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G. Itzcovich, Sicurezza, in Corrado Caruso e Chiara Valentini, a cura di, Grammatica del costituzionalismo, Bologna, il Mulino, 2021, pp. 157-172 Sicurezza 1. Introduzione Come e forse più di altri concetti giuridici e politici fondamentali, la sicurezza è da tempo al centro di una molteplicità di discorsi che la declinano e qualificano diversamente, al punto da creare una situazione di incertezza, che questo contributo non può certo risolvere, circa la possibilità o utilità di un concetto unitario di sicurezza in rapporto all’ordinamento costituzionale. Per introdurre ai modi in cui essa è intesa e funziona nel discorso del costituzionalismo sono quindi necessarie alcune definizioni preliminari, senza le quali sarebbe impossibile sapere di che cosa si sta parlando. In particolare, distingueremo qui tra sicurezza pubblica (o civile), sicurezza personale e sicurezza dello Stato, e distingueremo inoltre tra sicurezza in senso oggettivo e sicurezza in senso soggettivo. Non ci occuperemo, se non in modo incidentale, della sicurezza sociale, che coincide con la prestazione caratteristica dello Stato sociale e risulta dall’attuazione dei diritti economici e sociali; né ci occuperemo della sicurezza giuridica, o certezza del diritto, che consiste nella prevedibilità delle decisioni dei giudici e delle altre autorità incaricate di applicare il diritto. Anzitutto la sicurezza può interessare come sicurezza pubblica, che sarebbe forse meglio chiamare sicurezza collettiva o civile (Castel 2003) per non confonderla con la sicurezza dello Stato come soggetto, istituzione o apparato di governo separato dal popolo, di cui dirò più avanti. Gran parte delle osservazioni che seguono si concentreranno su questo concetto di sicurezza, definito dalla Corte costituzionale italiana in una delle sue prime sentenze come la situazione che si dà quando “il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale” (sentenza n. 2/1956). A ben vedere, si tratta dello stesso concetto che ritroviamo in Hobbes, a proposito della “sicurezza del popolo” (safety of the people) procurata dallo Stato, che permette a ognuno di godere in pace dei propri beni e diritti legalmente acquisiti, assicurando “non una mera sopravvivenza (bare preservation), ma anche tutte le altre soddisfazioni della vita che ognuno possa procacciarsi con lecita industria senza pericolo o danno per lo Stato” (Leviathan, 1651, cap. XXX, 1). Intesa in questo modo, la sicurezza pubblica o civile ha una dimensione oggettiva, che si riferisce alla probabilità che certi beni fondamentali, variamente designati (le “soddisfazioni della vita” di Hobbes, la “personalità fisica e morale” della Corte costituzionale), subiscano un danno: tanto maggiore è tale probabilità, tanto minore è la sicurezza. La sicurezza pubblica ha poi una dimensione soggettiva, che riguarda la percezione di tale probabilità di subire un danno: in senso soggettivo, la sicurezza è lo stato d’animo di tranquillità, pace, assenza di timore e preoccupazioni di chi sa, o crede, di non essere esposto a gravi pericoli (Pintore 2007, Dogliani 2010, Giupponi 2019). È importante cogliere la differenza tra sicurezza oggettiva o reale, e sicurezza soggettiva o percepita. La paura che abbiamo di un evento dannoso non dipende solo dalla probabilità del suo verificarsi e dalla gravità del danno, ma anche dalla paura che gli altri attorno a noi ne hanno: se l’evento è clamoroso non può essere ignorato facilmente (Sunstein 2005, pp. 125 ss.). Ciò spiega perché la minaccia terroristica sia oggi davvero minacciosa anche in paesi, come sono in genere quelli dell’Occidente, ai quali essa infligge danni relativamente modesti – la quasi totalità delle vittime è in Medio-Oriente, Africa e nel Sud-est asiatico. E spiega perché reati di grave allarme sociale possano suscitare una immediata risposta politica in termini di “politiche di sicurezza” che si rivelano essere soprattutto “politiche di rassicurazione”, nella misura in cui siano dirette, più che a migliore la sicurezza oggettiva, a soddisfare una domanda di sicurezza della cittadinanza in senso solo soggettivo. Tra sicurezza oggettiva e soggettiva non si dà corrispondenza perfetta: l’opinione pubblica può salutare con entusiasmo la guerra, accoglierla con indifferenza, disinteressarsi alle statistiche sugli incidenti stradali o alle conseguenze del riscaldamento globale, e tuttavia reagire con forza a eventi gravi ma rari, come certi fatti di cronaca nera e gli effetti collaterali di un vaccino. La paura è, almeno in parte, socialmente e culturalmente costruita, prodotta dalla comunicazione e dalle circostanze peculiari della società che l’alimenta; perciò si presta a essere studiata anche nella prospettiva della storiografia (Huizinga 1919, Delumeau 1978), della sociologia (Castel 2003, Bauman 1999 e 2006) e della filosofia politica (Bodei 1991, Corey 2004, Lanzillo 2011 e 2018). Per quanto la distinzione tra sicurezza oggettiva e soggettiva sia indispensabile, pure le esigenze espresse dalla seconda non possono essere liquidate come frutto di un mero errore di valutazione, con un’alzata di spalle: per vivere una vita libera e felice abbiamo bisogno di un ambiente relativamente libero non solo da rischi incombenti ma anche da timori paralizzanti (Pintore 2018, p. 101). Essere sicuri significa anche essere liberi dalla paura (Waldron 2010, p. 123), e del resto la paura di un danno può essere psicologicamente e socialmente distruttiva quanto e più del danno. Il rapporto tra le due dimensioni della sicurezza è così stretto che a volte è possibile, come già Montesquieu, identificare la sicurezza pubblica con la sicurezza soggettiva, cioè con la “opinione che si ha della sicurezza” (De l’esprit des lois, 1748, lib. XI, cap. 6 e lib. XII, capp. 1-2), e definirla come “stato psicologico della collettività che si senta sicura nella persona e nei beni” (Pace 2014, p. 991). E tuttavia, per quanto la sicurezza percepita sia importante, e forse in una democrazia sia addirittura l’unica che importa, quantomeno nella prospettiva di un decisore politico in cerca di consenso, alcune domande, alle quali è qui possibile solo accennare, restano ineludibili: se il diritto penale sia una risposta efficace ed appropriata alla mancanza di fiducia e coesione sociale, che è alla base della percezione di insicurezza (Pitch 2001, Greco 2009); se sia costituzionalmente accettabile che la coercizione dello Stato venga utilizzata per soddisfare una esigenza di sicurezza in senso solo soggettivo, cioè una domanda sociale di rassicurazione non sostenuta da evidenze empiriche (Dogliani 2010). La sicurezza pubblica deve essere distinta dalla sicurezza personale o individuale, che può essere definita come la situazione in cui sono rispettati, protetti e attuati i diritti individuali più strettamente collegati alla sicurezza pubblica: il diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica e psichica, alla dignità e alla libertà personale, alla proprietà, eventualmente anche il “diritto alla sicurezza” di cui dirò più avanti. Ovviamente c’è un rapporto stretto tra sicurezza personale e sicurezza pubblica, tra effettività dei diritti individuali e pacifica convivenza entro un ordine sociale privo di pericoli e tranquillo. Ma la sicurezza personale non è solo un riflesso della sicurezza pubblica, una sua frazione statistica, né la sicurezza pubblica è solo un aggregato di sicurezze individuali. Da una parte, infatti, il miglioramento della sicurezza pubblica, reale o percepita, può essere perseguito attraverso misure che, limitando i diritti individuali, hanno un effetto negativo sulla sicurezza personale di tutti i cittadini o di alcune categorie di soggetti: la sicurezza pubblica ha una dimensione distributiva, tale per cui la sicurezza di alcuni può essere l’insicurezza di altri (Waldron 2010, Barberis 2017). Dall’altra parte, la sicurezza pubblica dipende da “un ambiente naturale e sociale in cui i singoli possano svolgere la propria vita senza l’assillo di rischi e timori incombenti”, ed è perciò un bene collettivo la cui realizzazione risulta anche, ma non solo, dalla effettività dei diritti individuali (Pintore 2007, p. 129, e 2018, p. 107). Una epidemia mette a repentaglio la salute delle persone, che è un aspetto della sicurezza pubblica, ma di per sé non viola alcun diritto; né i diritti individuali sono necessariamente compromessi da comportamenti che possono creare un pericolo per la sicurezza pubblica, come l’istigazione a disobbedire alle leggi, l’obiezione di coscienza, la diffusione di notizie false, ecc. Perciò, come vedremo più avanti (§ 3.), la sicurezza pubblica non è riducibile alla “sicurezza dei diritti”, per quanto questa sia una sua dimensione importante. Infine, la sicurezza pubblica deve essere distinta dalla sicurezza dello Stato, intesa vuoi come sicurezza soggettiva del sovrano, vuoi come sicurezza dell’istituzione “Stato”, cioè dell’apparato di governo separato dalla società. Se la sicurezza pubblica è, come abbiamo visto, la pace e tranquillità dei cittadini, la sicurezza dello Stato è la sicurezza di un individuo o gruppo di individui dotati del potere di comandare, oppure è la sicurezza dell’organizzazione politica della comunità civile. Detto altrimenti: se la sicurezza pubblica è sicurezza dei governati, la sicurezza dello Stato è sicurezza dei governanti, oppure sicurezza del governo. Nel primo caso – sicurezza dei governanti – troveremo, ad esempio, la salus Augusti, la salvezza dell’Imperatore, la sicurezza del principe capace di “vincere e mantenere lo stato” in Machiavelli (Il principe, 1532, cap. XVIII). Nel secondo caso – sicurezza del governo – troveremo temi come la salvezza della città, della patria, Repubblica, Nazione o simili, cioè la sicurezza di un ordine civile distinto e superiore rispetto agli individui che lo compongono. La distinzione è utile perché sicurezza pubblica e sicurezza dello Stato, così definita, non coincidono necessariamente: l’integrità e il potere dello Stato come apparato istituzionale può essere o non essere causa di una maggiore sicurezza per i cittadini (Waldron 2010, p. 115). In nome del supremo interesse dello Stato alla difesa e al controllo del territorio si possono limitare i diritti individuali e si può mettere in pericolo la stessa sicurezza pubblica, ad esempio giustificando il ricorso alla guerra. È questa la ragione per cui negli studi sulle relazioni internazionali e nei documenti delle Nazioni Unite a partire dagli ’90 del Novecento è diventato frequente il richiamo al concetto di human security (Zwierlein 2012, pp. 375 ss., Newman 2020), che intende superare un approccio alla sicurezza incentrato sulla sicurezza “degli Stati-nazione anziché della gente” (UN Development Programme 1994, p. 22): tra sicurezza umana e sicurezza nazionale non c’è necessariamente convergenza. Si tratta allora di muovere, nella prospettiva del movimento per la human security, verso una concezione della sicurezza come “diritto dei popoli di vivere in libertà e dignità, liberi dalla povertà e dalla disperazione”, e verso una sicurezza intesa come “libertà dalla paura e libertà dal bisogno” (UN General Assembly 2005, § 143): detto altrimenti, si tratta di muovere verso una concezione della sicurezza pubblica applicata alle relazioni internazionali. Da questa rapida rassegna di significati o dimensioni della sicurezza nel discorso giuridico e politico, credo che emerga che le questioni più importanti riguardano il contenuto della sicurezza pubblica, i suoi titolari, i suoi garanti; il rapporto tra sicurezza pubblica e Stato e il rapporto tra sicurezza pubblica e diritti. Senza pretesa di rispondere in modo esauriente, ma per chiarire alcuni dei termini fondamentali in cui queste questioni si sono poste, nelle prossime pagine guarderemo alla storia del concetto di sicurezza pubblica (§ 2) e alla relazione tra sicurezza pubblica e costituzionalismo (§ 3), per trarre qualche breve conclusione sulle sfide attuali della sicurezza (§ 4). 2. Storia del concetto Per quanto oggi possa sembrarci sorprendente, non è sempre stato ovvio che la sicurezza pubblica fosse un valore politico, un principio cioè di per sé in grado di giustificare e orientare l’esercizio dei poteri di governo. Certamente considerazioni relative all’opportunità di mantenere la pace, l’ordine interno, l’incolumità dei membri del gruppo, la sicurezza dei loro possessi, ecc., hanno sempre avuto importanza nell’adozione delle decisioni collettive. Ma sino all’età moderna e alle teorie del diritto naturale del Seicento, tale importanza non era giunta al punto di far intendere la sicurezza pubblica come finalità essenziale dell’ordine civile e giustificazione ultima dell’obbligo di obbedire al diritto. La storia del concetto di sicurezza (Conze 1984, Schrimm-Heins 1991, Zwierlein 2012, Hamilton 2013, pp. 51 ss.) sembra invece confermare l’intuizione di Montesquieu: “Per quanto tutti gli Stati abbiano in generale lo stesso fine, che è quello di conservarsi, ogni Stato ne ha tuttavia uno che gli è peculiare” (De l’esprit des lois, 1748, lib. XI, cap. 5). Gli ordinamenti civili possono perseguire le finalità più disparate e cercare una legittimazione attraverso il riferimento a valori diversi dalla sicurezza pubblica o persino incompatibili con essa. Una fratellanza di guerrieri, una banda di saccheggiatori o l’orda di un impero nomade possono non aver alcun interesse alla pacificazione; né abbiamo ragione di pensare che la sicurezza fosse la preoccupazione centrale di quegli antichi abitanti dell’Isola di Pasqua che, a quanto pare, per erigere i loro enormi moai di pietra disboscarono l’isola rendendola inabitabile. In generale possiamo aspettarci che la sicurezza pubblica occupi una posizione marginale o sia del tutto assente come valore politico entro ogni forma di potere teocratico, in cui conta la salvezza spirituale in luogo di quella mondana, ed entro forme di potere patriarcale o patrimoniale, in cui conta la sicurezza personale del principe più di quella dei consociati. Con le parole di Weber (1922, pp. 53 s.): “Non c’è nessuno scopo che gruppi politici non si siano talvolta proposti, dallo sforzo di provvedere il sostentamento alla protezione dell’arte; e non c'è nessuno che tutti abbiano perseguito, dalla garanzia della sicurezza personale alla determinazione del diritto”. Nel mondo greco antico, in particolare, la sicurezza come valore politico occupa una posizione marginale, se non del tutto assente. La ricerca della sicurezza non solo è incompatibile con l’etica arcaica di una aristocrazia guerriera, ma è estranea alle principali correnti della paideia greca almeno sino all’età ellenistica. Isocrate, ad esempio, consiglia al giovane Demonico di essere il primo a mantenere uno stato di sicurezza (asphaleia) per sé e la sua città, ma aggiunge subito: “se costretto a mettere in pericolo la vita, preferisci una morte gloriosa a una vita di vergogna. Meglio evitare un rimprovero che un pericolo” (Orazioni I, 43). Aristotele pone il fondamento della comunità politica nelle belle azioni – una vita perfetta e indipendente, vissuta in modo virtuoso e felice – anziché nella “mera sopravvivenza” e nell’aiuto reciproco che i vicini possono prestarsi (Politica 1281a). Per Polibio, una sicurezza e una prosperità eccessive sono addirittura la premessa della degenerazione dello Stato: la mollezza dei costumi e la rivalità per il potere conducono all’oclocrazia, che è la corruzione del governo democratico (Storie VI, 57) La sicurezza inizia ad avere un ruolo importante nel pensiero greco con Epicuro e la sua scuola (Barigazzi 1983, Schofield 2005). “Il giusto è tranquillissimo”, insegnava Epicuro (Massime capitali, 17), e la stabilità degli ordinamenti sociali – la “sicurezza tra gli uomini” – non poteva che giovare alla realizzazione della felicità come tranquillità (ivi, 14). A quanto riferisce Plutarco, l’allievo di Epicuro Colote affermava che, se venissero abolite le leggi e le consuetudini della città, “vivremmo la vita delle bestie e qualsiasi persona non potrebbe che divorare il primo in cui s’imbatta” – una sorta di anticipazione dell’homo homini lupus hobbesiano; solo le magistrature e le autorità civili, insegnava Colote, mettono la vita “in una situazione di grande sicurezza e serenità” (Contro Colote, 30, 1124d). Nondimeno, la connotazione prevalente dell’ideale epicureo della sicurezza era morale, anziché politica: ciò che interessava il saggio epicureo non era la sicurezza dell’ordine civile, ma la sicurezza interiore, l’assenza di preoccupazioni e fiducia in se stessi che si possono ottenere liberandosi dalla paura della morte e degli dei. Perciò Epicuro insegna che “a niente giovava il procacciarsi sicurezza dagli uomini finché rimanevano i sospetti e le paure per le cose del cielo e dell’Ade e di ciò che avviene nell’universo” (Massime capitali, 13). Per quanto riguarda il Cristianesimo in età antica, certamente la sicurezza non poteva essere un valore fondamentale nell’ambito di questa concezione religiosa tutta orientata alla salvezza spirituale. Per riassumere l’atteggiamento cristiano delle origini nei confronti della sicurezza mondana non può esserci citazione più efficace di San Paolo: “E quando la gente dirà: ‘C'è pace e sicurezza!’, allora d'improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire” (1 Tess., 5, 2). Oppure si veda il rifiuto da parte di Sant’Agostino della “cattiva sicurezza”, che corrisponde a certi ideali filosofici pagani – la soddisfatta tranquillità dell’epicureo, l’imperturbabile distacco dello stoico – o più in generale si riferisce alla condizione di chi, sentendosi troppo a casa nel mondo, è indifferente alla parola di Dio: “Cristo ti toglie dalla cattiva sicurezza (malam securitatem tollit) e ti pone in un utile timore” (Lett. Giov. 1, 7), e non esiste “salda sicurezza (firma securitas) senza il Signore” (Conf. II, 6, 13). In questa prospettiva la sicurezza può avere un valore positivo solo nel significato di “certezza della fede”. Anche in epoca medievale, del resto, quando la sicurezza già viene individuata come obiettivo principale delle leggi umane – “fine della legge umana è … la tranquillità temporale dello Stato (temporalis tranquillitas civitatis)” – tale obiettivo comunque è subordinato alla felicità eterna, che è il fine della legge divina (San Tommaso, Somma teologica, I-II, 98, 1). La sicurezza diventa un valore importante solo nella cultura politica dell’età romana imperiale. È interessante notare che la parola securitas, che forse fu coniata da Cicerone (Hamilton 2013, p. 51), in latino comprende due ambiti di significato, quello della mancanza di preoccupazioni, sicurezza soggettiva, e quello della mancanza di pericoli, sicurezza oggettiva, e che sia nel primo sia nel secondo ambito può presentare un’accezione positiva oppure negativa. Così la sicurezza soggettiva può essere apprezzata, anche in connessione all’ideale epicureo della vita quieta e ritirata, come tranquillità, serenità, spensieratezza, assenza di timori, oppure può essere respinta e fatta oggetto di critica come disattenzione, indifferenza, trascuratezza e negligenza (Schrimm-Heins 1991, p. 131). Afferma Cicerone, ad esempio, che “noi intendiamo per uomo felice chi è sicuro, inespugnabile, protetto e difeso, cosicché non sia turbato, non da un piccolo timore, ma da nessuno affatto … intendo per tranquillità (securitatem … appello) l’assenza di afflizione, in cui è riposta la felicità della vita” (Tusc., V, 41-42); e analogamente Seneca: “Che cos’è la felicità? Sicurezza e tranquillità duratura (securitas et perpetua tranquillitas)” (Lettere a Lucilio, 92, 2). Per contro, quali esempi di un uso negativo della securitas in senso soggettivo possiamo ricordare un passo di Tacito a proposito di Roma devastata dalla guerra civile tra Vitelliani e Flaviani, in cui “regnava un mostruoso cinismo (inhumana securitas) e i piaceri neppure per un attimo si interruppero” (Storie, III, 83), e un passo di Quintiliano sui doveri dell’educatore, che nel correggere i compiti dei suoi allievi non deve esagerare “né in un senso né nell’altro, perché un giudizio troppo severo suscita il tedio dello studio, un giudizio troppo largo provoca sufficienza e trascuratezza (securitatem parit)” (Inst. or. II 2.6). Quanto alla valutazione negativa della securitas intesa in senso oggettivo, possiamo ricordare il tema del timore del nemico, il metus hostilis: Sallustio scrive che la paura del nemico “mantiene la città entro i limiti dell’onesto” e che “la sfrenatezza e l’insolenza” sono “conseguenze quasi inevitabili della prosperità”; pertanto, dopo la distruzione di Cartagine, “quella tranquillità che [i romani] tanto avevano sperato quando le cose andavano male, una volta ottenuta, risultò un male ancor più grave e più doloroso” (La guerra di Giugurta, 41, 2). Il tema del metus hostilis, che forse Sallustio riprende da quella teoria di Polibio della decadenza degli Stati dovuta alla troppa sicurezza, cui ho sopra accennato, ebbe una certa fortuna nella storiografia e letteratura romane, e lo ritroviamo tra gli altri in Giovenale, a proposito dei “mali di una lunga pace” (Satira 6, 292), e nello stesso Agostino, che riguardo alla distruzione di Cartagine afferma che “da allora Roma fu oppressa dal peso dei tanti mali che si addensarono, in una situazione di prosperità e sicurezza [prosperitate ac securitate], per la sfrenata corruzione morale” (Città di Dio, III, 21). Tutto ciò importa perché dimostra che l’uso propagandistico di securitas nel discorso politico dell’età imperiale è una discontinuità che merita di essere sottolineata: quando le istituzioni repubblicane entrarono nella loro crisi irreversibile, securitas (a differenza di salus) era un neologismo, e non era detto che si trattasse di cosa buona. Per contro, a partire dal I secolo d.C. la securitas venne spesso richiamata, assieme ai concetti affini di pax, salus publica e concordia, per celebrare l’atmosfera di pace e tranquillità emersa con la fine delle guerre civili e l’avvento del principato; securitas diventò allora un concetto centrale, uno slogan dell’età imperiale, che esprimeva la perpetua pacificazione del mondo e la tanto desiderata stabilità politica dell’epoca augustea (Instinsky 1952; Schrimm-Heins 1991, pp. 137 ss.). Così, ad esempio, nella monetazione imperiale, che fa uso propagandistico delle iscrizioni, la securitas è tra i benefici del governo imperiale più frequentemente incisi nelle legende delle monete assieme a salus, pax e felicitas (Manders 2012, pp. 205 ss.). La securitas viene richiamata dallo storico di regime Velleio Petercolo per celebrare l’adozione di Tiberio da parte di Augusto (Storia romana, II, 103: “perpetua sicurezza ed esistenza eterna dell’impero di Roma”) e, in congiunzione con la libertas, con cui viene a formare una endiadi indissolubile, viene richiamata da Plinio il Giovane nel suo Panegirico di Traiano (8 e 28) e da Seneca nel suo speculum principis per Nerone (Clem., I, 1, 8). Securitas diventa persino una dea, accanto alla più antica Salus, quando gli Arvali le sacrificano una vacca in occasione dell’adozione di Lucio Calpurnio Pisone da parte di Galba nel 69 d.C. (CIL VI 2051, 1, 30). Securitas era allora assenza di preoccupazioni e di responsabilità, atteggiamento di rilassata fiducia: al cuore della sicurezza romana, oltre a una ben comprensibile preoccupazione del principe per la propria incolumità personale, la securitas Augusti (a partire dalla congiura di Gaio Calpurnio Pisone contro Nerone nel 65 d.C.), c’era la securitas populi romani, che era affidamento alle cure del principe, fiducia nell’efficacia e bontà della sua azione. Tale fiducia e affidamento nel principe risultavano non solo dalla pretesa o reale solidità del governo imperiale, garante della concordia, della virtù, della pietas religiosa e della stabilità dei possessi, ma anche dalla chiusura degli spazi di partecipazione al potere politico per effetto della crisi delle istituzioni repubblicane. Si trattava quindi di una securitas in tensione con l’ideale repubblicano della libertas come non-dominio e attiva partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Il principato e la libertà sono due “elementi incompatibili (res olim dissociabiles)”, afferma Tacito, che pure elogia Traiano per aver fatto sì che la securitas publica non fosse più solo “speranza e desiderio”, ma “solida certezza di una preghiera soddisfatta” (Agr. 3). La sicurezza poteva essere nemica non solo della libertà dei romani, rispetto alla dimensione interna del principato e alla distruzione della costituzione repubblicana, ma a maggior ragione della libertà degli altri, rispetto alla dimensione esterna, alla pacificazione del mondo sotto il dominio di Roma: da Tacito ci giunge il principio di una critica all’ideale imperialistico della pax romana nelle famose parole del capo caledone Calgaco, “[romani] predatori del mondo intero … depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace (solitudinem faciunt, pacem appellant)” (Agr. 30). Ma si veda anche quanto recita una iscrizione severiana ritrovata vicino a Damasco: “questo forte fu costruito per la sicurezza pubblica (in securitatem publicam) e per il terrore degli arabi che vivono nelle tende” (CIL III, 128). Infine la sicurezza imperiale, oltre a poter essere in conflitto con la libertà, a ben vedere non è priva di pericoli per la stessa incolumità personale dei soggetti, al cuore della nozione moderna di sicurezza. Ciò può essere colto retrospettivamente, con ironia amara, nel trattato sulla clemenza indirizzato dal filosofo Seneca al suo ex allievo Nerone. Seneca qui elogia il principato, “la più felice forma di governo (laetissima forma rei pubblicae), a cui non manca niente per la completa libertà”, giacché in essa “il diritto è posto al di sopra di qualunque offesa” e a ognuno è garantita “una sicurezza profonda (securitas alta), che proviene da te [Nerone]” (Clem., I, 1, 8). Sappiamo che dieci anni dopo aver composto il trattato, Seneca fu costretto da Nerone a tagliarsi le vene di polsi, gambe e ginocchia, nonostante si fosse già ritirato a vita privata e avesse donato all’imperatore le proprie ricchezze (Tacito, Annali, XV, 63). È quindi possibile leggere retrospettivamente nelle fonti classiche una dialettica tra libertas e securitas che appartiene soprattutto, come vedremo, alla riflessione del costituzionalismo moderno. Per quanto la sicurezza pubblica sia un valore politico centrale dell’età imperiale, infatti, è solo in età moderna che essa assurge a chiave di volta del sistema, principio fondamentale di legittimazione dell’ordine giuridico e politico. Il medioevo è ricco di giuramenti e patti solenni con cui una parte in modo unilaterale, ad esempio l’imperatore carolingio prima dell’incoronazione, o entrambe reciprocamente si promettono pace e sicurezza, creando obblighi personali di protezione e fedeltà. Ma solo tra Cinque e Seicento, in un’epoca travagliata dalle guerre civili confessionali, in cui convergono il progetto assolutistico di accentramento del potere politico in capo al sovrano e i valori borghesi della nascente società di mercato, la paura si afferma come “il sentimento per eccellenza della modernità politica” (Greco 2009, p. 3) e all’ideale classico della felicità quale fine essenziale dell’ordine civile si sostituisce l’ideale moderno della sicurezza. Il punto è espresso chiaramente da Bodin all’inizio dei suoi Six livres de la République: con buona pace degli “antichi”, Aristotele e Cicerone, che chiamavano Stato una società di uomini riuniti per vivere bene e felicemente, “questa parola, ‘felicemente’ (heureusement), così come la intendevano loro, non è affatto necessaria” (1576, I, 1). In età moderna, all’ideale della vita buona e virtuosa del cittadino pronto a morire per la patria si sostituisce la vita relativamente sicura, egoista e privata di soggetti autonomi entro gli spazi di libertà riconosciuti dallo Stato. Da una parte, la promessa politica della sicurezza dei corpi e dei beni, che è la posta in gioco del contratto sociale, si separa nettamente dalla promessa religiosa della salvezza dell’anima. Dall’altra, lo scambio tra sicurezza e fedeltà, tra protezione e obbedienza, perde ogni entusiasmo cavalleresco e cessa di essere oggetto di un patto di volta in volta stipulato (e violato) dalle parti, espressione di un consenso attuale, per diventare, in Hobbes, Locke e nel contrattualismo moderno, la fonte di un obbligo impersonale, necessario, fondato su un consenso presunto o tacito, a partire da una ipotesi di ragione. Siamo arrivati alle soglie della riflessione del costituzionalismo moderno, cui è dedicato il prossimo paragrafo, e dei diversi modi in cui è possibile declinare il rapporto tra sicurezza, Stato e diritti. Ciò che molti di questi modi hanno in comune, e che vale a distinguerli dalla riflessione sul diritto e sul potere degli antichi, è che l’ordine sociale è artificiale, non può più essere dato per scontato, ed è essenzialmente volto a garantire la sopravvivenza in vita dei cittadini e il tranquillo godimento dei loro possessi – “un obiettivo che un pensatore antico non avrebbe ritenuto degno di uomini liberi, quanto piuttosto un’aspirazione da schiavi” (Galli 2011 p. 19). Nell’età moderna le preoccupazioni legate alla sicurezza pubblica diventano centrali, e il significato antico di “sicurezza” come mancanza di preoccupazioni, noncuranza, si converte paradossalmente nel suo contrario – la sicurezza come cura e preoccupazione costante volta a salvaguardare la vita e la proprietà dei soggetti. 3. Sicurezza e costituzionalismo Il rapporto tra costituzionalismo e sicurezza è complesso. Da una parte, il costituzionalismo moderno nasce con una promessa di sicurezza oltre che di libertà: libertà e sicurezza sono una endiadi indissolubile in molti testi fondativi del pensiero costituzionalistico. Come vedremo subito, il costituzionalismo produce discorsi sulla sicurezza, conosce una teoria della sicurezza come sicurezza dei diritti, veicola domande sociali di sicurezza, cerca in vari modi di farsi carico delle esigenze della sicurezza pubblica e della sicurezza dello Stato; potrebbe perciò sembrare che esso vada per così dire a braccetto con la sicurezza, in un rapporto di compiuta solidarietà e armonia. D’altra parte, sappiamo che l’esigenza di garantire la sicurezza (pubblica o dello Stato) può anche essere in tensione con il progetto di limitazione del potere attraverso il diritto, se è vero che salus populi suprema lex esto e che necessitas legem non habet. La sicurezza può essere concepita come un presupposto pre-giuridico dell’applicazione del diritto in mancanza del quale tale applicazione è impossibile o dannosa. La sicurezza può essere richiamata come pressante esigenza politica, militare, economica o di altra natura, il cui soddisfacimento richiede di accantonare o modificare il diritto esistente. Il costituzionalismo è esposto alla contestazione da parte di prospettive a esso esterne, che in nome della sicurezza dello Stato o del popolo, in nome della ragion di Stato o della rivoluzione, possono respingere la sua richiesta di rispetto della legalità e protezione dei diritti individuali. Per esplorare questo rapporto complesso e contraddittorio tra costituzionalismo e sicurezza può essere utile distinguere tra i) il tema del diritto alla sicurezza, quindi una particolare domanda di rassicurazione che può essere rivolta al diritto costituzionale, di cui la dottrina costituzionalistica odierna discute spesso in senso critico; ii) un discorso sulla sicurezza caratteristico del costituzionalismo moderno, che concepisce la sicurezza come sicurezza dei diritti e su questa base affronta il problema della giustificazione e dei limiti del potere dello Stato; iii) la sicurezza come limite, previsto dal diritto, all’applicazione di norme giuridiche, cioè come limite interno all’applicazione del diritto; iv) la sicurezza come presupposto pre-giuridico dell’applicazione del diritto, oppure come urgente esigenza politica che giustifica la violazione o sospensione del diritto, cioè la sicurezza come limite esterno all’applicazione del diritto. i) Il diritto alla sicurezza A prima vista potrebbe sembrare che il diritto alla sicurezza (Lazarus 2007 e 2015) occupi una posizione importante nella storia del costituzionalismo. La sua fonte prima può forse essere rintracciata in Blackstone, che aveva individuato il diritto alla sicurezza, assieme alla liberà personale e alla proprietà, tra i “diritti assoluti di ogni inglese … fondati sulla natura e la ragione”, e lo aveva definito come “godimento legale e ininterrotto della vita, delle membra, del corpo, della salute e della reputazione” (Commentaries, 1765, I, 125); su questa base Blackstone aveva poi giustificato vari istituti del diritto inglese, tra cui il divieto di tortura, il diritto a un giusto processo e persino l’assistenza sociale ai poveri (ivi, 127). Anche Emer de Vattel, seppure nel contesto del suo celebre trattato di diritto internazionale, aveva teorizzato l’esistenza di un diritto naturale alla sicurezza, che si esprimeva nel diritto alla legittima difesa, nel diritto al risarcimento dei danni e nel diritto a punire per intimidire (Le droit des gens, 1758, II, 4, § 49). Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la sûreté fu proclamata, assieme a libertà, proprietà e resistenza all’oppressione, tra i “diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo”, che è fine di ogni associazione politica conservare (art. 2), e come diritto naturale e imprescrittibile rimase, assieme alla uguaglianza, alla libertà e alla proprietà, sia nella costituzione giacobina del 1793, sia nella costituzione del 1795. Più limitata è la portata del Quarto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che riconosce un “diritto dei cittadini ad essere sicuri nelle loro persone, case, carte ed effetti contro perquisizioni e sequestri non ragionevoli”. Il diritto alla sicurezza personale compare anche negli scritti di von Humboldt, nei documenti giuridici e politici del liberalismo tedesco, e a volte affiora persino nella pubblicistica del movimento socialista (Oestreich 1968). Dopo la seconda guerra mondiale il diritto alla sicurezza fu proclamato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che all’art. 3 recita: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Questa formulazione fu ripresa testualmente dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 9) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 5). Un diritto alla sicurezza è oggi presente anche in alcune costituzioni nazionali, come la Carta canadese dei diritti e delle libertà del 1982 (sez. 7), la Costituzione della Turchia del 1982 (art. 19) e la Costituzione del Sud Africa del 1996 (sez. 12). Infine, anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza” (art. 6). L’impressione che il diritto alla sicurezza occupi una posizione importante, tuttavia, si scontra con il fatto che esso ha ricevuto scarsa considerazione nella dottrina costituzionalistica e internazionalistica, e rari e modesti impieghi in giurisprudenza. Il problema fondamentale che tale diritto pone, infatti, è la determinazione del suo contenuto e dei suoi rapporti con altri diritti – alla vita, dignità, libertà, salute, ecc. – che ovunque nel mondo hanno un peso incomparabilmente più grande nella vita del diritto costituzionale. Se il diritto alla sicurezza significa qualcosa, allora deve offrire una protezione a qualche interesse che non sia già coperto da questi diritti (Lazarus 2007, p. 327). Di quale interesse potrà mai trattarsi? La risposta che a volte si dà a questa domanda è la seguente: il diritto alla sicurezza fonda “un dovere positivo a carico dello Stato di proteggere dal crimine violento” (Corte costituzionale del Sudafrica, Van Eeden v Minister of Safety and Security, 2003); il diritto alla sicurezza obbliga lo Stato “a proteggere gli individui da minacce prevedibili alla vita o all’integrità fisica che provengano da soggetti pubblici o privati” (UN Human Rights Committee 2014, § 9). Si noti che qui si sta parlando non già del fatto (ovvio) che sarebbe desiderabile che lo Stato proteggesse i cittadini dal crimine, ma di un diritto individuale, azionabile e giustiziabile, tale per cui sarebbe possibile chiedere al giudice di ordinare allo Stato di porre fine alla situazione di pericolo per la sicurezza, o chiedere di condannare lo Stato a risarcire il danno arrecato da un crimine che esso non è riuscito a impedire. Non stupisce che oggi molti giuristi italiani (Pace 2014, p. 989; Giupponi 2019, pp. 236 s.) e filosofi del diritto (Baratta 2001; Pintore 2018, p. 108) ritengano che un diritto del genere sarebbe giuridicamente inammissibile o comunque non desiderabile. È possibile che i giudici non siano l’istituzione più appropriata per decidere se, in che misura e con quali modalità la forza pubblica debba essere impiegata per prevenire la commissione di reati. Un diritto alla sicurezza come diritto positivo alla protezione statale potrebbe trasformarsi in una sorta di cavallo di Troia che, per così dire dall’interno della cittadella del costituzionalismo e del discorso sui diritti, svuoti o comunque limiti gravemente e in modo imprevedibile i tradizionali diritti di libertà, piegando la loro protezione alle esigenze “securitarie” di prevenzione e repressione dei reati. Inoltre, una volta ammessa l’esistenza di un diritto individuale alla sicurezza, la giurisprudenza dovrebbe svolgere una operazione di bilanciamento dei diritti di libertà e del diritto di sicurezza in modo casistico, rispondendo alle circostanze peculiari del fatto di volta in volta dedotto in giudizio, senza l’assunzione di una responsabilità politica. Ciò porrebbe problemi di efficacia, efficienza e legittimità dell’azione statale, nonché problemi di certezza del diritto: una formula generica come quella del “diritto alla sicurezza”, infatti, può consentire pressoché qualsiasi esito interpretativo, liberale o autoritario. Per rendersene conto basti pensare al fatto che sulla base di tale diritto Blackstone poté giustificare la punizione dell’aborto (Commentaries, 1765, I, 126) e la Suprema Corte canadese dichiararne incostituzionali le restrizioni (R v Morgentaler (No 2) 1988) ii) Sicurezza dei diritti La sicurezza occupa un posto centrale nel discorso del costituzionalismo non tanto come diritto alla sicurezza, di cui è incerta l’esistenza e indeterminato il contenuto, quanto come “sicurezza dei diritti”. Secondo questo topos del costituzionalismo, finalità principale della costituzione, o dello Stato in generale, è produrre quella sicurezza che si dà quando i diritti individuali sono rispettati e protetti. Lo stato costituzionale assicura il godimento dei diritti e, attraverso la separazione dei poteri, pone tale godimento al riparo dalle tentazioni liberticide di ogni governo dispotico, giacché, come recita la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione” (art. 16). Così, per limitarci a qualche esempio di questo tema importante, ricordo che Locke concepisce la sicurezza come il fine essenziale dello Stato, che è creato dagli uomini per la protezione di diritti – alla vita, libertà e proprietà – il cui godimento nello stato di natura è very unsafe, very ensecure (Second Treatise on Government, 1689, § 123); poiché l’autorità dello Stato si basa sulla sua capacità di assicurare tali diritti, essa viene meno, e la rivoluzione è legittima, quando i diritti sono minacciati e calpestati. Montesquieu, come già ricordato, identifica la “libertà politica” con “quella tranquillità di spirito che proviene dall’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza” (De l’esprit des lois, 1748, lib. XI, cap. 6). La protezione della libertà politica è incompatibile con la concentrazione di tutti i poteri in capo a un individuo o a un’assemblea, richiede la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e per il cittadino risulta soprattutto dalla configurazione garantista del diritto penale, il quale deve punire solo azioni esteriori, non meri pensieri, con pene proporzionate e certe, a seguito di un processo corretto, in cui sia data la possibilità di difesa. In questa prospettiva si può dire che il progetto stesso del costituzionalismo, la limitazione e legittimazione del potere politico attraverso la separazione dei poteri e la garanzia dei diritti, è volto a conseguire una sicurezza più perfetta rispetto a quella possibile nello Stato assoluto e nello Stato di polizia, in cui il potere del sovrano e dei suoi funzionari non incontra limiti istituzionali, ad esempio un giudice, ma solo limiti di ordine morale affidati alla loro coscienza e senso dell’onore. Lo Stato di diritto, che è la grande realizzazione del costituzionalismo ottocentesco, tutela i diritti individuali anche contro la pubblica amministrazione e, così facendo, attua una protezione giuridica più certa e completa di quella offerta da un sovrano legibus solutus. Lo stesso dicasi della separazione dei poteri, che nella presentazione di Montesquieu è volta a prevenire il dispotismo, il cui principio di governo è la paura, l’insicurezza – il terrore dei sudditi esposti alla volontà capricciosa del despota (ivi, lib. III, cap. 9). A ciò bisogna solo aggiungere che il contenuto della sicurezza intesa in questo modo, come sicurezza dei diritti, muta a seconda dei tempi e dei luoghi, com’è inevitabile, ma nel complesso mostra – o se non altro mostravano, sino a tempi recenti – una tendenza all’arricchimento e all’espansione rispetto alla classica concezione liberale che ritroviamo in Locke, “vita, libertà e patrimonio” (Second Treatise on Government, 1689, §§ 87, 123). A questo proposito, il passaggio più importante è ovviamente la costruzione dello Stato sociale. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento (la legislazione bismarckiana sull’assicurazione obbligatoria contro malattie e infortuni è del 1883-1884), durante le due guerre mondiali e dopo la crisi del ’29, si accrescono i poteri di intervento e le funzioni dello Stato nella sfera economico-sociale; le sue responsabilità nei confronti dei cittadini vengono ridefinite e ampliate, con l’inclusione dei diritti sociali (all’istruzione, sanità, pensione, previdenza e assistenza sociale, ecc.) accanto ai diritti civili del costituzionalismo liberale e ai diritti politici del costituzionalismo democratico. Diventa allora evidente che l’insicurezza ha molto a che vedere non solo con il rischio di essere aggrediti, derubati o incarcerati arbitrariamente, ma anche con il rischio, ad esempio, di ammalarsi e non ricevere cure. Il tema della protezione sociale dell’individuo dalle incertezze del mercato si integra perciò perfettamente nel discorso politico e giuridico sulla sicurezza. Con le parole del Presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, “l’obiettivo supremo … può essere riassunto in una parola: sicurezza. E questo significa non solo sicurezza fisica, che fornisce protezione dagli attacchi degli aggressori. Significa anche sicurezza economica, sicurezza sociale, sicurezza morale” (Roosevelt 1944). La sicurezza sociale diventa una componente ineliminabile di una concezione della sicurezza come attuazione dei diritti, che per Roosevelt appunto comprendono la “libertà dal bisogno”, cioè la sicurezza sociale, oltre alla libertà di espressione, alla libertà di religione e alla “libertà dalla paura”, intesa come riduzione degli armamenti (Roosevelt 1941). Sebbene si tratti del passaggio più importante, l’avvento dello Stato sociale non è l’unica trasformazione costituzionale a incidere sul lessico della sicurezza intesa come sicurezza dei diritti. Accade infatti che, nel linguaggio giuridico come nel linguaggio corrente, i nuovi diritti che si affermano nella società e ottengono riconoscimento giuridico qualifichino la sicurezza mediante attributi che ne chiariscono la dimensione: ecco quindi che abbiamo, oltre alla sicurezza sociale e alla sicurezza sul e sicurezza del lavoro, la sicurezza dei consumatori e dei risparmiatori, la sicurezza ambientale, la sicurezza alimentare e la biosicurezza, la sicurezza digitale o cybersicurezza, ecc. A ben vedere, tutti i nuovi diritti e interessi collettivi possono essere inclusi, via via che emergono, in una nozione allargata e onnicomprensiva di sicurezza come “contestuale e complessiva tutela di tutti i beni costituzionali” (Dogliani 2012, p. 6) oppure come “complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché … sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni” (art. 159, comma 2, d.lgs. n. 112 del 1998, a proposito delle funzioni amministrative escluse dalla competenza delle regioni e degli enti locali). Ciò a volte è espresso formulando una distinzione tra ordine pubblico “materiale”, che sarebbe la vecchia sicurezza dello Stato liberale, l’ordre dans la rue, e l’ordine pubblico “ideale”, inteso come garanzia dei principi e dei valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, “necessaria garanzia di una piena realizzazione della persona e della sua dignità” (Giupponi 2019, p. 241), per concludere che la Costituzione adotta quest’ultima nozione ampia, ideale di ordine pubblico o pubblica sicurezza. Queste tendenze alla qualificazione o all’ampliamento della sicurezza hanno una capacità descrittiva di importanti processi di trasformazione costituzionale. Nondimeno, bisogna essere consapevoli che l’uso in ambito giuridico di un concetto ampio di sicurezza come sicurezza di tutti i diritti garantiti dalla Costituzione rischia paradossalmente di avere effetti sistematici illiberali e accentratori: nel discorso giuridico, come vedremo subito, la sicurezza funziona anche come clausola di limitazione dei diritti e di trasferimento verso il centro delle competenze; a una nozione di sicurezza più ampia può corrispondere uno spazio più ristretto per i diritti individuali e per le autonomie locali (Pace 2014, pp. 991 s., Giupponi 2019, p. 241). Si possono perciò intendere le ragioni per le quali la giurisprudenza costituzionale ha finito con l’adottare una definizione di sicurezza pubblica come “funzione inerente alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico” (sentenza n. 77 del 1987), che comprende solo “quegli interessi essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile”, quali “l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento” (sentenza n. 290 del 2001). “Una siffatta precisazione”, spiega la Corte, “è necessaria ad impedire che una smisurata dilatazione della nozione di sicurezza e ordine pubblico si converta in una preminente competenza statale in relazione a tutte le attività che vanificherebbe ogni ripartizione di compiti tra autorità statali di polizia e autonomie locali” (sentt. nn. 290 del 2001, 285 del 2019). Questa definizione stretta di sicurezza pubblica può sembrare per certi aspetti anacronistica, perché trascura quei processi costituzionali che hanno condotto al superamento del paradigma liberale classico dello Stato “guardiano notturno”, eppure nella giurisprudenza italiana, in particolare costituzionale, ha una funzione garantista, liberale e regionalista. Lo stesso non può dirsi quando la definizione stretta utilizzata nella comunicazione politica per contrapporre sicurezza e libertà – ad esempio in relazione alla minaccia terroristica o alla repressione della criminalità – e giustificare in tal modo una limitazione dei diritti individuali. A tale contrapposizione è sottesa una concezione delle sicurezza come “mera incolumità fisica” (la pure safety conception criticata da Waldron 2010, pp. 116 ss.). Ma qui, a ben vedere, la sicurezza non è già più sicurezza dei diritti, bensì sicurezza dell’unico diritto che si dichiara di voler proteggere – appunto, l’incolumità fisica; da una concezione della sicurezza come sicurezza dei diritti ci siamo spostati alla sicurezza come principio della limitazione dei diritti. iii) Sicurezza come principio di limitazione dei diritti (limite interno) La sicurezza interessa il diritto costituzionale non solo come diritto alla sicurezza e come sicurezza dei diritti, ma anche come considerazione giuridicamente rilevante che può giustificare la limitazione o la deroga dell’ordine consueto dei diritti e delle competenze costituzionali: la sicurezza funziona, in tale caso, come un limite “interno”, perché disposto dal diritto, alla protezione dei diritti individuali e all’applicazione delle regole sulla organizzazione dei pubblici poteri. Il limite della sicurezza può essere formulato in modo esplicito dal legislatore, come clausola generale contenuta nelle norme che attribuiscono diritti o competenze. Nella Costituzione italiana, ad esempio, si parla di sicurezza per indicare le ragioni (“motivi di sicurezza”) e le istituzioni (“autorità di pubblica sicurezza”) che possono limitare l’esercizio di diritti costituzionali quali la libertà personale, la libertà di circolazione, di riunione e di iniziativa economica (articoli 13, 16, 17 e 41). Inoltre, nella Costituzione la sicurezza appare non solo come materia rispetto alla quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (articolo 117: “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”), ma anche come esigenza il cui soddisfacimento giustifica, in caso di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, che lo Stato si sostituisca alle Regioni e agli enti locali in ambiti di loro competenza (articolo 120), e che il Presidente della Repubblica disponga lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta (articolo 126: “per ragioni di sicurezza nazionale. Inoltre, in tema di segreto di Stato e di attività dei servizi di intelligence vi è una consolidata giurisprudenza costituzionale che afferma che “il supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale”, la “tutela della salus rei publicae”, riguarda “la esistenza stessa dello Stato” e configura un interesse “preminente su qualunque altro” (ex plurimis, sentt. nn. 82/1976 e 24/2014). Questi sono solo alcuni esempi tratti dal diritto costituzionale italiano, che potremmo facilmente moltiplicare allargando lo sguardo al diritto costituzionale di altri paesi, al diritto dell’Unione europea e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: la sicurezza – tipicamente la sicurezza pubblica e la sicurezza nazionale – può funzionare come un limite “interno” all’attuazione dei diritti, cioè come principio giuridico della loro limitazione. Quando ciò avviene, considerazioni relative alla sicurezza giustificano che una fonte di rango sub-costituzionale (o nei rapporti con il diritto internazionale e con il diritto dell’UE, una fonte statale) ponga limiti all’esercizio di un diritto soggettivo, nel senso di restringere l’ambito della sua protezione e i modi in cui può essere realizzato (Barak 2012, p. 35). È da notare che il limite della sicurezza può a volte essere fatto valere in sede di applicazione del diritto senza appigli testuali espliciti nel discorso delle fonti; semplicemente, si afferma che un limite è intrinseco ad ogni diritto e a ogni norma giuridica, sicché anche quando il limite non è espressamente posto dal legislatore e le norme sono formulate in modo incondizionato, senza eccezioni (ad esempio il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: “Il Congresso non potrà emanare leggi … per limitare la libertà di parola”), nondimeno possono darsi casi in cui devono prevalere altre esigenze, come la protezione della sicurezza pubblica o della sicurezza dello Stato. La giurisprudenza formula vari criteri per la soluzione di questi conflitti “interni” tra diritti costituzionali e interessi pubblici nella forma di giudizi di bilanciamento e di test di proporzionalità. Per quanto riguarda la sicurezza come limite interno, in generale può dirsi che valutazioni relative alla sicurezza pubblica (ordine pubblico, tranquillità pubblica, salute pubblica, ecc.) o alla sicurezza dello Stato (sicurezza degli organi dello Stato, sicurezza nazionale, ecc.) giocano a favore dell’autorità nella dialettica con i diritti individuali, a favore dell’intervento pubblico in rapporto alla sfera della società civile e del mercato, a favore dello Stato nei rapporti con le autonomie territoriali e con le organizzazioni internazionali, a favore del governo nei rapporti con il parlamento, a favore del potere politico e della pubblica amministrazione nei rapporti con la magistratura. Ciò non deve stupire: la domanda di sicurezza è ancora, nel discorso del costituzionalismo e nella comunicazione politica, rivolta soprattutto allo Stato come istituzione e, al suo interno, al governo. Ma naturalmente in ciò non vi è nulla di necessario e varie tendenze – tra cui forse anche la diffusione del tema della human security – possono far pensare che anche altre agenzie possono rispondere alle richieste di sicurezza soggettiva e oggettiva, se del caso contro lo Stato, limitando la sua autorità. Ovviamente, che la sicurezza possa funzionare come limite interno ai diritti costituzionali è fisiologico e di per sé non in conflitto con il progetto costituzionalistico: ad es., la libertà di circolazione è limitata in considerazione di esigenze di sicurezza del traffico stradale che impongono la previsione di limiti di velocità (Pintore 2007, pp. 128 ss.). Ma in relazione a questioni più salienti, soprattutto in periodi di tensioni politiche e sociali, le tendenze a una interpretazione espansiva della sicurezza possono rappresentare un pericolo per le garanzie costituzionali. Quando ciò accade, le esigenze della sicurezza pubblica o nazionale suggeriscono che l’autorità centrale chiamata a fare ciò che la situazione richiede, tipicamente il governo, abbia il “potere di agire secondo discrezione per il bene pubblico, senza la prescrizione della legge e talvolta persino contro la legge” (Locke, Second Treatise on Government, 1689, §§ 160, 166): possa cioè adottare le misure che proteggono gli interessi collettivi, senza essere ostacolata da poteri concorrenti e diritti individuali. La sicurezza si converte allora da limite interno a limite esterno alla protezione dei diritti: la sicurezza appare come una situazione di fatto che deve essere mantenuta o realizzata costi quel che costi, anche a scapito della legalità costituzionale. iv) Sicurezza come presupposto extra-giuridico della protezione dei diritti (limite esterno) La sicurezza pubblica o civile, intesa come sicurezza dell’ordine civile comunque denominato (patria, città, popolo, repubblica, Stato, ecc.), è spesso posta come condizione necessaria della protezione dei diritti individuali e della stessa applicazione del diritto in senso oggettivo. L’idea di fondo, per quanto pericolosa, è a prima vista semplice e convincente: quando l’ordine civile è dissolto, il diritto viene meno o comunque cessa di essere efficace; perciò è inevitabile che, quando tale ordine è minacciato e rischia di dissolversi, il diritto venga rispettato e fatto rispettare di meno. Non solo è inevitabile in linea generale, ma in concreto può essere opportuno: quando la civitas è in pericolo, è doveroso che il diritto sia violato, sospeso o modificato in modo incostituzionale se ciò può servire a salvarla. In tali circostanze considerazioni relative alla sicurezza pubblica e/o alla sicurezza dello Stato giustificano l’esercizio di poteri extra ordinem da parte delle autorità civili. Si tratta di un’idea antica, che possiamo ritrovare in istituti e istituzioni del diritto romano come la dittatura (magistratura suprema straordinaria nominata per far fronte a circostanze eccezionali, inizialmente di durata temporanea, poi con Silla e Cesare perpetua), il senatus consultum ultimum o de re publica defendenda (decreto del Senato che autorizzava i consoli e gli altri magistrati a prendere ogni misura necessaria per difendere lo Stato da un nemico pubblico; provvedimento adottato contro i fratelli Gracchi, Saturnino, Catilina, Cesare e altri), il tumultus e il iustitium (sospensione temporanea dell’attività giudiziaria, e secondo Agamben 2003 sospensione “del diritto come tale”, per far fronte a crisi che mettano in pericolo la sopravvivenza della civitas). L’uso e abuso di questi strumenti ai tempi delle guerre civili segnò il declino del Senato e il passaggio dalla res publica al principato. Che il diritto normalmente vigente debba essere accantonato per salvaguardare la sicurezza collettiva può essere espresso richiamando la massima di Cicerone salus populi suprema lex esto, “che la salute del popolo sia legge suprema” (Delle leggi, III, 3, 8). È vero che la massima, nel contesto in cui è collocata, non sembra voler giustificare la sospensione della legge, né tantomeno l’esercizio illegale del potere, ma solo porre una direttiva per l’azione dei consoli e degli altri magistrati. Nello svolgimento del loro ufficio, essi dovranno perseguire soprattutto la salus populi, l’interesse pubblico, ma ciò non significa che essi possano violare il diritto, poiché per Cicerone ogni loro autorità è fondata sul diritto e il magistrato è la “legge parlante”, la legge un “magistrato muto” (Delle leggi, III, 1, 2). Tuttavia, poiché lo stesso Cicerone aveva usato il senatus consultum ultimum per reprimere nel sangue la congiura di Catilina durante il suo consolato (62 a.C.), la massima salus populi suprema lex poteva benissimo essere letta come criterio per risolvere i conflitti tra la fedeltà al diritto vigente e la difesa dello Stato. Intesa in questo modo, essa faceva prevalere la difesa dello Stato su qualsiasi altra legge, appunto perché la salus populi è legge suprema. La salus populi veniva allora a indicare un limite “esterno” all’applicazione del diritto: una considerazione pratica, politica o di altra natura, che in situazioni di emergenza si impone con la forza della necessità ai magistrati e agli uomini di governo. Il suo significato era in buona sostanza identico a quello espresso dall’altro famoso brocardo “la necessità non ha legge”, necessitas legem non habet. Sviluppato da canonisti e teologi già nell’Alto Medioevo a partire da fonti romane (Roumy 2006; De Wilde 2015) e codificato nella metà del XII secolo nel Decretum di Graziano (C. 1, q. 1, d.p.c. 39 e D. 1 de cons., c.11; vedi anche San Tommaso, Somma teologica, II, 96, 6), la massima necessitas legem non habet esprimeva anch’essa l’idea che il diritto normalmente applicabile non potesse valere in presenza di circostanze eccezionali. In età rinascimentale questa idea ricevette una formulazione esemplare in Machiavelli. Quando in una repubblica manca un istituto come la dittatura romana, scrive Machiavelli, per far fronte a circostanze eccezionali “è necessario o, servando gli ordini, rovinare; o, per non ruinare, rompergli” (Discorsi, 1531, I, 34). Se la scelta è tra essere giusti e virtuosi, e procurare la rovina dello Stato e di chi lo governa, oppure infrangere il diritto e la morale, e salvare lo Stato e se stessi, allora non c’è dubbio su quale sia il corso d’azioni appropriato per il principe: per salvare lo Stato a volte egli dovrà comportarsi in modo contrario a giustizia, perché “se si considera bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù e seguendola sarebbe la rovina sua, e qualcun’altra che parrà vizio e seguendola ne risulta la securtà e il bene essere suo” (Principe, 1532, XV). Salus populi e necessitas non habet legem divennero poi due degli slogan più caratteristici del Cinque-Seicento (Tuck 1993). Prendendo sul serio la lezione di Machiavelli, a volte in polemica con lui, recuperando temi e suggestioni dall’opera di Tacito, dal suo sguardo disincantato sul mondo del potere, e soprattutto reagendo alla fine dell’unità politica e religiosa dell’Europa medievale, si sviluppò in quell’epoca una vasta riflessione etico-politica attorno al tema della ragion di stato. Si trattava di una letteratura dagli orientamenti politici e culturali più diversi – cattolica o protestante, favorevole all’Impero o alle pretese dei sovrani territoriali, monarchica o repubblicana, di matrice umanistica ma a volte anche neo-aristotelica – che condivideva questa idea di fondo: la sicurezza dello Stato è una esigenza suprema, che può imporre ai governanti di violare norme giuridiche e morali che in circostanze normali sarebbero obbligatorie. Da questa riflessione emerge l’idea di un’autonomia della sfera politica: una razionalità specifica dello Stato, separata dalla religione, dal diritto, dalle virtù morali e dall’onore cavalleresco, tale per cui può essere politicamente ragionevole, persino doveroso, compiere azioni contrarie alla giustizia. In questo quadro, il richiamo ai principi della salus populi e della necessitas è frequente ed essenzialmente anti-costituzionalistico, oltreché anti-ciceroniano, perché contrario all’idea della supremazia del diritto. È da notare che il principio della salus populi poteva essere richiamato in contrapposizione polemica ai patti di fedeltà giurata e ad ogni fondazione “privatistica”, in realtà feudale e cetuale, dell’obbligazione politica. Assieme ad altri riferimenti romanistici, come la regola secondo cui “il diritto pubblico non può essere modificato da patti tra privati” (Digesto 2.14.38), nel Seicento l’idea che la sicurezza dello Stato è legge suprema fonda la prevalenza del nascente diritto pubblico, cui appunto è affidata la cura dello Stato, sul diritto privato e sugli accordi conclusi da privati, così accompagnando l’accentramento di poteri in capo al sovrano. Poiché il diritto pubblico aveva ancora uno statuto giuridico incerto, essendo “vero diritto” solo il diritto privato, anche qui possiamo ritrovare un limite all’applicazione del diritto (privato) di carattere “esterno”, fondato su valutazioni relative alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di diritto nel corso dell’Ottocento tenta di trasformare i valori pubblici associati alla dottrina della ragion di stato – sicurezza pubblica, sicurezza dello Stato, interesse pubblico, interesse nazionale, ecc. – da limite “esterno”, schiettamente politico, all’applicazione del diritto, in limite “interno”, previsto e disciplinato da norme. Così, ad esempio, la prevalenza del diritto pubblico sulle convenzioni private è codificata nell’art. 6 del Code Napoleon (1804): “non si può derogare mediante convenzioni private alle leggi che riguardano l’ordine pubblico e i buoni costumi”; commentando il quale Portalis poteva ripetere ancora una volta che “il mantenimento dell’ordine pubblico in una società è la legge suprema” (Discours préliminaire du premier projet de Code civil, 1801). Le potenzialità di questo principio di prevalenza del diritto pubblico si mostreranno appieno nel Novecento, quando a seguito degli sviluppi del diritto amministrativo e del diritto del lavoro – discipline della cui natura giuridica non si può dubitare – il codice civile cessa di essere il presidio inviolabile della proprietà e dei contratti, sorta di costituzione della società civile borghese. Ancora, a proposito dei tentativi di giuridificare il limite “esterno” della sicurezza, ricordo che a partire dal Settecento in vari paesi la cultura giuridica interna trova una base legale all’esercizio straordinario di potere per far fronte a situazioni eccezionali (Schmitt 1921, Gross e Ní Aoláin 2006). In Inghilterra abbiamo la martial law, la “legge marziale”, che Dicey definisce come “il potere del governo o dei suoi leali cittadini di mantenere l’ordine pubblico, a qualunque costo di sangue o proprietà sia necessario” (1915, p. 185). Non c’è dubbio che la legge marziale sia del tutto giuridica e, sebbene si possa discutere sulla sua fonte o natura (istituto di common law o prerogativa reale?), la sua giustificazione legale è certa: il principio di legittima difesa o diritto di respingere la forza con la forza, vi repellere licet (Digesto, 43, 16, 1, 27). Nell’Ottocento l’istituto della legge marziale è conosciuto in tutti i territori dell’Impero britannico e negli Stati Uniti, dove equivale alla possibilità, in caso di ribellione e invasione, di convocare la milizia e derogare al principio dell’habeas corpus se necessario per la public safety (artt. I, 8, e I, 9 della Costituzione). In Francia e, seguendo il modello francese, nel Regno d’Italia, in Spagna, in molti paesi dell’America latina e infine in Germania, abbiamo invece una legislazione, spesso di forza costituzionale, sull’état de siège, lo stato di assedio, o in tedesco Notstand, stato di necessità. Vengono formalmente disciplinati i suoi presupposti, le procedure e le autorità per la sua dichiarazione, i suoi effetti. Ad esempio, a norma dell’art. 92 della Costituzione francese del 1799 deve trattarsi di “rivolta a mano armata o disordini che minacciano la sicurezza dello Stato”, l’autorità che lo può disporre è la legge del parlamento, oppure provvisoriamente il governo che convochi al più presto il parlamento per la ratifica, e gli effetti sono la sospensione dell’empire de la Constitution. A norma dell’art. 48 della Costituzione del Reich tedesco del 1918 (costituzione di Weimar), in caso di rilevante minaccia o turbamento dell’ordine e della sicurezza pubblica, il Presidente può prendere le misure necessarie, dandone al più presto notizia al parlamento, anche sospendendo in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali. Rispetto all’emergenza per così dire direttamente “agita” dei commissari del popolo della rivoluzione francese, i tentativi di giuridificare lo stato di assedio nell’età dello Stato di diritto sottopongono l’emergenza a una regolamentazione più ricca, in qualche misura la burocratizzano e routinizzano, ma non riescono a esorcizzarne la natura essenzialmente autoritaria, eversiva degli ordinamenti costituzionali, insofferente a ogni regola. Che si tratti di ordinare la deportazione in Algeria “per misura di sicurezza generale” delle persone arrestate per aver partecipato all’insurrezione del 1848 o si tratti di dare i pieni poteri al generale Bava Beccaris per reprimere i moti di Milano del 1898, la sicurezza resta un presupposto extra-giuridico della legalità costituzionale sempre pronto a divorare i suoi figli. Ciò fu particolarmente chiaro in Germania, quando i poteri emergenziali che l’art 48 attribuiva al Presidente del Reich vennero usati per sciogliere il governo della Prussia, socialdemocratico, e lastricare la strada dell’ascesa al potere di Hitler: una norma diretta a salvare l’ordine costituzionale alla fine si rivelò una delle cause del suo collasso. Affine e strettamente collegata al tema della sicurezza come limite “esterno” all’applicazione del diritto è l’idea della sicurezza come presupposto extra-giuridico dell’esistenza o dell’efficacia del diritto. Se contenuta in una teoria normativa del diritto o della politica, tale idea può giustificare nel modo più cogente l’operatività del limite esterno, e quindi se del caso la sospensione illegale dei diritti costituzionali e delle norme sulla separazione dei poteri. La formulazione più nota e influente è in Hobbes, che si forma a stretto contatto con la letteratura sulla ragion di Stato, di cui per certi aspetti radicalizza i temi: la sicurezza pubblica non serve più solo a individuare quella situazione singolare in cui la legge si piega alla politica e perde la sua forza obbligatoria, ma diventa il fondamento ultimo e la sorgente stessa della legge (parafrasando Agamben 2003, p. 37). In mancanza dello Stato, argomenta Hobbes, non esiste il “mio” e il “tuo”, e abbiamo perciò un diritto naturale ad avere tutte le cose che è in nostro potere procurarci, foss’anche attraverso l’inganno, il furto, l’omicidio. Ciò conduce a una “guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo”, in cui “nessuno può avere la sicurezza (security), per quanto forte o saggio, di vivere tutto il tempo che la natura solitamente permette” (Leviathan, 1651, cap. XIV, 4); “c’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, povera, cattiva, brutale e breve (ivi, cap. XIII, 9). Per porre fine al dissidio è necessario attribuire al sovrano il potere di decidere in nome e per conto nostro su ogni questione riguardo alla quale potremmo dividerci, “relativamente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune (common peace and safety)” (ivi, cap. XVII, 13). La sicurezza offerta dallo Stato è allora la condizione di possibilità di una vita vissuta in modo conforme alla legge: prima o fuori dello Stato non solo non c’è sicurezza, ma non può esserci nemmeno giustizia. In primo luogo, la sicurezza è condizione di possibilità di una vita vissuta in modo conforme alla leggi naturali che impongono di ricercare la pace, rispettare i patti, ecc.: in una situazione di insicurezza generalizzata, l’obbedienza alla legge e ai patti non è possibile, né esigibile (ivi, cap. XVII, 2). In secondo luogo, la sicurezza dello Stato, la sua esistenza e solidità, è condizione di possibilità di una vita vissuta sotto leggi civili: ogni legge civile proviene direttamente o indirettamente dallo Stato (ivi, cap. XXVI, 3-5) e l’obbedienza alle leggi civili cessa di essere doverosa quando lo Stato fallisce, è sconfitto, si scioglie. Protego ergo obligo: “l’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa a durare fintantoché dura il potere con cui egli è in grado di proteggerli, e non oltre” (ivi, cap. XXI, 21); c’è una “mutua relazione tra protezione e obbedienza” (ivi, Rev. e concl., 17). La sicurezza pubblica è protetta dallo Stato, è un prodotto dello Stato, ma è anche un presupposto essenziale di efficacia sia del suo diritto, sia del diritto naturale. Senza obbedienza alla legge dello Stato non può esserci sicurezza del popolo, ma senza sicurezza del popolo non può esserci obbedienza alla legge. Carl Schmitt, brillante giurista nazista, molto inserito nel regime almeno nel periodo 1933-1936, personalmente corresponsabile dell’abuso dell’art. 48 della Costituzione di Weimar e dello scioglimento del governo prussiano nel 1932, riformula la teoria di Hobbes in modo originale e le aggiunge un elemento importante. L’idea che qui ci interessa è che per Schmitt la forza obbligatoria delle norme giuridiche, la loro “normatività”, dipende dalla “normalità” delle situazioni a cui devono essere applicate: se la situazione non è normale bensì eccezionale, le norme sono sospese. “Ogni norma generale richiede una strutturazione normale dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un ‘presupposto esterno’ che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente” (Schmitt 1922, p. 39). La sicurezza pubblica non è un presupposto per così dire empirico, naturale, della possibilità di obbedire alla legge, ma si denaturalizza e diviene oggetto di una decisione politica tra alternative in gioco: la decisione politica suprema – l’esercizio del potere costituente – ha ad oggetto il tipo di ordinamento politico della comunità statale, il genere di pace e di ordine, di normalità, di sicurezza pubblica, che si intende realizzare con la costituzione e garantire con il potere statale: è chiaro che la normalità dei comunisti della lega spartachista non è la stessa dei socialdemocratici e dei partiti conservatori, che a sua volta non è la stessa delle squadre naziste delle SA. Nella crisi della costituzione di Weimer, quella del sovrano appare allo Schmitt “decisionista” degli anni ’20 e primi anni ’30 come una figura intermittente, che emerge in circostanze eccezionali per “decidere sullo stato di eccezione”: il problema della sovranità, cioè, non si pone in astratto e non può essere risolto una volta per tutte, perché riguarda essenzialmente “chi in caso di conflitto decida dove consiste l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico, le salut public e così via” (Schmitt 1922, pp. 33 s.). Come il dittatore può sospendere in concreto la costituzione allo scopo di difenderne l’esistenza (Schmitt 1921), così il Presidente del Reich può sospendere i diritti fondamentali e sciogliere il governo della Prussia per salvare la costituzione di Weimar – con poco successo, come si è visto. 4. Conclusioni e sfide attuali Nella configurazione, certo non logicamente necessaria ma storicamente contingente, che la sicurezza ha assunto nel discorso politico e sociale dell’età moderna, essa si riferisce essenzialmente allo Stato (Conze 1984, p. 831): è una richiesta di protezione rivolta allo Stato, che appare come garante della sicurezza nella protezione giuridica dei diritti individuali (certezza del diritto), nell’assistenza e previdenza sociale, nella regolazione del mercato del lavoro e in ogni prestazione dello Stato sociale (sicurezza sociale), nella lotta alla criminalità, nella tutela dell’ordine pubblico, della salute pubblica e dell’incolumità delle persone (sicurezza pubblica), nella difesa dei confini e nella lotta al terrorismo internazionale (sicurezza nazionale). Questo è un limite con cui il discorso costituzionale sulla sicurezza deve confrontarsi: alcune dimensioni odierne della sicurezza, come la sicurezza ecologica, la sicurezza digitale, la sicurezza epidemica e la stessa sicurezza economica e sociale, non possono trovare nello Stato risposte adeguate: sono ambiti rispetto ai quali non si dà, né si potrà mai dare, un monopolio statale della decisione legittima. Lo Stato è un attore, a volte di importanza secondaria, esposto a processi che non governa. Il rischio è allora che lo Stato, investito da domande di sicurezza cui non può più rispondere, cerchi di recuperare l’autorità perduta usando l’unico strumento di cui dispone in modo (quasi) esclusivo – la coercizione – e interpreti queste domande solo nel senso del law and order, della repressione penale della devianza. Lo stesso può dirsi a proposito della domanda di sicurezza e libertà dei movimenti transfrontalieri o, all’opposto, di contenimento e governo delle migrazioni. A prescindere dalle forme e dal contenuto della regolazione di tali processi, è certo che essi sollevano un’esigenza urgente di sicurezza delle persone coinvolte, cui gli Stati e l’Unione europea sono incapaci di rispondere. Gli Stati quasi non riescono a percepire una domanda di sicurezza che, provenendo da stranieri, assume così scarsa visibilità e salienza nel processo politico interno. Un diritto costituzionale della sicurezza deve essere consapevole della complessità di questo quadro. Le domande di sicurezza oggi non sono riducibili all’ordine pubblico, alla difesa contro il crimine, che pure è esigenza fondamentale, rispetto alla quale, però, in molti paesi tra cui l’Italia, il trend è alla diminuzione tendenzialmente costante e di lunga durata (Istat 2020, p. 11). Le domande di sicurezza non sono riducibili alla risposta dello Stato liberale “guardiano notturno”, ma forse ormai eccedono la portata dello Stato comunque qualificato (Stato sociale, Stato costituzionale, ecc.), quale ente territoriale sovrano. È possibile che altre istituzioni, accanto e oltre lo Stato, possano rispondere; non solo istituzioni statali o internazionali, ma anche quelle emergenti dall’associazionismo e dai territori, dalle più varie forme di organizzazione della cooperazione sociale. Il costituzionalismo della sicurezza deve porsi nella logica di un federalismo societario sensibile alla pluralità delle istanze e alla moltiplicazione di contropoteri, se vuole uscire dalle strettoie di una sicurezza insaziabile, divoratrice dei diritti e delle persone. Nondimeno, la sicurezza pubblica resta fondamentale, oggi più che mai. Anche se a volte è disprezzata, perché sembra essere l’unico valore pubblico rimasto in circolazione (Agamben 2020), la preservazione in vita dei consociati è comunque cosa buona, un principio giuridico e un obiettivo politico da non abbandonare alla leggera. La protezione della salute pubblica, che è un aspetto importante della sicurezza civile e sociale, oggi può giustificare il governo di una pandemia mediante misure di distanziamento sociale e limitazioni dei diritti individuali; in un futuro forse non così distante, potrebbe suggerire di rispondere a una crisi ambientale globale mediante analoghe o più gravi misure di raffreddamento e rallentamento dell’economia. Che la sicurezza pubblica sia un valore preminente deve preoccuparci, ma anche dare speranza: certamente è un rischio, ma anche una protezione. Agamben, G. [2003], Lo stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri. Agamben, G. [2020], A che punto siamo? L'epidemia come politica, Macerata, Quodlibet. Barak, A. 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