Un racconto di intenso horror psicologico, che mi è molto piaciuto,
anche perché il lettore è libero di interpretare come vuole l'intera
vicenda: sono deliri e allucinazioni della donna protagonista?
Oppure, la casa è realmente infestata?
In una storia horror che evoca agghiaccianti memorie sia di "The
Haunting of Hill House", capolavoro di Shirley Jackson, sia "La carta
gialla", classico in cui Charlotte Perkins Gilman descrive la discesa
di una donna nella spirale della follia, "Faccende di casa" ci trascina
in una escalation d'orrore insieme alla sua eroina senza nome.
Eppure, mentre la osserviamo intrappolata in una lotta sempre più
solitaria contro le insinuanti forze giunte a reclamarla, in preda ad
attacchi lascivi e ossessionata da riti purificatori, intuiamo tutta
l'impotenza di questa donna e capiamo che il suo disturbo deve
avere un'origine diversa dalle temute emanazioni malefiche
provenienti dall'edificio adiacente.
Scriveva Shirley Jackson: "L'occhio umano non può isolare l'infelice
coincidenza geografica che suggerisce la presenza del male nascosto
dietro la facciata di una casa..."
Per chi volesse approfondire dal punto di vista "sociologico" il
binomio "donna-casa": "La Mistica della Femminilità" fu uno dei
primi libri ad analizzare l'inquietudine e il disagio che era diffuso tra
le casalinghe americane anni '40-'50-'60, ovverossia come le donne
americane educate a diventare "casalinghe perfette" (sempre belle,
devote e sottomesse, ottime cuoche, interessate solo allo shopping e
perennemente intente a lucidare ogni millimetro della loro "villetta
americana", perché la Società, i loro genitori, i loro mariti, i loro
figli, i loro vicini... si aspettava questo, e solo questo, da loro)
diventassero delle alienate frustrate, autodistruttive ed infelici.
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L'ipocrisia e il marcio nascosto dietro la sceneggiata delle "famiglie
americane perfette" è stato raccontato anche in questo romanzo,
"Preda"
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e in questo, incentrato sull'abuso sessuale in famiglia
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Suggerisco anche di ascoltare questo cd: "Portrait of an American
Family", tutto dedicato all'ipocrisia e al bigottismo americano.
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Altro romanzo-capolavoro del genere "Horror psicologico" è "Dolce,
Cara Audrina", con protagonista una ragazzina vittima delle
macchinazioni e dei complotti familiari oltre che della violenza del
mondo esterno
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***
Sono qui, sola. Curtis se n'è andato la settimana scorsa, o forse
dovrei dire che è stato spinto ad andarsene. Non ho rimpianti,
tranne quello di avere aspettato così a lungo. Se devo conservare ciò
che abbiamo, questo distacco mi è necessario. Devo potermi
concentrare. Ora più che mai devo concentrare tutta la mia volontà.
Quando penso a come sono cominciate le cose, il ricordo della
nostra ingenuità mi fa ridere. Stavamo cercando casa e il nostro
agente immobiliare ci portò in un isolato dove ce n'erano due in
vendita, una di fianco all'altra. Erano state costruite insieme alla fine
del secolo, ed erano pressoché identiche.
Entrambe a due piani e rivestite in legno, con grandi finestre a
bovindo esposte a oriente.
La casa a nord era in condizioni peggiori, e quando chiesi
informazioni ad alcuni vicini mi risposero che si trovava in quello
stato da anni. Sembrava che la pittura si consumasse e il
rivestimento in legno si scheggiasse più in fretta che nella casa
gemella, così come il tratto di marciapiede antistante appariva
solcato da crepe e invaso dalle erbacce.
Curtis mi fece notare che, fra le due, era quella nettamente più a
buon mercato, e con la differenza di prezzo non sarebbe stato un
problema riparare le carenze strutturali e risistemare la facciata. Gli
ricordai che, in qualità di assistente alla facoltà di leggere classiche,
percepivo un consistente stipendio; sottoporci al calvario di
un'opera di ristrutturazione mi sembrava assurdo e inutile, vista la
disponibilità della casa accanto, imbiancata di fresco, pulita e pronta
ad accogliere nuovi inquilini.
Senza contare che avevo già avvertito un senso di antipatia istintiva
e, per quanto vaga, la cosa era bastata a dissuadermi.
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Curtis protestò, sostenendo che la mia decisione era basata su
considerazioni superstiziose, illazione cui non mi degnai di
rispondere.
Poco dopo comprammo la casa che preferivo.
Giunta a quel punto, posso supporre che nessuno di noi avesse
ragione e che in assoluto avremmo fatto meglio a tenerci alla larga
dalla zona.
La casa accanto esercita un'influenza negativa su tutto il vicinato,
sulla nostra in particolare. I suoi muri confinano con i nostri, un
contatto intimo cui è impossibile sottrarsi. Come due gemelli
siamesi, condividiamo un unico apparato circolatorio e gli invisibili
percorsi di topi e formiche; la nostra prossimità offre riparo a termiti
e scarafaggi. Non che mi trastulli con queste fantasie, poiché spesso
mi sono trovata davanti alle zampe mozzate e alle smorfie di agonia
dei topi caduti nelle nostre trappole.
Certi giorni sedevo per ore alla mia scrivania, in attesa di qualche
invasione, in altri ero addirittura certa che l'incessante sgocciolio
nelle tubature non fosse che il prodromo di una vile e perniciosa
ondata di liquami in procinto di abbattersi su di noi dalla casa
accanto.
Nel periodo delle piogge, l'anno scorso, cominciai a notare alcune
scie luccicanti e sottili sulla moquette della stanza di nostra figlia.
Quando, una notte, fui svegliata dal suo pianto ed entrai in camera,
i miei piedi sfiorarono qualcosa di freddo e carnoso.
Mi sentii soffocare dal ribrezzo e in quel preciso istante scorsi due
lucidi occhi spiarmi attraverso le sbarre della culla.
Tastai freneticamente il muro in cerca dell'interruttore, in preda a
mostruose fantasie.
Quando finalmente riuscii ad accendere la luce ricacciando indietro
la notte, mi accorsi subito di quanto in là si fosse spinta la mia
immaginazione.
Mia figlia era nella culla: si era già addormentata.
Accanto a lei l'orsacchiotto di peluche con i suoi occhietti brillanti, e
sul pavimento due macchie scure.
Le toccai, rabbrividendo di disgusto. Lumache.
Appiccicata sotto il piede, nella sua bava verdastra, il brandello di
una terza.
Riuscii ad arrivare in bagno, dove vomitai, mi spogliai e mi lavai con
sapone e acqua calda.
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Nelle settimane immediatamente successive sognai spesso di lottare
con creature mutilate dalle cui carni trafitte stillavano gocce di
umori. Battaglie da cui non uscivo mai del tutto sconfitta, ma
nemmeno vittoriosa, e che duravano sempre l'eternità degli incubi.
Curtis mi suggerì allora di agire alla fonte dei sogni, intendendo così compresi io - che dovevo disinfestare la camera di nostra figlia
da quelle lumache. Accettai il consiglio e sigillai un grosso pertugio
che avevo trovato alla base del muro, nel punto in cui avrebbe
dovuto unirsi perpendicolarmente al pavimento.
Era una parete rivolta a nord, e mentre la stuccavo sentii che la
spaccatura si sarebbe riaperta, essendo frutto della pressione
esercitata dalla casa accanto.
In quel momento mi resi conto che la casa si affacciava sulla stanza
di Tanya - vale a dire sul membro più vulnerabile della famiglia - ma
scacciai istantaneamente il pensiero.
I sogni mi avevano turbata e mi stavo sforzando di ragionare con la
mente di un uomo come Curtis, uno convinto che gli incubi si
possano fermare tappando un buco.
Mio marito è tanto pragmatico quanto determinato.
Il classico uomo cui una donna può aggrapparsi se non riesce più a
fidarsi di se stessa.
Verso metà marzo ci dedicammo alla semina del giardino, e quando
nel giro di poche settimane la lattuga forò il terreno venendo alla
luce, inaugurammo le nostre incursioni notturne contro chiocciole e
lumache. Armati di torce e badile, Curtis e io ci aggiravamo
schiacciando le viscide creature. Non era mai un compito gradevole,
ma con l'aumentare del numero delle vittime - centinaia - il senso di
nausea iniziò a placarsi. Nel giro di breve tempo, gli incubi
cessarono.
A metà maggio Tanya compì tre anni. Esuberante e chiacchierona,
era una bimba deliziosa e vivace, ansiosa di misurarsi con i limiti,
sempre in cerca di una maniera per rovesciare il mondo intero.
Nonostante le erbacce e gli intricati cespugli di more che
traboccavano dalla proprietà accanto, il giardino fioriva rigoglioso.
Accettai un incarico estivo da parte dell'università, comprensivo di
sistemazione e cura della piccola Tanya, e in quel modo riuscii a
starmene lontana dalla casa.
Devo dire che, mentre giugno si avvicinava, mi sentivo benone.
Rinfrancata dalle mie nuove responsabilità, da una figlia che
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percorreva il corridoio dell'infanzia ridendo e mostrando grande
energia, da un marito che finalmente cominciava a trovare qualche
soddisfazione sul lavoro, anch'io mi sentivo allegra e di buon umore.
Riacquistai fiducia in me stessa e nella mia capacità di superare gli
ostacoli, e come primo passo decisi di misurarmi con la casa
accanto.
Inizialmente le permisi di restare dov'era, usando la mia volontà
solo per trasformarla in un'entità priva di importanza. Quando ogni
mattina le passavo davanti sfocavo deliberatamente la visione,
immaginando la casa come qualcosa di ancora più inconsistente di
una nuvola, di meno reale di un sogno. Trasformavo il tetto nel
dorso piumato di un piccolo uccello, le assi di rivestimento nella sua
morbida pancia, e quando tirava vento non era poi così difficile
fingere che l'intero edificio avesse spiccato il volo.
In seguito misi a punto una tecnica ancora più potente. Fusi
mentalmente un muro con un altro, eliminando il normale effetto di
prospettiva. Smembrai tutto ciò che era solido, fondendo ogni
geometria complessa in forme e dimensioni elementari. A poco a
poco la casa si ridusse in un unico piano composto da due linee che
si intersecavano. Quindi le fusi in una sola, e rimpicciolii
quest'ultima fino a restringerla in un punto. Lottai con quel punto
per circa una settimana, prima di riuscire, con uno sforzo immane, a
farlo sparire.
La casa non c'era più. Avevo eliminato il mio nemico numero uno.
Adesso, passando lì davanti, non vedevo nulla, non notavo
nemmeno un'assenza.
Finalmente mi sentivo al sicuro dalle aggressioni che, fino a qualche
tempo prima, mi avevano gettato nel panico, facendomi persino
dubitare della mia salute mentale.
E finalmente tornai a pensare alla mia casa provando solo un gran
senso di sollievo.
Nonostante la felicità di quell'estate, sapevo che mi restava ancora
qualcosa da dare. Libera da quelle innaturali preoccupazioni
interiori, giurai a me stessa di mostrare a Curtis tutto l'amore di cui
mi sapevo capace.
Cominciai prestando maggiori attenzioni al nostro appartamento:
dopo il lavoro mi dedicavo alle pulizie e mi sforzavo di tenerlo in
ordine. Inaugurai un programma d'igiene quotidiana dei bagni e
della cucina, mentre ogni due o tre giorni passavo l'aspirapolvere sui
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tappeti delle altre stanze.
Piatti e bicchieri sporchi, da sempre fonte di fastidio, si
trasformavano addirittura in prove tangibili della mia inefficienza.
Le esigenze del lavoro, di una figlia, della vita coniugale e il nuovo
regime in cui mi ero imbarcata mi intrappolavano in una specie di
ritardo incolmabile.
Urgeva un cambiamento, e dopo settimane di tormentata riflessione
decisi: uscii e, con i soldi messi da parte per le vacanze, andai a
comprare una lavastoviglie.
Naturalmente mi dispiaceva dover fare a meno della vacanza, ma la
delusione fu largamente ricompensata da altre soddisfazioni: i
bicchieri erano finalmente lucenti, i ripiani sgombri e io avevo di
nuovo in pugno la situazione.
Dopo qualche settimana di questa routine cominciai a notare
particolari della casa che prima di allora non mi erano mai saltati
all'occhio. Un esempio: sebbene a nord e a sud fossimo contigui ad
altri edifici, e le nostre finestre fossero dunque esposte solo a est e
ovest, in tutte le stanze la luce indugiava chiaramente sulle pareti a
meridione.
Non intendo la luce naturale, che in autunno avanzato e in
inverno - quando il sole è a sud - batte verso nord, bensì una strana
sorta di radiosità, l'intrinseca luminosità dell'aria stessa.
Sembrava quasi che ci fosse un bagliore, un incantesimo che
avvolgeva le pareti australi, e non riuscivo a trovare una spiegazione
imputabile e una differenza nella qualità d'intonaco o nel colore di
vernice usati.
Di contro, il lato settentrionale dei locali sembrava in eterna
penombra, quasi fosse schermato da una sostanza capace di
assorbire tutta la luce, intrappolandola nell'oscurità. Il fatto era
tanto evidente di mattina quanto di pomeriggio. Poi, con una certa
costernazione, scoprii che lo stesso accadeva di sera, quando le
stanze erano illuminate artificialmente.
Tolsi i quadri e i manifesti dalle pareti oscurate e trasferii quanto
più mi fu possibile sui muri a sud.
Per alcuni giorni spostai e rispostai mentalmente tutti i mobili,
cercando di farli stare al di qua del confine d'ombra che opprimeva
il lato nord della casa.
Alla fine decisi di mantenere una distanza di alcune decine di
centimetri dalle pareti interessate, distribuendo l'arredamento in
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un'area adeguatamente illuminata e che al contempo rispettasse la
simmetria delle stanze.
La nuova sistemazione lasciò Curtis un po' dubbioso, ma alla fine
accettò di fare almeno un tentativo, restituendomi sicurezza in me
stessa e fiducia nella nostra relazione.
Ricordo che in quel momento fui percorsa da un'ondata di
gratitudine, e decisi di festeggiare con qualcosa di speciale.
Il giorno seguente, dopo aver lasciato Tanya al centro di babysitting
diurno, andai a far compere.
Avevo in mente un paio di pantaloni che Curtis aveva recentemente
mostrato di apprezzare indosso a una comune amica. Li trovai
esposti nella vetrina di un negozio del centro, e quando la
commessa mi ebbe assicurato che non erano stati provati da
nessun'altra cliente, entrai nel camerino e li indossai.
Erano rosa e di taglio aderente, mi fasciavano come una seconda
pelle e per chiuderli dovetti trattenere il respiro.
Davanti allo specchio rimasi esterrefatta dalla trasformazione: era
come se il tessuto fosse impregnato di una vitalità propria.
Timida, la commessa non disse nulla, anche se sono certa che
sapesse. Sull'autobus che mi riportava a casa mi strinsi i pantaloni in
grembo, in preda a una crescente eccitazione.
Riuscii a mettere Tanya a letto presto, quindi ripassai la casa
pulendo e riordinando.
C'erano dei quadri che mi sembravano leggermente storti, e mentre
li raddrizzavo notai che le finestre avevano bisogno di essere lavate.
Decisi di farlo il giorno successivo, andai in bagno e aprii l'acqua
della vasca.
Nell'attesa che si riempisse, mi infilai l'accappatoio e controllai la
camere da letto, raccogliendo i batuffoli di polvere che si erano
accumulati durante la giornata.
In genere non amo fare il bagno, ma prima dell'atto sessuale mi pare
una cosa appropriata. Il contatto con l'acqua, trasparente e informe,
in un certo senso mi prepara per ciò che deve venire.
Questa volta, però, l'acqua non mi parve esattamente pulita.
Sulla sua superficie individuai alcune tracce oleose e qualche capello
che galleggiava, mentre al di sotto di essi sentii agitarsi correnti
malsane.
Ebbi la chiara percezione che immergendomi sarei stata ricoperta
da uno strato di sporcizia e di colpo mi raddrizzai, tolsi il tappo e
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rimasi a controllare che l'acqua defluisse completamente dallo
scarico. Solo quando fu perfettamente vuota osai rimettere piede
nella vasca e aprii i rubinetti della doccia. Mi sentii istantaneamente
sollevata da quel fardello di sporco, e presi a sfregare con vigore,
fino ad arrossarmi la pelle.
Una volta asciutta andai in camera per vestirmi. I pantaloni erano
ripiegati sul letto. Lanciai loro diverse occhiate, frivola ed eccitata.
Poi li infilai, sigillando con cura la chiusura lampo contro la pancia e
lisciando il tessuto lungo le cosce. Estrassi dall'armadio lo specchio
grande, lo appoggiai alla parete e arretrai di un passo.
Alle mie spalle colsi un guizzo. Mi girai di scatto, ma non in tempo
per vedere che cos'era.
Tornai all'immagine di fronte a me, incapace di staccare gli occhi dai
pantaloni. Il rosa si era scurito in un rosso porpora, e ciò che in un
primo momento mi era parso attraente, ora sembrava osceno.
Qualcosa guizzò di nuovo sullo sfondo, e quando mi voltai credetti
di scorgere per un attimo una sagoma serpentina, che sparì prima
che potessi individuarne la provenienza.
In camera da letto era calata la penombra, così accesi una lampada.
Adesso i pantaloni apparivano di un rosso ancora più scuro, e sulla
superficie del tessuto mi sembrava di intravedere minuscoli peli.
Un secondo dopo i peli presero a pulsare al ritmo del mio cuore.
Mi chiesi se non si trattava di un semplice gioco di luci, tuttavia,
benché la lampada fosse accesa, la stanza sembrava farsi
inesorabilmente più buia e l'aria viziata; ben presto mi ritrovai a
inspirare affannosamente.
Nello specchio la mia faccia si faceva via via più indistinta, i singoli
lineamenti prosciugati della loro vitalità da una tenebra di cui
ancora dovevo scoprire l'origine.
L'oscurità crebbe fino a che nella stanza tutto parve sul punto di
svanire nel nulla.
Mi separai a forza dallo specchio, in cerca di una via di fuga
dall'opacità della camera e dei suoi muri opprimenti. Ma il buio
regnava ormai ovunque, e all'improvviso ne compresi la fonte.
Avevo appoggiato lo specchio contro la parete nord, creando
inavvertitamente una finestra attraverso cui la minaccia proveniente
dalla casa accanto trovava libero accesso.
Distratta dai pantaloni, avevo dimenticato, ed ero ora in grave
pericolo.
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Mi sforzai di ridere, ma ciò che echeggiò nella stanza fu piuttosto un
grido di panico.
Animali notturni se ne stavano in agguato negli angoli, e cominciai
ad avvertire la presenza di dita filiformi che mi sfioravano le carni.
Il tessuto che indossavo sulla pelle era vivo, i peli baluginavano nel
buio; sopraffatta dal terrore, balzai verso lo specchio - il ponte di
collegamento - colpendolo con il tacco di una scarpa che mi ero
levata.
Vi fu un sibilo, un istante di pura violenza, quindi il vetro
scricchiolò e andò in frantumi. Schegge di occhi volarono nell'aria,
ricomponendosi in pericolosi mosaici sul pavimento. La stanza
parve per un attimo schiarirsi, ma poi l'oscurità si fece totale e io
stramazzai a terra.
Gran parte di ciò che accadde dopo l'ho dimenticato, tranne che
quanto Curtis arrivò a casa avevo ormai già eliminato i cocci dello
specchio, così come la cornice. Indossavo un altro paio di pantaloni,
e ancora adesso non sono certa di che fine fecero quelli rosa.
Cercai di spiegare quanto era successo, ma le mie parole suonavano
incoerenti: intere parti di quel pomeriggio erano in quale modo
svanite dalla mia memoria.
Mi sentivo lucida e per nulla imbarazzata.
Curtis era di cattivo umore per via della giornata di lavoro, e alla
fine non fu difficile dimenticare l'accaduto.
Consumammo una cena veloce e andammo a letto presto.
Quella notte, gli incubi ricominciarono.
Nel corso delle settimane successive la situazione domestica andò
deteriorandosi. Il lavoro di Curtis si fece sempre più pressante, e
spesso mi capitava di cenare da sola.
Tanya reagì con un maggiore attaccamento nei miei confronti,
sebbene non possa affermare con certezza che ciò dipendesse da
altre crescenti tensioni piuttosto che dall'assenza di Curtis. In ogni
caso, quella sua nuova insicurezza arrivò in un periodo in cui avevo
poche energie extra da dedicarle.
Ero troppo impegnata nella mia battaglia personale.
Poco dopo l'episodio dello specchio rinunciai al lavoro estivo per
l'università.
Concentrarmi anche solo su piccolezze era uno sforzo troppo
grande, ora che in gioco c'era la sicurezza della mia casa e della mia
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stessa famiglia. Decisi di fare tutto quanto era necessario per
eliminare la minaccia.
Non appena comincia a trascorrere più tempo in casa, mi resi conto
di quanto tempestiva era stata la mia risoluzione.
Ogni giorni si verificavano nuove intrusioni da parte dell'edificio
accanto, e dovevo fare del mio meglio per neutralizzarle.
Dopo aver eliminato tutti gli specchi e i vetri che producevano
effetti di riflessione, sfregai energicamente le pareti con l'aiuto di
detersivi. Anche così, però, restavano aree scolorite e spaccature
attraverso cui, anche nei giorni meno ventosi, filtravano spifferi
gelidi.
Per terra, i tappeti apparivano in molte zone innaturalmente
usurati, e la cucitura sul bordo di uno di essi aveva inspiegabilmente
ceduto. Polvere e sporcizia sembravano accumularsi ancora più
velocemente, e dovetti cominciare a passare l'aspirapolvere due
volte al giorno.
Credo fosse ormai ottobre. Poi, due settimane fa, è arrivato l'odore.
è partito dal seminterrato, ma nel giro di un paio di giorni ha
impregnato tutta la casa.
Sulle prime ho pensato a un'ostruzione particolarmente voluminosa
in uno dei tubi di scarico, ma i servizi igienici e i lavandini della casa
funzionavano perfettamente.
Allora mi sono detta che forse si era rotta una fossa settica, un
modello di nuova invenzione, probabilmente per colpa di qualche
roditore.
Supposizione assurda, ma all'epoca ero ancora disposta a credere
qualunque cosa pur di ingannarmi, anche se in realtà immagino di
aver sempre saputo.
Il puzzo era costante, sebbene l'area colpita variasse di volta in
volta.
Nella nostra camera da letto aleggiava una sorta di enorme nuvola
solforosa, indescrivibilmente ributtante, e non potevo metterci
piede senza che le convulsioni mi attanagliassero lo stomaco.
In sala, un odore acre indugiava invece lungo il perimetro della
stanza e prima di assalirmi aspettava che mi fossi comodamente
sistemata.
Al piano inferiore della casa l'aria era fetida e umida, un terreno di
coltura ideale per muffe e funghi maleodoranti.
Il tanfo non diminuiva nemmeno di notte, mi aggrediva e inquinava
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l'atmosfera. Ma questa volta non avevo più dubbi circa la sua
origine, e la grinta con cui ho preparato il nuovo attacco è stata una
specie di prova cruciale della mia determinazione: ho raddoppiato le
operazioni di pulizia quotidiana, quindi le ho quadruplicate.
I pavimenti puliti non bastavano più; anche le pareti andavano
lavate, così come i soffitti, gli armadi e le finestre. Ho comprato
deodoranti per ogni stanza, e ogni giorno ho irrorato ripetutamente
la casa con gli spray più intensi.
Ho cominciato anche a cambiarmi spesso i vestiti, impedendo ai
tessuti di impregnarsi di odore, e io stessa mi lavavo una volta al
mattino, una al pomeriggio e una alla sera. La mia risolutezza ha
dato i suoi risultati, perché alla fine sono riuscita a eliminare il
tanfo, sebbene il successo dipendesse solo dalla mia costante e
severa vigilanza. Consideravo quegli sforzi un prezzo più che
accettabile, e in breve ho sentito rinascere la speranza: stavo
riconquistando il mio potere, e presto la situazione sarebbe stata
sotto controllo.
La sola prospettiva bastava a farmi sentire meglio, e per qualche
giorno ho addirittura creduto di avere risolto il problema. Col senno
di poi mi rendo contro di quanto la speranza fosse più debole della
realtà delle cose, ma certo non mi si può biasimare per aver
desiderato un po' di respiro dallo strazio di quei giorni.
Non solo stavo combattendo la battaglia per la nostra casa, ma
anche con Tanya e Curtis i conflitti si facevano più pesanti e
frequenti.
Nessuno sembrava condividere le mie preoccupazioni. Al contrario,
entrambi parevano ritirarsi da me, isolandomi sempre più, e questo
proprio nel momento in cui avevo maggior bisogno di sostegno.
Sulle prime ho cercato di essere comprensiva, ho pensato che Curtis
era sotto pressione per via del lavoro e non poteva farsi carico di
altri problemi,
E Tanya era solo una bimba: come potevo ritenerla responsabile del
deterioramento della situazione?
Tuttavia, la mia diffidenza ha continuato a crescere, e in un gesto
quasi disperato ho deciso di affrontarli in maniera diretta, a partire
da mia figlia.
Un giorno, invece di consegnarla alla baby sitter, l'ho tenuta a casa e
l'ho obbligata a stare in piedi contro la parete nord della sua
cameretta. La mattina non avevo passato la spray e ho aspettato che
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il tanfo aumentasse fino a diventare insopportabile. Poi le ho chiesto
se sentiva il cattivo odore.
Ha scosso la testa, un'espressione di falsa innocenza dipinta in viso.
"Non mi dire bugie", ho detto, afferrandola e premendole il naso
contro il muro. "Annusa"
Allora è scoppiata in un pianto deliberato, e io le ho dato uno
schiaffo.
Lei ha gridato più forte, io non ho retto e sono uscita di corsa dalla
stanza. Quella sera Curtis mi ha detto che sono malata.
Immagino che avrei dovuto aspettarmelo, vista la sfiducia con cui
ormai sembravamo trattarci a vicenda, ma lo stesso ne sono rimasta
colpita come da un'allusione maligna, crudele e fuori luogo.
Lui si era dato da fare quanto me, lottando senza tregua per
conservare un'apparenza di ordine domestico; avrei potuto liquidare
il suo commento come qualcosa di rude ma inevitabile.
Invece non è stato così, e naturalmente alla fine ha sortito l'effetto
desiderato e siamo passati dalla lotta verbale a quella fisica, in un
crescendo di violenza.
Sono volati colpi energici, e in un lampo ho riconosciuto in lui il
vero volto del nemico.
Piangendo, strappandomi le unghie, l'ho trascinato fuori e lontano
dalla casa.
Ma questo accadeva giorni fa. Adesso sono qui, sola. Certe volte mi
sembra che Tanya sia con me, altre no. Nel suo lettino c'è una
sagoma che si muove appena. Forse sta cercando di parlare. Di notte
emette un leggero bagliore... Di fatto, è l'unica fonte di luce in
questa ombra sempre più scura. Le porto da mangiare e i resti li
tengo per me. è diventata una brava bambina, ha anche smesso di
piangere. Forse sono stati i vermi, a insegnarlo alla sua lingua.
La casa accanto è tornata, e ora capisco quanto poco profonda sia
stata la mia intuizione. Legno, intonaco, chiodi, vetro: nulla di tutto
ciò costituisce una vera minaccia per me.
Né la casa in se stessa, che in verità è solo un agente. Ciò che mi è
ostile è il regno da cui è nata, il suo passato, presente e futuro.
La cosa viva sta nella terra, nei semi deformati dell'erba e delle
piante, ramifica e allunga le sue radici contro di me, maligni virgulti
che come lombrichi scavano nel suolo per penetrare le mie pareti e
contaminarmi.
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Ho oscurato le finestre con fogli di linoleum. Cerco di tenera la mia
casa pulita.
Ieri ho escogitato un modo per sconfiggere gli odori. Con i
fiammiferi lunghi che Curtis tiene vicino al caminetto mi sono
cauterizzata le narici.
Ho provato una breve fitta di dolore, ma adesso sono immune da
qualunque sfida olfattiva.
La mia determinazione aumenta.
Ogni giorno divento più potente.
Stamattina ho ritrovato i pantaloni rosa. Erano nell'armadio, sotto le
lenzuola sporche. Il colore è stranamente sbiadito, lungo le gambe
corrono delle scie traslucide e sulle cuciture le macchie di muffa
disegnano chiari arabeschi.
Un barlume di intuizione. Li infilo, stringendomeli in vita. Spengo
tutte le luci. Il tessuto aderisce come una tela di ragno alla mia pelle,
mentre mi stendo nell'armadio. In una tenebra tenace come la mia
determinazione strappo gli ultimi vestiti di Curtis dagli appendini e
mi adagio in mezzo a essi senza paura.
Così sistemata - un richiamo, ormai, un'esca - mi offrirò in sacrificio.
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