mail a tutti quelli che
dovrebbero essere dalla nostra parte per vedere se non è possibile insistere perché rimandi il
voto fino alla prossima riunione...
«‘Il Fantasma di Barry Fairbrother’» aggiunse Parminder, senza fiato. «Che bastardo. Non batterà
Barry usando la sua morte. Farò di tutto per impedirglielo.»
Tessa credette di vedere le labbra di Vikram contrarsi. La vecchia Pagford, Howard Mollison in
testa, di solito perdonava a Vikram i crimini che non riusciva a perdonare a sua moglie: la pelle
scura, l’intelligenza e l’agiatezza (tutte cose in cui Shirley Mollison coglieva un vago sentore di
arroganza). Tessa lo trovava profondamente ingiusto: Parminder si dedicava con impegno a ogni
ambito della vita cittadina: feste scolastiche, vendite di beneficenza, l’ambulatorio e il Consiglio
locale, e in cambio riceveva il disprezzo implacabile della vecchia guardia di Pagford; Vikram, che
non partecipava quasi mai a niente, veniva adulato, trattato con deferenza ed esibito con
orgoglio.
«Mollison è un megalomane» disse Parminder, spostando nervosamente il cibo nel piatto. «Un
prepotente e un megalomane.»
Vikram posò coltello e forchetta e si appoggiò allo schienale.
«Allora perché» chiese, «si accontenta di presiedere il consiglio locale? Perché non ha provato a
entrare nel Consiglio distrettuale?»
«Perché pensa che Pagford sia il centro dell’universo» scattò Parminder. «Tu non capisci: non
cambierebbe la presidenza del Consiglio di Pagford nemmeno con Downing Street. E comunque
non ha bisogno di stare nel Consiglio di Yarvil; c’è già Aubrey Fawley che fa i suoi interessi.
Scaldano i motori per la revisione dei confini. Lavorano insieme.»
Parminder sentiva l’assenza di Barry aleggiare come uno spettro a tavola. Lui avrebbe spiegato
ogni cosa a Vikram, e l’avrebbe anche fatto ridere; Barry sapeva imitare alla perfezione la retorica
di Howard, la sua andatura caracollante da papera, le sue improvvise eruttazioni gastrointestinali.
«Glielo dico sempre, si fa stressare troppo» disse Vikram a Tessa, che si accorse con terrore di
essere arrossita sotto lo sguardo di quegli occhi scuri. «Hai saputo di quello stupido reclamo... la
donna anziana con l’enfisema?»
«Sì, Tessa lo sa. Lo sanno tutti. Dobbiamo parlarne a tavola?» sbottò Parminder, alzandosi di
scatto e cominciando a sparecchiare.
Tessa cercò di aiutarla, ma Parminder le intimò bruscamente di restare dov’era. Vikram rivolse a
Tessa un sorrisino solidale, che le fece tremolare lo stomaco. Non poté fare a meno di ricordare,
mentre Parminder si dava da fare intorno alla tavola, che il matrimonio fra lei e Vikram era stato
combinato.
(«Vuol dire solo che le famiglie organizzano l’incontro» le aveva spiegato Parminder nei primi
tempi della loro amicizia, un po’ sulla difensiva e infastidita da qualcosa che aveva letto sul viso di
Tessa. «Nessuno ti obbliga a sposarti.»
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Ma in altre occasioni le aveva parlato dell’enorme pressione da parte di sua madre perché
prendesse marito.
«Tutti i sikh vogliono che i loro figli si sposino. È un’ossessione» aveva detto Parminder con
amarezza.)
Colin si vide togliere il piatto senza rimpianti. La nausea che gli stringeva lo stomaco era ancora
più forte che all’inizio della serata. Si sentiva distante dagli altri tre commensali, come se fosse
dentro una spessa bolla di vetro. Era una sensazione fin troppo familiare, quella di aggirarsi in
una gigantesca sfera di ansia, intrappolato, a guardare le sue paure passargli davanti e oscurare il
mondo esterno.
Tessa non gli era d’aiuto: faceva apposta a considerare con freddezza e distacco la sua campagna
per il seggio di Barry. Lo scopo di quella cena era consentire a Colin di discutere con Parminder
dei volantini che aveva realizzato per la campagna elettorale. Tessa non voleva saperne di farsi
coinvolgere, stroncando sul nascere qualunque discussione su quell’angoscia che lentamente lo
ingoiava. Gli negava qualsiasi sfogo.
Cercando di imitare la sua freddezza, fingendo di non essere allo stremo sotto quella pressione
che si era creato da sé, le aveva taciuto la telefonata della Yarvil and District Gazette arrivata
quella mattina a scuola. La giornalista, all’altro capo della linea, voleva parlare con lui di Krystal
Weedon.
L’aveva toccata?
Colin le aveva detto che la scuola non poteva assolutamente divulgare informazioni sui suoi
allievi e che le comunicazioni con Krystal dovevano avvenire attraverso i genitori.
«Ho già parlato con Krystal» aveva detto la voce. «Volevo solo avere la sua...»
Ma Colin aveva riattaccato e il terrore aveva cancellato tutto il resto.
Perché volevano parlare di Krystal? Perché avevano chiamato lui? Aveva fatto qualcosa? L’aveva
toccata? Si era lamentata?
Lo psicologo gli aveva insegnato che, di fronte a pensieri come questi, non doveva confermarne
né smentirne il contenuto. Doveva riconoscerne l’esistenza e andare avanti normalmente, ma era
come avere il prurito peggiore del mondo e cercare di non grattarsi. La rivelazione pubblica degli
sporchi segreti di Simon Price sul sito del Consiglio lo aveva sconvolto: il terrore di essere
smascherato, che aveva dominato la maggior parte della vita di Colin, ora aveva un volto, con le
fattezze di un anziano cherubino e un’intelligenza demoniaca che ribolliva sotto un berretto da
cacciatore di cervi calcato sui riccioli grigi e dietro due occhi sporgenti e indagatori. Gli tornavano
alla mente i racconti di Barry sulla formidabile abilità strategica del proprietario della salumeria e
sulla complessa rete di alleanze che univa i sedici membri del Consiglio locale di Pagford.
Colin aveva spesso immaginato come avrebbe scoperto che era tutto finito: un circospetto
articolo di giornale; facce che distoglievano lo sguardo quando entrava da Mollison & Lowe; la
preside che lo convocava in ufficio per due parole in privato. Aveva visualizzato la sua caduta
migliaia di volte: la sua vergogna sbandierata, appesa al collo come la campanella di un lebbroso,
ormai impossibile da nascondere, per sempre. Sarebbe stato licenziato. Poteva finire perfino in
prigione.
«Colin» lo chiamò Tessa, piano; Vikram gli stava offrendo del vino.
Tessa sapeva cosa si stava agitando dietro quella grande fronte a cupola; non nei particolari, ma il
tema generale – l’angoscia – era lo stesso da anni. Sapeva che Colin non poteva farci nulla, era
fatto così. Molti anni prima Tessa aveva letto le parole di W.B. Yeats e ne aveva colto tutta la
verità:
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«Una pietà indicibile, nel cuore del cuore dell’amore.»
Aveva sorriso, leggendo la poesia, e aveva accarezzato la pagina, perché sapeva di amare Colin e
sapeva che la compassione era una parte enorme di quell’amore.
A volte, però, la pazienza si esauriva. A volte anche lei aveva bisogno di un po’ d’attenzione, e
anche di essere rassicurata. Com’era prevedibile, Colin si era fatto prendere dal panico alla
notizia che le era stato diagnosticato il diabete di tipo 2, ma quando era riuscita a convincerlo di
non essere in imminente pericolo di vita era stato spiazzante vedere con che velocità lui aveva
abbandonato l’argomento, tornando a immergersi completamente nei suoi piani elettorali.
(Quella mattina, a colazione, si era misurata per la prima volta la glicemia con il glucometro, poi
aveva preso la siringa predosata e se l’era iniettata nella pancia. Era stato molto più doloroso di
quando gliel’aveva fatta l’abile Parminder.
Ciccio aveva afferrato la sua scodella di cereali e si era voltato bruscamente dall’altra parte,
versando il latte sul tavolo, sulla manica della divisa scolastica e sul pavimento della cucina. Aveva
sputato nella scodella i cereali che aveva in bocca e domandato: «Devi proprio farlo a tavola,
cazzo?»
Colin aveva reagito con disordinata irritazione.
«Non essere volgare! E guarda cos’hai combinato!» aveva gridato. «Siediti come si deve! Pulisci
lì! Come ti permetti di parlare così a tua madre? Chiedile scusa!»
Tessa aveva estratto l’ago troppo in fretta ed era uscito un po’ di sangue.
«Scusa se mi viene da vomitare quando ti fai una pera a colazione, Tess» aveva detto Ciccio da
sotto il tavolo, dove stava pulendo il pavimento con la carta da cucina.
«Tua madre non si sta facendo ‘una pera’, ha un problema di salute!» aveva urlato Colin. «E non
chiamarla ‘Tess’!»
«So che non ti piacciono gli aghi, Stu» aveva detto Tessa, ma gli occhi le bruciavano; si era fatta
male, era scossa e arrabbiata con entrambi, sentimenti che arrivata a sera non si era ancora tolta
di dosso.)
Tessa si chiese come mai Parminder non apprezzasse le premure di Vikram. Colin non si
accorgeva mai di quando lei era stressata. Forse, pensò con rabbia, c’è qualcosa di buono in
questa faccenda dei matrimoni combinati... Certamente mia madre non avrebbe scelto Colin, per
me...
Parminder stava mettendo in tavola scodelle di frutta tagliata. Tessa si chiese con un pizzico di
acredine che cosa avrebbe offerto per dessert a un ospite non diabetico, ma si consolò pensando
che a casa c’era una barretta di cioccolato nel frigorifero.
Parminder, che aveva parlato cinque volte più di chiunque altro per tutta la cena, aveva
cominciato una tirata su Sukhvinder. A Tessa aveva già raccontato al telefono del tradimento
della figlia; ora, a tavola, ripeté tutto da capo.
«La cameriera da Howard Mollison! Non capisco, non capisco proprio che cosa le sia venuto in
mente. A Vikram...»
«Non le è venuto in mente niente, Minda» intervenne Colin, rompendo il lungo silenzio. «Sono
adolescenti. Non gliene importa niente. Sono tutti uguali.»
«Ma che sciocchezze, Colin» sbottò Tessa. «Non sono affatto tutti uguali. A noi farebbe molto
piacere se Stu si trovasse un lavoro di sabato... ma non c’è neanche da pensarci.»
«... a Vikram invece non dispiace» incalzò Parminder, ignorando l’interruzione. «Non ci vede
niente di sbagliato, vero?»
Vikram rispose tranquillamente: «È un’esperienza di lavoro. Probabilmente non andrà
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all’università, e non c’è nulla di cui vergognarsi. Non è per tutti. Secondo me Cincia si sposerà
presto e sarà felice.»
«La cameriera...»
«Be’, non possono essere tutti accademici, ti pare?»
«No, lei certamente non lo è» confermò Parminder, che quasi tremava per la rabbia e la
tensione. «I voti sono desolanti... Non ha aspirazioni, non ha ambizioni... La cameriera...
‘Diciamocelo, non andrò mai all’università’... Ah certo, con quell’atteggiamento non ci andrai... da
Howard Mollison... Oh, lui sarà stato fuori di sé dalla gioia... Mia figlia che va da lui col cappello in
mano in cerca di lavoro. Ma cosa le è venuto in mente... Cosa le è venuto in mente?»
«A te non piacerebbe che Stu andasse a lavorare da uno come Mollison» disse Colin a Tessa.
«A me non importerebbe» rispose lei. «Sarei felice se mostrasse un po’ di voglia di lavorare. Per
quanto ne so, l’unica cosa che gli interessa sono i giochi al computer e...»
Ma Colin non sapeva che Stuart fumava; Tessa si interruppe e Colin disse: «In realtà sarebbe
proprio da lui fare una cosa del genere. Insinuarsi nelle grazie di qualcuno che non ci piace solo
per farci un dispetto. Lo farebbe eccome.»
«Ma santo cielo, Colin, Sukhvinder non sta cercando di fare un dispetto a Minda» replicò Tessa.
«Quindi secondo te sono irragionevole?» proruppe Parminder.
«No, no» disse Tessa, atterrita di vedere con che facilità erano stati risucchiati in quella lite
familiare. «Sto solo dicendo che a Pagford non ci sono molti posti di lavoro per i ragazzi, giusto?»
«Ma perché dovrebbe aver bisogno di lavorare, dico io!» esclamò Parminder, alzando le mani in
un gesto di rabbia ed esasperazione. «Non le diamo abbastanza soldi?»
«I soldi che ci si guadagna da soli sono sempre un’altra cosa, lo sai» disse Tessa.
La sua sedia era di fronte a un muro tappezzato di fotografie dei figli dei Jawanda. Le era capitato
spesso di sedersi lì e aveva contato quante volte appariva ciascun figlio: Jaswant, diciotto; Rajpal,
diciannove; Sukhvinder, nove. Alla parete c’era una sola fotografia che ricordava i trionfi
personali di Sukhvinder: l’immagine dell’otto di canottaggio della Winterdown il giorno che aveva
battuto le ragazze della St Anne. Barry aveva regalato a ogni famiglia una copia della foto, in cui
Sukhvinder e Krystal Weedon erano al centro della fila, l’una col braccio sulle spalle dell’altra,
raggianti e leggermente sfuocate perché saltellavano.
Barry sì che avrebbe aiutato Parminder, pensò Tessa, a vedere le cose nel modo giusto. Aveva
sempre fatto da ponte tra madre e figlia ed entrambe lo adoravano.
Non per la prima volta, Tessa si chiese se nel suo rapporto con il figlio fosse determinante il fatto
di non essere stata lei a partorirlo. Trovava più facile accettarlo come individuo a sé perché non
era carne della sua carne e sangue del suo sangue? Del suo sangue malato, pieno di glucosio...
Ciccio ultimamente aveva smesso di chiamarla mamma. Lei aveva finto di non farci caso, perché
quella nuova abitudine faceva tanto arrabbiare Colin; ma ogni volta che Ciccio diceva ‘Tessa’ era
una pugnalata al cuore.
I quattro finirono la frutta in silenzio.
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VII
Nella piccola casa bianca che guardava dall’alto la città, Simon Price rimuginava, agitato. I giorni
passavano. Il messaggio d’accusa era sparito dalla bacheca, ma Simon restava paralizzato. Ritirare
la candidatura poteva sembrare un’ammissione di colpa. La polizia non era venuta a cercarlo per
il computer e lui si era quasi pentito di averlo buttato giù dal vecchio ponte. D’altro canto,
quando aveva dato la carta di credito al benzinaio ai piedi della collina, gli era sembrato di
cogliergli in faccia un sorriso eloquente e non riusciva a convincersi di esserselo soltanto
immaginato. Al lavoro si parlava molto di esuberi, e Simon aveva ancora paura che il contenuto
del post fosse arrivato alle orecchie dei capi e che decidessero di risparmiare sulla liquidazione
licenziando lui, Jim e Tommy.
Andrew aspettava, perdendo ogni giorno un po’ di speranza. Aveva cercato di mostrare al mondo
chi era suo padre e a quanto pareva il mondo aveva reagito con una scrollata di spalle. Aveva
sperato che qualcuno della tipografia o del Consiglio si facesse avanti, dicesse a Simon ben chiaro
il suo ‘no’: che non era adatto a mettersi in competizione con altri, che era impresentabile e al di
sotto dei requisiti minimi, che non doveva coprire di vergogna se stesso e la sua famiglia. Invece
non era successo niente, se non che Simon aveva smesso di parlare del Consiglio o di fare
telefonate nella speranza di racimolare qualche voto, e i volantini che aveva stampato fuori
orario in tipografia restavano intatti in uno scatolone nella veranda.
Poi, senza preavviso né squilli di trombe, giunse la vittoria. Venerdì sera, scendendo al buio le
scale per andare a prendersi qualcosa da mangiare, Andrew sentì Simon parlare al telefono in
tono formale e si fermò ad ascoltare.
«... di ritirare la mia candidatura» stava dicendo. «Sì. Be’, vede, la mia situazione personale è
cambiata. Sì. Sì. Sì, esatto. D’accordo. La ringrazio.»
Andrew lo sentì riporre la cornetta.
«Be’, è finita» disse suo padre a sua madre. «Se questa è la merda che ti tirano addosso, sono
contento di starne fuori.»
Andrew sentì sua madre mormorare la sua approvazione e non fece in tempo a fare un passo che
Simon comparve nell’ingresso, prese fiato e urlò la prima sillaba del suo nome prima di rendersi
conto che il figlio era davanti a lui.
«Che stai facendo?»
Il volto di Simon era per metà in ombra, illuminato solo dalla luce del salotto.
«Avevo sete» mentì Andrew; a suo padre non piaceva che i figli si prendessero da mangiare da
soli.
«Cominci a lavorare da Mollison questo fine settimana, vero?»
«Sì.»
«Bene, stammi a sentire. Mi devi dire tutto quello che riesci a sapere su quel bastardo, hai
capito? Tutto il fango che riesci a raccogliere. E anche su suo figlio, se senti qualcosa.»
«Va bene» rispose Andrew.
«E io metto tutto su quel cazzo di sito» disse Simon tornando in salotto. «Il Fantasma di Barry
Fairbrother dei miei coglioni.»
Mentre razziava cibo con l’accortezza di non farne notare l’assenza, prendendo un pezzetto di
qua e una manciata di là, nella mente di Andrew risuonava un canto di giubilo: Ti ho fermato,
bastardo. Ti ho fermato.
Aveva fatto esattamente come si era riproposto: Simon non aveva idea di chi avesse ridotto le
sue ambizioni in polvere. Quel povero scemo pretendeva perfino che Andrew lo aiutasse a
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vendicarsi; un voltafaccia completo, visto che, quando Andrew aveva comunicato ai genitori di
aver trovato lavoro da Mallison, Simon si era infuriato.
«Sei proprio un coglione. E le tue allergie?»
«Ho pensato che potevo stare attento a non mangiare la frutta a guscio» aveva detto Andrew.
«Non fare il furbo con me, Faccia di pizza. E se la mangi per sbaglio, come alla St Thomas? Ti pare
che abbiamo voglia di passare di nuovo da quel casino?»
Ma Ruth lo aveva sostenuto, dicendo a Simon che Andrew era abbastanza grande da badare a se
stesso. Quando Simon era uscito dalla stanza, aveva cercato di convincere Andrew che suo padre
era solo preoccupato per lui.
«L’unica cosa che lo preoccupa è che potrebbe perdersi la partita per portarmi all’ospedale.»
Andrew tornò nella sua stanza, dove si mise a ingurgitare cibo con una mano mentre con l’altra
mandava un sms a Ciccio.
Pensava che fosse tutto finito, sistemato. Non aveva ancora avuto occasione di osservare la
prima, minuscola bolla del lievito in fermentazione, nella quale era contenuta un’inevitabile
trasformazione alchemica.
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VIII
Il trasferimento a Pagford era stata la cosa peggiore che fosse mai successa a Gaia Bawden. A
parte una visita ogni tanto a suo padre, a Reading, non aveva mai visto altro che Londra. Era
rimasta talmente incredula quando Kay le aveva detto che voleva trasferirsi in una piccolissima
cittadina della West Country che c’erano volute settimane prima che prendesse la minaccia sul
serio. L’aveva considerata una delle solite idee sconclusionate di Kay, come le due galline che
aveva comprato per il minuscolo giardino sul retro della loro casa di Hackney (e che una volpe
aveva mangiato una settimana dopo l’acquisto) o come quella volta che aveva pensato bene (lei
che non cucinava quasi mai) di rovinare metà delle loro pentole e procurarsi per sempre una
cicatrice sulla mano facendo la marmellata.
Strappata agli amici che frequentava fin dalle elementari, alla casa in cui viveva da quando aveva
otto anni, ai fine settimana sempre più spesso dedicati alla scoperta dei divertimenti della
metropoli, Gaia era stata scaraventata, nonostante le suppliche, le minacce e le proteste, in una
vita di cui non sospettava neanche l’esistenza. Strade acciottolate senza nessun negozio aperto
dopo le sei e nelle quali spesso non si sentiva altro che il canto degli uccellini, una vita collettiva
che sembrava orbitare intorno alla chiesa: le sembrava di essere caduta attraverso un portale in
una terra sperduta nel tempo.
Per tutta la sua vita lei e Kay si erano aggrappate l’una all’altra (suo padre non aveva mai vissuto
con loro e le due successive relazioni di Kay non erano mai state formalizzate), litigando,
soffrendo insieme e diventando col passare degli anni sempre più simili a due compagne di
stanza. Ora invece Gaia, quando era al tavolo della cucina, vedeva di fronte a sé solo una nemica.
La sua unica ambizione era tornare a Londra, con ogni mezzo necessario, e vendicarsi rendendo
Kay quanto più infelice possibile. Doveva solo decidere se fosse una vendetta più grande non
passare gli esami o passarli e cercare di convincere suo padre a ospitarla per poter fare a Londra
l’ultimo anno di scuola. Nel frattempo doveva sopravvivere in territorio alieno, dove il suo
aspetto e il suo accento, una volta passaporti immediati per le cerchie di amicizie più esclusive, si
erano trasformati in valuta straniera.
Gaia non aveva alcun desiderio di diventare uno degli studenti popolari della Winterdown: li
trovava imbarazzanti, con i loro accenti dell’ovest e la loro idea patetica di divertimento. Era
anche per mostrargli quanto li considerava ridicoli che cercava la compagnia di Sukhvinder
Jawanda, oltre che per la sua propensione a simpatizzare con chiunque venisse emarginato.
Da quando Sukhvinder aveva acconsentito a fare la cameriera insieme a lei, la loro amicizia aveva
assunto una nuova dimensione. La prima volta che si ritrovarono alla lezione di biologia, Gaia era
rilassata come mai prima e Sukhvinder intuì, finalmente, parte del misterioso motivo per cui
quella nuova arrivata così bella e speciale l’avesse scelta come amica. Mentre metteva a fuoco il
microscopio che condividevano, Gaia mormorò: «Sono tutti così bianchi qui! Eh?»
Sukhvinder rispose di sì prima di aver capito fino in fondo la domanda. Gaia stava ancora
parlando, ma Sukhvinder l’ascoltava con un orecchio solo. «Tutti così bianchi.» Sì, in effetti era
vero.
Alla St Thomas l’avevano fatta alzare, unica persona scura della classe, per parlare della religione
sikh. Lei si era messa, ubbidiente, davanti a tutti e aveva raccontato la storia del fondatore della
religione sikh, Guru Nanak, che era scomparso in un fiume e dato per annegato, ma che era
riemerso tre giorni dopo dicendo: «Non ci sono hindu, non ci sono musulmani.»
Gli altri bambini avevano ridacchiato all’idea che qualcuno potesse sopravvivere tre giorni
sott’acqua. Sukhvinder non aveva avuto il coraggio di osservare che Gesù era morto e risorto.
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Impaziente di tornare al suo posto, aveva tagliato corto con la storia di Guru Nanak. Era stata
poche volte in un gurdwara: a Pagford non ce n’erano e quello di Yarvil, molto piccolo, a detta dei
suoi era dominato dai Chamar, una casta diversa dalla loro. Sukhvinder non capiva che
importanza avesse, visto che Guru Nanak aveva esplicitamente proibito la distinzione in caste.
Era tutto molto complicato; a lei piacevano le uova di Pasqua e decorare l’albero di Natale,
mentre i libri sulle vite dei guru e le dottrine di Khalsa che Parminder imponeva ai figli erano
troppo difficili da leggere.
Le visite alla famiglia di sua madre a Birmingham, in vie dove quasi tutti avevano la pelle scura e i
negozi traboccavano di sari e spezie indiane, la facevano sentire inadeguata e fuori posto. I suoi
cugini parlavano punjabi, oltre che inglese; vivevano una raffinata vita di città; le sue cugine
erano carine e alla moda. Ridevano del suo accento campagnolo e della sua mancanza di gusto
nel vestire e Sukhvinder odiava essere presa in giro. Prima che Ciccio Wall attaccasse con il suo
programma di torture quotidiane, prima che gli allievi del suo anno fossero suddivisi per
rendimento e lei si ritrovasse tutti i santi giorni a contatto con Dane Tully, le era sempre piaciuto
tornare a Pagford. A quei tempi le era sempre sembrato un paradiso.
Mentre armeggiavano con i vetrini, a testa china per non attirare l’attenzione della professoressa
Knight, Gaia le raccontò della sua vita alla scuola secondaria Gravener di Hackney più di quanto
avesse mai fatto prima; un fiume di parole piuttosto agitato. Descrisse gli amici che aveva
lasciato; una di loro, Harpreet, aveva lo stesso nome della cugina più grande di Sukhvinder. Le
parlò di Sherelle, che era nera, la più intelligente del gruppo; e di Jen, il cui fratello era stato il
primo ragazzo di Gaia.
Nonostante il grande interesse per tutte quelle cose che Gaia le diceva, la mente di Sukhvinder
vagava altrove, immaginando un’assemblea scolastica dove l’occhio non distinguesse più i vari
elementi di un caleidoscopio fatto di tutte le sfumature di pelle, dal crema al mogano. Alla
Winterdown, i capelli nero-blu dei ragazzi asiatici spiccavano netti nel mare del castano topo e
del biondo opaco. In un posto come la Gravener, quelli come Ciccio Wall e Dane Tully potevano
benissimo trovarsi a far parte della minoranza.
Sukhvinder fece una timida domanda.
«Perché ti sei trasferita?»
«Perché mia madre voleva stare vicino a quel coglione del suo fidanzato» mormorò Gaia. «Gavin
Hughes, lo conosci?»
Sukhvinder scosse la testa.
«Probabilmente li hai sentiti scopare» disse Gaia. «Quando ci si mettono li sente tutta la via. Tieni
le finestre aperte, una di queste notti.»
Sukhvinder fece del suo meglio per non mostrare lo choc, ma l’idea di sentire i suoi genitori,
sposati, che facevano sesso era già abbastanza brutta. Gaia stessa era arrossita: non di
imbarazzo, pensò Sukhvinder, ma di rabbia. «È un’illusa, lui la pianterà. Finito di far sesso lui non
vede l’ora di andarsene.»
Sukhvinder non avrebbe mai parlato in quel modo di sua madre, né l’avrebbero fatto le gemelle
Fairbrother (che in teoria erano ancora le sue migliori amiche). Niamh e Siobhan stavano
lavorando insieme a un microscopio poco lontano. Dalla morte del padre sembravano essersi
chiuse in se stesse e cercavano solo la compagnia l’una dell’altra, allontanandosi da Sukhvinder.
Andrew Price guardava quasi costantemente Gaia attraverso un buco in quel muro di facce
bianche intorno a loro. Sukhvinder, che l’aveva notato, credeva che Gaia non se ne fosse accorta,
ma si sbagliava. Gaia, semplicemente, non si curava di ricambiare lo sguardo né di darsi delle arie,
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perché era abituata a essere guardata dai ragazzi; le succedeva da quando aveva dodici anni. Due
ragazzi del penultimo anno la incrociavano continuamente in corridoio quando lei andava da
un’aula all’altra, molto più spesso di quanto avrebbe suggerito la statistica, ed entrambi erano
più carini di Andrew. Tuttavia nessuno di loro reggeva il confronto con il ragazzo con cui Gaia
aveva perso la verginità, poco prima di trasferirsi a Pagford.
Gaia sopportava a stento l’idea che Marco de Luca fosse ancora fisicamente presente
nell’universo e separato da lei da duecento dolorosi, inutili chilometri.
«Ha diciott’anni» disse a Sukhvinder. «È mezzo italiano, gioca benissimo a calcio. Dovrebbe fare
un provino per la primavera dell’Arsenal.»
Gaia aveva fatto sesso con Marco quattro volte prima di partire da Hackney, rubando ogni volta il
preservativo dal comodino di Kay. Era quasi come se avesse voluto far sapere a Kay fin dove era
dovuta arrivare per imprimersi nella memoria di Marco, prima di essere costretta a lasciarlo.
Sukhvinder ascoltava, affascinata, senza però ammettere di aver già visto Marco sulla pagina
Facebook della sua nuova amica. Non c’era nessuno come lui in tutta Winterdown: somigliava a
Johnny Depp.
Gaia si appoggiò al banco, giocando distrattamente con la messa a fuoco del microscopio, mentre
dall’altra parte della stanza Andrew Price la fissava ogni volta che si sentiva al sicuro dallo
sguardo di Ciccio.
«Forse mi resterà fedele. Sherelle dà una festa sabato sera e l’ha invitato. Mi ha giurato che lo
terrà d’occhio. Merda, quanto vorrei...»
Guardò il banco con un’espressione vacua negli occhi screziati e Sukhvinder la osservò umile,
affascinata dalla sua bellezza, persa nell’ammirazione per la sua vita. L’idea di possedere un altro
mondo al quale appartenere completamente, dove avevi un ragazzo che giocava a calcio e un bel
gruppo di amiche devote, le sembrava una condizione favolosa e invidiabile, anche se ne eri stata
allontanata con la forza.
Nella pausa pranzo andarono per negozi, cosa che Sukhvinder non faceva quasi mai; lei e le
gemelle Fairbrother di solito mangiavano alla mensa.
Erano sul marciapiede fuori dal negozietto dove avevano comprato i panini quando sentirono
delle urla laceranti.
«Quella stronza di tua madre ha ammazzato mia nonna!»
Tutti gli studenti della Winterdown riuniti davanti al negozio cercarono la fonte delle urla,
perplessi, e Sukhvinder fece altrettanto, confusa quanto gli altri. Poi vide Krystal Weedon,
dall’altra parte della strada, che le puntava addosso il tozzo indice come un’arma. Con lei c’erano
altre quattro ragazze, tutte in fila sul marciapiede, trattenute dal traffico.
«Quella stronza di tua madre ha ammazzato mia nonna! Io la rovino, e rovino pure te!»
Sukhvinder si sentì le gambe molli. La gente la fissava. Due ragazze del terzo anno se la filarono.
Intorno a lei si stava formando un pubblico famelico e attento. Krystal e la sua banda fremevano,
in attesa di un’interruzione nel flusso di auto.
«Ma cosa dice?» chiese Gaia a Sukhvinder, che aveva la bocca così secca da non riuscire a
rispondere. Scappare non aveva senso, non ce l’avrebbe mai fatta. Leanne Carter era la più
veloce della classe. Le uniche cose che parevano muoversi erano le macchine che passavano e le
davano qualche secondo di scampo.
In quel momento comparve Jaswant, accompagnata da diversi ragazzi dell’ultimo anno.
«Tutto bene, Cincia?» disse. «Novità?»
Jaswant non aveva sentito Krystal; era stata una pura fortuna che fosse passata di là con il suo
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seguito. Dall’altra parte della strada, Krystal e le sue amiche si stavano consultando.
«Niente di particolare» disse Sukhvinder, con la testa che le girava dal sollievo per quel
momentaneo rinvio della sua esecuzione. Non poteva, davanti ai ragazzi, dire a Jaz cos’era
successo. Due erano alti più di un metro e ottanta e tutti fissavano Gaia.
Jaz e i suoi amici entrarono nel negozio e Sukhvinder, lanciato uno sguardo d’intesa a Gaia, li
seguì. Dalla vetrina, lei e Gaia videro Krystal e la sua banda allontanarsi, guardando indietro ogni
due o tre passi.
«Cos’è successo?» chiese Gaia.
«La sua bisnonna era una paziente di mia mamma, ed è morta» disse Sukhvinder. La voglia di
piangere era così tanta che aveva i crampi in gola.
«Che stronza» disse Gaia.
Ma i singhiozzi repressi di Sukhvinder non erano solo dovuti ai postumi della paura. Krystal una
volta le era stata simpatica, e sapeva che la cosa era reciproca. Tutti quei pomeriggi sul canale,
tutti i viaggi in pullmino; conosceva l’anatomia della schiena e delle spalle di Krystal meglio della
sua.
Tornarono a scuola con Jaswant e i suoi amici. Il più bello dei ragazzi attaccò a parlare con Gaia.
Quando arrivarono al cancello, la stava prendendo in giro per il suo accento londinese.
Sukhvinder non vide Krystal da nessuna parte, ma in lontananza scorse Ciccio Wall che, con la sua
falcata, camminava in compagnia di Andrew Price. Avrebbe riconosciuto ovunque quella sagoma
e quella camminata, allo stesso modo in cui un istinto primordiale ti aiuta a riconoscere un ragno
che striscia su un pavimento in ombra.
Avvicinandosi alla scuola, fu assalita da ondate su ondate di nausea. Da allora in poi ce ne
sarebbero stati due: Ciccio e Krystal. Lo sapevano tutti che uscivano insieme. E nella mente di
Sukhvinder si istillò, vivida, un’immagine: lei sanguinante per terra, Krystal e la sua banda che la
prendevano a calci e Ciccio Wall che guardava e rideva.
«Vado in bagno» disse a Gaia. «Ci vediamo dentro.»
Si infilò nel primo bagno delle ragazze, si chiuse in un gabinetto e si sedette sul coperchio del
water. Se fosse potuta morire... se fosse potuta sparire per sempre... ma la superficie solida delle
cose si rifiutava di dissolversi e il suo corpo, il suo corpo odioso da ermafrodito, continuava a
vivere, stupidamente, testardamente...
Sentì la campanella delle lezioni del pomeriggio, scattò in piedi e corse fuori dal bagno. Nel
corridoio si stavano formando le file. Voltò le spalle a tutti e uscì dall’edificio.
Anche gli altri marinavano la scuola. Krystal, Ciccio Wall. Le bastava starsene alla larga quel
pomeriggio: forse le sarebbe venuta un’idea per proteggersi. Oppure poteva buttarsi sotto una
macchina. Immaginò l’urto, le ossa che si frantumavano. Quanto ci avrebbe messo a morire,
schiantata in mezzo alla strada? Preferiva ancora l’idea dell’annegamento, dell’acqua fredda e
pulita che la faceva addormentare per sempre: un sonno senza sogni...
«Sukhvinder? Sukhvinder!»
Le si rivoltò lo stomaco. Tessa Wall stava attraversando il parcheggio e veniva verso di lei. Per un
momento Sukhvinder accarezzò la folle idea di mettersi a correre, ma poi fu sopraffatta
dall’inutilità della mossa e rimase ad aspettare che Tessa la raggiungesse, odiando lei, la sua
stupida faccia qualsiasi e quel suo figlio cattivo.
«Sukhvinder, cosa fai? Dove stai andando?»
Non riuscì nemmeno a pensare a una bugia. Con un gesto desolato delle spalle, si arrese.
Tessa non aveva appuntamenti fino alle tre. Avrebbe dovuto portare Sukhvinder dalla preside e
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fare rapporto sul suo tentativo di fuga; invece la portò su nella sua stanza, con l’arazzo nepalese e
i poster del Telefono Azzurro. Sukhvinder non ci era mai stata prima.
Tessa parlava, faceva una piccola pausa nella speranza che Sukhvinder dicesse qualcosa, poi
riprendeva a parlare; ma Sukhvinder rimaneva con gli occhi fissi sulle proprie scarpe e sulle mani
sudate. Tessa conosceva sua madre; le avrebbe detto del suo tentativo di marinare la scuola... ma
se lei le avesse spiegato il motivo? Forse Tessa avrebbe potuto, o voluto, intercedere? Non con
suo figlio: non aveva alcun potere su Ciccio, lo sapevano tutti. Ma con Krystal? Krystal
frequentava le sedute di psicologia...
Quanto l’avrebbero picchiata, se avesse raccontato tutto a Tessa? Ma tanto l’avrebbero picchiata
lo stesso. Krystal era pronta a scatenarle contro tutta la banda...
«... è successo qualcosa, Sukhvinder?»
Annuì. Tessa proseguì, incoraggiante: «Puoi dirmi che cosa?»
Sukhvinder glielo disse.
Nelle minime contrazioni della fronte di Tessa che ascoltava, era sicura di leggere qualcos’altro,
oltre alla compassione per lei. Forse Tessa stava pensando a come poteva reagire Parminder, se
fosse venuta a sapere che le cure mediche somministrate alla signora Catherine Weedon erano
state oggetto di urla in mezzo alla strada. Sukhvinder non aveva dimenticato di preoccuparsi
anche per questo, seduta nel bagno a desiderare la propria morte. O forse il disagio di Tessa era
dovuto alla riluttanza a prendersela con Krystal Weedon; senza dubbio Krystal era anche la sua
preferita, come lo era stata per Fairbrother.
Un feroce, bruciante senso di ingiustizia irruppe nell’infelicità, nella paura e nell’autodisprezzo;
spazzò via il groviglio di ansie e paure che l’avvolgeva quotidianamente; Sukhvinder pensò a
Krystal e alle sue amiche pronte alla carica; pensò a Ciccio, che a tutte le lezioni di matematica le
sussurrava parole velenose alle spalle, e pensò al messaggio che aveva cancellato da Facebook la
sera prima:
Le-sbi-smo, s.m. Orientamento sessuale femminile verso persone dello stesso sesso. Detto anche
saffismo.
«Non so come fa a saperlo» disse Sukhvinder, con il sangue che le rombava nelle orecchie.
«Sapere cosa?» chiese Tessa, ancora con la faccia preoccupata.
«Che c’è stato un reclamo per via della mamma e della sua bisnonna. Krystal e sua madre non
parlano con il resto della famiglia. Forse» aggiunse Sukhvinder, «gliel’ha detto Ciccio?»
«Ciccio?» ripeté Tessa, senza capire.
«Perché si vedono» disse Sukhvinder. «Lui e Krystal, no? Escono insieme. Quindi forse gliel’ha
detto lui.»
Vedere evaporare dal viso di Tessa ogni traccia di contegno professionale le procurò un’amara
soddisfazione.
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IX
Kay Bawden non voleva mai più mettere piede in casa di Miles e Samantha. Non li perdonava di
aver assistito all’esibizione di indifferenza di Gavin, né poteva dimenticare la risata
condiscendente di Miles, il suo atteggiamento nei confronti di Bellchapel o il ghigno con cui lui e
Samantha avevano parlato di Krystal Weedon.
Malgrado le scuse di Gavin, oltre alle sue tiepide proteste di affetto, Kay continuava a rivederlo
parlare fitto fitto con Mary sul divano; precipitarsi ad aiutarla con i piatti; accompagnarla a casa
col buio. Qualche giorno dopo, Gavin le aveva detto che aveva cenato da Mary e lei aveva dovuto
reprimere una risposta rabbiosa, perché a casa sua, a Hope Street, lui non aveva mai mangiato
altro che pane tostato.
Poteva anche darsi che non si dovesse dire niente di male della ‘Vedova’, della quale Gavin
parlava come se fosse la Santa Vergine, ma i Mollison erano un’altra cosa.
«Non posso dire che Miles mi sia molto simpatico.»
«Non è esattamente il mio migliore amico.»
«Sarà una catastrofe per il Centro per la tossicodipendenza, se sarà eletto.»
«Dubito che faccia una gran differenza.»
L’apatia di Gavin, la sua insensibilità verso il dolore altrui, la facevano imbestialire.
«Non c’è nessuno a favore di Bellchapel?»
«Colin Wall, immagino» aveva detto Gavin.
E così lunedì, alle otto di sera, Kay percorse il vialetto dei Wall e suonò alla porta. Dalla soglia
vedeva la Fiesta rossa di Samantha Mollison parcheggiata nel vialetto tre case più in là. Quella
vista aggiunse un po’ di pepe alla sua voglia di litigare.
La porta di casa Wall fu aperta da una donna bassa, anonima e grassoccia, con una gonna a
disegno tie-dye.
«Buonasera» disse Kay. «Mi chiamo Kay Bawden e vorrei parlare con Colin Wall, se possibile.»
Per una frazione di secondo Tessa si limitò a fissare quella bella ragazza sulla soglia, che non
aveva mai visto prima. Le balenò per la mente un’idea assurda: che Colin avesse una relazione e
quella fosse l’amante che veniva a informarla.
«Ah... sì... si accomodi. Io sono Tessa.»
Kay si pulì coscienziosamente i piedi sullo zerbino e seguì Tessa in un salotto più piccolo e
trasandato ma anche più accogliente di quello dei Mollison. Un uomo alto, con pochi capelli e la
fronte spaziosa era seduto in poltrona con un taccuino sulle ginocchia e una penna in mano.
«Colin, la signora si chiama Kay Bawden» disse Tessa. «Vorrebbe parlare con te.»
Tessa vide l’espressione sorpresa e guardinga di Colin e capì immediatamente che quella donna
era per lui un’estranea. Ma guarda, pensò con un po’ di vergogna, cosa ti viene in mente.
«Mi dispiace piombare in casa vostra così, senza preavviso» si scusò Kay, mentre Colin si alzava
per stringerle la mano. «Avrei telefonato, ma voi...»
«Non siamo sull’elenco, è vero» disse Colin. Era molto più alto di Kay, con gli occhi piccoli dietro
le lenti degli occhiali. «Prego, si accomodi.»
«Grazie. È per le elezioni» disse Kay. «Il Consiglio locale. Lei si presenta contro Miles Mollison,
giusto?»
«Sì» rispose nervosamente Colin. Aveva capito chi doveva essere: la giornalista che voleva parlare
con Krystal. L’avevano rintracciato... Tessa non avrebbe dovuto farla entrare.
«Mi piacerebbe poterle dare una mano in qualche modo» disse Kay. «Sono un’assistente sociale
e lavoro perlopiù ai Fields. Potrei fornirle alcune informazioni e statistiche sul Centro per la
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tossicodipendenza Bellchapel, che Mollison sembra piuttosto ansioso di chiudere. Ho sentito dire
che lei è contrario? Che vorrebbe tenerlo aperto?»
Il fiotto improvviso di sollievo e di piacere gli diede quasi alla testa.
«Oh, sì» disse Colin, «certo. Sì, il mio predecessore... intendevo dire il titolare del seggio, Barry
Fairbrother, era certamente contrario alla chiusura del Centro. E lo sono anch’io.»
«Ecco, ho parlato con Miles Mollison e mi ha detto chiaro e tondo che secondo lui non vale la
pena di tenerlo aperto. Francamente ritengo che sia piuttosto ignorante e sprovveduto sulle
cause e sul trattamento delle dipendenze e sui risultati che Bellchapel sta ottenendo. Se il
Consiglio si rifiuta di rinnovare la concessione dell’edificio e il Distretto taglia i fondi, il rischio è
che molte persone vulnerabili restino prive di sostegno.»
«Sì, sì, capisco» disse Colin. «E sono d’accordo.»
Il fatto che quella bella donna fosse venuta a cercarlo, di sera, per offrirgli la sua alleanza lo
stupiva e lo lusingava.
«Posso offrirle un tè, o un caffè, Kay?» chiese Tessa.
«Oh, la ringrazio molto» rispose Kay. «Un tè, grazie. Senza zucchero.»
Ciccio era in cucina a servirsi dal frigo. Mangiava copiosamente e in maniera incessante, ma
restava pelle e ossa, senza mettere su un grammo. Malgrado il disgusto apertamente dichiarato,
a quanto pareva le siringhe predosate di Tessa, chiuse in una scatola bianca accanto al formaggio,
non gli facevano alcuna impressione.
Tessa andò ad accendere il bollitore e tornò col pensiero all’argomento che la tormentava da
quando Sukhvinder ne aveva accennato, nel pomeriggio: che Ciccio e Krystal si ‘vedessero’. Non
aveva chiesto niente a Ciccio e non ne aveva parlato con Colin.
Più ci pensava, più si rafforzava nella convinzione che non fosse vero. Ciccio si considerava tanto
superiore che ai suoi occhi nessuna ragazza poteva essere all’altezza, figurarsi una come Krystal.
Di sicuro non si sarebbe mai...
Abbassato? È così? È questo che pensi?
«Chi c’è?» chiese Ciccio, masticando del pollo freddo, mentre lei metteva su il bollitore.
«Una donna che vuole aiutare papà a farsi eleggere al Consiglio» rispose Tessa, cercando dei
biscotti nella credenza.
«Perché? Le piace?»
«Vedi di crescere, Stu» rispose lei, irritata.
Ciccio prese diverse fette di prosciutto da una confezione aperta e se le infilò una alla volta nella
bocca piena, come un prestigiatore che inserisce fazzoletti di seta nel pugno chiuso. Ciccio poteva
restare per dieci minuti di seguito davanti al frigo aperto, a strappare pellicole e confezioni e
ficcarsi direttamente il cibo in bocca. Era un’abitudine che Colin deprecava, insieme a quasi tutti
gli altri aspetti del comportamento di suo figlio.
«No, veramente, perché vuole aiutarlo?» chiese lui, inghiottito il prosciutto.
«Vuole che il Centro per la tossicodipendenza Bellchapel rimanga aperto.»
«Perché, è una drogata?»
«No, non è un drogata» disse Tessa, notando con fastidio che Ciccio aveva mangiato gli ultimi tre
biscotti al cioccolato e lasciato gli involucri vuoti sullo scaffale. «È un’assistente sociale e pensa
che il Centro stia facendo un buon lavoro. Papà vuole tenerlo aperto, ma secondo Miles Mollison
non è molto efficace.»
«Tanto bene non deve andare. I Fields sono pieni di gente che sniffa colla e si buca.»
Tessa sapeva per certo che se avesse detto che Colin voleva chiudere il Centro, Ciccio avrebbe
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subito tirato fuori un’argomentazione a favore del suo mantenimento in vita.
«Dovresti fare l’avvocato, Stu» disse, mentre il coperchio del bollitore cominciava a vibrare.
Quando Tessa tornò in salotto con il vassoio, vide Kay illustrare a Colin un fascio di carte che
aveva tirato fuori dalla grande borsa.
«... due operatori finanziati in parte dal Consiglio e in parte da Action on Addiction, che è
un’ottima organizzazione di beneficenza. Poi c’è un’assistente sociale collegata al Centro, Nina,
che mi ha dato tutto questo... oh, grazie molte» disse Kay con un sorriso raggiante a Tessa, che
aveva posato sul tavolino accanto a lei una tazza di tè.
Kay, nel giro di pochi minuti, aveva preso in simpatia i due Wall come non le era successo con
nessun altro a Pagford. Tessa non l’aveva squadrata da capo a piedi quando era entrata, nessuna
disamina delle sue imperfezioni fisiche o del suo gusto nel vestire. Il marito, anche se nervoso,
sembrava una brava persona seriamente determinata a impedire l’abbandono dei Fields.
«Mi sbaglio o ha l’accento di Londra, Kay?» chiese Tessa, inzuppando un biscotto nel tè. Kay
annuì.
«Cosa l’ha portata a Pagford?»
«Motivi sentimentali» disse Kay. Non provò alcun piacere a dirlo, anche se lei e Gavin si erano
ufficialmente riconciliati. Tornò a rivolgersi a Colin.
«Non capisco bene il rapporto tra il Consiglio e il Centro.»
«Be’, il Consiglio è proprietario dell’edificio» disse Colin. «Si tratta di una vecchia chiesa. Il
contratto di affitto è in scadenza.»
«Quindi non sarebbe difficile buttarli fuori.»
«Esatto. Quando ha detto di aver parlato con Miles Mollison?» chiese Colin, sperando e temendo
allo stesso tempo che Miles avesse parlato di lui.
«Abbiamo cenato insieme, due venerdì fa» spiegò Kay. «Gavin e io...»
«Ah, lei è la fidanzata di Gavin!» la interruppe Tessa.
«Sì; comunque, si discuteva dei Fields...»
«Ovviamente» disse Tessa.
«... e Miles ha parlato di Bellchapel e io... mi ha piuttosto costernata sentire come trattava questi
temi. Gli ho detto che al momento sto lavorando con una famiglia...» Kay ripensò alla propria
leggerezza nel fare il nome della famiglia Weedon e proseguì cauta: «E se la madre venisse
privata del metadone quasi certamente rientrerebbe nel giro.»
«Sembrerebbero i Weedon» disse Tessa, avvilendosi un po’.
«Ecco... be’, sì, mi riferisco ai Weedon» confermò Kay.
Tessa prese un altro biscotto.
«Io sono la psicologa scolastica di Krystal. Dev’essere già la seconda volta che sua madre si rivolge
a Bellchapel, giusto?»
«La terza» la corresse Kay.
«Conosciamo Krystal da quando aveva cinque anni: era in classe con nostro figlio alle elementari»
disse Tessa. «Ha avuto una vita proprio terribile.»
«Assolutamente vero» confermò Kay. «È incredibile che sia così dolce, in effetti.»
«Ah, sì, sono d’accordo» disse Colin con calore.
Ripensando al rifiuto deciso di Colin di revocare la punizione di Krystal dopo l’incidente
dell’assemblea, Tessa inarcò le sopracciglia. Poi si chiese, con una stretta allo stomaco, cosa
avrebbe detto Colin, se Sukhvinder non mentiva o non si sbagliava. Ma si sbagliava di certo. Era
una ragazza timida e ingenua. Probabilmente aveva capito male... frainteso qualcosa che aveva
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sentito...
«Il punto è che l’unica motivazione di Terri è la paura di perdere i figli» disse Kay. «Al momento si
è rimessa in carreggiata; l’operatrice che la segue al Centro mi ha detto che ha notato dei passi
avanti nel suo atteggiamento. Se Bellchapel chiude va tutto a gambe all’aria e Dio solo sa che ne
sarà di quella famiglia.»
«Tutto questo è molto utile» disse Colin, annuendo con aria d’importanza e cominciando a
prendere appunti su una pagina bianca del taccuino. «Davvero molto utile. Ha detto di avere
delle statistiche sui disintossicati?»
Kay sfogliò le pagine, in cerca dell’informazione. Tessa ebbe l’impressione che Colin volesse
richiamare a sé l’attenzione di Kay. Era sempre stato sensibile alla combinazione di bellezza e
cordialità.
Tessa mangiò un altro biscotto, sempre pensando a Krystal. I loro ultimi incontri non erano stati
molto soddisfacenti. Krystal era stata scostante. Tessa le aveva estorto la promessa di non
perseguitare più né molestare Sukhvinder Jawanda, ma l’atteggiamento di Krystal le aveva fatto
capire che era rimasta delusa, che il rapporto di fiducia era rotto. Era possibile che fosse colpa
della punizione inflitta da Colin. Tessa aveva creduto che fra lei e Krystal il legame fosse
abbastanza forte da resistere, anche se non era mai stato come quello che Krystal aveva con
Barry.
(Tessa c’era il giorno in cui Barry era venuto a scuola con il vogatore, a cercare reclute per
l’equipaggio che voleva creare. Era stata convocata dalla sala professori in palestra, perché
l’insegnante di educazione fisica era in malattia e l’unico supplente che fossero riusciti a trovare
con un preavviso così breve era un maschio.
Le ragazze di quarta, in calzoncini e maglietta di cotone, si erano messe a ridacchiare quando,
arrivate in palestra, avevano visto due tipi strani al posto della professoressa Jarvis. Tessa aveva
dovuto richiamare Krystal, Nikki e Leanne, che si erano messe in prima fila a fare commenti
maliziosi sul supplente; era un bel ragazzo con l’infelice tendenza ad arrossire.
Barry, basso, rosso di capelli e di barba, indossava una tuta. Si era preso un giorno di ferie. Tutti
pensavano che l’idea fosse strana e poco realistica: nelle scuole come la Winterdown non si
faceva canottaggio. Niamh e Siobhan sembravano un po’ divertite e un po’ mortificate dalla
presenza del padre.
Barry aveva spiegato cosa stava cercando di fare: formare equipaggi. Si era assicurato l’uso della
vecchia rimessa delle barche sul canale, a Yarvil; era uno sport fantastico e una grande occasione
di far bella figura, per loro stesse e per la scuola. Tessa si era messa accanto a Krystal e alle sue
amiche per tenerle d’occhio; le risatine si erano quasi esaurite, ma non del tutto spente.
Barry aveva mostrato come si usava il vogatore e aveva chiesto delle volontarie. Nessuna s’era
fatta avanti.
«Krystal Weedon» aveva chiamato Barry, indicandola. «Ti ho visto appenderti alla scala
orizzontale al parco; hai la forza che ci vuole. Vieni qui a provare.»
Krystal era stata ben felice di stare sotto i riflettori. Si era avvicinata con passo sicuro al vogatore
e aveva preso posto. Nonostante le occhiatacce di Tessa, Nikki e Leanne erano scoppiate a ridere
e il resto della classe con loro.
Barry aveva mostrato a Krystal come fare. Il supplente osservava in silenzio, in allerta
professionale, come Barry sistemava le mani di lei sulla manopola di legno.
Lei aveva tirato, facendo una faccia stupida a Nikki e Leanne, e tutte avevano riso di nuovo.
«Guardate» aveva detto Barry, raggiante. «È un talento naturale.»
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Davvero Krystal era un talento naturale? Tessa non sapeva niente di canottaggio e non era in
grado di giudicare.
«Raddrizza la schiena» aveva detto Barry a Krystal, «altrimenti ti fai male. Ecco, così. Tira... tira...
guardate che tecnica... ma l’avevi già fatto?»
Krystal aveva davvero raddrizzato la schiena e l’aveva fatto bene sul serio. Aveva smesso di
guardare Nikki e Leanne e preso un ritmo.
«Ottimo» aveva detto Barry. «Guardate... ottimo. Così si fa. Bravissima. E ancora. E ancora. E...»
«Fa male!» gridò Krystal.
«Lo so. È così che ti vengono le braccia come Jennifer Aniston» disse Barry.
C’era stata un’altra risatina generale, ma stavolta avevano riso con lui. Cos’è che aveva Barry? Era
sempre così presente, così naturale, così assolutamente privo di presunzione. Tessa sapeva che
gli adolescenti erano lacerati dalla paura del ridicolo. E coloro che non ne avevano – pochissimi,
fra gli adulti – esercitavano un’autorità naturale sui giovani: avrebbero dovuto costringerli per
legge a insegnare.
«E stop!» aveva esclamato Barry, e Krystal si era accasciata, rossa in viso, massaggiandosi le
braccia.
«Dovrai lasciare perdere le sigarette, Krystal» aveva detto Barry, e stavolta aveva ottenuto una
gran risata. «Okay, chi altro vuole provare?»
Quando Krystal era tornata tra gli spettatori, non rideva più. Osservava ogni nuova rematrice con
gelosia, guardando costantemente la faccia barbuta di Barry per capire cosa ne pensava. Quando
Carmen Lewis aveva sbagliato tutto, Barry aveva detto: «Fai vedere, Krystal» e lei, raggiante, era
tornata alla macchina.
Ma alla fine della dimostrazione, quando Barry aveva chiesto a chi voleva essere nell’equipaggio
di alzare la mano, Krystal aveva tenuto le braccia incrociate. Tessa l’aveva vista scuotere la testa
con un sorriso beffardo quando Nikki le aveva mormorato qualcosa. Barry aveva preso
accuratamente nota dei nomi delle ragazze interessate, poi aveva alzato la testa.
«E tu, Krystal Weedon» aveva detto, indicandola. «Vieni anche tu. Non scuotere la testa. Mi
arrabbierò moltissimo se non ti vedrò. Tu hai un talento naturale e a me non piace veder
sprecare i talenti naturali. Kry – stal» aveva sillabato a voce alta, scrivendo il suo nome. «Wee –
don.»
Quando si era fatta la doccia alla fine della lezione, Krystal aveva pensato al suo talento naturale?
Aveva portato con sé il pensiero della sua nuova attitudine, come un biglietto di San Valentino
inaspettato? Tessa non lo sapeva; ma con grande stupore di tutti, tranne forse di Barry, Krystal si
era presentata agli allenamenti.)
Colin stava annuendo con forza a Kay che gli illustrava i tassi di recidiva di Bellchapel.
«Parminder dovrebbe vedere questi dati» disse. «Gliene farò avere una copia. Molto, molto utili,
davvero.»
Con un vago senso di nausea, Tessa prese un quarto biscotto.
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X
Il lunedì Parminder lavorava fino a tardi e visto che Vikram di solito era all’ospedale i tre ragazzi
Jawanda preparavano la tavola e cucinavano da soli. A volte litigavano; di tanto in tanto si
facevano due risate; ma oggi ciascuno era assorto nei propri pensieri, e il compito fu assolto con
insolita efficienza in un silenzio quasi assoluto.
Sukhvinder non aveva raccontato a suo fratello e a sua sorella del tentativo di marinare la scuola,
né della minaccia di Krystal Weedon di picchiarla. Negli ultimi tempi la tendenza al riserbo si era
rafforzata. Aveva paura di dare confidenza, perché temeva di tradire il mondo di stranezze che
aveva dentro, quel mondo che Ciccio Wall sembrava capace di penetrare con terrificante facilità.
E tuttavia sapeva che gli eventi della giornata non sarebbero rimasti un segreto a tempo
indeterminato. Tessa le aveva detto che aveva intenzione di chiamare Parminder.
«Dovrò chiamare tua madre, Sukhvinder, è la procedura; ma le spiegherò perché l’hai fatto.»
Sukhvinder aveva quasi provato affetto per Tessa, anche se era la madre di Ciccio Wall. Per
quanto avesse paura della reazione di sua madre, un piccolo barlume di speranza si era acceso al
pensiero che Tessa avrebbe interceduto per lei. Forse venire a conoscenza della disperazione di
Sukhvinder avrebbe finalmente incrinato l’implacabile condanna di sua madre, la sua delusione,
le sue eterne, fredde critiche?
Quando alla fine la porta d’ingresso si aprì, sentì sua madre che parlava punjabi.
«Oh no, ancora quella cavolo di fattoria» si lagnò Jaswant, che si era sporta per sentire.
I Jawanda possedevano un pezzo di terra ancestrale nel Punjab, che Parminder, la figlia maggiore,
aveva ereditato dal padre in assenza di figli maschi. La fattoria occupava un posto nella coscienza
di famiglia del quale Jaswant e Sukhvinder qualche volta avevano parlato. Con loro grande
meraviglia (e un certo divertimento), alcuni parenti più anziani sembravano vivere nella
convinzione che prima o poi tutta la famiglia sarebbe tornata a vivere lì. Il padre di Parminder
aveva mandato soldi alla fattoria per tutta la vita. Il terreno era stato dato a mezzadria a dei
secondi cugini, burberi e inaciditi. La fattoria era regolarmente causa di litigi nella famiglia di sua
madre.
«Nani ha dato ancora di matto» tradusse Jaswant; la voce di Parminder arrivava attutita
attraverso la porta.
Parminder aveva insegnato un po’ di punjabi alla primogenita e Jaz aveva imparato molto di più
dai loro cugini. La dislessia di Sukhvinder era troppo grave per permetterle di imparare due lingue
e il tentativo era stato abbandonato.
«... Harpreet vuole ancora vendere quella parte per la strada...»
Sukhvinder sentì che Parminder scalciava via le scarpe. Avrebbe preferito che sua madre non
avesse dovuto preoccuparsi della fattoria proprio quella sera: non la metteva mai di buonumore;
e quando Parminder aprì la porta della cucina e Sukhvinder vide il suo viso, tirato come una
maschera, il coraggio le mancò completamente.
Parminder salutò Jaswant e Rajpal con un cenno vago della mano, ma puntò il dito su Sukhvinder
e poi verso una sedia della cucina, facendole capire che doveva sedersi e aspettare la fine della
telefonata.
Jaswant e Rajpal tornarono di sopra. Sukhvinder aspettò sotto le fotografie appese alla parete,
che mostravano al mondo la sua inadeguatezza al confronto con i fratelli, inchiodata alla sedia dal
tacito ordine di sua madre. La telefonata andò avanti a lungo, finché, finalmente, Parminder
salutò e chiuse la comunicazione.
Quando guardò sua figlia, Sukhvinder capì all’istante, prima che fosse pronunciata una sola
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parola, che aveva avuto torto a sperare.
«Allora» cominciò Parminder. «Ho ricevuto una telefonata da Tessa mentre ero al lavoro.
Immagino che tu sappia perché.»
Sukhvinder annuì. Le sembrava di avere la bocca piena di ovatta.
La rabbia di Parminder la investì come un’onda di marea, trascinandola con sé, finché le fu
impossibile toccare terra o rimettersi diritta.
«Perché? Perché? Per copiare ancora quella ragazza di Londra? Stai cercando di fare colpo su di
lei? Jaz e Raj non si comportano mai così, mai... perché tu sì? Cosa c’è che non va in te? Sei
orgogliosa di essere pigra e sciatta? Credi di far bella figura a comportarti da delinquente? Come
pensi che mi sia sentita quando Tessa me l’ha detto? Mi ha chiamata in ambulatorio... Non mi
sono mai vergognata tanto... Sono stufa di te, hai capito? Non ti diamo abbastanza? Non ti
aiutiamo abbastanza? Cos’hai che non va, Sukhvinder?»
Disperata, Sukhvinder cercò di interrompere la tirata di sua madre e fece il nome di Krystal
Weedon...
«Krystal Weedon!» gridò Parminder. «Quella scema! Perché stai a sentire tutto quello che dice?
Gliel’hai detto che ho provato a tenere in vita la sua maledetta bisnonna? Gliel’hai detto?»
«Io... no...»
«Se ti preoccupi di quello che dice la gente come Krystal Weedon, per te non c’è speranza! Forse
è quello il tuo livello, eh, Sukhvinder? Vuoi marinare la scuola e lavorare in un caffè e sprecare
tutte le occasioni per istruirti perché è più facile? È questo che hai imparato stando in squadra
con Krystal Weedon, ad abbassarti al suo livello?»
Sukhvinder pensò a Krystal e alla sua banda che fremevano per attraversare la strada, in attesa di
una pausa del traffico. Cosa ci voleva perché sua madre capisse? Un’ora prima aveva avuto la
vaga speranza di potersi confidare con sua madre, finalmente, a proposito di Ciccio Wall...
«Vattene via! Vai! Ne parlerò con tuo padre quando arriverà... vai!»
Sukhvinder salì di sopra. Jaswant chiese dalla sua stanza: «Cos’erano tutti quegli strilli?»
Sukhvinder non rispose. Andò in camera, chiuse la porta e si sedette sulla sponda del letto.
Cosa c’è che non va in te, Sukhvinder?
Sono stufa di te.
Sei orgogliosa di essere pigra e sciatta?
Cosa si era aspettata? Un caldo abbraccio, comprensione? Quand’è che Parminder l’aveva mai
abbracciata? C’era più calore nella lametta di rasoio nascosta nel suo coniglio di peluche; ma il
desiderio, che stava diventando un bisogno, di tagliare e sanguinare, non poteva essere
soddisfatto di giorno, con la famiglia in piedi e suo padre che stava per arrivare.
Il lago nero della disperazione che abitava dentro Sukhvinder e anelava alla libertà era in fiamme,
come se fosse sempre stato un lago di petrolio.
Facciamole vedere come ci si sente.
Si alzò, attraversò la stanza in pochi passi, sedette alla scrivania e cominciò a battere sulla tastiera
del computer.
Quando quello scemo di supplente di informatica aveva cercato di fare il figo con loro,
Sukhvinder era stata attenta come Andrew Price. A differenza però di Andrew e di un paio di altri
ragazzi, Sukhvinder non aveva tartassato l’insegnante di domande sull’hackeraggio; era andata a
casa e si era guardata tutto da sola online. Praticamente tutti i siti ormai erano a prova delle SQL
injections, ma quando Sukhvinder aveva sentito sua madre parlare dell’attacco anonimo al sito
del Consiglio locale di Pagford le era venuto in mente che la sicurezza, su quel vecchio sito
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traballante, era probabilmente ridotta al minimo.
Per lei era sempre stato più facile digitare che scrivere, e le stringhe di programmazione più facili
da leggere delle lunghe catene di parole. Non le ci volle molto per trovare un sito che desse
istruzioni specifiche per la forma più semplice di SQL injection. Poi andò sul sito del Consiglio
locale.
Impiegò cinque minuti per attaccarlo, e solo perché la prima volta aveva trascritto male il codice.
Con suo grande stupore scoprì che chiunque amministrasse il sito non aveva rimosso il profilo di
il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother dal database, ma solo cancellato il post. Sarebbe stato quindi
un gioco da ragazzi postare con lo stesso nome.
Ci mise molto più tempo a comporre il messaggio che ad attaccare il sito. Da mesi portava con sé
quell’accusa segreta, fin dalla sera di capodanno, quando aveva notato con meraviglia il viso di
sua madre, a mezzanotte meno dieci, dall’angolo della festa in cui si stava nascondendo. Digitò
lentamente. Il correttore automatico la aiutò per l’ortografia.
Non temeva che Parminder controllasse la sua cronologia di navigazione; sua madre sapeva così
poco di lei e di quello che succedeva in quella stanza che non avrebbe mai sospettato della sua
pigra, stupida e sciatta figlia.
Sukhvinder premette il tasto del mouse come un grilletto.
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XI
Martedì mattina Krystal non portò Robbie all’asilo, ma lo vestì per il funerale di nonna Cath.
Infilandogli i pantaloni meno strappati che aveva, troppo corti di almeno cinque centimetri, cercò
di spiegargli chi era nonna Cath, ma avrebbe fatto meglio a risparmiare il fiato. Robbie non aveva
alcun ricordo di nonna Cath; non aveva idea di cosa volesse dire nonna né qualsiasi altro parente
che non fosse madre o sorella. Nonostante le storie e le allusioni sempre diverse, Krystal sapeva
che Terri non aveva la minima idea di chi fosse il padre di Robbie.
Sentì i passi di sua madre sulle scale.
«Non toccare» disse a Robbie, che stava per prendere una lattina vuota di birra sotto la poltrona
di Terri. «Vieni qui.»
Lo prese per mano e lo portò in corridoio. Terri indossava ancora i pantaloni del pigiama e la
maglietta sporca con cui aveva passato la notte, e aveva i piedi nudi.
«Perché non ti sei cambiata?» domandò Krystal.
«Non ci vengo» disse Terri, spingendo da parte i figli per entrare in cucina. «Ho cambiato idea.»
«Perché?»
«Non mi va» disse Terri. Si stava accendendo una sigaretta sul fornello. «Chi cazzo mi obbliga?»
Krystal teneva ancora per mano Robbie, che tirava e dondolava.
«Ci vanno tutti» disse Krystal. «Cheryl, Shane, tutti.»
«Embe’?» rispose Terri, aggressiva.
Krystal aveva temuto che sua madre si tirasse indietro all’ultimo momento. Il funerale l’avrebbe
messa faccia a faccia con Danielle, la sorella che faceva finta che Terri non esistesse, per non
parlare di tutti gli altri parenti che le avevano disconosciute. Poteva esserci Anne-Marie: Krystal si
era aggrappata a questa speranza, come a una torcia nel buio, nelle notti passate a singhiozzare
per nonna Cath e per Fairbrother.
«Ci devi venire» disse.
«Invece no.»
«È nonna Cath.»
«Embe’?»
«Ha fatto un sacco di cose per noi.»
«Invece no.»
«Sì» disse Krystal, con il viso in fiamme e la mano stretta intorno a quella di Robbie.
«Per te, magari» ribatté Terri. «A me, mi ha mandato affanculo. Vai pure a piagnucolare sulla sua
tomba, se vuoi. Io aspetto qui.»
«Aspetti che?» chiese Krystal.
«Cazzi miei.»
Calò la vecchia, familiare ombra.
«Sta per arrivare Obbo?»
«Cazzi miei» ripeté Terri, con patetica dignità.
«Vieni al funerale» disse Krystal, alzando la voce.
«Vacci tu.»
«Non ti fare» gridò Krystal, salendo di un’ottava.
«Non mi faccio» rispose Terri, ma si voltò a guardare fuori dalla finestra sporca che dava sul
retro, su quel fazzoletto di erbacce e di rifiuti che chiamavano giardino.
Robbie liberò la mano e sparì in salotto. Con i pugni stretti nelle tasche della tuta e le spalle
dritte, Krystal pensò a cosa fare. L’idea di non andare al funerale le faceva venire voglia di
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piangere, ma il dispiacere era mescolato al sollievo di non dover affrontare la serie di occhi ostili
che a volte aveva trovato da nonna Cath. Era furiosa con Terri, eppure si sentiva stranamente
dalla sua parte. Non sai nemmeno chi è suo padre, eh, puttana? Voleva vedere Anne-Marie, ma
aveva paura.
«Vabbè, allora resto anch’io.»
«Chi ti obbliga. Vai, se vuoi. Non me ne frega un cazzo.»
Ma Krystal, certa che Obbo sarebbe arrivato, restò. Obbo era via da più di una settimana, per
qualche suo scopo nefasto. Krystal avrebbe preferito che fosse morto, che non tornasse mai più.
Per avere qualcosa da fare cominciò a pulire la casa, fumando una delle sigarette rollate che le
aveva regalato Ciccio Wall. Non le piacevano, ma le piaceva che lui gliele avesse date. Le teneva
nel portagioie di plastica di Nikki, insieme all’orologio di Tessa. Aveva pensato che forse non lo
avrebbe più rivisto, dopo la scopata al cimitero, perché lui dopo era rimasto quasi in silenzio e se
n’era andato salutandola a malapena, ma poi si erano visti di nuovo al campo giochi. Aveva
notato che stavolta lui se l’era goduta più dell’ultima; non erano fumati e lui era durato di più. Era
rimasto sdraiato accanto a lei sull’erba, fumando, e quando lei gli aveva detto che nonna Cath era
morta lui le aveva raccontato che la madre di Sukhvinder Jawanda aveva dato a nonna Cath la
medicina sbagliata o qualcosa del genere; non era stato molto chiaro su che cos’era successo.
Krystal era rimasta agghiacciata. Quindi nonna Cath non sarebbe dovuta morire; sarebbe potuta
restare ancora nella sua casetta linda di Hope Street, sempre presente caso mai Krystal avesse
avuto bisogno di lei, per offrirle un rifugio con un letto comodo e pulito, la piccola cucina piena di
roba da mangiare e di piatti spaiati, il piccolo televisore in un angolo del salotto: Non mi va di
guardare porcherie, Krystal, spegnilo.
A Krystal, Sukhvinder stava simpatica, ma la madre di Sukhvinder aveva ammazzato nonna Cath.
Non si faceva differenza tra i membri della tribù nemica. Krystal aveva giurato di fare a pezzi
Sukhvinder; ma poi era intervenuta Tessa Wall. Non ricordava bene che cosa aveva detto Tessa;
pareva che Ciccio avesse capito tutto sbagliato, o almeno non tutto giusto. Aveva promesso
controvoglia a Tessa di non prendersela con Sukhvinder, ma promesse di quel genere potevano
essere solo degli espedienti temporanei, nel mondo frenetico e mutevole di Krystal.
«Non toccare!» gridò a Robbie, che stava cercando di sollevare il coperchio della scatola di latta
in cui Terri teneva il suo armamentario.
Krystal gliela strappò dalle mani e la tenne come se fosse stata una creatura viva che avrebbe
lottato per sopravvivere, la cui distruzione avrebbe avuto conseguenze terribili. Sul coperchio
c’era incisa una figura: una carrozza con il tetto carico di bagagli, trainata nella neve da quattro
cavalli sauri, con un cocchiere in cilindro che aveva un corno da caccia in mano. Krystal portò la
scatola di sopra, mentre Terri era in cucina a fumare, e la nascose in camera. Robbie la seguì.
«Gia’dinetti.»
A volte Krystal ce lo portava e lo spingeva sull’altalena e sulla giostra.
«Oggi no, Robbie.»
Lui attaccò a piagnucolare finché lei non gli urlò di stare zitto.
Più tardi, quando era già buio (dopo che Krystal ebbe preparato gli anellini al sugo e fatto il bagno
a Robbie; quando il funerale era ormai finito da un pezzo), Obbo bussò alla porta. Krystal lo vide
dalla finestra della camera di Robbie e cercò di arrivare per prima, ma Terri la batté sul tempo.
«Tutto a posto, Ter?» disse lui, entrando prima che chiunque lo invitasse a farlo. «Ho sentito che
mi hai cercato, settimana scorsa.»
Anche se Krystal gli aveva detto di restare dov’era, Robbie l’aveva seguita di sotto. Si sentiva il
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profumo del suo shampoo tra il puzzo di sigarette e di sudore stantio che Obbo si portava
addosso insieme alla vecchia giacca di pelle. Obbo aveva bevuto un bel po’; quando le sorrise
beffardo, Krystal sentì il tanfo di birra.
«Tutto a posto, Obbo?» chiese Terri, con quel tono di voce che Krystal sentiva solo in
quell’occasione. Era conciliante, accomodante; gli riconosceva dei diritti in casa loro. «Dove sei
stato?»
«A Bristol» rispose lui. «Come va, Ter?»
«Lei non vuole niente» disse Krystal.
Lui la guardò da dietro le lenti spesse. Robbie era aggrappato così forte alla gamba di Krystal che
le ficcava le unghie nella pelle.
«E questa chi è, Ter?» chiese Obbo. «Tua mamma?»
Terri rise. Krystal lo fulminò con lo sguardo, con Robbie che stringeva ancora di più. Lo sguardo
velato di Obbo si posò su di lui.
«E come sta il mio bimbo?»
«Col cazzo che è il tuo bimbo» disse Krystal.
«E tu che ne sai?» chiese Obbo piano, con un sorriso.
«Vaffanculo. Lei non vuole niente. Diglielo» quasi gridò a Terri. «Digli che non vuoi niente.»
Scoraggiata, presa tra i fuochi di due volontà molto più forti della sua, Terri mormorò: «È solo
passato a vedere...»
«No, invece» disse Krystal. «Col cazzo. Diglielo. Non vuole niente» ripeté, con forza, verso il
ghigno di Obbo. «Sono settimane che non si fa.»
«È vero, Terri?» chiese Obbo, senza smettere di sorridere.
«Sì, è vero» rispose Krystal al posto di Terri. «Va ancora a Bellchapel.»
«Ancora per poco» osservò Obbo.
«Vaffanculo» disse Krystal, indignata.
«Lo chiudono» disse Obbo.
«Davvero?» chiese Terri, presa da un panico improvviso. «No, non è vero, eh?»
«Sì che lo chiudono» rispose Obbo. «Tagli.»
«Tu non sai niente» disse Krystal. «Sono stronzate» disse alla madre. «Non hanno detto niente,
no?»
«Tagli» ripeté Obbo, palpandosi le tasche gonfie in cerca di sigarette.
«Abbiamo la revisione del caso» ricordò Krystal a Terri. «Non ti puoi fare, non puoi.»
«Che roba è?» chiese Obbo, giocherellando con l’accendino, ma nessuna delle due glielo spiegò.
Terri incrociò gli occhi di sua figlia per due secondi; poi lo sguardo le ricadde, a malincuore, su
Robbie, con il pigiama addosso, ancora aggrappato alla gamba di Krystal.
«Sì, stavo andando a letto, Obbo» mormorò senza guardarlo. «Magari ci vediamo un’altra volta.»
«Ho sentito che è morta tua nonna» disse. «Me l’ha detto Cheryl.»
La faccia di Terri si contorse dal dolore; sembrava vecchia quanto nonna Cath.
«Sì, vado a letto. Andiamo, Robbie, vieni con me.»
Robbie non voleva lasciare Krystal, finché c’era Obbo. Terri tese la mano, simile a un artiglio.
«Sì, vai Robbie» insisté Krystal. Quando era di quell’umore, Terri si aggrappava a suo figlio come a
un orsacchiotto; meglio lui che la roba. «Vai. Vai con la mamma.»
Qualcosa nella voce di Krystal rassicurò il bambino, che si lasciò portare di sopra da Terri.
«Ci vediamo» disse Krystal, senza guardare Obbo, allontanandosi da lui per entrare in cucina;
prese dalla tasca l’ultima delle sigarette rollate di Ciccio Wall e si chinò per accenderla al fornello.
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Sentì chiudersi la porta d’ingresso con un senso di trionfo. Andasse a cagare.
«Bel culo, Krystal.»
Lei sussultò così forte che un piatto scivolò giù dalla pila e finì in mille pezzi sul pavimento sudicio.
Obbo non se n’era andato, l’aveva seguita. Le stava guardando il seno sotto la maglietta
aderente.
«Vaffanculo» disse lei.
«Sei cresciuta, eh?»
«Vaffanculo.»
«Ho sentito che la dai via gratis» disse Obbo, avvicinandosi. «Potresti fare più soldi di tua
madre.»
«Vaff...»
Lui le mise la mano sul seno sinistro. Lei cercò di colpirla, ma lui le afferrò il polso con l’altra
mano. La sigaretta accesa di lei gli sfiorò la faccia e lui la colpì due volte col pugno sulla tempia;
altri piatti caddero sul pavimento lercio, poi, lottando, Krystal scivolò e cadde, sbattendo la nuca
per terra. Lui le finì addosso e lei sentì la sua mano che le tirava giù la tuta.
«No... vaffanculo! No!»
Obbo si abbassò la lampo premendole la pancia con le nocche – lei cercò di gridare e lui le diede
uno schiaffo – il suo odore pesante le riempì le narici mentre le ringhiava all’orecchio: «Prova a
gridare, stronza, e ti apro in due.»
Le entrò dentro e le fece male; lei sentiva i suoi grugniti e il proprio gemito flebile; si vergognò di
quel suono, così spaventato e debole.
Lui venne e si tolse da sopra di lei. Krystal si tirò su immediatamente i pantaloni della tuta e si
alzò per fronteggiare il suo ghigno di scherno, con il viso bagnato di lacrime.
«Lo dico a Fairbrother» sentì se stessa singhiozzare. Non capì da dove venisse quella frase. Era
una cosa stupida.
«Chi cazzo è?» Obbo si tirò su la lampo e accese una sigaretta con calma, bloccandole l’uscita. «Ti
scopi anche lui, eh? Troietta.» Uscì con passo tranquillo in corridoio e se ne andò.
Krystal tremava come mai in vita sua. Le veniva da vomitare; si sentiva l’odore di lui addosso. La
nuca le pulsava; aveva un dolore dentro, e le mutande bagnate. Corse in salotto e restò lì,
tremando, con le braccia strette intorno al corpo; poi, in un momento di terrore, pensò che Obbo
poteva tornare e corse a chiudere la porta a chiave.
Tornata in salotto trovò una lunga cicca nel posacenere e l’accese. Sprofondò nella poltrona di
Terri, fumando, tra i tremiti e i singhiozzi, poi saltò in piedi perché aveva sentito dei passi sulle
scale: Terri era ricomparsa, confusa e guardinga.
«Che hai?»
Krystal quasi vomitò le parole.
«Mi... mi ha scopato.»
«Eh?»
«Obbo... mi ha...»
«Non lo farebbe mai.»
Era il rifiuto istintivo con cui Terri affrontava tutta la sua vita: non lo farebbe mai, no, mai, mai
fatto.
Krystal le piombò addosso, la spinse; emaciata com’era, Terri finì all’indietro in corridoio,
strillando e imprecando; Krystal corse alla porta che aveva appena chiuso a chiave, armeggiò per
aprirla e la spalancò.
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Sempre singhiozzando, fece una ventina di metri nella strada buia per poi rendersi conto che
Obbo poteva essere là fuori a guardarla. Tagliò per il giardino di un vicino e andò verso casa di
Nikki con un percorso a zigzag, con le mutande sempre più bagnate e sempre più voglia di
vomitare.
Krystal sapeva che era stato uno stupro. Era successo alla sorella maggiore di Leanne nel
parcheggio di un locale di Bristol. Certe sarebbero andate alla polizia, lo sapeva; ma non facevi
entrare la polizia nella tua vita, se eri figlia di Terri Weedon.
Lo dico a Fairbrother.
I singhiozzi si fecero più forti. A lui avrebbe potuto dirlo. Lui sapeva com’era la vita vera. Uno dei
suoi fratelli era stato dentro. Aveva raccontato a Krystal la storia della sua vita. Non era stata
come la sua (nessuno aveva avuto sfiga come lei, lo sapeva per certo), ma come quella di Nikki,
quella di Leanne. Erano rimasti senza soldi; sua madre aveva comprato la casa popolare ma poi
non era riuscita a pagare le rate; avevano vissuto per un po’ in una roulotte prestata da uno zio.
Fairbrother si occupava dei problemi, li risolveva. Era venuto a casa loro per parlare con Terri di
Krystal e del canottaggio, perché c’era stata una lite e Terri non voleva firmare i moduli per farla
andare in trasferta con l’equipaggio. Lui non era rimasto disgustato, o comunque non l’aveva
dato a vedere, che alla fine era la stessa cosa. Terri, a cui non piaceva nessuno e che non si fidava
di nessuno, aveva detto: «Mi sembra uno a posto» e aveva firmato.
Fairbrother una volta le aveva detto: «Per te sarà più dura che per le altre, Krys; è stato così
anche per me. Ma tu puoi fare di meglio. Non devi per forza prendere la stessa strada.»
Lui parlava di impegnarsi a scuola, ma per quello era troppo tardi e comunque erano tutte
cazzate. A cosa le servivano i libri, adesso?
Come sta il mio bimbo?
Col cazzo che è il tuo bimbo.
E tu che ne sai?
La sorella di Leanne aveva dovuto prendere la pillola del giorno dopo. Krystal avrebbe chiesto a
Leanne e l’avrebbe presa anche lei. Non poteva avere un figlio da Obbo. Al solo pensiero le
veniva da vomitare.
Devo andarmene di qui.
Pensò per un attimo a Kay, poi scartò l’idea: raccontare a un’assistente sociale che Obbo andava
e veniva da casa loro per stuprarle era come andare alla polizia. Se l’avesse saputo avrebbe
portato via Robbie.
Una voce lucida e limpida nella testa di Krystal stava parlando con Fairbrother, l’unico adulto che
le avesse mai parlato nel modo giusto, non come la signora Wall, piena tanto di buone intenzioni
quanto di paraocchi, o nonna Cath, che non voleva sapere tutta la verità.
Devo portare Robbie via di qui. Come faccio ad andarmene? Devo andar via.
Il suo unico rifugio certo, la casetta di Hope Street, era già finita in pasto ai parenti litigiosi...
Svoltò in fretta sotto un lampione, guardandosi indietro per controllare che lui non la stesse
seguendo.
Fu allora che arrivò la soluzione, come se Fairbrother le avesse mostrato la via.
Se si fosse fatta mettere incinta da Ciccio Wall sarebbe riuscita ad avere una casa dal Consiglio.
Avrebbe potuto portare Robbie a vivere con lei e il bambino, se Terri avesse ricominciato a farsi.
E in casa sua Obbo non sarebbe mai entrato, mai. Ci sarebbero stati lucchetti e catene alla porta,
e la sua casa sarebbe stata pulita, sempre pulita come quella di nonna Cath.
Quasi correndo per la strada buia, Krystal riuscì a placare i singhiozzi.
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La famiglia Wall probabilmente le avrebbe dato dei soldi. Loro erano così. Immaginava il viso
semplice e premuroso di Tessa, china sopra una culla. Krystal sarebbe stata la mamma del loro
nipote.
Restando incinta avrebbe perso Ciccio; se ne andavano sempre, quando una aspettava un figlio;
l’aveva visto succedere quasi tutte le volte, ai Fields. O forse no: era un tipo così strano. In un
caso o nell’altro, poco le importava. Il suo interesse per lui, se non come parte essenziale del
piano, si era ridotto quasi a niente. Quel che voleva era il bambino: il bambino era più che un
mezzo per raggiungere uno scopo. I bambini le piacevano, aveva sempre adorato Robbie. Li
avrebbe tenuti tutti e due al sicuro, insieme. Per la sua famiglia sarebbe stata come una nonna
Cath ma migliore, più gentile e più giovane.
Se si fosse allontanata da Terri, poi Anne-Marie sarebbe venuta a trovarla. I loro figli sarebbero
stati cugini. Si vedeva già, in una bella immagine vivida, insieme ad Anne-Marie ai cancelli della St
Thomas di Pagford, a salutare due bimbe in abito azzurro e calzini corti.
Come sempre, le luci a casa di Nikki erano accese. Krystal si mise a correre.
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Parte Quarta
Demenza
5.11 Secondo la common law, le persone totalmente incapaci non possono votare, mentre può
votare chi è affetto da incapacità transitoria nei momenti di lucidità.
Charles Arnold-Baker,
L’amministrazione del Consiglio locale,
Settima edizione
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I
Samantha Mollison si era comprata ormai tutti e tre i dvd della boy band preferita di Libby. Li
teneva nascosti nel cassetto delle calze e delle mutande, accanto al diaframma. Aveva la scusa
pronta, se Miles li avesse trovati: erano un regalo per Libby. A volte, in negozio, dove gli affari
andavano peggio che mai, cercava fotografie di Jake su Internet. Era stato durante una di queste
navigazioni (Jake in giacca e pantaloni ma senza camicia, Jake in jeans e canottiera bianca) che
aveva scoperto che la band si sarebbe esibita a Wembley di lì a due settimane.
Aveva un’amica dei tempi dell’università che abitava a West Ealing. Poteva dormire da lei e
spacciare il tutto come un regalo per Libby, un’occasione per stare insieme. Con un entusiasmo
più autentico di quanto non le accadesse da tempo, Samantha riuscì a comprare due costosissimi
biglietti per il concerto. Quando aprì la porta di casa, quella sera, palpitava al pensiero di quello
squisito segreto, quasi come tornando da un appuntamento galante.
Miles era già in cucina, ancora vestito e con il telefono in mano. Quando lei entrò, la guardò in un
modo strano, indecifrabile.
«Che c’è?» chiese Samantha, un po’ sulla difensiva.
«Non riesco a chiamare papà» rispose Miles. «È sempre occupato. C’è un altro post.»
E quando Samantha lo guardò perplessa, aggiunse, con un pizzico d’impazienza: «Il Fantasma di
Barry Fairbrother! Un altro messaggio sul sito del Consiglio!»
«Ah» disse Samantha, srotolando la sciarpa. «Certo.»
«Sì, proprio adesso ho incontrato per strada Betty Rossiter, non parlava d’altro. Ho controllato la
bacheca, ma non l’ho visto. La mamma deve averlo già cancellato... o almeno lo spero, altrimenti
rischia grosso, se Maledir va da un avvocato.»
«È su Parminder Jawanda?» domandò Samantha, cercando apposta un tono disinvolto. Non
chiese qual era l’accusa, anzitutto perché era ben decisa a non diventare una vecchia impicciona
e pettegola come Shirley e Maureen e poi perché credeva di conoscerla già: Parminder aveva
causato la morte della vecchia Cath Weedon. Dopo un paio di secondi chiese, in tono vagamente
divertito: «Hai detto che tua madre rischia grosso?»
«Sì, è l’amministratore del sito e quindi è legalmente responsabile, se non rimuove le
affermazioni diffamatorie o potenzialmente diffamatorie. Ho paura che lei e papà non si rendano
conto di quanto può essere grave.»
«Potresti difenderla tu, le piacerebbe.»
Ma Miles non aveva sentito; stava rifacendo il numero con una smorfia, perché il cellulare di suo
padre era ancora occupato.
«Sta diventando una faccenda seria» disse.
«Eravate tutti contenti, quando hanno attaccato Simon Price. Perché ora è diverso?»
«Se è una campagna contro tutti i membri del Consiglio, o candidati al Consiglio...»
Samantha si voltò per nascondere il sorriso. Non era di Shirley che si preoccupava, allora.
«Ma perché qualcuno dovrebbe scrivere di te?» chiese in tono innocente. «Non hai mica segreti
inconfessabili.»
Se li avessi, cazzo, saresti un po’ più interessante.
«E quella lettera?»
«Quale lettera?»
«Ma Dio... Mamma e papà hanno detto che è arrivata una lettera anonima su di me! Che diceva
che non ero degno di prendere il posto di Barry Fairbrother!»
Samantha aprì il freezer e guardò il poco invitante contenuto, conscia del fatto che Miles non
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poteva più vederla in faccia, con lo sportello aperto.
«Non credi che qualcuno possa avere informazioni compromettenti su di te, vero?» chiese.
«No... però sono un avvocato. Potrebbe esserci qualcuno che ce l’ha con me. Non credo che
questa roba anonima... Insomma, finora se la sono presa solo con l’altra parte, ma potrebbero
esserci delle rappresaglie... Non mi piace come stanno andando le cose.»
«Be’, Miles, così è la politica» disse Samantha, apertamente divertita. «Una cosa sporca.»
Miles uscì a grandi passi dalla stanza, ma lei non se ne curò; i suoi pensieri erano già tornati a
quegli zigomi cesellati, alle sopracciglia ad ala di gabbiano e agli addominali sodi e tirati. Ormai
sapeva a memoria la maggior parte delle canzoni. Avrebbe comprato una T-shirt... e una anche
per Libby. Jake si sarebbe dimenato a pochi metri da lei. Si sarebbe divertita come non le capitava
da anni.
Howard, nel frattempo, camminava su e giù per il negozio chiuso, con il cellulare attaccato
all’orecchio. Le saracinesche erano abbassate, le luci accese e oltre l’arcata nella parete, nel caffè
di prossima apertura, Shirley e Maureen stavano spacchettando stoviglie e bicchieri; parlavano a
voce bassa ed eccitata e intanto ascoltavano il contributo di Howard alla conversazione
telefonica, fatto quasi solo di monosillabi.
«Sì... mm, mmh... sì...»
«Mi ha urlato contro» disse Shirley. «Urlato e imprecato. ‘Lo cancelli, cazzo!’ ha detto. E io: ‘Io lo
cancello, dottoressa Jawanda, ma le sarei grata se non dicesse parolacce’.»
«Se avesse detto delle parolacce a me, l’avrei lasciato su un altro paio d’ore» rincarò Maureen.
Shirley sorrise. In effetti aveva deciso di andare a farsi una tazza di tè, lasciando lì il post anonimo
su Parminder per altri quarantacinque minuti, prima di cancellarlo. Lei e Maureen avevano già
discusso in lungo e in largo l’argomento del post; c’era ancora spazio per un’ulteriore disamina,
ma l’urgenza immediata era stata soddisfatta. Così Shirley guardava oltre e attendeva
avidamente la reazione di Parminder alla messa in piazza del suo segreto.
«Alla fin fine, non può essere stata lei a scrivere quel post su Simon Price» disse Maureen.
«No, ovviamente no» convenne Shirley; intanto passava lo straccio sulla graziosa porcellana
bianca e azzurra che aveva scelto spuntandola su Maureen, più favorevole al rosa. A volte, pur
non essendo direttamente coinvolta nell’impresa, Shirley amava ricordare a Maureen l’enorme
influenza che lei, in qualità di moglie di Howard, esercitava ancora.
«Sì» diceva Howard al telefono. «Ma non sarebbe meglio se...? Mm, mmh...»
«Allora secondo te chi è stato?» chiese Maureen.
«Proprio non saprei» rispose Shirley in tono signorile, come se tali cognizioni o sospetti fossero
indegni di lei.
«Qualcuno che conosce i Price e i Jawanda.»
«Ovvio.»
Howard finalmente riattaccò.
«Aubrey è d’accordo» annunciò alle due donne, entrando nel caffè con la sua andatura a papera.
Aveva in mano la copia della Yarvil and District Gazette. «Molto debole. Davvero un pezzo molto
debole.»
Le due donne ci misero qualche secondo a ricordare che dovevano mostrarsi interessate
all’articolo postumo di Barry Fairbrother sul giornale locale. Il suo fantasma era molto più
divertente.
«Ah, sì; sì, ho pensato anch’io che fosse molto scarso, quando l’ho letto» disse Shirley,
riprendendosi in fretta.
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«L’intervista con Krystal Weedon era ridicola» disse Maureen, reprimendo una risata. «Vien fuori
che le piace l’arte. Immagino che si riferisca ai graffiti sul banco.»
Howard rise. Cogliendo l’occasione per voltare le spalle, Shirley prese dal bancone l’EpiPen di
riserva di Andrew Price che Ruth aveva portato in negozio quella mattina. Shirley aveva
consultato il suo sito di medicina preferito e si sentiva perfettamente in grado di spiegare il
funzionamento dell’adrenalina. Nessuno glielo chiese, tuttavia, così mise il tubetto bianco in uno
dei pensili e chiuse lo sportello più rumorosamente che poté per cercare di impedire a Maureen
di dire altre spiritosaggini.
Il telefono, nella mano enorme di Howard, suonò.
«Sì, pronto? Oh, Miles, sì... sì, sappiamo tutto... La mamma l’ha visto stamattina...» Rise. «Sì, l’ha
già cancellato... Non lo so... Credo sia stato postato ieri... Ma no, non direi... Di Maledir sappiamo
tutto da anni...»
Ma il buonumore di Howard svaniva man mano che Miles parlava. Dopo un po’ disse: «Ah...
capisco. Sì. No, non avevo pensato a... forse dovremmo chiedere a qualcuno di controllare la
sicurezza...»
Il rumore di una macchina nella piazza quasi buia passò praticamente inosservato ai tre nel
negozio, ma il conducente notò l’enorme ombra di Howard Mollison che si muoveva dietro le
tende color crema. Gavin premette sull’acceleratore, impaziente di arrivare da Mary. Al telefono
gli era sembrata disperata.
«Chi è che sta facendo questo? Chi è? Chi mi odia fino a questo punto?»
«Nessuno ti odia» aveva detto lui. «Chi potrebbe odiarti? Non ti muovere... sto arrivando.»
Parcheggiò davanti alla casa, sbatté la portiera e fece il vialetto quasi di corsa. Lei aprì la porta
prima ancora che lui bussasse. Aveva gli occhi di nuovo gonfi di lacrime e indossava una vestaglia
di lana lunga fino ai piedi, che la faceva sembrare ancora più piccola. Non era per nulla
seducente, l’antitesi esatta del kimono scarlatto di Kay, ma quel senso di familiarità, la
trasandatezza stessa rappresentavano per Gavin un nuovo livello di intimità.
I quattro figli di Mary erano in salotto. Mary fece cenno a Gavin di entrare in cucina.
«Loro lo sanno?» chiese lui.
«Solo Fergus. Gliel’ha raccontato qualcuno a scuola. Gli ho chiesto di non dirlo agli altri.
Sinceramente, Gavin... non ce la faccio più. Con che cattiveria...»
«Non è vero» disse lui, poi fu sopraffatto dalla curiosità e aggiunse: «No?»
«No!» rispose lei, indignata. «Cioè... non lo so... non la conosco bene. Ma far parlare lui in quel
modo... mettergli le parole in bocca... non gliene importa niente di cosa significa per me?»
Si sciolse di nuovo in lacrime. Gavin pensò che non doveva abbracciarla con quella vestaglia
addosso e fu contento di non averlo fatto quando, un istante dopo, il diciottenne Fergus entrò in
cucina.
«Ciao, Gav.»
Il ragazzo pareva stanco, più grande della sua età. Cinse Mary con il braccio e lei gli appoggiò la
testa sulla spalla, asciugandosi gli occhi con la manica sformata come una bambina.
«Secondo me non è stata la stessa persona» affermò Fergus, senza preamboli. «L’ho riletto. Lo
stile di questo messaggio è diverso.»
Ce l’aveva sul cellulare e lesse ad alta voce:
«‘La dottoressa Parminder Jawanda, consigliera locale, che si finge così appassionata nella cura
dei poveri e dei bisognosi della zona, ha sempre avuto un secondo fine. Fino alla mia morte...’»
«Fergus, smettila» lo interruppe Mary, lasciandosi cadere su una sedia al tavolo della cucina.
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«Non ce la faccio. Non ce la faccio proprio. E il suo articolo uscito oggi sul giornale.» Mentre lei si
prendeva il viso tra le mani e piangeva senza far rumore, Gavin vide la Yarvil and District Gazette
sul tavolo. Lui non la leggeva mai. Senza chiedere, andò a preparare qualcosa da bere per Mary.
«Grazie, Gav» disse lei con voce soffocata, quando le mise il bicchiere fra le mani.
«Potrebbe essere Howard Mollison» suggerì Gavin, sedendosi accanto a lei. «Visto quel che Barry
diceva di lui.»
«Non credo» rispose Mary, asciugandosi gli occhi. «È troppo rozzo per lui. Mollison non ha mai
fatto niente del genere quando Barry era...» – singhiozzò – «... vivo.» E poi sbottò, rivolta al figlio:
«Butta via quel giornale, Fergus.»
Il ragazzo parve confuso e ferito.
«Ma c’è l’articolo di...»
«Buttalo via!» disse Mary, con una nota isterica nella voce. «Posso leggerlo sul computer, se
voglio, l’ultima cosa che ha fatto... il giorno del nostro anniversario!»
Fergus prese il giornale dal tavolo e rimase a guardare un momento sua madre, che si era di
nuovo coperta il viso con le mani. Poi, con uno sguardo a Gavin, uscì dalla cucina portandosi via la
Gazette.
Dopo un po’ Gavin, valutando che Fergus non sarebbe tornato, posò una mano consolatoria sul
braccio di Mary e l’accarezzò. Rimasero qualche momento in silenzio e Gavin, senza quel giornale
sul tavolo, si sentì molto meglio.
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II
La mattina dopo Parminder non doveva andare a lavorare, ma aveva una riunione a Yarvil. Dopo
che i ragazzi furono usciti per andare a scuola, fece metodicamente il giro della casa per
assicurarsi di avere tutto il necessario, ma lo squillo del telefono la spaventò tanto da farle cadere
la borsa.
«Sì?» abbaiò, in tono allarmato. Tessa, all’altro capo della linea, rimase spiazzata.
«Minda, sono io... stai bene?»
«Sì... sì... il telefono mi ha spaventata» disse Parminder, guardando il pavimento della cucina
cosparso di chiavi, documenti, spiccioli e tamponi. «Cosa c’è?»
«Niente di particolare» la rassicurò Tessa. «Ti chiamavo per fare due chiacchiere. Per sentire
come stavi.»
L’argomento del post anonimo aleggiava fra loro come un mostro ghignante, appeso alla linea
telefonica. Il giorno prima, al telefono, quando Tessa aveva cercato di parlarne, Parminder l’aveva
interrotta strillando: «È una menzogna, una sporca menzogna, e non venirmi a dire che non è
stato Howard Mollison!»
Tessa non si era azzardata a insistere.
«Non posso parlare» disse Parminder. «Ho una riunione a Yarvil. Una revisione del caso di un
bambino sul registro dei minori a rischio.»
«Ah, va bene. Scusa. Magari ci sentiamo dopo?»
«Sì» disse Parminder. «Ottimo. Ciao.»
Raccolse il contenuto della borsa, corse fuori, poi tornò indietro dal cancello del giardino per
controllare di aver chiuso bene la porta di casa.
Ogni tanto, guidando, si accorgeva di non avere alcun ricordo di aver percorso l’ultimo
chilometro e si sforzava di concentrarsi. Ma le parole maligne del post anonimo continuavano a
tornarle in mente. Le sapeva già a memoria.
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La dottoressa Parminder Jawanda, consigliera locale, che si finge così appassionata nella cura dei
poveri e dei bisognosi della zona, ha sempre avuto un secondo fine. Fino alla mia morte è stata
innamorata di me, e riusciva a malapena a nasconderlo ogni volta che mi guardava; votava
sempre come le dicevo di votare, a ogni riunione del Consiglio. Ora che non ci sono più sarà
inutile come consigliera, perché ha perso il cervello.
L’aveva visto per la prima volta la mattina precedente, quando aveva aperto il sito del Consiglio
per controllare i verbali dell’ultima riunione. Aveva provato uno choc quasi fisico; il respiro le si
era fatto rapido e affannoso, come nei momenti peggiori del travaglio, quando aveva cercato di
innalzarsi al di sopra del dolore per estraniarsi dal terribile presente.
Ormai lo sapevano tutti. Non c’era possibilità di nascondersi.
Le venivano i pensieri più strani. Per esempio cosa avrebbe detto sua nonna se avesse saputo che
lei era stata accusata su un forum pubblico di amare il marito di un’altra, un gora, oltretutto.
Riusciva quasi a vedere bebe coprirsi il viso con un lembo del sari, scuotendo la testa e
dondolandosi avanti e indietro come faceva sempre quando una sventura si abbatteva sulla
famiglia.
«Ci sono mariti» aveva detto Vikram la sera prima, con una piega nuova nel suo sorriso
sardonico, «che vorrebbero sapere se è vero.»
«Ma certo che non è vero!» aveva risposto Parminder, portandosi la mano tremante alla bocca.
«Come fai a chiedermelo? Certo che non è vero! Tu lo conoscevi! Era mio amico... solo un
amico!»
Stava già passando davanti al Centro per la tossicodipendenza Bellchapel. Come era arrivata così
lontano senza nemmeno accorgersene? Cominciava a essere pericolosa, in macchina, non stava
attenta.
Ripensò alla sera di quasi vent’anni prima, quando lei e Vikram erano andati al ristorante, la sera
in cui avevano deciso di sposarsi. Gli aveva raccontato del trambusto che c’era stato in famiglia
quando Stephen Hoyle l’aveva accompagnata a casa, e lui aveva convenuto che era una
sciocchezza. All’epoca aveva capito. E invece adesso che ad accusarla non erano i suoi parenti
bigotti ma Howard Mollison, non capiva. Evidentemente non si rendeva conto di quanto i gora
potessero essere meschini, bugiardi e maligni...
Aveva dimenticato di svoltare. Doveva concentrarsi. Doveva stare più attenta.
«Sono in ritardo?» chiese, attraversando il parcheggio per andare incontro a Kay Bawden. Aveva
già conosciuto l’assistente sociale, quando era venuta da lei per il rinnovo della prescrizione della
pillola.
«Per niente» disse Kay. «Ho pensato di accompagnarla io in ufficio, perché qui è un labirinto...»
L’edificio che ospitava i servizi sociali a Yarvil era un brutto palazzo di uffici degli anni Settanta.
Mentre salivano in ascensore, Parminder si chiese se Kay sapesse del post anonimo sul sito del
Consiglio, o delle accuse della famiglia di Catherine Weedon. Immaginò le porte dell’ascensore
aprirsi su una fila di uomini in giacca e cravatta che l’aspettavano per accusarla e condannarla. E
se questa riunione per Robbie Weedon fosse solo una trappola? Se fosse al suo processo che
stavano andando?
Kay la condusse lungo un corridoio anonimo, trasandato e deserto, fino a una sala riunioni.
C’erano tre donne già sedute, che salutarono Parminder con un sorriso.
«Le presento Nina, che segue la madre di Robbie a Bellchapel» disse Kay, sedendosi con le spalle
alla finestra chiusa da una veneziana. «Gillian, il mio supervisore, e Louise Harper, la direttrice
della scuola dell’infanzia di Anchor Road. La dottoressa Parminder Jawanda, medico di base di
Robbie» aggiunse Kay.
Parminder accettò un caffè. Le altre quattro donne cominciarono a parlare senza coinvolgerla.
(La dottoressa Parminder Jawanda, consigliera locale, che si finge così appassionata nella cura dei
poveri e dei bisognosi della zona...
Che si finge così appassionata. Che bastardo che sei, Howard Mollison. Ma lui l’aveva sempre
considerata un’ipocrita: gliel’aveva detto Barry.
«Secondo lui, siccome vengo dai Fields vorrei che quelli di Yarvil invadessero Pagford. Tu invece,
che appartieni alla classe dei professionisti, non avresti alcun diritto di stare dalla parte dei Fields.
Crede che tu sia un’ipocrita o che ti diverta a creare problemi.»)
«... perché la famiglia ha un medico di Pagford?» chiese una delle tre assistenti sociali, che
Parminder non conosceva e delle quali aveva già dimenticato i nomi.
«Molte famiglie dei Fields hanno il medico da noi» rispose subito Parminder. «Ma non c’era stato
qualche problema tra i Weedon e il loro medico precedente...?»
«Sì, l’ambulatorio di Cantermill li aveva rifiutati» disse Kay, davanti alla quale c’era una pila di
appunti più alta di quella delle colleghe. «Terri aveva aggredito un’infermiera. Quindi da quanto
tempo sono suoi pazienti?»
«Quasi cinque anni» rispose Parminder, che aveva controllato tutti i dettagli all’ambulatorio.
(Aveva visto Howard in chiesa, al funerale di Barry, che fingeva di pregare, con le grasse mani
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giunte, e i Fawley inginocchiati accanto a lui. Parminder sapeva in cosa dovevano credere i
cristiani. Ama il tuo prossimo come te stesso... Se Howard fosse stato più sincero, si sarebbe
voltato a pregare Aubrey...
Fino alla mia morte è stata innamorata di me, e riusciva a malapena a nasconderlo ogni volta che
mi guardava...
Davvero non riusciva a nasconderlo?)
«... l’ultima volta che l’ha visto, Parminder?» chiese Kay.
«Quando sua sorella l’ha portato da me a prendere gli antibiotici per un’infezione all’orecchio»
rispose Parminder. «Circa due mesi fa.»
«E fisicamente come stava, allora?» chiese una delle altre donne.
«Be’, non ha problemi rilevanti» rispose Parminder, prendendo dalla borsa un sottile fascio di
fotocopie. «L’ho controllato con attenzione, perché... be’, conosco la storia familiare. Il peso è
giusto, anche se dubito che la sua dieta sia molto raccomandabile. Niente pidocchi né lendini,
nulla del genere. Aveva il sedere un po’ arrossato e mi ricordo che sua sorella mi ha detto che a
volte si fa ancora la pipì addosso.»
«Continuano a rimettergli il pannolino» spiegò Kay.
«Ma a parte questo» riprese la donna che le aveva rivolto la prima domanda, «lei nutre qualche
timore per la sua salute?»
«Non c’era segno di maltrattamenti» disse Parminder. «Ricordo di avergli tolto la canottiera per
controllare, non c’erano lividi né altre ferite.»
«In casa non ci sono uomini» intervenne Kay.
«E l’infezione all’orecchio?» chiese il supervisore a Parminder.
«Una normale infezione batterica conseguente a un virus. Niente di insolito. Tipica nei bambini di
quell’età.»
«Quindi, tutto sommato...»
«Ho visto di molto peggio» concluse Parminder.
«Ha detto che è stata la sorella a portarlo, non la madre? Anche Terri è una sua assistita?»
«Credo che siano cinque anni che non vediamo Terri» rispose Parminder, e il supervisore si
rivolse a Nina.
«Come va con il metadone?»
(Fino alla mia morte è stata innamorata di me...
Parminder pensò: Forse il Fantasma è Shirley, o Maureen, non Howard... Era molto più probabile
che fossero loro a spiarla quando era con Barry, sperando di carpire qualcosa con quel cervello da
vecchie maliziose...)
«... non era mai rimasta nel programma così a lungo» stava dicendo Nina. «Ha parlato spesso
della revisione del suo caso. Ho la sensazione che sappia che questa è la sua ultima possibilità.
Non vuole perdere Robbie, l’ha ripetuto diverse volte. Devo dire, Kay, che sei proprio riuscita a
entrare in sintonia con lei. Per la prima volta da quando la conosco, vedo che ha cominciato ad
assumersi qualche responsabilità.»
«Grazie, ma non vorrei essere troppo ottimista. La situazione è ancora molto precaria.» Le parole
caute di Kay contrastavano con il lieve, insopprimibile sorriso di soddisfazione. «Come vanno le
cose all’asilo, Louise?»
«Be’, è tornato» rispose la direttrice dell’asilo. «Nelle ultime tre settimane la frequenza è stata
regolare, e questo è un cambiamento radicale. Lo accompagna la sorella adolescente. I vestiti che
porta sono troppo piccoli e spesso sporchi, ma racconta che a casa mangia e fa il bagno.»
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«E dal punto di vista del comportamento?»
«Ha un ritardo di sviluppo. Le capacità linguistiche sono molto carenti. Non gli piace che entrino
degli uomini all’asilo. Quando arrivano i padri, lui non si avvicina; rimane accanto alle educatrici e
diventa molto nervoso. E un paio di volte» disse, voltando una pagina degli appunti, «ha mimato
su delle compagne atti di natura inequivocabilmente sessuale.»
«Qualunque sarà la nostra decisione, credo che toglierlo dal registro dei minori a rischio sia fuori
discussione» concluse Kay, accolta da un mormorio di approvazione.
«Direi che tutto dipende dal fatto che Terri resti nel programma» disse il supervisore a Nina, «e
che rimanga fuori dal giro.»
«Certo, questo è fondamentale» convenne Kay, «d’altra parte temo che, anche lontana
dall’eroina, Terri non sia in grado di fare da madre a Robbie. Mi pare che a crescerlo sia Krystal,
che ha sedici anni e parecchi problemi per conto suo...»
(Parminder ripensò a quanto aveva detto a Sukhvinder un paio di sere prima.
Krystal Weedon! Quella scema! È questo che hai imparato stando in squadra con Krystal Weedon,
ad abbassarti al suo livello?
A Barry piaceva Krystal. Aveva visto in lei qualcosa che agli occhi degli altri era invisibile.
Una volta, molto tempo prima, Parminder gli aveva raccontato la storia di Bhai Kanhaiya, l’eroe
sikh che provvedeva alle necessità dei feriti in battaglia, che fossero amici o nemici. Quando gli
chiesero perché prestasse il suo aiuto indiscriminatamente, Bhai Kanhaiya rispose che la luce di
Dio splendeva in ogni anima e che lui non sapeva distinguere tra gli uni e gli altri.
La luce di Dio splendeva in ogni anima.
Aveva detto che Krystal Weedon era scema e insinuato che fosse indegna.
Barry non l’avrebbe mai fatto.
Parminder si vergognò.)
«... quando c’era una bisnonna che sembrava poter dare una mano...»
«È morta» si affrettò a spiegare Parminder, prima che lo facesse qualcun altro. «Enfisema e
ictus.»
«Già» commentò Kay, sempre guardando gli appunti. «E così torniamo a Terri. Anche lei era stata
data in affidamento. Ha mai seguito un corso per ragazze madri?»
«Glielo abbiamo proposto, ma non è mai stata in condizione di partecipare» rispose la direttrice
dell’asilo.
«Se acconsentisse e lo frequentasse sul serio, sarebbe un passo avanti enorme» disse Kay.
«Se ci fanno chiudere» sospirò Nina, rivolgendosi a Parminder, «immagino che dovrà venire da lei
per il metadone.»
«Temo che non lo farebbe» obiettò Kay, prima che Parminder potesse rispondere.
«E perché?» domandò Parminder con rabbia.
Le altre la fissarono.
«Semplicemente perché prendere l’autobus e ricordare gli appuntamenti non è il suo forte»
spiegò Kay. «A Bellchapel ci arriva a piedi.»
«Ah» mormorò Parminder, mortificata. «Sì. Scusi. Probabilmente ha ragione.»
(Aveva pensato che Kay si riferisse al reclamo per la morte di Catherine Weedon; che intendesse
dire che Terri Weedon non si sarebbe fidata di lei.
Concentrati su quello che dicono. Cosa ti prende?)
«Allora, riassumendo» concluse il supervisore, guardando gli appunti. «Abbiamo negligenza
parentale con qualche intervallo di cure adeguate.» Sospirò, ma esprimendo più esasperazione
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che tristezza. «Lo stato di crisi contingente è superato: la madre ha smesso di drogarsi e Robbie è
tornato all’asilo, dove possiamo tenerlo d’occhio e non ci sono rischi immediati per la sua
sicurezza. Come dice Kay, rimarrà sul registro dei minori a rischio... Dovremo certamente riunirci
di nuovo fra quattro settimane...»
Ci vollero altri quaranta minuti prima che la riunione finisse. Kay accompagnò Parminder al
parcheggio.
«È stata molto gentile a venire di persona; la maggior parte dei medici di base manda una
relazione.»
«Era la mia mattina libera» disse Parminder. Voleva essere una spiegazione della sua presenza,
perché odiava stare a casa senza niente da fare, ma Kay parve pensare che stesse cercando altre
lodi, e gliene fece.
Arrivate alla macchina di Parminder, Kay chiese: «Lei è nel Consiglio locale, vero? Colin le ha
trasmesso i dati su Bellchapel che gli ho portato?»
«Sì» rispose Parminder. «Dovremo parlarne. È all’ordine del giorno della prossima riunione.»
Ma dopo che Kay le ebbe dato il suo numero e se ne fu andata ringraziandola ancora, Parminder
tornò a riflettere su Barry, il Fantasma e i Mollison. Stava attraversando i Fields quando quel
pensiero semplice che aveva cercato di seppellire, di affogare, eluse finalmente le sue ormai
deboli difese.
Forse lo amavo davvero.
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III
Andrew aveva passato ore a decidere che cosa indossare per il primo giorno di lavoro al Bricco di
Rame. La scelta finale era appesa alla spalliera della sedia in camera da letto. Un brufolo
particolarmente spietato aveva deciso di manifestarsi in un lucido pinnacolo sulla sua guancia
sinistra e Andrew era arrivato al punto di provare il fondotinta di Ruth, rubato dal cassetto della
toletta.
Venerdì sera stava apparecchiando la tavola, con la mente rivolta a Gaia e alle sette ore, ormai
dietro l’angolo, di vicinanza a lei, quando suo padre tornò dal lavoro in uno stato in cui Andrew
non l’aveva mai visto prima. Sembrava mogio, quasi disorientato.
«Dov’è tua madre?» domandò.
Ruth uscì di corsa dalla dispensa.
«Ciao, tesoro! Come... che succede?»
«Mi hanno messo in esubero.»
Ruth si portò le mani al viso con orrore, poi corse dal marito, gli gettò le braccia al collo e lo tenne
stretto.
«Perché?» bisbigliò.
«Quel messaggio» disse Simon. «Su quel cazzo di sito. Hanno tirato in mezzo anche Jim e Tommy.
Ci hanno detto o accettate l’esubero o vi licenziamo. Un accordo di merda, neanche quello che
hanno dato a Brian Grant.»
Andrew rimase perfettamente immobile, calcificandosi lentamente in un monumento al senso di
colpa.
«Cazzo» bofonchiò Simon nella spalla di Ruth.
«Troverai qualcos’altro» bisbigliò lei.
«Non da queste parti.»
Simon sedette al tavolo di cucina, ancora con il cappotto, e rimase a fissare il vuoto, troppo
sgomento per parlare. Ruth gli ronzava intorno costernata, affettuosa e in lacrime. Andrew notò
con piacere nello sguardo catatonico di Simon un’ombra della sua solita teatralità. Lo fece sentire
un po’ meno colpevole. Continuò ad apparecchiare la tavola senza dire una parola.
La cena fu moscia. Paul, sapute le novità, aveva preso un’aria terrorizzata, come se suo padre
avesse potuto accusarlo di esserne la causa. Durante la prima portata Simon si comportò come
un martire cristiano, ferito ma dignitoso davanti all’ingiusta persecuzione, ma poi... «Pagherò
qualcuno che gli spacchi la faccia in due, a quel pezzo di merda» sbottò, fra una cucchiaiata e
l’altra di torta di mele; tutta la famiglia capì che parlava di Howard Mollison.
«Sai, c’è un altro messaggio sul sito del Consiglio» disse Ruth, senza fiato. «Non sei il solo, Simon.
Shir... me l’hanno detto al lavoro. La stessa persona, il Fantasma di Barry Fairbrother, ha scritto
delle cose orribili sulla dottoressa Jawanda. Allora Howard e Shirley hanno chiamato qualcuno
che desse un’occhiata al sito e questo qui ha scoperto che chiunque scriva i messaggi lo fa usando
i dati di Barry Fairbrother, e così per stare sicuri l’hanno cancellato dal... dal database o che so
io...»
«E questo mi ridarà il mio cazzo di lavoro?»
Ruth non parlò più per diversi minuti.
Quello che aveva detto sua madre aveva gettato Andrew in uno stato di agitazione. Il fatto che
il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother fosse oggetto d’indagine era preoccupante, così come il fatto
che qualcuno avesse seguito le sue orme.
Chi altro avrebbe pensato di usare l’account di Barry Fairbrother se non Ciccio? Ma allora, perché
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Ciccio avrebbe dato addosso alla dottoressa Jawanda? Oppure era solo un altro modo per
prendersela con Sukhvinder? La cosa non gli piaceva per niente...
«Che hai, tu?» abbaiò Simon dall’altro lato del tavolo.
«Niente» mormorò Andrew, poi, ripensandoci: «È che questa storia del tuo lavoro... è uno
choc...»
«Ah, sei scioccato, eh?» gridò Simon e Paul fece cadere il cucchiaio, sporcandosi di gelato.
«(Pulisci, Pauline, finocchietto!) Be’, è così che va il mondo, Faccia di pizza!» gridò a Andrew.
«Stronzi dappertutto che cercano di fotterti! Perciò tu» indicò il figlio maggiore dall’altra parte
del tavolo, «vedi di trovare un po’ di merda su Mollison, o puoi fare anche a meno di tornare a
casa!»
«Simon...»
Simon spinse via la sedia, lasciò cadere il cucchiaio, che rimbalzò rumorosamente, e uscì a grandi
passi dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Andrew aspettò l’inevitabile e non rimase
deluso.
«È un colpo terribile per lui» sussurrò Ruth ai suoi figli, scossa. «Dopo tutti gli anni che ha
dedicato a quell’azienda... si preoccupa di come riuscirà a mantenerci...»
La mattina dopo, quando la sveglia suonò alle sei e mezzo, Andrew la spense nel giro di due
secondi e saltò giù dal letto. Sentendosi come il giorno di Natale, si lavò e vestì in fretta e poi
passò quaranta minuti a sistemarsi i capelli e il viso, applicandosi minuscole quantità di
fondotinta sui brufoli più evidenti.
Passando davanti alla stanza dei genitori si aspettò quasi che Simon gli tendesse un agguato, ma
non vide nessuno; dopo una frettolosa colazione prese dal garage la bici da corsa del padre e
sfrecciò giù dalla collina verso Pagford.
Era una mattina nebbiosa, ma con la promessa di sole. La saracinesca della salumeria era ancora
abbassata, tuttavia la porta tintinnò e si aprì quando Andrew la spinse.
«Non di qua!» gridò Howard, caracollando verso di lui. «Tu entri dal retro! Lascia la bicicletta
accanto ai bidoni, levala da qui davanti!»
Il retro del negozio, a cui si accedeva da uno stretto vicolo, comprendeva un misero, umido
angolo di cortile lastricato e circondato da muri alti, una tettoia con sotto dei bidoni di metallo di
formato industriale e una botola che portava in cantina per mezzo di una scala vertiginosa.
«La puoi legare lì da qualche parte, fuori dai piedi» disse Howard, che era apparso alla porta sul
retro, ansimante e con il volto sudato. Mentre Andrew armeggiava con il lucchetto della catena,
Howard si asciugava la fronte con il grembiule.
«Bene, cominciamo dalla cantina» disse, quando Andrew ebbe legato la bici. Indicò la botola.
«Scendi giù e guardati intorno.»
Si chinò sopra la botola mentre Andrew scendeva.
Howard non riusciva da anni a scendere in cantina. Era Maureen che saliva e scendeva un paio di
volte alla settimana; ma ora che era piena di scorte per il nuovo caffè, delle gambe più giovani
erano indispensabili.
«Guardati bene in giro» gridò Howard all’invisibile Andrew. «Vedi dove teniamo le torte e i
prodotti da forno? Vedi i sacchi di caffè e le scatole di tè? E nell’angolo... la carta igienica e i
sacchi per i bidoni?»
«Sì» echeggiò la voce di Andrew dalle profondità della cantina.
«Puoi chiamarmi signor Mollison» suggerì Howard, con una sfumatura severa nella voce che
ansimava.
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Giù in cantina, Andrew si chiese se doveva cominciare subito.
«Certo... signor Mollison.»
Gli suonò sarcastico. Si affrettò a riparare con una domanda educata.
«Cosa c’è nelle credenze?»
«Guardaci» rispose Howard, spazientito. «È per questo che sei là sotto. Per sapere dove mettere
e dove prendere le cose.»
Howard sentì il rumore attutito delle ante che si aprivano e sperò che il ragazzo non fosse tonto o
avesse bisogno di indicazioni continue. Quel giorno l’asma si faceva sentire più del solito; il tasso
di polline nell’aria era insolitamente alto per la stagione, in aggiunta al sovraccarico di lavoro,
all’agitazione e alle piccole contrarietà che accompagnavano l’apertura del caffè. Se continuava a
sudare così, avrebbe dovuto chiamare Shirley perché prima dell’inaugurazione gli portasse una
camicia pulita.
«Arriva il furgone!» gridò Howard, sentendo il motore in fondo al vicolo. «Vieni su! Devi
scaricarlo e mettere via la roba in cantina, va bene? E porta al caffè dieci litri di latte. Capito?»
«Sì... signor Mollison» disse la voce di Andrew da giù.
Howard tornò lentamente dentro a prendere l’inalatore che teneva nella giacca, appesa nella
stanza del personale dietro il bancone. Dopo diverse inalazioni si sentì meglio. Si asciugò di nuovo
il viso sul grembiule e si sedette su una delle sedie cigolanti a riposare.
Da quando era andato dalla dottoressa Jawanda per l’eruzione cutanea, Howard aveva pensato
spesso a quello che lei gli aveva detto: che il peso era la causa di tutti i suoi problemi di salute.
Erano stupidaggini, ovviamente. Bastava guardare il figlio di Hubbard: era magro come
un’acciuga e l’asma lo consumava. Howard era sempre stato grosso, fin da quando riuscisse a
ricordare. Nelle pochissime fotografie in cui compariva insieme al padre, che aveva abbandonato
la famiglia quando lui aveva quattro o cinque anni, Howard era solo un po’ paffuto. Dopo che il
padre se n’era andato, sua madre l’aveva messo a capotavola, fra sé e la nonna, e si offendeva se
lui non si serviva di ogni pietanza due volte. Poco a poco era cresciuto fino a riempire tutto lo
spazio fra le due donne, arrivando a dodici anni a pesare quanto il padre che li aveva lasciati. Per
Howard, un buon appetito era diventato col tempo sinonimo di virilità. La sua stazza era una delle
caratteristiche che lo definivano. Era stata costruita con piacere, dalle donne che lo amavano, ed
era proprio tipico di quella guastafeste castrante di Maledir pensare di ridurla.
Ma a volte, nei momenti di debolezza, quando faticava a muoversi o respirare, Howard si
spaventava. Per quanto Shirley fingesse che nulla fosse successo, lui ricordava fin troppo bene le
lunghe notti in ospedale dopo il bypass, quando non riusciva a dormire per il timore che il cuore
potesse incepparsi e fermarsi. Ogni volta che vedeva Vikram Jawanda, gli veniva in mente che
quelle lunghe dita scure avevano toccato il suo cuore nudo e pulsante; la bonomia che Howard
trasudava ogni volta che lo incontrava era un modo di esorcizzare quella paura istintiva,
primordiale. All’ospedale gli avevano detto che doveva dimagrire, ma lui, quando era stato
costretto a nutrirsi dei loro orrendi pasti, aveva già perso spontaneamente una dozzina di chili e
non appena era uscito Shirley si era impegnata a rimetterlo all’ingrasso...
Howard rimase seduto ancora un po’, a godersi quei bei respiri calmi dopo aver usato l’inalatore.
Era una giornata importante, per lui. Trentacinque anni prima aveva introdotto a Pagford la
buona cucina con lo stesso slancio di un avventuriero del Cinquecento che torna dall’altra parte
del mondo carico di prelibatezze e Pagford, dopo la diffidenza iniziale, aveva cominciato a
curiosare timidamente nei suoi contenitori di polistirolo. Pensò con nostalgia alla sua povera
mamma, che era stata così orgogliosa di lui e della sua florida attività. Avrebbe voluto che
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vedesse il caffè. Poi, faticosamente, si rialzò in piedi, prese dal gancio il berretto da cacciatore di
cervi e se lo calò in testa con cura, in una sorta di auto-incoronazione.
Le nuove cameriere arrivarono insieme alle otto e mezzo. Aveva una sorpresa per loro.
«Ecco qui» disse, porgendo loro le uniformi: abiti neri e grembiuli bianchi merlettati, esattamente
come aveva immaginato. «Dovrebbero andarvi bene. Le taglie le ha scelte Maureen. Anche lei ne
ha uno.»
Gaia represse una risata quando Maureen, sorridente, entrò nel negozio dal caffè. Portava
sandali Dr Scholl sulle calze nere. Il vestito terminava cinque centimetri sopra le ginocchia rugose.
«Potete cambiarvi nella stanza del personale, ragazze» disse, indicando il posto da cui Howard
era appena uscito.
Gaia stava già togliendosi i jeans accanto al bagno del personale quando notò l’espressione di
Sukhvinder.
«Che c’è, Sooks?» chiese.
Il nuovo soprannome diede a Sukhvinder il coraggio di dire ciò che altrimenti sarebbe stata
incapace di esprimere.
«Non posso metterlo» sussurrò.
«Perché?» chiese Gaia. «Ti starà bene.»
Ma il vestito nero aveva le maniche corte.
«Non posso.»
«Ma perc... oddio» disse Gaia.
Sukhvinder si era tirata su le maniche della felpa. L’interno delle braccia era ricoperto di un intrico
di brutte cicatrici e dal polso partivano tagli più recenti, appena rimarginati, che andavano verso
l’alto.
«Sooks» mormorò Gaia. «Che cosa mi combini?»
Sukhvinder scosse la testa, con gli occhi pieni di lacrime.
Gaia ci pensò su un momento, poi disse: «So io cosa facciamo, vieni qui.» Indossava una
maglietta a manica lunga: se la tolse.
Ci fu un forte colpo alla porta e la serratura, chiusa male, si aprì di scatto: Andrew, tutto sudato,
era già entrato per metà, portando due grossi pacchi di carta igienica, quando il grido rabbioso di
Gaia lo bloccò. Incespicò all’indietro e andò a sbattere contro Maureen.
«Si stanno cambiando, là dentro» disse lei, con acida disapprovazione.
«Il signor Mollison mi ha detto di portare questi nel bagno del personale.»
Merda, merda. Aveva addosso solo il reggiseno e gli slip. Andrew aveva visto quasi tutto.
«Scusate» gridò verso la porta chiusa. Era arrossito tanto che la faccia gli pulsava.
«Coglione» mormorò Gaia dall’altra parte. Stava porgendo a Sukhvinder la maglietta. «Mettila
sotto il vestito.»
«Ma sembrerà strano.»
«Fregatene. La prossima settimana ne porti una nera, sembrerà che hai le maniche lunghe. Ci
inventeremo una storia...»
«Ha un eczema» annunciò Gaia quando uscì con Sukhvinder dalla stanza del personale, in abito e
grembiule. «Su tutto il braccio. Un po’ squamoso.»
«Ah» fece Howard, guardando le braccia di Sukhvinder coperte dalla maglietta bianca e poi Gaia,
bella esattamente come aveva sperato.
«La prossima settimana ne metto una nera» mormorò Sukhvinder, senza osare guardare Howard
negli occhi.
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«Bene» fece lui e le spedì verso il caffè dando a Gaia un colpetto sulla schiena, appena sopra il
sedere. «Pronti?» disse a tutto il personale. «Ci siamo... Maureen, apri le porte!»
C’era già una piccola folla di clienti in attesa sul marciapiede. Fuori un cartello diceva: Il Bricco di
Rame – Inaugurazione. La prima tazza di caffè in omaggio!
Andrew non rivide Gaia per ore. Howard lo tenne occupato a trasportare latte e succhi di frutta
su e giù per le ripide scale della cantina e a pulire il pavimento della piccola cucina sul retro.
Dovette fare la pausa pranzo prima delle cameriere. La intravide solo quando Howard lo chiamò
al bancone del caffè e si sfiorarono mentre lei andava nella direzione opposta, verso il
retrobottega.
«Siamo al completo, signor Price!» disse Howard, di ottimo umore. «Prenditi un grembiule pulito
e puliscimi quei tavoli, intanto che Gaia pranza!»
Miles e Samantha Mollison si erano seduti con le figlie e Shirley a un tavolo accanto alla vetrina.
«Sembra che stia andando splendidamente, no?» disse Shirley, guardandosi attorno. «Ma che
diavolo ha la giovane Jawanda sotto il vestito?»
«Delle bende?» suggerì Miles, stringendo gli occhi.
«Ciao, Sukhvinder!» esclamò Lexie, che la conosceva fin dalle elementari.
«Non gridare, cara» la rimbrottò sua nonna, e Samantha si irritò.
Maureen uscì da dietro il bancone con l’abito nero corto e il grembiule fru-fru e Shirley represse
una risata nella sua tazza di caffè.
«Oh, santo cielo» mormorò, mentre Maureen si avvicinava raggiante.
Era vero, pensò Samantha, Maureen era ridicola, specialmente accanto a due sedicenni vestite
con gli stessi abiti, ma non avrebbe dato a Shirley la soddisfazione di mostrarsi d’accordo con lei.
Si voltò ostentatamente dall’altra parte, a guardare il ragazzo che puliva i tavoli accanto. Era
magro ma con le spalle ragionevolmente robuste. Vedeva i muscoli tendersi sotto la maglietta
larga. Incredibile pensare che le grasse terga di Miles potessero essere state così piccole e sode...
poi il ragazzo si voltò alla luce e Samantha vide l’acne.
«Niente male, eh?» stava gracchiando Maureen a Miles. «È tutto il giorno che siamo pieni.»
«Bene, ragazze» disse Miles alla sua famiglia, «cosa prendiamo per aumentare i profitti del
nonno?»
Samantha ordinò senza entusiasmo una zuppa, mentre Howard veniva verso di loro dalla
salumeria; aveva fatto avanti e indietro ogni dieci minuti per tutto il giorno, ad accogliere i clienti
e controllare l’incasso.
«Un successo strepitoso» annunciò a Miles, strizzandosi accanto a loro. «Che te ne pare del
posto, Sammy? Non l’avevi ancora visto, vero? Ti piace il murale? E le stoviglie?»
«Mm» rispose Samantha. «Bellissime.»
«Pensavo di fare qui la festa dei sessantacinque» disse Howard, grattandosi distrattamente
l’irritazione che le pomate di Parminder non avevano ancora guarito, «ma non è abbastanza
grande. No, dovremo farla nella sala parrocchiale.»
«Quand’è, nonno?» cinguettò Lexie. «Io posso venire?»
«Il ventinove, e quanti anni hai ora... sedici? Certo che puoi venire» rispose allegramente
Howard.
«Il ventinove?» ripeté Samantha. «Ah, ma...»
Shirley le rivolse uno sguardo tagliente.
«Howard sta preparando la festa da mesi. Sono giorni che ne parliamo.»
«... è la sera del concerto di Libby» disse Samantha.
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«Un concerto della scuola?» chiese Howard.
«No» spiegò Libby, «la mamma mi ha preso i biglietti per il mio gruppo preferito. È a Londra.»
«E io l’accompagno» aggiunse Samantha. «Non può andarci da sola.»
«La mamma di Harriet ha detto che...»
«Libby, se vai a Londra io ti accompagno.»
«Il ventinove?» domandò Miles, con un’occhiata dura a Samantha. «Il giorno dopo le elezioni?»
Samantha si concesse la risata sarcastica che aveva risparmiato a Maureen.
«È il Consiglio locale, Miles. Non è che dovrai fare una conferenza stampa.»
«Be’, ci mancherai, Sammy» tagliò corto Howard, tirandosi su con l’aiuto della spalliera della
sedia di lei. «Meglio che vada... va bene, Andrew, qui hai finito... vai a vedere se ci serve qualcosa
in cantina.»
Andrew fu costretto ad aspettare accanto al bancone perché c’era gente che andava e tornava
dal bagno. Maureen stava caricando Sukhvinder di vassoi di panini.
«Come sta tua madre?» chiese all’improvviso alla ragazza, come se la cosa le fosse appena
venuta in mente.
«Bene» rispose Sukhvinder, arrossendo.
«Non se l’è presa troppo per quella brutta faccenda del sito del Consiglio?»
«No» disse Sukhvinder, con gli occhi che cominciavano a velarsi di lacrime.
Andrew uscì nel cortile umido, che nel primo pomeriggio era diventato caldo e assolato. Aveva
sperato che Gaia fosse lì a prendere un po’ d’aria, ma doveva essere andata nella stanza del
personale. Deluso, si accese una sigaretta. Aveva appena aspirato che lei uscì dal caffè, a finire il
pranzo con una lattina di una bibita gassata.
«Ciao» disse Andrew, con la bocca arida.
«Ciao» rispose lei. Poi, dopo un istante: «Ehi, ma perché quel tuo amico si comporta così di
merda con Sukhvinder? È un fatto personale o è razzista?»
«Non è razzista» rispose Andrew. Si tolse la sigaretta di bocca, cercando di fermare il tremito
delle mani, ma non riuscì a pensare a nient’altro da dire. Il sole riflesso dai bidoni gli scaldava la
schiena sudata; era quasi insopportabile averla così vicina con quel vestito stretto, specie ora che
aveva intravisto cosa c’era sotto. Fece un altro tiro, chiedendosi quando mai si era sentito così
poco lucido o così vivo.
«Ma lei che gli ha fatto?»
La curva dei fianchi sotto la vita stretta; la perfezione degli occhi grandi dalle iridi screziate sopra
quella lattina di Sprite. Andrew aveva voglia di dirle: Niente, è un bastardo, se mi lasci toccarti lo
picchio...
Sukhvinder uscì in cortile, battendo le palpebre per ripararsi dal sole; era a disagio e accaldata,
con la maglietta di Gaia addosso.
«Vuole che rientri» disse a Gaia.
«Può aspettare» rispose Gaia, freddamente. «Sto finendo questa. Sono passati solo quaranta
minuti.»
Andrew e Sukhvinder la contemplarono mentre beveva la sua bibita, soggiogati dalla sua
arroganza e dalla sua bellezza.
«Ma quella vecchia stronza ti stava dicendo qualcosa su tua madre?» chiese Gaia a Sukhvinder.
La ragazza annuì.
«Secondo me è stato il suo amico» suggerì Gaia, fissando di nuovo Andrew, che trovò l’enfasi su
quel suo decisamente erotica, anche se l’intenzione di Gaia era sprezzante, «a mettere sul sito
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quel messaggio su tua madre.»
«Non può essere stato lui» replicò Andrew, con voce appena tremula. «Chiunque sia stato se l’è
presa anche con mio padre, un paio di settimane fa.»
«Eh?» fece Gaia. «La stessa persona ha postato qualcosa su tuo padre?»
Lui annuì, crogiolandosi nel suo interesse.
«Qualcosa su un furto, mi pare?» chiese Sukhvinder, con notevole audacia.
«Sì» rispose Andrew. «E ieri l’hanno licenziato per questo. Quindi non è solo sua mamma» –
sostenne lo sguardo accecante di Gaia quasi con fermezza – «a esserci andata di mezzo.»
«Porca troia» disse Gaia, rovesciando la lattina e gettandola in un bidone. «La gente qui è
completamente fuori di testa.»
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IV
Il post su Parminder sul sito del Consiglio aveva dato alle paure di Colin Wall una nuova
dimensione da incubo. Non aveva idea di dove i Mollison potessero avere accesso a quelle
informazioni, ma se sapevano una cosa del genere di Parminder...
«Per l’amor del cielo, Colin!» aveva detto Tessa. «È solo un pettegolezzo cattivo, non significa
niente!»
Ma Colin non aveva il coraggio di crederle. Era costituzionalmente incline a pensare che anche gli
altri convivessero con segreti che li rendevano mezzi pazzi. Non lo confortava nemmeno il
pensiero di aver trascorso quasi tutta la sua vita di adulto nel terrore di calamità che non si erano
mai avverate, perché, statisticamente, prima o poi una doveva capitare.
Stava pensando al suo imminente smascheramento anche alle due e mezzo, tornando dal
macellaio, poiché ci pensava di continuo, e fu solo quando il trambusto del nuovo caffè attirò la
sua attenzione che capì, bruscamente, dov’era. Sarebbe fuggito dall’altra parte della piazza, se
non fosse stato già all’altezza delle vetrine del Bricco di Rame: bastava la sola vicinanza a un
Mollison per spaventarlo, ormai. Ma poi, dalla vetrina, vide qualcosa che lo sorprese davvero,
anche se a scoppio ritardato.
Quando entrò in cucina, dieci minuti dopo, Tessa era al telefono con sua sorella. Colin mise in
frigo il cosciotto d’agnello e andò di sopra, nella mansarda di Ciccio. Aprì la porta, come si
aspettava, su una stanza deserta.
Non ricordava più quando ci era entrato l’ultima volta. Il pavimento era coperto di vestiti sporchi.
C’era un odore strano, anche se Ciccio aveva lasciato il lucernario aperto. Notò una grossa scatola
di fiammiferi sulla scrivania. La aprì e vide un mucchio di cicche schiacciate, con i filtri di cartone.
Un pacchetto di Rizla se ne stava sfrontatamente sulla scrivania, accanto al computer.
A Colin sembrò di sentire il cuore rotolargli giù dal petto e battere contro le budella.
«Colin?» giunse la voce di Tessa dal pianerottolo del piano di sotto. «Dove sei?»
«Quassù!» ruggì lui.
Tessa apparve sulla soglia della stanza di Ciccio, con un’aria spaventata e tesa. Senza parlare, lui
prese la scatola di fiammiferi e gliene mostrò il contenuto.
«Oh» fece lei, con un filo di voce.
«Ha detto che oggi usciva con Andrew Price» disse Colin. Tessa aveva paura di quel muscolo
contratto nella mascella del marito, un bozzo rabbioso che si spostava a destra e a sinistra. «Sono
passato davanti al nuovo caffè nella piazza e Andrew Price era lì, a pulire i tavoli. Allora dov’è
Stuart?»
Per settimane, Tessa aveva finto di credere a Ciccio ogniqualvolta le aveva detto che sarebbe
uscito con Andrew Price. Per giorni si era ripetuta che Sukhvinder doveva essersi sbagliata e che
Ciccio non usciva (che non avrebbe mai nemmeno accondisceso a uscire) con Krystal Weedon.
«Non lo so» rispose. «Vieni giù a prendere una tazza di tè. Lo chiamo.»
«Credo che aspetterò qui» ribatté Colin e si sedette sul letto disfatto di Ciccio.
«Dai, Colin... vieni giù» insisté Tessa.
Aveva paura a lasciarlo lì. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovare nei cassetti o nello zainetto
che Ciccio usava per la scuola. Non voleva che guardasse nel computer o sotto il letto. Mai
guardare negli angoli bui: ormai era questo il suo unico modus operandi.
«Vieni giù, Col.»
«No» rispose Colin, e incrociò le braccia come un bambino disubbidiente, ma con quel muscolo
contratto nella mascella. «Droga in camera. Il figlio del vicepreside.»
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Tessa, che si era seduta sulla sedia davanti al computer, avvertì un familiare brivido di rabbia.
Sapeva che preoccuparsi solo per sé era una conseguenza inevitabile della malattia di Colin, ma
certe volte...
«Spesso gli adolescenti vogliono fare esperienze nuove...» disse.
«Lo difendi ancora? Non ti viene mai in mente che sono le tue continue giustificazioni a fargli
pensare di potersela cavare sempre, qualunque cosa faccia?»
Tessa cercava di controllare la rabbia, perché doveva sempre fare da cuscinetto fra loro.
«Scusa, Colin, ma tu e il tuo lavoro non siete il centro e lo scopo di...»
«Capisco... quindi, se mi licenziano...»
«Ma perché cavolo dovrebbero licenziarti?»
«Ma Cristo!» gridò Colin, indignato. «Tutto ricade su di me... come se già non avessi abbastanza
problemi... lui è già uno degli studenti più difficili della...»
«Non è vero!» urlò Tessa. «Nessuno, a parte te, pensa che Stuart sia diverso da un adolescente
qualsiasi. Non è mica Dane Tully!»
«Sta prendendo la stessa strada... droga in camera...»
«Te l’avevo detto che dovevamo mandarlo alla Paxton High! Lo sapevo che alla Winterdown
qualsiasi cosa avesse fatto l’avresti presa per un affronto personale! Non c’è da stupirsi che si
ribelli, se ci si aspetta che qualsiasi suo gesto debba onorare te! Io non ho mai voluto che andasse
nella tua scuola!»
«E io» urlò Colin, balzando in piedi «non l’ho mai voluto e basta!»
«Non dirlo!» ansimò Tessa, spaventata. «Lo so che sei arrabbiato... ma non dire così!»
Due piani più giù, la porta d’ingresso sbatté. Tessa si guardò intorno, impaurita, come se Ciccio
avesse potuto materializzarsi all’istante accanto a loro. Non era stato solo il rumore a farla
trasalire. Stuart non sbatteva mai la porta; di solito sgattaiolava dentro e fuori come una creatura
proteiforme.
Il suo passo familiare sulle scale; sapeva, o sospettava, che fossero in camera sua? Colin
aspettava, con i pugni stretti lungo i fianchi. Tessa sentì il cigolio sullo scalino di mezzo e pochi
secondi dopo Ciccio fu davanti a loro. Aveva preparato la sua espressione in anticipo, ne era
certa: un misto di noia e disprezzo.
«’Sera» esordì Ciccio, guardando prima sua madre e poi suo padre, rigido, immobile. Tutto
l’aplomb che a Colin era sempre mancato, Ciccio lo possedeva naturalmente. «Questa sì che è
una sorpresa.»
Disperata, Tessa cercò di dargli una mano.
«Papà era preoccupato perché non sapeva dove fossi» disse, con una sfumatura di supplica nella
voce. «Hai detto che oggi uscivi con Arf, ma papà l’ha visto...»
«Sì, ho cambiato programma» tagliò corto Ciccio.
Guardò verso il punto dove avrebbe dovuto esserci la scatola di fiammiferi.
«Allora, vuoi dirci dove sei stato?» chiese Colin. Aveva delle chiazze bianche intorno alla bocca.
«Certo, se ci tenete» rispose Ciccio, e aspettò.
«Stu» fece Tessa, tra un sussurro e un gemito.
«Sono uscito con Krystal Weedon» disse Ciccio.
Oh, Dio, no, pensò Tessa. No, no, no...
«Cosa?» domandò Colin, talmente spiazzato da dimenticare l’aggressività.
«Sono uscito con Krystal Weedon» ripeté Ciccio, un po’ più forte.
«E da quando» chiese Colin, dopo una pausa infinitesimale «è tua amica?»
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«Da un po’.»
Tessa capì che Colin stava cercando di formulare una domanda troppo grottesca per essere
pronunciata. «Avresti dovuto avvisarci, Stu» disse.
«Avvisarvi di cosa?» chiese Ciccio.
Tessa aveva paura che volesse portare la discussione su un terreno pericoloso.
«Di dove andavi, Stu» intervenne, alzandosi e cercando di dare l’impressione che la discussione
fosse finita. «La prossima volta chiamaci.»
Guardò Colin nella speranza che cogliesse lo spunto e andasse verso la porta. Invece restò
immobile in mezzo alla stanza, a guardare con orrore Ciccio.
«Tu... frequenti Krystal Weedon?» chiese.
Si fronteggiarono, Colin più alto di qualche centimetro, ma tutta la forza dalla parte di Ciccio.
«‘Frequento’?» ripeté Ciccio. «Cosa significa ‘frequentare’?»
«Lo sai benissimo cosa significa!» gridò Colin, paonazzo.
«Cioè se me la scopo?» chiese Ciccio.
La piccola esclamazione di Tessa, «Stu!», fu soffocata dall’urlo di Colin: «Come ti permetti!»
Ciccio si limitò a guardare Colin con un sorriso beffardo. Tutto in lui era sfida e dileggio.
«Cosa?» disse Ciccio.
«Vai...» – Colin faticava a trovare le parole e si faceva sempre più rosso in viso – «... vai a letto
con Krystal Weedon?»
«Non sarebbe un problema, no?» chiese Ciccio, con un’occhiata a sua madre. «Voi avete sempre
voluto aiutare Krystal, no?»
«Aiutare...»
«Non state cercando di tenere aperto quel centro per aiutare la famiglia di Krystal?»
«E che c’entra questo con...?»
«Non vedo che problema ci sarebbe se uscissi con lei.»
«Esci con lei?» chiese Tessa, in tono tagliente. Se Ciccio voleva portare la discussione su questo
terreno, lei l’avrebbe seguito. «Esci davvero con lei, Stuart?»
Il ghigno di lui le dava la nausea. Non era disposto nemmeno a fingere un po’ di decenza.
«Be’, di sicuro non lo facciamo in casa...»
Colin aveva alzato un braccio, rigido come sempre e con la mano chiusa a pugno, e lasciò partire
il colpo. Entrò in collisione con la guancia di Ciccio; lui, che stava guardando la madre, fu colto alla
sprovvista e barcollò, urtò contro la scrivania e scivolò a terra. Dopo un secondo era di nuovo in
piedi, ma Tessa si era già messa tra loro due, rivolta verso il figlio.
Alle sue spalle Colin stava ripetendo: «Bastardo, sei un bastardo.»
«Ah, sì?» ribatté Ciccio, senza più sorridere. «Meglio un bastardo che uno stronzo come te!»
«No!» gridò Tessa. «Colin, esci. Esci!»
Inorridito, furioso e scosso, Colin esitò un istante, poi uscì a grandi passi dalla stanza: lo sentirono
incespicare sulle scale.
«Come ti è venuto in mente?» mormorò Tessa.
«Come mi è venuto in mente cosa?» ringhiò Stuart, e la sua espressione la mise così in allarme
che andò a chiudere la porta della stanza.
«Ti stai approfittando di quella ragazza, Stuart, e lo sai, e il modo in cui hai parlato a tuo...»
«Ma che cazzo dici» ribatté Ciccio camminando su e giù: tutto il suo sangue freddo era sparito.
«Non mi sto approfittando di lei. Lei sa esattamente cosa vuole... non è che siccome vive in quella
merda dei Fields non... la verità è che tu e Cubicolo non volete che me la scopi perché pensate
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che lei non sia all’altezza...»
«Non è vero!» gridò Tessa, anche se invece lo era, e nonostante tutte le preoccupazioni per
Krystal si sarebbe anche accontentata di sapere che Ciccio aveva avuto abbastanza cervello da
usare il preservativo.
«Siete due ipocriti di merda, tu e Cubicolo» diceva Ciccio, camminando ancora su e giù per tutta
la stanza. «Vi riempite la bocca di stronzate su quanto è giusto aiutare i Weedon, ma poi non
volete...»
«Basta!» gridò Tessa. «Non ti permettere di parlarmi in quel modo! Non ti rendi conto... non
capisci... quanto sei egoista...?»
Le mancarono le parole. Si voltò, aprì la porta e uscì, sbattendosela alle spalle.
La sua uscita fece uno strano effetto a Ciccio, che si fermò e rimase a lungo a fissare la porta
chiusa. Poi si frugò in tasca, tirò fuori una sigaretta e l’accese, senza curarsi di soffiare il fumo
fuori dal lucernario. Riprese a girare per la stanza, senza alcun controllo sui pensieri: immagini
convulse e disordinate gli riempivano la testa e ne venivano spazzate da una marea di rabbia.
Ricordò quel venerdì sera di quasi un anno prima, quando Tessa era venuta in camera a dirgli che
l’indomani suo padre voleva portarlo a giocare a calcio con i figli di Barry.
(«Cosa?» Ciccio era rimasto di stucco. La proposta era senza precedenti.
«Per divertirvi. Due calci al pallone» aveva detto Tessa, evitando l’occhiataccia di Ciccio e
accigliandosi per i vestiti sparsi per terra.
«Perché?»
«Perché papà pensa che sarebbe una cosa carina» aveva detto Tessa, chinandosi a raccogliere
una camicia della divisa scolastica. «Declan vuole allenarsi, credo. Ha una partita.»
Ciccio giocava bene a calcio. Gli altri se ne stupivano: davano per scontato che non gli piacesse lo
sport e che disprezzasse il concetto di squadra. Giocava come parlava, con abilità e molte finte,
irridendo i giocatori goffi, prendendo rischi e senza aver l’aria di curarsi se gli andava male.
«Non sapevo nemmeno che sapesse giocare.»
«Papà gioca molto bene. Quando ci siamo conosciuti giocava due volte alla settimana» aveva
risposto Tessa, seccata. «Domattina alle dieci, va bene? Ti lavo i pantaloni della tuta.»)
Ciccio aspirò il fumo, ricordando suo malgrado. Perché ci era andato? Oggi si sarebbe
tranquillamente rifiutato di prestarsi a quella misera farsa di Cubicolo e sarebbe rimasto a letto
finché le urla fossero finite. Ma all’epoca non aveva ancora capito la questione dell’autenticità.
(Così era uscito di casa con Cubicolo e aveva sopportato una camminata di cinque minuti in
silenzio, entrambi coscienti dell’enorme vuoto che occupava tutto lo spazio fra loro.
Il campo da gioco era quello della St Thomas, assolato e deserto. Si erano divisi in due squadre da
tre, perché per quel fine settimana Declan ospitava un amico. L’amico, che palesemente venerava
Ciccio, aveva giocato con lui e Cubicolo.
Ciccio e Cubicolo si erano passati la palla in silenzio, mentre Barry, che era senza dubbio il
giocatore peggiore, aveva urlato, scherzato ed esultato con il suo accento di Yarvil, scorrazzando
su e giù per il campo che avevano delimitato con le felpe. Quando Fergus aveva segnato, Barry
era corso verso di lui per festeggiare petto contro petto, aveva preso male la mira e gli aveva
dato una testata alla mandibola. Erano caduti a terra, Fergus che gemeva dal dolore e rideva,
Barry che continuava a scusarsi tra una risata e l’altra. Ciccio si era sorpreso a sorridere, poi aveva
sentito la risata fragorosa e goffa di Cubicolo e si era voltato, con la faccia scura.
E poi era arrivato quel momento, quel penoso, imbarazzante momento in cui il punteggio era pari
ed era quasi ora di andarsene; Ciccio era riuscito a togliere il pallone a Fergus e Cubicolo aveva
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gridato: «Forza Stu, dai, bello!»
‘Bello’. Cubicolo non gli aveva mai detto ‘bello’ in vita sua. Era penoso, innaturale, suonava vuoto.
Stava cercando di essere come Barry, di imitare il modo disinvolto e spontaneo in cui Barry
incoraggiava i suoi figli; di fare colpo su di lui.
Il pallone era partito come una cannonata dal piede di Ciccio, eppure lui aveva avuto il tempo,
prima che la palla colpisse Cubicolo su quella faccia stupida e ignara, prima che gli occhiali si
rompessero e quell’unica goccia di sangue spuntasse sotto l’occhio, di capire il proprio intento:
aveva sperato di colpirlo, aveva usato il pallone per castigarlo.)
Non avevano giocato a calcio mai più. Quel piccolo, inutile tentativo di avvicinamento tra padre e
figlio era stato messo da parte, come decine di altri prima.
E io non l’ho mai voluto e basta!
Era sicuro di averlo sentito. Cubicolo stava parlando di lui, per forza. Erano nella sua stanza, di chi
altri potevano parlare?
Come se me ne fregasse qualcosa, pensò Ciccio. Era quello che aveva sempre sospettato. Non
capiva perché avvertisse nel petto quella sensazione di freddo.
Ciccio rimise a posto la sedia del computer, che era caduta quando Cubicolo l’aveva colpito. La
reazione autentica sarebbe stata spingere da parte sua madre e dargli un pugno in faccia.
Rompergli di nuovo gli occhiali, farlo sanguinare. Ciccio si faceva schifo per non averlo fatto.
Ma c’erano altri modi. Aveva sentito dire cose per anni, in casa, senza volerlo. Conosceva le
ridicole paure di suo padre più di quanto i suoi genitori pensassero.
Aveva le dita più impacciate del solito. La cenere della sigaretta gli cadde sulla tastiera, mentre
entrava nel sito del Consiglio locale. Settimane prima aveva cercato su Internet le SQL injections e
aveva trovato il codice che Andrew si era rifiutato di passargli. Dopo aver studiato per qualche
minuto la bacheca, si registrò senza difficoltà come Betty Rossiter, cambiò il nome utente in
il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother e cominciò a scrivere.
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V
Shirley Mollison era convinta che suo marito e suo figlio sopravvalutassero i pericoli che correva il
Consiglio lasciando online i post del Fantasma. Non capiva come quei messaggi potessero essere
più gravi dei pettegolezzi, e i pettegolezzi, lo sapeva bene, non erano ancora stati messi
fuorilegge; non credeva nemmeno che la legge fosse così sciocca e irragionevole da punire lei per
qualcosa che aveva scritto qualcun altro: sarebbe stata una mostruosa ingiustizia. Per quanto
fosse orgogliosa della laurea in legge di Miles, su questo il figlio si sbagliava, ne era certa.
Controllava la bacheca dei messaggi ancora più spesso di quanto Miles e Howard le avessero
consigliato di fare, ma non per paura delle conseguenze legali. Convinta com’era che il Fantasma
di Barry Fairbrother non avesse ancora portato a termine la sua crociata contro i pro-Fields,
voleva essere la prima a leggere il prossimo post. Andava nell’ex camera da letto di Patricia a
controllare il sito molte volte al giorno. Ogni tanto le veniva l’uzzolo mentre passava
l’aspirapolvere o pelava le patate, e correva nello studio solo per restare ancora una volta delusa.
Shirley sentiva un’affinità segreta e speciale con il Fantasma. Lui aveva scelto il suo sito per
smascherare l’ipocrisia degli avversari di Howard e questo le dava un orgoglio simile a quello del
naturalista che costruisce un habitat in cui le specie rare si degnano di fare il nido. Ma c’era di
più. Shirley fremeva di ammirazione, di fronte alla rabbia del Fantasma, alla sua crudeltà, alla sua
audacia. Si chiedeva chi potesse essere e immaginava un uomo forte e tenebroso alle spalle sue e
di Howard, o al loro fianco, che apriva loro la strada tra avversari che si accasciavano falciati dalle
loro stesse orrende verità.
Tuttavia nessuno degli uomini di Pagford le sembrava degno di essere il Fantasma; sarebbe
rimasta delusa di sapere che era qualcuno degli anti-Fields che conosceva.
«Sempre che sia un uomo» aveva osservato Maureen.
«Appunto» aveva detto Howard.
«Secondo me è un uomo» aveva ribattuto freddamente Shirley.
Quando Howard uscì per andare al caffè domenica mattina, Shirley, ancora in vestaglia e con in
mano la tazza di tè, andò meccanicamente nello studio e aprì la pagina del sito.
Fantasie di un vicepreside postato da il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother.
Posò il tè con mano tremante, fece clic sul post e lo lesse a bocca aperta. Poi corse in salotto,
afferrò il telefono e chiamò il caffè, ma il numero era occupato.
Neanche cinque minuti dopo, Parminder Jawanda, che come Shirley aveva preso l’abitudine di
guardare la bacheca più spesso del solito, aprì il sito e vide il post. E, come per Shirley, la sua
prima reazione fu di prendere il telefono.
I Wall stavano facendo colazione senza il figlio, che ancora dormiva di sopra. Quando Tessa
rispose, Parminder la interruppe prima che finisse di salutarla.
«Sul sito del Consiglio c’è un post su Colin. Non farglielo vedere, per nessun motivo.»
Gli occhi spaventati di Tessa guardarono suo marito, ma lui era a nemmeno un metro dal
telefono e aveva già sentito ogni parola che Parminder aveva troppo distintamente scandito.
«Ti richiamo» disse Tessa in tono concitato. «Colin» implorò, armeggiando per riagganciare.
«Colin, aspetta...»
Ma lui era già corso fuori dalla stanza, con le braccia rigide lungo i fianchi, e Tessa dovette
rincorrerlo.
«Forse è meglio non leggerlo» tentò ancora, mentre le grosse mani nodose di Colin manovravano
il mouse, «o magari lo leggo io e...»
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Fantasie di un vicepreside
Uno degli uomini che sperano di rappresentare la comunità al Consiglio locale è Colin Wall,
vicepreside della scuola secondaria polivalente Winterdown. Agli elettori potrà interessare
sapere che Wall, severo sostenitore della disciplina, coltiva fantasie davvero insolite. Il professor
Wall è tanto spaventato all’idea che un’allieva possa accusarlo di tenere un comportamento
sessuale scorretto che ha spesso sentito il bisogno di periodi di aspettativa per calmarsi. Se il
professor Wall abbia realmente palpeggiato o meno una giovane allieva, il Fantasma non può
dirlo. Il fervore delle sue febbrili fantasie lascia tuttavia pensare che, se pure non lo avesse fatto,
ne avrebbe una gran voglia.
L’ha scritto Stuart, pensò immediatamente Tessa.
Il volto di Colin era spettrale, alla luce del monitor. Era così che lo immaginava, se avesse avuto
un ictus.
«Colin...»
«Fiona Shawcross deve aver parlato in giro» sussurrò.
La catastrofe che aveva sempre temuto era avvenuta. Era la fine di tutto. Aveva sempre
immaginato di usare i sonniferi. Si chiese se in casa ce n’erano abbastanza.
Tessa, momentaneamente disorientata dall’accenno alla preside, balbettò: «Fiona non avrebbe
mai... e poi non sa...»
«Sa che soffro di DOC.»
«Sì, ma non sa quello che... di cosa hai paura...»
«Lo sa» confessò Colin. «Gliel’ho detto prima dell’ultima volta che mi sono messo in malattia.»
«Perché?» sbottò Tessa. «Perché diavolo gliel’hai detto?»
«Volevo spiegarle perché era così importante che mi prendessi un congedo» disse Colin, quasi
umilmente. «Ho pensato che dovesse sapere quant’era grave.»
Tessa represse un potente impulso di urlargli contro. Ora si spiegava la punta di disgusto con cui
Fiona lo trattava e parlava di lui; a Tessa non era mai stata simpatica, l’aveva sempre trovata dura
e distante.
«Comunque sia» insisté, «credo che Fiona non c’entri con...»
«Non direttamente» disse Colin, portandosi la mano tremante al labbro superiore, che sudava.
«Ma Mollison avrà sentito delle voci da qualche parte.»
Non è stato Mollison. L’ha scritto Stuart, lo so. Tessa riconosceva suo figlio in ogni riga. Era stupita
che Colin non se ne fosse accorto, che non avesse collegato il messaggio con il litigio del giorno
prima, con il pugno che gli aveva dato. Non ha nemmeno resistito al desiderio di infilarci
un’allitterazione. Deve averli scritti tutti lui... Simon Price. Parminder. Tessa era agghiacciata.
Ma Colin non pensava a Stuart. Gli tornavano in mente pensieri vividi come se fossero ricordi,
impressioni sensoriali, idee violente e turpi: una mano che afferrava e strizzava in mezzo a una
folla di giovani corpi; un grido di dolore, un viso infantile contorto. E poi le sue domande
tormentose, incessanti: l’aveva fatto? Gli era piaciuto? Non ricordava. Sapeva solo che
continuava a pensarci, lo vedeva accadere, lo sentiva. Carne morbida sotto una camicetta di
cotone sottile; afferra, strizza, dolore e choc: una violazione. Quante volte? Non ne aveva idea.
Aveva passato ore a chiedersi quanti ragazzi lo sapevano, se si erano parlati fra loro, quanto ci
sarebbe voluto prima che lo smascherassero.
Non sapendo quante volte aveva offeso, e non fidandosi di se stesso, si caricava di carte e
raccoglitori, in modo da non avere mai le mani libere quando camminava per i corridoi. Gridava ai
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ragazzi che sciamavano di togliersi di mezzo quando passava. Non serviva a niente. C’erano
sempre delle ritardatarie che gli passavano vicino di corsa, che andavano a sbattergli contro, e
con le mani occupate immaginava altri modi di toccarle: un gomito che strusciava contro un seno;
un passo di lato per facilitare il contatto; una gamba agganciata per sbaglio, così che l’inguine
della ragazza gli sfiorasse la carne.
«Colin» lo richiamò Tessa.
Ma lui aveva ricominciato a piangere, i singhiozzi scuotevano il suo corpo grosso e sgraziato.
Tessa lo abbracciò, premette il viso contro il suo e lo bagnò con le proprie lacrime.
Qualche chilometro più in là, a Casa Bellavista, Simon Price era seduto davanti a un computer
nuovo di zecca in salotto. Vedere Andrew che se ne andava in bici a lavorare da Howard Mollison
e l’idea di aver dovuto pagare quel computer a un prezzo di mercato lo rendevano irritabile e
depresso. Simon non aveva più guardato il sito del Consiglio locale dalla notte in cui aveva
buttato via il pc rubato, ma per associazione di idee gli venne in mente di controllare se il
messaggio che gli era costato il lavoro fosse ancora sul sito e quindi visibile da potenziali datori di
lavoro.
Non c’era. Simon non sapeva di doverlo a sua moglie, perché Ruth aveva paura di ammettere di
aver chiamato Shirley, anche solo per chiedere la rimozione del post. Leggermente rincuorato
dalla sua assenza, Simon cercò quello su Parminder, ma nemmeno quello c’era più.
Stava per chiudere il sito quando vide il post più recente, intitolato Fantasie di un vicepreside.
Lo lesse da cima a fondo due volte e poi, da solo in salotto, attaccò a ridere. Era una risata
sguaiata e trionfante. Non gli era mai piaciuto quell’omone con quella fronte enorme. Era bello
sapere che lui, Simon, se l’era cavata con molto meno.
Ruth entrò nella stanza con un sorriso timido: era contenta di sentir ridere Simon, perché da
quando aveva perso il lavoro era stato di un umore terribile.
«Che c’è di buffo?»
«Hai presente il padre di Ciccio? Wall, il vicepreside? È un pedofilo di merda.»
Il sorriso di Ruth svanì. Corse a leggere il post.
«Io vado a fare la doccia» annunciò Simon, pimpante.
Ruth aspettò che fosse uscito dalla stanza prima di chiamare la sua amica Shirley e avvisarla di
questo nuovo scandalo, ma il numero dei Mollison era occupato.
Shirley, finalmente, era riuscita a parlare con Howard al negozio. Lei era ancora in vestaglia; lui
camminava avanti e indietro nel piccolo retrobottega dietro il bancone.
«... sono ore che provo a chiamarti...»
«Mo era al telefono. Cosa c’è scritto? Lentamente.»
Shirley lesse il post su Colin come uno speaker del telegiornale. Non era ancora arrivata alla fine
quando lui la interruppe.
«L’hai copiato da qualche parte?»
«Come?»
«Lo stai leggendo allo schermo? È ancora lì? L’hai cancellato?»
«Me ne sto occupando» mentì Shirley, innervosita. «Credevo che volessi...»
«Cancellalo subito! Dio del cielo, Shirley, questa cosa sta sfuggendo al controllo... non possiamo
avere roba del genere là sopra!»
«Pensavo solo che tu...»
«Tu cancellalo e del resto parleremo quando arrivo a casa!» gridò Howard.
Shirley era furiosa: non alzavano mai la voce, fra loro.
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VI
La prossima riunione del Consiglio locale, la prima dalla morte di Barry, sarebbe stata cruciale
nella battaglia per i Fields. Howard si era rifiutato di rinviare il voto sia sul Centro per la
tossicodipendenza Bellchapel sia sull’intenzione di Pagford di trasferire a Yarvil la giurisdizione sul
quartiere popolare.
Così Parminder suggerì che lei, Colin e Kay si incontrassero la sera prima della riunione per
discutere la strategia.
«Pagford non può decidere unilateralmente di modificare i confini, giusto?» chiese Kay.
«No» rispose Parminder, paziente (non era colpa di Kay, se era l’ultima arrivata), «ma il Consiglio
distrettuale ha chiesto l’opinione di Pagford e Howard è deciso a far sì che passi la sua opinione.»
La riunione si teneva nel salotto dei Wall, perché Tessa aveva suggerito a Colin, con discrezione,
di invitare le altre due in un posto dove anche lei potesse sentire. Tessa servì a tutti bicchieri di
vino, mise sul tavolino una grossa scodella di patatine e poi restò lì seduta in silenzio mentre gli
altri tre parlavano.
Era esausta e arrabbiata. Il post anonimo su Colin gli aveva scatenato uno dei peggiori attacchi di
ansia, così grave che non era riuscito nemmeno a presentarsi a scuola. Parminder sapeva quanto
stava male (aveva firmato lei il certificato), eppure aveva convocato la riunione, senza
preoccuparsi delle nuove manifestazioni di paranoia e angoscia che Tessa avrebbe dovuto sorbirsi
quella sera.
«C’è molto malumore in città per come i Mollison stanno gestendo le cose» diceva Colin nel tono
altezzoso e saccente che a volte usava quando si fingeva estraneo a paure e paranoie. «La gente
comincia a non poterne più di sentirli parlare a nome della città. Ho avuto questa impressione,
telefonando un po’ in giro.»
Sarebbe stato bello, pensò amaramente Tessa, se Colin ogni tanto avesse chiamato a raccolta
queste capacità di dissimulazione per fare un favore a lei. Una volta, tanto tempo prima, le era
piaciuto essere l’unica confidente di Colin, l’unica destinataria di tutte le sue paure e la fonte di
ogni rassicurazione, ma era una cosa che ormai non la gratificava più. Il marito l’aveva tenuta
sveglia dalle due alle tre e mezzo del mattino, dondolandosi avanti e indietro sulla sponda del
letto, gemendo e piangendo, augurandosi di essere morto, dicendo che non ce l’avrebbe fatta,
che non avrebbe mai dovuto candidarsi, che era rovinato...
Tessa sentì Ciccio scendere le scale e si irrigidì, ma il figlio stava andando in cucina e passò
davanti alla porta aperta senza fare nulla di peggio che guardare male Colin, appollaiato su un
pouf di pelle davanti al camino, le ginocchia all’altezza del petto.
«In effetti la candidatura di Miles al seggio vacante potrebbe rivelarsi un errore... forse potrebbe
infastidire perfino i sostenitori naturali dei Mollison» azzardò Kay in tono speranzoso.
«Sì, potrebbe succedere» disse Colin, annuendo.
Kay si rivolse a Parminder.
«Secondo te il Consiglio voterà davvero lo sfratto di Bellchapel? Lo so che la gente si lamenta
delle siringhe per terra e dei tossici che girano per il quartiere, ma Bellchapel è lontano... cosa
importa a Pagford?»
«Howard e Aubrey si aiutano a vicenda» spiegò Parminder, che aveva il viso tirato e le occhiaie
(era lei che doveva partecipare al Consiglio del giorno dopo e combattere contro Howard
Mollison e i suoi compari senza Barry al suo fianco). «Hanno bisogno di tagliare le spese a livello
distrettuale. Se Howard non rinnova quel modico affitto al Centro, mandarlo avanti costerà molto
di più e Fawley potrà dire che le spese sono aumentate e giustificare il taglio dei fondi. Poi farà
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del suo meglio perché i Fields vengano riassegnati a Yarvil.»
Stanca di spiegare, Parminder finse di esaminare il nuovo fascio di carte su Bellchapel che Kay
aveva portato con sé, estraniandosi dalla conversazione.
Perché lo faccio? si chiese.
Sarebbe potuta restare a casa con Vikram, che quando lei era uscita stava guardando dei comici
in televisione con Jaswant e Rajpal. Il suono delle loro risa le aveva dato sui nervi; qual era stata
l’ultima volta che aveva riso? Perché era lì a bere vino caldo e cattivo, a combattere per un centro
per la tossicodipendenza di cui non avrebbe mai avuto bisogno e per un quartiere abitato da
gente che probabilmente, se mai l’avesse conosciuta, non le sarebbe piaciuta? Lei non era Bhai
Kanhaiya, che non distingueva le anime degli amici da quelle dei nemici; lei non vedeva la luce di
Dio splendere in Howard Mollison. Le dava un piacere molto più intenso il pensiero di sconfiggere
Howard che quello di dare ai bambini dei Fields la possibilità di frequentare la St Thomas, o alla
gente dei Fields l’opportunità di disintossicarsi a Bellchapel, anche se, in modo distante e
spassionato, capiva che erano cose buone...
(Invece sapeva perché lo stava facendo: voleva vincere per Barry. Le aveva raccontato di quando
era arrivato alla St Thomas. I compagni di classe lo avevano invitato a casa a giocare; lui, che
viveva in una roulotte con la madre e i due fratelli, aveva amato le case comode e ordinate di
Hope Street ed era rimasto incantato dalle grandi case vittoriane di Church Row. Aveva perfino
partecipato a una festa di compleanno in quella casa a forma di muso di mucca che poi aveva
comprato e in cui aveva cresciuto quattro figli.
Si era innamorato di Pagford, del fiume, dei campi e delle case dai solidi muri. Aveva sognato di
avere un giardino in cui giocare, un albero a cui appendere un’altalena, spazio e verde ovunque.
Aveva raccolto castagne d’India e le aveva portate ai Fields. Dopo essersi coperto di gloria alla St
Thomas, il migliore della sua classe, Barry era stato il primo della famiglia ad andare all’università.
Amore e odio, pensò Parminder, un po’ spaventata dalla propria sincerità. Amore e odio, ecco
perché sono qui...)
Girò una pagina dei documenti di Kay, fingendosi concentrata.
Kay era felice che la dottoressa li stesse esaminando con tanta attenzione, perché ci aveva messo
molto tempo e molta cura a prepararli. Non riusciva a credere che chiunque leggesse quel
materiale non si convincesse che il Centro Bellchapel doveva restare dov’era.
Ma con tanti anonimi casi clinici, statistiche e testimonianze personali, per Kay il Centro si
riassumeva in un’unica paziente: Terri Weedon. C’era stato un cambiamento in lei, Kay lo sentiva;
questo la inorgogliva e al tempo stesso le faceva paura. Terri stava mostrando qualche debole
segnale di voler assumersi il controllo della propria vita. Recentemente aveva detto a Kay, per
due volte: «Non si prenderanno Robbie, non glielo faccio prendere» e non si era trattato di vuote
invettive contro il fato, ma di dichiarazioni d’intenti.
«Ieri l’ho portato io all’asilo» aveva detto a Kay, che aveva fatto l’errore di reagire con meraviglia.
«Che cazzo c’è da fare quella faccia? Non dovrei essere buona a portarlo a quell’asilo di merda?»
Se la porta di Bellchapel si fosse chiusa in faccia a Terri, la delicata struttura che stavano cercando
di costruire con le macerie di una vita sarebbe crollata, Kay ne era certa. Terri sembrava nutrire
per Pagford una paura viscerale che lei non capiva.
«Lo odio, quel posto di merda» aveva detto, quando Kay vi aveva accennato.
Al di là del fatto che sua nonna era vissuta lì, Kay non sapeva niente dei trascorsi di Terri con
Pagford, ma temeva che, se le avessero chiesto di andarci tre volte alla settimana per il
metadone, l’autocontrollo potesse andare in pezzi, travolgendo anche la nuova, fragile sicurezza
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della famiglia.
Colin, che aveva preso la parola dopo Parminder, stava spiegando la faccenda dei Fields; Kay
annuiva, annoiata, emettendo qualche mmh ogni tanto, assorta in altri pensieri.
Colin era profondamente lusingato da come quella bella ragazza pendesse dalle sue labbra. Era la
prima volta, da quando aveva letto quel terribile post ormai scomparso dal sito, che si sentiva
così profondamente tranquillo. Di tutti i cataclismi che aveva immaginato a notte fonda,
nemmeno uno lo aveva colpito. Non era stato licenziato. Non c’era una folla inferocita davanti
alla porta. Nessuno, sul sito del Consiglio né altrove su Internet (aveva cercato più volte su
Google), invocava il suo arresto.
Ciccio passò di nuovo davanti alla porta aperta, mettendosi in bocca una cucchiaiata di yogurt.
Lanciò un’occhiata in salotto e per un breve istante incrociò lo sguardo di Colin, che perse subito
il filo del discorso.
«... e... sì, in sintesi la storia è questa» terminò goffamente. Guardò verso Tessa per avere
rassicurazioni, ma sua moglie aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Ne fu un po’ offeso; credeva che a
lei facesse piacere vederlo stare meglio, più sicuro di sé, dopo una disgraziata notte insonne.
Spaventose ondate di terrore gli agitavano lo stomaco, ma la vicinanza di Parminder, compagna
di sventura e capro espiatorio, e la benevola attenzione della graziosa assistente sociale gli erano
di grande conforto.
A differenza di Kay, Tessa aveva ascoltato ogni parola che Colin aveva detto sul diritto dei Fields
di rimanere sotto Pagford. E dietro quelle parole non aveva colto alcuna convinzione. Colin voleva
credere nelle cause in cui aveva creduto Barry, voleva battere i Mollison perché era questo che
Barry avrebbe voluto. A lui Krystal Weedon non piaceva, ma a Barry sì, così pensava di doverle
riconoscere qualità che in realtà non vedeva. Tessa sapeva che suo marito era uno strano ibrido
di arroganza e umiltà, di convinzioni incrollabili e profonde insicurezze.
Sono dei poveri illusi, pensò Tessa, guardando gli altri tre chini su un grafico che Parminder aveva
tirato fuori dalle carte di Kay. Pensano che basti qualche statistica per rovesciare sessant’anni di
rabbia e risentimento. Nessuno di loro era Barry. Lui era stato l’incarnazione vivente di ciò che
per loro era solo teoria: grazie all’istruzione era passato dalla povertà al benessere,
dall’impotenza e dalla sottomissione alla capacità di fornire un valido contributo alla società. Non
si rendevano conto che, al suo confronto, loro erano avvocati delle cause perse?
«La gente ormai si è stufata dei Mollison e del loro modo di fare» disse Colin.
«Secondo me» disse Kay, «se leggono questa roba non potranno più fare finta che il lavoro del
Centro non sia indispensabile.»
«Non tutti hanno dimenticato Barry, in Consiglio» disse Parminder, con voce appena tremula.
Tessa si accorse che le dita unte si chiudevano a vuoto. Mentre gli altri parlavano, aveva finito da
sola tutta la scodella di patatine.
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VII
Era una mattinata luminosa e dolce, nel laboratorio di informatica della Winterdown l’aria si
faceva più soffocante con l’avvicinarsi dell’ora di pranzo e le finestre sporche proiettavano
fastidiose macchie di luce sui monitor. Anche se non c’erano Ciccio né Gaia a distrarlo, Andrew
Price non riusciva a concentrarsi. Non riusciva a pensare ad altro che alla conversazione tra i suoi
genitori che aveva sentito la sera prima.
Stavano parlando, seriamente, di trasferirsi a Reading, dove vivevano la sorella e il cognato di
Ruth. Con l’orecchio teso verso la porta aperta della cucina, Andrew era rimasto nell’angusto
corridoio buio ad ascoltare: a quanto pareva lo zio (Andrew e Paul lo conoscevano a malapena,
perché Simon lo detestava) aveva offerto a Simon un lavoro, o comunque gliene aveva fatto
balenare la possibilità.
«Sono meno soldi» aveva detto Simon.
«Non puoi saperlo. Non ha detto...»
«Sono di meno, per forza. E là è tutto più caro.»
Ruth aveva risposto con un verso evasivo. Osando a malapena respirare, Andrew aveva capito,
dal semplice fatto che non si fosse affrettata a dare ragione a Simon, che sua madre voleva
andarci.
Andrew non riusciva a immaginare i suoi genitori in una casa che non fosse Casa Bellavista, o in
uno scenario diverso da Pagford. Aveva dato per scontato che sarebbero rimasti lì per sempre.
Lui, Andrew, un giorno sarebbe andato a vivere a Londra, ma Simon e Ruth sarebbero rimasti
radicati alla collina come alberi, fino alla morte.
Era tornato di sopra in punta di piedi a guardare dalla finestra le luci tremolanti di Pagford,
raccolte nella valle nera e profonda tra le colline. Era come se vedesse quel panorama per la
prima volta. Là sotto, da qualche parte, Ciccio fumava nella sua mansarda, probabilmente
guardando porno al computer. Anche Gaia era lì, assorta in chissà quale dei misteriosi riti
femminili. E gli era venuto in mente che anche lei ci era passata, per quell’esperienza: era stata
strappata dal luogo che conosceva e trapiantata altrove. Finalmente qualcosa di importante li
univa; aveva provato quasi un piacere malinconico al pensiero che, partendo, avrebbe avuto
qualcosa in comune con lei.
La differenza era che lei non era stata la causa del proprio trasferimento. Con un crampo di
inquietudine allo stomaco, aveva preso il cellulare e mandato un sms a Ciccio:
Un lavoro a Reading per Simoncino. Forse accetta.
Ciccio non aveva ancora risposto e Andrew non l’aveva visto per tutta la mattina, perché non
avevano lezioni insieme. Non l’aveva visto nemmeno nei due fine settimana precedenti, perché
aveva lavorato al Bricco di Rame. La loro conversazione più lunga, in quei giorni, era stata a
proposito del post di Ciccio su Cubicolo.
«Credo che Tessa sospetti di me» gli aveva detto Ciccio, come se niente fosse. «Mi guarda come
se sapesse.»
«E tu cosa le dirai?» aveva mormorato Andrew, spaventato.
Sapeva che Ciccio desiderava gloria e apprezzamento, e che amava brandire la verità come
un’arma, ma non era certo che il suo amico capisse quanto fosse importante tacere il suo ruolo
nelle imprese del Fantasma di Barry Fairbrother. Non era mai stato facile spiegare a Ciccio cosa
significava avere Simon come padre; anzi, in un certo senso era sempre più difficile spiegargli
qualsiasi cosa.
Quando l’insegnante di informatica si allontanò, Andrew cercò Reading su Internet. Era
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gigantesca, in confronto a Pagford. Ogni anno c’era un festival musicale. Distava poco più di una
sessantina di chilometri da Londra. Guardò i collegamenti ferroviari. Forse sarebbe andato a
Londra il sabato o la domenica, come qui prendeva l’autobus per Yarvil. Ma tutta la faccenda gli
sembrava irreale: lui conosceva solo Pagford e non riusciva ancora a immaginare la sua famiglia
altrove.
All’ora di pranzo uscì da scuola, in cerca di Ciccio. Non appena si fu allontanato dall’edificio
accese una sigaretta e fu felice di sentire, rimettendosi l’accendino in tasca, una voce femminile
che diceva: «Ehi.» Gaia e Sukhvinder lo raggiunsero.
«Tutto a posto» fece lui, soffiando il fumo lontano dal bel viso di Gaia.
In quei giorni loro tre avevano qualcosa che nessun altro aveva. Due fine settimana di lavoro al
caffè avevano creato un seppur fragile legame. Conoscevano le frasi fatte di Howard e avevano
dovuto sorbirsi l’interesse pruriginoso di Maureen per la loro vita familiare; avevano riso insieme
delle sue ginocchia rugose sotto il vestito da cameriera troppo corto e si erano scambiati, come
mercanti in una terra straniera, piccole gemme di confidenza. Le ragazze sapevano che il padre di
Andrew era stato licenziato; Andrew e Sukhvinder sapevano che Gaia lavorava per potersi
comprare il biglietto per Hackney; e lui e Gaia sapevano che la madre di Sukhvinder non
sopportava il fatto che lei lavorasse per Howard Mollison.
«Dov’è il tuo amico Ciccio?» chiese Gaia, mentre tutti e tre si incamminavano allo stesso passo.
«Non lo so» rispose Andrew. «Non l’ho visto.»
«Non è una gran perdita. Quante ne fumi al giorno?»
«Non le conto» disse Andrew, euforico per il suo interesse. «Ne vuoi una?»
«No» rispose Gaia. «Non mi piace fumare.»
Andrew si chiese immediatamente se l’avversione si estendesse al bacio dei fumatori. Niamh
Fairbrother non si era lamentata quando lui le aveva messo la lingua in bocca alla festa nel teatro
scolastico.
«Marco non fuma?» chiese Sukhvinder.
«No, perché si allena sempre» spiegò Gaia.
Andrew si era ormai quasi abituato al pensiero di Marco de Luca. C’erano dei vantaggi nel fatto
che Gaia fosse per così dire tutelata da un legame di fedeltà fuori da Pagford. L’effetto delle loro
foto insieme su Facebook era ormai mitigato dalla familiarità. Non pensava che fosse solo una
sua pia illusione che i messaggi tra i due si stessero facendo meno frequenti e meno calorosi. Non
poteva sapere cosa succedeva per telefono o per e-mail, ma era sicuro di vedere Gaia deprimersi
tutte le volte che si faceva il suo nome.
«Oh, eccolo» disse Gaia.
Non era il bel Marco a essere comparso, ma Ciccio Wall, che parlava con Dane Tully davanti al
giornalaio.
Sukhvinder frenò, ma Gaia la prese per il braccio.
«Tu puoi andare dove vuoi» disse, tirandola leggermente in avanti e stringendo gli occhi verdi e
screziati, mentre si avvicinavano al punto in cui Ciccio e Dane erano fermi a fumare.
«Ehi, Arf» disse Ciccio quando arrivarono.
«Ciccio» rispose Andrew.
Cercando di evitare guai, soprattutto che Ciccio tormentasse Sukhvinder davanti a Gaia, chiese:
«Hai letto il mio sms?»
«Quale?» chiese Ciccio. «Ah, sì... quella cosa di Simoncino? Allora ve ne andate?»
Lo disse con un’indifferenza altezzosa che Andrew poté solo attribuire alla presenza di Dane
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Tully.
«Sì, forse» replicò Andrew.
«Dov’è che andate?» chiese Gaia.
«A mio padre hanno offerto un lavoro a Reading» rispose Andrew.
«Ma dai, è dove abita mio padre!» esclamò Gaia, stupita. «Possiamo vederci quando vado da lui.
Il festival è fantastico. Allora, Sooks, ti va un panino?»
Andrew era così stupefatto a quella proposta spontanea di passare del tempo con lui che,
quando riuscì a riaccendere il cervello e rispondere, Gaia era già sparita nel negozio. Per un
momento la lurida fermata dell’autobus, il negozio, perfino Dane Tully, tatuato e trasandato in
maglietta e pantaloni della tuta, sembrarono risplendere di una luce quasi celestiale.
«Be’, ho da fare» disse Ciccio.
Dane ridacchiò. Andrew non fece in tempo a replicare qualcosa o proporgli di accompagnarlo che
Ciccio si era già allontanato.
Era sicuro che Andrew sarebbe rimasto perplesso e offeso dalla sua freddezza, e ne era felice.
Non si chiese perché ne fosse felice, né perché il desiderio di suscitare dolore fosse diventato il
suo sentimento più frequente degli ultimi giorni. Ultimamente aveva deciso che mettere in
discussione le proprie motivazioni era inautentico; la sua personale filosofia, così perfezionata,
era molto più semplice da seguire.
Dirigendosi verso i Fields, Ciccio pensò a quello che era successo a casa la sera precedente, la
prima volta che sua madre era entrata nella sua stanza da quando Cubicolo lo aveva picchiato.
(«Quel post su tuo padre sul sito del Consiglio» aveva detto. «Devo chiedertelo, Stuart, e spero...
Stuart, l’hai scritto tu?»
Ci aveva messo giorni a trovare il coraggio di accusarlo e lui era preparato.
«No» rispose.
Forse sarebbe stato più autentico rispondere di sì, ma aveva preferito non farlo e non sentiva il
bisogno di giustificarsi.
«Non sei stato tu?» aveva insistito lei, senza cambiare tono né espressione.
«No» aveva ripetuto lui.
«Perché ci sono poche, pochissime persone che sanno... che preoccupazioni ha papà.»
«Be’, non sono stato io.»
«Il post è comparso lo stesso giorno in cui tu e papà avete litigato e lui ti ha...»
«Te l’ho detto, non sono stato io.»
«Lo sai che è malato, Stuart.»
«Sì, me lo dici sempre.»
«Te lo dico perché è vero! Non può farci niente... soffre di una grave malattia mentale che gli
provoca un’angoscia indicibile.»
Il cellulare di Ciccio aveva fatto bip e lui aveva visto l’sms di Andrew. L’aveva letto e aveva sentito
un pugno allo stomaco: Arf se ne andava per sempre.
«Parlo con te, Stuart...»
«Lo so... che c’è?»
«Tutti quei post... Simon Price, Parminder, papà... sono tutte persone che conosci. Se ci sei di
mezzo tu...»
«Te l’ho detto, non sono stato io.»
«... sappi che stai facendo danni inenarrabili, Stuart. Danni gravi, terribili, alla vita delle persone.»
Ciccio stava cercando di immaginare la sua vita senza Andrew. Si conoscevano da quando
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avevano quattro anni.
«Non sono stato io» aveva detto.)
Danni gravi, terribili, alla vita delle persone.
Era la vita che si erano scelti, pensò Ciccio con astio svoltando in Foley Road. Le vittime del
Fantasma di Barry Fairbrother erano impantanate nell’ipocrisia e nelle bugie e avevano paura di
essere smascherate. Erano come scarafaggi che scappavano dalla luce. Non sapevano nulla della
vita vera.
Più avanti vide una casa con un vecchio pneumatico sul prato davanti. Aveva l’impressione che
potesse essere la casa di Krystal e quando vide il numero ne ebbe la conferma. Non ci era mai
stato. Solo due settimane prima non avrebbe mai accettato di incontrarla a casa sua durante la
pausa pranzo, ma le cose erano cambiate. Lui era cambiato.
Dicevano che sua madre fosse una prostituta. Di certo era una tossica. Krystal gli aveva detto che
la casa sarebbe stata libera perché sua madre era a Bellchapel a prendere la sua dose di
metadone. Ciccio percorse il vialetto senza rallentare e anzi con insolita trepidazione.
Krystal l’aspettava alla finestra della sua camera. Aveva chiuso le porte di tutte le stanze di sotto,
in modo che lui vedesse solo il corridoio; aveva buttato in cucina e in salotto tutto quello che
faceva disordine. La moquette era inzaccherata e bruciacchiata qua e là, la carta da parati
macchiata, ma Krystal non poteva farci niente. Il disinfettante al profumo di pino era finito, però
aveva trovato un po’ di candeggina e l’aveva passata in cucina e in bagno, da dove venivano gli
odori peggiori della casa.
Quando lui bussò, lei corse di sotto. Non avevano molto tempo: Terri probabilmente sarebbe
tornata all’una insieme a Robbie. Non era molto, per fare un bambino.
«Ciao» disse, aprendo la porta.
«Ehi» rispose Ciccio, soffiando il fumo dalle narici.
Non sapeva che cosa si era aspettato. La sua prima impressione dell’interno della casa fu quella di
una scatola vuota e desolata. Non c’erano mobili. Le porte chiuse alla sua sinistra e di fronte
erano stranamente minacciose.
«Ci siamo solo noi?» chiese, entrando.
«Sì. Possiamo andare di sopra, in camera mia.»
Gli fece strada. Più andavano avanti, più l’odore si faceva sgradevole: un misto di candeggina e
sporcizia. Ciccio cercò di ignorarlo. Di sopra tutte le porte erano chiuse tranne una. Krystal entrò.
Ciccio non aveva intenzione di restare scioccato, ma nella stanza c’erano soltanto un materasso,
coperto da un lenzuolo e un piumino senza sacco, e una piccola pila di vestiti ammucchiati in un
angolo. Qualche fotografia ritagliata dai tabloid era attaccata alle pareti con il nastro adesivo:
cantanti e celebrità varie.
Krystal aveva fatto quel collage il giorno prima, a imitazione di quello nella stanza di Nikki.
Sapendo che sarebbe venuto Ciccio, aveva cercato di rendere la stanza più accogliente. Aveva
tirato le tende, sottili, che davano una sfumatura azzurrina alla luce del giorno.
«Dammi una sigaretta» disse. «Ho voglia di fumare.»
Lui gliel’accese. Era più nervosa di quanto l’avesse mai vista: la preferiva disinvolta e strafottente.
«Non abbiamo molto tempo» gli ricordò, e con la sigaretta in bocca cominciò a spogliarsi. «Tra
poco torna mia madre.»
«Sì, è a Bellchapel, no?» domandò Ciccio, cercando di ricrearsi l’immagine di tipa tosta che aveva
di lei.
«Sì» rispose Krystal, che si era seduta sul materasso e si stava sfilando i pantaloni della tuta.
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«E se lo chiudono?» chiese Ciccio, togliendosi la giacca. «Ho sentito dire che ci stanno
pensando.»
«Boh» disse Krystal, ma aveva paura. La volontà di sua madre, fragile e vulnerabile come un
uccellino, poteva cedere al minimo urto.
Era già in biancheria intima. Ciccio si stava togliendo le scarpe quando notò un oggetto
appoggiato sulla pila di vestiti nell’angolo: un piccolo portagioie di plastica aperto, con dentro un
orologio dall’aria familiare.
«Ma è quello di mia madre?» chiese, sorpreso.
«Cosa?» disse Krystal, nel panico. «No» mentì. «Era di mia nonna Cath. Non...!»
Ma lui lo aveva già tirato fuori dalla scatola.
«È il suo» disse. Riconosceva il cinturino.
«Che cazzo dici!»
Era terrorizzata. Aveva quasi dimenticato di averlo rubato e a chi. Ciccio non diceva niente, e
questo non le piaceva.
A Ciccio parve che quell’orologio rappresentasse allo stesso tempo una sfida e un rimprovero. In
rapida successione immaginò prima di uscire, mettendoselo in tasca, poi di restituirlo a Krystal
con una scrollata di spalle.
«È mio» disse lei.
Ciccio non voleva fare il poliziotto. Voleva essere senza legge. Ma ebbe bisogno di ricordare che
l’orologio era stato un regalo di Cubicolo per convincersi a restituirlo a Krystal e riprendere a
spogliarsi. Lei, rossa in viso, si tolse reggiseno e mutande e si infilò sotto il piumino.
Ciccio si avvicinò in boxer, con un preservativo ancora chiuso in mano.
«Non ci serve» disse lei, rauca. «Prendo la pillola.»
«Ah, sì?»
Lei si spostò per fargli spazio. Ciccio si infilò sotto il piumone. Togliendosi i boxer si chiese se
quella storia della pillola non fosse una bugia, com’era stata quella dell’orologio. Ma era da un
po’ che voleva provare a farlo senza preservativo.
«Vai» bisbigliò lei; gli tolse di mano il quadratino di stagnola e lo lanciò sulla giacca di lui, buttata
per terra.
Ciccio immaginò Krystal incinta di suo figlio; le facce di Tessa e Cubicolo quando l’avessero
saputo. Il suo bambino dei Fields, carne della sua carne. Molto più di quanto Cubicolo fosse mai
riuscito a concepire.
Si mise sopra di lei; questa sì che era la vita vera.
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VIII
Quella sera stessa, alle sei e mezzo, Howard e Shirley Mollison entrarono nella sala parrocchiale
di Pagford. Shirley aveva in mano una pila di carte e Howard indossava la fascia di presidente con
lo stemma bianco e azzurro di Pagford.
Le assi del pavimento scricchiolavano sotto il gran peso di Howard che camminava lungo la fila di
tavoli graffiati, già accostati per il lungo, per andare a mettersi a capotavola. A Howard quella sala
piaceva quasi quanto il suo negozio. Le scout la usavano il martedì e il circolo delle donne il
mercoledì. Aveva ospitato mercatini e festeggiamenti per il Giubileo, ricevimenti di nozze e
veglie, e aveva l’odore di tutte quelle cose: abiti vecchi e thermos del caffè, fantasmi di torte
fatte in casa e di insalate di carne; di polvere e corpi; ma soprattutto di pietra e legno vecchio. Le
lampade di ottone, attaccate a grossi cordoni neri, pendevano dalle travi del soffitto, e la cucina
era separata dalla sala da porte di mogano intagliate.
Shirley trotterellava su e giù, distribuendo i fogli dell’ordine del giorno. Adorava le riunioni del
Consiglio. Perché, a parte l’orgoglio e il divertimento che le dava sentire Howard presiederle,
Maureen era necessariamente assente: non avendo un ruolo ufficiale, doveva accontentarsi delle
briciole che Shirley si degnava di offrirle.
Gli altri consiglieri arrivavano da soli o a coppie. Howard li accoglieva con saluti tonanti, che
echeggiavano contro le travi del soffitto. Era raro che tutti e sedici i consiglieri fossero presenti:
oggi prevedeva di vederne dodici.
Il tavolo era pieno a metà quando arrivò Aubrey Fawley: camminava sempre come contro vento,
con una specie di maldisposta energia, la schiena leggermente curva e la testa china.
«Aubrey!» esclamò allegro Howard, e per la prima volta mosse un passo per andare incontro al
nuovo arrivato. «Come stai? Come sta Julia? Avete ricevuto il mio invito?»
«Scusa, non...»
«Per i miei sessantacinque anni! Sabato prossimo, qui, il giorno dopo le elezioni.»
«Ah, sì, sì. Senti, Howard, c’è fuori una giornalista... della Yarvil and District Gazette, dice.
Alison...?»
«Ah» disse Howard. «Strano. Le ho appena mandato il mio articolo, sai, in risposta a quello di
Fairbrother... Forse è per... Vado a vedere.»
Si allontanò con la sua andatura dondolante, la testa piena di vaghi, brutti presentimenti.
Parminder Jawanda entrò mentre lui si avvicinava alla porta; imbronciata come sempre, gli passò
davanti senza salutarlo e per una volta Howard non disse: «Come va la nostra Parminder?»
Sul marciapiede c’era una giovane bionda, bassa e tarchiata, con un’aura di imperturbabile
allegria in cui Howard riconobbe immediatamente una determinazione molto simile alla propria.
Aveva in mano un taccuino e guardava le iniziali degli Sweetlove incise sul portone.
«Buonasera, buonasera» la salutò Howard, un po’ affannato. «Alison, vero? Sono Howard
Mollison. È venuta fin qui per dirmi che scrivo con i piedi?»
Lei sorrise raggiante e strinse la mano che Howard le tendeva.
«No, no, l’articolo ci piace» lo rassicurò. «Ma visto che le cose si stanno facendo così interessanti,
ho pensato di venire ad assistere alla riunione. Le dispiace? La stampa è ammessa, credo. Ho
consultato i regolamenti.»
Parlando, si stava già avvicinando all’entrata.
«Sì, sì, la stampa è ammessa» confermò Howard, accompagnandola e poi fermandosi
cavallerescamente all’entrata per cederle il passo. «A meno che non si debba discutere di
qualcosa a porte chiuse.»
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Lei si voltò a guardarlo e lui riuscì a vederle i denti anche nella luce fioca del crepuscolo.
«Per esempio tutte quelle accuse anonime sulla vostra bacheca? Da parte del Fantasma di Barry
Fairbrother?»
«Oh, santo cielo» ansimò Howard, sorridendole di rimando. «Non vorrà mica scrivere di quelle,
vero? Un paio di commenti stupidi su Internet!»
«Solo un paio? Qualcuno mi ha detto che ne sono stati cancellati un bel po’.»
«No, no, quel qualcuno si è sbagliato» ribatté Howard. «Ce ne sono stati solo due o tre, a quanto
ne so. Sciocchezze maligne. Personalmente» aggiunse, improvvisando, «credo che sia stato un
qualche ragazzino.»
«Un ragazzino?»
«Sa come si divertono gli adolescenti.»
«Prendendosela con i consiglieri locali?» chiese lei, senza smettere di sorridere. «Ho sentito che
una delle vittime ha perso il lavoro. Probabilmente proprio per via delle accuse pubblicate sul
vostro sito.»
«Mi giunge nuova» mentì Howard. Shirley aveva visto Ruth all’ospedale il giorno prima e gli aveva
riferito tutto.
«Leggo sull’ordine del giorno» proseguì Alison, mentre entravano nella sala illuminata, «che
parlerete di Bellchapel. Lei e il signor Fairbrother avete esposto bene i vari punti di vista nei vostri
articoli... Al giornale abbiamo ricevuto molte lettere, dopo aver pubblicato l’articolo del signor
Fairbrother. Il mio direttore è stato contento. Qualsiasi cosa spinga la gente a scrivere lettere...»
«Sì, le ho viste» disse Howard. «Mi pare che nessuno abbia un gran bene da dire di Bellchapel,
non è vero?»
I consiglieri seduti al tavolo li guardavano. Alison Jenkins ricambiò lo sguardo, sempre col suo
sorriso imperturbabile.
«Le prendo una sedia» disse Howard. Ansimando leggermente, ne tirò giù una da una pila lì
accanto e sistemò Alison a quattro metri dal tavolo.
«Grazie» disse lei, spostandola di due metri più avanti.
«Signore e signori» annunciò Howard, «questa sera abbiamo anche la stampa. Alison Jenkins
della Yarvil and District Gazette.»
Alcuni parvero interessati e gratificati dalla presenza di Alison, ma la maggior parte reagì con aria
di diffidenza. Howard tornò a capotavola, dove Aubrey e Shirley gli rivolsero occhiate
interrogative.
«Il Fantasma di Barry Fairbrother» disse lui sottovoce, sedendosi con cautela sulla sedia di
plastica (due riunioni prima, una era crollata sotto il suo peso). «E Bellchapel. Ecco Tony!» gridò,
facendo sobbalzare Aubrey. «Vieni avanti, Tony... Concediamo un altro paio di minuti a Henry e
Sheila?»
Il mormorio intorno al tavolo era leggermente più sommesso del solito. Alison Jenkins stava già
prendendo appunti sul suo taccuino. Tutta colpa di Fairbrother, si disse Howard con rabbia. Era
stato lui a invitare la stampa. Per una frazione di secondo, Howard pensò a Barry e al suo
Fantasma come a una cosa sola, piantagrane da vivo e da morto.
Come Shirley, Parminder aveva portato una pila di carte, e le aveva ammucchiate sotto l’ordine
del giorno, che fingeva di leggere per non dover parlare con nessuno. In realtà pensava alla
donna seduta quasi esattamente alle sue spalle. La Yarvil and District Gazette aveva scritto del
collasso di Catherine Weedon e del reclamo della famiglia contro il medico. Non era stato fatto il
nome di Parminder, ma senza dubbio la giornalista sapeva chi era. Forse aveva sentito parlare
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anche del post anonimo contro di lei.
Calmati. Stai diventando come Colin.
Howard aveva già cominciato a prendere nota delle assenze e chiedere di eventuali correzioni
all’ultimo verbale, ma Parminder lo sentiva a malapena, con il sangue che le pulsava nelle
orecchie.
«Ora, se non ci sono obiezioni» cominciò Howard, «discuteremo per primi i punti otto e nove,
perché il consigliere distrettuale Fawley ha degli aggiornamenti a proposito di entrambi e non
può restare fino alla fine...»
«Ho tempo fino alle otto e mezzo» disse Aubrey, controllando l’orologio.
«... sì, perciò, se non ci sono obiezioni... no?... a te la parola, Aubrey.»
Aubrey illustrò la propria posizione semplicemente e in tono neutro. Era prevista una nuova
revisione dei confini e per la prima volta c’era qualcuno, al di fuori di Pagford, che premeva
perché i Fields venissero riassegnati a Yarvil. Assumersi i costi relativamente modesti ora in carico
a Pagford sembrava tutto sommato conveniente a coloro che speravano di aggiungere voti
antigovernativi al computo di Yarvil, dove avrebbero potuto essere decisivi, invece di andare
sprecati a Pagford, che era un seggio conservatore fin dagli anni Cinquanta. E il passaggio poteva
essere fatto rientrare nella logica della semplificazione e dell’ottimizzazione: Yarvil forniva
comunque già tutti i servizi del quartiere.
Aubrey concluse dicendo che sarebbe stato molto utile, nel caso in cui Pagford avesse voluto
recidere i legami con i Fields, che la città esprimesse il proprio parere al Consiglio distrettuale.
«... un messaggio forte e chiaro da parte vostra» disse, «e credo proprio che stavolta...»
«Finora non ha mai funzionato» intervenne un agricoltore, seguito da un mormorio di assenso.
«Be’, John, non ci era mai stato chiesto di esprimere la nostra posizione» disse Howard.
«Non dovremmo decidere qual è la nostra posizione, prima di dichiararla pubblicamente?»
chiese Parminder, gelida.
«Molto bene» rispose Howard, in tono neutro. «Vuole dare inizio alle danze, dottoressa
Jawanda?»
«Non so quanti di voi hanno letto l’articolo di Barry sulla Gazette» cominciò Parminder. Si erano
girati tutti a guardarla. Cercò di non pensare al post anonimo o alla giornalista seduta alle sue
spalle. «Credo che illustri molto bene le ragioni a favore del mantenimento dei Fields nella
circoscrizione di Pagford.»
Parminder vide Shirley, intenta a scrivere, rivolgere un sorrisino alla propria penna.
«Ricordandoci i vantaggi che ne vengono a quelli come Krystal Weedon?» domandò una donna
anziana di nome Betty, all’altro capo del tavolo. Parminder l’aveva sempre detestata.
«Ricordandoci che la gente che abita ai Fields fa parte della nostra comunità» rispose.
«Loro si considerano di Yarvil» disse l’agricoltore. «È sempre stato così.»
«Mi ricordo» disse Betty «quando Krystal Weedon, durante una gita, ha spinto una ragazza nel
fiume.»
«No, non è stata lei» replicò Parminder con rabbia, «mia figlia era presente... C’erano due ragazzi
che stavano litigando... e comunque...»
«Io ho sentito che era stata Krystal Weedon» insisté Betty.
«Ha sentito male» disse Parminder. Solo che non lo disse, lo urlò.
Gli altri restarono di stucco, e anche lei. L’eco rimbalzò tra le vecchie pareti. Parminder riuscì a
malapena a deglutire; teneva la testa china, gli occhi fissi sull’ordine del giorno, e sentì la voce di
John arrivare da molto lontano.
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«Barry avrebbe fatto meglio a parlare di sé, invece che di quella ragazza. Lui sì che ha imparato
qualcosa alla St Thomas.»
«Il problema è che per un Barry» osservò un’altra donna, «ci sono un sacco di teppisti.»
«Sono gente di Yarvil» intervenne un uomo, «appartengono a Yarvil.»
«Non è vero» ribatté Parminder, tenendo la voce deliberatamente bassa, ma tutti tacquero per
ascoltarla, aspettando che urlasse di nuovo. «Non è così. Guardate i Weedon. Era questo il punto
dell’articolo di Barry. Anni fa erano una famiglia di Pagford, ma...»
«Si sono trasferiti a Yarvil!» disse Betty.
«Qui non c’erano case» continuò Parminder, trattenendo l’ira, «non avete voluto costruire nuove
abitazioni ai confini della città.»
«Chiedo scusa, ma tu non c’eri.» Betty, rossa in viso, si girò ostentatamente dall’altra parte. «Non
conosci la storia.»
Ormai tutti parlavano: la riunione si era frammentata in tante piccole conversazioni, di cui
Parminder non riusciva a sentire nulla. Aveva la gola chiusa e non osava incontrare lo sguardo
degli altri.
«Procediamo per alzata di mano?» urlò Howard e tutti, di nuovo, tacquero. «Chi vuole riferire al
Consiglio distrettuale che Pagford è favorevole a una revisione dei confini della città e a escludere
i Fields dalla nostra giurisdizione?»
Parminder aveva i pugni stretti in grembo e le unghie di entrambe le mani quasi conficcate nei
palmi. Sentì intorno a lei un fruscio di maniche.
«Molto bene!» esclamò Howard, e il suo tono di giubilo riecheggiò trionfante dalle travi. «Bene,
butterò giù una bozza con Tony e Helen e la manderemo in visione a tutti voi, dopodiché la
facciamo partire. Molto bene!»
Due o tre consiglieri applaudirono. A Parminder si offuscò la vista e dovette battere forte le
palpebre. Non riusciva a mettere a fuoco l’ordine del giorno. Il silenzio durò così a lungo che alla
fine alzò la testa: Howard, preso dall’entusiasmo, aveva dovuto ricorrere all’inalatore e la
maggior parte dei consiglieri lo guardavano premurosi.
«Bene, allora» ansimò Howard, rimettendo in tasca l’inalatore, rosso in viso e raggiante, «a meno
che qualcuno non abbia altro da aggiungere...» una pausa infinitesimale, «... passiamo al punto
nove. Bellchapel. E anche su questo passo la parola a Aubrey.»
Barry non l’avrebbe permesso. Avrebbe discusso. Avrebbe fatto ridere John e lui avrebbe finito per
votare con noi. Avrebbe dovuto scrivere di sé, non di Krystal... L’ho tradito.
«Grazie, Howard» disse Aubrey, mentre Parminder sentiva rombare il sangue nelle orecchie e si
affondava ancora più forte le unghie nei palmi. «Come sapete, a livello distrettuale dovremo
operare dei tagli piuttosto drastici...»
Fino alla mia morte è stata innamorata di me, e riusciva a malapena a nasconderlo ogni volta che
mi guardava...
«... e una delle voci che dobbiamo rivedere è Bellchapel» continuò Aubrey. «Ho pensato di
parlarne in questa sede perché, come sapete, l’edificio appartiene a Pagford...»
«... e il contratto d’affitto è in scadenza» concluse Howard. «Esatto.»
«Ma nessun altro è interessato, vero?» chiese un ragioniere in pensione dall’altro capo del
tavolo. «A quanto ho sentito, è in pessime condizioni.»
«Oh, sono sicuro che potremo trovare dei nuovi affittuari» rispose Howard tranquillamente, «ma
in realtà non è questo il punto. Il punto è se pensiamo o no che il Centro stia facendo un buon
lavoro...»
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«Non è affatto questo il punto» lo interruppe Parminder. «Non è compito del Consiglio locale
giudicare l’operato del Centro. Noi non finanziamo la loro attività. Non sono una nostra
responsabilità.»
«Ma noi siamo proprietari dell’immobile» riprese Howard, sempre sorridente, sempre gentile,
«perciò mi sembra naturale che prendiamo in considerazione...»
«Se vogliamo esaminare le informazioni sull’operato del Centro, credo che sia importante avere
un quadro obiettivo» disse Parminder.
«Chiedo scusa» intervenne Shirley, battendo le palpebre in direzione di Parminder, «se potesse
fare a meno di interrompere la presidenza, dottoressa Jawanda. È molto difficile prendere
appunti, se parlano tutti insieme. E ora sono io che ho interrotto» aggiunse con un sorriso.
«Scusate!»
«Immagino che il Consiglio voglia continuare a incassare una rendita da quell’edificio» disse
Parminder, ignorandola. «E non mi risulta che ci sia la coda di potenziali affittuari. Quindi mi
chiedo perché mai stiamo pensando di non rinnovare il contratto al Centro.»
«Non li curano» sentenziò Betty. «Gli danno solo altra droga. Sarei ben felice di vederli fuori dai
piedi.»
«Dovremo prendere delle decisioni molto difficili, al Consiglio distrettuale» disse Aubrey Fawley.
«Il governo sta cercando di risparmiare più di un miliardo in tagli alle amministrazioni locali. Non
possiamo continuare a fornire servizi come abbiamo fatto finora. Questa è la realtà.»
Parminder odiava l’atteggiamento dei suoi colleghi consiglieri nei confronti di Aubrey, che si
bevevano ogni parola pronunciata dalla sua voce profonda e impostata, annuendo tutte le volte
che parlava. E sapeva benissimo che alcuni di loro la chiamavano Maledir.
«Gli studi indicano che l’uso di droghe aumenta durante le recessioni» disse Parminder.
«È una loro scelta» ribatté Betty. «Nessuno li obbliga a drogarsi.»
Si guardò intorno in cerca di sostegno. Shirley le sorrise.
«Dovremo fare delle scelte difficili» disse Aubrey.
«Perciò si è messo d’accordo con Howard» lo interruppe Parminder, «e avete deciso di dare una
spintarella al Centro sfrattandolo dalla sede.»
«Mi vengono in mente modi migliori per spendere i soldi, che non per una banda di criminali»
osservò il ragioniere.
«Fosse per me, toglierei il sussidio a tutti» disse Betty.
«Sono stato invitato per farvi un quadro di ciò che sta avvenendo a livello distrettuale» rispose
Aubrey, con calma. «Nient’altro, dottoressa Jawanda.»
«Helen» disse Howard a voce alta, indicando un’altra consigliera che aveva la mano alzata e
cercava da un minuto di farsi ascoltare.
Parminder non sentì nulla di quanto disse. Aveva dimenticato sotto il suo ordine del giorno il
fascio di carte, che era costato tanto lavoro a Kay Bawden: le statistiche, i profili dei casi con esito
positivo, la spiegazione dei benefici del metadone; studi che dimostravano i costi, economici e
sociali, della dipendenza da eroina. Tutto intorno a lei si era fatto liquido, irreale; capì di essere
sul punto di esplodere, come non aveva mai fatto in vita sua, e non c’era tempo per pentirsene,
né per prevenirlo, né per fare qualsiasi altra cosa se non assistere alla catastrofe; era troppo
tardi, troppo tardi...
«... una cultura dell’assistenzialismo» disse Aubrey Fawley. «Gente che non ha mai lavorato un
solo giorno della sua vita.»
«E diciamocelo» aggiunse Howard, «è un problema di facile soluzione. Smettetela di drogarvi.»
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Si voltò verso Parminder con un sorriso conciliante. «Si chiama ‘tacchino freddo’, se non sbaglio,
dottoressa Jawanda?»
«Quindi, secondo te dovrebbero assumersi la responsabilità della loro dipendenza e cambiare
comportamento, giusto?» chiese lei.
«In sintesi, sì.»
«Prima di gravare sulle casse dello stato.»
«Esatt...»
«E tu» sbottò Parminder alzando la voce, travolta dalla silenziosa esplosione interiore, «lo sai
quante decine di migliaia di sterline sei costato tu, Howard Mollison, al servizio sanitario
nazionale, a causa della tua assoluta incapacità di smettere di ingozzarti?»
Una chiazza di un rosso bordeaux si stava diffondendo dal collo alle guance di Howard.
«Lo sai quanto è costato il tuo bypass, e le tue medicine, e la degenza in ospedale? E le visite
mediche per l’asma, per la pressione alta e per l’eruzione cutanea, tutte provocate dal tuo rifiuto
di dimagrire?»
Quando la voce di Parminder divenne un urlo, altri consiglieri cominciarono a protestare in difesa
di Howard; Shirley si alzò in piedi; Parminder stava ancora gridando, e intanto raccoglieva le carte
che aveva sparpagliato gesticolando.
«E il segreto professionale?» urlò Shirley. «È una vergogna! Uno scandalo!»
Parminder era già alla porta, se ne stava andando; sentì, tra i propri singhiozzi di rabbia, Betty che
chiedeva la sua espulsione immediata dal Consiglio; stava uscendo quasi di corsa dalla sala e capì
di aver provocato un cataclisma, e una sola cosa voleva: essere inghiottita dal buio e sparire per
sempre.
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IX
La Yarvil and District Gazette si tenne fin troppo cauta nel riportare cos’era stato detto durante la
riunione più astiosa mai vissuta dal Consiglio locale di Pagford a memoria d’uomo. Poco
importava; la cronaca espurgata, accompagnata dalle vivide testimonianze dei presenti, diede
comunque il la a chiacchiere di ogni sorta. A peggiorare le cose, un articolo con richiamo in prima
pagina raccontava nei particolari gli attacchi informatici anonimi a nome del defunto che, nelle
parole di Alison Jenkins, «hanno suscitato rabbia e numerose congetture. L’articolo a p. 4.» Anche
se non venivano fatti i nomi degli accusati né descritti i loro presunti misfatti, leggere parole
come ‘accuse serie’ e ‘attività criminali’ stampate sul giornale disturbò Howard più dei post
originali.
«Avremmo dovuto aumentare la sicurezza del sito quando è apparso il primo messaggio» disse,
piazzato davanti al camino a gas, a sua moglie e alla sua socia in affari.
Una silenziosa pioggia primaverile spruzzava i vetri, e il giardino sul retro brillava di minuscoli
riflessi di luce rossa. Howard aveva i brividi e cercava di monopolizzare tutto il calore emanato dal
finto carbone. Per molti giorni, quasi ogni cliente della salumeria e del caffè aveva spettegolato
sui post anonimi, sul Fantasma di Barry Fairbrother e sulla sparata di Parminder Jawanda alla
riunione del Consiglio. Howard non sopportava che si parlasse in pubblico delle cose che lei gli
aveva urlato. Per la prima volta in vita sua si sentiva a disagio nel suo stesso negozio ed era
preoccupato per la sua posizione a Pagford, fino a quel momento inattaccabile. Le elezioni per la
sostituzione di Barry Fairbrother si sarebbero svolte il giorno dopo; là dove Howard si era sentito
speranzoso e ottimista, ora era ansioso e irrequieto.
«Questa cosa ci ha fatto un grosso danno. Un grosso danno» ripeté.
Gli scivolò la mano verso l’addome per grattarsi, ma la ritirò, sopportando il prurito con
espressione da martire. Non avrebbe dimenticato tanto presto quello che la Jawanda aveva
urlato al Consiglio e alla stampa. Lui e Shirley avevano già controllato il regolamento dell’Ordine
dei medici ed erano andati dal dottor Crawford a sporgere un reclamo formale. Parminder non si
era più presentata al lavoro, quindi era fuor di dubbio che si stesse già pentendo della scenata.
Tuttavia, Howard non riusciva a liberarsi del ricordo dell’espressione di lei che gli urlava contro.
Vedere tanto odio sul volto di un altro essere umano l’aveva scosso.
«Finirà tutto nel dimenticatoio» gli disse Shirley, in tono rassicurante.
«Non ne sono sicuro» rispose Howard. «Non ne sono sicuro. Non ne usciamo bene, noi del
Consiglio. Litigare davanti alla stampa. Sembriamo divisi. Aubrey dice che a livello distrettuale
non sono contenti. Tutta questa storia ha minato la nostra posizione sui Fields. Bisticciamo in
pubblico, ci infanghiamo... non sembra proprio che il Consiglio parli a nome della città.»
«Ma invece lo fa» lo incoraggiò Shirley con una risatina. «Nessuno a Pagford vuole più i Fields...
quasi nessuno.»
«A dar retta a quell’articolo sembra che siano stati i nostri ad attaccare i pro-Fields, che abbiamo
cercato di intimidirli» continuò Howard, cedendo con gioia feroce alla tentazione di grattarsi.
«Aubrey lo sa che non siamo stati noi, ma quella giornalista fa capire tutto il contrario. E ti dico
una cosa: se Yarvil ci farà sembrare inetti o disonesti... sono anni che cercano un’occasione per
fagocitarci.»
«Non succederà» rispose subito Shirley. «Non può succedere.»
«Credevo che fosse finita» disse Howard, ignorando la moglie e pensando ai Fields. «Credevo che
ce l’avessimo fatta, che ce ne fossimo liberati.»
L’articolo al quale aveva dedicato tanto tempo, quello che spiegava perché il quartiere e il Centro
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per la tossicodipendenza Bellchapel erano uno spreco e una vergogna per Pagford, era stato
completamente oscurato dagli scandali della piazzata di Parminder e del Fantasma di Barry
Fairbrother. Howard aveva ormai dimenticato completamente quanto si era divertito a leggere le
accuse contro Simon Price, e anche di non aver sentito il bisogno di cancellarle finché lo aveva
chiesto la moglie di Price.
«Il Consiglio distrettuale mi ha scritto un’e-mail» disse a Maureen, «con un sacco di domande sul
sito. Vogliono sapere che misure abbiamo preso per prevenire l’accusa di diffamazione. Secondo
loro c’è un problema di sicurezza.»
Shirley, captando un rimprovero personale, rispose freddamente: «Te l’ho detto, Howard, ci ho
già pensato io.»
Il giorno prima era venuto il nipote di due amici di Howard e Shirley, mentre Howard era in
negozio. Il ragazzo era al secondo anno di informatica. Il suo consiglio a Shirley era stato di
chiudere il sito, che faceva acqua come un colabrodo, chiamare ‘qualcuno che sa quello che fa’ e
realizzarne uno nuovo.
Shirley aveva capito forse una parola su dieci del gergo tecnico che il ragazzo le aveva sciorinato.
Sapeva che un hacker era uno che entrava illegalmente in un sito e, quando lo studente aveva
finito con le sue chiacchiere, era rimasta con la sensazione confusa che il Fantasma fosse in
qualche modo riuscito a scoprire le password degli utenti, magari buttando lì qualche domanda
astuta nel corso di una conversazione.
Così aveva scritto a tutti per chiedere di cambiare la password e stare attenti a non rivelarla a
nessuno. Questo intendeva con «Ci ho già pensato io.»
Quanto al consiglio di chiudere il sito, del quale era custode e curatrice, non aveva preso alcuna
iniziativa, né ne aveva accennato a Howard. Temeva che un sito con tutte le misure di sicurezza
suggerite da quel giovanotto presuntuoso andasse oltre le sue capacità tecniche e gestionali. Era
già al limite delle sue possibilità ed era ben decisa a tenersi il ruolo di amministratore.
«Se Miles viene eletto...» cominciò Shirley, ma Maureen, con la sua voce profonda, la interruppe.
«Speriamo che questa robaccia non lo danneggi. Speriamo che non ci siano ripercussioni su di
lui.»
«La gente sa che Miles non c’entra nulla» replicò Shirley, fredda.
«Ne sei così sicura?» chiese Maureen, e Shirley la odiò.
Come si permetteva di starsene nel suo salotto e contraddirla? E il peggio era che suo marito
annuiva per darle ragione.
«È questo che mi preoccupa» disse Howard, «e abbiamo bisogno di Miles ora più che mai. Per
riportare un po’ di coesione nel consiglio. Dopo che Maledir ha detto quel che ha detto, dopo
tutto quel polverone, non abbiamo nemmeno votato su Bellchapel. Abbiamo bisogno di Miles.»
Shirley era già uscita dalla stanza, in segno di muta protesta contro lo schieramento di Howard
nel campo di Maureen. Andò in cucina a preparare il tè, furibonda, meditando di preparare solo
due tazze, per far capire a Maureen quello che avrebbe dovuto capire già da un pezzo.
Shirley, nonostante quanto dicessero gli altri, continuava a provare per il Fantasma nient’altro
che ammirazione. Le sue accuse avevano smascherato persone che lei disprezzava e detestava,
persone distruttive e malate. Era sicura che l’elettorato di Pagford la pensava come lei e avrebbe
votato per Miles, e non per quello schifoso di Colin Wall.
«Quando andiamo a votare?» chiese a Howard, rientrando nella stanza con il vassoio tintinnante
e ignorando deliberatamente Maureen (era il loro figlio quello per cui avrebbero votato).
Ma con sua grande irritazione, Howard suggerì di andarci tutti e tre dopo l’orario di chiusura.
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Miles Mollison era preoccupato quanto suo padre per il malumore senza precedenti che
circondava il voto dell’indomani e per il peso che aveva sulle sue possibilità di vittoria. Proprio
quella mattina era andato dal giornalaio dietro la Piazza e aveva sentito un frammento di
conversazione fra la donna dietro la cassa e un anziano cliente.
«... Mollison ha sempre pensato di essere il re di Pagford» diceva l’uomo anziano, incurante degli
occhiacci della cassiera. «A me piaceva Barry Fairbrother. Una tragedia, è stata, una vera
tragedia. Il giovane Mollison ha fatto i nostri testamenti e mi è sembrato uno molto pieno di sé.»
Miles aveva perso la calma ed era uscito dal negozio, paonazzo come uno scolaretto. Si chiese se
non fosse proprio quell’uomo anziano e facondo l’autore della lettera anonima. La confortevole
fiducia che Miles nutriva nella propria simpatia aveva subito una scossa, e provò a immaginare
come sarebbe stato se il giorno dopo nessuno avesse votato per lui.
Quella sera, mentre si svestiva per andare a letto, guardò il riflesso della moglie, taciturna, nello
specchio della toletta. Da giorni Samantha non manifestava altro che sarcasmo, quando lui
accennava alle elezioni. Quella sera non gli sarebbe dispiaciuto un po’ di sostegno, un po’ di
conforto. Era anche arrapato. Era passato molto tempo. Pensandoci bene, l’ultima volta era stata
la sera prima che Barry Fairbrother ci restasse secco. Lei aveva bevuto un po’. Ultimamente aveva
spesso bisogno di avere un po’ di alcol in corpo.
«Com’è andata al lavoro?» chiese, guardandola sfilarsi il reggiseno davanti allo specchio.
Samantha non rispose subito. Si massaggiò i profondi solchi rossi nella carne sotto le braccia,
lasciati dal reggiseno, e poi disse, senza guardare Miles: «In effetti. È un po’ che te ne volevo
parlare.»
Non sopportava di doverlo dire. Cercava di evitarlo da settimane.
«Secondo Roy dovrei chiudere il negozio. Non sta andando bene.»
Sapere quanto andava male, per Miles sarebbe stato uno choc. Lo era stato per lei, quando il
commercialista aveva esposto la situazione senza mezzi termini. Anche se non era stata proprio
una sorpresa. Era strano come la mente potesse sapere ciò che il cuore rifiutava di accettare.
«Ah» disse Miles. «Però il sito lo tieni?»
«Sì» rispose lei. «Terremmo il sito.»
«Be’, questo è un bene» disse Miles, in tono incoraggiante. Aspettò quasi un minuto, in segno di
rispetto per la morte del negozio. Poi proseguì: «Oggi non hai letto la Gazette, vero?»
Lei si sporse a prendere la camicia da notte sul cuscino e lui ebbe una gratificante visione delle
sue tette. Il sesso lo avrebbe decisamente aiutato a rilassarsi.
«È proprio un peccato, Sam» disse. Attraversò il letto per avvicinarsi a lei e aspettò che si fosse
infilata la camicia da notte per abbracciarla. «Per il negozio. Era un gran bel posticino. E ce l’avevi
da quanto... dieci anni?»
«Quattordici» precisò Samantha.
Sapeva cosa voleva Miles. Accarezzò l’ipotesi di mandarlo affanculo e trasferirsi nella stanza degli
ospiti, ma poi sarebbero seguiti litigi e aria pesante, e la cosa che lei desiderava di più al mondo
era andare a Londra con Libby due giorni dopo e passare la serata a un tiro di schioppo da Jake e
dai suoi compagni di band. In quella trasferta era riposta tutta la felicità di Samantha. E poi, un
po’ di sesso poteva anche mitigare i continui rimproveri di Miles per la sua assenza al
compleanno di Howard.
Così si lasciò abbracciare e baciare. Chiuse gli occhi, si mise sopra di lui e immaginò di cavalcare
Jake su una spiaggia bianca e deserta, lei diciannove anni, lui ventuno. Venne immaginando Miles
che li guardava col binocolo, furioso, da un lontano pedalò.
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X
Alle nove del mattino del giorno delle elezioni per il seggio di Barry, Parminder uscì dalla Vecchia
Canonica e si incamminò in Church Row per andare dai Wall. Bussò alla porta e attese finché,
finalmente, apparve Colin.
Aveva ombre scure attorno agli occhi iniettati di sangue e sotto gli zigomi; la pelle sembrava
assottigliata e i vestiti gli stavano troppo grandi. Non era ancora tornato al lavoro. La notizia che
Parminder aveva urlato in pubblico informazioni confidenziali su Howard aveva mandato all’aria il
suo timido, incerto recupero; era come se il Colin più solido di qualche sera prima, quello che,
seduto sul pouf di pelle, fingeva di confidare nella vittoria, non fosse mai esistito.
«Tutto bene?» chiese lui, chiudendo la porta, con aria circospetta.
«Sì, bene. Volevo chiederti se hai voglia di venire con me a votare.»
Parminder era stata di fatto sospesa dall’esercizio della professione. I Mollison avevano sporto
reclamo a tutti gli ordini professionali di cui erano riusciti a trovare l’indirizzo e il dottor Crawford
aveva consigliato a Parminder di mettersi in aspettativa. Lei, con sua grande sorpresa, l’aveva
vissuta come una liberazione.
Ma Colin scosse la testa. Parminder credette di vedergli delle lacrime negli occhi.
«Non ce la faccio, Minda.»
«Sì, invece! Colin, sì che ce la fai! Devi reagire! Pensa a Barry!»
«Non posso... mi dispiace, non...»
Gli mancò il respiro e scoppiò in lacrime. Gli era già capitato di piangere, in ambulatorio,
singhiozzando disperatamente per il fardello di paure che si portava addosso ogni giorno della
sua vita.
«Avanti» disse lei, senza imbarazzo; lo prese per il braccio e lo condusse in cucina, dove gli porse
il rotolo di carta e lo lasciò frignare ancora. «Tessa dov’è?»
«Al lavoro» balbettò lui, asciugandosi gli occhi.
Sul tavolo c’era un invito per la festa dei sessantacinque anni di Howard Mollison: qualcuno
l’aveva strappato accuratamente in due metà.
«Anch’io l’ho ricevuto» disse Parminder, «prima di urlargli contro. Stammi a sentire, Colin.
Votare...»
«Non posso» bisbigliò lui.
«... vuol dire fargli vedere che non siamo sconfitti.»
«Ma lo siamo.»
Parminder scoppiò a ridere. Dopo averla guardata a bocca aperta per un istante, anche Colin si
mise a ridere: una risata fragorosa e profonda, come il latrato di un mastino.
«D’accordo, ci hanno allontanati dal nostro lavoro» disse Parminder, «e nessuno di noi ha più il
coraggio di uscire di casa, ma a parte questo direi che siamo in ottima forma.»
Colin si tolse gli occhiali e si asciugò gli occhi umidi, sorridendo.
«Avanti, Colin. Voglio votare per te. Non è ancora finita. Dopo che ho dato fuori di matto e ho
urlato davanti a tutto il Consiglio e alla stampa locale che Howard Mollison non era meglio di un
tossico...»
Lui scoppiò a ridere di nuovo e lei ne fu felice; non lo sentiva ridere così tanto da capodanno, e
quella volta era stato Barry a farlo ridere.
«... si sono dimenticati di votare per lo sfratto di Bellchapel. Per favore, prendi il cappotto. Ci
andremo insieme.»
Le risate e i grugniti di Colin si spensero. Si fissò le grosse mani, che si sfregava come se se le
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stesse lavando.
«Colin, non è finita. Tu sei una persona per bene. Alla gente non piacciono i Mollison. Se entri tu,
la nostra posizione sarà molto più forte e potremo combattere. Per favore, Colin.»
«Va bene» rispose lui dopo qualche istante, stupito della sua stessa audacia.
Fu una passeggiata breve, all’aria fresca, ciascuno con la tessera elettorale stretta in mano. Nella
sala parrocchiale non c’erano altri elettori, oltre a loro due. Misero entrambi una grossa croce a
matita accanto al nome di Colin e se ne andarono con la sensazione di aver fatto qualcosa di
buono.
A mezzogiorno Miles Mollison non aveva ancora votato. Prima di uscire si fermò davanti alla
porta del socio.
«Vado a votare, Gav» annunciò.
Gavin indicò il telefono che teneva premuto all’orecchio; era in attesa con la compagnia di
assicurazioni di Mary.
«Ah... va bene... Vado a votare, Shona» disse Miles alla segretaria.
Non poteva far male ricordare a entrambi che aveva bisogno del loro sostegno. Scese le scale in
fretta e si avviò verso il Bricco di Rame, dove, durante una breve conversazione post-coitale con
sua moglie, avevano deciso di incontrarsi per andare insieme alla sala parrocchiale.
Samantha aveva lasciato il negozio alla commessa e passato la mattinata a casa. Sapeva di non
poter più rimandare il momento di dire a Carly che avrebbero chiuso e che non aveva più un
lavoro, ma non aveva trovato il coraggio di farlo prima del fine settimana e del concerto a Londra.
Quando comparve Miles e gli vide quel sorrisetto emozionato in faccia, provò un accesso di
rabbia.
«Papà non viene?» furono le prime parole di lui.
«Vanno dopo l’orario di chiusura» disse Samantha.
Quando arrivarono al seggio, le cabine elettorali erano occupate da due donne anziane.
Samantha aspettò, guardando le loro permanenti grigio ferro, i cappotti grossi e le caviglie ancora
più grosse. Era così che sarebbe diventata, un giorno. La più curva delle due notò Miles mentre
andavano via, gli sorrise raggiante e disse: «Ho appena votato per lei!»
«Molte grazie!» rispose Miles, deliziato.
Samantha entrò nella cabina e guardò i due nomi, Miles Mollison e Colin Wall, con la matita
legata a un pezzo di spago in mano. Poi scrisse «Pagford è un posto di merda e lo odio» sulla
scheda, la piegò, andò all’urna e ce la infilò, senza un sorriso.
«Grazie, amore» le disse piano Miles, con una pacca sulla schiena.
Tessa Wall, che non aveva mai mancato di andare a votare in vita sua, passò davanti alla sala
parrocchiale sulla via del ritorno da scuola e non si fermò. Ruth e Simon Price per tutto il giorno
parlarono più seriamente che mai della possibilità di trasferirsi a Reading. Ruth buttò via le loro
tessere elettorali sgombrando il tavolo per la cena.
Gavin non aveva mai avuto intenzione di andare a votare: se fosse stato Barry a candidarsi,
avrebbe anche potuto farlo, ma non aveva alcun desiderio di aiutare Miles a raggiungere un altro
degli obiettivi della sua vita. Alle cinque e mezzo chiuse la valigetta, stizzoso e depresso perché
aveva esaurito le scuse per non andare a cena da Kay. La cosa gli dava particolarmente fastidio
perché erano arrivati segnali di buona volontà da parte della compagnia di assicurazioni e lui
aveva una gran voglia di andare a dirlo a Mary. Invece così avrebbe dovuto conservare le buone
notizie fino all’indomani; non voleva sprecarle al telefono.
Kay gli aprì la porta e partì immediatamente a parlare a raffica, di solito segno di pessimo umore.
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«Scusa, è stata una giornata terribile» disse, anche se Gavin non si era lamentato e si erano a
malapena scambiati un saluto. «Sono tornata tardi, speravo di essere più avanti con la cena,
accomodati.»
Dal piano di sopra veniva un insistente ritmo di batteria e un intenso giro di basso. Gavin si stupì
che i vicini non si lamentassero. Kay vide il suo sguardo rivolto al soffitto e disse: «Oh, Gaia è
furiosa perché un ragazzo che le piaceva a Hackney s’è messo con un’altra.»
Afferrò il bicchiere di vino che stava già bevendo e mandò giù un gran sorso. Non era contenta di
aver definito Marco de Luca soltanto «un ragazzo che le piaceva.» Nelle due settimane prima del
trasloco da Londra, lui si era praticamente trasferito a casa loro. Kay l’aveva trovato delizioso,
premuroso e disponibile. Le sarebbe piaciuto avere un figlio come Marco.
«Sopravvivrà» concluse, scacciando il ricordo e tornando alle patate che aveva messo a bollire.
«Ha sedici anni, a quell’età sono di gomma. Prendi un po’ di vino.»
Gavin sedette al tavolo, sperando che Kay dicesse a Gaia di abbassare la musica. Per farsi sentire,
tra la vibrazione del basso, il rumore dei coperchi e la ventola della cappa, Kay aveva
praticamente dovuto gridare. Gavin provò nostalgia della quiete malinconica della grande cucina
di Mary, della sua gratitudine e del bisogno che aveva di lui.
«Come?» urlò, perché aveva capito che Kay gli aveva appena chiesto qualcosa.
«Ti ho chiesto se hai votato!»
«Votato?»
«Per il Consiglio locale!»
«No» rispose lui. «Non me ne può fregare di meno.»
Non era certo che lei avesse sentito. Stava parlando di nuovo, ma solo quando si fu voltata per
mettere in tavola i coltelli e le forchette lui riuscì a sentirla chiaramente.
«... in effetti è un vero schifo che il Consiglio sia in combutta con Aubrey Fawley. Immagino che
per Bellchapel sarà la fine se Miles entra...»
Scolò le patate e lo scroscio dell’acqua soffocò ancora una volta le sue parole.
«... e se quella donna non avesse perso la calma avremmo avuto qualche possibilità in più. Le ho
dato una quantità di informazioni sul Centro e non credo che le abbia usate. Ha solo gridato a
Howard Mollison che era grasso. Alla faccia della professionalità...»
Gavin aveva sentito delle voci sulla scenata della dottoressa Jawanda. Aveva trovato l’episodio
abbastanza divertente.
«... tutta quest’incertezza fa un gran male a chi lavora al Centro, per non parlare degli utenti.»
Ma Gavin non riuscì a fingere pietà né indignazione; provava solo sgomento per la dimestichezza
che Kay sembrava avere acquisito con gli intrighi e i personalismi coinvolti in quella esoterica
vicenda locale. Era un segno ulteriore di come si stesse radicando sempre di più a Pagford. Ormai
ci sarebbe voluto parecchio per smuoverla.
Si girò a guardare fuori dalla finestra, nel giardino dall’erba troppo alta. Si era offerto di aiutare
Fergus con il giardino di Mary, nel fine settimana. Con un po’ di fortuna, pensò, Mary l’avrebbe
invitato di nuovo a restare a cena, nel qual caso avrebbe avuto una scusa per non andare alla
festa di Howard, alla quale secondo Miles non vedeva l’ora di partecipare.
«... avrei voluto tenere i Weedon, ma no, Gillian dice che non possiamo scegliere ‘quelli che ci
vanno più a genio’. Ci vanno a genio, ma ti pare?»
«Come, scusa?» chiese Gavin.
«Mattie è tornata» spiegò lei, e Gavin dovette fare uno sforzo per ricordarsi che era la collega che
lei stava sostituendo. «Volevo continuare a lavorare con i Weedon, perché a volte stabilisci un
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legame particolare con una famiglia, ma Gillian non me lo permette. È assurdo.»
«Devi essere l’unica persona al mondo che ha voglia di frequentare i Weedon» disse Gavin. «A
quanto ho sentito, almeno.»
Kay dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non rispondergli male. Tolse dal forno
i filetti di salmone. La musica di Gaia era così alta da vibrare nella teglia, che lei sbatté sul piano di
cottura.
«Gaia!» gridò, facendo sobbalzare Gavin. Gli passò davanti e si fermò in fondo alle scale. «GAIA!
Abbassa! Hai capito? ABBASSA!»
Il volume diminuì forse di un decibel. Kay tornò in cucina, furibonda. Il litigio con Gaia, prima che
arrivasse Gavin, era stato uno dei peggiori di sempre. Gaia aveva dichiarato la sua intenzione di
chiamare il padre e chiedergli se poteva andare a vivere da lui.
«Be’, buona fortuna!» aveva gridato Kay.
Ma forse Brendan avrebbe accettato. L’aveva lasciata quando Gaia aveva appena un mese. Ora
era sposato, con altri tre figli, una casa enorme e un buon lavoro. E se avesse accettato?
Gavin fu contento di non dover parlare mentre mangiavano; la musica martellante riempiva il
silenzio e così lui poteva pensare in pace a Mary. L’indomani le avrebbe detto che la compagnia di
assicurazioni sembrava finalmente sentire ragione, e avrebbe ricevuto la sua gratitudine e la sua
ammirazione...
Aveva quasi ripulito il piatto quando si rese conto che Kay non aveva mangiato un solo boccone.
Lo fissava, seduta di fronte, e la sua espressione lo mise in allarme. Forse, chissà come, le aveva
rivelato i suoi pensieri...
La musica di Gaia, sopra di loro, si interruppe di colpo. Calò un silenzio pulsante, terribile per
Gavin; sperò che Gaia mettesse qualcos’altro, subito.
«Non ci provi nemmeno» constatò Kay con tristezza. «Non fai nemmeno finta che te ne importi
qualcosa, Gavin.»
Lui cercò una scappatoia facile.
«Kay, è stata una giornata pesante» rispose. «Scusami se non sono aggiornato su tutti i particolari
della politica locale nell’istante in cui...»
«Non sto parlando di politica locale» disse lei. «Te ne stai lì con l’aria di uno che preferirebbe
essere da qualsiasi altra parte... è... è offensivo. Che cosa vuoi, Gavin?»
Lui vide la cucina di Mary, il suo viso dolce.
«Devo implorarti per vederti» continuò Kay, «e quando ci sei fai di tutto per farmi capire che non
ne hai nessuna voglia.»
Voleva che lui le dicesse ‘non è vero’. L’ultimo momento in cui un diniego avrebbe ancora potuto
salvare qualcosa scivolò via. Stavano precipitando, sempre più velocemente, verso la crisi che
Gavin tanto temeva quanto desiderava.
«Dimmi che cosa vuoi» disse lei, con stanchezza. «Dimmelo.»
Tutti e due sentivano che il rapporto stava crollando sotto il peso di quanto Gavin non diceva. Fu
con il desiderio di porre fine all’infelicità di entrambi che lui trovò le parole cui non aveva pensato
di dar voce, forse mai, ma che in un certo senso sembravano una via d’uscita, tanto per lui
quanto per lei.
«Non volevo che succedesse» disse Gavin, sincero. «Davvero, non volevo. Kay, mi dispiace tanto,
ma credo di essere innamorato di Mary Fairbrother.»
Dalla sua espressione capì che lei non se lo aspettava.
«Mary Fairbrother?»
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«Credo» disse lui (e provava un piacere agrodolce nel parlarne, anche se sapeva di farle del male;
non era stato capace di dirlo a nessun altro), «di esserlo da molto tempo. Non me n’ero mai reso
conto... Voglio dire, quando Barry era vivo non avrei mai...»
«Credevo che fosse il tuo migliore amico» sussurrò Kay.
«Lo era.»
«Ma è morto poche settimane fa!»
A Gavin non faceva piacere sentirselo ricordare.
«Senti» disse, «sto cercando di essere sincero con te, sto cercando di essere giusto.»
«Di essere giusto?»
Aveva sempre immaginato che tutto sarebbe finito in un’esplosione di rabbia; ma lei si limitò a
guardarlo con le lacrime agli occhi, mentre lui si rimetteva la giacca.
«Mi dispiace» disse Gavin, e uscì dalla sua casa per l’ultima volta.
Sul marciapiede provò una sensazione di euforia e si affrettò verso la macchina. Poteva dire a
Mary della compagnia di assicurazioni già quella sera.
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Parte Quinta
Immunità
7.32 Chiunque abbia fatto un’affermazione diffamatoria può richiedere l’immunità, qualora sia in
grado di dimostrare di averlo fatto in buona fede e in considerazione dell’interesse pubblico.
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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___
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I
Terri Weedon era abituata a vedersi abbandonata da tutti. Il primo abbandono, il più grande, era
stato quello di sua madre, che un giorno, mentre Terri era a scuola, aveva preso e se n’era
andata, senza nemmeno dire addio.
Dopo la fuga da casa, c’era stato un gran viavai di assistenti e operatori sociali, e alcuni non erano
stati neanche male, ma a fine giornata se n’erano sempre andati. Ogni nuovo abbandono aveva
aggiunto un sottile strato alla crosta che si portava dentro.
Nella casa famiglia si era fatta degli amici, ma a sedici anni erano andati tutti a stare per conto
loro e la vita li aveva separati. Aveva conosciuto Ritchie Adams e con lui aveva fatto due figli. Due
creaturine rosa, pure e belle come nient’altro al mondo: ed erano uscite da lei; ben due volte, in
ospedale, per qualche magnifica ora era stato come rinascere.
Poi glieli avevano tolti e non li aveva rivisti mai più, nessuno dei due.
Schizzo l’aveva lasciata. Nonna Cath l’aveva lasciata. Quasi tutti se ne andavano, quasi nessuno
restava. Ormai avrebbe dovuto esserci abituata.
Quando ricomparve Mattie, la sua solita assistente sociale, Terri domandò: «L’altra dov’è?»
«Kay? Mi sostituiva mentre ero in malattia» disse Mattie. «Allora, dov’è Liam? No... volevo dire
Robbie, giusto?»
A Terri non piaceva Mattie. Tanto per cominciare non aveva figli, e come faceva una senza figli a
dirti come crescerli, come faceva a capire? Non che Kay proprio le piacesse... però lei le dava una
strana sensazione, la stessa che le aveva dato nonna Cath, prima di dirle che era una puttana e
che non la voleva vedere mai più... con Kay avevi l’impressione (anche se aveva le sue cartellette
come tutte le altre; anche se aveva deciso la revisione del caso) che volesse cambiare le cose
davvero, e non solo riempire moduli. Lo sentivi. Ma anche lei se n’era andata, si sarà già
dimenticata di noi, pensò Terri con rabbia.
Venerdì pomeriggio Mattie disse a Terri che Bellchapel avrebbe quasi sicuramente chiuso.
«È una questione politica» spiegò, energica. «Vogliono risparmiare, ma la terapia con il metadone
non piace al Consiglio distrettuale. E poi, Pagford li vuole sfrattare. Ne ha parlato anche il giornale
locale, forse l’hai visto.»
A volte parlava così con Terri, quasi a voler dire che erano tutt’e due nella stessa barca, in un
modo che strideva con domande come: «Ti sei ricordata di dar da mangiare a tuo figlio?» Ma
stavolta a turbare Terri fu quello che disse, più che il modo.
«Lo chiudono?» domandò.
«Pare proprio di sì» rispose Mattie, con noncuranza, «ma per te non cambia niente. Certo, è
ovvio che...»
Terri aveva iniziato tre volte il programma di recupero a Bellchapel. Gli interni polverosi della
chiesa riconvertita, con i tramezzi, i volantini informativi, i bagni con il neon azzurro (in modo che
non fosse possibile trovarsi la vena e farsi, là dentro), li trovava ormai familiari, quasi accoglienti.
Negli ultimi tempi aveva avuto la sensazione che gli operatori la trattassero in un modo diverso.
All’inizio si erano aspettati tutti quanti che ci ricascasse, ma poi avevano cominciato a parlarle
come faceva Kay: come se sapessero che dentro quel corpo bruciato e sfregiato c’era una
persona vera.
«... ovvio che sarà diverso, ma potrai sempre prendere il metadone dal medico di base» concluse
Mattie. Sfogliò la cartellina aperta in cui era registrata tutta la vita di Terri. «Tu sei con la
dottoressa Jawanda di Pagford, giusto? Pagford... come mai fin là?»
«Al Cantermill ho picchiato un’infermiera» rispose Terri, quasi distrattamente.
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Dopo che Mattie se ne fu andata, Terri rimase a lungo seduta nella poltrona sporca del salotto,
mordendosi le unghie fino a sanguinare.
Non appena Krystal mise piede in casa, riportando Robbie dall’asilo, le disse che stavano
chiudendo Bellchapel.
«Non hanno ancora deciso» replicò Krystal, in tono autorevole.
«E tu che cazzo ne sai?» abbaiò Terri. «Lo chiudono, e ora dicono che devo andare fino a Pagford
da quella stronza che ha ammazzato nonna Cath. Be’, col cazzo che ci vado.»
«Devi andarci» disse Krystal.
Erano giorni che faceva così; dava ordini a sua madre e si comportava come se lei, Krystal, fosse
l’adulta.
«Io non devo fare proprio un cazzo di niente» ribatté Terri, furiosa. «Fanculo» aggiunse, per
buona misura.
«Cazzo, se ricominci a farti» disse Krystal, rossa in viso, «si porteranno via Robbie.»
Lui, che teneva ancora per mano la sorella, scoppiò in lacrime.
«Visto?» si urlarono le due donne nello stesso momento.
«È colpa tua!» gridò Krystal. «E comunque quella dottoressa non ha fatto un cazzo a nonna Cath,
Cheryl e gli altri dicono stronzate!»
«Ah, adesso sai tutto tu, eh, stronzetta?» gridò Terri. «Tu non sai un caz...»
Krystal le sputò in faccia.
«Levati dalle palle!» gridò Terri e, visto che Krystal era più alta e più grossa, prese da terra una
scarpa e gliela brandì contro. «Fuori!»
«Ci puoi giurare, cazzo!» strillò Krystal. «E mi porto via Robbie, tu puoi star qui a scopare con
Obbo e farne un altro!»
Trascinò fuori con sé Robbie, che urlava, prima che Terri potesse fermarla.
Se lo portò dietro fino al suo solito rifugio, dimenticando che a quell’ora del pomeriggio Nikki era
sicuramente ancora in giro, e non a casa. Le aprì la mamma di Nikki, con addosso l’uniforme dei
supermercati Asda.
«Lui non può stare qui» disse perentoria a Krystal, mentre Robbie piangeva e cercava di liberare
la mano dalla stretta della sorella. «Tua madre dov’è?»
«A casa» rispose Krystal, e tutto il resto che aveva da dire evaporò nello sguardo severo dell’altra
donna.
Tornò in Foley Road con Robbie, e Terri, con un amaro sorriso di trionfo, prese il figlio per un
braccio, lo tirò in casa e impedì a Krystal di entrare.
«Ti sei già stufata, eh?» la schernì tra le urla di Robbie. «Va’ a farti fottere.»
E sbatté la porta.
Terri, quella notte, fece dormire Robbie accanto a sé sul materasso. Rimase sveglia e pensò a
quanto poco aveva bisogno di Krystal, e ne sentì la mancanza, più di quanto le fosse mai mancata
la roba.
Krystal era fuori di sé da giorni. Quello che aveva detto di Obbo...
(«Cos’è che t’ha raccontato?» aveva riso lui incredulo, quando Terri l’aveva incontrato per strada
e gli aveva detto che Krystal ce l’aveva con lui.)
... non era possibile. Obbo non poteva aver fatto una cosa del genere.
Obbo era uno dei pochi che era sempre rimasto. Terri lo conosceva da quando aveva quindici
anni. Erano andati a scuola insieme, si erano frequentati per le strade di Yarvil quando lei era alla
casa famiglia, avevano bevuto sidro insieme sotto gli alberi, sul sentiero che attraversava i pochi
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campi rimasti accanto ai Fields. Avevano fumato insieme la prima canna.
A Krystal non era mai piaciuto. È gelosa, pensò Terri guardando Robbie che dormiva, alla luce del
lampione che filtrava dalle tende sottili. È solo gelosa. Lui ha fatto per me più di chiunque altro.
Ne era abbastanza convinta, perché quando faceva il conto degli atti di gentilezza ricevuti
sottraeva gli abbandoni. E così tutto l’affetto di nonna Cath era stato annullato dal suo rifiuto.
Obbo invece una volta l’aveva aiutata a nascondersi da Ritchie, il padre dei suoi primi due figli,
quando era scappata di casa scalza e sanguinante. E ogni tanto le dava la roba gratis. Per lei
erano entrambi atti di generosità. I rifugi che le dava lui erano più affidabili della casetta di Hope
Street che una volta, per tre giorni fantastici, aveva pensato fosse casa sua.
Sabato mattina Krystal non tornò, ma non c’era niente di strano; Terri sapeva che doveva essere
da Nikki. Infuriata, perché erano a corto di cibo, le sigarette erano finite e Robbie frignava perché
voleva la sorella, entrò nella stanza di Krystal e mandò all’aria tutti i suoi vestiti in cerca di soldi e
di una sigaretta dimenticata. Quando buttò da parte la divisa da canottaggio, sentì qualcosa
cadere per terra e vide il piccolo portagioie di plastica aperto, con la medaglia che Krystal aveva
vinto e, sotto, l’orologio di Tessa Wall.
Raccolse l’orologio e lo guardò bene. Non lo aveva mai visto prima. Chissà dove lo aveva preso, si
chiese. La prima cosa che le venne in mente fu che lo aveva rubato, ma poi pensò che magari
glielo aveva regalato nonna Cath, o addirittura lasciato nel testamento. Era un pensiero molto più
sgradevole che se l’avesse rubato. L’idea di quella stronzetta viscida che lo nascondeva, lo teneva
per sé senza nemmeno parlarne...
Si mise l’orologio nella tasca dei pantaloni della tuta e gridò a Robbie di venire da lei per uscire a
fare la spesa. Ci volle una vita per fargli mettere le scarpe; Terri perse la calma e gli tirò una
sberla. Avrebbe preferito andarci da sola, al negozio, ma alle assistenti sociali non piaceva che si
lasciassero i bambini a casa da soli, anche se si faceva molto prima senza di loro.
«Dov’è Krystal?» piagnucolò Robbie, mentre lei lo trascinava fuori dalla porta. «Voglio Krystal!»
«Non so dov’è quella troietta» sbottò Terri, tirandolo per la strada.
Obbo era all’angolo del supermercato a parlare con due uomini. Quando la vide alzò la mano per
salutarla e i suoi due compagni se ne andarono.
«Come va, Ter?» disse.
«Non c’è male» mentì lei. «Robbie, molla.»
Lui teneva le dita affondate nella sua gamba, così forte da far male.
«Senti» fece Obbo, «puoi tenermi della roba per un po’?»
«Che roba?» chiese Terri; si strappò Robbie dalla gamba e lo prese per mano.
«Un paio di borse. Mi fai un grande favore, Ter.»
«Per quanto?»
«Qualche giorno. Te le porto stasera, eh?»
Terri pensò a Krystal e a cosa avrebbe detto se l’avesse saputo.
«Va bene, dai» disse.
Poi le venne in mente qualcos’altro e tirò fuori dalla tasca l’orologio di Tessa. «Lo volevo vendere,
che ne dici?»
«Mica male» commentò Obbo, soppesandolo. «Ti do venti. Te le porto stasera?»
Terri pensava che l’orologio valesse di più, ma non aveva voglia di contraddirlo.
«Sì, va bene.»
Fece qualche passo verso l’entrata del supermercato, con Robbie per mano, ma poi si voltò.
«Guarda che però non mi faccio» disse. «Non portarmi...»
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«Ancora col miscuglio?» domandò lui, con uno sguardo sornione dietro le lenti spesse. «Guarda
che Bellchapel chiude. Lo dice il giornale.»
«Sì» rispose lei tristemente, tirando Robbie verso l’entrata. «Lo so.»
Non ci vado a Pagford, pensò prendendo i biscotti dallo scaffale. Non ci vado.
Si era quasi assuefatta alle critiche, ai giudizi, alle occhiate di traverso dei passanti, agli insulti dei
vicini, ma non sarebbe andata in quel paesello arrogante per chiederne ancora; per tornare
indietro nel tempo, una volta alla settimana, in quel posto dove nonna Cath le aveva promesso di
tenerla con sé e invece l’aveva lasciata andar via. Sarebbe dovuta passare davanti a quella
scuoletta tanto carina che le aveva scritto cose orribili su Krystal, dei suoi vestiti troppo stretti e
troppo sporchi, della condotta inaccettabile. Aveva paura di veder spuntare da Hope Street
parenti dimenticati che litigavano per la casa di nonna Cath, e di cosa avrebbe detto Cheryl se
avesse saputo che Terri andava da quella stronza di pachistana che aveva ammazzato nonna
Cath. Un altro punto a suo sfavore, nella famiglia che già la disprezzava.
«Non mi ci faranno andare, in quel posto di merda» borbottò ad alta voce, tirando Robbie verso
le casse.
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II
«Sei pronto?» lo prese in giro Howard Mollison a mezzogiorno di sabato. «La mamma sta per
pubblicare i risultati sul sito. Vuoi aspettare che sia di dominio pubblico o te lo dico adesso?»
Miles girò istintivamente le spalle a Samantha, che era seduta di fronte a lui, in cucina. Stavano
bevendo un ultimo caffè prima che lei e Libby uscissero per andare alla stazione e di lì a Londra
per il concerto. Con il ricevitore premuto contro l’orecchio, disse: «Vai.»
«Hai vinto. Con ampio margine. Quasi il doppio dei voti di Wall.»
Miles sorrise verso la porta della cucina.
«Bene» commentò, sforzandosi di controllare la voce. «Buono a sapersi.»
«Aspetta. La mamma ti vuole parlare.»
«Complimenti, tesoro» cinguettò Shirley. «È una notizia meravigliosa. Sapevo che ce l’avresti
fatta.»
«Grazie, mamma» rispose Miles.
Quelle due parole spiegarono tutto a Samantha, che però aveva già deciso di non mostrarsi acida
né sarcastica. In borsa aveva la T-shirt della band; era andata dal parrucchiere e si era comprata
delle scarpe col tacco nuove. Non vedeva l’ora di partire.
«Consigliere Mollison, dunque?» chiese, quando lui riagganciò.
«Già» confermò lui, un po’ circospetto.
«Congratulazioni. Stasera sarà festa doppia, allora. Mi dispiace non esserci, in effetti» mentì,
lasciandosi trasportare dall’entusiasmo per la fuga imminente. Toccato, Miles si chinò a
prenderle la mano.
Libby entrò in cucina in lacrime. Stringeva il cellulare in mano.
«Che c’è?» domandò Samantha, sobbalzando.
«Per favore, puoi chiamare la mamma di Harriet?»
«Perché?»
«Per favore.»
«Ma perché, Libby?»
«Perché ti vuole parlare, perché» – Libby si passò il dorso della mano sugli occhi e sul naso – «io e
Harriet abbiamo litigato. Per favore, la chiami?»
Samantha portò il telefono in soggiorno. Aveva solo una vaga idea di chi fosse quella donna. Da
quando le ragazze avevano cominciato la scuola superiore, non aveva praticamente avuto più
contatti con i genitori dei loro amici.
«Mi dispiace tantissimo di dover fare questa cosa» cominciò la madre di Harriet. «Ho detto a mia
figlia che ti avrei parlato perché... io gliel’ho spiegato che non è che Libby non la voglia portare al
concerto... lo sai quanto sono amiche, e non posso vederle così...»
Samantha guardò l’ora. Massimo dieci minuti e dovevano uscire.
«Harriet si è messa in testa che Libby ha un biglietto in più ma non la vuole portare. Le ho detto
che non è vero: un biglietto lo usi tu perché non vuoi che Libby ci vada da sola, non è così?»
«Be’, è chiaro» rispose Samantha «che non può andarci da sola.»
«Lo sapevo» disse l’altra donna. Aveva un tono stranamente trionfante. «E ti capisco
perfettamente, e non te lo proporrei mai se non pensassi di risparmiarti un fastidio. Il fatto è che
le ragazze sono così amiche... e Harriet va pazza per quella stupida band... e penso, da quello che
ha appena detto a Harriet, che anche a Libby farebbe piacere andarci con Harriet. Capisco
benissimo che vuoi tenere d’occhio Libby, ma mia sorella ci va con le sue due figlie, quindi ci
sarebbe comunque un adulto con loro. Io posso accompagnare Libby e Harriet oggi pomeriggio, ci
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incontriamo con le altre fuori dallo stadio e poi andiamo a dormire a casa di mia sorella. Ti
prometto che o mia sorella o io saremo sempre con Libby.»
«Be’... grazie, sei molto gentile. Ma la mia amica» disse Samantha, con uno strano ronzio nelle
orecchie, «ci aspetta, sai...»
«Ma se vuoi andare lo stesso a trovare la tua amica... Dico solo che non c’è bisogno che tu vada al
concerto, se c’è qualcun altro con le ragazze, giusto?... E Harriet è disperata, davvero disperata...
Io non volevo immischiarmi, ma ora questa storia sta sciupando la loro amicizia...»
Poi, in tono meno esuberante: «Naturalmente ti rimborseremo il biglietto.»
Nessun posto dove andare, nessun posto dove nascondersi.
«Oh» disse Samantha. «Sì. Pensavo solo che sarebbe stato carino andare con lei...»
«Preferiscono senz’altro andarci insieme» affermò la madre di Harriet, con sicurezza. «E così non
dovrai startene lì tutta china per nasconderti in mezzo a quelle bambine, ah ah... Per mia sorella
non è un problema, è alta uno e cinquantasette.»
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III
Con suo grande disappunto, Gavin scoprì che alla fine gli toccava andare alla festa di Howard
Mollison. Se Mary, cliente dello studio e vedova del suo migliore amico, gli avesse chiesto di
restare a cena, lui l’avrebbe considerata una scusa più che valida per saltare la festa... Ma Mary
non glielo aveva chiesto. Aveva dei parenti in visita, e gli era sembrata stranamente nervosa
quando si era presentato a casa sua.
Non vuole che lo sappiano, pensò, rassicurato dall’imbarazzo con cui lo aveva accompagnato alla
porta.
Tornò alla Fucina, ripensando alla conversazione con Kay.
Credevo che fosse il tuo migliore amico. È morto poche settimane fa!
Sì, e io l’ho aiutata per Barry, ribatté mentalmente, che è quel che lui avrebbe voluto. Né lei né io
ci aspettavamo che succedesse. Barry è morto. Non gli può più fare alcun male.
Alla Fucina cercò un completo pulito per la festa, perché l’invito parlava di abbigliamento
formale, e intanto cercava di immaginare la piccola, pettegola Pagford che si crogiolava nella
storia di Gavin e Mary.
E allora? pensò, sorpreso della propria audacia. Dovrebbe restare da sola per sempre? Sono cose
che capitano. Io la stavo aiutando.
E, pur non avendo alcuna voglia di partecipare a una festa sicuramente noiosa ed estenuante,
sentì dentro di sé qualche bollicina di euforia e felicità.
Su a Casa Bellavista, Andrew Price si stava sistemando i capelli con il fon di sua madre. Non era
mai stato tanto impaziente di andare a una festa quanto quella sera. Howard lo aveva assoldato,
insieme a Gaia e Sukhvinder, per servire da mangiare e da bere al suo compleanno. Gli aveva
anche procurato un’uniforme: camicia bianca, pantaloni neri e cravattino a farfalla. Avrebbe
lavorato insieme a Gaia, non come garzone ma come cameriere.
Ma nella sua agitazione c’era molto di più. Gaia aveva rotto con il leggendario Marco de Luca.
Quel pomeriggio, uscito a fumarsi una sigaretta, l’aveva trovata in lacrime nel retro del Bricco di
Rame.
«Peggio per lui» le aveva detto, cercando di non lasciar trapelare la felicità.
E lei aveva tirato su col naso e aveva mormorato: «Grazie, Andy.»
«Che fighetta» disse Simon, quando Andrew finalmente spense il fon. Erano già parecchi minuti
che aspettava di dirlo, fermo sul pianerottolo buio a guardare dalla porta aperta Andrew che si
lisciava davanti allo specchio. Andrew sobbalzò, poi rise. Il suo buonumore colse Simon di
sorpresa.
«Ma guardati» lo schernì, quando lui gli passò davanti in camicia e papillon. «Con quel farfallino
del cazzo. Sembri un coglione.»
E tu sei disoccupato, e sono stato io, testa di cazzo.
I sentimenti di Andrew riguardo a quel che aveva fatto a suo padre cambiavano quasi di ora in
ora. Certe volte il senso di colpa lo schiacciava, gettandolo nello sconforto, ma poi svaniva,
lasciandolo a crogiolarsi nel suo segreto trionfo. Quella sera, il pensiero del suo gesto
intensificava l’euforia che già bruciava sotto la sua sottile camicia bianca, aggiungeva un brivido
alla pelle d’oca provocata dall’aria della sera, mentre sfrecciava sulla bici da corsa di Simon giù
per la collina, verso il paese. Era esaltato e pieno di speranza. Gaia era disponibile e vulnerabile.
Suo padre viveva a Reading.
Arrivato davanti alla sala parrocchiale, vide Shirley Mollison in abito da sera, che legava alle
ringhiere degli enormi palloncini dorati a forma di cinque e di sei.
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«Ciao, Andrew» trillò lei. «Via la bici dall’ingresso, per favore.»
La portò all’angolo della strada. A pochi metri dall’ingresso era parcheggiata una BMW
decappottabile nuova di zecca, color verde foresta. Tornando verso il portone, Andrew girò
attorno al bolide, ammirandone gli interni di lusso.
«Ah, ecco Andy!»
Andrew capì immediatamente che il buonumore e l’entusiasmo del suo capo erano pari ai suoi.
Howard stava attraversando a grandi passi la sala, con addosso un immenso smoking di velluto;
sembrava un prestigiatore. C’erano solo altre cinque o sei persone sparse per la sala: mancavano
ancora venti minuti all’inizio della festa. Palloncini azzurri, bianchi e dorati erano stati legati
ovunque. C’era un enorme tavolo su cavalletti, in gran parte occupato da vassoi coperti da
tovagliette, e in fondo alla sala un dj di mezza età stava sistemando la sua attrezzatura.
«Andy, per favore, vai ad aiutare Maureen.»
Maureen stava sistemando i bicchieri a un capo del lungo tavolo, illuminata dalla luce sgargiante
di una lampada sopra la sua testa.
«Ma come siamo belli!» gli gracchiò.
Lei indossava un risicatissimo vestito di stretch lucido che svelava ogni curva di quel corpo ossuto,
al quale erano rimasti inopinatamente attaccati rotolini e cuscinetti di carne, messi in risalto dalla
stoffa impietosa. Da qualche parte, fuori dalla sua visuale, Andrew udì un debole «Ciao»; Gaia era
china sopra uno scatolone di piatti sul pavimento.
«I bicchieri fuori dalle scatole, per favore» gli ordinò Maureen. «Sistemali qui, dove ci sarà il bar.»
Lui ubbidì. Mentre apriva la cassa, si avvicinò una donna che non aveva mai visto, carica di
bottiglie di champagne.
«Queste dovrebbero andare in frigo, se c’è.»
Aveva il naso dritto di Howard, i suoi stessi grandi occhi azzurri, i suoi stessi capelli ricci e biondi,
ma mentre in lui quei lineamenti, arrotondati dal grasso, sembravano quasi effeminati, sua figlia
(doveva per forza essere sua figlia), pur non essendo una bellezza, tuttavia faceva colpo, con le
sopracciglia basse, gli occhi grandi e la fossetta nel mento. Indossava pantaloni e una camicia di
seta con il colletto aperto. Mollate le bottiglie sul tavolo se ne andò. Il modo di fare e qualcosa
nell’abbigliamento diedero a Andrew la certezza che fosse la proprietaria della BMW lì fuori.
«Quella è Patricia» gli sussurrò Gaia all’orecchio, e lui sentì un formicolio sulla pelle simile a una
scarica elettrica. «La figlia di Howard.»
«Sì, l’avevo immaginato» rispose lui, ma era molto più interessato a guardare Gaia che svitava il
tappo di una bottiglia di vodka e se ne versava un bicchierino. Lo bevve tutto d’un fiato, con un
piccolo brivido. Aveva appena rimesso il tappo quando Maureen ricomparve accanto a loro con
un secchiello di ghiaccio.
«Vecchia baldracca» commentò Gaia, quando Maureen si fu allontanata. Andrew sentì l’alcol nel
suo fiato. «Guarda come s’è conciata.»
Lui rise, poi si voltò e smise di colpo, perché Shirley era accanto a loro con il suo sorriso falso.
«La signorina Jawanda non è ancora arrivata?» chiese.
«Sarà qui a minuti, mi ha appena mandato un messaggio» rispose Gaia.
Ma a Shirley non importava niente di dove fosse Sukhvinder. Sentire lo scambio di battute tra
Andrew e Gaia le aveva restituito il buonumore, che era stato intaccato dall’evidente
compiacimento di Maureen per la propria mise. Era difficile trovare un modo soddisfacente di
smontare un’autostima così ottusa, così ingiustificata, ma allontanandosi dai ragazzi per andare
verso il dj, Shirley pensò a cosa avrebbe detto a Howard la prossima volta che fossero stati soli.
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Temo che i ragazzi, ecco... stessero ridendo di Maureen... è un peccato che abbia messo quel
vestito... Mi dispiace che si renda così ridicola.
C’erano molte ragioni per essere soddisfatti, si disse Shirley, che aveva bisogno di tirarsi un po’
su. Lei, Howard e Miles sarebbero stati insieme nel Consiglio; sarebbe stato meraviglioso,
assolutamente meraviglioso.
Verificò che il dj sapesse che la canzone preferita di Howard era The Green, Green Grass of Home,
nella versione di Tom Jones, e si guardò intorno in cerca di altri lavoretti da fare: e invece lo
sguardo le cadde sul motivo per cui la sua felicità, quella sera, non aveva raggiunto la perfezione
che si era aspettata.
Patricia era sola, guardava le insegne di Pagford alla parete e non si sforzava minimamente di fare
conversazione. Shirley avrebbe voluto vederla con una gonna, di tanto in tanto; ma almeno era
venuta da sola. Shirley aveva temuto che dalla BMW potesse scendere una seconda persona e
quell’assenza era già qualcosa.
Era sbagliato disprezzare i propri figli; si sarebbero dovuti amare incondizionatamente, anche se
non erano come si sarebbe voluto, anche se diventavano come quelle persone che per strada si
preferiva evitare cambiando marciapiede. Howard era di larghe vedute sulla questione; ci
scherzava perfino sopra, affabilmente, alle spalle di Patricia. Shirley non era mai arrivata a tanto
distacco. Si sentì obbligata ad andare da lei, nella vaga, inconscia speranza di attenuare quella
stranezza che temeva tutti potessero cogliere nel suo modo di vestirsi e di comportarsi.
«Vuoi bere qualcosa, tesoro?»
«Non ancora» rispose Patricia, sempre guardando le insegne di Pagford. «Ieri sera ho esagerato,
ho ancora un po’ di mal di testa. Siamo andate a bere con i colleghi di Melly.»
Shirley sorrise vagamente allo stemma.
«Melly sta bene, grazie» disse Patricia.
«Ah, bene» rispose Shirley.
«Bello, l’invito. Pat e ospite.»
«Mi dispiace, tesoro, ma è quello che si scrive per le persone... non sposate...»
«Ah, si fa così, eh? Be’, Melly non è voluta venire, dato che sull’invito non c’era nemmeno il suo
nome. Abbiamo litigato e ora sono qui da sola. Successone, eh?»
E piantò lì la madre, rimasta un po’ scossa, per andare al bar. Era sempre stata facile a grandi
accessi di collera, fin da piccola.
«È in ritardo, signorina Jawanda» disse Shirley, ricomponendosi, quando vide Sukhvinder venirle
incontro tutta agitata, quasi di corsa. Secondo Shirley, dopo quello che sua madre aveva detto a
Howard proprio lì, in quella sala, la ragazza mostrava una certa insolenza anche solo a farsi
vedere. La guardò affrettarsi verso Andrew e Gaia, e pensò di dire a Howard che avrebbero fatto
meglio a licenziarla. Non era molto sveglia e l’eczema che nascondeva sotto le maniche lunghe
della maglietta nera probabilmente rappresentava un problema igienico; Shirley si ripromise di
controllare sul suo sito di medicina preferito se non fosse contagioso.
Gli ospiti cominciarono ad arrivare puntualmente alle otto. Howard disse a Gaia di mettersi vicino
a lui a raccogliere i cappotti, perché voleva che tutti lo vedessero chiamarla per nome e darle
ordini, con quel vestitino nero e il grembiule merlettato. Ma i cappotti furono presto troppi
perché potesse portarli da sola e Howard dovette chiamare Andrew ad aiutarla.
«Frega una bottiglia» ordinò Gaia a Andrew, mentre appendevano i cappotti numero tre e
quattro in fondo al piccolissimo guardaroba, «e nascondila in cucina. Possiamo fare a turno per
andare a berci un sorso.»
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«Okay» disse Andrew, euforico.
«Gavin!» gridò Howard quando arrivò il socio di suo figlio, da solo, alle otto e mezzo.
«Kay non c’è, Gavin?» si affrettò a domandargli Shirley (Maureen era dietro il tavolo, a infilarsi un
paio di scarpe luccicanti col tacco a spillo, quindi non c’era molto tempo per batterla).
«No, purtroppo non ce l’ha fatta» rispose Gavin; poi, con sgomento, si trovò faccia a faccia con
Gaia, che aspettava di prendergli il cappotto.
«La mamma ce l’avrebbe fatta» disse Gaia con voce chiara e squillante, fulminandolo con lo
sguardo. «Ma Gavin l’ha mollata, non è vero, Gavin?»
Howard gli batté sulla spalla, fingendo di non aver sentito, e tuonò: «È un piacere vederti,
prenditi qualcosa da bere.»
Shirley si mostrò impassibile, ma quell’emozione non sarebbe passata tanto presto: salutò gli altri
ospiti ancora confusa e trasognata. Quando Maureen la raggiunse, trotterellando nel suo orribile
vestito, Shirley ebbe il piacere immenso di dirle, sottovoce: «C’è stata una scenetta molto
imbarazzante. Molto imbarazzante. Gavin e la madre di Gaia... santo cielo... se l’avessimo
saputo...»
«Cosa? Cos’è successo?»
Ma Shirley, assaporando lo squisito piacere di lasciare Maureen sulle spine, scosse la testa e
spalancò le braccia, perché nella sala erano entrati Miles, Samantha e Lexie.
«Eccolo! Il consigliere Miles Mollison!»
Samantha guardò Shirley e Miles abbracciarsi come da chilometri di distanza. Il brusco passaggio
dalla contentezza e dall’attesa trepidante allo choc e alla delusione aveva trasformato i suoi
pensieri in rumor bianco, che lei doveva contrastare per percepire il mondo esterno.
(Miles aveva detto: «È fantastico! Così puoi venire alla festa di papà, stavi proprio dicendo...»
«Sì» aveva risposto lei. «Lo so. Perfetto, no?»
Ma quando l’aveva vista vestita con i jeans e la T-shirt della band con la quale si era immaginata
per più di una settimana, era rimasto perplesso.
«È una festa.»
«Miles, è la sala parrocchiale di Pagford.»
«Lo so, ma sull’invito...»
«Vengo così.»)
«Ciao, Sammy» disse Howard. «Ma guardati. Non c’era bisogno di vestirsi così elegante.»
Ma il suo abbraccio fu lascivo come sempre, accompagnato da una pacca sul sedere fasciato nei
jeans.
Samantha rivolse a Shirley un sorriso freddo e tirato e le passò davanti per andare al bar. Una
voce maligna nella sua testa le diceva: ma cosa pensavi che sarebbe successo, al concerto? Cosa
speravi? Cosa volevi?
Niente. Divertirmi un po’.
Il sogno di braccia giovani e forti e di risate, che avrebbe dovuto trovare una catarsi quella sera; la
vita sottile di nuovo stretta da un braccio e il sapore del nuovo, dell’inesplorato: le sue fantasie
avevano perso le ali e precipitavano giù...
Volevo solo guardare.
«Ti trovo bene, Sammy.»
«Grazie, Pat.»
Non vedeva sua cognata da più di un anno.
Mi piaci più di chiunque altro della famiglia, Pat.
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Miles l’aveva raggiunta; baciò sua sorella.
«Come stai? Come sta Mel? Non è venuta?»
«No, non è voluta venire» rispose Patricia. Stava bevendo champagne, ma l’espressione faceva
quasi pensare che fosse aceto.
«L’invito diceva Pat e ospite... una litigata pazzesca. Uno a zero per la mamma.»
«Oh, Pat, dai» disse Miles con un sorriso.
«Oh, Pat dai un beneamato cazzo, Miles.»
Un piacere furioso si impadronì di Samantha: un pretesto per partire all’attacco.
«È un modo molto villano di invitare la compagna di tua sorella, Miles, e lo sai. A tua madre
servirebbe qualche lezione di buone maniere, se vuoi sapere come la penso.»
Sicuramente era ingrassato, nell’ultimo anno. Il colletto della camicia stringeva sul collo. L’alito gli
diventava pesante in fretta. E poi quel vizio di dondolarsi sulla punta dei piedi, come suo padre.
Samantha provò un’ondata di disgusto fisico e si allontanò verso l’altro capo del tavolo, dove
Andrew e Sukhvinder riempivano e distribuivano bicchieri.
«Avete gin tonic?» chiese Samantha. «Abbondante.»
Riconobbe a stento Andrew. Lui le versò il gin, cercando di non guardarle le tette, che la
maglietta non faceva nulla per contenere, ma era come cercare di non chiudere gli occhi in pieno
sole.
«Conosci?» chiese Samantha, dopo aver vuotato metà del bicchiere.
Andrew arrossì prima di riuscire a richiamare all’ordine i propri pensieri. Con suo sommo orrore,
Samantha scoppiò in una risatina sfacciata e puntualizzò: «La band. Parlo della band.»
«Sì... be’, li ho sentiti nominare. Ma non... non sono il mio genere.»
«Davvero?» fece lei, buttando giù il resto del cocktail. «Un altro, grazie.»
Le venne in mente chi era: il ragazzino scialbo del caffè. L’uniforme lo faceva sembrare più
grande. Magari un paio di settimane passate a sollevare pallet su e giù dalla cantina gli avevano
fatto mettere su un po’ di muscoli.
«Oh, guarda» disse Samantha, scorgendo una figura che si allontanava nella folla sempre più
numerosa, «c’è Gavin. Il secondo uomo più noioso di Pagford. Dopo mio marito, naturalmente.»
Si allontanò compiaciuta con il nuovo bicchiere in mano; il gin aveva colpito dove più ne aveva
bisogno, anestetizzando da un lato e stimolando dall’altro, e voltate le spalle a Andrew pensò: le
tette gli sono piaciute, vediamo che ne pensa del culo.
Gavin vide arrivare Samantha e cercò di evitarla unendosi a una conversazione, a caso; la persona
più vicina era Howard, e lui si insinuò velocemente nel gruppo che lo circondava.
«Ho rischiato» stava dicendo Howard ad altri tre uomini; agitava il sigaro e un po’ di cenere gli
era caduta sullo smoking. «Ho rischiato e ho sgobbato duro. Semplice. Niente formule magiche.
Nessuno mi ha... oh, ecco Sammy. Chi sono questi giovanotti, Samantha?»
Sotto lo sguardo di quattro uomini anziani che esaminavano il gruppo pop teso sul suo petto,
Samantha si voltò verso Gavin.
«Ciao» disse, sporgendosi in avanti e costringendolo a baciarla. «Kay non c’è?»
«No» tagliò corto Gavin.
«Si parlava di affari, Sammy» disse Howard allegramente e Samantha pensò al negozio, morto e
defunto. «Mi sono fatto da solo» dichiarò Howard al gruppo, riprendendo quello che era
chiaramente un tema già enunciato. «Non c’è altro da dire. Non serve altro. Mi sono fatto da
solo.»
Enorme e rotondo, era come un sole di velluto in miniatura, che irradiava soddisfazione e
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contentezza. Il suo tono di voce era già smorzato e addolcito dal brandy che teneva in mano. «Ero
pronto a rischiare... avrei potuto perdere tutto.»
«Be’, tua madre avrebbe potuto perdere tutto» lo corresse Samantha. «Hilda non ha ipotecato la
casa per darti metà della caparra per il negozio?»
Negli occhi di Howard passò un lampo, ma il sorriso restò dov’era.
«Sia reso merito a mia madre, allora» disse, «per aver lavorato, fatto economia e messo da parte,
e per aver aiutato suo figlio a costruire qualcosa nella vita. Io moltiplico quello che mi è stato
dato e lo restituisco alla famiglia... per esempio, pago la retta delle tue ragazze alla St Anne...
perciò vedi che tanto si dà, tanto si riceve, eh, Sammy?»
Da Shirley se lo sarebbe aspettato, ma non da Howard. Entrambi vuotarono il bicchiere e
Samantha guardò Gavin allontanarsi senza cercare di fermarlo.
Gavin si stava chiedendo se non poteva tagliare la corda senza dare nell’occhio. Era nervoso, e il
rumore peggiorava le cose. Dal momento in cui aveva incontrato Gaia alla porta, un’idea orribile
si era impadronita di lui. E se Kay avesse raccontato tutto alla figlia? Se la ragazza sapesse che lui
era innamorato di Mary Fairbrother e lo avesse raccontato ad altri? Sarebbe stato tipico di una
sedicenne desiderosa di vendetta.
L’ultima cosa che voleva era che a Pagford si spargesse la notizia del suo amore prima che Mary
lo sapesse da lui. Aveva pensato di aspettare qualche mese a dirglielo, magari un anno... di lasciar
passare il primo anniversario della morte di Barry... e nel frattempo coltivare quei piccoli
germogli di fiducia e affetto che già erano spuntati, perché si insinuasse gradualmente in lei la
consapevolezza di quel sentimento, com’era successo a lui...
«Non hai niente da bere, Gav!» disse Miles. «Bisogna rimediare!»
E con piglio deciso condusse il socio al bar e gli versò una birra, senza mai smettere di parlare e,
come Howard, spirando un’aura quasi visibile di orgoglio e felicità.
«Hai sentito che sono stato eletto?»
Gavin non aveva sentito, ma non ebbe la forza di fingersi sorpreso.
«Sì. Congratulazioni.»
«Mary come sta?» chiese Miles, in tono premuroso; quella sera era amico di tutta la città, perché
la città lo aveva scelto. «Se la cava?»
«Sì, credo...»
«Ho sentito dire che sta pensando di trasferirsi a Liverpool. Forse è la cosa migliore.»
«Cosa?» chiese Gavin, con un po’ troppa forza.
«Me lo diceva Maureen stamattina; pare che la sorella di Mary stia cercando di convincerla a
tornare a casa con i ragazzi. Ha ancora molti parenti a Liver...»
«Ma è questa casa sua.»
«Credo che fosse Barry ad amare Pagford. Non sono sicuro che Mary voglia restare qui senza di
lui.»
Gaia stava osservando Gavin dallo spiraglio della porta della cucina. Stringeva in mano un
bicchiere di plastica nel quale aveva versato parecchie dita della vodka rubata da Andrew.
«Che bastardo» disse. «Saremmo ancora a Hackney, se non avesse preso per il culo mia madre.
Lei è una cogliona. Si capiva benissimo che non gliene fregava niente di lei. Non la portava mai
fuori. Non vedeva l’ora di andarsene, dopo che avevano scopato.»
Andrew, che stava impilando altri panini su un vassoio quasi vuoto alle sue spalle, stentava a
credere che stesse usando parole come ‘scopato’.La Gaia che abitava le sue chimere era una
vergine avventurosa e dalla grande inventiva sessuale. Non sapeva che cosa avesse o non avesse
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fatto con Marco de Luca la Gaia della realtà. Se aveva dato quel giudizio su sua madre, significava
che sapeva come si comportavano gli uomini dopo il sesso, quand’erano interessati...
«Bevi qualcosa» disse lei, quando Andrew si avvicinò alla porta con il vassoio. Gli accostò alle
labbra il suo bicchiere di plastica e lui bevve un po’ di vodka. Ridacchiando, Gaia indietreggiò per
farlo passare. «Di’ a Sooks di venire a farsi un cicchetto!» gli disse.
In sala c’era una gran folla e un gran baccano. Andrew posò sul tavolo i panini freschi, ma
nessuno ormai sembrava interessato a mangiare; Sukhvinder non riusciva a star dietro alle
richieste al bar e molti avevano cominciato a servirsi da soli.
«Gaia ti vuole in cucina» le disse Andrew, prendendo il suo posto. Non aveva senso cercare di
fare il barista; riempì tutti i bicchieri che riuscì a trovare e li lasciò sul tavolo perché la gente si
servisse.
«Ciao, Nocciolina!» disse Lexie Mollison. «Mi dai un po’ di champagne?»
Erano stati compagni di scuola alla St Thomas, ma non la vedeva da un’eternità. Aveva cambiato
accento, da quando andava alla St Anne. Andrew odiava essere chiamato Nocciolina.
«È lì davanti a te» disse, indicandoglielo.
«Lexie, tu non bevi» scattò Samantha, sbucando dalla folla. «Non se ne parla proprio.»
«Ma il nonno ha detto...»
«Non mi interessa.»
«Ma tutti gli altri...»
«Ho detto di no!»
Lexie si allontanò pestando i piedi. Andrew, felice che se ne fosse andata, sorrise a Samantha e
rimase sorpreso quando lei gli restituì il sorriso, raggiante.
«Tu rispondi ai tuoi genitori?»
«Certo» disse lui, e lei rise. Aveva delle tette veramente enormi.
«Signore e signori!» tuonò una voce al microfono e tutti tacquero per ascoltare Howard. «Volevo
dire due parole... Molti di voi probabilmente sanno che mio figlio Miles è appena stato eletto al
Consiglio locale!»
Ci furono degli applausi e Miles sollevò il bicchiere bene in alto per ringraziare. Andrew sussultò
quando sentì Samantha dire, sottovoce ma molto chiaramente: «’sti cazzi.»
In quel momento non stava arrivando nessuno a prendere da bere. Andrew tornò in cucina. Gaia
e Sukhvinder erano sole, bevevano e ridevano, e quando videro Andrew gridarono entrambe:
«Andy!»
Anche lui rise.
«Siete sbronze tutt’e due?»
«Sì» disse Gaia e «No» disse Sukhvinder. «Lei sì, però.»
«Me ne frego» dichiarò Gaia. «Mollison mi può anche licenziare, se vuole. Non ho più bisogno di
mettere da parte i soldi per il biglietto per Hackney.»
«Non ti licenzierà» disse Andrew, versandosi un po’ di vodka. «Sei la sua preferita.»
«Già» disse Gaia. «Vecchio bavoso.»
Risero di nuovo tutti e tre.
Attraverso le porte di vetro, amplificata dal microfono, arrivò la voce gracchiante di Maureen.
«Dai, Howard! Avanti... un duetto per il tuo compleanno! Signore e signori... la canzone preferita
di Howard!»
I ragazzi si scambiarono un’occhiata di orrore e attrazione insieme. Gaia, incespicando, si avvicinò
alla porta e con un risolino l’aprì.
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Risuonarono i primi accordi di The Green, Green Grass of Home, poi la voce da basso di Howard e
la roca voce di contralto di Maureen intonarono:
The old home town looks the same,
As I step down from the train...
6
Gavin fu l’unico a udire le risatine e gli sbuffi per reprimerle, ma quando si voltò vide solo le
doppie porte della cucina che dondolavano sui cardini.
Miles era andato a chiacchierare con Aubrey e Julia Fawley, che erano arrivati in ritardo,
accompagnati dai loro sorrisi educati. Gavin era in preda a un familiare miscuglio di paura e ansia.
La breve boccata di libertà e felicità era stata oscurata da una doppia minaccia: Gaia, che poteva
raccontare in giro quel che lui aveva detto a sua madre, e Mary, che forse avrebbe lasciato
Pagford per sempre. Cosa doveva fare?
Down the lane I walk, with my sweet Mary,
Hair of gold and lips like cherries...
7
«Kay non c’è?»
Era arrivata Samantha; era appoggiata al tavolo accanto a lui, con un sorriso beffardo.
«Me l’hai già chiesto» rispose Gavin. «No.»
«Fra voi tutto bene?»
«Sono affari tuoi?»
Gli era sfuggito di bocca; ne aveva abbastanza di farsi prendere in giro da lei e sorbirsi le sue
continue provocazioni. Una volta tanto erano soli; Miles era ancora impegnato con i Fawley.
Samantha caricò un po’ la reazione di sorpresa. Aveva gli occhi venati di sangue e parlava con una
certa lentezza; per la prima volta, Gavin provò più disprezzo che soggezione.
«Be’, scusa. Stavo solo...»
«Chiedendo, sì» disse lui, mentre Howard e Maureen ondeggiavano tenendosi a braccetto.
«Mi piacerebbe vederti sistemato. Tu e Kay sembravate stare bene insieme.»
«Be’, a me piace la libertà» ribatté Gavin. «Non conosco molte coppie felicemente sposate.»
Samantha aveva bevuto troppo per sentire tutta la forza della frecciata, ma ebbe l’impressione di
averne ricevuta una.
«I matrimoni sono sempre un mistero, visti da fuori» rispose, cauta. «Nessuno può sapere
davvero come stanno le cose, tranne le due persone coinvolte. Perciò, Gavin, non dovresti
giudicare.»
«Grazie dell’analisi» disse lui, e irritato oltre il limite della sopportazione posò la lattina di birra
vuota e andò verso il guardaroba.
Samantha lo guardò allontanarsi, certa di aver vinto l’incontro, e spostò l’attenzione su sua
suocera, che vedeva da un varco tra la folla e a sua volta guardava Howard e Maureen cantare.
Samantha assaporò la rabbia di Shirley, espressa dal sorriso più freddo e tirato che le aveva visto
in tutta la serata. Howard e Maureen si erano esibiti insieme molto spesso nel corso degli anni;
Howard amava cantare e Maureen aveva fatto la vocalist in una piccola band locale. Quando la
canzone finì, Shirley batté le mani una sola volta, come per chiamare un lacchè; Samantha rise
forte e andò al bar, dove rimase delusa di non trovare il ragazzo col cravattino.
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Andrew, Gaia e Sukhvinder erano ancora in cucina a spanciarsi dal ridere. Ridevano per il duetto
di Howard e Maureen e perché avevano finito due terzi della vodka, ma ridevano soprattutto per
il gusto di ridere, alimentando l’uno la risata dell’altro, fin quasi a non reggersi più in piedi.
La finestrella sopra il lavello, tenuta aperta in modo che la cucina non si riempisse di vapore,
vibrò sotto un colpo, e apparve la testa di Ciccio.
«’Sera» disse. Evidentemente era arrampicato su qualcosa, perché si sentì un gran raspare
seguito dal tonfo di un oggetto pesante, dopodiché il corpo di Ciccio sporse sempre più dalla
finestra, finché non atterrò pesantemente sullo sgocciolatoio, facendo cadere un bel po’ di
bicchieri per terra, dove si frantumarono.
Sukhvinder uscì immediatamente dalla cucina. Andrew capì subito che non voleva Ciccio lì. Solo
Gaia restò imperturbabile. Senza smettere di ridacchiare, disse: «C’è anche una porta, sai.»
«Ma va’?» fece Ciccio. «Che si beve?»
«Questa è nostra» disse Gaia, stringendo la bottiglia di vodka fra le braccia. «L’ha fregata Andy.
Se ne vuoi una dovrai andare a prendertela.»
«Non c’è problema» rispose tranquillamente Ciccio, e uscì dalla sala.
«Vado in bagno...» mormorò Gaia; rimise la bottiglia di vodka sotto il lavello e uscì anche lei dalla
cucina.
Andrew li seguì. Sukhvinder era tornata al bar, Gaia stava scomparendo nei bagni e Ciccio era
appoggiato al tavolo con una birra in una mano e un panino nell’altra.
«Non pensavo di vederti» disse Andrew.
«Sono stato invitato» rispose Ciccio. «Era sull’invito. Tutta la famiglia Wall.»
«Cubicolo sa che sei qui?»
«Boh. È tappato in casa. Alla fine non ha avuto il seggio di Barry. Il tessuto sociale si sfascerà, ora
che non c’è Cubicolo a tenerlo insieme. Porca troia, che schifo» aggiunse, sputando un boccone
di panino. «Sigaretta?»
C’era tanto di quel rumore in sala e gli ospiti erano così ubriachi che nessuno sembrava più
curarsi di dove andasse Andrew. Quando uscirono, trovarono Patricia Mollison, da sola accanto
alla sua auto sportiva, che fumava guardando il limpido cielo stellato.
«Prendete una di queste» disse, offrendo il suo pacchetto, «se volete.»
Dopo che gliele ebbe accese, infilò una mano nella tasca dei pantaloni. C’era qualcosa in lei che
metteva Andrew in soggezione; non riusciva nemmeno a guardare che faccia faceva Ciccio.
«Io sono Pat» disse lei dopo un po’. «La figlia di Howard e Shirley.»
«Ciao» disse Andrew. «Io sono Andrew.»
«Stuart» disse Ciccio.
Pat non sembrava sentire il bisogno di prolungare la conversazione. Andrew lo prese come una
sorta di complimento e cercò di imitare la sua indifferenza. Il silenzio fu rotto dai passi e dalle voci
soffocate delle ragazze.
Gaia stava trascinando fuori Sukhvinder per mano. Stava ridendo, e Andrew capì che la vodka
non aveva ancora finito di fare il suo effetto.
«Tu» disse Gaia a Ciccio, «fai lo stronzo con Sukhvinder.»
«Smettila» si lagnava Sukhvinder tirando Gaia per la mano. «Sul serio... lasciami...»
«È vero!» proseguì Gaia senza fiato. «È vero! Hai messo tu quelle cose su Facebook?»
«Smettila!» gridò Sukhvinder. Si divincolò e tornò di corsa alla festa.
«Sei un vero stronzo» insisté Gaia, afferrandosi alla ringhiera per tenersi in piedi. «Dici che è una
lesbica e...»
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«Non c’è niente di male a essere lesbica» osservò Patricia, stringendo gli occhi mentre aspirava il
fumo. «Naturalmente non posso essere obiettiva.»
Andrew vide che Ciccio le lanciava un’occhiata di traverso.
«Non ho mai detto che ci fosse qualcosa di male. È solo per ridere» disse.
Gaia scivolò giù lungo la ringhiera e si sedette sul pavimento gelido, con la testa fra le braccia.
«Stai bene?» le chiese Andrew. Se non ci fosse stato Ciccio, si sarebbe seduto vicino a lei.
«Sbronza» mormorò lei.
«Ti farebbe bene ficcarti due dita in gola» suggerì Patricia, serenamente.
«Bella macchina» commentò Ciccio, guardando la BMW.
«Sì» disse Patricia. «È nuova. Faccio il doppio dei soldi di mio fratello, ma Miles è l’Unto del
Signore. Miles il Messia... Consigliere locale Mollison II... di Pagford. Ti piace Pagford?» chiese a
Ciccio, mentre Andrew osservava Gaia respirare a fondo con la testa fra le ginocchia.
«No» disse Ciccio. «È un posto di merda.»
«Sì, be’... anch’io non vedevo l’ora di andarmene. Conoscevi Barry Fairbrother?»
«Un po’.»
Qualcosa nel tono di Ciccio fece preoccupare Andrew.
«Era quello che mi aiutava a leggere alla St Thomas» disse Patricia, con gli occhi ancora fissi sulla
strada. «Una persona adorabile. Sarei tornata per i funerali, ma Melly e io eravamo a Zermatt.
Cos’è questa storia che appassiona tanto mia madre... il Fantasma di Barry?»
«Qualcuno che scrive delle cose sul sito del Consiglio» si affrettò a rispondere Andrew, per paura
di cosa avrebbe potuto raccontare Ciccio se l’avesse lasciato fare. «Pettegolezzi, roba così.»
«Sì, il genere di mia madre» commentò Patricia.
«Chissà cosa dirà il Fantasma la prossima volta?» chiese Ciccio, con un’occhiata in tralice a
Andrew.
«Probabilmente smetterà, ora che le elezioni sono passate» mormorò Andrew.
«Oh, non so» disse Ciccio. «Se ci sono ancora delle cose che lo fanno incazzare...»
Sapeva che Andrew si stava innervosendo e gli faceva piacere. Andrew ultimamente passava
tutto il tempo a fare quel lavoro del cazzo e tra poco si sarebbe trasferito. Ciccio non gli doveva
nulla. L’autenticità non poteva convivere con il senso di colpa e la riconoscenza.
«Stai bene, laggiù?» chiese Patricia a Gaia, che annuì, con il viso ancora nascosto. «Cos’è che ti ha
fatto star male, l’alcol o il duetto?»
Andrew rise un po’, per gentilezza e perché voleva tenere la conversazione lontana dal Fantasma
di Barry Fairbrother.
«Anche a me ha dato il voltastomaco» riprese Patricia. «La vecchia e mio padre che cantano
insieme. A braccetto.» Patricia diede un ultimo, lungo tiro alla sigaretta, poi gettò a terra la cicca
e la schiacciò sotto il tacco. «A dodici anni l’ho beccata che gli stava facendo un pompino» disse.
«Papà mi ha dato cinque sterline per non dirlo alla mamma.»
Andrew e Ciccio rimasero pietrificati, non osando nemmeno guardarsi l’un l’altro. Patricia si
asciugò il viso con il dorso della mano: stava piangendo.
«Non dovevo venire, cazzo» disse. «Lo sapevo che non dovevo venire.»
Salì sulla BMW e i due ragazzi restarono a guardarla sbalorditi accendere il motore, uscire in
retromarcia dal parcheggio e filare via nella notte.
«Minchia» disse Ciccio.
«Mi sa che mi viene da vomitare» sussurrò Gaia.
«Mollison vi vuole dentro... al bar.»
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Riferito il messaggio, Sukhvinder tornò di corsa in sala.
«Non ce la faccio» mormorò Gaia.
Andrew la lasciò lì. Quando aprì le porte interne fu investito dal frastuono nella sala. Le danze
erano in pieno svolgimento. Dovette farsi di lato per lasciar passare Aubrey e Julia Fawley.
Entrambi, con le spalle rivolte alla festa, se ne andavano con un’aria di arcigna felicità.
Samantha Mollison non stava ballando, ma era appoggiata al tavolo nel punto in cui, fino a poco
prima, c’erano state file e file di bicchieri pieni. Mentre Sukhvinder correva qua e là a raccogliere
bicchieri, Andrew aprì l’ultima cassa di quelli nuovi, li mise sul tavolo e li riempì.
«Hai il cravattino storto» gli disse Samantha, sporgendosi sopra il tavolo per raddrizzarlo.
Andrew, imbarazzato, sgattaiolò in cucina non appena lei lo lasciò andare. Dopo ogni carico di
bicchieri che infilava nella lavastoviglie, beveva un sorso della vodka che aveva rubato. Voleva
ubriacarsi come Gaia; voleva tornare a quel momento in cui avevano tanto riso insieme, prima
che arrivasse Ciccio.
Dieci minuti dopo controllò di nuovo il tavolo del bar e Samantha era ancora appoggiata lì, gli
occhi velati e un sacco di bicchieri pieni a sua disposizione. Howard ballonzolava in mezzo alla
pista, con il sudore che gli scorreva sul viso, ridendo come un pazzo a qualcosa che gli aveva detto
Maureen. Andrew si fece strada tra la folla e tornò fuori.
Sulle prime non la vide: poi li trovò. Gaia e Ciccio erano a una decina di metri dalla porta,
appoggiati alla ringhiera, stretti l’uno all’altra e con le lingue al lavoro.
«Senti, mi dispiace ma da sola non ce la faccio» disse disperatamente Sukhvinder alle sue spalle.
Poi vide Ciccio e Gaia ed emise qualcosa tra un grido e un singhiozzo. Andrew tornò nella sala con
lei, completamente istupidito. In cucina, versò in un bicchiere quel che restava della vodka e lo
buttò giù in un sorso. Aprì meccanicamente il rubinetto e si mise a lavare i bicchieri che nella
lavastoviglie non ci stavano.
L’alcol non era come l’erba. Lo faceva sentire vuoto, ma anche con una gran voglia di dare un
pugno a qualcuno: a Ciccio, per esempio.
Dopo un po’ si rese conto che l’orologio di plastica alla parete della cucina era passato dalla
mezzanotte all’una e la gente se ne stava andando.
Lui, in teoria, avrebbe dovuto restituire i cappotti. Ci provò per un po’, ma poi tornò in cucina,
lasciando Sukhvinder a sbrigarsela.
Samantha era appoggiata al frigorifero, da sola, con un bicchiere in mano. La visione di Andrew
era diventata curiosamente frammentaria, come una serie di fotogrammi. Gaia non era tornata.
Sicuramente se n’era andata via con Ciccio. Samantha gli stava parlando. Era ubriaca anche lei. La
sua presenza non lo imbarazzava più. Gli sembrava di dover vomitare da un momento all’altro.
«... mi fa schifo, Pagford...» diceva Samantha, «ma tu sei giovane, te ne puoi andare.»
«Sì» disse lui, che non si sentiva più le labbra. «E me ne andrò. Me ne andrò.»
Lei gli scostò i capelli dalla fronte e gli disse che era un tesoro. L’immagine di Gaia con la lingua
nella bocca di Ciccio minacciava di cancellare ogni altra cosa. Aspirò il profumo di Samantha, che
gli arrivava in ondate dalla pelle calda.
«Quel gruppo fa cagare» disse, indicandole il petto, ma non gli parve che lei ascoltasse.
Samantha aveva le labbra screpolate e calde, i seni enormi premuti contro il petto di Andrew, la
schiena larga quanto la sua...
«Ma che cazzo...?»
Andrew finì contro lo scolapiatti e Samantha fu trascinata fuori dalla cucina da un omone con i
capelli corti e brizzolati. Andrew aveva la vaga sensazione che fosse successo qualcosa di brutto,
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ma lo strano tremolio della realtà si faceva sempre più forte, finché l’unica cosa da fare fu
trascinarsi fino alla pattumiera e vomitare, vomitare, vomitare...
«Mi dispiace, non si può entrare!» sentì Sukhvinder gridare a qualcuno. «C’è della roba dietro la
porta!»
Andrew fece un nodo al sacchetto in cui aveva vomitato. Sukhvinder lo aiutò a ripulire la cucina.
Lui vomitò altre due volte, ma in entrambi i casi riuscì ad arrivare fino in bagno.
Erano quasi le due di notte quando Howard, sudato ma sorridente, li ringraziò e diede loro la
buonanotte.
«Ottimo lavoro» disse. «Allora ci vediamo domani. Molto bene... a proposito, dov’è la signorina
Bawden?»
Andrew lasciò a Sukhvinder il compito di inventarsi una bugia. Fuori, slegò la bicicletta di Simon e
si allontanò nell’oscurità, portando la bici a mano.
La lunga, fredda camminata fino a Casa Bellavista gli schiarì le idee, ma non fece nulla per lenire
l’amarezza e l’infelicità.
Aveva mai detto a Ciccio che gli piaceva Gaia? Forse no, ma Ciccio lo sapeva. Lui sapeva che Ciccio
sapeva... magari stavano scopando proprio in quel momento.
Tanto me ne vado, pensò Andrew, spingendo la bici su per la collina, curvo e tremante di freddo.
Fanculo tutti e due...
Poi pensò: Sì, meglio che me ne vada... Aveva limonato con la madre di Lexie Mollison? Suo
marito li aveva beccati? Era successo davvero?
Aveva paura di Miles, ma anche voglia di raccontare tutto a Ciccio e vedere la sua faccia...
Quando rientrò in casa, esausto, la voce di Simon gli arrivò dal buio della cucina.
«Hai messo la bici in garage?»
Era seduto al tavolo, a mangiare una scodella di cereali. Erano quasi le due e mezzo del mattino.
«Non riuscivo a dormire» disse Simon.
Una volta tanto non era arrabbiato. Ruth non c’era, perciò non doveva far vedere quant’era più
grosso e più furbo dei suoi figli. Sembrava piccolo e stanco.
«Mi sa che ce ne andiamo a Reading, Faccia di pizza» gli disse. Era quasi un vezzeggiativo.
Andrew tremava, si sentiva vecchio, scosso e immensamente in colpa. Pensò di fare un regalo a
suo padre per risarcirlo del danno che gli aveva procurato. Era giunto il momento di cambiare gli
equilibri e reclamare Simon come alleato. Erano una famiglia. Dovevano trasferirsi insieme. Forse
da un’altra parte sarebbe andata meglio.
«Devo farti vedere una cosa» disse. «Vieni di là. Ho scoperto a scuola come si fa...»
E lo portò al computer.
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IV
Un cielo azzurro e velato si stendeva come una cupola sopra Pagford e i Fields. La luce dell’alba
splendeva sul vecchio monumento ai caduti nella Piazza e sulle facciate di cemento screpolato di
Foley Road, e tingeva di oro pallido i muri bianchi di Casa Bellavista. Montando in macchina,
pronta a un altro lungo turno all’ospedale, Ruth Price guardò il fiume Orr, che splendeva come un
nastro d’argento in lontananza, e pensò quanto fosse ingiusto che la sua casa e la sua vista, tra
poco, sarebbero appartenute a qualcun altro.
Un chilometro più giù, in Church Row, Samantha Mollison dormiva ancora della grossa nella
stanza degli ospiti. La porta non si chiudeva a chiave, ma lei l’aveva sbarrata con una poltrona
prima di crollare semisvestita sul letto. Il sonno era turbato dal principio di un forte mal di testa e
da una fastidiosa secchezza in bocca; la lama di sole che entrava dalla fessura fra le tende le
colpiva come un raggio laser l’angolo di un occhio. Si scosse appena, nelle profondità del suo
torpore ansioso, pieno di sogni strani e colpevoli.
Al pianterreno, tra le superfici lucide e linde della cucina, Miles sedeva rigido e solo davanti a una
tazza di tè intatta, lo sguardo fisso sul frigorifero, gli occhi della mente che rivedevano sua moglie
ubriaca abbracciata a uno studente di sedici anni.
Tre case più in là, Ciccio Wall era disteso a letto a fumare, con addosso i vestiti indossati alla festa
di compleanno di Howard Mollison. Aveva deciso di restare sveglio tutta la notte e così aveva
fatto. La bocca era leggermente intorpidita da tutte le sigarette che aveva fumato; ma la
stanchezza aveva avuto l’effetto contrario a quello sperato: era incapace di pensare chiaramente,
ma il disagio e l’infelicità erano più acuti che mai.
Colin Wall si svegliò in un bagno di sudore da un altro degli incubi che lo tormentavano da anni.
In sogno aveva sempre fatto cose terribili, il genere di cose che passava le giornate a temere, e
stavolta aveva ucciso Barry Fairbrother; le autorità lo avevano appena scoperto ed erano venute
a dirgli che lo sapevano, che avevano riesumato Barry e trovato in lui il veleno che Colin gli aveva
somministrato.
Fissando le ombre familiari che il paralume gettava sul soffitto, Colin si stupì di non aver mai
preso in considerazione la possibilità di aver ucciso Barry e subito gli si presentò la domanda: Chi
ti dice che non l’hai fatto?
Al piano di sotto, Tessa si stava iniettando l’insulina nella pancia. Sapeva che Ciccio era tornato a
casa, la sera prima, perché sentiva l’odore del fumo di sigaretta in fondo alle scale che portavano
alla mansarda. Dove fosse stato e a che ora fosse tornato non lo sapeva, e la cosa la atterriva.
Come erano arrivati a questo punto?
Howard Mollison dormiva profondamente e felicemente nel suo letto doppio. Le tendine fantasia
lo avvolgevano di petali di rosa e lo proteggevano da un risveglio troppo brusco, ma il suo russare
affannato aveva svegliato la moglie. Shirley era in cucina a prendere il caffè con il pane tostato,
gli occhiali sul naso e la vestaglia di ciniglia addosso. Rivedeva Maureen ondeggiare a braccetto
con suo marito nella sala parrocchiale e provò un disgusto così intenso che toglieva il sapore a
ogni boccone.
Alla Fucina, qualche chilometro fuori da Pagford, Gavin Hughes si insaponava sotto la doccia
calda chiedendosi perché non avesse mai posseduto il coraggio di altri uomini e come facessero
gli altri a fare la scelta giusta tra un’infinità di alternative. Provava il desiderio di una vita che
aveva solo intravisto ma mai provato, e ne aveva paura. Scegliere era pericoloso: costringeva a
rinunciare a tutte le altre possibilità.
Kay Bawden era nel suo letto di Hope Street, sveglia ed esausta, ad ascoltare la quiete mattutina
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di Pagford e a guardare Gaia, addormentata accanto a lei nel letto matrimoniale, pallida e tirata
alla prima luce del giorno. Sul pavimento c’era un secchio, dalla parte della figlia: lo aveva messo
Kay, che quella notte, dopo averle tenuto i capelli fuori dal water per un’ora, aveva dovuta
portarla praticamente di peso dal bagno alla stanza da letto.
«Perché siamo venute qui?» aveva pianto Gaia, tossendo e vomitando nella tazza. «Lasciami.
Lasciami, cazzo... Ti odio.»
Kay guardava quel volto addormentato e pensava alla bellissima neonata che aveva dormito
accanto a lei, sedici anni prima. Pensava alle lacrime che aveva versato Gaia quando lei aveva
rotto con Steve, con cui aveva convissuto per otto anni. Steve aveva partecipato alle riunioni
scolastiche di Gaia e le aveva insegnato ad andare in bicicletta. Pensava alla fantasia che aveva
coltivato (col senno di poi, sciocca quanto quella di Gaia che a quattro anni voleva un unicorno) di
sistemarsi con Gavin e dare a Gaia, finalmente, un vero patrigno e una bella casa in campagna.
Quanto aveva desiderato un finale da favola e quanto aveva sperato di costruirsi una vita alla
quale Gaia potesse voler sempre tornare; perché il momento del distacco da sua figlia le stava
arrivando addosso come un meteorite e nell’assenza di Gaia vedeva la catastrofe che avrebbe
distrutto il suo mondo.
Allungò la mano sotto il piumone e prese quella di sua figlia. La sensazione di quel corpo caldo
che lei casualmente aveva dato alla luce la fece piangere, in silenzio, ma con tanta violenza da
scuotere il letto.
E in fondo a Church Row, Parminder Jawanda si infilò il cappotto sulla camicia da notte e si portò
il caffè in giardino. Seduta su una panchina di legno, alla luce fredda del sole, vide che
prometteva di essere una bella giornata, ma c’era come un ostacolo tra gli occhi e il cuore. Il peso
che le gravava sul petto cancellava ogni altra cosa.
La notizia che Miles Mollison aveva ottenuto il seggio di Barry al Consiglio locale non l’aveva
sorpresa, ma vedendo il piccolo, discreto annuncio di Shirley sul sito aveva provato un rigurgito di
quella stessa follia che l’aveva travolta all’ultima riunione: il desiderio di attaccare, quasi subito
sopraffatto da un’impotenza soffocante.
«Mi dimetterò dal Consiglio» aveva detto a Vikram. «Che senso ha?»
«Ma ti piace» aveva risposto lui.
Le piaceva quando c’era anche Barry. Era facile evocarlo quella mattina, quando tutto era
immobile e silenzioso. Un uomo basso, con la barba rossa; lei lo superava di mezza testa. Non
aveva mai sentito la minima attrazione fisica per lui. Cos’è l’amore, in fondo? pensò Parminder,
mentre una brezza leggera scompigliava l’alta siepe di cipressi di leyland che circondava l’ampio
giardino dei Jawanda. Se qualcuno riempiva in te un vuoto e quando non c’era più il vuoto si
riapriva, era amore?
Mi piaceva tanto ridere, pensò Parminder. Mi manca tanto, ridere.
E fu il ricordo delle risa che, alla fine, la fece piangere. Le lacrime colavano giù per il naso e
finivano nel caffè, dove facevano dei piccoli buchi che subito sparivano. Piangeva perché non
rideva più e anche perché la sera prima, mentre ascoltavano il frastuono della festa nella sala
parrocchiale, Vikram aveva detto: «E se andassimo ad Amritsar, quest’estate?»
Il Tempio d’Oro, il luogo più sacro della religione a cui Vikram era indifferente. Aveva capito
subito le intenzioni del marito. Davanti a lei il tempo si era improvvisamente dilatato, vuoto e
pigro, come mai prima nella sua vita. Nessuno sapeva che decisioni avrebbe preso l’Ordine dei
medici sulla sua violazione dell’etica deontologica nei confronti di Howard Mollison.
«Mandeep dice che è una trappola per turisti» aveva risposto lei, liquidando Amritsar in un
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attimo.
Perché l’ho detto? si chiese Parminder, piangendo più forte che mai in giardino, con in mano il
caffè che si raffreddava. Sarebbe bello far vedere Amritsar ai ragazzi. Vikram voleva solo essere
gentile. Perché non ho detto di sì?
Aveva l’oscura sensazione di aver tradito qualcosa, rifiutando il Tempio d’Oro. Tra le lacrime ne
vide la cupola a fior di loto riflessa in uno specchio d’acqua, color del miele sullo sfondo di marmo
bianco.
«Mamma.»
Sukhvinder aveva attraversato il prato senza che Parminder se ne accorgesse. Indossava i jeans e
una felpa sformata. Parminder si asciugò in fretta il viso e strinse gli occhi per guardare la figlia, in
controluce.
«Non voglio andare a lavorare, oggi.»
Parminder rispose subito, con lo stesso spirito di contraddizione automatico che le aveva fatto
respingere l’idea di Amritsar. «Hai preso un impegno, Sukhvinder.»
«Non sto bene.»
«Vorrai dire che sei stanca. Sei tu che hai voluto questo lavoro. Ora rispetta gli impegni.»
«Ma...»
«Tu vai al lavoro» disse Parminder, come pronunciando una sentenza. «Non darai ai Mollison un
altro motivo per lamentarsi.»
Quando Sukhvinder rientrò in casa, Parminder si sentì in colpa. Fu quasi sul punto di richiamarla,
ma invece si ripromise di trovare il tempo di parlare un po’ con lei senza litigare.
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V
Krystal camminava per Foley Road alla luce del primo mattino, mangiando una banana. Aveva un
sapore e una consistenza insolite, e non riusciva a decidere se le piaceva o no. Terri e Krystal non
compravano mai frutta.
La madre di Nikki l’aveva buttata fuori di casa senza tante cerimonie.
«Abbiamo da fare, Krystal» aveva detto. «Andiamo a pranzo dalla nonna di Nikki.»
Poi, ripensandoci, aveva offerto a Krystal la banana da mangiare per colazione. Krystal se n’era
andata senza protestare. Al tavolo della cucina c’era spazio a malapena per la famiglia di Nikki.
I Fields non miglioravano alla luce del sole, che metteva solo in risalto la sporcizia e i disastri, le
crepe nei muri, la spazzatura e le finestre sbarrate con le assi.
La Piazza di Pagford, invece, tutte le volte che c’era il sole sembrava dipinta di fresco. Due volte
all’anno i bambini delle elementari sfilavano lungo le vie del centro, in fila per due, diretti alla
chiesa per le messe di Natale e Pasqua. (Nessuno aveva mai voluto tenere Krystal per mano.
Ciccio aveva detto a tutti che aveva le pulci. Chissà se se lo ricordava.) C’erano cestini pieni di
fiori; macchie di viola, rosso e verde, e ogni volta che Krystal passava davanti a uno dei grandi vasi
fuori dal Black Canon, strappava un petalo. Erano freddi e scivolosi tra le dita e quando li
stringeva diventavano subito viscidi e scuri; di solito si puliva la mano sul lato inferiore di una
delle calde panche di legno della chiesa di St Michael.
Entrò in casa e vide subito, dalla porta aperta a sinistra, che Terri non era andata a letto. Era
seduta in poltrona, con gli occhi chiusi e la bocca aperta. Krystal sbatté la porta, ma Terri non si
mosse.
Corse da lei, la scosse per il braccio sottile. La testa di Terri ricadde in avanti sul petto rinsecchito.
Russava.
Krystal la lasciò andare. L’immagine di un uomo morto nel bagno risprofondò nell’inconscio.
«Cretina» disse.
Poi si accorse che Robbie non c’era. Salì di corsa le scale, chiamandolo.
«Qui» disse lui, da dietro la porta chiusa della stanza di lei.
Quando l’aprì con una spallata, vide Robbie in mezzo alla stanza, svestito. Alle sue spalle, disteso
sul materasso, a grattarsi il petto nudo, c’era Obbo.
«Ehi, Krys» le disse con un ghigno.
Lei afferrò Robbie e lo trascinò nella sua stanza. Le mani le tremavano così forte che ci mise una
vita a vestirlo.
«Ti ha fatto qualcosa?» bisbigliò.
«Ho fame» disse Robbie.
Quando fu vestito, lo prese in braccio e corse di sotto. Sentiva Obbo muoversi nella sua stanza.
«Perché è qui?» urlò a Terri, che si stava appena svegliando sulla poltrona. «Perché è con
Robbie?»
Robbie si divincolò; odiava le urla.
«E che cazzo sono queste?» gridò Krystal, vedendo per la prima volta due borse nere accanto alla
poltrona.
«Niente» rispose Terri, in tono vago.
Ma Krystal aveva già aperto una delle lampo.
«Non è niente!» gridò sua madre.
Grossi pani di hashish, simili a mattoni, avvolti con cura in fogli di cellophane: Krystal, che a
malapena sapeva leggere, che non avrebbe saputo identificare metà delle verdure al
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supermercato, che non avrebbe saputo dire chi era il primo ministro, sapeva che il contenuto di
quella borsa, se fosse stato trovato a casa sua, significava la galera per sua madre. Poi vide la
scatola con il cocchiere e i cavalli sul coperchio, che spuntava da sotto la poltrona sulla quale era
seduta Terri.
«Ti sei fatta» disse Krystal senza fiato. La catastrofe le piombò addosso come un acquazzone
invisibile, il mondo crollò. «Cazzo, ti sei...»
Sentì Obbo sulle scale e riprese in braccio Robbie. Lui pianse e si divincolò, spaventato dalla sua
rabbia, ma la presa di Krystal era ferrea.
«Lascialo andare, stronza» gridò Terri, invano. Krystal aveva aperto la porta d’ingresso e stava
correndo in strada, più forte che poteva, intralciata da Robbie che si dibatteva e si lamentava.
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VI
Shirley fece la doccia e tirò fuori i vestiti dall’armadio mentre Howard continuava a dormire
rumorosamente. Il suono della campana di St Michael and All Saints, che annunciava la messa
delle dieci, la raggiunse mentre si stava allacciando il cardigan. Pensava sempre al baccano che si
doveva sentire in casa Jawanda, proprio di fronte alla chiesa, e sperava che alle loro orecchie
fosse una sonora conferma della fedeltà di Pagford a usi e tradizioni che a loro – era chiaro come
il sole – non appartenevano.
Automaticamente, perché lo faceva sempre, Shirley percorse il corridoio, entrò nella ex stanza da
letto di Patricia e sedette al computer.
Patricia sarebbe dovuta essere lì, a dormire sul divano letto che Shirley le aveva preparato. Era un
sollievo non dover avere a che fare con lei quella mattina. Howard, che quando erano tornati ad
Ambleside in piena notte ancora canticchiava The Green, Green Grass of Home, non si era reso
conto che Patricia non c’era finché Shirley non aveva infilato la chiave nella porta.
«Dov’è Pat?» aveva ansimato, appoggiandosi al portico.
«Oh, era arrabbiata perché Melly non è voluta venire» aveva sospirato Shirley. «Avevano
litigato... Immagino che sia andata a casa a cercare di fare pace.»
«Be’, non ci si annoia mai, con quelle due» aveva commentato Howard, rimbalzando mollemente
da una parete all’altra dello stretto corridoio che portava in camera da letto.
Shirley aprì il suo sito di medicina preferito. Quando digitò la prima lettera della malattia che
voleva cercare, comparve di nuovo la spiegazione dell’uso delle EpiPen; Shirley rilesse
velocemente le istruzioni, caso mai le si fosse presentata l’occasione di salvare la vita al loro
garzone. Poi digitò con cura la parola ‘eczema’ e apprese, con una certa delusione, che non si
trattava di una malattia contagiosa e dunque non poteva essere usata come pretesto per
licenziare Sukhvinder Jawanda.
Per pura forza d’abitudine, digitò l’indirizzo del sito del Consiglio e cliccò sulla bacheca.
Aveva imparato a riconoscere a colpo d’occhio i contorni e la lunghezza dello username
Il_Fantasma_di_Barry_Fairbrother, come un innamorato riconosce all’istante la nuca della
persona amata, o la posizione delle sue spalle, o quella camminata particolare.
Bastò una sola occhiata al primo messaggio della lista: l’eccitazione le esplose in petto; il
Fantasma non l’aveva abbandonata. Era certa che la sparata della dottoressa Jawanda non
sarebbe rimasta impunita.
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La tresca del primo cittadino di Pagford
Lo lesse, ma sulle prime non capì: si era aspettata di vedere il nome di Parminder. Alla seconda
lettura emise il grido soffocato di una donna investita da uno scroscio d’acqua gelida.
Howard Mollison, primo cittadino di Pagford, e Maureen Lowe, pagfordiana di vecchia data, sono
da anni ben più che soci in affari. È di pubblico dominio che Maureen abbia accesso a regolari
assaggi del più prelibato tra i salami di Howard. L’unica persona che pare non esserne a
conoscenza è Shirley, la moglie di Howard.
Immobile sulla sedia, Shirley pensò: non è vero.
Non poteva essere vero.
Sì, una volta o due aveva sospettato... aveva anche buttato lì qualche allusione a Howard...
No, non ci credeva. Non poteva crederci.
Ma tutti gli altri sì. Avrebbero creduto al Fantasma. Tutti gli credevano.
Le sue mani si agitarono sulla tastiera come guanti vuoti, deboli e inerti, nel tentativo, intralciato
da ripetuti errori, di cancellare il messaggio dal sito. Ogni secondo che passava qualcuno avrebbe
potuto leggerlo, crederci, riderci sopra, passarlo al giornale... Howard e Maureen, Howard e
Maureen...
Ecco. Cancellato. Shirley rimase a fissare il monitor, con i pensieri che si rincorrevano come topi
in una vasca di vetro, cercando di scappare, ma non c’erano vie d’uscita, non c’erano appigli, non
c’era modo di tornare nel luogo felice dove aveva vissuto prima di vedere quella cosa orrenda,
messa lì per essere letta dal mondo intero...
Howard prendeva sempre in giro Maureen.
No, lei prendeva in giro Maureen. Howard prendeva in giro Kenneth.
Sempre insieme: giorni festivi, giorni feriali, gite nei fine settimana...
... l’unica persona che pare non esserne a conoscenza...
... lei e Howard non avevano bisogno del sesso: letti separati da anni, avevano un tacito accordo...
... abbia accesso a regolari assaggi del più prelibato tra i salami di Howard...
(La madre di Shirley era lì, viva, nella stanza insieme a lei: sghignazzava e la prendeva in giro,
rovesciando vino dal bicchiere... Shirley non sopportava le risate volgari. Non era mai riuscita a
tollerare i doppi sensi né gli sfottò.)
Si alzò di scatto, inciampò nelle gambe della sedia e tornò di corsa in camera da letto. Howard
russava ancora come un maiale.
«Howard» disse Shirley. «Howard.»
Ci volle un minuto intero per svegliarlo. Era confuso e disorientato, ma per lei era ancora il
cavaliere che l’avrebbe protetta e salvata.
«Howard, il Fantasma di Barry Fairbrother ha scritto un altro messaggio.»
Contrariato per quel brusco risveglio, Howard grugnì nel cuscino.
«Su di te» continuò Shirley.
Si parlavano raramente in modo schietto, lei e Howard, e la cosa le era sempre piaciuta. Ma oggi
era costretta a farlo.
«Su di te» ripeté «e Maureen. Dice che... avete una relazione.»
Lui si passò la grossa mano sul viso e si strofinò gli occhi. Più a lungo, secondo Shirley, di quanto
fosse necessario.
«Cosa?» disse lui, con il volto coperto.
«Tu e Maureen. Una relazione.»
«E da dove l’ha tirato fuori?»
Niente dinieghi, niente indignazione, niente risate sprezzanti. Solo una cauta richiesta di fonti.
Shirley avrebbe ricordato per sempre quel momento come una morte; la vera e propria fine di
una vita.
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VII
«Sta’ zitto, Robbie! Sta’ zitto, cazzo!»
Krystal aveva trascinato Robbie a una fermata d’autobus, diverse traverse più in là, in modo che
né Obbo né Terri potessero trovarli. Non era sicura di avere i soldi per il biglietto, ma era decisa
ad arrivare a Pagford. Nonna Cath era morta, Fairbrother era morto, ma Ciccio Wall era vivo e lei
aveva bisogno di fare un bambino.
«Perché era in camera con te?» gridò a Robbie, che frignò e non rispose.
Il cellulare di Terri aveva la batteria quasi scarica. Krystal fece il numero di Ciccio, ma partì subito
la segreteria.
In Church Row, Ciccio era impegnato a mangiare pane tostato e a origliare una delle bizzarre,
familiari conversazioni tra i suoi genitori nello studio di fronte alla sua camera. Era una piacevole
distrazione dai suoi pensieri. Il cellulare nella tasca vibrò, ma lui non rispose. Non c’era nessuno
con cui volesse parlare. Non poteva essere Andrew. Non dopo ieri sera.
«Colin, lo sai cosa devi fare» stava dicendo sua madre, con voce esausta. «Per favore, Colin...»
«Abbiamo cenato insieme sabato sera. La sera prima che morisse. Ho fatto da mangiare io. E
se...»
«Colin, non hai messo niente nel cibo... Dio santo, ci sto cascando pure io... Io non devo fare così,
Colin, sai che non devo entrarci. Questo è il DOC che parla.»
«Ma avrei potuto, Tess, mi è venuto in mente all’improvviso: se avessi messo qualcosa...?»
«Allora perché tu, io e Mary siamo vivi? Gli hanno fatto l’autopsia, Colin!»
«Nessuno ci ha detto i risultati. Mary non ce li ha mai detti. Credo che sia per questo che non
vuole più parlarmi. Ha dei sospetti.»
«Colin, per l’amor di Dio...»
La voce di Tessa divenne un sussurro concitato, troppo basso perché Ciccio sentisse. Il cellulare
vibrò di nuovo. Ciccio lo prese dalla tasca. Il numero di Krystal. Rispose.
«Ciao» disse lei, sovrastando le urla di un bambino. «Ti va se ci vediamo?»
«Non lo so» sbadigliò Ciccio. Voleva andare a letto.
«Sto prendendo l’autobus per Pagford. Possiamo vederci.»
La sera prima lui aveva stretto Gaia Bawden contro le ringhiere fuori dalla sala parrocchiale,
finché lei non si era allontanata e aveva vomitato. Poi aveva ricominciato a fargli il culo, così lui
l’aveva lasciata lì e se n’era andato a casa.
«Non lo so» ripeté. Si sentiva così stanco, così infelice.
«Dai» insisté lei.
Dallo studio arrivò la voce di Colin. «Questo lo dici tu, ma verrebbe fuori? Se avessi...»
«Colin, non dovremmo neanche parlarne... non devi prendere sul serio certe idee.»
«Come puoi dire così? Come faccio a non prenderle sul serio? Se sono responsabile...»
«Sì, va bene» disse Ciccio a Krystal. «Ci vediamo fra venti minuti davanti al pub, in Piazza.»
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VIII
Samantha uscì finalmente dalla stanza degli ospiti, spinta dal bisogno urgente di fare pipì. Bevve
acqua fredda dal rubinetto del bagno finché non le venne da vomitare, prese due pastiglie di
paracetamolo dall’armadietto sopra il lavabo e fece la doccia.
Si vestì senza guardarsi allo specchio. Stava con le orecchie tese per cogliere un rumore che
indicasse la presenza di Miles, ma la casa sembrava deserta.
Forse, pensò, Miles aveva portato Lexie da qualche parte, lontano da una madre ubriacona,
lasciva e adescatrice di minorenni...
(«Era in classe con Lexie!» le aveva urlato in faccia Miles, quando erano rimasti soli in camera da
letto. Lei aveva aspettato che lui si scostasse dalla porta, poi l’aveva aperta ed era corsa nella
stanza degli ospiti.)
Sentiva ondate alterne di nausea e mortificazione. Sarebbe stato meglio se la sbronza avesse
cancellato tutto, ma invece vedeva ancora la faccia di quel ragazzo quando gli era saltata
addosso... ricordava la sensazione del suo corpo contro di lei, così magro, così giovane...
Se fosse stato Vikram Jawanda, almeno ci sarebbe stato un briciolo di dignità... Aveva bisogno di
un caffè. Non poteva restare in bagno per sempre. Ma quando si girò per aprire la porta e si vide
allo specchio, il coraggio quasi le mancò. Aveva il viso gonfio, gli occhi velati, le rughe scavate
dalla stanchezza e dalla disidratazione.
Oddio, chissà cos’ha pensato di me...
Miles era seduto in cucina quando lei entrò. Non lo guardò, ma andò dritto alla credenza dov’era
il caffè. Prima che riuscisse a toccare la maniglia, lui disse: «Ce n’è un po’ qui.»
«Grazie» mormorò lei, e se ne versò una tazza, evitando di guardarlo negli occhi.
«Ho mandato Lexie da mamma e papà» disse Miles. «Dobbiamo parlare.»
Samantha si sedette al tavolo.
«Avanti» disse lei.
«Avanti... non hai altro da dire?»
«Sei tu che vuoi parlare.»
«Ieri sera» cominciò lui, «alla festa di compleanno di mio padre, sono venuto a cercarti e ti ho
trovata che pomiciavi con un sedicenne...»
«Sedicenne, sì» lo interruppe Samantha. «Legale. Una cosa positiva.»
Lui la guardò sgomento.
«Lo trovi divertente? Se tu avessi trovato me tanto ubriaco da non rendermi conto...»
«Io mi rendevo conto» precisò Samantha.
Non voleva essere Shirley, coprire tutto con una tovaglietta vezzosa di educata finzione. Voleva
essere sincera, e voleva penetrare quello spesso strato di compiacimento sotto il quale non
riconosceva più il ragazzo che aveva amato.
«Ti rendevi conto... di cosa?» chiese Miles.
Era talmente sicuro di vedere in lei imbarazzo e pentimento che a Samantha scappò quasi da
ridere.
«Mi rendevo conto di baciarlo» disse.
Lui la fissò e a lei venne meno il coraggio, perché sapeva che cosa stava per dire.
«E se fosse stata Lexie a trovarti?»
Samantha non aveva una risposta. Il pensiero che Lexie venisse a sapere quello che era successo
le faceva venir voglia di scappare e non tornare mai più... E se il ragazzo gliel’avesse raccontato?
Erano stati a scuola insieme. Si era dimenticata com’era Pagford...
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«Cosa c’è che non va?» chiese Miles.
«Sono... infelice» rispose Samantha.
«Perché?» chiese ancora Miles, poi aggiunse subito: «È il negozio? È per quello?»
«Un po’. Ma odio vivere a Pagford, odio vivere appiccicata ai tuoi genitori. E certe volte» disse
lentamente, «odio svegliarmi accanto a te.»
Pensò che lui si sarebbe arrabbiato, invece le chiese, piuttosto calmo: «Stai dicendo che non mi
ami più?»
«Non lo so.»
Sembrava più magro, con la camicia lasciata aperta sul collo. Per la prima volta da molto tempo,
Samantha credette di intravedere qualcosa di familiare e vulnerabile in quel corpo invecchiato
seduto di fronte a lei. E mi vuole ancora, pensò con meraviglia, ricordando il volto disfatto nello
specchio del bagno.
«Però la notte che Barry Fairbrother è morto» aggiunse, «sono stata contenta che tu fossi ancora
vivo. Credo di aver sognato che eri morto, mi sono svegliata e so di essere stata contenta di
sentirti respirare.»
«Ed è... tutto quello che hai da dirmi? Che sei contenta che non sia morto?»
Si era sbagliata a pensare che non fosse arrabbiato. Era semplicemente sotto choc.
«È tutto quello che hai da dirmi? Ti riduci uno schifo al compleanno di mio padre...»
«Perché, se non fosse successo al compleanno di quello stronzo di tuo padre sarebbe stato
meglio?» gridò lei, incollerita dalla collera di lui. «È questo il problema? Che ti ho fatto fare brutta
figura davanti a mamma e papà?»
«Stavi baciando un ragazzo di sedici anni...»
«Forse sarà il primo di una lunga serie!» gridò Samantha, alzandosi; sbatté la tazza nel lavello e il
manico le rimase in mano. «Non capisci, Miles? Non ne posso più! Non sopporto questa vita di
merda e non sopporto i tuoi genitori...»
«... non ti dispiace però che paghino la scuola delle ragazze...»
«... non sopporto che tu ti stia trasformando in tuo padre davanti ai miei occhi...»
«... stronzate, è solo che non ti piace che io sia felice quando tu non lo sei...»
«... mentre al mio caro marito non frega un accidente di come sto...»
«... avresti un sacco di cose da fare, ma tu preferisci stare a casa a fare il broncio...»
«... non ho più intenzione di stare a casa, Miles...»
«... non mi scuserò perché voglio impegnarmi per la comunità...»
«... be’, io dicevo sul serio... sei indegno di prendere il suo posto!»
«Cosa?» abbaiò lui, e fece cadere la sedia alzandosi di scatto, mentre Samantha andava alla
porta.
«Mi hai sentito» gridò lei. «Come dicevo nella mia lettera, Miles, tu sei indegno di prendere il
posto di Barry Fairbrother. Lui era sincero.»
«La tua lettera?» fece lui.
«Già» rispose lei con un filo di fiato, la mano già sulla maniglia. «Ho mandato io quella lettera.
Avevo bevuto troppo una sera che tu eri al telefono con tua madre. E» – aprì la porta – «non ho
nemmeno votato per te.»
L’espressione sulla faccia di lui le diede sui nervi. In corridoio, si infilò un paio di zoccoli, la prima
cosa che trovò, e uscì prima che lui potesse raggiungerla.
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IX
Il viaggio in autobus riportò Krystal alla sua infanzia. L’aveva preso ogni giorno per andare alla St
Thomas, tutta sola. Sapeva quando sarebbe comparsa l’abbazia, e la indicò a Robbie.
«Vedi quel castello tutto rotto?»
Robbie aveva fame, ma era distratto dalla novità del viaggio in autobus. Krystal gli teneva forte la
mano. Gli aveva promesso che avrebbe mangiato quando sarebbero scesi, ma non aveva idea di
come comprargli da mangiare. Forse Ciccio poteva prestarle i soldi per un sacchetto di patatine, e
anche per il biglietto di ritorno.
«Io andavo a scuola qui» disse a Robbie, che stava scarabocchiando con le dita sui finestrini
sporchi. «E anche tu andrai a scuola qui.»
Quando le avrebbero dato una casa perché era incinta, era quasi certa che avrebbe avuto
un’altra casa ai Fields; nessuno voleva comprarle, visto lo stato in cui erano. Ma Krystal era
contenta, perché almeno Robbie e il bambino si sarebbero trovati nella zona giusta per iscriversi
alla St Thomas. Comunque, i genitori di Ciccio le avrebbero quasi certamente dato abbastanza
soldi per la lavatrice, quando lei avesse partorito il loro nipote. Magari anche per un televisore.
L’autobus imboccò una discesa verso Pagford e Krystal intravide per un attimo il fiume
scintillante, prima che la strada scendesse troppo in basso. La prima volta che aveva fatto
canottaggio, l’aveva delusa scoprire che non si sarebbero allenate sull’Orr ma nel lurido canale di
Yarvil.
«Ci siamo» disse a Robbie, quando l’autobus svoltò lentamente nella Piazza addobbata di fiori.
Ciccio si era dimenticato che aspettare davanti al Black Canon significava stare di fronte a
Mollison & Lowe e al Bricco di Rame. Mancava ancora più di un’ora a mezzogiorno, l’ora di
apertura del caffè la domenica, ma Ciccio non sapeva a che ora cominciava a lavorare Andrew.
Quella mattina non aveva alcun desiderio di vedere il suo più vecchio amico, così aspettò nella
strada laterale di fianco al pub e uscì sulla Piazza solo all’arrivo dell’autobus.
Quando l’autobus ripartì, Ciccio vide Krystal insieme a un bimbo piccolo e sporco.
Perplesso, si avvicinò.
«È mio fratello» spiegò Krystal in tono aggressivo, in risposta a qualcosa che aveva visto sulla
faccia di Ciccio.
L’idea che si era fatto Ciccio della vita dura e autentica dovette subire un altro ritocco. Aveva
accarezzato l’idea di mettere incinta Krystal (e mostrare a Cubicolo che cosa poteva fare – anche
così, senza impegno – un vero uomo), ma quel bambino che si aggrappava alla mano e alla
gamba di sua sorella lo sconcertò.
Si pentì di aver accettato di vederla. Aveva paura di sembrare ridicolo. Ora che l’aveva vista nella
Piazza, avrebbe preferito tornare nella casa di lei, squallida e puzzolente.
«Hai soldi?» gli domandò Krystal.
«Eh?» Ciccio aveva i riflessi rallentati dalla stanchezza. Non si ricordava più perché mai avesse
voluto restare sveglio tutta la notte; la lingua gli pulsava per tutte le sigarette che aveva fumato.
«Soldi» ripeté Krystal. «Lui ha fame e io ho perso cinque sterline. Te li rendo.»
Ciccio si infilò la mano nella tasca dei jeans e trovò una banconota spiegazzata. Ma non aveva
voglia di farsi vedere con tanti soldi, così rovistò ancora più in fondo e tirò fuori un mucchietto di
monete.
Andarono in un negozietto due strade più in là e Ciccio rimase fuori mentre Krystal comprava a
Robbie delle patatine e un pacchetto di Rolos. Nessuno di loro disse una parola, nemmeno
Robbie, che sembrava aver paura di Ciccio. Alla fine Krystal, dopo aver dato le patatine al
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fratellino, chiese a Ciccio: «Dove andiamo?»
Non penserà mica di andare a scopare?, si disse lui. Con il bambino? Aveva avuto una mezza idea
di portarla al cubicolo: era un posto sicuro e sarebbe stata la profanazione finale dell’amicizia fra
lui e Andrew; lui non doveva più niente a nessuno. Ma non se la sentiva di scopare davanti a un
bambino di tre anni.
«Per lui non c’è problema» disse Krystal. «Ora ha i cioccolatini. No, dopo» disse a Robbie, che
frignava per avere i Rolos che lei teneva ancora in mano. «Dopo che hai finito le patatine.»
Si incamminarono in direzione del vecchio ponte di pietra.
«Per lui non c’è problema» ripeté Krystal. «Fa quello che gli dico io. Vero?» disse a Robbie più
forte.
«’occolatini» disse lui.
«Sì, dopo.» Si rese conto che quel giorno Ciccio bisognava convincerlo. Già sull’autobus aveva
capito che portarsi dietro Robbie, per quanto necessario, sarebbe stato un impiccio.
«Novità?» chiese.
«Ieri sono andato a una festa» rispose Ciccio.
«Sì? Chi c’era?»
Lui fece un ampio sbadiglio e lei dovette aspettare per avere la risposta.
«Arf Price. Sukhvinder Jawanda. Gaia Bawden.»
«Sta a Pagford?» chiese Krystal, brusca.
«Sì, Hope Street» disse Ciccio.
Lo sapeva perché Andrew se l’era lasciato sfuggire. Andrew non gli aveva mai detto che Gaia gli
piaceva, ma Ciccio aveva notato che la guardava quasi costantemente, nelle poche lezioni che
avevano in comune. Aveva anche notato l’imbarazzo di Andrew quando lei era presente e ogni
volta che se ne parlava.
Krystal, però, pensava alla madre di Gaia: l’unica assistente sociale che le fosse mai piaciuta,
l’unica che fosse riuscita a comunicare con sua madre. Abitava in Hope Street, nella stessa via di
nonna Cath. Probabilmente in quel momento era lì. E se...
Ma Kay le aveva abbandonate. La loro assistente sociale era di nuovo Mattie. E comunque non
bisognava disturbarli a casa. Shane Tully una volta aveva seguito la sua fino a casa e si era
beccato un’ingiunzione restrittiva. D’altra parte, Shane aveva già provato anche a tirare un
mattone contro il finestrino della sua macchina...
E poi, pensò Krystal strizzando gli occhi quando dopo una curva il fiume l’abbagliò con le sue
migliaia di riflessi bianchi, Kay era comunque una di quelle con i dossier in mano, che contavano i
punteggi e giudicavano. Sembrava un tipo abbastanza a posto, ma nessuna delle sue soluzioni
avrebbe tenuto insieme Krystal e Robbie...
«Possiamo scendere di qua» suggerì a Ciccio, indicando l’argine coperto di erba alta, poco dopo il
ponte. «Robbie può aspettare lì, sulla panchina.»
Da lì riusciva a tenerlo d’occhio, pensò, e avrebbe fatto in modo che non vedesse niente. Non che
non avesse già visto tutto, ai tempi in cui Terri si portava a casa gli sconosciuti...
Ma Ciccio, per quanto esausto, era stomacato a quell’idea. Non poteva farlo nell’erba, sotto gli
occhi di un bambino.
«Nah» disse, cercando di fare il disinvolto.
«A lui non fa niente» disse Krystal. «Ha i Rolos. Non capisce» aggiunse, anche se aveva il sospetto
che non fosse vero. Robbie capiva fin troppo. C’erano stati dei problemi all’asilo, quando aveva
fatto finta di farlo a pecorina con una bimba.
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Ciccio ricordò che la madre di Krystal era una prostituta. Quello che lei gli stava proponendo lo
ripugnava, ma non era mancanza di autenticità, quella?
«Che c’è?» gli chiese Krystal, aggressiva.
«Niente» disse lui.
Dane Tully l’avrebbe fatto. Pikey Pritchard l’avrebbe fatto. Cubicolo no, per niente al mondo.
Krystal accompagnò Robbie alla panchina. Ciccio si chinò a guardare dietro, fino alla macchia di
erba alta e cespugli, e pensò che forse il bambino non avrebbe visto niente, ma che in ogni caso
avrebbe fatto più presto che poteva.
«Ecco qua» disse Krystal a Robbie, porgendogli il tubo dei Rolos, che lui prese subito con
entusiasmo. «Li puoi mangiare tutti se stai qui buono per un minuto, va bene? Rimani qui,
Robbie, io vado lì in quei cespugli. Hai capito, Robbie?»
«Sì» rispose lui contento, con le guance già piene di cioccolato e mou.
Krystal scivolò giù lungo l’argine verso la macchia, sperando che Ciccio non facesse troppe storie
a non usare il preservativo.
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X
Gavin portava gli occhiali scuri per proteggersi dal sole del mattino, ma come travestimento non
servivano a niente: Samantha Mollison avrebbe sicuramente riconosciuto la macchina. Quando la
vide camminare sul marciapiede a grandi passi, con le mani in tasca e la testa china, Gavin girò
bruscamente a sinistra. Invece di proseguire verso casa di Mary attraversò il vecchio ponte di
pietra e lasciò la macchina in una stradina laterale dall’altra parte del fiume.
Non voleva che Samantha lo vedesse parcheggiare davanti a casa di Mary. Non avrebbe avuto
importanza nei giorni feriali, quando lui era in giacca e cravatta e aveva la valigetta; non avrebbe
avuto importanza prima che confessasse a se stesso i suoi sentimenti per Mary; ma adesso ce
l’aveva. E comunque era una mattina splendida e la passeggiata gli avrebbe fatto guadagnare
tempo.
Mi tengo ancora le opzioni aperte, si disse attraversando a piedi il ponte. Un po’ più giù c’era un
bambino piccolo seduto da solo su una panchina, che mangiava cioccolatini. Non devo dire
niente... Improvviserò...
Ma aveva le mani sudate. Il pensiero di Gaia che raccontava alle gemelle Fairbrother che lui era
innamorato della loro madre gli aveva fatto passare una nottataccia.
Mary sembrò contenta di vederlo.
«Dov’è la macchina?» chiese, sbirciandogli sopra la spalla.
«L’ho parcheggiata lungo il fiume» rispose lui. «È una bella giornata. Mi andava di fare due passi,
e poi mi è venuto in mente che ti potrei falciare il prato se...»
«Oh, l’ha fatto Graham» disse lei, «ma sei molto gentile. Entra a prendere un caffè.»
Mary chiacchierava e intanto si dava da fare in cucina. Aveva addosso dei vecchi jeans tagliati e
una maglietta; mettevano in risalto la sua magrezza, ma i capelli erano di nuovo lucenti, come lui
li immaginava di solito. Gavin vide le gemelle, distese su una coperta sull’erba appena tagliata;
ascoltavano ciascuna il suo iPod con le cuffie alle orecchie.
«Come stai?» chiese Mary, sedendosi accanto a lui.
Gavin non capì il motivo di quel tono preoccupato; poi si ricordò che la sera prima, durante la sua
breve visita, aveva trovato il tempo di dirle che lui e Kay si erano lasciati.
«Bene» rispose. «Probabilmente è meglio così.»
Lei sorrise e gli batté sul braccio.
«Ieri sera ho sentito dire» disse lui come per caso, con la bocca un po’ asciutta «che stai
pensando di trasferirti.»
«Le notizie viaggiano in fretta a Pagford» disse lei. «È solo un’idea. Theresa vuole che torni a
Liverpool.»
«E i ragazzi cosa ne pensano?»
«Be’, aspetterei in ogni caso che le ragazze e Fergus facessero gli esami a giugno. Declan non è
tanto un problema. Ma insomma, nessuno di noi vuol lasciare...»
Si sciolse in lacrime, ma lui era talmente felice che tese la mano per sfiorarle il polso delicato.
«Ma certo che non...»
«... la tomba di Barry.»
La felicità di Gavin si spense come una candela. «Ah» disse.
Mary si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Gavin la trovò un tantino morbosa. Nella sua
famiglia i morti venivano cremati. La sepoltura di Barry era la seconda alla quale aveva assistito e
l’aveva trovata tremenda. Gavin vedeva una tomba come una semplice segnalazione del luogo in
cui un cadavere si stava decomponendo; un pensiero disgustoso, eppure la gente si metteva in
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testa di andare a trovarlo e portare dei fiori, come se avesse potuto ancora guarire.
Mary si era alzata per prendere i fazzoletti. Fuori, sul prato, le gemelle ora si erano divise lo
stesso paio di auricolari e muovevano la testa su e giù al ritmo della stessa canzone.
«E così Miles ha avuto il seggio di Barry» riprese lei. «Si sentivano i festeggiamenti fin qui, ieri
sera.»
«Be’, era il compleanno... sì, infatti» disse Gavin.
«E Pagford si è quasi liberata dei Fields.»
«A quanto pare.»
«E ora che Miles è nel Consiglio, sarà più facile chiudere Bellchapel.»
Gavin doveva sempre fare uno sforzo per ricordarsi cosa fosse Bellchapel; erano argomenti che
non gli interessavano per niente.
«Sì, immagino di sì.»
«E così tutto quello per cui Barry si è battuto è finito.»
Le lacrime si erano asciugate e le guance erano tornate rosse di rabbia.
«Lo so» disse lui. «È molto triste.»
«Non lo so» ribatté lei, ancora rossa in viso e arrabbiata. «Perché mai Pagford dovrebbe pagare i
conti dei Fields? Barry vedeva solo un lato della questione. Pensava che ai Fields fossero tutti
come lui. Pensava che Krystal Weedon fosse come lui, ma si sbagliava. Non gli è mai venuto in
mente che a quella gente può andar bene di stare dov’è.»
«Sì» disse Gavin, esaltato all’idea che Mary fosse in disaccordo con Barry e vedendo dissolversi
l’ombra della sua tomba, «capisco il tuo punto di vista. A quanto ho sentito su Krystal Weedon...»
«Ha avuto da lui più tempo e attenzioni delle sue figlie» continuò Mary. «E non ha dato neanche
un centesimo per la corona. Me l’hanno detto le ragazze. Tutto l’equipaggio ha contribuito,
tranne Krystal. E non è nemmeno venuta al funerale, dopo tutto quello che lui ha fatto per lei.»
«Sì, be’, è la dimostrazione...»
«Scusa, ma non riesco a smettere di pensarci.» Era sempre più concitata. «Non riesco a non
pensare che lui vorrebbe ancora che mi preoccupassi di quella Krystal Weedon. Non me ne faccio
una ragione. L’ultimo giorno della sua vita, aveva il mal di testa e ha fatto finta di niente, perché
doveva scrivere quell’articolo del cavolo!»
«Lo so» disse Gavin. «Lo so. Credo» azzardò, con la sensazione di chi saggia con il piede un
vecchio ponte di corda, «che sia una cosa di noi maschi. Miles è uguale. Samantha non voleva che
si candidasse al Consiglio, ma lui l’ha fatto lo stesso. Sai, ci sono uomini che per un briciolo di
potere...»
«Barry non lo faceva per il potere» protestò Mary, e Gavin ripiegò precipitosamente.
«No, no, Barry no. Lui lo faceva per...»
«Era più forte di lui. Pensava che tutti fossero come lui, che bastasse tendere una mano e
sarebbero diventati migliori.»
«Sì, ma il fatto è che ci sono altre persone che avrebbero bisogno di una mano... a casa...»
«Ecco, appunto!» esclamò Mary, sciogliendosi di nuovo in lacrime.
«Mary...» disse Gavin, alzandosi per mettersi accanto a lei (nel bel mezzo del ponte di corda, con
un misto di panico e trepidazione) «ascolta... è presto... insomma, è troppo presto... ma
incontrerai qualcun altro.»
«A quarant’anni» singhiozzò Mary, «con quattro figli...»
«Per molti uomini» cominciò lui, ma non andava bene; preferiva non farle pensare di avere
troppa scelta. «Per l’uomo giusto» si corresse, «il fatto che tu abbia dei figli non sarà un
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problema. Sono dei ragazzi meravigliosi... chiunque sarebbe felice di stare con loro.»
«Oh, Gavin, sei così carino» disse lei asciugandosi gli occhi.
Lui la circondò con il braccio e lei non si oppose. Rimasero senza parlare, intanto che lei si soffiava
il naso, e quando Gavin sentì che lei stava per muoversi le disse: «Mary...»
«Sì?»
«Devo... Mary, credo di essere innamorato di te.»
Provò per un istante l’orgoglio senza limiti del paracadutista che si stacca da un pavimento solido
per lanciarsi nello spazio infinito.
Poi lei si ritrasse.
«Gavin. Io...»
«Scusami» la bloccò lui, notando con allarme la sua espressione di ripulsa. «Volevo che lo sentissi
da me. Ho detto a Kay che era per questo che volevo separarmi da lei e temevo che tu potessi
saperlo da qualcun altro. Non avrei detto nulla per mesi. Per anni» aggiunse, cercando di
ripristinarle il sorriso e l’umore in cui lo trovava carino. Ma Mary scuoteva la testa, con le braccia
conserte sul petto sottile.
«Gavin, io non ho mai...»
«Dimentica quello che ho detto» tentò lui, stupidamente. «Dimentichiamo tutto.»
«Pensavo che capissi» disse lei.
Avrebbe dovuto capire, arguì Gavin, che l’armatura invisibile del lutto la preservava da qualsiasi
altra emozione.
«Capisco benissimo» mentì. «Non ti avrei detto nulla, solo...»
«Barry diceva sempre che ti piacevo.»
«Ma no» rispose lui freneticamente.
«Gavin, credo che tu sia un uomo adorabile» mormorò lei. «Ma io non... voglio dire, anche se...»
«No» la interruppe lui a voce alta, per sovrastarla. «Ho capito. Senti, ora me ne vado.»
«Non devi...»
Ma ora quasi la odiava. Aveva sentito che cosa aveva cercato di dirgli: anche se non fossi in lutto
per mio marito, non ti vorrei.
La visita era stata così breve che quando Mary, un po’ scossa, vuotò la tazza di Gavin nel
lavandino, il caffè era ancora caldo.
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XI
Howard aveva detto a Shirley che non si sentiva bene e che voleva restare a letto a riposare: il
Bricco di Rame poteva fare a meno di lui per un pomeriggio.
«Chiamo Mo» disse.
«No, la chiamo io» ribatté Shirley in tono aspro.
Chiudendo la porta, Shirley pensò: Si sta sfiancando il cuore.
Lui aveva detto: «Non essere sciocca, Shirl» e poi: «Sono fandonie, sono solo stupide fandonie» e
lei non aveva insistito. Anni di discreta elusione di qualsiasi argomento scabroso (Shirley era
rimasta letteralmente senza parole quando la ventitreenne Patricia le aveva annunciato:
«Mamma, sono lesbica») sembravano aver soffocato qualcosa dentro di lei.
Suonarono alla porta. Era Lexie: «Papà mi ha detto di venire qui, lui e la mamma avevano da fare.
Dov’è il nonno?» chiese.
«A letto» rispose Shirley. «Ha esagerato un po’, ieri sera.»
«È stata una bella festa, eh?»
«Sì, molto.» Dentro di lei stava montando una tempesta. Dopo un po’, le chiacchiere di sua
nipote la sfinivano.
«Andiamo a pranzare al caffè» suggerì. «Howard» disse verso la porta chiusa della camera da
letto, «porto Lexie al Bricco.»
La sua risposta suonò preoccupata, e Shirley se ne rallegrò. Non aveva paura di Maureen.
L’avrebbe guardata dritto negli occhi...
Ma lungo la strada le venne in mente che Howard avrebbe potuto telefonare a Maureen nel
momento stesso in cui lei era uscita di casa. Che stupida... chissà come aveva fatto a pensare che
avvertendo lei stessa Maureen dell’indisposizione di Howard avrebbe impedito che loro due si
parlassero... stava perdendo colpi...
Le strade così familiari e amate sembravano diverse, strane. Shirley faceva regolarmente
l’inventario della vetrina che presentava a quel piccolo, delizioso mondo: moglie e madre,
volontaria all’ospedale, segretaria del Consiglio locale, prima cittadina; e Pagford era il suo
specchio, che rifletteva nel proprio educato rispetto il suo valore e il suo prestigio. Ma il
Fantasma aveva preso un timbro e sporcato la superficie immacolata della sua vita con una
rivelazione che avrebbe azzerato tutto: «Suo marito andava a letto con la sua socia e lei non lo
sapeva...» Era questo che avrebbero detto tutti di lei; l’unica cosa che avrebbero ricordato di lei.
Spinse la porta del caffè. Il campanello suonò e Lexie disse: «C’è Nocciolina Price.»
«Howard sta bene?» gracchiò Maureen.
«È solo stanco» rispose Shirley, sedendosi immediatamente a un tavolo; il cuore le batteva così
forte che si chiese se non stesse rischiando anche lei le coronarie.
«Digli che nessuna delle due ragazze si è presentata» berciò Maureen con rabbia, indugiando al
loro tavolo «e non si sono nemmeno disturbate a chiamare. Per fortuna non c’è molta gente.»
Lexie andò al bancone a parlare con Andrew, che era stato messo a fare il cameriere.
Improvvisamente sola al tavolo, Shirley si ritrovò a pensare a Mary Fairbrother, diritta e smunta
al funerale di Barry, ammantata nel suo lutto come una regina nelle sue vesti; quanta
compassione, quanta ammirazione. Perdendo suo marito, Mary era diventata passiva e silenziosa
destinataria di rispetto, mentre lei, legata a un uomo che l’aveva tradita, sprofondava nella
volgarità e nella derisione...
(Molto tempo prima, a Yarvil, era stata oggetto di battute volgari a causa della reputazione di sua
madre, anche se lei, Shirley, era immacolata come un giglio.)
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«Il nonno non sta bene» stava dicendo Lexie a Andrew. «Che c’è in quelle torte?»
Lui si chinò dietro il bancone per nascondere il viso rosso.
Mi sono fatto tua madre.
Andrew era stato lì lì per non andare al lavoro. Aveva temuto che Howard potesse licenziarlo in
tronco per aver baciato sua nuora ed era assolutamente terrorizzato all’idea che Miles Mollison
potesse venire a cercarlo. Tuttavia, non era così ingenuo da non capire che era Samantha, che
doveva – pensò spietatamente – essere ben oltre la quarantina, a fare la figura peggiore. La sua
difesa era semplice: «Era sbronza e mi è saltata addosso.»
Il suo imbarazzo non era privo di una punta di orgoglio. Era impaziente di vedere Gaia; voleva
raccontarle che una donna adulta ci aveva provato con lui. Aveva sperato di riderne con lei, come
avevano riso di Maureen, e che lei segretamente lo ammirasse; e aveva anche sperato di riuscire
a scoprire, tra una risata e l’altra, che cosa era successo esattamente con Ciccio, fino a che punto
gli aveva permesso di arrivare. Era pronto a perdonarla. Anche lei era ubriaca. Purtroppo, però,
non si era fatta vedere.
Andò a prendere un tovagliolo per Lexie e per poco non finì addosso alla moglie del suo capo, che
era dietro il bancone con la sua EpiPen in mano.
«Howard mi ha chiesto di controllare una cosa» gli disse Shirley. «E questa siringa non deve stare
qui. La metto nel retro.»
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XII
A metà del pacchetto di Rolos, a Robbie venne una gran sete. Scese dalla panchina e si accucciò
nell’erba calda, da dove si vedeva la sagoma di Krystal nei cespugli con lo sconosciuto. Dopo un
po’ scese lungo l’argine e andò verso di loro.
«Ho sete» frignò.
«Robbie, vai via!» gli gridò Krystal. «Vai a sederti sulla panchina!»
«Sete!»
«Cazz... Aspettami alla panchina, ti porto da bere tra un minuto! Vai, Robbie!»
Piangendo, Robbie tornò su fino alla panchina. Era abituato a non ottenere quello che voleva e
disubbidiva per abitudine, perché gli adulti erano arbitrari nella loro ira e nelle loro regole, così
aveva imparato a prendersi i suoi piccoli piaceri quando e dove poteva.
Arrabbiato con Krystal, si allontanò un po’ dalla panchina, lungo la strada. Un uomo con gli
occhiali da sole veniva verso di lui sul marciapiede.
(Gavin si era dimenticato dove aveva messo la macchina. Era uscito da casa di Mary e si era
incamminato lungo Church Row, rendendosi conto che aveva preso la direzione sbagliata solo
quando era arrivato all’altezza della casa di Miles e Samantha. Non volendo passare di nuovo
davanti a casa Fairbrother, aveva fatto il giro lungo per tornare al ponte.
Vide il bambino, sporco di cioccolato, spettinato e un po’ sgradevole, e tirò dritto, con il cuore a
brandelli e la mezza voglia di poter tornare da Kay e farsi coccolare in silenzio... Lei era sempre
stata più carina quando lui era infelice, era questo che l’aveva affascinato all’inizio.)
Lo scrosciare del fiume aumentò la sete di Robbie. Pianse un altro po’ e cambiò direzione,
allontanandosi dal ponte per tornare nel punto in cui Krystal era nascosta. I cespugli avevano
cominciato a ondeggiare. Lui proseguì, con una gran voglia di bere, poi notò un buco in una lunga
siepe sul lato sinistro della strada. Ci guardò attraverso e vide un campo sportivo.
Si infilò nel buco e contemplò l’ampio spazio verde, con gli ippocastani e i pali delle porte. Robbie
sapeva che cos’erano, perché suo cugino Dane gli aveva mostrato come si tirano calci al pallone,
al parco. Non aveva mai visto tanto verde.
Una donna attraversò il campo, con le braccia incrociate e la testa china.
(Samantha stava camminando a caso, in qualsiasi direzione purché lontana da Church Row. Si era
fatta molte domande e aveva trovato poche risposte; una delle cose che si era chiesta era se non
avesse esagerato dicendo a Miles di quella stupida lettera, scritta da ubriaca e spedita per rabbia,
e che ora non le sembrava più tanto intelligente...
Alzò la testa e incrociò lo sguardo di Robbie. I bambini passavano spesso dal buco della siepe per
giocare nel campo, nei fine settimana. Anche le sue figlie lo avevano fatto da piccole.
Scavalcò il cancello e si allontanò dal fiume, in direzione della Piazza. Per quanto cercasse di
fuggire, il disgusto di sé le restava appiccicato addosso.)
Robbie ripassò attraverso il buco della siepe e seguì per un po’ quella donna, ma presto la perse
di vista. Il mezzo pacchetto di Rolos avanzato gli si stava sciogliendo in mano e lui non voleva
mollarlo, ma aveva tanta sete. Forse Krystal aveva finito. Tornò indietro.
Quando raggiunse la prima macchia di cespugli sull’argine, vide che non si muovevano e pensò
che poteva avvicinarsi.
«Krystal» chiamò.
Ma i cespugli erano deserti. Krystal se n’era andata.
Robbie cominciò a piangere e a gridare. Risalì l’argine e guardò da sinistra a destra lungo la
strada, ma di lei non c’era traccia.
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«Krystal!» gridò.
Una donna con i capelli corti e argentati lo guardò accigliata, trotterellando sul marciapiede
opposto.
Shirley aveva lasciato Lexie al Bricco di Rame, dove sembrava contenta, ma aveva appena
cominciato ad attraversare la Piazza quando aveva scorto Samantha, l’ultima persona che
avrebbe voluto incontrare, e così si era allontanata nella direzione opposta.
Il pianto e le grida del bimbo la seguirono per qualche metro. Shirley aveva il pugno stretto
intorno alla EpiPen che teneva in tasca. Lei non sarebbe diventata l’oggetto di battute volgari.
Voleva essere pura e commiserata, come Mary Fairbrother. La sua rabbia era così grande, così
pericolosa, che non riusciva a pensare lucidamente: voleva agire, punire, farla finita.
Poco prima del vecchio ponte di pietra, una macchia di cespugli tremolò alla sua sinistra. Guardò
meglio e colse l’immagine fuggevole di qualcosa di sordido e sporco, che la indusse a tirar dritto
per la sua strada.
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XIII
Sukhvinder camminava per Pagford da ancora più tempo di Samantha. Aveva lasciato la Vecchia
Canonica poco dopo che sua madre le aveva detto di andare al lavoro e da allora aveva vagato
per le strade, rispettando invisibili divieti di accesso intorno a Church Row, Hope Street e la
Piazza.
Aveva quasi cinquanta sterline in tasca, che erano la paga del caffè e della festa, e la lametta.
Avrebbe voluto prendere anche il suo libretto di risparmio, che stava in un mobiletto nello studio
del padre, ma Vikram era alla scrivania. Aveva aspettato per un po’ alla fermata dell’autobus per
Yarvil, ma poi aveva intravisto Shirley e Lexie Mollison lungo la strada ed era scappata.
Il tradimento di Gaia era stato ignobile e inaspettato. Rimorchiare Ciccio Wall... lui avrebbe
mollato Krystal, ora che aveva Gaia. Qualsiasi ragazzo avrebbe mollato chiunque per Gaia, questo
lo sapeva. Ma Sukhvinder non sopportava l’idea di andare al lavoro e sentire la sua unica alleata
cercare di spiegarle che tutto sommato Ciccio non era male.
Il cellulare vibrò. Gaia le aveva già mandato due messaggi.
Ke ciukka mi sono presa ieri sera?
Vai al lavoro?
Niente su Ciccio Wall. Gaia se l’era fatta con il torturatore di Sukhvinder e non le diceva niente. Il
nuovo messaggio chiedeva: Tutto ok?
Sukhvinder si rimise il cellulare in tasca. Poteva incamminarsi verso Yarvil e prendere un autobus
fuori città, dove nessuno l’avrebbe vista. Fino alle cinque e mezzo, quando sarebbe dovuta
tornare a casa dal caffè, i suoi genitori non si sarebbero accorti della sua assenza.
Camminando, accaldata e stanca, ideò un piano disperato: se riusciva a trovare una stanza che
costasse meno di cinquanta sterline... voleva soltanto star sola con la sua lametta.
Era sul lungofiume. Se avesse attraversato il ponte avrebbe potuto prendere una stradina fino
all’inizio della tangenziale.
«Robbie! Robbie! Dove sei?»
Era Krystal Weedon, che correva avanti e indietro lungo l’argine del fiume. Ciccio Wall fumava,
con una mano in tasca, e guardava Krystal.
Sukhvinder svoltò a destra sul ponte, col terrore che uno dei due potesse scorgerla. Le urla di
Krystal rimbombavano sull’acqua.
Sukhvinder vide qualcosa nel fiume.
Prima ancora di capire che cosa stava facendo, mise le mani sulla pietra calda del parapetto e si
issò sull’orlo del ponte. «È nel fiume, Krys!» gridò, e si tuffò di piedi nell’acqua. La corrente la tirò
giù e il monitor di un computer rotto le squarciò una gamba.
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XIV
Quando Shirley aprì la porta della camera, non vide altro che due letti vuoti. La giustizia avrebbe
voluto che Howard dormisse: adesso Shirley era costretta a dirgli di tornare a letto.
Ma dalla cucina e dal bagno non arrivavano rumori. Sicuramente Howard si era vestito ed era
andato a lavorare; non lo aveva incontrato perché era tornata a casa passando dal lungofiume.
Forse era già nel retrobottega con Maureen, a parlare di lei; forse, addirittura, a fare piani per
divorziare e sposare Maureen, ora che erano stati scoperti e la commedia era finita.
Andò in salotto quasi di corsa, con l’intenzione di telefonare al Bricco di Rame. Howard era
disteso a terra, in pigiama.
Aveva il viso paonazzo e gli occhi spalancati. Dalle labbra usciva un lieve rantolo. Una mano
stringeva debolmente il petto. La giacca del pigiama gli si era arrotolata sulla pancia. Shirley vide
il tratto di pelle squamosa in cui aveva meditato di affondare l’ago.
Gli occhi di Howard incrociarono i suoi in un muto appello.
Shirley lo fissò, terrorizzata, poi corse fuori dalla stanza. Nascose l’EpiPen nella scatola dei
biscotti, poi la riprese e la mise dietro i libri di ricette.
Tornò di corsa in salotto e telefonò al pronto soccorso.
«Pagford? È per Orrbank Cottage, vero? L’ambulanza sta arrivando.»
«Oh, grazie, grazie a Dio» sospirò Shirley; aveva quasi riagganciato quando si rese conto del
malinteso e gridò: «No, no, non Orrbank Cottage...»
Ma l’operatore aveva riattaccato e dovette richiamare. Era in uno stato di panico tale che il
telefono le cadde di mano. Accanto a lei, sulla moquette, il respiro sibilante di Howard si faceva
sempre più debole.
«Non Orrbank Cottage» gridò. «Evertree Crescent trentasei, Pagford... Mio marito ha avuto un
infarto...»
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XV
In Church Row, Miles Mollison si precipitò fuori di casa in pantofole e corse giù fino alla Vecchia
Canonica all’angolo. Batté alla pesante porta di quercia con la sinistra, mentre cercava di
comporre il numero di sua moglie con la destra.
«Sì?» disse Parminder, aprendo la porta.
«Papà...» ansimò Miles «... un altro infarto... mia mamma ha chiamato l’ambulanza... venga, la
prego. Venga...»
Parminder rientrò in casa, già pronta ad afferrare la borsa da medico, ma si fermò.
«Non posso. Sono stata sospesa, Miles. Non posso.»
«Sta scherzando... per favore... l’ambulanza ci metterà almeno...»
«Non posso, Miles.»
Lui si voltò e corse via dal cancello aperto. Vide Samantha, che risaliva il vialetto di casa. La
chiamò, con voce rotta, e lei si voltò sorpresa. Sulle prime pensò di essere lei la ragione di tanto
panico.
«Papà... un infarto... sta arrivando l’ambulanza... quella stronza di Parminder Jawanda non vuole
venire...»
«Oddio» fece Samantha. «Oh, Dio santo.»
Corsero alla macchina e partirono, Miles in pantofole e Samantha con gli zoccoli che le avevano
fatto venire le vesciche.
«Miles, senti, c’è una sirena... è già qui...»
Ma quando svoltarono in Evertree Crescent, non c’era nulla e la sirena si era già allontanata.
Un chilometro più in là, su un prato, Sukhvinder Jawanda stava vomitando acqua di fiume sotto
un salice, mentre una vecchietta le premeva addosso delle coperte ormai già bagnate quanto i
suoi vestiti. Un uomo che passava di lì col cane l’aveva tirata per i capelli e per la felpa fuori
dall’acqua. Adesso era a pochi metri di distanza, chino sopra un piccolo corpo inerte.
A Sukhvinder era parso di sentire Robbie che si divincolava tra le sue braccia, ma forse era stata
solo la feroce corrente del fiume, che aveva cercato di strapparglielo? Lei era un’ottima
nuotatrice, ma l’Orr l’aveva portata giù, sballottandola a suo piacimento. Era stata trascinata
oltre l’ansa, poi il fiume l’aveva gettata verso terra e lei era riuscita a gridare e aveva visto l’uomo
con il cane correrle incontro sulla riva...
«Niente da fare» disse l’uomo, che s’era dato da fare sul piccolo corpo di Robbie per venti minuti.
«È morto.»
Sukhvinder si mise a urlare e si lasciò scivolare giù sulla terra umida e fredda, tremando
furiosamente mentre il suono della sirena si avvicinava, troppo tardi.
A Evertree Crescent i paramedici stavano facendo una gran fatica a sistemare Howard sulla
barella; ci fu bisogno dell’aiuto di Miles e Samantha.
«Noi vi seguiamo in macchina, tu vai con papà» gridò Miles a Shirley, che aveva l’aria frastornata
e non voleva salire sull’ambulanza.
Maureen, che aveva appena salutato l’ultimo cliente del Bricco di Rame, rimase un momento
sulla soglia ad ascoltare.
«Un sacco di sirene» disse, voltandosi verso Andrew che, esausto, puliva i tavoli. «Dev’essere
successo qualcosa.»
E fece un respiro profondo, come se sperasse di sentire il sapore del disastro nell’aria calda del
pomeriggio.
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Parte Sesta
Debolezza dei corpi volontari
22.23 ... I principali punti di debolezza di tali corpi sono la difficoltà nell’organizzarli e la facilità
con cui si disintegrano...
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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___
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I
Quante, quante volte Colin Wall aveva immaginato la polizia che veniva a bussare alla sua porta.
E alla fine arrivò, quella domenica sera verso il crepuscolo: una donna e un uomo, ma non per
arrestare lui, bensì per cercare suo figlio.
C’era stato un incidente mortale e «Stuart, giusto?» era testimone. «È in casa?»
«No» disse Tessa. «Oh, Signore... Robbie Weedon... ma abita ai Fields... come mai era qui?»
La poliziotta spiegò, con gentilezza, quello che credevano fosse successo. «I ragazzi si sono
distratti» fu la frase che usò.
Tessa pensò di essere sul punto di svenire.
«Non sapete dov’è Stuart?» chiese il poliziotto.
«No» rispose Colin, teso e con gli occhi cerchiati. «Dov’è stato visto l’ultima volta?»
«Quando è arrivato il nostro collega, pare che Stuart sia, ehm, scappato.»
«Oh, Signore» ripeté Tessa.
«Non risponde» disse Colin con calma; aveva già chiamato Ciccio sul cellulare. «Dobbiamo andare
a cercarlo.»
Colin aveva passato la vita a prepararsi a una calamità. Era pronto. Prese il cappotto.
«Io provo a chiamare Arf» disse Tessa, correndo al telefono.
Isolata sopra la piccola città, Casa Bellavista non era ancora stata raggiunta dalla notizia della
catastrofe. Il cellulare di Andrew squillò in cucina.
«’onto?» disse lui, con la bocca piena di pane tostato.
«Andy, sono Tessa Wall. Stu è con te?»
«No» rispose lui, «mi dispiace.»
In realtà non gli dispiaceva per niente che Ciccio non fosse con lui.
«È successo qualcosa, Andy. Stu era al fiume con Krystal Weedon, lei aveva con sé il fratellino e il
bambino è annegato. Stu è scappato. Hai un’idea di dove possa essere?»
«No» rispose meccanicamente Andrew, perché quello era il loro codice. Mai dire niente ai
genitori.
Ma l’orrore di quanto lei aveva appena detto strisciò lungo la linea telefonica come una nebbia
appiccicosa. All’improvviso tutto era meno chiaro, meno certo. Tessa stava per riagganciare.
«Un momento, signora Wall» disse Andrew. «Forse lo so... c’è un posto lungo il fiume...»
«Dubito che sia rimasto vicino al fiume» obiettò Tessa.
I secondi passavano e Andrew era sempre più convinto che Ciccio fosse nel cubicolo.
«È l’unico posto che mi viene in mente.»
«Dimmi dove...»
«No, devo portarcela io.»
«Sono da te fra dieci minuti» gridò lei.
Colin stava già pattugliando le strade di Pagford a piedi. Tessa si mise al volante della Nissan e salì
i tornanti della collina; trovò Andrew che l’aspettava all’angolo, alla fermata dell’autobus. Lui le
diede indicazioni per attraversare la città. La luce dei lampioni era pallida al crepuscolo.
Parcheggiarono accanto agli alberi dove Andrew di solito lasciava la bici da corsa di Simon. Tessa
scese dalla macchina e seguì Andrew fino alla riva, perplessa e spaventata.
«Non c’è» disse.
«È là in fondo.» Andrew indicò la faccia scura della collina Pargetter, che scendeva a picco sul
fiume, con appena un lembo d’argine a dividerla dall’acqua impetuosa.
«Che vuoi dire?» chiese Tessa, atterrita.
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Andrew aveva pensato subito che Tessa, bassa e rotonda com’era, non sarebbe stata in grado di
seguirlo.
«Vado a vedere io» disse. «Lei aspetti qui.»
«Ma è troppo pericoloso!» gridò lei, più forte del rombo possente dell’acqua.
Ignorandola, Andrew mise mani e piedi sugli appigli che conosceva a memoria. Intanto che lui
procedeva centimetro dopo centimetro lungo la minuscola sporgenza, entrambi ebbero lo stesso
pensiero: che Ciccio poteva essere caduto, o essersi buttato, nel fiume che ruggiva così vicino ai
piedi di Andrew.
Tessa rimase in riva all’acqua finché non riuscì più a vedere Andrew, poi si girò dall’altra parte,
cercando di non piangere. Se Stuart era lì, voleva parlargli con calma. Per la prima volta si chiese
dove fosse Krystal. La polizia non l’aveva detto e la paura per Ciccio aveva cancellato ogni altro
pensiero...
Dio, ti prego, fammi trovare Stuart, supplicò. Fammelo trovare, ti scongiuro.
Poi tirò fuori il cellulare dalla tasca del cardigan e chiamò Kay Bawden.
«Non so se hai saputo» gridò, per sovrastare il rumore dell’acqua, e raccontò tutta la storia a Kay.
«Ma io non sono più la sua assistente sociale» rispose Kay.
Pochi metri più in là, Andrew era arrivato al cubicolo. Era completamente al buio; non era mai
stato lì così tardi. Ruotò su se stesso per entrare.
«Ciccio?»
Sentì qualcosa muoversi in fondo alla tana.
«Ciccio? Sei lì?»
«Hai da accendere, Arf?» chiese una voce irriconoscibile. «Ho perso i fiammiferi, porca troia.»
Andrew pensò di chiamare Tessa, ma poi gli venne in mente che lei non sapeva quanto ci volesse
per raggiungere il cubicolo. Poteva aspettare ancora un po’.
Passò l’accendino a Ciccio. Alla luce tremolante, Andrew vide che l’aspetto del suo amico era
cambiato quasi quanto la sua voce. Ciccio aveva gli occhi gonfi; tutta la faccia sembrava gonfia.
La fiamma si spense. La punta della sigaretta di Ciccio brillò nel buio.
«Il fratello... è morto?»
Andrew non si era reso conto che Ciccio non lo sapeva.
«Sì» rispose, poi aggiunse: «Credo di sì. Mi... mi hanno detto di sì.»
Seguì un silenzio, poi un debole squittio, simile a quello di un porcellino, risuonò nel buio.
«Signora Wall!» gridò Andrew, sporgendo la testa il più possibile, tanto che non sentiva più i
singhiozzi di Ciccio, coperti dal rumore del fiume. «Signora Wall, è qui!»
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II
La poliziotta era stata molto gentile, nel villino accanto al fiume, dove l’acqua sporca ora copriva
coperte, poltrone di cinz e tappeti consunti. La vecchia proprietaria aveva portato una borsa
dell’acqua calda e una tazza di tè bollente, che Sukhvinder non era riuscita a sollevare perché
tremava come un martello pneumatico. Aveva vomitato frammenti di informazioni: il suo nome,
quello di Krystal e il nome del bambino morto che stavano caricando sull’ambulanza.
L’uomo col cane che l’aveva tirata fuori dal fiume era mezzo sordo; rese la sua dichiarazione alla
polizia nella stanza accanto, urlando in un modo che Sukhvinder trovava insopportabile. Il suo
cane, legato a un albero fuori dalla finestra, non la smetteva più di uggiolare.
Poi la polizia aveva chiamato i genitori di Sukhvinder. Parminder, attraversando la stanza con le
braccia cariche di vestiti puliti, aveva fatto cadere un tavolino e rotto uno dei numerosi
soprammobili della vecchia signora. Nel minuscolo bagno, aveva visto la ferita sulla gamba di
Sukhvinder: profonda e sporca, stava macchiando di punti nerastri il morbido tappetino.
Parminder aveva gridato a Vikram, che nell’ingresso stava ringraziando tutti con trasporto, che
bisognava portare Sukhvinder all’ospedale.
In macchina Sukhvinder aveva vomitato di nuovo e sua madre, accanto a lei sul sedile posteriore,
l’aveva ripulita; per tutta la strada Parminder e Vikram non avevano mai smesso di parlare, a
voce innaturalmente alta. Suo padre continuava a ripetere le stesse cose: «Avrà bisogno di un
sedativo», o: «Bisognerà dare dei punti, a quella ferita»; mentre Parminder, accanto a Sukhvinder
che tremava e vomitava, ne diceva una sola: «Potevi morire. Potevi morire.»
A Sukhvinder sembrava di essere ancora sott’acqua. In un posto dove non riusciva a respirare.
Cercò di venirne fuori, di farsi sentire.
«Krystal lo sa che è morto?» chiese, ma batteva tanto i denti che sua madre dovette chiederle più
volte di ripetere la domanda.
«Non lo so» rispose Parminder alla fine. «Potevi morire, Cincia.»
All’ospedale la fecero svestire di nuovo, ma questa volta la madre rimase con lei dietro le tendine
e Sukhvinder si rese conto dell’errore troppo tardi, vedendo l’espressione atterrita sul suo volto.
«Oddio» esclamò Parminder, afferrandole l’avambraccio. «Oddio, che cosa ti sei fatta?»
Sukhvinder, senza parole, scoppiò in lacrime e riprese a tremare. Allora Vikram gridò a tutti, sua
moglie compresa, di lasciarla stare, ma anche di far presto, che quella ferita aveva bisogno di
essere pulita, che ci volevano dei punti, dei sedativi, una lastra...
Più tardi, si ritrovò in un letto con un genitore a ogni lato, ed entrambi le accarezzavano le mani.
Aveva caldo ed era stordita, e la gamba non le faceva più male. Il cielo fuori dalle finestre era
scuro.
«Howard Mollison ha avuto un altro infarto» sentì sua madre dire a suo padre. «Miles voleva che
ci andassi io.»
«Bel coraggio» commentò Vikram.
Con grande sorpresa della sonnolenta Sukhvinder, non parlarono più di Howard Mollison.
Continuarono ad accarezzarle le mani finché, poco dopo, si addormentò.
All’altro capo dell’edificio, in una triste stanza azzurra con sedie di plastica e un acquario
nell’angolo, Miles e Samantha erano seduti da un lato e dall’altro di Shirley, in attesa di novità
dalla sala operatoria. Miles era ancora in pantofole.
«Non posso credere che Parminder Jawanda non sia voluta venire» ripeté per l’ennesima volta,
con voce rotta. Samantha si alzò, passò davanti a Shirley e abbracciò Miles, gli baciò i folti capelli
spruzzati di grigio aspirandone l’odore familiare.
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«Non mi sorprende affatto» disse Shirley con voce stridula e strozzata. «Non mi sorprende. È
orribile.»
Non le era rimasto altro, della vecchia vita e delle vecchie certezze, che attaccare gli obiettivi di
sempre. Lo choc le aveva portato via quasi tutto: non sapeva più cosa credere, né cosa sperare.
L’uomo nella sala operatoria non era l’uomo che pensava di aver sposato. Che bello sarebbe stato
tornare indietro nel tempo, a quell’epoca felice e piena di certezze, prima di leggere quel terribile
post...
Forse era meglio chiudere il sito e amen. Cancellare la bacheca dei messaggi dalla faccia della
Terra. Temeva che il Fantasma potesse tornare, ripetere quell’accusa mostruosa...
Voleva andare a casa, subito, ed eliminare il sito; già che c’era, poteva anche distruggere
l’EpiPen...
L’ha vista... so che l’ha vista...
Ma non l’avrei mai fatto, lo giuro. Non l’avrei fatto. Ero sconvolta. Non l’avrei mai fatto...
Che cosa sarebbe successo se Howard fosse sopravvissuto e le sue prime parole fossero state:
«Quando mi ha visto è scappata fuori dalla stanza. Non ha chiamato subito l’ambulanza. Aveva in
mano una grossa siringa...»
Dirò che ha avuto dei danni al cervello, pensò Shirley con aria di sfida.
E se fosse morto...
Accanto a lei, Samantha stava abbracciando Miles. Shirley non era contenta; doveva esserci lei al
centro dell’attenzione; c’era suo marito, di sopra, a lottare per la vita. Lei voleva essere come
Mary Fairbrother, coccolata e ammirata, un’eroina tragica. Non era così che aveva immaginato...
«Shirley?»
Ruth Price, in uniforme da infermiera, era entrata di corsa nella stanza, la compassione dipinta
sul volto magro.
«Ho saputo... sono venuta subito... Shirley, che cosa terribile, mi dispiace...»
«Ruth, cara» disse Shirley, alzandosi e lasciandosi abbracciare. «Sei tanto, tanto gentile.»
Shirley fu felice di presentare la sua amica infermiera a Miles e Samantha e di incassare davanti a
loro la sua compassione e la sua gentilezza. Era un piccolo assaggio di come aveva immaginato la
vedovanza...
Ma poi Ruth dovette tornare al lavoro e Shirley alla sua sedia di plastica e ai suoi pensieri molesti.
«Andrà tutto bene» stava mormorando Samantha a Miles, che teneva la testa appoggiata sulla
sua spalla. «So che ce la farà. Come l’altra volta.»
Shirley guardò i pesciolini illuminati dal neon che sfrecciavano avanti e indietro nella loro vasca.
Era il passato che avrebbe voluto cambiare; il futuro era un foglio bianco.
«Qualcuno l’ha detto a Mo?» chiese Miles dopo un po’, asciugandosi gli occhi col dorso della
mano, mentre con l’altra stringeva la gamba di Samantha. «Mamma, vuoi che...?»
«No» rispose lei, seccamente. «Aspettiamo... di sapere.»
Nella sala al piano di sopra, il corpo di Howard Mollison strabordava dal tavolo operatorio. Il
petto era stato aperto, svelando quel che restava del lavoro di Vikram Jawanda. Diciannove
persone erano all’opera per riparare i danni; le macchine alle quali Howard era collegato, con il
loro rumore sommesso e implacabile, testimoniavano che era ancora in vita.
Molto più in basso, nelle viscere dell’ospedale, il corpo di Robbie Weedon giaceva all’obitorio,
gelido e bianco. Nessuno lo aveva accompagnato all’ospedale e nessuno era andato a trovarlo nel
suo cassetto metallico.
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III
Andrew aveva declinato il passaggio per Casa Bellavista, così in macchina c’erano solo Tessa e
Ciccio. Ciccio disse: «Non voglio andare a casa.»
«Va bene» rispose Tessa, e continuò a guidare parlando al telefono con Colin. «L’ho trovato...
Andy l’ha trovato. Torniamo tra un po’... Sì... Sì, certo...»
Il volto di Ciccio era inondato di lacrime; il suo corpo lo stava tradendo; come quella volta che
l’urina calda gli era colata giù per la gamba fino al calzino, quando Simon Price gli aveva fatto fare
la pipì addosso. Gocce calde e salate gli cadevano dal mento sul petto, come gocce di pioggia.
Continuava a immaginare il funerale. Una bara piccolissima.
Lui non avrebbe voluto farlo così vicino a Robbie.
Si sarebbe mai liberato dal peso di quel bambino morto?
«Allora sei scappato» disse freddamente Tessa, mentre lui continuava a piangere.
Aveva pregato di trovarlo vivo, ma l’emozione più forte che provava adesso era il disgusto. Il suo
pianto non la commuoveva. Ci aveva fatto l’abitudine, alle lacrime degli uomini. Una parte di lei si
vergognava perché lui non si era buttato nel fiume.
«Krystal ha detto alla polizia che tu e lei eravate nei cespugli. L’avete lasciato da solo, non è
vero?»
Ciccio non aveva parole. Non riusciva a credere a tanta crudeltà. Non capiva la desolazione che
ruggiva dentro di lui, l’orrore, lo schifo?
«Be’, spero proprio che tu l’abbia messa incinta» continuò Tessa. «Almeno avrà una ragione per
vivere.»
A ogni svolta, Ciccio pensava che stessero tornando a casa. Aveva avuto più paura di Cubicolo, ma
adesso non c’era molto da scegliere, fra i suoi genitori. Voleva scendere dalla macchina, ma le
portiere erano bloccate.
Senza preavviso, Tessa sterzò e frenò. Ciccio, aggrappato ai lati del sedile, vide che si trovavano in
una piazzola sulla tangenziale di Yarvil. Ebbe paura che lei gli ordinasse di scendere e voltò verso
di lei il viso gonfio.
«La tua madre biologica» disse lei, guardandolo come non aveva mai fatto prima, senza traccia di
compassione né di gentilezza «aveva quattordici anni. Da quello che ci hanno raccontato,
abbiamo avuto l’impressione che si trattasse di una ragazza borghese e piuttosto intelligente.
Non ha mai voluto dire chi fosse tuo padre. Forse voleva proteggere un fidanzato minorenne o
forse qualcosa di peggio. Ci spiegarono queste cose nel caso tu avessi presentato problemi
mentali o fisici. Nel caso» scandì chiaramente, come un’insegnante che vuole sottolineare un
elemento che sicuramente comparirà nel prossimo compito in classe «che tu fossi frutto di un
incesto.»
Lui si girò dall’altra parte. Avrebbe preferito un colpo di pistola alla tempia.
«Io volevo disperatamente adottarti» proseguì lei. «Disperatamente. Ma papà stava molto male
e mi disse: ‘Non posso. Ho paura di fargli del male. Devo stare meglio, prima di fare una cosa del
genere, e non posso curarmi e intanto stare dietro a un neonato’.
«Ma io ero così determinata che lo convinsi a mentire, lo costrinsi a dire agli assistenti sociali che
stava bene, a fingere di essere felice e normale. Quando ti portammo a casa eri piccolissimo, eri
nato prematuro; cinque giorni dopo, di notte, papà si alzò in silenzio dal letto e andò in garage,
infilò una canna nel tubo di scappamento della macchina e cercò di uccidersi. Aveva paura di
soffocarti in un raptus. Per poco non morì.
«Quindi puoi dare la colpa a me» continuò Tessa, «se tu e tuo padre siete partiti col piede
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sbagliato, e forse puoi dare la colpa a me per tutto quello che è successo dopo. Ma ti dico una
cosa, Stuart. Tuo padre ha passato la vita ad affrontare colpe che non aveva. Non mi aspetto che
tu capisca questo genere di coraggio. Però» disse finalmente con la voce rotta, e Ciccio sentì di
nuovo la madre che conosceva, «ti vuole bene, Stuart.»
Non era riuscita a non aggiungere quella bugia. Quella sera, per la prima volta, Tessa era convinta
che fosse davvero una bugia, e anche che tutto quello che aveva fatto nella vita, pensando che
fosse per il meglio, era stato solo cieco egoismo, che aveva causato solo confusione e disastri. Ma
chi può tollerare di sapere quali stelle sono già morte? pensò, guardando il cielo notturno; c’è
qualcuno al mondo che possa sopportare di sapere che lo sono tutte?
Girò la chiave dell’accensione, ingranò la marcia e si rimise sulla tangenziale.
«Non voglio andare ai Fields» mormorò Ciccio, terrorizzato.
«Non stiamo andando ai Fields» rispose lei. «Ti porto a casa.»
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IV
Alla fine la polizia aveva trovato Krystal Weedon che correva disperatamente lungo la riva del
fiume, alla periferia di Pagford, chiamando ancora il fratello con voce rotta. La poliziotta che
l’avvicinò la chiamò per nome e cercò di comunicarle la notizia con delicatezza, ma Krystal tentò
lo stesso di mandarla via menando pugni e calci, e alla fine la poliziotta dovette quasi trascinarla
di forza in macchina. Krystal non si era accorta che Ciccio era sparito in mezzo agli alberi; per lei
non esisteva più.
La polizia la portò a casa, ma quando bussarono alla porta Terri non volle aprire. Li aveva visti da
una finestra del primo piano e aveva pensato che Krystal avesse fatto l’impensabile e
l’imperdonabile, cioè fosse andata a spifferare agli sbirri delle borse di hashish di Obbo. Le
trascinò di sopra, mentre la polizia continuava a picchiare alla porta, e aprì solo quando giudicò
inevitabile farlo.
«Cosa volete?» gridò da una piccola fessura della porta.
La poliziotta chiese tre volte di entrare, ma Terri si rifiutò di aprire finché non le avessero detto
che cosa volevano. I vicini avevano cominciato ad affacciarsi alle finestre. Anche quando la
poliziotta disse: «È per suo figlio, Robbie» Terri non capì.
«Sta bene. Nessun problema. È con Krystal.»
Ma poi vide Krystal, che non era voluta restare in macchina ed era già arrivata a metà del vialetto.
Lo sguardo di Terri scese lungo il corpo della figlia fino al punto in cui avrebbe dovuto esserci
Robbie, attaccato alla sua gamba per paura di quegli uomini strani.
Terri uscì di casa come una furia, con le mani tese come artigli. La poliziotta fece appena in tempo
ad afferrarla per la vita prima che si avventasse su Krystal.
«Stronza, puttana, che cos’hai fatto a Robbie?»
Krystal, scansando le due donne avvinghiate, corse in casa e si chiuse la porta alle spalle.
«Cazzo» mormorò l’altro poliziotto a mezza voce.
A chilometri di distanza, in Hope Street, Kay e Gaia Bawden erano l’una di fronte all’altra
nell’ingresso buio. Nessuna delle due era abbastanza alta per sostituire la lampadina fulminata da
giorni e non avevano una scala. Per tutto il giorno avevano litigato, fatto quasi pace e litigato di
nuovo. Poi, proprio nel momento in cui la riconciliazione era sembrata a portata di mano, quando
Kay aveva ammesso che anche lei odiava Pagford, che era stato uno sbaglio e che avrebbe
cercato di organizzare il ritorno a Londra, il suo cellulare aveva suonato.
«Il fratello di Krystal Weedon è annegato» sussurrò Kay, dopo aver chiuso la telefonata con
Tessa.
«Oh» disse Gaia. Sapeva di dover manifestare compassione, ma non voleva lasciar cadere il
discorso su Londra senza aver ottenuto un impegno preciso da parte della madre, così aggiunse,
con una vocina tirata: «Che triste.»
«È successo qui a Pagford» disse Kay. «Lungo la strada. Krystal era con il figlio di Tessa Wall.»
Gaia si vergognò ancora di più di aver permesso a Ciccio Wall di baciarla. Aveva un sapore
orribile, di birra e sigarette, e aveva cercato di palparla. Lei si meritava molto più di Ciccio Wall, lo
sapeva. Fosse anche stato Andy Price, si sarebbe sentita meglio. Sukhvinder non aveva risposto a
nessuna delle sue chiamate, per tutto il giorno.
«Sarà distrutta» mormorò Kay, con gli occhi velati.
«Ma tu non puoi farci niente» disse Gaia. «Vero?»
«Be’...»
«No, di nuovo!» gridò Gaia. «Sempre la stessa storia, sempre! Tu non sei più la sua assistente
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sociale! E a me» gridò, battendo il piede per terra come faceva da piccola, «a me non pensi mai?»
In Foley Road, il poliziotto aveva già chiamato l’assistente sociale di turno. Terri si contorceva,
gridava, cercava di picchiare alla porta, mentre dentro Krystal trascinava dei mobili per barricarsi.
I vicini erano usciti sulla soglia, ad assistere affascinati al crollo di Terri. Ne avevano capito la
causa, dalle grida incoerenti di Terri e dall’atteggiamento sinistro dei poliziotti.
«È morto il bambino» si dicevano. Nessuno si avvicinò a Terri per calmarla o darle conforto. Terri
Weedon non aveva amici.
«Vieni con me» chiese Kay alla figlia infuriata. «Devo andare a vedere se posso fare qualcosa. Io
ho un buon rapporto con Krystal. Lei non ha nessuno.»
«Scommetto che quando è successo stava scopando con Ciccio Wall!» gridò Gaia, ma fu la sua
ultima protesta: pochi minuti dopo si stava allacciando la cintura della vecchia Vauxhall di Kay,
contenta, malgrado tutto, che sua madre le avesse chiesto di accompagnarla.
Ma quando Kay e Gaia imboccarono la tangenziale, Krystal aveva già trovato quel che stava
cercando: una bustina di eroina nascosta nel ripostiglio; la seconda delle due che Obbo aveva
dato a Terri per pagarle l’orologio di Tessa Wall. Prese l’armamentario di Terri e portò tutto in
bagno, l’unica stanza con la serratura.
Sua zia Cheryl doveva aver saputo cos’era successo, perché Krystal ne sentiva il grido rauco,
mescolato alle urla di Terri, anche attraverso le due porte.
«Apri, stronza! Fatti vedere da tua madre!»
Anche i poliziotti urlavano, per far tacere le due donne.
Krystal non si era mai bucata, ma l’aveva visto fare molte volte. Sapeva tutto delle navi dei
Vichinghi, sapeva fare un vulcano in miniatura e sapeva anche scaldare il cucchiaio e fare una
pallina di ovatta per assorbire la roba sciolta e poi filtrarla quando si riempiva la siringa. Sapeva
che l’incavo del braccio era il punto migliore in cui trovare la vena, sapeva che bisognava
appoggiare l’ago il più piatto possibile contro la pelle. E sapeva, perché lo aveva sentito dire
molte volte, che la prima volta non si reggeva la dose dei tossici veri, e le andava bene così,
perché non aveva intenzione di reggere.
Robbie era morto ed era tutta colpa sua. Per cercare di salvarlo lo aveva ucciso. Una girandola di
immagini le si affacciò alla mente, intanto che le dita eseguivano il loro compito. Fairbrother che
correva in tuta lungo il canale, mentre loro remavano. Il viso di nonna Cath, scavato dal dolore e
dall’amore. Robbie che l’aspettava, innaturalmente pulito, alla finestra della casa dov’era in
affido e saltava su e giù dalla gioia vedendola arrivare alla porta...
Sentì il poliziotto che la chiamava dalla buca delle lettere e le diceva di non fare la stupida,
mentre la sua collega cercava di far tacere Terri e Cheryl.
L’ago scivolò facilmente nella vena. Krystal premette forte lo stantuffo, fiduciosa e senza
rimpianti.
Quando Kay e Gaia arrivarono e la polizia decise di entrare con la forza, Krystal Weedon aveva
soddisfatto la sua unica ambizione: raggiungere suo fratello, dove nessuno poteva più dividerli.
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Parte Settima
Soccorso alla povertà...
13.5 Le donazioni a beneficio dei poveri... sono caritatevoli e un dono ai poveri è caritatevole
anche se incidentalmente beneficia il ricco...
Charles Arnold-Baker
L’amministrazione del Consiglio locale
Settima edizione
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___
Una splendente mattina di aprile, quasi tre settimane dopo che le sirene avevano ululato nella
sonnacchiosa Pagford, Shirley Mollison era sola in camera da letto e si guardava allo specchio del
guardaroba. Stava dando gli ultimi ritocchi all’abbigliamento prima della spedizione, ormai
giornaliera, al Policlinico South West. La cintura era di un buco più stretta rispetto a quindici
giorni prima, i capelli argentei avevano bisogno di una spuntatina e la smorfia dovuta alla luce del
sole che invadeva la stanza esprimeva bene anche il suo umore.
Shirley aveva fatto avanti e indietro per quei reparti per un anno, spingendo il carrello dei libri,
portando cartelle cliniche e fiori, e mai una volta le aveva sfiorato la mente di poter diventare, un
giorno, una di quelle povere donne che, curve sotto il peso della loro vita deragliata, sedevano al
capezzale di un marito infermo e sconfitto. Howard non si era ripreso in fretta come sette anni
prima. Era ancora attaccato a quelle macchine pigolanti, debole, chiuso in se stesso, con un
brutto colorito, e non sopportava di dover dipendere dagli altri. A volte Shirley fingeva di dover
andare in bagno per sfuggire al suo sguardo torvo.
Quando Miles l’accompagnava all’ospedale, lei poteva lasciargli l’incombenza di parlare con
Howard, e Miles lo faceva volentieri, raccontandogli in un monologo incessante le ultime novità
pagfordiane. Shirley si sentiva molto meglio – più visibile e insieme più protetta – quando il figlio,
alto com’era, percorreva al suo fianco i freddi corridoi dell’ospedale. Chiacchierava cordialmente
con le infermiere, l’aiutava a scendere e salire dalla macchina, le restituiva la sensazione di essere
una creatura rara, degna di attenzione e protezione. Ma Miles non poteva venire tutti i giorni e,
con profonda irritazione di Shirley, delegava continuamente a Samantha il compito di
accompagnarla. Non era affatto la stessa cosa, sebbene Samantha fosse tra i pochi capaci di far
comparire il sorriso sul volto vacuo e livido di Howard.
Nessuno, poi, capiva quanto fosse terribile il silenzio che regnava in casa. Quando i medici
avevano comunicato alla famiglia che la convalescenza sarebbe durata mesi, Shirley aveva
sperato che Miles la invitasse a trasferirsi nella stanza degli ospiti della grande casa di Church
Row, o che magari venisse a dormire ogni tanto nel villino. Invece niente: era stata lasciata sola, a
parte quei tre penosi giorni in cui aveva ospitato Pat e Melly.
Non l’avrei mai fatto, si rassicurava meccanicamente nel silenzio della notte, quando non riusciva
a dormire. Non volevo farlo davvero. Ero solo sconvolta. Non l’avrei mai fatto.
Aveva sotterrato l’EpiPen nella terra soffice sotto la casetta degli uccelli in giardino, come un
piccolo cadavere. Non le piaceva sapere che era lì. Una di quelle sere, col buio, prima della
raccolta dei rifiuti, l’avrebbe buttata nel bidone di un vicino.
Howard non aveva parlato della siringa, né a lei né a nessun altro. Non le aveva chiesto perché
quando lo aveva visto era corsa via.
Shirley trovava sollievo scatenandosi in lunghe tirate di insulti contro coloro che, secondo lei,
avevano fatto abbattere la catastrofe sulla sua famiglia. Parminder Jawanda era la prima della
lista, ovviamente, per il suo ostinato rifiuto di soccorrere Howard. Poi c’erano i due ragazzini che,
con la loro ignobile irresponsabilità, molto probabilmente avevano fatto ritardare l’ambulanza di
Howard.
Il secondo argomento era forse un po’ debole, ma era un modo soddisfacente di denigrare Stuart
Wall e Krystal Weedon, e a Shirley non mancavano orecchie ben disposte nella sua cerchia di
amicizie. Oltretutto si era diffusa la notizia che il Fantasma di Barry Fairbrother era il figlio dei
Wall. L’aveva confessato ai genitori, che avevano telefonato personalmente alle vittime per
scusarsi. L’identità del Fantasma era trapelata velocemente nella comunità e questo, unito al
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fatto che il ragazzo era corresponsabile dell’annegamento di un bambino di tre anni, rendeva gli
insulti a Stuart non solo un piacere ma un dovere.
Shirley era la più accanita di tutti. C’era una furia selvaggia nelle sue condanne, ciascuna piccolo
esorcismo dell’ammirazione e della solidarietà provate per il Fantasma e al tempo stesso ripudio
di quell’ultimo post che nessuno, per il momento, aveva ammesso di aver letto. I Wall non
l’avevano chiamata per scusarsi, ma lei era pronta come una mina innescata: nel caso in cui il
ragazzo ne avesse parlato con i genitori, o chiunque altro vi avesse accennato, avrebbe sferrato il
colpo di grazia alla reputazione di Stuart Wall.
«Oh, sì, Howard e io lo sappiamo» pensava di dire, con dignità glaciale, «e sono convinta che sia
stato lo choc a provocare l’infarto.»
Aveva addirittura provato la battuta ad alta voce, in cucina.
Meno urgente, ormai, era invece la questione di cosa fosse davvero venuto a sapere Stuart Wall
su suo marito e Maureen, visto che Howard non era più in grado di umiliarla in quel modo – e
forse non lo sarebbe stato mai più – e nessuno faceva pettegolezzi. E se il silenzio che gli
infliggeva, quando non poteva evitare di restare sola con lui, era impregnato di reciproco
rancore, lei affrontava la prospettiva della sua lunga invalidità e della sua assenza da casa con più
serenità di quanto si sarebbe sentita capace tre settimane prima.
Il campanello della porta suonò e Shirley corse ad aprire. Era Maureen, vacillante su un paio di
tacchi insensatamente alti, vestita di sgargiante acquamarina.
«Ciao, cara, entra» le disse. «Prendo la borsa.»
Era meglio andare all’ospedale perfino con Maureen, piuttosto che da sola. Maureen non si
lasciava turbare dal mutismo di Howard: la sua voce gracchiante non si fermava mai e Shirley
poteva sedersi in pace, mettere su un sorriso timido e rilassarsi. Del resto, adesso che Shirley
aveva assunto il controllo temporaneo della quota di Howard nella società, non le mancavano le
occasioni di sfogarsi contrastando ogni decisione di Maureen.
«Sai cosa succede in fondo alla via?» disse Maureen. «A St Michael? Il funerale dei Weedon.»
«Qui?» chiese Shirley con orrore.
«Pare che abbiano fatto una colletta» raccontò Maureen. Intanto che Shirley era andata avanti e
indietro dall’ospedale, lei aveva fatto il pieno di pettegolezzi. «Non chiedermi chi. E comunque
non credo che la famiglia avrebbe voluto farlo così vicino al fiume, no?»
(Quel bambino sporco e maleducato, della cui esistenza pochi si erano accorti e che nessuno
aveva mai amato a parte sua madre e sua sorella, aveva subìto una tale trasformazione nella
mente collettiva di Pagford, dopo il suo annegamento, da essere diventato ormai per tutti una
creatura fatata, un cherubino, un angelo puro e gentile che chiunque avrebbe colmato di amore e
compassione, se solo fosse stato ancora vivo.
Al contrario, l’ago e la fiamma non avevano sortito alcun cambiamento nella reputazione di
Krystal; anzi, nella memoria della vecchia Pagford la sua immagine si era cristallizzata per sempre
in quella di una creatura immorale, che per soddisfare quelli che gli anziani chiamavano capricci
aveva causato la morte di un bimbo innocente.)
Shirley si stava infilando il cappotto.
«Ti rendi conto che io quel giorno li ho visti?» disse, imporporandosi. «Il bambino che piangeva
vicino a un cespuglio e Krystal Weedon e Stuart Wall in un altro...»
«Davvero? E stavano proprio...?» chiese avidamente Maureen.
«Eh, sì» confermò Shirley. «In pieno giorno. All’aria aperta. E il bambino era a un passo dal fiume,
quando l’ho visto. Non ci voleva niente a cadere dentro.»
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Qualcosa nell’espressione di Maureen la irritò.
«Andavo di fretta» spiegò Shirley, aspra, «perché Howard aveva detto che non si sentiva bene ed
ero molto preoccupata. Non volevo neanche uscire, ma Miles e Samantha avevano mandato
Lexie da noi... se vuoi la mia sincera opinione, avevano litigato... e poi Lexie è voluta andare al
caffè... insomma, avevo altro per la testa; riuscivo solo a pensare: devo tornare da Howard...
Soltanto dopo mi sono resa conto di cosa avevo visto... e il peggio è» disse, con le guance più
rosse che mai, tornando al suo ritornello preferito «che se Krystal Weedon, per divertirsi tra i
cespugli, non avesse lasciato quel bambino a vagare da solo, l’ambulanza sarebbe arrivata da
Howard molto prima. Perché sai, con due chiamate... c’è stata confu...»
«Infatti» la interruppe Maureen mentre andavano verso la macchina, perché era una storia che
aveva già sentito. «Ma non capisco proprio perché facciano il funerale qui a Pagford...»
Avrebbe voluto proporle di passare davanti alla chiesa, sulla strada per l’ospedale (moriva dalla
voglia di vedere la famiglia Weedon al completo, e magari anche la madre tossica e degenerata),
ma non trovò un pretesto plausibile.
«Sai, Shirley, c’è una sola consolazione» disse, quando partirono. «I Fields sono acqua passata.
Sarà di conforto per Howard. Anche se per un po’ non potrà partecipare al Consiglio, almeno
questo l’ha ottenuto.»
Andrew Price scendeva veloce la ripida collina da Casa Bellavista, con il sole caldo sulla schiena e
il vento nei capelli. L’occhio nero, vecchio ormai di una settimana, era diventato verde e giallo; se
possibile, Andrew era conciato ancora peggio di quando si era presentato a scuola con la
palpebra semichiusa. Agli insegnanti aveva raccontato di essere caduto dalla bicicletta.
Erano iniziate le vacanze di Pasqua e la sera prima Gaia gli aveva mandato un sms per chiedergli
se l’indomani sarebbe venuto al funerale di Krystal. Lui aveva risposto immediatamente di sì e
ora, dopo lunghe riflessioni, indossava i jeans e una camicia grigio scuro, perché non aveva un
completo.
Non sapeva bene perché Gaia andasse al funerale, se non per stare vicino a Sukhvinder Jawanda,
alla quale sembrava più legata che mai ora che stava per tornare a Londra con sua madre.
«Mia mamma dice che non sarebbe mai dovuta venire a Pagford. Finalmente ha capito che Gavin
è un perfetto coglione» aveva annunciato allegramente a lui e a Sukhvinder all’ora di pranzo,
seduta con loro sul muretto accanto al giornalaio.
Aveva dato a Andrew il suo numero di cellulare e gli aveva detto che sarebbero usciti insieme
quando lei fosse venuta a Reading a trovare suo padre; gli aveva perfino buttato lì la possibilità di
portarlo in alcuni dei suoi posti preferiti di Londra, se fosse andato a trovarla. Stava dispensando
benevolenza come un soldato alla fine del servizio di leva, e queste promesse, fatte con tanta
disinvoltura, indoravano la prospettiva del trasloco di Andrew: quando i genitori gli avevano
annunciato di aver ricevuto un’offerta per Casa Bellavista, lui aveva accolto la notizia con un
entusiasmo pari almeno alla tristezza.
L’ampia curva di Church Row, che di solito lo metteva di buonumore, lo incupì. Vedendo la gente
che si aggirava per il cimitero si chiese come sarebbe stato quel funerale e per la prima volta,
quella mattina, pensò a Krystal Weedon in termini meno astratti.
Gli si riaffacciò alla mente un ricordo, seppellito da tempo nei recessi più profondi della memoria:
quella volta che, nel campo sportivo della St Thomas, Ciccio, con disinteressato spirito scientifico,
gli aveva dato un marshmallow con un’arachide nascosta dentro... sentiva ancora la gola bruciare
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e chiudersi inesorabilmente. Ricordava di aver cercato di gridare, le ginocchia che cedevano, i
bambini che lo guardavano con uno strano interesse apatico, e poi l’urlo rauco di Krystal
Weedon.
«Andy Price ha la lergìa!»
Era corsa con le sue gambotte fino alla sala degli insegnanti; il preside aveva preso Andrew in
braccio e lo aveva portato di corsa all’ambulatorio più vicino, dove il dottor Crawford gli aveva
iniettato l’adrenalina. Krystal era stata l’unica a ricordarsi di quando l’insegnante aveva spiegato
che Andrew aveva una malattia potenzialmente letale; l’unica a riconoscere i sintomi.
Avrebbero dovuto darle una stella d’oro, e forse il premio di Alunna della Settimana
all’assemblea, ma lei l’indomani (Andrew lo ricordava nitidamente, come il giorno del suo
collasso) aveva picchiato Lexie Mollison sulla bocca e le aveva fatto cadere due denti.
Spinse con cura la bicicletta nel garage dei Wall, poi suonò alla porta con una riluttanza mai
provata prima.
Tessa Wall venne ad aprire con addosso il suo miglior cappotto grigio. Andrew ce l’aveva con lei;
era colpa sua se aveva un occhio nero.
«Entra, Andy» disse lei. Aveva un’espressione tesa. «Ci mettiamo un minuto.»
Andrew aspettò all’ingresso, dove il vetro colorato sopra la porta gettava la sua luce variopinta
sulle assi del pavimento. Tessa andò in cucina e Andrew vide Ciccio in completo nero,
raggomitolato su una sedia come un ragno morto, con un braccio sopra la testa come a difendersi
da un colpo.
Andrew si girò dall’altra parte. I due ragazzi non si erano più sentiti da quando Andrew aveva
portato Tessa al cubicolo. Ciccio non era venuto a scuola per due settimane. Andrew gli aveva
mandato un paio di sms, ma lui non aveva risposto. La sua pagina Facebook era rimasta intatta
dal giorno del compleanno di Howard Mollison.
Una settimana prima, di punto in bianco, Tessa aveva telefonato ai Price per dire che Ciccio aveva
ammesso di essere l’autore dei messaggi del Fantasma e porgere le sue più sincere scuse per le
conseguenze che avevano patito.
«E come cazzo faceva a sapere che avevo quel computer?» aveva ruggito Simon, piombando su
Andrew. «Come faceva quello stronzo di Ciccio Wall a sapere che lavoravo in nero alla
tipografia?»
L’unica consolazione di Andrew era stata che suo padre, se avesse saputo la verità, avrebbe
ignorato le proteste di Ruth e lo avrebbe ammazzato di botte.
Andrew non sapeva perché Ciccio si fosse preso la responsabilità di tutti i post. Forse era colpa
del suo ego, della sua volontà di essere la mente superiore, il più distruttivo, il più cattivo. O forse
aveva pensato di compiere un gesto nobile, prendendosi la colpa per tutti e due. In un caso o
nell’altro, Ciccio non si rendeva conto di quanti guai avesse causato; al sicuro nella sua mansarda,
con quei genitori civili e ragionevoli, non aveva mai capito, pensava Andrew aspettando
all’ingresso, che cosa significava vivere con un padre come Simon Price.
I coniugi Wall stavano parlando a bassa voce; Andrew li sentiva dalla porta della cucina, lasciata
aperta.
«Dobbiamo uscire subito» stava dicendo Tessa. «E lui ha l’obbligo morale di andarci.»
«È stato punito abbastanza» rispose la voce di Cubicolo.
«Non sto dicendo che ci deve andare per...»
«Ah, no?» chiese Cubicolo, bruscamente. «Per l’amor del cielo, Tessa. Credi che loro siano
contenti di vederlo? Vai tu. Stu può restare qui con me.»
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Un minuto dopo Tessa uscì dalla cucina, chiudendo la porta con una certa forza.
«Stu non viene, Andy» disse, palesemente arrabbiata. «Mi dispiace.»
«Non c’è problema» mormorò lui. Era contento. Non riusciva a immaginare di cosa avrebbero
potuto parlare. Così poteva sedersi accanto a Gaia.
Poco più là, in Church Row, Samantha Mollison era seduta davanti alla finestra del soggiorno, con
una tazza di caffè in mano, a guardare la gente che andava alla chiesa di St Michael and All Saints
per il funerale. Quando vide Tessa Wall e un ragazzo che scambiò per Ciccio si lasciò sfuggire
un’esclamazione.
«Oh, Signore Iddio, ci va!» disse ad alta voce, a nessuno.
Poi riconobbe Andrew, arrossì e si allontanò in fretta dal vetro.
Samantha in teoria sarebbe dovuta rimanere a casa a lavorare. Il portatile era aperto sul divano,
ma quella mattina si era messa un vecchio vestito nero con la mezza idea di andare al funerale di
Krystal e Robbie Weedon. Le restavano pochi minuti per decidere.
Non aveva mai pronunciato una parola buona su Krystal Weedon, dunque sarebbe stato
abbastanza ipocrita partecipare al suo funerale solo perché aveva pianto leggendo il resoconto
della sua morte sulla Yarvil and District Gazette, o perché la faccia paffuta di Krystal sorrideva in
tutte le foto di classe che Lexie aveva portato dalla St Thomas.
Posò il caffè, corse al telefono e chiamò Miles in ufficio.
«Ciao, piccola» disse lui.
(Samantha l’aveva abbracciato quando lui aveva pianto di sollievo accanto al letto d’ospedale
dove giaceva Howard, attaccato alle macchine, ma vivo.)
«Ciao» rispose lei. «Come stai?»
«Non male. Un bel po’ di lavoro. Ma sono contento di sentirti. Tu stai bene?»
(La sera prima avevano fatto l’amore e lei non aveva dovuto far finta che lui fosse un altro.)
«Sta per cominciare il funerale» disse Samantha. «Vedo la gente che passa...»
Per quasi tre settimane aveva tenuto dentro quello che voleva dire, un po’ per Howard e
l’ospedale, e un po’ perché non voleva ricordare a Miles il loro terribile litigio, ma adesso non ce
la faceva più.
«... Miles, io quel bambino l’ho visto. Robbie Weedon. L’ho visto, Miles.» Era spaventata,
supplicante. «Nel campo della St Thomas, quella mattina.»
«Nel campo di calcio?»
«Doveva essersi allontanato mentre loro... Era solo» disse, rivedendo l’immagine del bimbo,
sporco e spettinato. Si sarebbe preoccupata di più, se fosse stato più pulito? Aveva
inconsciamente interpretato quei segni di incuria come indizi della sua abitudine a stare per
strada? Aveva dato per scontato che se la sarebbe cavata, che non aveva bisogno di lei? «Ho
pensato che ci fosse andato per giocare, ma non c’era nessuno con lui. Aveva solo tre anni e
mezzo, Miles. Perché non gli ho chiesto con chi era?»
«Ehi, ehi» fece lui, come a dire «calma, calma» e Samantha provò un sollievo immediato: Miles
stava prendendo la situazione in mano e lei sentiva già le lacrime agli occhi. «Non è colpa tua.
Non potevi sapere. Probabilmente hai pensato che sua madre fosse lì vicino.»
(Quindi lui non la odiava; non pensava che fosse cattiva. Ultimamente Samantha si sentiva così
piccina, davanti alla capacità di perdonare di suo marito.)
«Non lo so» disse, debolmente. «Miles, se gli avessi parlato...»
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«Non era nemmeno vicino al fiume, quando l’hai visto.»
Però era vicino alla strada, pensò Samantha.
Nelle ultime tre settimane era cresciuto in lei il desiderio di impegnarsi in qualcosa di più grande.
Giorno dopo giorno aveva aspettato che quello strano, nuovo bisogno si placasse (è così che ti
vengono le crisi mistiche, aveva pensato, cercando di cavarsela con una risata), ma semmai si era
intensificato.
«Miles» disse, «ascolta: il Consiglio... con tuo padre... e le dimissioni di Parminder Jawanda...
Avrete bisogno di cooptare un paio di persone, giusto?» Conosceva tutta la terminologia; la
sentiva da anni. «Perché insomma, con tutto quello che è successo non vorrete indire un’altra
elezione?»
«Neanche per sogno.»
«Ecco. Colin Wall potrebbe occupare un seggio» proseguì precipitosamente lei, «e stavo
pensando, adesso che il negozio è online ho più tempo... potrei prendere io l’altro.»
«Tu?» Miles sembrava sbalordito.
«Mi piacerebbe impegnarmi» disse Samantha.
Krystal Weedon, morta a sedici anni, barricata in quella casa squallida di Foley Road... Erano due
settimane che Samantha non toccava vino. Pensò che le sarebbe piaciuto ascoltare le
argomentazioni a favore del Centro per la tossicodipendenza Bellchapel.
Al numero 10 di Hope Street il telefono squillava. Kay e Gaia erano già in ritardo per il funerale di
Krystal. Quando Gaia chiese chi era, il suo bel viso si indurì: sembrava molto più vecchia.
«È Gavin» disse a sua madre.
«Io non l’ho chiamato!» bisbigliò Kay, come una scolaretta nervosa, prendendo il telefono.
«Ciao» disse Gavin. «Come va?»
«Sto andando a un funerale» rispose Kay, con gli occhi in quelli di sua figlia. «I Weedon. Quindi
no, non va benissimo.»
«Oh» fece Gavin. «Oddio. Sì, scusa. Non ci avevo pensato.»
Aveva riconosciuto quel cognome in un titolo della Yarvil and District Gazette e alla fine, preso da
un vago interesse, aveva comprato una copia. Gli era venuto il dubbio di essere passato vicino al
punto dove si trovavano i ragazzi e il bambino, ma non aveva alcun ricordo di aver visto Robbie
Weedon.
Le ultime due settimane erano state strane per Gavin. Barry gli mancava moltissimo. Faceva
fatica a capirsi: avrebbe dovuto disperarsi per il rifiuto di Mary e invece l’unico suo desiderio era
bere una birra con l’uomo del quale aveva cercato di conquistare la moglie...
(Borbottando fra sé, mentre si allontanava da casa di lei, si era detto: «Ecco cosa succede a voler
sposare la vita del tuo migliore amico» senza accorgersi del lapsus.)
«Senti» disse a Kay, «volevo chiederti se magari non ti andava di bere qualcosa, più tardi.»
Kay per poco non scoppiò a ridere.
«Ti ha dato buca, eh?»
Restituì il telefono a Gaia. Uscirono in fretta di casa e fecero quasi di corsa tutta la via e tutta la
Piazza. Per una decina di passi, davanti al Black Canon, Gaia tenne per mano sua madre.
Quando arrivarono, i carri funebri comparivano già in fondo alla via, così si affrettarono a entrare
nel cimitero mentre i portatori uscivano sul marciapiede.
(«Via dalla finestra» aveva ordinato Colin Wall a suo figlio.
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Ma Ciccio, che ormai doveva vivere con la consapevolezza della propria codardia, era avanzato di
un altro passo per dimostrare che almeno quella prova poteva affrontarla...
Aveva visto le bare dietro i vetri oscurati delle grandi auto: la prima era rosa shocking, e quella
vista gli aveva tolto il respiro, la seconda era piccolissima, bianca e lucida...
Colin si era parato davanti a Ciccio troppo tardi per proteggerlo, ma aveva tirato comunque le
tende. In quello stesso salotto buio e familiare dove Ciccio aveva confessato ai suoi genitori di
aver sbandierato la malattia di suo padre al mondo intero; dove aveva confessato qualsiasi cosa
gli fosse venuta in mente, nella speranza di convincerli di essere pazzo e malato; dove aveva
cercato di addossarsi tante di quelle colpe da costringerli a picchiarlo, pugnalarlo, o fargli tutte
quelle cose che sapeva di meritare, Colin aveva posato dolcemente la mano sulla schiena del
figlio e lo aveva portato via, verso la cucina illuminata dal sole.)
Davanti a St Michael and All Saints, i portatori si stavano preparando a portare in chiesa le bare.
Tra loro c’era Dane Tully, con il suo orecchino e la ragnatela che si era tatuato da solo sul collo,
vestito con un pesante cappotto nero.
I Jawanda aspettavano insieme alle Bawden all’ombra del tasso. Andrew Price si aggirava intorno
a loro e Tessa Wall si teneva a una certa distanza, pallida e rigida come una statua. Il resto della
folla era disposto attorno alle porte della chiesa in una falange spezzata. Alcuni avevano il volto
tirato e un’aria di sfida; altri sembravano sconfitti e rassegnati; c’era qualche abito nero di poco
prezzo, ma per la maggior parte erano in jeans o in tuta, e una ragazza indossava una maglietta
tagliata sopra la vita, con un piercing all’ombelico che scintillava al minimo movimento. Le bare
risalirono il sentiero, lucide sotto il sole.
Era stata Sukhvinder Jawanda a scegliere il rosa shocking per la bara di Krystal, come sapeva che
avrebbe voluto. Era stata Sukhvinder a fare praticamente tutto: organizzare, scegliere,
convincere. Parminder continuava a lanciarle occhiate e a trovare pretesti per toccarla: le
scostava i capelli dagli occhi, le lisciava il colletto.
Come Robbie era uscito dal fiume purificato e rimpianto da Pagford, così Sukhvinder Jawanda,
che aveva rischiato la vita per cercare di salvarlo, ne era emersa da eroina.
Fra l’articolo che la Yarvil and District Gazette le aveva dedicato, i proclami di Maureen Lowe di
averla raccomandata per una menzione speciale della polizia e il discorso della preside durante
l’adunata scolastica, Sukhvinder aveva provato, per la prima volta, cosa voleva dire eclissare suo
fratello e sua sorella.
Non le era piaciuto per niente. Di notte, sentiva ancora fra le braccia il peso del bambino morto
che la trascinava giù; ricordava la tentazione di lasciarlo andare e salvarsi la pelle, e si chiedeva
quanto ancora avrebbe potuto resistere. Che stesse ferma o si muovesse, la profonda cicatrice
sulla gamba prudeva e faceva male. La notizia della morte di Krystal Weedon l’aveva sconvolta al
punto che i suoi genitori le avevano preso un appuntamento da uno psicologo, ma Sukhvinder
non si era tagliata più neanche una volta, da quando aveva rischiato di annegare nel fiume, come
se l’acqua l’avesse purgata da quella necessità.
Poi, il giorno in cui era tornata a scuola – Ciccio Wall era ancora assente e sguardi di ammirazione
la seguivano nei corridoi – aveva sentito dire che Terri Weedon non aveva i soldi per fare il
funerale ai figli; che non avrebbero avuto la lapide, che le bare sarebbero state le più a buon
mercato.
«Sì, è molto triste, Cincia» aveva commentato sua madre quella sera, mentre erano seduti a
tavola tutti insieme sotto la parete con le foto di famiglia. Era stata gentile, come la poliziotta;
adesso, quando parlava con la figlia, nella sua voce era scomparsa ogni asprezza.
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«Voglio provare a convincere la gente a fare una colletta» aveva detto Sukhvinder.
Parminder e Vikram si erano scambiati un’occhiata. L’istinto gli diceva che non era una buona
idea chiedere soldi alla gente di Pagford per una causa del genere, ma nessuno dei due lo aveva
detto. Avevano paura di contrariare Sukhvinder, dopo aver visto i suoi avambracci, e l’ombra
dello psicologo, ancora sconosciuto, sembrava aleggiare su ogni loro azione.
«E poi» aveva proseguito Sukhvinder, con la stessa energia febbrile della madre, «secondo me il
funerale bisognerebbe farlo qui, alla chiesa di St Michael. Come quello del signor Fairbrother.
Quando eravamo alla St Thomas, Krys veniva sempre a messa qui. Credo che non sia mai entrata
in un’altra chiesa in vita sua.»
La luce di Dio splende in ogni anima, aveva pensato Parminder, e con grande sorpresa di Vikram
aveva detto: «Sì, va bene. Vediamo cosa si può fare.»
La maggior parte delle spese era stata sostenuta dai Jawanda e dai Wall, ma avevano partecipato
anche Kay Bawden, Samantha Mollison e le madri di un paio di compagne di canottaggio.
Dopodiché Sukhvinder era voluta a tutti i costi andare di persona ai Fields per spiegare a Terri
cosa avevano fatto e perché; raccontarle del canottaggio e della ragione per cui Krystal e Robbie
dovevano avere il funerale a St Michael.
Parminder si era preoccupata moltissimo all’idea che sua figlia andasse da sola ai Fields, per non
parlare di quella casa lurida, ma Sukhvinder era sicura che sarebbe andato tutto bene. I Weedon
e i Tully sapevano che aveva cercato di salvare la vita a Robbie. Dane Tully non le faceva più il
verso della scimmia durante le ore di inglese e aveva fatto smettere anche i suoi amici.
Terri aveva detto di sì a tutte le proposte di Sukhvinder. Era emaciata, sporca, inerte e aveva
risposto a monosillabi. Sukhvinder aveva avuto paura di quella donna sdentata e con le braccia
segnate; le era sembrato di parlare a un cadavere.
Nella chiesa, la folla si divise in maniera netta: la gente dei Fields sulle panche di sinistra e quelli
di Pagford a destra. Shane e Cheryl Tully accompagnarono Terri fino alla prima fila; Terri, che
indossava un cappotto di due misure più grande, non sembrava nemmeno rendersi conto di
dov’era.
Le bare erano affiancate su due pedane davanti all’altare. Un remo di crisantemi color bronzo era
appoggiato su quella di Krystal, un orsetto di crisantemi bianchi su quella di Robbie.
Kay Bawden ripensò alla stanza di Robbie, con i suoi pochi giocattoli di plastica sporca, e le dita le
tremarono sul libretto della messa. Naturalmente ci sarebbe stata un’inchiesta, al lavoro,
invocata a gran voce dal giornale locale: avevano pubblicato un pezzo in prima pagina per
sostenere che il bambino era stato lasciato in balìa di due tossiche e che la sua morte avrebbe
potuto essere evitata se gli assistenti sociali gli avessero trovato un ambiente più sano in cui
crescere. Mattie era di nuovo in congedo per stress e la procedura seguita da Kay per la revisione
del caso era stata messa sotto esame. Kay non sapeva che effetti potesse avere tutto questo sulle
possibilità di trovarsi un altro lavoro a Londra, quando tutte le amministrazioni stavano tagliando
il numero degli assistenti sociali, né come avrebbe reagito Gaia se fossero dovute rimanere a
Pagford... Non aveva ancora avuto il coraggio di parlarne con lei.
Andrew lanciò un’occhiata furtiva a Gaia e si scambiarono un sorriso. Su a Casa Bellavista, Ruth
stava già passando in rassegna le cose da portar via. Andrew aveva capito che sua madre, nel suo
eterno ottimismo, sperava che sacrificando la casa e quelle belle colline sarebbero stati
ricompensati con una rinascita. Sposata per sempre a un’immagine di Simon in cui le sue collere e
la sua disonestà non trovavano posto, si illudeva che potessero restare lì, come scatoloni
dimenticati nel trasloco... Ma almeno, pensava Andrew, lui sarebbe stato più vicino a Londra, e
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Gaia gli aveva assicurato che l’altra sera aveva bevuto troppo per capire cosa stava facendo con
Ciccio, e magari, chissà, dopo il funerale avrebbe invitato lui e Sukhvinder a prendere un caffè a
casa sua...
Gaia, che non era mai entrata a St Michael, ascoltava la cantilena del parroco con un orecchio
solo, vagando con lo sguardo sull’alto soffitto stellato e sulle vetrate colorate. C’era un fascino a
Pagford che forse le sarebbe mancato, ora che sapeva di stare per partire...
Tessa Wall aveva deciso di sedersi in fondo, da sola, sotto lo sguardo sereno di san Michele, i cui
piedi riposavano eternamente su quel demonio contorto, con le sue corna e la sua coda.
Vedendo le due bare laccate era scoppiata in lacrime e, per quanto cercasse di trattenersi, i flebili
gorgoglii erano ancora udibili dalla fila davanti. Si era quasi aspettata che qualcuno, dal lato dei
Weedon, riconoscesse in lei la madre di Ciccio e l’aggredisse, ma non era successo nulla.
(La sua vita familiare si era ribaltata. Colin era furioso con lei.
«Che cosa gli hai detto?»
«Voleva un assaggio di vita vera» aveva singhiozzato lei, «voleva vedere il lato oscuro delle cose...
non capisci perché gli interessavano tanto i Fields?»
«E tu gli hai raccontato che potrebbe essere il frutto di un incesto e che io ho cercato di uccidermi
perché lui è entrato nella famiglia?»
Anni per cercare di riconciliarli, e per riuscirci c’erano voluti un bambino morto e il senso di colpa,
un sentimento che Colin conosceva fin troppo bene. Li aveva sentiti parlare nella mansarda di
Ciccio la sera prima e si era fermata a origliare in fondo alle scale.
«... quella... quella cosa che ti ha detto la mamma, dimenticala» stava dicendo Colin con la sua
voce roca. «Tu non hai anomalie fisiche né mentali, giusto? Ecco, quindi... non pensarci più.
Comunque il tuo psicologo ti aiuterà...»)
Tessa singhiozzò e gorgogliò nel fazzoletto bagnato, pensando a quanto poco aveva fatto per
Krystal, morta sul pavimento del bagno... Che sollievo sarebbe stato se san Michele fosse sceso
dalla sua finestra luminosa e li avesse giudicati tutti, stabilendo con precisione quante colpe
aveva lei, per le morti, per le vite spezzate, per il caos... Dall’altra parte della navata un piccolo
Tully irrequieto saltò fuori dalla panca e una donna tatuata allungò un braccio possente, lo
afferrò e lo rimise al suo posto. I singhiozzi di Tessa furono interrotti da un sussulto di sorpresa.
Era sicura di aver riconosciuto, a quel grosso polso, l’orologio che non trovava più.
Sukhvinder, che aveva sentito i singhiozzi di Tessa, provò compassione per lei, ma non osò
voltarsi. Parminder ce l’aveva a morte con Tessa.
Sukhvinder non aveva trovato il modo di spiegare le cicatrici sulle braccia senza parlare di Ciccio
Wall. Aveva pregato la madre di non chiamare i suoi genitori, ma poi Tessa aveva telefonato a
Parminder per dirle che Ciccio aveva ammesso la propria responsabilità per i post del Fantasma e
Parminder era stata così acida al telefono che da allora non si erano più parlate.
Che strana cosa, da parte di Ciccio, prendersi la colpa anche per il suo post; le sembrava quasi di
vederci delle scuse. Aveva sempre avuto l’impressione che Ciccio sapesse leggerle nel pensiero:
sapeva anche che era stata lei ad attaccare sua madre? Si chiese se sarebbe stata capace di
confessare la verità a questo nuovo psicologo nel quale i suoi sembravano riporre tanta fiducia e
se sarebbe mai riuscita a dirlo alla nuova Parminder, gentile e contrita...
Cercava di seguire la funzione, ma non vi trovava il conforto sperato. Era contenta del remo e
dell’orsetto di crisantemi, realizzati dalla mamma di Lauren; era contenta che ci fossero Gaia e
Andy, e anche le ragazze del canottaggio, ma le dispiaceva che le gemelle Fairbrother si fossero
rifiutate di venire.
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(«La mamma si offenderebbe» le aveva detto Siobhan. «Secondo lei papà dedicava troppo tempo
a Krystal.»
«Ah» aveva risposto Sukhvinder, spiazzata.
«E poi» aveva aggiunto Niamh, «alla mamma non piace l’idea di passare davanti alla tomba di
Krystal ogni volta che andiamo a visitare quella di papà. Saranno di sicuro molto vicine.»
Sukhvinder le trovava obiezioni piccole e meschine, ma usare questi stessi termini per la signora
Fairbrother le sembrava quasi un sacrilegio. Le gemelle si erano allontanate, incollate l’una
all’altra come sempre negli ultimi tempi, e fredde verso Sukhvinder, che le aveva tradite a favore
di quell’intrusa, Gaia Bawden.)
Sukhvinder aspettava che qualcuno si alzasse e dicesse chi era veramente Krystal, raccontasse i
punti salienti della sua vita, come lo zio di Niamh e Siobhan aveva fatto per Fairbrother, ma il
parroco, a parte un breve accenno alle «vite tragicamente spezzate» e alla «famiglia
profondamente radicata a Pagford», sembrava determinato a evitare i fatti.
E così Sukhvinder si concentrò sul giorno in cui il loro equipaggio aveva partecipato alle finali
regionali. Fairbrother le aveva portate in pullmino ad affrontare le ragazze della St Anne. Il canale
passava in mezzo ai terreni della scuola privata ed era stato deciso che dovevano cambiarsi negli
spogliatoi della St Anne e cominciare lì la gara.
«Certo che è un’ingiustizia» aveva detto Fairbrother lungo la strada. «Hanno il vantaggio di
giocare in casa. Ho cercato di fargli cambiare idea, ma niente. Non fatevi intimidire, va bene?»
«Col cazzo che...»
«Krys...»
«Non ho paura.»
Ma quando avevano svoltato nei terreni della scuola, Sukhvinder aveva avuto paura eccome.
Grandi prati verdi, un enorme edificio simmetrico di pietra dorata, con i pinnacoli e un centinaio
di finestre: non aveva mai visto niente di simile, tranne in cartolina.
«È come Buckingham Palace!» aveva gridato Lauren dal fondo, e Krystal era rimasta a bocca
aperta; a volte era semplice come una bambina.
Tutti i genitori, più la bisnonna di Krystal, aspettavano al traguardo, che nessuna sapeva bene
dove fosse. Sukhvinder era sicura di non essere l’unica a sentirsi piccola, spaventata e inferiore,
mentre si avvicinavano all’entrata di quel bel palazzo.
Una donna in uniforme d’insegnante era venuta a salutare Fairbrother, che era in tuta. «Lei
dev’essere Winterdown!»
«Cazzo dici, ti sembra una scuola?» aveva detto Krystal, a voce piuttosto alta.
Erano sicure che l’insegnante della St Anne avesse sentito; Fairbrother si era girato e aveva
cercato di fulminare Krystal con lo sguardo, ma si capiva che veniva da ridere anche a lui. Tutto
l’equipaggio aveva cominciato a ridacchiare, e ridevano ancora quando Fairbrother le aveva
lasciate all’ingresso degli spogliatoi.
«Fate stretching!» si era raccomandato.
L’otto della St Anne era già dentro, con l’allenatrice. I due gruppi di ragazze si erano guardati dalle
panche. Sukhvinder era rimasta colpita dai capelli dell’altro equipaggio. Tutte li avevano lunghi,
sciolti e lucidi: sembravano uscite dalla pubblicità di uno shampoo. Niamh e Siobhan portavano il
caschetto, Lauren li portava corti; Krystal aveva sempre una coda alta e tirata e i capelli di
Sukhvinder erano folti, grossi e disordinati come una criniera di cavallo.
Le era sembrato di vedere due ragazze della St Anne scambiarsi bisbigli e sorrisi sarcastici e ne
era stata certa quando Krystal si era alzata in piedi, le aveva guardate male e aveva detto:
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«Scommetto che a voi la merda vi profuma di rose, eh?»
«Come hai detto?» era saltata su l’allenatrice.
«Niente, chiedevo soltanto» aveva risposto dolcemente Krystal, voltandosi per togliersi i
pantaloni della tuta.
Non resistettero alla voglia di ridere: l’equipaggio della Winterdown si era cambiato
sghignazzando. Krystal aveva continuato a fare la buffona e, quando le avversarie erano uscite in
fila, si era abbassata le mutande e aveva mostrato il culo.
«Affascinante» aveva detto l’ultima a uscire.
«Grazie, tesoro» le aveva gridato dietro Krystal. «Se vuoi, dopo te lo faccio vedere di nuovo.
Tanto lo so che siete tutte lesbiche, a stare qua senza ragazzi!»
Holly aveva riso così forte che si era piegata in due e aveva battuto la testa contro l’armadietto.
«Cazzo, stai attenta, Hol» aveva detto Krystal, felice dell’effetto che aveva su tutte. «Ti serve, la
testa.»
Mentre scendevano al canale, Sukhvinder aveva capito perché Fairbrother aveva tentato di
cambiare la sede della gara. C’era solo lui a fare il tifo per loro, mentre l’equipaggio della St Anne
aveva un sacco di compagne che gridavano e applaudivano e saltavano su e giù, tutte con gli
stessi capelli lucidi.
«Guarda!» aveva gridato Krystal, puntando il dito verso il gruppo. «È Lexie Mollison! Ti ricordi
quando ti ho fatto cadere i denti, Lex?»
Sukhvinder si era sentita male dal ridere. Era felice e orgogliosa di camminare accanto a Krystal e
sapeva che anche le altre lo erano. C’era qualcosa nel modo in cui Krystal affrontava il mondo che
le proteggeva da quelle occhiate, da quei vessilli che sventolavano e da quella specie di reggia
sullo sfondo.
Ma quando erano salite in barca aveva capito che anche Krystal sentiva la pressione. Si era
voltata verso Sukhvinder, che stava sempre dietro di lei. Teneva qualcosa in mano.
«Un portafortuna» le aveva detto, mostrandoglielo.
Era un cuore di plastica rossa attaccato a un anello portachiavi, con dentro una fotografia del suo
fratellino.
«Gli ho promesso che gli porto una medaglia» aveva detto Krystal.
«Sì» aveva risposto Sukhvinder, con un misto di fiducia e di paura. «Gliela portiamo.»
«Sì» aveva ripetuto Krystal, rimettendosi diritta e infilandosi il portachiavi nel reggiseno. «Non c’è
gara, con queste qua» aveva detto a voce alta, per farsi sentire da tutto l’equipaggio. «Sono un
mucchio di leccapassere. Facciamocele!»
Sukhvinder ricordò lo sparo alla partenza, l’urlo della folla, i muscoli che gridavano. Ricordò
l’euforia per il loro ritmo perfetto e il piacere della loro micidiale serietà dopo aver tanto riso.
Krystal le aveva fatte vincere. Krystal aveva annullato lo svantaggio di giocare fuori casa. E
Sukhvinder avrebbe voluto essere come lei: spiritosa e tosta; senza paura; sempre pronta a
battersi.
Aveva chiesto due cose a Terri Weedon, e le erano state accordate, perché Terri diceva sempre di
sì a tutti. Krystal, nella bara, aveva al collo la medaglia che aveva vinto. L’altra richiesta fu
esaudita alla fine del servizio e stavolta, annunciandola, il parroco parve rassegnato.
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Good girl gone bad –
Take three –
Action.
No clouds in my storms...
Let it rain, I hydroplane into fame
Comin’ down with the Dow Jones...
Terri Weedon fu portata fuori quasi a braccia dai suoi parenti, lungo il tappeto blu, e i fedeli
distolsero lo sguardo.
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Note
1.Weed è il passato del verbo
wee, «fare la pipì». (N.d.T.)2.Ah hah ah hah, Rihanna... ex brava ragazza... Scena terza...
Azione! Le mie tempeste son senza nubi... Che piova pure, io verso la fama ci vado in idroplano, scendendo col Dow
Jones. (N.d.T.)3.spuntato il mattino, come il primo mattino... (N.d.T.)4.Il mio cuore ti appartiene e staremo sempre
insieme, forse sulle riviste ma sarai sempre la mia star... (N.d.T.)5.Ora che piove come non mai, sappi che noi saremo
sempre insieme, puoi ripararti sotto il mio ombrello, puoi ripararti sotto il mio ombrello... (N.d.T.)6.La vecchia città è
ancora la stessa, quando scendo dal treno... (N.d.T.)7.Passeggio con la mia dolce Mary, capelli d’oro e labbra di ciliegia...
(N.d.T.)
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Indice
Parte Prima
Domenica
Lunedì
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
(Bei vecchi tempi)
I
II
III
IV
V
VI
Martedì
I
II
III
IV
V
VI
VII
Mercoledì
I
II
III
IV
V
Venerdì
Sabato
I
II
Parte Seconda
I
II
III
IV
V
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VI
VII
VIII
IX
X
Parte Terza
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
Parte Quarta
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
Parte Quinta
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
Parte Sesta
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I
II
III
IV
Parte Settima
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