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26 Lo stile puro dei fiorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito Alessandra Giannotti Sin dal 1550, all’indomani della pubblicazione dell’edizione torrentiniana delle Vite, Giorgio Vasari sanciva la sfortuna di quella “terza via” fiorentina della “maniera moderna”, mai sottaciuta anche se sempre avversata, alternativa a Michelangelo e a Leonardo, che aveva i suoi padri fondatori in Fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto. Dalla sua posizione di artista cortigiano, latore di uno stile internazionale ammantato di michelangiolismo, l’aretino era a una distanza siderale da quei maestri e dalle loro filiazioni1. Pur dichiaratamente di parte, Vasari non mancava di indicare negli alfieri di quello stile schietto e semplice, erede della più nobile tradizione quattrocentesca locale, i padri di una nuova stagione artistica. Senza mai rinunciare al facile dileggio delle loro scelte esistenziali, nelle quali si riflette un preciso partito stilistico – quell’osservanza della tradizione mai dichiarata dallo storiografo –, Vasari riconosce loro un’indiscutibile competenza disegnativa e una vera e propria eccellenza nel ritrarre dal naturale. E proprio sullo studio di natura si gioca dunque l’impervia ascesa di questi maestri alla «somma perfezione» della “maniera moderna”, che un reticente Vasari è disposto a concedere loro, malgrado gli eccessi di diligenza e di attaccamento al vero. Senza sforzare la natura / Santi di Tito, Resurrezione di Lazzaro, particolare, Firenze, basilica di Santa Maria Novella. APERTURA Sebbene il giudizio dello storiografo si configuri dunque viziato da un sostanziale e insanabile pregiudizio, proveremo tuttavia a ricercare proprio nelle sue parole quel filo rosso, non sempre evidente e talora forse intermittente, che costituisce la trama di un tessuto linguistico pervicacemente improntato all’esaltazione della fiorentinità: uno stile municipale che all’aprirsi al nuovo secolo trova le sue naturali premesse in Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio (fig. 1), Lorenzo di Credi, Andrea della Robbia (figg. 2-3) e Andrea Sansovino (fig. 4). La loro pratica del disegno, ben sostanziata in quei rapporti di stretto discepolato tra allievi e maestro scanditi dalla vita in bottega2, non sfugge mai all’osservazione vasariana: così se Rosselli disegnò benissimo, ritraendo dal naturale3, i suoi allievi non gli furono inferiori, come dimostrano Piero di Cosimo (fig. 5)4 e Fra’ Bartolomeo, il quale lavorando teneva «le cose vive innanzi», tanto da realizzare «un modello di legno grande quanto il vivo» che, seppur «intarlato e guasto», era conservato ai giorni di Vasari presso l’Accademia del Disegno5. Se anche Ghirlandaio attende costantemente all’esercizio grafico, e Lorenzo di Credi non è meno che «buon disegnatore»6, è tuttavia con Andrea Sansovino che si rilancia lo spregiudicato topos giottesco dell’enfant prodige che, guidato da un’irrefrenabile sete di conoscenza, fissa persino «nel sabbione» ritratti di cose e animali7. Con Franciabigio e Jacopo Sansovino è accertata la consuetudine del modello in bottega: il primo stipendia per l’estate «uo27 FIGURA 1 / Domenico Ghirlandaio, Nascita del Battista, particolare, Firenze, basilica di Santa Maria Novella, cappella Tornabuoni. mini salariati» da studiare dal vero8, il secondo ricorre al suo garzone Pippo del Fabbro facendolo posare nudo in pieno inverno per «buona parte del giorno»9. Solo Andrea del Sarto però incarna l’immagine del «pittore senza errori» che, disegnando semplicemente «senza sforzare la natura», conduce a perfezione le sue composizioni «onde i disegni gli servivano più per memoria di quello che aveva visto, che per copiare a punto da quelli le sue pitture»10. Si tratta, mi pare, di un’esplicita indicazione metodologica volta a sottolineare la sprezzatura connaturata con lo studio del vero, indispensabile all’esercizio dell’artista moderno. Caduta in disgrazia la 2-3 / Andrea della Robbia, Annunciazione, Siena, chiesa dell’Osservanza. FIGURE 28 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 4 / Andrea Sansovino?, Madonna col Bambino, particolare, Trequanda, prepositura dei Santi Pietro e Andrea. FIGURA 5 / Piero di Cosimo, Madonna col Bambino detta Madonna del piccione, Parigi, Musée du Louvre. regola dell’arte «ridotta a maniera» di bottega, che infonde «a tutte le figure un’aria medesima», nel Cinquecento si richiede al pittore di studiare la varietà del naturale, e preferibilmente di non imitarlo in maniera pedissequa11. Così il Sarto nei suoi esercizi dal vero esegue disegni verosimili perché rispecchiano la «varietà delle cose»12, mentre Perugino, che esemplifica per Vasari l’estremo esempio di una parabola ormai passatista, realizza nella sua pala fiorentina dell’Annunziata, «tutte le figure [di] un’aria medesima», venendo per questo biasimato13. A fronte però di tanti talenti grafici nessuno di questi artisti appare agli occhi di Vasari minimamente confrontabile con l’«esercizio mentale» di Leonardo, o con la «grandissima invenzione» di Michelangelo, e neppure con Raffaello. L’ossequio della tradizione Si evince allora che forse per Vasari il peccato originale di questa “terza via” fiorentina si identifica con l’ossequio alla tradizione espresso dai suoi esponenti; un’osservanza che per lo storiografo è intesa in un’accezione limitativa, perché espressione di un sostanziale conservatorismo. A ciò si associa una generale tendenza dei suoi paladini a non «sforzare la natura», anzi semmai a restituirla «con troppo studio», ovvero “diligenza”, senza dissimulare l’artificio inventivo, ma anche scansando bizzarrie, chimere e tutto quanto appaia 29 «posto in aria senza fondamento», come diceva Anton Francesco Doni citando Vitruvio14. Ciò che difetta a questi maestri sarebbe dunque un approccio mai del tutto innovativo, talvolta persino troppo finito e perciò poco “fiero”15, che si discosta anche dalla proposta raffaellesca di perseguire il “bello selezionato”, che era un’ulteriore possibile via di modernità, solo in parte elaborata a Firenze e maturata poi a Roma sull’antico. Se questo pare essere l’assunto, non può stupire la costanza con la quale l’aretino ricorre nelle Vite dei nostri artisti ad aggettivazioni limitative che ne stigmatizzano l’operato: la loro produzione è «diligente» (Piero di Cosimo, Lorenzo di Credi, Fra’ Bartolomeo, Andrea Sansovino, Baccio da Montelupo, Sogliani, Franciabigio, Bugiardini, Ridolfo del Ghirlandaio, Pontormo, Bronzino, Alessandro Allori, Santi di Tito)16, «leccata» (Domenico Ghirlandaio)17 e «pulita» (Domenico Ghirlandaio, Lorenzo di Credi, Sogliani)18. In alcuni di loro si esplicita persino un difetto d’inventiva (Cosimo Rosselli, Andrea del Sarto, Bugiardini)19, implicitamente imputato a un arroccamento fisico entro i confini municipali (Franciabigio, Ridolfo del Ghirlandaio)20: coloro che hanno tentato la strada di Roma (Fra’ Bartolomeo, Albertinelli, Andrea del Sarto) rientrano a Firenze malamente scornati21, se non addirittura sconfitti, per non dire di coloro che hanno provato l’esperienza presso una grande corte europea, come Andrea del Sarto22. La prospettiva di un coeso progetto culturale che, proiettato verso il futuro, guardasse alle glorie del passato locale quale guida del presente, non era certo una novità per la Firenze cinquecentesca: sin dal Trecento, Coluccio Salutati e Filippo Villani avevano posto le premesse per teorie di uomini illustri, in un’accezione tutta municipale, trovando riscontri figurativi negli affreschi di due dei principali luoghi pubblici cittadini, Palazzo Vecchio e palazzo del Proconsolo. Si codificava così quell’immagine, certo autoreferenziale, ma largamente sovranazionale, legata al mito di Dante, Petrarca e Boccaccio, poi perfezionata sulle pareti della villa di Legnaia e nella sala dei Gigli di Palazzo Vecchio, come anche in Santa Croce, dove i cancellieri municipali Leonardo Bruni e Carlo Marsuppini avevano trovato l’eterno sigillo della loro memoria storica per mano di Bernardo Rossellino e Desiderio da Settignano23. Non era sfuggita a questo persistente progetto la commemorazione dei capitani di ventura Giovanni Acuto e Niccolò da Tolentino che, avendo guidato le armate fiorentine, erano entrati di diritto nel famedio della chiesa metropolitana, Santa Maria del Fiore. Qui anche la Firenze degli artisti si era ritagliata il suo posto, assegnando una meritata visibilità a Giotto e a Brunelleschi, che anticipavano la stagione del sepolcro michelangiolesco di Santa Croce, con il quale negli anni Sessanta del Cinquecento l’Accademia del Disegno avrebbe celebrato il mito buonarrotiano24. In questa topografia della memoria piazza della Signoria assumeva poi un ruolo speciale, ergendosi a oftalmós della città; qui, quasi che esistesse un progetto metastorico, al di là delle alternanze politiche, si sarebbero fiancheggiati nel corso del Cinquecento, a imperitura memoria, i padri della scultura locale25. Anche il contiguo cannocchiale prospettico degli Uffizi con le due ali dotate di nicchie, arredate solo nell’Ottocento con le statue dei fiorentini illustri, era immaginato da Cosimo de’ Medici e dal suo architetto Giorgio Vasari come la sede in cui allestire le glorie del pantheon cittadino26. Poco conta se l’intero progetto si ammantava di romanità, eleggendo Cosimo ad alter Augusto. Resta il fatto che ancora nella seconda metà del Cinquecento Firenze cercava nel passato la strada del suo presente. La medesima opportunità politica, che trovava nell’esaltazione della tradizione storica l’occasione di una peculiarità culturale, aveva orientato le scelte di Cosimo quando aveva deciso di preservare la facies repubblicana di Palazzo Vecchio, che dal 1540 era la nuova residenza ducale27. È Giorgio Vasari nei suoi Ragionamenti a spiegare come il duca avesse voluto custodire «i fondamenti e le mura maternali» dell’edifico medievale «per avere esse, con questa forma vecchia, dato origine al suo governo nuovo»28. 30 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 6 / Pietro Torrigiani, Madonna col Bambino detta Virgen de Belén, Siviglia, Museo de Bellas artes. Firenze 1522: Andrea del Sarto partigiano fiorentino Non può dunque sorprendere incontrare nel 1522 Perin del Vaga, appena rientrato da Roma, nel vivo di una di quelle dispute fiorentine cui fa cenno a più riprese Vasari nelle Vite, e impegnarsi in un confronto proprio con il “partigiano” Andrea del Sarto (fig. 7), strenuo sostenitore di una cultura municipale che, attraverso Masaccio, risaliva fino a Giotto29. A fronte della maniera “risoluta” e “graziata” dei romani, di cui era latore, “più bella” nel suo giudizio – come in quello di Vasari – rispetto alla maniera fiorentina, Perino stigmatizzava la pur apprezzabile pittura di Masaccio, espressione di una modernità ormai superata. Proprio il pervicace legame con quella tradizione giustificava del resto la ricorrente ostilità manifestata in quegli stessi giorni da più parti in città nei confronti dei tentativi di intaccare il primato locale con troppo esplicite contaminazioni romane; valgano per tutte le animose reazioni verso gli stucchi di Giovanni da Udine, eseguiti per Giulio de’ Medici nel palazzo familiare di via Larga, nonché lo sdegno per il palazzo Bartolini Salimbeni di Baccio d’Agnolo30. La programmatica linea culturale improntata all’autarchia, anche linguistica, come insegnava la storia degli Orti Oricellari e della Sacra Accademia, in cui si dibatteva 31 FIGURA 7 / Andrea del Sarto, Natività della Vergine, Firenze, Santissima Annunziata, chiostrino dei Voti. della questione della lingua e dell’uso del volgare fiorentino, e in cui era cresciuta la mitografia su Dante, Petrarca e Boccaccio, aveva istituito in città una roccaforte di fiorentinità, certo aperta a contaminazioni allogene, ma sempre nel rispetto di quella ordinata disposizione e variata maniera così radicate nell’idioma locale31. Tale approccio si misura anche nello speciale rapporto giocato a Firenze con l’antico. Sempre cercato, collezionato e riletto, ma al contempo tante volte proposto in una vulgata locale, che puntava a superarne il grandioso primato a favore dell’eccellenza cittadina. Emblematico è il caso di Michelangelo che realizza per almeno due volte sculture scambiate, o scambiabili, per testimonianze archeologiche32; e non meno esemplare fu il progetto di creare nel cortile di palazzo Medici una versione fiorentina del cortile vaticano del Belvedere, con il posizionamento delle traduzioni del Laocoonte e dell’Orfeo alias Apollo eseguite da Baccio Bandinelli, cui avrebbe dovuto affiancarsi, sul contiguo sagrato di San Lorenzo, un colosso all’antica di Michelangelo33. Con questi presupposti, la visita in città di Perino non poteva che risolversi nel più fallimentare tentativo d’incontro tra la grandeur romana, tanto cara a Vasari, e la semplice purezza, talvolta persino disadorna, esemplata sul naturale, di quegli artisti ai quali il Sarto (fig. 8) e prima di lui, in modo ben più iconico, Fra’ Bartolomeo (fig. 32 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 8 / Andrea del Sarto, Pietà di Luco, particolare, Firenze, Galleria Palatina. 9), andavano indicando la strada. Del resto a suggellare senza possibilità di repliche la via da seguire, Andrea, passato alla storia per il suo disegno infallibile34, ci avrebbe pensato anche qualche anno più tardi, quando gli sarebbe toccato di copiare il ritratto di Leone X di Raffaello. Il suo committente, Ottaviano de’ Medici, gli avrebbe offerto l’occasione, se non di superare l’urbinate, quantomeno di eguagliarlo35. Ciò è quanto certifica Vasari allorché riferisce l’aneddoto della copia per Federico II Gonzaga, dall’apparenza tanto più vera dell’originale che nemmeno Giulio Romano riconosce l’inganno36. Si sancisce così il profilo di un artista capace di imitare «insino le macchie del sudicio, come era il vero»37, cioè in definitiva si reincarna in Andrea il celebre topos del pittore giottesco «scimia de la natura»38, che in questo caso non solo simula alla FIGURA 9 / Fra’ Bartolomeo, Pietà, Firenze, Galleria Palatina. 33 FIGURA 10 / Andrea del Sarto, Presentazione della testa di Giovanni, Firenze, chiostro dello Scalzo. FIGURA 11 / Andrea del Sarto, Tributo a Cesare, Poggio a Caiano, villa medicea. 34 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 12 / Santi Buglioni, Visitare i carcerati, particolare, Pistoia, Ospedale del Ceppo. perfezione la maniera altrui ma ancor più viene lodato per la perfetta mimesi materiale dell’oggetto dipinto da Raffaello. Il campanilismo di Andrea, in definitiva, esce dai racconti vasariani in profonda sintonia con quella voga letteraria che, passando dagli Orti Oricellari, giungeva alla Compagnia del Paiolo, dove in pieno Cinquecento si mantenevano pulsanti le consuetudini repubblicane cittadine e le modalità di relazione sociale della tradizione quattrocentesca locale39. La tradizione del nuovo: il chiostro dello Scalzo, l’Annunziata e Poggio a Caiano Dall’imitazione del vero, tradotto in uno stile semplice e accostante, e dall’ossequio a una consuetudine spaziale prospettica antica entro cui ritmare le figure dal forte rilievo plastico, doveva muovere i suoi passi Andrea, indicando, come Masaccio prima di lui, anche se in modo ben più “grazioso”, la via forse più autoreferenziale della “maniera moderna” a Firenze. Senza ergersi, a differenza del canone raffaellesco, a lingua sovraregionale, l’eloquio di Andrea, contaminato – al pari del fiorentino parlato – da varie sollecitazioni forestiere, tra cui molti nordicismi40, mantiene una sua inconfondibile riconoscibilità e un forte attaccamento al metodo codificato da Cristoforo Landino nel suo celebre proemio al commento della Commedia dantesca edito nel 148141. Davvero emblematici sono in tal senso gli affreschi del chiostro dello Scalzo, ai quali Andrea lavora a più riprese, alternandosi a Franciabigio, a partire dal primo decennio del Cinquecento fino al 1526 (fig. 10)42. Un’impresa, questa, reiterata con un contributo che rasentò la sovraesposizione, nel chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata, «quell’ambiente raccolto» di devozione mariana in cui germinò la nuova maniera43. Qui l’artista, che già Lanzi vedeva come l’erede di Masaccio e di Ghirlandaio, con la sua parlata schietta e popolare che «tutto fa parer naturale e spontaneo»44, colora di dettagli tedeschi i suoi parerga ispirati a Ghirlandaio, spaziandoli entro cristalline architetture prospettiche, che preparano la stagione dei più monumentali affreschi di Poggio a Caiano (fig. 11). Dalla fine del secondo decennio del Cinquecento, su chiamata di Ottaviano de’ Medici, nel celebre salone della villa medicea il Sarto, ancora una volta insieme a Franciabigio, cui s’univa Pontormo, «si mise a fatiche non più usate, tirando […] una magnifica prospettiva»45, che lo qualifica quale il Masaccio dell’età moderna, come alternativa fiorentina alla pittura scolpita del raffaellismo romano. L’eloquio è quello quotidiano, che rende accostanti e concreti gli attori antichi di quella parata di mestieri e d’animali, come una pagina del Berni o del Lasca46, o come i protagonisti che di lì a qualche anno avrebbero popolato il fregio dell’Ospedale pistoiese del Ceppo (fig. 12), modellato da Santi Buglioni nel più tradizionale medium plastico cittadino: la terracotta invetriata47. 35 FIGURA 13 / Francesco di Cristofano detto Franciabigio, Ritorno di Cicerone dall’esilio, particolare, Poggio a Caiano, villa medicea. A fianco di Andrea anche Franciabigio, che gli era stato compagno alla Loggia del Grano dagli inizi del Cinquecento, esplicitava a Poggio a Caiano (1521) i suoi accenti di semplice naturalismo in una schiettezza sciolta da cronaca quotidiana, che diventa persino rustica nel registro narrativo: lo illustra la scomposta gazzarra del Ritorno di Cicerone dall’esilio (fig. 13), festa paesana più che paludato trionfo all’antica, di contadini dalle arie fiere e caricate, dense di umori nordici. Come il Sarto della seconda metà gli anni Dieci48, anche il Francia era avvezzo a semplici moduli figurativi che lo qualificavano campione perfetto dell’antimaniera fiorentina, come vedeva lucidamente sin dal 1963 Fiorella Sricchia, convinta nell’assegnargli il ruolo di timoniere «in grado 36 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 14 / Francesco di Cristofano detto Franciabigio, Sposalizio della Vergine, Firenze, Santissima Annunziata, chiostrino dei Voti. FIGURA 15 / Pontormo, Vertumno e Pomona, particolare, Poggio a Caiano, villa medicea. di risalire con un salto non facile all’indietro nel tempo, fino alle antiche radici» del Quattrocento locale, mentre attorno divampava lo sperimentalismo individualista di Rosso e Pontormo49. Grazie a lui si rinsaldava il mito di Masaccio, rifondato da un diligente esercizio dal vero declinato sin dalle storie di San Filippo Benizi e dallo Sposalizio della Vergine dell’Annunziata entro un terso partito prospettico denso di gustosi inserti quotidiani (fig. 14) 50: proprio da qui prendevano corpo figure massicce dal piglio popolaresco, di vivida semplicità, nei loro panni contadini che potenziavano di accenti plastici il disadorno Masaccio della Brancacci. Infine anche il giovane Pontormo, a Poggio a Caiano con il Vertumno e Pomona (fig. 15), si muoveva senza fratture nel solco del naturalismo fiorentino rigenerato a inizio Cinquecento dalla lezione di Leonardo e Piero di Cosimo51. Dall’alto di un’oculata contaminazione linguistica, l’idioma pontormesco è ibridato da spunti nordici e romani, che mai tuttavia minano le regole dell'ordinata disposizione e variata maniera della tradizione albertiana52. Anche Jacopo, per l’eccessivo studio del naturale esibito negli affreschi per Ottaviano – la fin «troppa» «diligenza» lamentata da Vasari –, in37 cappa in una vera e propria stroncatura da parte dello storiografo aretino, alla stregua di quei maestri sempre troppo applicati allo studio dal vero. Colpisce come Vasari sovrainterpreti il realismo pontormesco, vedendo nelle mani di uno dei contadini seduti addirittura un «pennato», una roncola per potare le piante, in realtà assente dalla scena53. L’affresco offre brani stupefacenti per il naturalismo di alcuni dettagli quali il mobile ritratto del cane, o il nodoso vecchio dalle guance emaciate, persino crudo in quel piede dalla pianta sudicia e callosa proiettato fuori dal piano della seduta, e proteso verso l’osservatore. Neppure Vasari, quasi sempre censorio nei confronti del pittore, a cui oppone di norma un Rosso, fiero e terribile, osa negare al fine l’evidenza della compiuta vivezza e naturalezza dell’affresco54. FIGURA 16 / Fra’ Bartolomeo, Pala della Signoria, Firenze, Museo di San Marco. 38 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito La scuola di San Marco e la purezza del sacro FIGURA 17 / Fra’ Bartolomeo, Presentazione al tempio, Firenze, Galleria degli Uffizi. Accanto alla pittura accostante e comunicativa d’Andrea del Sarto la via più nostrana della maniera moderna passava a Firenze dalla bottega di Fra’ Bartolomeo e dalla scuola di San Marco, caricandosi di profondi valori etici e spirituali a contatto con il modello riformista promosso da Girolamo Savonarola, strenuo sostenitore di un’arte semplice e devota55. La biografia vasariana di Baccio codifica il profilo metastorico dell’artista cristiano, latore di alti contenuti morali, e specialista di pittura devota, talvolta affidata alla pratica della miniatura secondo la più autentica tradizione monastica, ma portata anche a dimensioni monumentali. Tale schema ricalca quello che l’aretino aveva dedicato al Beato Angelico, celebre antefatto di frate-pittore, per giunta nello stesso convento domenicano di Firenze56. Se l’umile e modesto Angelico è semplice e di costumi santissimi, tanto da rinunciare a quella carriera ecclesiastica che sarebbe toccata a sant’Antonino Pierozzi, Fra’ Bartolomeo è buono di natura, amante della vita quieta e di sana morale57. A entrambi pertiene l’eccellenza nella pittura in piccolo: lo dimostrano le tante storiette e figurine del maestro quattrocentesco, rammentato a più riprese da Vasari quale miniatore58, e l’episodio dell’altarolo del Pugliese riferito a Fra’ Bartolomeo, raro per le sue «miniature ad olio» (fig. 17)59. Suscita interesse l’insistenza dello storiografo proprio su quest’opera, che diventa il pretesto per commentare l’intervento del frate su un cimelio di Donatello; Baccio infatti incastona, nobilitandola, una Madonna a stiacciato del padre della statuaria fiorentina, suggellando così la propria fama60. A enfatizzare ulteriormente l’intervento del frate, che «tanto modernamente augumentò di novità le [proprie] figure»61, ci pensava Vasari segnalando la presenza dell’altarolo nello scrittoio di Cosimo de’ Medici accanto a testimonianze archeologiche e a «pitture rare di mini»62. Distillate entro una riposata monumentalità, le solenni figure della Presentazione non rinunciano a un’affettività densa, imbozzolata entro una luce leonardesca che struttura le forme, nelle quali il frate, per dirla col Lanzi, dimostra «quandunque volle» la capacità d’essere grande63. In Vasari la Vita di Baccio è costellata di pensieri religiosi quali la rinuncia ai soggetti mitologici, sacrificati come i disegni di nudo al riformismo morale savonaroliano64. L’episodio del San Sebastiano – dipinto per San Marco nel quale il frate indugiava nella ricerca di una «dolce aria» e di una bellezza naturale, venduto dai domenicani a Giovan Battista della Palla in quanto «leggiadra e lasciva imitazione del vivo» – riflette l’assioma “sacro è puro”65. Vasari, pur senza affermare che il registro devoto debba essere espresso da ciò che appare «goffo ed inetto», e quello lascivo da quanto risulta «bello e buono», sembra tuttavia ritenere che sovraccaricare il naturale di vaghezza e ornamenti determini in un pensare comune un effetto lascivo. Ne deriva l’equivalenza tra arte sacra e stile umile, fondato su semplicità, chiarezza e consuetudine; un binomio, sacro-umile, esemplificato per Vasari dall’Angelico, e confermato nel vivo dell’età moderna da Fra’ Bartolomeo66. Non stupirà allora trovare, tra la folla del Giudizio universale affrescato da Baccio e terminato dal sodale Mariotto Albertinelli, «un altro Fra Bartolomeo», quasi «un’anima ed un corpo» col frate, appunto il ritratto dell’Angelico67. La terracotta, nobile e popolare Mai come in età savonaroliana la terracotta, anche quella robbiana, sembra qualificarsi come sollecitante tecnica dei “moderni”, secondo la lettura che ne dava Leonardo alla vigilia della terza età vasariana, e grazie alle incursioni in quel campo di Andrea Sansovino e Baccio da Montelupo68. In un costante interscambio di modelli figurativi tra pittori e scultori – agevolato dalla militanza di Andrea della Robbia e dei suoi figli, Francesco, Marco, e Luca il giovane, tra le fila dei ferventi savonaroliani di San Marco, 39 FIGURA 18 / Ridolfo del Ghirlandaio, Madonna col Bambino e santi, Firenze, chiesa di Santo Spirito. al cui fianco stava anche il non meno devoto Baccio da Montelupo –, si fa strada a Firenze nei primi decenni del secolo una coesa comunità di artisti volta a ricercare effetti di misurata religiosità, concisa e disadorna, comprensibile a semplici e illetterati69. L’algore assoluto e inalterabile della superficie invetriata, volta a eternare il manufatto sacro, e l’impiego di una ridotta gamma cromatica, indice di purezza e semplicità, appaiono funzionali alle esigenze della catechesi savonaroliana, fissando sicuri termini di confronto tipologici, tecnici e stilistici cui si sarebbero esemplati anche gli artefici della contemporanea pittura sacra, come dimostrano le botteghe del Sogliani e di Ridolfo del Ghirlandaio col giovane Michele Tosini. La scultura fittile, più aderente al dato naturale rispetto al marmo, in virtù della sua mimetica pellicola pittorica e della maggiore sensibilità plastica ed espressiva consentita dal materiale, si configura nei primi decenni del Cinquecento quale la tecnica più funzionale alle esigenze devozionali. Lo attestano per esempio alcune opere realizzate nel terzo decennio del Cinquecento: la Vergine di Belén del Torrigiani (fig. 6), calda e accogliente nella sua intensa umanità, e la Madonna del Carmine sansovinesca (fig. 4), versione feriale e contadina di una antica matrona romana dalla pelle sartesca70. Opera, quest’ultima, che, nell’espansione michelangiolesca dei volumi, impiantati entro una sintassi sansovinesca, appare la sola mediazione possibile tra il tono aulico imposto dal dettato buonarrotiano e quello più umile della comunicazione popolare. La terracotta passa per questa via a saturare di un’umanità 40 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 19 / Giuliano Bugiardini, Madonna col Bambino e santi, New York, Metropolitan Museum of Art. dolente e ispirata le chiese della provincia toscana, come dimostrano i molti casi di Presepi e Lamentazioni, Pietà e Sacre rappresentazioni, nelle quali una composta gamma di affetti lascia talora il passo ad accenti di crudo realismo, come nelle stazioni di San Vivaldo71. Un’analoga sensibilità religiosa affiora anche nei gruppi sacri in terracotta e nelle sculture lignee proposti da Baccio da Montelupo, in cui l’austerità verrocchiesca lascia il posto a effetti più teneri ed epidermici volti a smorzare il rigore della disciplina savonaroliana. Proprio da tali presupposti sarebbe ripartito in piena età controriformata il frate servita Giovan Angelo Lottini, dimostrando nella Pietà di Montesenario l’assoluta inossidabilità dei modelli robbiani72. A cementare tale disposizione mentale doveva contribuire anche Vincenzo Borghini, che nel suo pluralismo linguistico giungeva a revisionare drasticamente le gerarchie estetiche vasariane, ritagliando uno spazio privilegiato alla pittura e alla tecnica scultorea che a essa era più prossima, la terracotta. Per questa via, ai padri della vasariana “maniera moderna”, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, egli allineava Baccio da Montelupo e Jacopo Sansovino73. Non potrà allora stupire trovare all’inizio degli anni Settanta del Cinquecento Giovanni Bandini alle prese con la poetica scultura fittile della Santa, o Vergine Maria, conservata all’Opera del Duomo (cat. 68), traduzione introflessa e domestica di quell’eloquio naturale che Simone Fortuna, agente diplomatico di Francesco Maria II della Rovere, segnalava nel 1582 al suo duca, alla vigilia del trasferimento dello scultore a Urbino74. 41 FIGURA 20 / Ridolfo del Ghirlandaio e Michele Tosini, Madonna col Bambino tra i santi Jacopo, Francesco, Chiara e Lorenzo, Firenze, Museo del Cenacolo di San Salvi. I Ghirlandaio: una tradizione di famiglia La consuetudine del sacro, e l’amore per le «cose oneste, facili, dolci e graziose» manifesta nei pittori di San Marco75, è una peculiarità del registro umile caro al Savonarola, che nella Firenze cinquecentesca appare eloquio condiviso, tra gli artisti a lui più vicini, anche dagli esponenti di un’antica famiglia di pittori: i Ghirlandaio76. Non esenti da simpatie per il frate domenicano, Ridolfo del Ghirlandaio e Michele Tosini, potenziano di accenti neoquattrocenteschi la loro pittura religiosa, risalendo alla solida tradizione di famiglia77. Ossequio del sacro, in un’accezione rigorista, e consuetudine di bottega, determinano la sintassi di una regolata autarchia esistenziale, impensabile fuori dai confini cittadini, e consegnata quasi esangue, sullo scadere degli anni Settanta, direttamente nelle mani dei maestri controriformati. La parlata raffaellesca di Ridolfo, d’accenti talvolta tedeschi78, nel suo comporre misurato da specchiati equilibri, è tutta fiorentina, come dimostra la gemmea stereometria della Pala Segni (fig. 18) realizzata verso il 1530 con Michele Tosini, solo più severa della smagliante rilettura robbiana già offerta dal Bugiardini nel decennio precedente (fig. 19)79. Una patinatura fiamminga, esibita nel solarizzato paesaggio, non scardina l’assunto arcaizzante della composta Pala Buonafede del 1544 (fig. 20), lavorata in tandem dal maestro col suo diligente allievo80. La monumentalità delle idealizzate figure dei santi prova a fissare in formule retoriche la sciolta soavità dei tipi sarteschi, cozzando con stridente contrasto contro il crudo realismo del devoto ritagliato di profilo nel margine del quadro. Non sfugge a Vasari, nonostante la collocazione di Ridolfo tra le fila degli artisti avversati dallo storiografo aretino, l’eccezionalità del maestro nella pratica del disegno, rubricata con la lapidaria sentenza: «era [Ridolfo] tenuto de’ migliori disegnatori che vi fussero»81, cui s’affianca la più speciale competenza di mosaicista82. Pur non raggiungendo le vette del padre Domenico, Ridolfo si affianca al numero dei fiorentini che, dopo Andrea Tafi, apripista per il Giotto della Navicella, avevano spianato la strada alla rifondazione fiorentina della pittura vetrificata, importata in città da antichi maestri bizantini83. Condotta direttamente 42 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 21 / Agnolo Bronzino, Cristo Crocifisso, Nizza, Musée des Beaux-Arts. FIGURA 22 / Agnolo Bronzino, Sacra famiglia con san Giovannino e santa Elisabetta, Parigi, Musée du Louvre. dalla Grecia a Firenze, questa tecnica trovava proprio in riva d’Arno la sua rinascita, e da qui ripartiva, potenziata di un nuovo plasticismo, alla volta di Venezia84. Il campanilismo di questa traccia vasariana, in cui si legge in filigrana l’eccellenza fiorentina a discapito di quella veneziana, eleggeva Ridolfo, già incastonato dallo storiografo nei termini di un’autarchia stilistica conservativa, a campione di un antico sapere. Anatomia del quotidiano I palinsesti sarteschi, sopravissuti per frammenti a Poggio a Caiano anche all’urto delle spericolate alchimie pontormesche, riemergono allentati dai loro gangli sintattici, anche nelle gemmate prove di Bronzino. L’eloquio del maestro, contaminato da crescenti immissioni nordiche, non deroga mai dalla schiettezza fiorentina nei confronti del naturale, sempre restituito con «incredibile diligenza» operativa; una diligenza sulla quale pesa il censorio commento di Vasari, che vi scorge «molto studio e fatica» e un’eccessiva fedeltà al dato di natura85. Lo dimostra il Crocifisso Panciatichi (fig. 21), che appare tratto, con cruda veridicità verbale, «da un vero corpo morto confitto in croce»86: un corpo dall’iconicità metafisica che non cela il suo ossequio assoluto al vero; puro nella sua smaltata asciuttezza formale, icasticamente semplice nella sua evidenza stereometrica, che si qualifica come una rilettura della misurata naturalezza senza retorica di Luca della Robbia87. Proprio quel senso della disciplina, espressione di un mestiere costruito con metodo non dissimulato – l’esatto contrario della sprezzatura cortigiana del Castiglione e della sua applicazione pittorica praticata con prestezza da Vasari –, racchiude i termini di un percorso esistenziale votato alla fede nel vero. Risale dunque allo stesso storiografo aretino la chiave interpretativa di un Bronzino naturalista capace di restituire nei ritratti persino la grana della pelle e l’ordito dei tessuti, e nella pittura sacra di immergersi in magnifici studi sul corpo umano, variato per tipi ed età anagrafica, come nella Discesa di Cristo al Limbo di Santa Croce o nel «san Bartolomeo scorticato, che pare una vera no43 tomia», eseguito per il duomo pisano (Roma, Galleria dell'Accademia Nazionale di San Luca): opere dove il naturale umile e ornato di Andrea del Sarto si cristallizza in una nomenclatura classificatoria di forme88. Del resto Agnolo, che certo non disdegnava il tono sostenuto delle invenzioni michelangiolesche89, divenute quasi una lingua di Stato dopo la Sagrestia Nuova, pare incedere speditamente, come l’amico Varchi, sul binario di un doppio registro espressivo, sia stilistico che linguistico: stentoreo nei ritratti ufficiali, e persino artificioso negli affreschi di San Lorenzo; naturale e plebeo, con licenziosi risvolti giocosi propri del codice burlesco, nel nano Morgante (Firenze, Uffizi)90. La Sacra famiglia con sant’Anna e san Giovannino del Louvre (fig. 22), del sesto decennio del Cinquecento, costituisce la prova più efficace, ma non certo isolata, del tentativo di far quadrare, sul filo di un bilanciato equilibrio, astrazione e naturale, riconducendoli nei termini di una sostanziale semplificazione formale e compositiva. Il dipinto, distante dalla iperurania redazione viennese, e rispetto a questa più temperata e affettiva, mostra, con la sua pittura più soda, il legame dell’artista col naturalismo formalizzato di Pontormo91. È con Alessandro Allori tuttavia, tanto contiguo ad Agnolo da esserne ritenuto parente92, che lo studio del naturale, guidato da una disciplinata imparzialità ottica, si cristallizza in una vera e propria grammatica della rappresentazione, alla cui costituzione concorrono in ugual misura la lucidità bronzinesca, la lenticolare acribia nordica e un attento riesame delle fonti. Non esitando a ripartire dal testo fondativo della Brancacci93, Alessandro risale, attraverso Domenico Ghirlandaio e Andrea del Sarto, ai padri dell’eloquio narrativo fiorentino, naturale e semplice, ma sostenuto e formalizzato. La sua partecipazione al completamento degli affreschi di Poggio a Caiano è in qualche modo emblematica 44 FIGURA 23 / Alessandro Allori e aiuti, Fanciulla di spalle che acconcia i capelli, particolare, Firenze, palazzo Pitti, Loggetta, volta. FIGURA 24 / Valerio e Giovan Simone Cioli, Contadino che vanga, particolare, Firenze, Giardino di Boboli. Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 25 / Mirabello Cavalori, Lanificio, particolare, Firenze, Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I. FIGURA 26 / Girolamo Macchietti, I bagni di Pozzuoli, particolare, Firenze, Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I. del principio di trasmissione generazionale di un patrimonio normato che prevedeva, in una sorta di scala gerarchica, l’esercizio grafico sulle invenzioni dei maestri94, la copia o la parziale traduzione degli originali fino, appunto, all’intervento integrativo95. Questo “congelamento” dell’idioma dei padri si traduce nell’acquisizione di un sistema operativo che consente ad Allori di dissezionare il vero riducendolo a monemi, con «gran profitto per l’intelligenza de’ muscoli»96, e di ricomporlo poi nella tessitura di una rappresentazione verosimile, spesso affettata anche se formalmente perfetta. Così il vero trasmigra, imparzialmente, in una scena sacra – si veda il Cristo in casa di Marta e Maria (cat. 16)97 – come in un brano di intrattenimento, quale era la simulazione del “terrazzino” di Pitti della fine degli anni Ottanta (fig. 23)98. Sì che la gravità del sacro si proietta in un presente aristocratico, e la giocosità del rustico si innalza a monumento cortigiano, come Valerio Cioli, nello stesso torno di anni, faceva con i suoi nobilissimi marmi dedicati ai minima della vita quotidiana (fig. 24)99. Toccherà ad alcuni “dissenzienti” vasariani riappropriarsi, nello studiolo di Francesco I, dai primissimi anni Settanta, di un naturalismo più diretto100. «Amicissimi e compagni»101, Mirabello Cavalori e Girolamo Macchietti, rispettivamente nel Lanificio (fig. 25) e nei Bagni di Pozzuoli (fig. 26) mettono in moto, entro complessi artifici spaziali che abilmente fanno dello spettatore un attore, un’umanità indaffarata. I lanaioli e i bagnanti, atletici certo, ma non più “scorticati”, evocano apertamente le comparse del Tributo a Cesare di Andrea del Sarto al Poggio (fig. 11). Quei corpi non abbigliati, o abbigliati di vesti feriali, sono espressione della pervicace attenzione che i due amici insieme dedicavano allo studio dal vero. Nel 1587 Macchietti, molti anni dopo la morte di Mirabello, doveva risultare titolare di una specialissima bottega dotata di stufa, «fatta apposta per dipingervi l’ignudo nel tempo d’inverno», 45 prestata all’amico Gregorio Pagani102. Nell’ansia di Girolamo di recuperare al rientro dal suo viaggio spagnolo quegli ambienti, sta tutto il legame del pittore fiorentino con l’assunto espresso nell’esercizio del disegno dal naturale103. Nello stesso studiolo i due amici trovavano una sponda nel misurato classicismo di Giovanni Bandini e Domenico Poggini, che, nel corso degli anni Settanta, sotto l’egida dell’incalzante controriforma, emendavano la loro produzione lapidea dagli accenti di retorico michelangiolismo104. Opere quali il busto marmoreo del Salvatore del monastero di San Vincenzo a Prato105, FIGURA 27 / Santi di Tito, Resurrezione di Lazzaro, Firenze, basilica di Santa Maria Novella. 46 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito FIGURA 28 / Jacopo da Empoli, Sant’Ivo e devoti, Firenze, Galleria Palatina. a cui Giovanni lavorava sotto l’occhio vigile di Caterina de’ Ricci, educatasi nel mito del Savonarola106, o le due Leggi pogginiane di San Pancrazio (cat. 17)107, possono ritenersi un tentativo di mediazione tra la nuova esigenza di semplificazione e un formalismo di maniera, cui non sarebbero rimasti insensibili neppure Vasari e Giambologna, i due simboli del manierismo fiorentino108. Ma il più compiuto e definitivo risarcimento della tradizione locale sarebbe giunto da un altro giovane “valente” e “fiero” del team vasariano, Santi di Tito, anch’egli attivo nello studiolo del principe109. La “purità primiera” La lingua «naturalmente favellata» di Benedetto Varchi si specchia nel medesimo torno d’anni nella pittura semplice e narrativa di Santi di Tito110. Con l’artista si cer47 FIGURA 29 / Andrea Ferrucci, San Paolo, Badia a Passignano, chiesa di San Michele. FIGURA 30 / Jacopo Sansovino, San Paolo, Parigi, Musée Jacquemart-André. tifica quella “quadratura del cerchio” del purismo formale fiorentino, accostante d’eloquio e affettuosamente verosimile, che avrebbe costituito l’approdo più compiuto dello stile autarchico cittadino, da consegnare alle nuove generazioni seicentesche111. Nel suo completamento dell’Adorazione dei Magi (Fiesole, San Domenico) (fig. 16 nel saggio di Pizzorusso), iniziata dal Sogliani, si esplicita il programma esistenziale del pittore, svolto all’insegna di un naturalismo accostante, fondato su un sistema di concatenazioni retoriche classiche, codificate in città dai padri fondatori della “maniera moderna”, Andrea del Sarto e Fra’ Bartolomeo, e declinato dalle loro nutrite schiere di creati112; un insegnamento, questo, su cui Santi innerva l’uso dei parerga ghirlandaieschi di temperata affettività domestica, contaminati col gusto bronzinesco per superfici stereometriche. La Resurrezione di Lazzaro (fig. 27) del 1576 è la risposta più eloquente del Titi alle richieste di «purità primiera»113 che, da più parti, i teorici della controriforma rivolgevano agli artisti; la sua pittura pare «honesta» e misurata, com’era d’obbligo per chi, come Santi, aveva dichiarato la propria predilezione per la Compagnia di san Tommaso d’Aquino114. In quella sua fiducia nell’idea di un disegno totale, per cui «tutto era disegnare», sta l’immagine irrinunciabile di una dimensione deliberatamente ricondotta entro il dettato culturale dei confini municipali, alla riscoperta dell’eloquio dei padri: una lingua antica, mai morta, sempre rinnovata nelle sue tante contaminazioni forestiere, ma sempre riconoscibile nella sua chiara struttura sintattica; una lingua parlata, semplice e accostante, cresciuta nel mito del naturale e nell’esigenza quasi fisiologica di restituire «ben osservato e imitato» «quanto poteasi veder coll’occhio»115; la lingua di Andrea del Sarto, assurto al ruolo titanico di nuovo Michelangelo della Controriforma116; un Andrea del Sarto da studiare, copiare e catalogare, grazie anche alla nuova visibilità assegnata all’artista nelle collezioni granducali117; un Andrea, di cui possedere qualche reliquia, da tenere dinanzi per non perdere la rotta, come accade col celebre leggio che Jacopo da Empoli mostrava in ostensione118. 48 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito 1 Tra le filiazioni di bottega dei padri fondatori di questa via, Vasari ha parole di piena stima solo per il fierissimo Rosso, capace di inaugurare un nuovo corso, destinato però a rimanere quasi inascoltato. Luigi Lanzi osservava lucidamente come Rosso, «Dotato di un ingegno creatore, ricusò di seguir veruno de’ suoi o degli esteri; e veramente molto di nuovo nel suo stile si riconosce», e ancora «è de’ primi della sua scuola, comeché non vi conti quasi un seguace» (Lanzi 1795-1796, ed. 1968-1974, I, 1968, p. 126). Si vedano inoltre Ciardi - Mugnaini 1991; Franklin 1994; Natali 2006; Giannotti 2011; e Pontormo e Rosso 2014, e in particolare Mozzati 2014a. Rosso, nonostante il discepolato presso Andrea del Sarto, non può essere incluso tra gli artisti oggetto di questa disamina. 2 Wackernagel 1938, ed. 1981; Maestri e botteghe 1992. 3 Vasari 1568, ed. 1878-1885, III, 1878, p. 186. 4 Idem, IV, 1879, p. 139. 5 Ivi, p. 195. Gaetano Milanesi ricorda come si conservi presso la guardaroba della Accademia Fiorentina di Belle Arti un modello che tradizionalmente si fa riferire a Fra’ Bartolomeo (ivi, p. 196, n. 1). 6 Per il primo cfr. Idem, III, 1878, p. 255 mentre per il secondo si veda Idem, IV, 1879, p. 563. 7 Ivi, p. 509. 8 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 196. 9 Idem, VII, 1881, p. 493. 10 Idem, V, 1880, pp. 6, 14, 57. Circa la lettura di Andrea del Sarto offerta da Vasari cfr. Spagnolo 1998; Wellen 2004, passim; Spagnolo 2011. 11 Vasari 1568, ed. 1878-1882, III, 1878, p. 585. 12 Idem, V, 1880, p. 26. 13 «Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti i nuovi artefici assai biasimata; e particolarmente perché si era Pietro servito di quelle figure che altre volte era usato mettere in opera, dove tentandolo gli amici suoi dicevano, che affaticato non s’era, e che aveva tralasciato il buon modo dell’operare o per avarizia per non perder tempo. Ai quali Pietro rispondeva: io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi, e che vi sono infinitamente piaciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io?» (Vasari 1568, ed. 1878-1885, III, 1878, pp. 586-587). Sulla vicenda si veda anche Franklin 2001a, p. 6. 14 Idem, V, 1880, p. 14. Il riferimento a Vitruvio è desunto dal Disegno di Anton Francesco Doni che commenta un passo dedicato alla grottesca (Doni 1549, ed. 1970, p. 20). 15 Sulla contrapposizione vasariana di “fierezza” e “diligenza” cfr. Mozzati 2014a, pp. 220 e ss. Sulla “diligenza” per Vasari si veda anche De Girolami Cheney 2005, pp. 270 e ss. 16 Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, pp. 139, 563, 177, 512, 540, Idem, V, 1880, pp. 124, 191, 202; Idem, VI, 1881, pp. 354, 264; Idem, VII, 1881, pp. 594, 603, 619. 17 Idem, III, 1878, p. 250. 18 Ivi, p. 255; Idem, IV, 1879, pp. 567; Idem, V, 1880, p. 130 (i corsivi sono miei). 19 Per Cosimo Rosselli cfr. Idem, III, 1878, p. 188. È l’impiego da parte di Andrea del Sarto di stampe di Dürer, per l’elaborazione delle proprie soluzioni compositive, a determinare il commento denigratorio di Vasari che prova tuttavia a imputare tale osservazione ad altri, «il che ha fatto credere ad alcuni, non che sia male servirsi delle buone cose altrui destramente, ma che Andrea non avesse molta invenzione» (Idem, V, 1880, p. 22). Per Bugiardini cfr. Idem, VI, 1881, p. 205. 20 Franciabigio, secondo Vasari, «Non volle mai uscir da Firenze; perché avendo vedute alcune opere di Raffaello da Urbino, e parendogli non esser pari a tanto uomo né a molti altri di grandissimo nome, non si volle mettere a paragone d’artefici così eccellenti e rarissimi» (Ivi, p. 198). Assai simile è anche il caso di Ridolfo che, nonostante le tante pressioni ricevute dall’amico Raffaello perché si trasferisse a Roma, non volle mai perdere «la cupola di veduta [e non] sapendosi arrecare a vivere fuor di Fiorenza, non accettò mai partito che diverso o contrario al suo vivere di Firenze gli fusse proposto» (Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, p. 535). 21 Idem, IV, 1879, p. 187; ivi, p. 225; Idem, V, 1880, p. 56. Per un commento dei fiorentini a Roma cfr. Ciardi 2000, pp. 9 e ss. 22 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, pp. 30-31. Lo stesso Rosso Fiorentino, filiazione della bottega sartesca, anche se artista votato ad un forte individualismo formale, nell’edizione torrentiniana del 1550 incappa in un fallimento romano al cospetto delle «stupende cose che egli vi vide d’architettura e scultura e per le pitture e statue di Michelangelo» (Vasari 1550, 1568, ed. 1966-1987, IV, 1976, p. 480. Cfr. Giannotti 2011, p. 133). 23 Sulle rassegne di fiorentini illustri cfr. Kubiski 1993; Maugeri 2000; Caputo 2007; Santi, poeti 2009. 24 Cecchi 1993. 25 Pizzorusso 2000. 26 Baldini 1574, p. 20; Conforti 2011, p. 65. 27 Per la politica culturale di Cosimo cfr. Eisenbichler 2001. Per la trasformazione di Palazzo Vecchio in residenza ducale cfr. Allegri - Cecchi 1980 e Palazzo Vecchio 2006. 49 Vasari - Vasari il Giovane 1588, ed. 1882, VIII, p. 14. Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, pp. 603-606. In merito all’identificazione dell'interlocutore di Perino col Sarto cfr. Parma Armani 1986, p. 51; Natali 1996b, pp. 42-43; Ciardi 2000, p. 20. Circa l’attaccamento dei fiorentini per le proprie tradizioni culturali si veda anche Giannotti 2007, pp. 47 e ss. Sulle dispute artistiche fiorentine cfr. Spagnolo 2008. 30 In merito agli stucchi cfr. Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, pp. 556-557 e Giannotti 2007, p. 57. Sul palazzo Bartolini Salimbeni cfr. Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, pp. 351-352 e Idem, IV, 1879, p. 444 e Spagnolo 2013. 31 Sugli Orti Oricellari cfr. Gilbert 1964; Gli Orti Oricellari 1991. Nella Sacra Accademia nata nel 1515, campi d’indagine erano filosofia e riflessione religiosa, Commedia dantesca e musica (Paolozzi Strozzi 2000, p. 166). A proposito degli Orti Oricellari si veda inoltre Pontormo 1996, passim. In merito alle vicende sulla lingua si rimanda agli interventi di Martelli 1978 e Idem 1988. Per i riferimenti normativi circa la varietà e l’ordinata disposizione dei corpi cfr. Alberti 1782, p. 308. 32 Si tratta del celebre Cupido che finì poi nelle mani di Isabella d’Este e che faceva seguito alla testa di Fauno “contraffatta” dal modello antico nel Giardino laurenziano di San Marco (Vasari 1568, ed. 1878-1885, VII, 1881, pp. 147-149, p. 142). 33 Satzinger 1996, passim. L’autore commenta in tal senso anche il David michelangiolesco, oltre all’Ercole realizzato per gli apparati effimeri di Leone X a Firenze da Baccio Bandinelli, cui avrebbero fatto seguito la richiesta di Clemente VII a Michelangelo per il colosso da porre sul sagrato di San Lorenzo, e l’ancor più tardo Ercole e Caco di Bandinelli. Circa il cortile di Palazzo Medici esso si proponeva quale reale alternativa municipale al cortile del Belvedere romano specie all’indomani dell’allestimento del Laocoonte di Baccio opportunamente integrato delle parti mancanti e dunque persino perfezionato rispetto all’originale. 34 Colpisce l’assioma vasariano del Sarto pittore senza errori nel quale pare specchiarsi l’immagine ben più datata del Giotto «perfecto & absoluto» già tracciata da Cristoforo Landino (Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 60 e Landino 1497, p. 14). 35 Su Ottaviano cfr. Bracciante 1984; Paolozzi Strozzi 2000; Giannotti 2007, pp. 52-53. 36 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, pp. 41-42. 37 Ivi, p. 42. 38 Landino 1497, p. 14. La celebre citazione è in verità riferita a Stefano Fiorentino, allievo di Giotto, ampiamente ricordato da Vasari. Si veda sull’argomento Bertelli 2010 con bibliografia precedente. Sul fortunato revival del Masaccio landiniano, determinante dovette essere il ruolo di Leonardo (Wohl 1993 e Wellen 2004, p. 214 e passim). 39 Ivi, pp. 13, 17. In relazione alla compagnia del Paiolo si veda, oltre alla stessa Wellen, Mozzati 2008. 40 Sull’attenzione del Sarto per Dürer si veda da ultimo Natali 2007. Sul suo sperimentalismo linguistico cfr. Rubin 1995, p. 93. 41 Sul Landino e le sue volgarizzazioni dei testi latini, cariche di fiorentinismi coloriti, e sul suo commento dantesco destinato a far scuola in città per almeno un secolo si vedano Landino, ed. Procaccioli 2001 e Foà 2004. Sul codice stilistico raffaellesco e lo sperimentalismo sartesco cfr. Rubin 1995, p. 93. 42 Sul chiostro dello Scalzo cfr. Shearman 1959-1960; Natali 1998a, passim; O’Brien 2004; Proto Pisani 2004b; Hirdt 2006. 43 All’argomento ha dedicato reiterati interventi di lucida perspicacia Antonio Natali a cui si rimanda nel suo contributo più recente (Natali 2013). 44 Lanzi 1759-1796, ed. 1968-1974, I, 1968, pp. 119 e 70. Anche la Borsook (1960, ed. 1980 p. 129) legge la continuità tra le decorazioni sartesche e la scuola fiorentina del Tre e Quattrocento. 45 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 36. Sul celebre ciclo decorativo cfr. Kliemann 1976; Idem 1993; Mozzati 2014b. 46 Per un coinvolgimento del Sarto e degli artisti gravitanti intorno all’Annunziata e alla Sapienza con il genere burlesco cfr. Pontormo 1996; Wellen 2004, passim; Giannotti 2007, pp. 101 e ss; Mozzati 2008, passim. 47 Gentilini 1992, II, p. 440. 48 Franklin 2001a, pp. 136-141. 49 Sricchia Santoro 1963a, p. 13. 50 Già Longhi (1927) censiva lucidamente l’inclinazione al naturale dell’artista secondo una chiave di lettura rilanciata da Sricchia Santoro nel suo bel saggio del 1963 (1963a). Si vedano inoltre McKillop 1974 e Sricchia Santoro 1993b. Giorgio Vasari rammenta a più riprese l’indefesso studio dal naturale condotto dall’artista sia su modelli vivi che morti (1550, 1568, ed. 1878-1882, V, 1880, p. 196). Si confronti infine l’esaustivo saggio di Antonio Natali (Natali 2013). 51 Sulla prontezza naturalistica di Pontormo cfr. Pontormo 1996; Mozzati 2014b e Costamagna 2014. 52 Cfr. Pontormo 1996, passim. Non è di tale avviso Vasari che in relazione agli affreschi dell’artista per la Certosa 28 29 50 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito del Galluzzo assume un atteggiamento di aperta censura determinata dall’eccessivo impiego da parte di Jacopo di spunti nordici: «Or non sapeva il Puntormo che i Tedeschi e i Fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana, che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?» (Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, p. 267). 53 Ivi, p. 265. 54 Per il giudizio vasariano su Rosso e Pontormo cfr. Pontormo e Rosso 2014. 55 Sull’artista cfr. Fra’ Bartolomeo 1996; Cornelison 2009; Assonitis 2012. Sul movimento savonaroliano cfr. Weinstein 1970; Hall 1990; Polizzotto 1994; Sisi 1996; Hankins 1997; Verdon 1999; Girolamo Savonarola 2001; Dall’Aglio 2005; Polizzotto 2009. Colpisce come Vasari non manchi di rubricare l’intenzione di Pier Soderini di disporre entro la sala del Maggior consiglio di Palazzo Vecchio insieme alle decorazioni parietali di Leonardo e Michelangelo una pala di Fra’ Bartolomeo, forse a indicare le principali vie artistiche inaugurate a Firenze dalla maniera moderna (Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, pp. 198-199). Sull’impresa decorativa della sala cfr. Wilde 1944; Steinberg 1977 e Rubinstein 1991. La pala del frate, nota quale Pala della Signoria (fig. 16) (Firenze, Museo di San Marco), pur non portata mai a compimento, fu allestita nel suo posto d’origine nel 1527-1530 per essere poi spostata nel 1540, su indicazione di Ottaviano de’ Medici che ne risulta acquirente, in San Lorenzo all’altare di famiglia (S. Padovani, in Fra’ Bartolomeo 1996, pp. 99-103). 56 A ribadire il legame intercorso tra Fra’ Bartolomeo e l’Angelico si può anche ricordare come Piero Scapecchi giunga persino a ipotizzare che nella Pala della Signoria di Baccio, a destra della Vergine, compaia nei panni di uno dei santi domenicani posto vicino a Sant’Antonino, il ritratto dell’Angelico «(o di Fra’ Bartolomeo in veste di Giovanni da Fiesole)» Scapecchi 1996, p. 23. Per la biografia vasariana dell’Angelico e la codificazione del religioso nell’emblema del pittore devoto proposta da Vasari in risposta al dibattito promosso in seno alla Riforma cfr. Cole Ahl 2005. A tal proposito si veda anche Nagel 2000, pp. 191-192. 57 Vasari 1568, ed. 1878-1885, II, 1878, pp. 520, 519, 517 e Idem, IV, 1879, p. 177. Su sant’Antonino Pierozzi cfr. Antonino Pierozzi 2012. 58 Vasari 1568, ed. 1878-1885, II, 1878, pp. 510-511, 515, 522. 59 Idem, IV, 1879, pp. 176-177. 60 Ivi, p. 176. L’identificazione del rilievo donatelliano rammentato da Vasari con la Madonna Dudley del Victoria and Albert Museum si deve a Francesco Caglioti (in Il giardino di San Marco 1992, pp. 72-78; sull’opera si vedano anche, A. De Marchi, in Ivi, pp. 78-82 e E. Fahy, in Fra’ Bartolomeo 1996, pp. 66-69). 61 Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, p. 202. 62 Ivi, p. 177. Everett Fahy ne ripercorre i passaggi collezionistici dallo scrittoio di Cosimo de’ Medici alla Tribuna (1589-1638) fino all’allestimento in Galleria (in Fra’ Bartolomeo 1996, p. 66). 63 Lanzi 1759-1796, ed. 1968-1974, I, 1968, p. 117. 64 Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, pp. 178-179. 65 Ivi, p. 188. Per il San Sebastiano cfr. Cox Rearick 1974. In virtù del suo registro narrativo e compositivo tradizionale Franklin ritiene Fra’ Bartolomeo un artista marginale, moderatamente interessato al naturale, al servizio della fede e perciò fortemente condizionato nei suoi registri espressivi (Franklin 2001a, pp. 81 e ss.). 66 Vasari 1568, ed. 1878-1885, II, 1878, p. 518 e Idem, IV, 1879, p. 188. Per l’Angelico vessillifero di arte devota cfr. Cole Ahl 2005. 67 Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, p. 217. L’aretino sembra ribadire a più riprese come Mariotto si muova in subordine sotto l’egida stilistica di Fra’ Bartolomeo e come rispetto al frate egli appaia meno dotato. Tale lettura è rilanciata anche da Lanzi per il quale «essi [Mariotto e Bartolomeo] paion due rivi usciti da una stessa sorgente per divenire l’uno un fiume da guadarsi, l’altro un fiume reale» (Lanzi 1759-1796, ed. 1968-1974, I, 1968, p. 118). Su Mariotto Albertinelli cfr. Borgo 1976; Fischer 1986; La Visitazione 1995; Fra’ Bartolomeo 1996; Pagnotta 2012. «Evvi ritratto in quell’opera anche Fra Giovanni da Fiesole pittore, del quale aviano descritto la Vita, che è nella parte de’ beati» (Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, p. 181). Negli affreschi di Santa Maria Nuova compaiono accanto all’Angelico anche i ritratti del giovane allievo Bugiardini e quello stesso di Mariotto (Idem, II, 1878, p. 518 e Idem, IV, 1879, p. 181). Più in generale sul Bugiardini cfr. Sricchia Santoro 1963a, pp. 22-23; Pagnotta 1987; Dalli Regoli 1995; Matteoli 2000; Land 2005. 68 Collareta 1998. Si vedano inoltre Gentilini 1980; Muzzi 1998, p. 51 e più in generale Gentilini 1992; I Della Robbia 1998; F. Petrucci, in I Della Robbia 1998, pp. 375-376; Bellandi 1998; Gentilini 2009; I Della Robbia 2009; Fattorini 2013, pp. 24-30 e 120-139. 69 A sottolineare tale congiuntura sarà utile rammentare anche lo speciale ruolo svolto da Fra’ Paolino, uno dei più stretti imitatori di Fra’ Bartolomeo, che esordì nei panni di plasticatore (Fra’ Paolino 1996; Muzzi 1998, p. 52) e quello di suor Angelica Razzi, suora insieme a Plautilla Nelli nel convento di Santa Caterina in Cafaggio, dedita alla modellazione della terracotta, come anche altre religiose nel convento di San Domenico di Lucca (Ivi, p. 54). Per i frequenti interscambi tra pittori e scultori, celebri sono i casi Andrea della Robbia che ripropone invenzioni perugi51 nesche (in I Della Robbia 2009, p. 339) e di Giovanni della Robbia che ricorre a invenzioni di Mariotto Albertinelli e Fra’ Bartolomeo, ma anche a opere di Andrea del Sarto (M. Scudieri, in I Della Robbia 1998, p. 256; De Marchi 1998, p. 28 e T. Mozzati, in I Della Robbia 2009, p. 357). Assai noto è inoltre anche Girolamo della Robbia che rilegge oltre a Ridolfo del Ghirlandaio e a Fra’ Bartolomeo anche Raffaello (De Marchi 1998, p. 28 e A. Bellandi, in I Della Robbia 1998, p. 296). Francesco e Marco della Robbia furono frati nel convento di San Marco coi nomi di Ambrogio e Mattia; mentre le loro sorelle Caterina e Margherita divennero suore del convento domenicano di Santa Lucia a Camporeggi (Vasari 1568, ed. 1878-1885, II, 1878, p. 181 e Natali 2009, p. 113). Sul coinvolgimento dei Della Robbia con istanze savonaroliane cfr. Muzzi 1998 e Idem 2009. 70 Cfr. Fattorini 2013, pp. 270 e ss. L’opera di Trequanda riferita dallo studioso ad Andrea Sansovino mostra rispetto al consueto algore del maestro una umanità più calda e partecipata, che sembrerebbe piuttosto orientarne l’autografia verso il Tatti, suo giovane allievo. A lui pare indurre anche la straordinaria monumentalità della figura. Propendeva per una paternità di Jacopo Carlo Sisi (in L’officina della maniera 1996, pp. 188-189). La bella Vergine, che rielabora l’idea del ruvido fazzoletto della Madonna del piccione, impiegato da Piero di Cosimo (fig. 5), è senz’altro riconducibile a quello speciale momento in cui si registra un passaggio di consegne tra il più anziano Andrea e il giovane Jacopo. Davvero difficile appare oggi pronunciarsi per una sicura autografia. Circa la Madonna spagnola del Torrigiani cfr. Ciardi Dupré Dal Poggetto 1971, pp. 308-309; Darr 1992, p. 137. 71 Gentilini 1980, p. 86; Sculture robbiane 1990, p. 12; Gentilini [1992], II, p. 435; Lorenzi 1998, passim; Giannotti 2004, pp. 157-159. Per le sculture di San Vivaldo cfr. Agnoletto - Fabre 1987; La “Gerusalemme” 1989; Una ‘Gerusalemme’ toscana 2004; Caterina Proto Pisani 2006. 72 Scudieri Maggi 1980, p. 107. Andrà comunque segnalato che già dai primi decenni del Cinquecento Giovanni della Robbia e la sua bottega rinnovavano il repertorio compositivo di famiglia con gruppi plastici di piccole dimensioni legati ad accenti semplici e devoti, e a più sciolte ambientazioni narrative di calda intonazione affettiva (I Della Robbia 1998, pp. 262 e ss.; I Della Robbia 2009, pp. 252 e ss.). In quest’idea di «naturalismo integrale» Giovanni sottoponeva a un’attenta disamina non solo gli affetti ma anche una ricca e variata repertoriazione di soggetti vegetali e di nature morte che denotano il gusto per una vivace e caleidoscopica resa della realtà in tutte le sue molteplici espressioni (Gentilini - Mozzati 2009, p. 148; I Della Robbia 1998, pp. 278 e ss.; I Della Robbia 2009, pp. 372 e ss). 73 Carrara 1998, pp. 121-122. 74 F. Vossilla, in Magnificenza 1997, p. 72. 75 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 130. Sull’artista cfr. Fra’ Bartolomeo 1996, passim; Casciu 2004, pp. 99-101; Waldman 2008; Nesi 2013. 76 Su Ridolfo e Michele Tosini cfr. Franklin 1993; Idem 1998, 2001a e 2001b, 2010; Natali 2008, Hornik 1990, Eadem 1996 e 2009; Nesi 2011a. 77 Sulle implicazioni savonaroliane di Ridolfo cfr. Ivi, p. 16. Sarà utile ricordare che Ridolfo del Ghirlandaio afferì alla scuola di San Marco istituendo un rapporto speciale col convento domenicano femminile di San Jacopo di Ripoli, mentre il Tosini oltre a lavorare per vari complessi dell’ordine, ebbe ben tre figli nei conventi di San Domenico a Fiesole, San Vincenzo a Prato e San Jacopo di Ripoli (Ivi, p. 19). Si veda inoltre la dettagliata ricostruzione dei legami della famiglia Ghirlandaio con i conventi domenicani di Firenze e Prato (Hornik 2009). 78 Per lo speciale rapporto che legò il pittore a Raffaello cfr. Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, p. 535 e Natali 2008. Per gli accenti tedeschi delle pale con i Miracoli di san Zanobi cfr. C. Falciani, in L’amore, l’arte e la grazia 2008, pp. 81-85. 79 Per la Pala Segni cfr. Franklin 2010, pp. 58-60. Sulla commissione Valori si veda M. Maccherini, in Ritratto di un banchiere 2004, pp. 391-392. 80 Franklin 1993; Idem 2010, pp. 61 e ss. 81 Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, p. 534. 82 L’atteggiamento del Vasari nei confronti del mosaico, tecnica pittorica resistente come la scultura, e per questo perfetta anche in virtù della sua filiazione antica, praticata da artisti toscani moderni, appare piuttosto contradditorio (Vasari 1568, ed. 1878-1885, I, 1878, pp. 196 e ss.). Se è infatti assai positivo in relazione al contributo di Domenico Ghirlandaio (Idem, III, 1878, p. 274) non lo è affatto quando riferisce dell’attività svolta dal fratello di questi Davide (Idem, VI, 1881, p. 532). Si vedano sull’argomento: Haftmann 1940/1941; Chastel 1955; Idem 1958; Monciatti 2000; Carrara 2005, pp. 83 e ss. e Fachechi - Grasso 2009. 83 Vasari 1568, ed. 1878-1885, I, 1878, pp. 331 e ss. e 386. 84 Ivi, p. 338. Appare perciò degno di nota che a fine Quattrocento Benedetto da Maiano, al momento di realizzare il ritratto di Giotto per Santa Maria del Fiore, scelga di raffigurarlo intento a lavorare con una tessera musiva in mano. 85 Idem, VII, 1881, p. 594. L’artista durante l’arco della sua carriera si era conquistato la fama d’essere un pittore «che va piano» (De Luca 2010, p. 343, n. 18), puntando a ottenere effetti di estrema finitezza formale persino nell’occasione degli apparati effimeri per le nozze di Giovanna d’Austria e Francesco de’ Medici, quando realizzò al ponte alla Carraia «alcune storie delle nozze d’Imeneo, in modo belle, che non parvero cose da feste, ma da essere 52 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito poste in luogo onorato per sempre, così erano finite e condotte con diligenza» (Vasari 1568, ed. 1878-1885, VII, 1881, p. 604). Baldinucci definisce la diligenza «Squisita e assidua cura» (Baldinucci 1681, p. 49). Per la “diligenza” del maestro cfr. De Luca 2010. 86 Vasari 1568, ed. 1878-1885, VII, 1881, p. 594. Sul Crocifisso cfr. C. Falciani, in Bronzino 2010, pp. 170-172. 87 Longhi 1927, ed. 1963, p. 8 e Idem 1955, 65, pp. 13-14. Carlo Falciani preferiva accostare la figura del Cristo al «Crocifisso di Brunelleschi a Santa Maria Novella o, meglio, [a] quello donatelliano del convento di Bosco ai Frati» in Bronzino 2010, p. 170. 88 Per i due dipinti sacri cfr. L. Morini, in Bronzino 2010, pp. 304-305 e A. M. Monaco, in ivi, pp. 312-313. Spunti per un Bronzino naturalista erano già stati elaborati da Longhi (1927, p. 7) e poi in date più recenti sviluppati da Giannotti 2007, pp. 101-115; Falciani - Natali 2010; Natali 2010; Bronzino 2010. Lanzi non manca di osservare come nel Cristo al Limbo di Santa Croce, il naturale di Bronzino si codifichi quasi in «un’Accademia di nudo» (Lanzi 1759-1796, ed. 1968-1974, I, 1968, p. 149). Per quest’ultima opera cfr. Lingo 2013. 89 Bronzino insieme a Vasari, a Cellini e ad Ammannati avrebbe coordinato le «esequie solenni» del Buonarroti (A. Petrioli Tofani, in Feste e apparati 1969, p. 11). 90 Per il doppio registro poetico praticato dall’artista si vedano Parker 2000, pp. 128-167; Giannotti 2007, pp. 101-115; Rossi 2010. 91 E. Pilliod, in Bronzino 2010, pp. 300-303. 92 Sia Borghini che Baldinucci dichiarano l’artista oltre che allievo di Bronzino anche suo nipote: Borghini 1584, p. 623; Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, p. 525. Sull’artista: Pilliod 1989; Lecchini Giovannoni 1991; Windt 2000; Pilliod 2001; Saracino 2004; Cherubini 2009; Idem 2010. 93 «avendo noi tutti dato un’occhiata alla Cappella ove sono l’opere di Masaccio», cit. in Lecchini Giovannoni 1991, p. 309, che trascrive un brano del Dialogo delle regole del disegno redatto da Alessandro Allori, un trattato in forma dialogica databile intorno al 1565, rimasto manoscritto, i cui protagonisti sono, a seconda delle redazioni, lo stesso Allori, Bronzino, Vincenzo Acciaiuoli, Simone Tornabuoni, Andrea Minerbetti, Tommaso del Nero e Cosimo Rucellai. Scopo del trattato era quello di fornire una grammatica del disegno a chi avesse voluto accostarsi alla pratica artistica (cfr. Ciardi 1971; Allori 1565 c., ed. 1973; Lecchini Giovannoni 1991, pp. 309-310). 94 Molte sono le testimonianze della pratica del disegno da opere dei maestri; per restare agli anni di Alessandro Allori si può ricordare che Francesco Morandini detto il Poppi realizza nel 1569 ventotto disegni dal chiostro dello Scalzo (Francesco Morandini 1991, p. 15); mentre in seguito Jacopo da Empoli studia gli affreschi del chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, p. 6). 95 A Poggio a Caiano Allori era chiamato a completare gli affreschi del Sarto e di Franciabigio e ad affrescare nuovi episodi. Tra gli interventi di completamento, che costituiscono l’occasione per una sorta di passaggio ereditario di mano in mano e di generazione in generazione di un patrimonio figurativo cittadino, si possono ricordare quelli di Mariotto Albertinelli, che ultima gli affreschi di Santa Maria Nuova di Fra’ Bartolomeo e un dipinto viterbese lasciato incompleto dall’amico, e quelli di Giuliano Bugiardini, che porta a compimento la Pietà e il Rapimento di Dina di Baccio (Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, 1879, p. 180; Idem, VI, 1881, pp. 247, 203-204; per una dettagliata scheda sulle due opere cfr. C. Fischer, in Fra’ Bartolomeo 1996, pp. 107-111). Si ricorda inoltre il caso di Santi di Tito che termina l’Adorazione dei Magi iniziata da Sogliani nello stile di Fra’ Bartolomeo (Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 124; Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, II, 1846, p. 535). In quanto alle copie integrali o parziali merita riferire dei casi di Bugiardini da Fra’ Bartolomeo (Vasari 1568, ed. 1878-1885, VI, 1881, p. 201), e di Alessandro Allori che contraffà la maniera del Sarto (Borghini 1584, p. 629), fino a giungere alla stagione dell’Empoli che riduce a sistema la pratica della “traduzione”, reiterando molti dipinti di Fra’ Bartolomeo, Andrea del Sarto e Pontormo (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, pp. 6, 8, 10; Marabottini 1988, pp. 143-147). Sulla questione delle copie dai maestri si veda inoltre Meloni Trkulja 1986. 96 Già Borghini riferisce dell’analitica indagine grafica condotta dall’artista sul corpo umano e perfezionata attraverso l’esercizio delle dissezioni anatomiche (1584, p. 630). Baldinucci ne avrebbe integrato le notizie precisando come il pittore tenesse una vera e propria “pre accademia” nei chiostri di San Lorenzo dove insegnava ai suoi giovani allievi l’arte “scientifica” dell’anatomia attraverso la presa disegnativa poi perfezionata con lo studio del modello plastico (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, p. 525). 97 Le vicende del palazzo Portinari Salviati della fine degli anni Settanta s’intrecciano cronologicamente con quelle degli interventi realizzati dall’artista a Poggio a Caiano (Lecchini Giovannoni 1991, pp. 247-250). Si assiste in questi anni a una generale semplificazione formale nella produzione del maestro forse incalzato dall’approdo in città delle novità di Federico Zuccari e Barocci (Barbolani di Montauto 2009, pp. 112-114) e dalla stagione rigorista e riformatrice già avviata da Cosimo I sin dagli anni Sessanta, e poi perfezionata dalle autorità ecclesiastiche. Per il riformismo cosimiano cfr. D’Addario 1972, pp. 132, 144 e passim; Cresti 1995, pp. 7 e ss.; Idem 1997, p. 9; Poma Swank 1997, pp. 108 e ss. Un forte segnale del mutato clima religioso è anche la trasformazione degli altari di Santa Maria Novella e Santa Croce promossa dal duca e progettata da Vasari (Hall 1979; Conforti 1995, pp. 209 e ss.). In merito 53 alla politica ecclesiastica si segnalano i sinodi promossi dagli arcivescovi cittadini Antonio Altoviti e Alessandro de’ Medici del 1565 e del 1569 e ancora quello del 1573 promossi dall’arcivescovo Antonio Altoviti, e il rinnovamento di molte tradizioni liturgiche di cui fu responsabile il suo successore Alessandro de’ Medici (D’Addario 1972, pp. 120, 126-127, 177 e ss.; Idem 1980; sull’argomento si rimanda al saggio di Maria Pia Paoli nel presente catalogo). A queste richieste di rinnovamento espressivo avanzate dagli ambienti religiosi l’Allori risponde al meglio con opere quali lo straordinario Cristo morto di Olomouc e con la Vergine, il Bambino e gli Angeli di Cardiff, dal naturalismo raffrenato (Lecchini Giovannoni 1991, p. 259). 98 Ivi, p. 272; Bastogi 2005. Già la Lecchini Giovannoni prevedeva la compartecipazione esecutiva dei collaboratori, poi rilanciata da Bellesi che avanzava il nome di Andrea Commodi ritenuto il principale esecutore delle figure femminili (1999, p. 50). Federico Zuccari realizzava l’impianto decorativo della sua casa-studio, acquistata a Firenze dagli eredi di Andrea del Sarto, alla fine degli anni Settanta inserendo tra le pitture anche scene di semplice vita domestica alle quali l’Allori mostra di essersi ispirato. Per le pitture dello Zuccari si veda Acidini Luchinat 1999, II, pp. 103-112. 99 Agli anni Settanta risaliva certamente la fonte in pietra della Lavandaia allestita a Pratolino nel 1580 dove Valerio Cioli realizzò anche nello stesso periodo e nel medesimo materiale il Contadino che miete con Salamandra oltre alla Fauna che munge una capretta in marmo (Montigiani 2001, p. 30). Tra la fine del Cinquecento e l’inizio di quello successivo l’artista licenziò inoltre per Boboli, in collaborazione col nipote Giovan Simone Cioli, le fontane marmoree della Lavacapo, del Contadino che vanga e della Vendemmia (Medri 2003a, pp. 110-115; Eadem 2003b, p. 186). Anche Giambologna eseguì villani da giardino per Pratolino declinando questa originale produzione di genere anche nel piccolo formato dei bronzetti (ivi, p. 185). 100 Berti 1967; Allegri - Cecchi 1980, pp. 323-350; Conticelli 2006; Barboni - Kubotera 2007. 101 Vasari 1568, ed. 1878-1885, VII, 1881, p. 298. Desta interesse una lettera di Vincenzo Borghini a Cosimo de’ Medici della metà degli anni Sessanta, nella quale l’erudito rubrica all’interno del panorama artistico cittadino contemporaneo, accanto ai creati di Giorgio Vasari, altre personalità emergenti e diversamente connotate dal maestro aretino, tra le quali spiccano quelle di Cavalori e Macchietti, per i quali l’etichetta di vasariani cominciava a diventare stretta. Accanto a questi pittori egli nomina anche Santi di Tito e Maso da San Friano (Bottari - Ticozzi 1822-1825, I, 1822, pp. 195-196). Su Cavalori e Macchietti cfr. Feinberg 1993; Privitera 1996; Pizzorusso 1998; Privitera 2006; Nesi 2006; Idem 2009a; Idem 2011b; Privitera 2011. 102 Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, p. 37. Sullo stretto rapporto d’amicizia tra Cavalori e Macchietti e la loro reiterata collaborazione cfr. Privitera 2006 e Nesi 2006, pp. 134-135. 103 Filippo Baldinucci, da specialista di disegno quale era, non poteva mancare di registrare la rilevanza di una bottega tanto particolare per l’esercizio di quello studio dal vero così qualificante per l’elaborazione dell’arte moderna cittadina: «Questo artefice [Macchietti] tenne sue stanze nel luogo appunto ove oggi è il palazzo de’ Guadagni dietro alla Nunziata dalla parte di mezzogiorno, le quali stanze serviron poi, come altrove dicemmo, a Gregorio Pagani e al Cigoli, e dopo costoro a Matteo Rosselli, a Giovanni da S. Giovanni, e per qualche poco di tempo al Volterrano» (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, IV, 1846). 104 All'interno dello Studiolo i due scultori sono autori rispettivamente dei bronzetti di Giunone e Plutone. 105 Schmidt 1999, p. 67. Non può passare inosservato l’arruolamento di Bandini nel 1582 tra le fila dei maestri rovereschi, in un momento in cui i due artisti urbinati di punta erano Federico Barocci e Federico Zuccari, veri e propri campioni di quell’arte nuova e naturale che cominciava a dilagare presso molte corti italiane. Francesco Maria II della Rovere ordinava all’artista entro il 1585 anche la splendida Pietà (Urbino, Duomo, grotte) in cui l’artista risalendo ai repertori classici tentava il registro degli affetti codificandolo nell’algido volto dolente della Vergine e nella drammaticità del suo gesto. Merita attenzione il busto ritratto di Filippo Brunelleschi (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo), improntato a un pregnante naturalismo e, al tempo stesso, segnato da una decantata purezza formale; esso è stato giustamente riferito a Giovanni Bandini da Middeldorf e sarebbe opportuno conoscerne le circostanze della commissione (L. Becherucci, in Il museo dell’Opera [s.a.], I, pp. 211-212). 106 Nella Firenze di secondo Cinquecento i motivi morali e teologici dell’insegnamento savonaroliano appaiono ancora molto vitali seppur privati degli originali ideali politici. Proliferano così forti atteggiamenti spirituali di acceso ascetismo che trovano le loro emergenze in suor Caterina de’ Ricci, suor Maria Maddalena de’ Pazzi e Ippolito Galantini (D’Addario 1972, pp. 42 e ss.; Herzig 2008). 107 Nesi 2008a. 108 Hall 1979 e in generale il recente volume Hall - Cooper 2013; per Giambologna cfr. Weitzel Gibbons 1995; Cole 2011, pp. 193 e ss.. Sentore di un cambiamento è anche quello che si registra, a metà anni Sessanta, nell’opera di Vincenzo Danti e nelle sue redazioni del sepolcro di Carlo de’ Medici nella cattedrale di Prato, e della Vergine col Bambino della cappella Bandini Baroncelli di Santa Croce, immaginata da Charles Davis quale severo arredo della tomba di Benedetto Varchi per Santa Maria degli Angeli (Davis 2008). Progetto quest’ultimo coordinato dal camaldolese Silvano Razzi, «ministro del buon ricordo del Varchi» (Gargani citato in Ivi, p. 169). Razzi, che aveva un fratello 54 Alessandra Giannotti, Lo stile puro dei iorentini, da Andrea del Sarto a Santi di Tito nel convento domenicano di Santa Maria Novella, era amicissimo di Vincenzo Borghini che proprio in quei giorni segnalava a Cosimo de’ Medici l’eccellenza dei nuovi pittori alternativi ai creati vasariani (per il fratello domenicano cfr. Ivi, p. 169; circa Cavalori e Macchietti si veda supra, nota 101; per Borghini confronta Carrara 1996; Eadem 1998; Eadem 1999; Eadem 2009). 109 Santi realizza per lo studiolo il Passaggio del mar Rosso, le Sorelle di Fetonte, la Scoperta della porpora. 110 La citazione è tratta da Varchi 1570, ed. 1730, p. 161. 111 Sull’artista si segnalano in particolare i contributi di Arnolds 1934; Spalding 1982; Bittarello 1976-1977; Collareta 1977; Natali 1981; Disegni di Santi 1985; Natali 1996a; Bailey 2002; Bastogi 2002b; Brooks 2002; Kai 2002; Carofano 2004; Kai 2005; Papi 2009; Falciani 2013a, p. 210; Ciabattini 2014. 112 Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 124. 113 Gilio 1564, p. 86. 114 Sulla sua contiguità con il sentimento religioso filodomenicano elaborato in seno alla congregazione di san Tommaso d’Aquino fondata da Santi Cini, e sui contributi artistici, pittorici e architettonici, prodotti dal pittore per la chiesa della compagnia cfr. Bittarello 1976, 1977 e Kai 2002. Inoltre il Titi intrattenne rapporti privilegiati con la famiglia Vecchietti, in particolare con Bernardo, l’interlocutore che nel Riposo di Raffaello Borghini più frequentemente rappresenta le posizioni etico-dottrinali della controriforma fiorentina (cfr. Natali 1981; Idem 1996a; Carrara 2006). 115 Le parole sono riferite dal Baldinucci a Santi di Tito (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, II, 1846, p. 551). L’uso maniacale che Titi faceva del disegno è codificato in maniera fresca ed arguta dalle parole del Baldinucci che rammenta come l’artista avesse ottenuto da Tiziano il nomignolo di «Santi di Tiritititotò Matitatoio»; il medesimo biografo ricorda come il Titi, armato di matita rossa, quando «non facevasi tornata a disegnare il naturale alla pubblica accademia» disegnasse «figliuoli e figliuole, la fante, le sedie, gli sgabelli e fino la gatta; e questo stesso voleva che facessero i suoi discepoli, dicendo loro, non esservi mai tempo o luogo in cui non si trovi materia da disegnare» (Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, II, 1846, p. 551). 116 Nel 1567 Francesco Bocchi scriveva il Discorso sopra l’eccellenza dell’opere di Andrea del Sarto pittore fiorentino, un testo dedicato a Francesco Vieri conservato manoscritto presso la biblioteca degli Uffizi (ms. 9, inserto 1), pubblicato per la prima volta da Williams nel 1989. Già in quest’opera si configurava, alla luce del nuovo mito del naturalismo, una gerarchia estetica fiorentina alternativa a quella michelangiolesca, sulla quale svettava proprio la figura del “pittore senza errori”. Tale eccellenza sartesca sarebbe stata definitivamente codificata dal medesimo Bocchi nel 1591 con le Bellezze della città di Fiorenza In tale scritto Bocchi istituisce il paragone tra i geni «senza errore» Petrarca e Andrea del Sarto, entrambi colmi di «graziosa perfezzione» (Bocchi 1591, p. 236). Sarà utile riscontrare la perfetta sintonia tra i nuovi codici figurativi e le contemporanee categorie linguistiche confluite nella nascita dell’Accademia della Crusca. Per Bocchi cfr. Williams 1989; Idem 1998; Spagnolo 1998; Schröder 2003; Wellen 2004; Carrara 2013. Sulla fortuna di Andrea del Sarto cfr. Spagnolo 1998; Wellen 2004; Spagnolo 2011. Anche Anton Francesco Doni certifica l’assoluta preminenza cittadina del Sarto sin dal 1552 quando crea l’equivalenza tra la Madonna del sacco dell’artista e il David di Michelangelo (Doni 1552, p. 57). La Madonna del sacco per il Bocchi è perfino superiore alla natura (Bocchi 1591, p. 133). Del resto lo stesso Doni, solo dieci anni più tardi, non manca di registrare come con gli abbattimenti extra moenia del 1529 i fiorentini avessero deciso di risparmiare il tabernacolo sartesco di Porta Pinti (Doni 1562, p. 49). Lo stesso Vasari rammenta il caso analogo occorso alle pitture del Cenacolo di San Salvi (Vasari 1568, ed. 1878-1885, V, 1880, p. 47). Per il revival sartesco di fine Cinquecento è determinante anche Raffaello Borghini (1584, pp. 415-428). 117 Negli anni Settanta anche i Medici dichiarano la loro predilezione per Andrea del Sarto e allestiscono in tribuna ben sei opere dell’artista (C. Bernardini, in Palazzo Vecchio 1980, p. 256). 118 In merito alle copie eseguite da Jacopo da Empoli e dal suo maestro Maso da San Friano cfr. Marabottini 1988; Testaferrata 2004, p. 20; Forlani Tempesti 2004, p. 35; Natali 2004, pp. 43-44, 49-50; Caterina Proto Pisani 2004a, p. 92. Per il riferimento al leggio cfr. Baldinucci 1681-1728, ed. 1845-1847, III, 1846, p. 15 e Natali 2004. Nel suo passo dedicato al leggio di Andrea del Sarto Baldinucci lascia chiaramente intendere che la mitografia sull’artista era giunta a tal punto che l’Empoli mostrava la “reliquia” con qualche suo lucro (ibidem). Dell’Empoli, grande estimatore del Sarto e della pittura fiorentina di primo Cinquecento, scandagliata nell’esercizio delle copie e nello studio dei maestri, combinato con una attenta indagine del naturale, si ricorda in particolare il solenne Sant’Ivo protettore delle vedove e degli orfani (fig. 28) della Palatina: una tavola che restituisce nel suo calibrato impianto formale, una spazialità riposata di austera semplicità, entro la quale campeggia una umanità variata per tipi e restituita con precisione ghirlandaiesca (S. Casciu, in Jacopo da Empoli 2004, pp. 146-149). Chiudono la parabola di una tradizione figurativa nostrana che guarda al passato per il proprio futuro i Santi Pietro e Paolo (fig. 29) in gesso di San Michele a Badia a Passignano, realizzati entro il 1602 da Andrea di Michelangelo Ferrucci, allievo di Valerio Cioli, e già attribuiti da Middeldorf a Jacopo Sansovino (Middeldorf 1936). Una autografia del Ferrucci, se modifica i termini attributivi della questione, non cambia tuttavia la dipendenza delle due opere dallo stile sansovinesco, come rivela la serrata analogia del San Paolo con il modellino, d’omonimo soggetto, accreditato al Sansovino e conservato al Jacquemart-André (fig. 30) (Bellesi 1989, p. 51; Boucher 1991, II, pp. 354-355). 55