INDEX
SEGNI DEL PRESENTE
FILOSOFIA DELLA CULTURA E CULTURE DEL DIGITALE
Riccardo De Biase, editor
Olimpia Niglio, scientific director
EDITORIALE
Riccardo De Biase
5
WEB LAG
PATOLOGIE DEL MODERNO E SCHEMI SIMBOLICI. SUGGESTIONI CASSIRERIANE
Riccardo De Biase
9
L’AMICO DI AMLETO (SULLA METAMORFOSI DELLA BILDUNG)
Gianluca Garelli
21
PER UNA FILOSOFIA DELLO SPESSORE TRA MEMORIA UMANA E MEMORIA DIGITALE
Ivana Brigida D’Avanzo
29
REALTÀ, MONDO E RAPPRESENTAZIONE.
IL PROBLEMA DEL VIRTUALE E LA REALTÀ DIGITALE
Mattia Papa
37
JUST-IN-TIME. IL PASSATO PROSSIMO TRA ESTENUAZIONE, BANALITÀ E SPRECO
Felice Masi
47
PUÒ L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE AGIRE METAFORICAMENTE?
LA RISPOSTA DELLA BIOSEMIOTICA
Camilla Robuschi
59
HORKHEIMER AND THE CRITICISM OF CULTURE
Raffaele Carbone
65
TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
Nicola Russo
75
CULTURA E PATRIMONIO CULTURALE DELLO SPAZIO
Olimpia Niglio
85
ESEMPI DI ARCHITETTURA, 2019, SPECIAL ISSUE
INDEX
LA GENESI DELLA KULTURPHILOSOPHIE
Giovanni Morrone
91
SCRITTURE ARGOMENTATIVE NELL’ERA DIGITALE:
CONTESTI, MODALITÀ, FORME
Domenico Proietti
103
SEMIOTICA DELL’EMOTIVITÀ: IL “CASO” EMOJI
Rossella Saccoia
113
CHE COS’È L’IPERMODERNITÀ?
ONTOLOGIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA DELLE TECNOLOGIE INFORMATICHE.
Alessandro De Cesaris
123
Con il patrocinio culturale di
ESEMPI DI ARCHITETTURA, 2019, SPECIAL ISSUE
«SEGNI DEL PRESENTE.
FILOSOFIA DELLA CULTURA E
CULTURE DEL DIGITALE»
TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
NICOLA RUSSO
Dipartimento di Studi umanistici, Università di Napoli “Federico II”
nicola.russo@unina.it
Accepted: May 24, 2019
ABSTRACT
The essay offers a critique of the validity of the computer model of memory (“storage and recovery”)
when applied to mental mnemonic phenomena. The critique is articulated in the following moments: 1) from
the neurological standpoint, based on the latest studies, it is clear that the brain does not function as a digital
device; 2) the mnemonic trace is not a datum or an information, but a symbol, which serves as a cue for the
re-narration of memories that occurs in the anamnesis; 3) the relationship between hypnomesis and
anamnesis is not linear and unidirectional, but circular; 4) in this relationship, oblivion plays in several ways
an essential role. From this derives a conception of memory as a dynamic and creative activity: living
memory as narration and continuous regeneration of memories.
Keywords: Hypomnesis, Anamnesis, Narration.
INTRODUZIONE
“Traccia e simbolo tra memoria e oblio”: quattro termini apparentemente ben distinti, se non addirittura
opposti, riuniti in due coppie. Come vorrò chiarire, però, i termini effettivamente in ballo in un certo senso sono
solo due: “traccia-simbolo” e “memoria-oblio”, dove il “tra” che unisce le due coppie marca ulteriormente la loro
intimità.
La traccia è chiaramente quella mnestica, mnemonica, l'ipomnesi di cui Derrida sottolineava, decostruendo le
tesi sulla scrittura del Fedro di Platone, il carattere essenziale e preminente rispetto all'anamnesi, ossia alla
rammemorazione in atto, al richiamare alla memoria (Derrida 2007, pp. 93-105)1. E mettere qui la traccia insieme
al simbolo significa chiedersi in che senso, come e perché essa non si riduca a semplice informazione,
registrazione, dato archiviato e impronta, ma abbia appunto un valore e una funzione simbolici. Circostanza che
comporta, come si vedrà, una nuova riconfigurazione del rapporto tra ipomnesi e anamnesi e una sorta di
riabilitazione di Platone.
Per quanto riguarda memoria e oblio, il mio discorso non vorrà limitarsi a notare che non sono proprio e
sempre opposti e che una certa dose di oblio è fisiologicamente necessaria anche al funzionamento di una buona
memoria. Il che è sacrosanto e viene per lo più riconosciuto da filosofi, psicologi e neuroscienziati, i quali di rado
dimenticano di citare al riguardo il Nietzsche de Sull'utilità e il danno della storia per la vita. Il problema, però, è che
dimenticano quasi sempre di ricordare il punto veramente originale del suo discorso, che ritorna con forza nella
Genealogia della morale, ovvero il suo insistere sul carattere attivo e creativo dell'oblio, che non è semplicemente
l'interruzione più o meno casuale e contingente di una facoltà, appunto della memoria, ma esso stesso una facoltà,
altrettanto essenziale dal punto di vista e biologico e cognitivo (Nietzsche 1982, pp. 264, 351 e 1986, p. 255).
Intuizione preziosa, che va intensificata, estesa e precisata fino a riconoscere i diversi modi in cui ogni
dimensione del fenomeno mnemonico coinvolge ipso facto una diversa facoltà attiva dell'oblio fino quasi a
confondersene. Facoltà, al plurale, per le quali mancano i nomi e i concetti: se per la memoria, infatti,
distinguiamo facilmente l'atto del memorizzare dal fatto del ricordo, la sua conservazione dalla
rammemorazione, ciò non avviene per la dimenticanza: abbiamo sì alcuni sinonimi, al ricordare si affianca lo
Di Derrida, però, che per tante ragioni era necessario menzionare subito, non vorrò parlare diffusamente qui, né per
approssimarmi, né per prendere le distanze dalle sue tesi su memoria e ipomnesi, anche perché, come ben nota Martino Feyles,
se è molto chiaro ciò che egli contesta a Platone, non è invece affatto semplice o forse null'affatto possibile farsi un'idea
sufficientemente compiuta di cosa avrebbe potuto ed evidentemente non ha voluto contrapporgli in positivo (Feyles 2013, p. 19;
testo che vuole esplicitamente colmare il silenzio derridiano e che, nei suoi propri termini, lo fa egregiamente). Stupisce,
peraltro, l'assenza nel discorso di Derrida intorno alla memoria (al di là di un cenno, ma troppo vago e riduttivo, in Derrida
1990, p. 258) di un riferimento ad Aristotele, che era stato invero il primo a parlare della ipomnesi esplicitamente in termini di
typos e graphe (De mem. 450b). Purtroppo anche nel presente contributo non potremmo dedicare attenzione al De Memoria
aristotelico, nonostante sia un'opera estremamente intelligente e interessante, che proprio per questo non merita una lettura
episodica ed affrettata.
1
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NICOLA RUSSO
scordare, l'obliare, il dimenticare e così via, che possono avere anche usi traslati e in tal modo arricchirsi di
significati, ma per quanto riguarda la memoria in senso stretto e le sue varie dimensioni, rispetto ad essa sembra
che l'oblio sia in fondo qualcosa di monolitico2. E cercherò di argomentare che così non è.
Infine, sulla base di tali premesse, il discorso intorno alla memoria sarà declinato in relazione a quel segno del
presente cui alludiamo parlando di “digitale”.
Tale estensione, che da molti punti di vista è opportuna e proficua, metodologicamente richiede lo sforzo di
coordinare ontologia e neurologia. Si è infatti appena sostenuto che l'oblio è facoltà essenziale sia dal punto di
vista biologico, che da quello cognitivo. Ebbene, è proprio intorno a questa coppia classicamente nietzschiana – vitaconoscenza – che si è combattuta e si combatte ancora una lotta senza quartiere, la quale si realizza in tanti
conflitti più o meno periferici che sono in qualche modo echi, per quanto labili, di un problema schiettamente
metafisico, che è in ultima analisi il problema della verità. Ossia dell'essere e del linguaggio.
E non sembri strano o esagerato questo mio recedere fino al piano elementare dell'ontologia; per due ragioni:
1) innanzitutto perché senza questo ritrovamento del fondo il mio discorso non sarebbe propriamente filosofico,
ma al massimo un ragionevole intreccio di argomenti disparati; 2) ancor più, però, perché è davvero la questione
della verità, di che cos'è la verità, a determinare radicalmente le opzioni che abbiamo nel rispondere a certe
domande.
Domande come: che storia, che valore, che senso e che pregnanza ha la metafora del cervello come hardware e
della mente come software? Oppure: è plausibile concepire il cervello come elaboratore di informazioni?
Le domande intorno alle quali, notoriamente, John Searle si contrappone a Daniel Dennet e a quelle correnti
della psicologia cognitiva e dello scientismo neurologico più classicamente cartesiane che hanno dominato gran
parte del novecento3. Correnti rispetto alle quali Searle, ne La riscoperta della mente, osservava molto giustamente
che «cerchiamo di far somigliare gli esseri umani ai nostri modelli computazionali, invece di tentare seriamente di
comprendere il funzionamento della mente» (Searle 1994, p. 265).
Ebbene, seppure non al modo di Searle, anche io cercherò di fare proprio questo, nell'ambito più ristretto della
memoria: tentare seriamente di comprendere le differenze e non solo le analogie tra un ricordo vivente e un dato
digitalizzato e memorizzato su un supporto informatico4. E nel farlo mi avvarrò in maniera sostanziale anche
dell'ultima neurologia, scienza che sta attraversando una fase di grande crescita e rinnovamento, che la apre, la
estende e la riconnette a discipline che finora teneva talora per ostili come la linguistica, la filosofia, la psicologia.
E che tramite ciò sta gradualmente metabolizzando e superando vecchie ipoteche metafisico-ideologiche5.
Naturalmente bisogna essere consapevoli del fatto che la neurologia rimane una disciplina dalla quale non
possiamo pretendere troppo: ci fornisce tanti indizi ma poche certezze ed è sempre molto problematico passare
dalla dimensione quantitativa a quella qualitativa6. Almeno in negativo, però, può essere illuminante, poiché se
pur non dimostra, in certi casi, poste le domande giuste, può confutare e così aiutarci a sfatare concezioni
pregiudiziali come quella della natura essenzialmente digitale del funzionamento del cervello.
Ma torniamo al punto che prima ho messo al centro, connotandolo ontologicamente: vita e conoscenza. Il
problema della verità, che più nello specifico, rispetto alle domande che abbiamo posto, si può declinare così: cosa
è il medio della verità?: simbolo o informazione? Il rimando che altera, plasma e crea o il dato sufficientemente
adeguato allo stato di fatto?
Mi spiego meglio.
Già il giovane Nietzsche aveva compreso l'abisso che veniva aperto da un'intuizione di Schopenhauer, a dire
il vero molto gorgiana: l'intelletto non è mechane della conoscenza, della verità, bensì della vita. Vale a dire che
l'intelletto e ogni forma di coscienza, anche non autocosciente, non è affatto un organo recettivo e reattivo che
coglie, registra, compara, ordina e grazie a ciò poi riconosce, ma è al contrario un organo che essenzialmente
In medicina esiste sì una variegata patologia dell'amnesia, ma non una sua fisiologia: si studiano le disfunzioni della memoria,
non le funzioni dell'oblio.
3
I loro assunti di fondo erano già stati descritti con buon anticipo da Bergson, che ne rinveniva l'origine in pregiudizi
metafisici e non nelle evidenze sperimentali via via più raffinate prodotte dalla ricerca scientifica, le quali sarebbero state anzi
costantemente piegate a quei pregiudizi lungo tutta la modernità (Bergson 2007 passim, in particolare pp. 45, 104, 133). Va però
detto che negli ultimi decenni tali ipoteche sembrano essersi non dissolte, ma di molto attenuate.
4
Proprio nel capitolo dedicato ad Anamnesi e ipomnesi, Stiegler afferma, sulla scorta di Derrida, che è “impossibile opporre la
memoria vivente a questa memoria morta”, vale a dire oggettivata ed esteriorizzata in supporti ipomnestici di ogni genere. Il
che è del tutto corretto, tenuto conto della coevoluzione, lungo tutta l'ominazione, di mente, linguaggio e tecnica. Ma – sia detto
a scanso di equivoci – qui la questione è differente: non si tratta di “opporre”, ma solo di constatare come il fatto che la memoria
in quanto facoltà mentale umana si sia sempre costituita in riferimento a hypomneumata logici e sempre più tecno-logici non
significhi che i due poli, quello interno e quello esterno, abbiano la stessa struttura e natura e che quindi possiamo conoscere il
funzionamento della memoria vivente in analogia a quello di una tecnologia ipomnestica (e quale tra le tante poi?). Né Stiegler
sostiene minimamente una cosa del genere, tutt'altro, poiché in fondo è proprio sulla base di tale differenza che egli può
proporsi di “studiare lo stadio della proletarizzazione generalizzata indotta dalla generalizzazione delle tecnologie ipomnestiche”
(Stiegler 2013, pp. 38, 41).
5
Una storia affascinante e dettagliata dello sviluppo della neurologia della memoria in Kandel 2010.
6
Per quanto riferite alla ricerca linguistica e non sulla memoria, rimangono utili le precise notazioni metodologiche di Moro
2015 e 2017, pp. 57 ss. intorno ai protocolli sperimentali in neurologia. Ben argomentata la requisitoria contro l'eccesso
riduzionistico in Legrenzi 2009.
2
ESEMPI DI ARCHITETTURA, 2019, SPECIAL ISSUE
TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
riconosce e per questo anche coglie, registra compara e ordina. Identifica. E identifica sempre ciò che non è identico.
Poiché lo fa appunto in maniera simbolica e per scopi vitali e non conoscitivi7.
Un “organo” – quale che ne sia l'espressione somatica – eminentemente metaforico e trasfigurante. E coevo
alla vita: nel mondo inorganico, scriveva Nietzsche, regna la verità, è solo con la vita organica che nasce la
menzogna... Vita e conoscenza, dunque. E la questione metafisica è cosa viene prima. Una questione che io non
voglio eludere e pretendere di poter risolvere, ma rispetto alla quale enuncio la mia decisione: non è la vita una
forma complessa di elaborazione dell'informazione, bensì la conoscenza una delle varie tecniche e strategie della
vita. Certo nulla toglie la possibilità che in realtà en arche en o logos. Per quel che però riusciamo a vedere, en arche
en e zoe!
Ma, si dirà, tutto questo che c'entra con la memoria?
In realtà moltissimo. I modelli computazionali della memoria, infatti, partono dall'assunto cognitivista duro
che la memoria si regga su di un'organizzazione percettiva intesa come processo di ricognizione oggettiva, per cui
l'atto mnemonico consisterebbe in un paragone tra nuove situazioni esperienziali e il set pregresso di
informazioni salvate nel nostro hard disk celebrale, un paragone che, con le parole di David Jacobs, tende a
«portare la nostra precedente conoscenza del mondo in allineamento con la sua immagine attuale» (Jacobs 2003,
p. 403).
La memoria, insomma, sarebbe un organo conoscitivo, così come, analogamente, il linguaggio sarebbe uno
strumento di descrizione di oggetti e fatti. Viene quindi messa da parte tutta la dimensione performativa,
operativa, attiva e vivente, e della memoria e del linguaggio, e la ricerca si orienta a partire da una decisione
preliminare e pregiudiziale intorno alla natura e alla funzione del suo oggetto.
Ma non voglio dilungarmi troppo in premesse, se non aggiungendo un'ultima osservazione. Il confronto con
le teorie informatiche e digitali della memoria non ha il solo scopo di mostrarne le deficienze, anche perché se così
fosse arriverei in ritardo: basta leggere proprio le ultime ricerche neurologiche per vedere che quelle posizioni
sono già state superate in ambito scientifico e sopravvivono più che altro solo sul piano della vulgata. Un
neuroscienziato, insomma, non crede più affatto che il cervello funzioni come un computer8. Tuttavia,
confrontarsi con questa metafora è una buona via per far risaltare in maniera chiara la differenza radicale tra un
hard disk e la nostra memoria e così può aiutarci a definire le specificità di quest'ultima.
Nell'andamento del mio discorso, dunque, cercherò innanzitutto di mostrare fino a che punto l'analogia possa
reggere, per poi marcare le differenze tra memoria vivente e memoria digitale. Ancor prima vorrò però fare
alcune considerazioni sulla concezione informatica in generale.
IL CERVELLO È UN APPARATO DIGITALE?
Per rispondere a tale domanda dobbiamo dire innanzitutto cos'è un apparato digitale: in estrema sintesi un
meccanismo che sfrutta dinamiche e segnali discreti e non continui. Per tale ragione il suo funzionamento può
essere descritto in termini di bit di informazione, unità minime di conoscenza. Un ordine similmente discreto è
quello dei numeri naturali o interi, 1, 2, 3..., che si ottengono aggiungendo man mano la stessa unità. Mentre i
numeri reali sono il regno del continuo, dove tra 1 e 2 vi sono valori infiniti.
È dunque evidente che quando un apparato digitale deve trattare grandezze continue esse vanno campionate
entro un sistema ben definito di valori discreti. Come avviene, per esempio, per la codifica digitale di immagini o
di qualsiasi altro dato che possiamo poi in questa forma numerica memorizzare su un supporto informatico,
riprodurre, manipolare, trasmettere e così via.
Ora, in questa possibilità di traduzione dall'analogico al digitale è contenuto un tratto comune anche al
simbolo, ovvero la sua capacità di stare al posto di qualcos'altro, di sostituirlo e rappresentarlo. E come avviene in
genere anche per il simbolo, questa sostituzione comporta una riduzione, un'economia e una scelta dei tratti salienti:
il codice digitale, proprio perché non può esprimere tutti i valori continui intermedi, non rende mai tutta la
complessità e variegatezza dell'originale analogico.
Uno scotto che è ripagato dalla progressiva riduzione ed omogeneizzazione dei termini sufficienti a
riprodurre qualcosa. Riduzione che rende la traduzione sempre più univoca e chiara e dunque sempre più
semplice ed efficiente ogni ulteriore riproduzione e copia, più stabile e meno soggetta ad errori e deviazioni.
Il che da tanti punti di vista è naturalmente un guadagno, ma non dal punto di vista della comprensione del
simbolo e della memoria umana. Rispetto ad essi, infatti, la vera perdita che si realizza nella memoria informatica
non è quella di dettaglio nel passaggio dall'analogico al digitale, ma paradossalmente deriva proprio dalla
maggiore accuratezza dell'autoriproduzione di un dato: rispetto alla memoria umana, la stabilizzazione digitale
della riproduzione fac-simile è un'amputazione, poiché riduce drasticamente la potenza simbolica e la plasticità.
Un ricordo, invero anche se oggettivato, ha una propria vita e una propria storia, è costitutivamente aperto
all'ambiguità, alla trasposizione, al mutamento, alla variazione più o meno intenzionale, può continuare a istituire
nuovi nessi o può anche disciogliersi e svanire, l'una possibilità è legata all'altra. Qui il carattere simbolico è vivente
7
Similmente, in Legrenzi 2002 si prende partito per una concezione della mente che metta in prima linea homo faber piuttosto
che homo cogitans.
8
Si potrebbero citare tanti autori, qui basti riferirsi alla ricerca di Alberto Oliverio, che ha svolto un ruolo decisivo per l'intera
neurologia italiana e in particolare per gli studi sulla memoria. Il suo Immaginazione e Memoria è in effetti il testo cui devo i
maggiori spunti.
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NICOLA RUSSO
e ogni riduzione apre al tempo stesso nuove prospettive e relazioni, diminuire è anche moltiplicare e viceversa.
Al contrario, il messaggio altamente discretizzato che si autoriproduce sempre più identico a se stesso finisce per
perdere valore simbolico in entrambe le direzioni: è sempre di meno una diminuzione, ma anche sempre di meno
una moltiplicazione. Se nel rapporto tra simbolo e cosa, da un lato un unico simbolo può rappresentare infinite
cose e dall'altro una singola cosa può essere rappresentata da svariati simboli, qui invece tutto tende a ridursi ad
un rapporto univoco.
Al fondo di questa riduzione della pregnanza simbolica e anche al fondo della metafora digitale del cervello vi
è il bit di informazione. Che viene definito come l'unità minima di conoscenza producibile e trasmissibile.
L'atomo informatico. Ebbene in che cosa può consistere un indivisibile della conoscenza? In qualcosa di non più
analizzabile in ulteriori elementi distinti, altrimenti conosceremmo due o più cose e non una sola. È dunque una
sostanza noetica semplice, non composta. E tuttavia per conoscerla, per distinguerla in quanto quest'una e non
un'altra, per averne informazione, devo comunque poterla differenziare da quel che non è. Quindi l'atomo
informatico prevede almeno una possibilità di distinzione, anzi la esige, non basta l'uno-uno di platonica
memoria. E così arriviamo al vero nucleo del digitale, che consiste nella pretesa di poter ridurre ogni molteplicità
di differenze ad un'unica differenza, quella necessaria e sufficiente a isolare un bit. La differenza tra quest'uno e
non quest'uno. Tra uno e zero.
Il sistema numerico binario. Che si costituisce sintomaticamente con i soli due elementi che per i greci non
erano propriamente numeri: hen, l'uno, principio di ogni numerabilità, che dunque riassume in sé tutti i numeri
possibili in quanto loro misura e generazione, e ouden, nulla, il non-uno, l'unico da cui l'uno può essenzialmente
differenziarsi.
Se deve essere pensabile la possibilità della conoscenza dell'unità di misura della conoscenza stessa, insomma,
abbiamo bisogno già di due elementi, l'uno la perfetta assoluta negazione dell'altro. E quindi, in realtà, la
differenza logica tra 0 e 1 nel sistema binario è riconducibile alla differenza elementare minima di ogni possibile
asserzione o giudizio: quella tra sì e no, tra affermazione e negazione, tra essere e non essere. Che è poi il
fondamento dei principi di identità, contraddizione e terzo escluso.
Questa cosa sta così o non sta così, è accesa o spenta.
Ora, questa pretesa che ogni contenuto e molteplice sia analizzabile, e dunque riproducibile e riassemblabile a
partire da un'unica differenza, evidentemente non è plausibile. E tuttavia proprio rispetto al funzionamento del
cervello per un certo periodo è stata ritenuta tale, poiché si è pensato che la natura delle interazioni
elettrochimiche che vi avvengono fosse appunto digitale e proprio nel senso che abbiamo appena detto, ossia di
una dinamica che sfrutta un'unica differenza: neurone spento, neurone acceso.
La schema elementare energetico e informatico del neurone, infatti, prevede un ambiente di entrata (i
dendriti), un nucleo attivabile e un canale di uscita (l'assone). A seguito di una stimolazione in entrata, il neurone
si accende e spara (sic!) un messaggio di risposta, che attraversa l'assone e giunge al neurone successivo nella rete.
Questo messaggio dal punto di vista energetico consiste nel cosiddetto “potenziale d'azione”, che per ogni tipo di
neurone ha un valore pressoché stabile. È dunque un fenomeno elettrico “tutto o nulla”: non varia in maniera
continua tra valori diversi, ma si dà o non si dà, sempre più o meno uguale.
Ora è chiaro che uno schema del genere ha indotto a pensare alle reti neuronali come a circuiti elettrici dove i
neuroni sono sostanzialmente solo interruttori: off – on, 0 e 1...
Ma quello schema era estremamente semplificato e parziale e le conoscenze attuali intorno alle molteplici
dinamiche chimiche e non solo elettriche che avvengono nelle sinapsi tra denditi e assoni, la gran parte delle quali
sono di natura continua o comunque irriducibile ad un'unica differenza (Kandel 2013, pp. 71 ss., 177 ss.), ci
impongono oramai di scartare quella metafora: il cervello non è un apparato digitale, per quanto comprenda
anche una dinamica latamente digitale.
Ora, strettamente connessa con questa immagine del cervello come circuito informatico, e dipendente da essa,
era anche la teoria neurologica della memoria proposta a partire dagli studi di Wilder Penfield proprio negli anni
in cui la cibernetica era sulla cresta dell'onda9. Penfield riteneva infatti che ogni ricordo fosse codificato in una
struttura neuronale dedicata e singola che chiamava “engramma”, una vera e propria iscrizione nella corteccia
cerebrale, iscrizione le cui lettere erano i singoli neuroni, portatore ognuno di un singolo bit di informazione.
Proprio come avviene nella memoria digitale, insomma. Ma anche questa ipotesi del neurone come unità
gnostica, che Lettvin battezzò ironicamente “neurone della nonna” (Gross 2002), è stata completamente superata
e l'immagine delle dinamiche cerebrali coinvolte nella memoria si è estremamente arricchita.
MEMORIE E MEMORIA
A questo punto, però, tolti da mezzo gli equivoci più banali, cerchiamo di scendere più a fondo nella
questione e proviamo a definire meglio l'analogia tra memoria e hard disk, e i suoi limiti. Partiamo da una
delineazione dei tratti elementari propri a tutto ciò che chiamiamo memoria e che quindi ricomprende entrambi i
versanti, quello biologico e quello informatico.
Il termine “memoria” può avere un valore soggettivo oppure oggettivo, ovvero può essere la mia memoria o
anche la memoria depositata in un documento, in un monumento, in un'immagine, in una stringa numerica e così
9
Si veda Penfield 1991 e le considerazioni che sulla sua teoria svolge Oliverio 2003, pp. 32 ss. e Id. 2013, pp. 208 s.
ESEMPI DI ARCHITETTURA, 2019, SPECIAL ISSUE
TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
via. E poi può avere dimensione individuale o anche collettiva, la memoria autobiografica e quella storica,
culturale, etnica e addirittura ancestrale. Sul piano soggettivo, dal punto di vista delle funzioni cerebrali e
mentali, si distinguono poi la memoria procedurale e quella dichiarativa, l'episodica e la semantica, quella a
lungo e quella a breve termine, l'implicita e l'esplicita, quella facente capo ad esperienze estrinseche e quella ad
intrinseche...10.
Ebbene, cosa accomuna tutto ciò? Quali sono i tratti universali del fenomeno memoria? Tradizionalmente, a
partire da Aristotele, si fa riferimento al passato, il che è anche piuttosto intuitivo: la memoria, in qualsiasi modo
la si consideri, avrebbe a che fare con la conservazione del passato, ne sarebbe la fonte di conoscenza più certa e
solida, e in quanto tale si adeguerebbe ad esso e trarrebbe la sua verità dalla fedeltà con cui lo riproduce. Sembra
ovvio, ma sull'ovvietà della memoria come riferita al passato e sulla presunta semplicità di questo riferimento,
insieme a Derrida hanno scritto in tanti, criticandola con maggiore o minore forza e sostanzialmente in
considerazione del fatto che è sempre in un presente che avviene la memoria e che l'adeguazione non è all'evento
passato, ma solo alla sua traccia.
Insomma, il riferimento al passato, preso così immediatamente, sembra non bastare, e tuttavia una qualche
relazione con il già stato la memoria ce l'ha indubbiamente, anche nelle sue forme più distanti dall'aspetto
mentale o culturale: in ingegneria, per esempio, si parla di memoria dei materiali o di materiali a memoria di
forma, che sottoposti a certe trasformazioni, per lo più termiche, riproducono configurazioni precedentemente
inscritte in essi tramite un vero e proprio training, che è una sorta di memorizzazione di quelle forme.
Detta così, però, la faccenda pare ancora troppo vaga e assimilabile semplicemente al perdurare di effetti
lungo un certo lasso di tempo. Tuttavia, se non basta il solo riferimento al passato, neppure quello al perdurare è
sufficiente. Se è pur vero che la memoria agisce sempre in un presente, infatti, è comunque chiaro che senza un
qualche legame con il già stato quella presente non sarebbe affatto memoria, ma semplicemente una nuova
attualità. Ma allo stesso modo dobbiamo dire che non basta neppure il perdurare degli effetti passati nel presente,
poiché una catena di cause non è ipso facto un fenomeno mnemonico, se non stirando la metafora fino a renderla
del tutto equivoca.
Anzi – e così introduciamo il terzo elemento – in un certo senso una catena lineare e continua di effetti non è
affatto un fenomeno mnemonico, poiché uno dei tratti essenziali della memoria è, in ogni sua forma, una qualche
virtualizzazione di quel perdurare11.
Esso deve rimanere sotto traccia, apparentemente svanire dalla presenza, non interferire con altre interazioni
non pertinenti: che si tratti di una lega metallica che a certe condizioni riacquista una forma impressale in un
qualche passato di distanza arbitraria, che si tratti del mio ricordo di cose avvenute in vari momenti della vita, e
così via, essenziale del fenomeno mnemonico è che tra il passato al quale si relaziona e il presente nel quale vi si
relaziona vi sia una rottura, un vuoto, indifferenza e assenza. Altrimenti non sarebbe affatto un ricordo, ma un
semplice rimanere...
La struttura minima che afferisce alla memoria prevede dunque un evento, che di per sé è oramai assente, il
perdurare di un legame virtuale a quell'evento, ossia di un legame anch'esso per certi versi assente, ma tuttavia
potenzialmente disponibile a tornare presente, e il suo effettivo ripresentarsi in un ora: l'anamnesis, che è
fortemente caratterizzata proprio dal prefisso ana-, da questo ri-, da questo “di nuovo” che in tanti modi si lega
alla memoria: dal riconoscimento alla ripetizione al recupero alla rievocazione e così via...
Abbiamo dunque un movimento, per cui qualcosa che fu presente, svanendo nell'assenza vi perdura
virtualmente sottotraccia come possibilità di una certa sua riattualizzazione. E se dico “di una certa sua
riattualizzazione” è perché è evidente che non è lo stesso evento a ripresentarsi, essendo oramai passato.
Che cosa dunque si riattualizza? Non l'evento, ma a ben vedere neanche il suo perdurare, che viene anzi rotto!
Ogni anamnesi, infatti, interrompe il perdurare virtuale della sua stessa possibilità. E non intendo solo dire che ne
interrompe la virtualità, ma anche la possibilità che continui a perdurare intatta. Infatti, nel momento in cui da
virtuale diviene attuale, e si stabilisce quindi una relazione presente tra un ora e un prima, quel prima cessa di
essere “prima e basta” e diviene un “prima e poi anche di nuovo ora”! È insomma un altro evento, almeno
numericamente. Ed è questo che continua poi a perdurare come condizione di un'eventuale nuova
rammemorazione. Che spezza di nuovo la continuità e produce ancora un altro evento. Il che è chiarissimo nella
memoria umana: ogni volta che torniamo ad un ricordo lo modifichiamo, ed un'eventuale sua nuova
rammemorazione non sarà più dell'originale, ma di tutta la serie o almeno dei suoi ultimi momenti.
Non si riattualizza l'evento, dunque, ma neanche il suo perdurare, che è rimasto attuale lungo tutto il tempo
intermedio, ma sottotraccia e quindi in maniera virtuale, e che alla riattualizzazione si interrompe, termina. E
allora cosa?
La risposta derridiana, in sostanza di ascendenza aristotelica, è proprio la traccia stessa, quel che preferisco
continuare a chiamare “ipomnesi”, semplicemente poiché già nel suo etimo – hypo-mnesis: sotto-memorazione –
rende bene ciò a cui ho alluso parlando di un persistere sotto traccia. Ovvero di questo strano rimanere presente
senza essere presente, che quando diviene presente ipso facto si assenta davvero.
Ed è proprio in riferimento a questo aspetto peculiare che la mia proposta teorica guadagna la sua specificità,
giacché la sua tesi di fondo è che proprio la traccia di per sé non si ripresenti mai davvero, ma che a riattualizzarsi
Cfr. Oliverio 2013, pp. 135 ss.; Poldrack 2001, pp. 546 ss.; Edelman 1987.
Questo aspetto è compreso a fondo e definito con precisione da Aristotele, De mem. 452a: la memoria non come presenza
attuale di una traccia, ma come inerenza di una potenzialità sollecitatrice (dynamin kinousan).
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sia piuttosto la sua narrazione, che è di fatto una ritracciatura. Vale a dire che la traccia, quando riemerge, smette
di essere traccia e da hypomnesis diviene anamnesis, che non è la semplice ripresentazione di quella traccia, ma la
sua modificazione che inscrive una nuova traccia12.
E, ripeto, questo vale anche per quelle leghe metalliche di cui dicevamo: quando ritornano alla traccia
memorizzata, questo ritorno necessariamente la modifica, rinforzandola se è ben riuscito, o altrimenti
deformandola.
Ma a questo punto smettiamo di tenere presenti tutte le varie accezioni di memoria, lasciamo perdere le leghe
metalliche e vediamo di specificare il nostro discorso indirizzandolo verso il paragone tra memoria mentale – o
meglio memorie – e memoria digitale.
LA METAFORA DEL GRANAIO
Quel che abbiamo sinora colto è che, in ogni caso, si parla sensatamente di memoria distinguendo almeno due
poli, l'ipomnesi e l'anamnesi; e già si è intravisto che la loro relazione non è affatto banale.
Tuttavia il nesso tra questi due momenti è stato rappresentato tradizionalmente e viene ancora oggi
rappresentato a partire da una metafora che è tanto immediata e chiara, quanto insufficiente, quella che in
neurologia si definisce la “metafora del cervello cassettiera”, idea, come già accennavo, ampiamente superata. Per
ragioni genealogiche preferisco chiamarla “metafora del granaio”:
I primi scribi sono funzionari dei templi delle grandi civiltà neolitiche, di quei complessi che erano a un tempo
centri religiosi, amministrativi ed economici. E le prime testimonianze della loro tecnica – già altamente
discretizzata: pensiamo alla scrittura cuneiforme – sono relative alla registrazione dello stoccaggio delle riserve
alimentari. Primo punto significativo: la scrittura nasce già intrisa di numeri e cifre. Secondo: nasce come
rendiconto e traccia di un immagazzinamento. Il grano viene misurato e riposto, la scrittura ne tiene il conto e lo
conserva. E così come il grano è rinchiuso e custodito nel granaio, la scrittura custodisce la memoria del suo
immagazzinamento. E in tal modo garantisce la giustizia della sua futura ripartizione. Quando, infatti, sarà il
momento di tirarlo di nuovo fuori, tireremo fuori di nuovo anche le tavolette, e grazie ad esse ci ricorderemo a chi
e come darlo e quanto. È dunque naturale che vi sia stato il massimo interesse alla conservazione la più integra
possibile e del grano e della sua rendicontazione.
Ebbene, da questo punto di vista è chiaro che anche lo scriba attuale lavora come quello dei tempi di Ramsete
– e, incidentalmente, anche come gli imbalsamatori a lui coevi13. Il modello principe della memoria digitale è
infatti quello chiamato “storage and recovery”: immagazzinare e recuperare14. E ancora oggi l'interesse maggiore
è che ciò che viene stoccato possa rimanere il più possibile intatto, appunto come una mummia, e che possa essere
riesumato tal quale lo si è riposto. L'ipomnesi, che a questo punto è quasi il sotterrato, deve tendere, per quanto
asintoticamente, a rimanere identica per ogni anamnesi, per ogni reintegrazione e rinascita.
Un asintoto che la memoria digitale pare aver oramai esaurito e saturato: almeno nel breve termine non c'è
quasi più perdita di dati, perché tra discretizzazione e ridondanza la scrittura digitale consente quasi sempre di
recuperare perfettamente anche i dati corrotti15. E notiamo come sia caratteristico, da questo punto di vista, il fatto
che quando abbiamo memorizzato un dato su una memoria digitale diciamo di averlo “salvato”, con un termine
ancora molto fortemente connotato in senso religioso. Che il granaio sia all'inizio tempio, insomma, o viceversa,
non è un caso.
Ad ogni modo, fuor di metafora, quel che si realizza con la memoria digitale intesa come storage and recovery è
indubbiamente un ideale molto antico, l'ideale del pieno e perfetto recupero, della reintegrazione senza residui e
senza vuoti, della restitutio ad integrum. La direzione del processo che persegue tale scopo è verso l'istituzione di
un rapporto univoco e unidirezionale: i due poli – ipomnesi e anamnesi – vengono sì chiaramente distinti, anzi
vengono addirittura e impropriamente separati, non sono più poli di un'unica funzione, ma due funzioni diverse.
Tuttavia, il loro contenuto deve essere per quanto possibile il più identico a se stesso.
Il che, di per sé, non è affatto una cattiva cosa. Ma lo diviene se questo paradigma è assunto come obiettivo
tramite cui comprendere la memoria mentale o addirittura l'essenza dell'uomo, che ne risultano svilite. Se la
funzione mnemonica dovesse consistere essenzialmente nel recupero integrale della traccia, infatti, la memoria
umana dovrebbe essere considerata molto imperfetta e debole. Ma è la prospettiva stessa ad essere errata e
fuorviante: se rispetto alla funzione di un hard disk o in generale rispetto alla potenza computazionale di un
calcolatore elettronico il cervello è certamente meno efficiente, considerate da un altro punto di vista quelle che si
Sulla dimensione narrativa della memoria autobiografica, che io ritengo possa essere estesa alla memoria in generale, è
limpido Oliverio 2013, p. 213, che con accenti decisamente nietzschiani scrive: “ci raccontiamo storie sul nostro passato e man
mano ristrutturiamo il significato dei singoli ricordi, cosicché la realtà delle memorie diventa progressivamente meno
importante rispetto alla sua ricostruzione, che implica distorsioni, abbellimenti, omissioni, trasformazioni”.
13 La metafora è valida in vari sensi, per ora ricordo solamente che il greco mneme significa anche tomba e che i monumenti
per eccellenza sono quelli funerari (la memoria è “luttuosa per essenza” scriveva ancora Derrida 1995, p. 43).
14 Una critica molto ampia e intelligente al modello storage and recovery è presente anche nell'ambito dei cosiddetti “software
studies”: si veda per esempio Hui Kyong Chu 2011, in particolare la sezione Regenerating archives (pp. 97 ss.). Prossimo anche il
punto di vista dell'“archeologia dei media”, cfr. Ernst 2013, in particolare il capitolo Telling versus Counting, pp. 147 ss.
15 Nel lungo termine, però, le cose stanno molto diversamente: si legge un po' ovunque che l'archiviazione digitale rischia di
essere meno duratura di quelle più tradizionali.
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TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
presumono essere “imperfezioni” della nostra memoria sono invece potenzialità straordinarie, sulle quali si
reggono la creatività, la libertà e l'autocoscienza16.
E andiamo dunque a concludere su questo tema, che è poi quello dell'oblio, parola che, analogamente a
memoria, dobbiamo provare a pensare in maniera molteplice.
OBLIO
Abbiamo detto che alla ipomnesi appartiene essenzialmente la sua virtualità, ossia il fatto che già tracciarla
significa riporla altrove, metterla da parte. Vi è sì dunque questo elemento di custodia più che di
immagazzinamento, ma di una custodia che non può e non deve essere impermeabile e inviolabile, poiché
altrimenti la traccia rischierebbe di divenire inaccessibile, immutabile e non più rinnovabile nella anamnesi.
Anche nella sua esistenza virtuale, dunque, l'ipomnesi continua a mutare, permane mutando, è insomma una
forma vivente o almeno malleabile. E in quanto tale mortale. Tesi che ritroviamo variamente espressa nelle
ricerche neurologiche: un ricordo, al di là del fatto che non è collocato in un unico luogo del cervello, e quindi non
è affatto stipato in un cassetto da qualche parte, ma invece diffuso e articolato da tante funzioni interagenti, si
modifica costantemente nel corso delle nostre esperienze, anche quando non viene alla coscienza o non sia
direttamente attinente a quelle esperienze17.
Già nel divenire latente della traccia, dunque, che a livello neurologico si esprime nel suo spezzettarsi e
diffondersi tra le reti neuronali, abbiamo un momento dell'oblio, che è assolutamente costitutivo del fenomeno
mnemonico: se non dimenticassimo la traccia, non potremmo rimemorarla e vi rimarremmo anzi inchiodati come
ad un'esperienza permanente che ne impedisce ogni altra.
Quindi memorizzare una cosa significa già disporsi a dimenticarla: la traccia è stata impressa, è in qualche modo
rinvenibile (permane in quanto traccia sotto traccia), ma ne rimaniamo immemori fin quando non la ritroviamo,
in qualunque modo ciò accada; ossia fin quando non ricostituiamo l'unità di un ricordo cosciente, il che ci consente
di rintracciare l'evento della sua tracciatura e quindi di “tornare” mediatamente all'evento stesso che l'ha
occasionata, all'esperienza.
Ma, come abbiamo detto, questo rintracciare, l'anamnesi, è a sua volta un evento e una nuova tracciatura, è
ritracciare: non si limita a rimettere insieme una traccia, o meglio, proprio il rimetterla insieme è in realtà
ricomporla, riscriverla e rinarrarla. La cosiddetta traccia mnemonica, insomma, più che un dato è come lo spunto
di una nuova narrazione, di un nuovo racconto delle esperienze passate18. E che possa esserlo è dovuto proprio al
fatto che non è né completa, né immutabile. È come un simbolo vivente, abbreviato e stilizzato come l'immagine
pittorica, ma più plastico: una potenzialità di collegamenti, sviluppi e riconfigurazioni, che ridiviene attuale
nell'anamnesi.
E anche questo è molto chiaro dal punto di vista neurologico. Non posso più dilungarmi, ma il processo di
memorizzazione è scandito non in due – come nel modello storage and recovery –, bensì in tre momenti: vi è la
tracciatura a breve termine, che in alcuni casi si consolida in una memoria a lungo termine. Ma ogni volta che
quella memoria viene riattivata comincia la fase di cosiddetto riconsolidamento, che riporta il ricordo nella prima
fase di tracciatura a breve termine. Tant'è che se si inibisce questa fase, per esempio con farmaci o con
l'elettroshock, può andare perso quasi tutto il ricordo, anche quello prima già consolidato19!
Vi è dunque un oblio dell'ipomnesi, che consiste nel suo dover divenire latente, ma vi è anche un oblio
dell'anamnesi, che consiste nel fatto che il ritrovamento della traccia è la sua rinarrazione e riscrittura. Di fatto,
rammemorare significa dimenticare la traccia così come fu impressa e reimmaginarla, rinnovandola.
La dinamica che ci troviamo così di fronte non è per nulla semplice e unidirezionale. In estrema sintesi
possiamo infatti dire 1) che senza l'anamnesi la memoria non si realizza, ma l'anamnesi non si dà senza ipomnesi.
Vale a dire che, se condizione essenziale per definire la memoria è la possibilità dell'anamnesi, la condizione di
possibilità dell'anamnesi è l'ipomnesi. E tuttavia 2) in qualche modo vale anche l'inverso, poiché l'ipomnesi stessa
è quasi sempre frutto di anamnesi: anche un'esperienza nuova, infatti, e non solo un ricordo già ricordato, la
viviamo a partire da tutto il nostro patrimonio di memorie latenti, che riattiviamo nell'esperirla.
E proprio per questo si dà, come pure accennavamo, vitalità dell'ipomnesi anche nel suo permanere latente.
Poiché, proprio come il simbolo non rimanda ad un unico oggetto, così una qualunque traccia non rimanda ad un
unico ricordo, ma contribuisce ad ogni nuova narrazione entro cui può essere pertinente e ne viene modificata
anche se l'esperienza presente non riguarda affatto l'evento della sua tracciatura. In un processo molto simile a
Nel suo bel libro, che insieme al modello informatico rifiuta anche la concezione passiva dell'oblio, Daniel Schacter elenca i
sette presunti “peccati” della memoria umana, vale a dire quelli che la renderebbero difettosa in paragone alle memorie
informatiche, sostenendo che in effetti sono virtù, sia dal punto di vista cognitivo, che decisionale (Schacter 2001, passim).
17 Cfr. Squire 1991, pp. 240 ss., ma vedi anche Ansermet 2008 e Edelman 1987.
18 Vedi Kandel 2010, pp. 286 s.: “Richiamare episodicamente un ricordo – indipendentemente dalla sua importanza – non
equivale però a sfogliare le fotografie di un album. Il richiamo della memoria è un processo creativo. Si ritiene che quanto il
cervello immagazzina sia soltanto un nucleo di memoria. Con il richiamo, questo nucleo viene poi elaborato e ricostruito, con
sottrazioni, aggiunte, modificazioni e distorsioni”.
19 Si veda Oliverio 2013, pp. 178 ss., 223 ss. A pp. 226 s. una sintesi molto pregnante: “la memoria a lungo termine non è un
processo che implica una fissazione definitiva del ricordo ma un processo dinamico che deve essere continuamente rinnovato.
[…] in sostanza, la memoria dipende da un continuo dinamismo, da un perdurante processo di riconsolidamento che se da un
lato può renderla modificabile, dall'altro ne assicura la permanenza”.
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quello dell'immaginazione fantastica: così come facciamo con la chimera (e nei sogni), riassembliamo pezzi sparsi,
che possono provenire da esperienze anche molto diverse, in nuove unità narrative.
E in tutto questo processo per molti versi circolare tra ipomnesi e anamnesi l'oblio è un momento costitutivo,
non è il contrario della memoria, ma una sua condizione e una sua modalità. Condizione, come l'oblio che
appartiene alla latenza dell'ipomnesi, modalità come l'oblio attivo, propriamente creativo e immaginativo che
appartiene all'anamnesi. In quella che è una vera e propria simbiosi tra memoria e oblio.
Vi è però almeno un'altra dimensione che dobbiamo tenere in conto, per quanto brevemente, dimensione che
è più vicina alla semplice perdita di dati. Come abbiamo detto, la polarizzazione della memoria non esaurisce il
movimento proprio al fenomeno mnemonico. Tra la tracciatura e la sua rinarrazione anamnestica, infatti, vi è il
perdurare latente dell'ipomnesi, che pure abbiamo detto essere plastico. Ma in questa plasticità, che è la vita
inconscia dell'ipomnesi, e nelle sue condizioni biologiche che ne comportano la sensibilità a processi
extramnemonici, riposa anche la possibilità della piena cancellazione della traccia o almeno del suo divenire
oramai irrintracciabile. Non più latenza, ma vera e propria assenza.
Qualcosa che appare integralmente negativo a partire dalla metafora granaio dello hard disk, ma che
nell'uomo assume una dimensione di pura negatività solo quando la perdita sia sistemica e quindi patologica,
come per esempio nelle amnesie, che abbiamo già accennato essere le uniche forme di oblio categorizzate
(retrograde e anterograde, parziali, provvisorie etc.). Per lo più, invece, come fenomeno normale che capita
continuamente a tutti noi, anche questo oblio in perdita secca contribuisce alla libertà della narrazione: quando
mancano solo alcuni nodi, infatti, essi di regola vengono riempiti, ossia ricostruiti, ridedotti e almeno in parte
reinventati (Schacter 1995 e Wade 2002). Ed è facile vedere, che un territorio mnemonico, con tutte le esperienze,
le immagini e le conoscenze che tiene in sé, lo si può rimappare anche perdendosi saltuariamente in esso, vale a
dire obliandone alcune tappe e coordinate.
LA MEMORIA VIVENTE
Da tutto quel che precede non voglio trarre un elenco di conclusioni, le conclusioni si sono già tratte da sé e
sono evidenti: nel modello granaio dell'hard disk sopravvive di certo un'antica metafora, in sostanza sepolcrale,
una metafora che però ci è parsa del tutto insufficiente a rendere conto della nostra memoria, giacché in essa quel
che dal punto di vista della macchina è solo deficienza diviene un'insostituibile occasione di rinnovamento. Mi
limiterei dunque, proprio nel segno del rinnovamento, a proporre un'altra metafora, sempre di origine religiosa,
ma questa volta è a Demetra e Persefone che dobbiamo pensare: di nuovo una discesa all'Ade e un sotterramento,
non però di una riserva di grano, ma di un solo chicco. Del seme20.
E su questa dimensione biologica, sul rimembrare come rigenerare, voglio chiudere citando un passo del Simposio
di Platone (208a): «Ancor più strano è che anche le conoscenze, non solo alcune nascono e altre muoiono in noi, e
quindi noi non siamo mai gli stessi neppure rispetto alle conoscenze, ma addirittura a ciascuna delle conoscenze,
singolarmente, capita la stessa cosa. Infatti, quel che si chiama studiare esiste perché una conoscenza se ne va: la
dimenticanza è il ritirarsi di una conoscenza, mentre lo studio, instillando al contrario un nuovo ricordo al posto
di quello che si è ritirato, salva la conoscenza, tanto che sembra sia sempre la stessa. E questo è il modo in cui si
salva tutto ciò che è mortale: non rimanendo sempre completamente identico, come il divino, ma perché ciò che si
ritira e invecchia lascia dietro di sé qualcos'altro di giovane, simile a come esso stesso era».
20 Confesso di non essermi stupito più di tanto nel ritrovare questo stesso termine, il “seme”, benché con intenzioni
certamente diverse, ancora in Derrida, in una pagina che avevo felicemente dimenticato prima di scrivere queste righe e che ho
ritrovato a giochi fatti, durante la revisione del saggio: “La conclusione del Fedro, più che una condanna della scrittura in nome
della parola presente, è la preferenza per una scrittura piuttosto che per un'altra, per una traccia feconda piuttosto che per una
traccia sterile, per un seme generatore...” (Derrida 2007, p. 146). Preferenza, quella platonica, che ovviamente condivido del
tutto. Rimane però notevole come anche nelle contrapposizioni più nette, il pensiero filosofico istituisca risonanze e affinità, così
come per converso anche nelle familiarità più intime lasci proliferare le più profonde divergenze.
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TRACCIA E SIMBOLO TRA MEMORIA E OBLIO
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