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“Foibe” ed esodo: la fine di un lungo silenzio GIOVANNI STELLI Sommario: 1. Paolo Mieli: la guerra di Tito contro gli antifascisti e il martirio di Zara. – 2. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: Zara cancellata e i ricordi degli esuli. – 3. Il dialogo fra italiani, croati e sloveni. L’incontro del 13 luglio fra i tre presidenti. Da qualche anno si assiste nel nostro paese ad un generale rinnovato interesse per la “questione giuliano-dalmata”: la produzione storiografica non soltanto è andata arricchendosi di diverse importanti opere, ma soprattutto è finalmente uscita dall’ambito della storiografia locale giuliana per raggiungere un più vasto pubblico di lettori e interessare l’opinione pubblica nazionale1. Il tema dell’esodo è oggi al centro anche di scritti autobiografici e di romanzi, che si vanno moltiplicando, i cui autori, uomini di cultura a volte assai noti, hanno riscoperto la loro ascendenza e le loro radici. Ma l’opera più efficace di informazione e di diffusione di temi legati alla “questione giuliano-dalmata” si deve indubbiamente ad alcuni affermati giornalisti, come Paolo Mieli, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che a questo tema hanno dedicato diversi articoli sulle pagine del più diffuso quotidiano nazionale, il Corriere della sera. Non a caso il 10 ottobre scorso, in occasione del 57o raduno dei Dalmati ad Orvieto, a Mieli è stato conferito il premio “Niccolò Tommaseo” per i suoi articoli sulle “dimenticate sofferenze” di Zara. 1. Paolo Mieli: la guerra di Tito contro gli antifascisti e il martirio di Zara Sul Corriere della sera del 6 aprile di quest’anno Mieli ha dedicato un lungo e denso articolo all’ultimo libro di Raoul Pupo Trieste ’452, menzionando il fondamentale lavoro dello storico triestino pubblicato 1 Il successo editoriale di un libro rigorosamente documentato e non divulgativo come Il lungo esodo di Raoul Pupo (edito da Rizzoli nel 2005 e disponibile oggi in edizione economica) sarebbe stato impensabile ancora dieci anni fa. 2 Paolo Mieli, “Trieste, la guerra di Tito contro gli antifascisti”, in Corriere della sera, 6 aprile 2010. 3 nel 2005 per i tipi della Rizzoli Il lungo esodo e ricordando che Pupo si era già occupato “di foibe prima della metà degli anni Novanta, cioè quando ancora i manuali di storia non avevano scoperto, per così dire, quelle fosse carsiche in cui i partigiani comunisti jugoslavi avevano gettato una gran quantità, mai del tutto contabilizzata, di ex fascisti e di «altri»”. Commentando il libro di Pupo, dopo aver messo in luce le responsabilità della politica fascista di «bonifica nazionale» mirante alla distruzione dell’identità nazionale slovena e croata, nonché lo strumentale tentativo dei tedeschi di riportare in vita la tradizione asburgica, dando spazio a sloveni e croati a scapito degli esponenti della Repubblica sociale di Mussolini, Mieli scrive: Quanto agli jugoslavi, lo storico dimostra come già dal ’41 le organizzazioni resistenziali slovene e croate incitavano il loro popolo non solo a liberare i territori annessi dallo Stato fascista, ad esempio la provincia di Lubiana e la Dalmazia, ma anche quelli “sottratti” agli sloveni e croati dal Regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale, come Trieste e l’Istria. E racconta altresì in dettaglio come i comunisti italiani furono stritolati in una, quasi sempre irrealizzabile, doppia fedeltà: al Cln ma soprattutto ai loro compagni jugoslavi. E mentre non si registrano casi di militanti del Pci passati per le armi da connazionali riconducibili al Cln, ce ne sono non pochi di comunisti italiani uccisi dagli slavi, magari con l’accusa di essere agenti trotzkisti o addirittura fascisti, per aver obbedito al loro Pci e al Comitato di liberazione nazionale del loro Paese. 4 Il giornalista riporta quanto scrive lo storico triestino a proposito dei comunisti jugoslavi, per i quali “l’elemento discriminante per distinguere gli alleati dai nemici non era «l’aver combattuto contro i tedeschi, ma la disponibilità o meno a porsi agli ordini dell’esercito jugoslavo. [...] Chi non milita nelle formazioni jugoslave, non riconosce le nuove autorità, non ne condivide il progetto politico, è un fascista e un nemico, a prescindere dalla divisa che indossa e da quel che ha fatto il giorno prima»”. Da ciò l’arresto, la deportazione e l’eliminazione dei bersaglieri del battaglione Mussolini, dei finanzieri, dei combattenti del Corpo dei volontari per la libertà e perfino dei “soldati del Corpo italiano di liberazione arrivati singolarmente a Trieste a seguito degli alleati”, nonché il fatto che ben centosessanta siano i caduti del Cln di Trieste, definito ufficialmente dagli jugoslavi “criminale e famigerato”, caduti a cui vanno aggiunti numerosi antifascisti liquidati a Gorizia e a Fiume. Osserva Mieli: Giustamente Pupo considera una fortuna che si senta oggi «parlare un po’ meno di memorie condivise – strani oggetti, posto che la memoria è il luogo per eccellenza della soggettività non interscambiabile a piacimento – e un po’ più di rispetto delle memorie diverse nonché in ambito cattolico di “purificazione della memoria”, il che sottintende l’esistenza nei ricordi di zone oscure che non vanno rimosse o celate, ma affrontate a viso aperto». Proprio così: a viso aperto. In un articolo precedente, del 23 marzo, Mieli aveva parlato del martirio di Zara nel corso del secondo conflitto mondiale e minuziosamente ricostruito, sulla scorta di un saggio di Paolo Simoncelli, l’incredibile tortuosa vicenda della proposta di concessione della medaglia d’oro alla città dalmata, arenatasi per pregiudiziali ideologiche e calcoli diplomatici3. Nel corso degli anni Quaranta, Zara, quando era ancora italiana, fu il capoluogo di provincia più colpito dalla guerra: l’85 per cento delle abitazioni fu distrutto o seriamente danneggiato e un decimo della popolazione fu ucciso nei bombardamenti, in esecuzioni sommarie, con l’annegamento o nei campi di concentramento. Ciò a seguito di 3 Id., “Il martirio di Zara italiana e la medaglia che non c’è. È stata accantonata per timore di creare conflitti con Zagabria l’onorificenza già concessa alla città dalmata per meriti di guerra”, in Corriere della sera, 23 marzo 2010. L’articolo commenta e riprende il libro di Paolo Simoncelli, Zara. Due e più facce di una medaglia, Firenze 2010, Le Lettere. 5 una duplice occupazione straniera: dei nazisti tra il settembre ’43 e la fine di ottobre del ’44 e dopo il novembre del ’44 dei «liberatori», cioè dei partigiani comunisti jugoslavi. Secondo una fonte resistenziale, il prefetto di Padova Gavino Sabadin designato dal Comitato di liberazione nazionale, il conto definitivo degli uccisi fu di 11 fucilati dai tedeschi, 900 trucidati dai soldati di Tito; oltre duemila uomini e donne morirono poi sotto i 54 bombardamenti angloamericani (così massicci perché, su indicazione slava, la città era stata arbitrariamente identificata come un importantissimo centro logistico dell’esercito tedesco), 435 italiani furono infine deportati nei campi di prigionia jugoslavi. Riprendendo Simoncelli, Mieli ha ricordato le vicende della medaglia d’oro richiesta negli anni settanta da Paolo Barbi, e poi riproposta dal presidente Scalfaro nel 1993 con una lettera all’allora presidente del consiglio Amato, in cui lo esortava a far “luce sulle circostanze che portarono all’eliminazione di alcune migliaia di cittadini italiani originari di quelle zone da parte delle formazioni partigiane jugoslave” e lo invitava a respingere le tesi giustificazioniste “addotte in passato dalle autorità jugoslave”. L’elaborazione del testo di motivazione del conferimento della medaglia fu lunga e faticosa nel tentativo “di enfatizzare, nella descrizione del martirio di Zara, il ruolo dei nazisti e far scomparire quello degli jugoslavi” al punto che nella versione finalmente approvata (anche dall’Anpi) nel 1998 “si capi[va] poco o nulla di come andarono realmente le cose”. Ciò nonostante, l’iter della pratica si bloccò a causa della guerra del Kosovo. Sembrò che la vicenda fosse prossima a concludersi col nuovo presidente della Repubblica Ciampi, il quale il 21 settembre 2001 “con un gesto ardimentoso tagli[ò] il nodo e confer[ì] motu proprio la tanto sospirata medaglia d’oro al valor militare all’ultimo gonfalone italiano della città di Zara”. Tuttavia la decisione rimase segreta (!) per non turbare i rapporti con le autorità croate. Queste ultime peraltro, venute comunque a conoscenza della notizia, presentarono una inusuale nota di protesta, che trovò una sponda favorevole anche in ambienti italiani, tra cui il quotidiano Il manifesto e il periodico Famiglia cristiana (che non ebbe vergogna di intitolare un commento “Quella medaglia d’oro a Zara fascista”). Con l’avvento al Quirinale nel 2006 di Napolitano – che in occasione del primo “Giorno del Ricordo” ebbe “parole di grande coraggio”, denunciando, tra l’altro, la “responsabilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali” – l’iter per la medaglia a Zara sembrò poter ripartire con buone possibilità di successo. Tuttavia, ricorda Mieli seguendo sempre la narrazione di Simocelli, forse anche per la dura replica a 6 Napolitano del presidente croato Stjepan Mesić, ciò non è ancora avvenuto ed anzi il 10 febbraio del 2010, è stata escogitata una soluzione “all’ italiana”. Quel dì alla Camera dei deputati si è riunita in sede referente la IV Commissione (Difesa) con all’ordine del giorno l’istituzione di una nuova medaglia intitolata “al merito delle popolazioni di Fiume, Pola e Zara”. La discussione è durata non più di un quarto d’ora […] Nel corso dello stringatissimo dibattito il relatore Marcello De Angelis ha riferito che il Comitato ristretto aveva optato per questo nuovo tipo di decorazione […] a causa della presenza di “alcuni ostacoli nella disciplina vigente in materia di conferimento delle medaglie d’oro al valor militare che renderebbero problematico il riconoscimento di tale onorificenza”. Poi […] ha aggiunto che il riconoscimento a Fiume, Pola e Zara […] va inteso non solo “per le vicende legate alla Seconda guerra mondiale”, ma per epoche anteriori […]. Tutti si sono dichiarati d’accordo con tale impostazione e tale decisione. Se anche il Senato come è probabile approverà, scrive Simoncelli, “una medaglia, quale che sia, comunque viene conferita, anzi inventata apposta e, per ora, senza sollevare alcun problema politico-diplomatico”. Triste epilogo. Ma anche questa è Storia. 2. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: Zara cancellata e i ricordi degli esuli Di Zara si sono occupati anche Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in un articolo del 17 luglio dall’eloquente titolo “La città dove ogni traccia è stata cancellata”4. Ne riportiamo alcuni passi: Questa è Zara, oggi. Ogni traccia del suo passato è stata accuratamente cancellata. Certo, le vetrine di Benetton hanno aperto la strada a un po’ di locali e negozi, soprattutto di moda, dal nome nostrano. Business is business. E i turisti bisogna ben accontentarli. Altri riconoscimenti, però, zero. […] Certo, nonostante i 54 bombardamenti (“Zara fu la Dresda dell’ Adriatico”, ha scritto Bettiza) compiuti dagli alleati agli sgoccioli della II Guerra mondiale, bombardamenti forse dovuti alle informazioni vo- 4 Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, “La città dove ogni traccia è stata cancellata”, in Corriere della sera, 17 luglio 2010; nel lungo sottotitolo si dice: “Luigi Federzoni, presidente dell’ Accademia d’ Italia: «Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, né più degna, né più devota. Zara è adorabile, Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani». Qui i rapporti della polizia austriaca erano zeppi di nomi di patrioti. Restano solo nazionalismi, oblio e investimenti mancati”. 7 lutamente false passate agli americani dai partigiani titini interessati ad annientare l’ultimo baluardo cocciutamente italiano della costa dalmata, alcuni dei gioielli che facevano di Zara un sestiere serenissimo con 72 calli e 15 campielli, sono ancora lì. Bellissimi. Come l’elegantissima Loggia veneta nota come loggia Paravia. O il tempio di San Donato. La Chiesa di San Simeone. La Cattedrale di Sant’Anastasia. La porta di Terraferma eretta su disegno di Sammicheli e dominata da un magnifico leone sopravvissuto alle martellate dei nazionalisti slavi. Il campo dei Cinque pozzi. Le mura. Ma nulla porta più traccia del nome che aveva. E in definitiva della sua identità. Come se si fosse compiuto quanto minacciò il presidente del comitato di liberazione della Croazia Vladimiro Nazor, in un lontano comizio del 1944: “L’Italia aveva ingrandito e abbellito Zara non per amore, ma per calcoli politici. Spazzeremo dal nostro terreno le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova Zadar che sarà la nostra vedetta nell’Adriatico”. La Calle Larga, l’antico cardo della Jadera voluta da Cesare Augusto, è stata corretta: Kalelarga. E per trovare nomi italiani devi andare al vecchio cimitero. Del quale si prende cura il Madrinato Dalmatico. Come ha scritto Ottavio Missoni, a lungo sindaco degli zaratini in esilio, “Zara forse esiste ormai solo nel cuore e nel disperato amore dei suoi cittadini dispersi nel mondo”. 8 Riportando le parole di un vecchio zaratino rimasto, Stella e Rizzo hanno poi ricordato i tanti italiani di Zara fatti sparire senza processo dai partigiani comunisti che “gli attaccavano una pietra al collo e li buttavano in mare”, come accadde “a Nicolò Luxardo, il titolare della celeberrima fabbrica di Maraschino affogato nelle acque dell’isola di Selve con la moglie Bianca”. Ma si sono soffermati anche sulla annosa, e non ancora conclusa, vicenda dei risarcimenti agli esuli per i beni abbandonati nelle loro terre d’origine, vicenda che costituisce l’ultimo strascico particolarmente penoso del grande esodo del dopoguerra. Del dramma dell’esodo esiste oggi una documentazione museale a Padriciano nei pressi di Trieste e nel Museo civico della civiltà istriana allestito dall’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata nel capoluogo giuliano. Stella ne ha parlato in un articolo del 12 maggio5: [Il] museo del Centro raccolta profughi di Padriciano, sulla strada provinciale che da Opicina porta a Basovizza, [è] l’unico allestimento espositivo italiano in un’area a conservare pressoché intatta la struttura originaria che a suo tempo ospitò molti esuli in baracche senza riscaldamento e acqua corrente. Un’altra parte è stata portata da Piero Del Bello, il direttore dell’Irci, l’Istituto regionale per la cultura istrianofiumano-dalmata, al nuovo museo civico della Civiltà istriana, nel cuore della città, aperto in occasione della Giornata del ricordo e destinato a diventare, una volta rifinito nei dettagli, il punto di riferimento di un mondo che per troppo tempo ha aspettato di avere uno spazio, un riconoscimento, un sacrario. C’è di tutto, nel museo. Ma le cose che più toccano il cuore sono i giocattoli, le bambole, le ciabattine. C’è anche un «balighetto». Una specie di bustina di cuoio che in Istria era usata dalle levatrici per riporvi la placenta dei neonati «nati con la camicia» e che veniva appesa al collo dei bambini nella convinzione che li avrebbe protetti dagli spiriti negativi. Resta una domanda: e tutti quegli altri duemila metri cubi di masserizie che i nostri esuli si portarono via dalle loro case dopo essere stati costretti ad andarsene? Ogni singolo tegamino, ogni singola foto, ogni singolo scialle, ogni singola matita rappresentavano, per quegli esuli che sapevano come la sorte avesse deciso che mai più sarebbero tornati ad Albona o a Sebenico, a Portole o a Zara, molto più del loro valore materiale. Erano reliquie. E forse ha ragione Piero Del Bello, l’uomo che del magazzino ha le chiavi. Forse non ha senso, 5 G.A. Stella, “Gli strazianti ricordi degli esuli giuliani. Nel deposito del museo civico di Trieste un’enorme catasta di oggetti”, in Corriere della sera, 12 maggio 2010. Di Stella e Rizzo va segnalato inoltre anche il notevole articolo su Gorizia “La città dove il confine è nella testa della gente”, in Corriere della sera, 26 giugno 2010. 9 a distanza di mezzo secolo e più, recuperare ed esporre tutto quanto. Tolti i pezzi più significativi, meglio lasciare tutto così. Nel deposito. Potrebbe essere quello, in fondo, il migliore degli allestimenti museali: una catasta enorme di oggetti buttati là alla rinfusa. Il panorama che lascia un cataclisma dopo avere annientato tutto. 3. Il dialogo fra italiani, croati e sloveni. L’incontro del 13 luglio fra i tre presidenti La custodia della memoria è un aspetto di quell’atteggiamento autenticamente e universalmente umano che gli antichi chiamavano pietas e nulla ha a che fare con l’ostinazione rancorosa incapace di comprendere le ragioni degli altri e di guardare positivamente al futuro. In questo spirito gli esuli istriani, fiumani e dalmati dialogano da tempo con i connazionali rimasti e con l’attuale maggioranza croata e slovena. Stella ha messo in evidenza che gli esuli zaratini, come Ottavio Missoni, Lucio Toth, Giorgio Varisco, vorrebbero recuperare una volta per tutte un rapporto decente e rispettoso con gli zaratini croati di oggi: “Non possiamo rinfacciarci i rispettivi torti per secoli, non ha senso. Dobbiamo guardare avanti. Per il bene dei nostri nipoti. Per il bene della nostra Zara”. Sia chiaro: nulla va cancellato, perché la memoria aiuta a capire gli errori per non ripeterli. È un discorso questo che riguarda tutte le associazioni e le istituzioni culturali dell’esodo, in particolare la Società di Studi Fiumani, che già all’indomani della “caduta del muro” operò per promuovere il dialogo con i fiumani italiani rimasti e con i fiumani croati con il proposito non già di pervenire ad una “memoria condivisa” (concetto giustamente criticato da Pupo), ma di ricostruire la storia integrale della città, che negli anni del totalitarismo era stata censurata e amputata di aspetti essenziali a cominciare dal grande evento taciuto: l’esodo della stragrande maggioranza della sua popolazione. In effetti “qualcosa sta cambiando”, hanno scritto Stella e Rizzo, adducendo a dimostrazione di questo cambiamento “lo storico incontro”6 avvenuto a Trieste il 13 luglio scorso, in occasione del “concerto dell’amicizia” diretto da Riccardo Muti, fra i presidenti delle repubbliche italiana, croata e slovena, Giorgio Napolitano, Ivo Josipović e Danilo Türk. 6 G.A. Stella e S. Rizzo, “La città dove ogni traccia è stata cancellata” cit.. 10 Si è trattato di un evento che può considerarsi un sintomo, sul piano della politica internazionale, del rinnovato generale interesse per la “questione giuliano-dalmata” in Italia, in Croazia e in Slovenia e la cui importanza non può essere sottovalutata. Nella “Dichiarazione congiunta” sottoscritta dai tre capi di Stato si afferma: Prima del concerto, deporremo una corona d’alloro alla Narodni Dom, orribilmente incendiata il 13 luglio 1920, e al monumento all’esodo dalle terre natali degli Istriani, Fiumani e Dalmati, nel doveroso ricordo delle tragedie del passato e nel comune impegno a costruire insieme un futuro di libera e feconda cooperazione tra i nostri Paesi e i nostri popoli nell’Europa unita. Con la nostra presenza intendiamo testimoniare la ferma volontà di far prevalere quel che oggi ci unisce su quel che ci ha dolorosamente diviso in un tormentato periodo storico, segnato da guerre tra Stati ed etnie. Vivaci polemiche hanno preceduto, accompagnato e seguito l’incontro, a partire dalla scelta della data, coincidente appunto con l’incendio dell’Hotel Balkan ove aveva sede la Narodni Dom slovena. Le valutazioni diverse espresse dalle associazioni dell’esodo sono state ben sintetizzate nel titolo dell’editoriale di Silvio Mazzaroli su L’Arena di Pola del 28 luglio: “Evento mediatico, prova di riconciliazione o en11 nesimo cedimento?”7, in cui è stata messa in rilievo anche la differenza tra la posizione del presidente sloveno e quella, più moderata e aperta, del presidente croato, che non a caso è stato “poi, per questo, attaccato sulla stampa dai falchi di casa sua”. E proprio in questo articolo, che pure avanza una serie di riserve e di critiche anche pesanti, è contenuta un’osservazione che mi sembra decisiva: “l’omaggio congiunto dei tre Presidenti al Monumento di Piazza Libertà ha, per la prima volta, spostato politicamente l’attenzione dalle foibe al più complesso problema dell’esodo ed alle sue conseguenze ancora di sostanziale immutata attualità”8. A ciò si dovrebbe aggiungere che per la prima volta un evento come la tragedia dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati – l’evento chiave della loro storia secolare, la cesura radicale che ha segnato uno stravolgimento senza precedenti nella fisionomia etnica e culturale delle terre adriatiche orientali – è stato riconosciuto come tale a livello ufficiale, statuale, da Slovenia e Croazia, al di là delle minimizzazioni e pseudogiustificazioni politico-ideologiche di un passato anche recente. Ed è stato naturalmente proprio questo riconoscimento, manifestatosi concretamente con l’omaggio dei presidenti al monumento che a Trieste ricorda l’esodo, a provocare le contestazioni di alcuni estremisti croati. Mi sembra che questo aspetto vada sottolineato senza enfatizzazioni retoriche e soprattutto senza ingenue illusioni, ma considerandolo per quello che esso effettivamente è, un primo importante passo di un difficile e lungo processo di ricostruzione integrale della storia attraverso quel dialogo tra italiani, croati e sloveni reso possibile dal crollo del comunismo e dalla crisi delle ideologie e che oggi può e deve svilupparsi a livello politico e, per quel che ci riguarda, scientifico e culturale in piena libertà. 7 L’Arena di Pola, organo di stampa dell’associazione del Libero Comune di Pola in esilio, n. 7, 28 luglio 2010 8 Ibidem. 12