LUISS Guido Carli
PREMIO TESI D’ECCELLENZA
La responsabilità penale
dell’équipe medica:
criticità e prospettive
Emanuele Birritteri
2
2015-2016
LUISS Guido Carli / Premio tesi d’eccellenza
Working paper n. 2/2015‐2016
Publication date: November 2017
La responsabilità penale dell’équipe medica:
criticità e prospettive
© 2017 Emanuele Birritteri
ISBN 978‐88‐6856‐112‐3
This working paper is distributed for purposes of comment and discussion only. It may not be reproduced
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Leonardo Morlino (chair)
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Daniele Gallo
Nicola Lupo
Stefano Manzocchi
Giuseppe Melis
Marcello Messori
Gianfranco Pellegrino
Giovanni Piccirilli
Arlo Poletti
Andrea Prencipe
Pietro Reichlin
La responsabilità penale dell’équipe medica:
criticità e prospettive
Emanuele Birritteri
The essay discusses the issue of the criminal liability of the members of the healthcare team under
the different views proposed by the scholars.
As a matter of fact, if a patient is harmed as a consequence of the healthcare practice carried out by
a medical team it is of the essence to verify under what conditions – and within which limits – a
health care professional can be held criminally liable for the breach of a precautionary rule’s
incurred by a team mate.
Beyond the right to health’s protection, guaranteed by the Italian Constitution, and the causal link
between the conduct and the injury caused to the patient, it must be taken into consideration
whether the “principle of trust” can apply to the criminal liability in order to limit the exposure of
health care professionals for errors committed by team mates.
The aim of this study is shed light on to the interpretative options that can better harmonize the
interests of patients – whose protection is always a priority – and medical professionals - whose
criminal liability must be recognized only for their individual negligence, in accordance with the
principles laid down in the article 27 of the Italian Constitution.
Il presente lavoro rappresenta un estratto della tesi di laurea discussa presso la Luiss Guido Carli il 13 luglio
2016. Il testo completo dell’elaborato può essere consultato sulla piattaforma online LUISSThesis
(http://tesi.eprints.luiss.it/16935/).
1. Introduzione
L’elaborato ha ad oggetto l’analisi delle diverse (e complesse) questioni giuridiche che, più o meno
direttamente, possono venire in rilievo allorché si debba discutere della responsabilità dei soggetti
intervenuti a vario titolo nel corso di un trattamento sanitario da cui siano derivate lesioni o la morte
di un paziente. L’analisi è stata articolata in tre sezioni ciascuna dedicata ad altrettante tipologie di
“rapporti”: il rapporto tra il medico ed il paziente; il rapporto tra il medico e la scienza e, infine, il
rapporto tra gli stessi medici.
Nella prima sezione si da atto dell’impianto costituzionale che, da un lato, interessa il medico
come singolo e conseguentemente come compartecipe del lavoro d’équipe; dall’altro, quale
soggetto deputato alla tutela del diritto alla salute del paziente.
Nelle disposizioni degli artt. 2, 13 e 32 della Nostra Costituzione, infatti, il rapporto medicopaziente è inquadrato come una vera e propria “alleanza terapeutica” in cui entrambi i soggetti,
ciascuno secondo i propri ruoli, definiscono da “pari a pari” – anche affrontando complicate scelte
di carattere bioetico – gli obiettivi e le modalità del trattamento sanitario.
Nella seconda sezione si è proceduto alla disamina della complessa trama di rapporti tra scienza
e causalità nella responsabilità professionale medica.
Lo straordinario progresso scientifico delle leggi dell’arte medica, infatti, rende estremamente
complesso il ruolo del sanitario, il cui rapporto con la scienza è in continuo divenire, dovendo
quest’ultimo aggiornarsi continuamente sulle nuove tecniche e metodologie della sua professione.
Non meno impegnativo il compito del giurista che, per accertare l’esistenza del nesso di
causalità tra la condotta del sanitario e l’evento lesivo cagionato al paziente, dovrà necessariamente
far riferimento alle leggi scientifiche dell’ars medica che, in ragione della continua evoluzione delle
conoscenze in tale settore, “trasportano” il dubbio che il progresso instilla nella scienza nel campo
dell’elemento oggettivo del reato, dando luogo ad una cronica “incertezza” della causalità nella
responsabilità professionale sanitaria.
Definite le questioni di carattere generale, nella terza sezione si sono analizzate le diverse
problematiche connesse all’accertamento della responsabilità dei vari sanitari partecipanti al
trattamento sanitario plurisoggettivo, con l’obiettivo di individuare criteri in grado di meglio
determinare l’ampiezza ed i limiti delle singole responsabilità nell’ambito della prestazione medica
collettiva.
Rispetto a quest’ultima analisi, in particolare, è necessario contemperare due esigenze per certi
versi contrapposte.
Da un lato l’interesse del paziente che – anche tramite il presidio della sanzione penale a carico
di quei sanitari che cagionino per colpa delle lesioni ovvero la morte ai soggetti che hanno in cura –
vede tutelata e garantita la sua salute. Sotto quest’ultimo profilo, inoltre, quanto meno in termini
astratti, sembra altresì ravvisabile anche un più generale interesse della collettività affinché si
garantisca la prevenzione dei fatti di “malasanità” anche attraverso la minaccia di sanzioni penali
per quei medici protagonisti di errori clamorosi in danno dei propri pazienti.
2
Tuttavia, dal “lato opposto del campo” vi sono anche le esigenze e le istanze della classe
medica. Infatti, rispetto alla responsabilità professionale sanitaria, come si vedrà, emerge un quadro
normativo, giurisprudenziale e dottrinale particolarmente frammentato.
Ciò comporta un crescente disorientamento dei sanitari che, molto spesso, non sanno come
regolarsi rispetto alla gran parte delle loro attività professionali in cui il confine tra il “lecito” ed il
“penalmente rilevante” è tutt’altro che sicuro.
Si consideri, inoltre, che – in virtù di quella che può essere definita, per certi versi, una “cieca”
fiducia della collettività verso il progresso e la scienza nell’erronea convinzione che quest’ultima
possa risolvere quasi ogni patologia – si riscontra una sempre minore disponibilità dei pazienti
nell’accettare gli ineliminabili margini di insuccesso dell’intervento medico, “…tanto da ritenere
che proprio questa incapacità culturale di confrontarsi con l’eventuale esito avverso rappresenti il
fattore che maggiormente ha determinato la crescita del conflitto tra la società e i medici”1.
Sul piano processuale questo fenomeno è uno dei fattori determinanti l’abnorme aumento del
contenzioso giudiziario in materia di responsabilità professionale sanitaria che ha ormai raggiunto
dimensioni preoccupanti.
Di fronte (ed in reazione a tale situazione), del resto, nell’erogazione delle prestazioni sanitarie
ha cominciato a farsi largo il preoccupante fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, la quale si
attua quando i medici prescrivono determinati trattamenti alla scopo primario di evitare accuse, o
quando essi rifiutano determinati casi di particolare complessità nel timore di dover affrontare un
contenzioso giudiziario2.
In questo contesto lo scopo dell’indagine è stato quello di fornire non soltanto una panoramica
dello stato dell’arte in materia, alla luce delle elaborazioni della giurisprudenza e della dottrina, ma
anche quello di selezionare e segnalare quelle opzioni interpretative che, lontane da ogni
massimalismo, garantiscano, nei limiti del possibile, l’esigenza di sanzionare penalmente le
violazioni delle regole cautelari senza impedire che ciascun medico possa adempiere, in coscienza e
libertà, al suo dovere primario che è quello di tutelare la salute del paziente, nel pieno rispetto dei
principi consacrati nel giuramento di Ippocrate.
2. Profili costituzionali
La prima sezione è dedicata, come sopra accennato, all’inquadramento del tema dal punto di vista
della nostra Carta fondamentale.
Dalle disposizioni costituzionali, infatti, il rapporto medico-paziente si delinea nei termini di una
vera e propria “alleanza terapeutica”3.
1
2
3
Roiati, 2012, p. 21.
Roiati, 2012, pp. 5 ss.
Riondato, Belvedere, 2011, pp. 31 ss.; Pascucci, 2014, pp. 222 ss.
3
L’art. 32 della Costituzione, in particolare, nel prevedere che “…Nessuno può essere obbligato a
un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, sancisce il principio della
libertà di autodeterminazione terapeutica del paziente che, fuori dai casi in cui un trattamento
sanitario venga imposto per legge ed unicamente per ragioni di tutela della salute altrui, ha la più
ampia ed insindacabile libertà costituzionale di scegliere come curarsi e, persino, se farlo oppure no,
anche ove si tratti di un trattamento c.d. “salva vita”4.
Il criterio di legittimazione di ogni trattamento sanitario, quindi, è costituito dal consenso
espresso, autentico, informato ed attuale del paziente all’inizio o alla prosecuzione della terapia,
essendosi ormai da tempo abbandonata la tesi della c.d. autolegittimazione dell’attività medica
secondo cui un trattamento che rispetti le leges artis di settore sarebbe pienamente legittimo al di là
della volontà del paziente, stante la necessità di rispettare, oltre all’art. 32, anche gli artt. 2 e 13 che
sanciscono l’inviolabilità dell’individuo e della sua libertà personale5.
Ciascun sanitario componente dell’équipe, quindi, deve assicurarsi che l’informazione data al
paziente, in funzione dell’acquisizione del consenso del soggetto assistito al trattamento proposto
dal team sanitario, rispetti i canoni richiesti dal codice di deontologia medica e le caratteristiche
imposte dai propri doveri costituzionali.
Nel caso in cui tale dovere informativo venga delegato – come di regola accade nelle équipes
sanitarie – dal singolo medico ad un altro collega, sia esso o meno gerarchicamente sottordinato, il
delegante dovrà in particolare accertarsi che l’attività del delegato venga svolta correttamente, in
quanto l’eventuale erroneità o incompletezza dell’informazione fornita al paziente dal secondo
potrebbe implicare una responsabilità professionale del primo.
La norma costituzionale che, in conclusione, più di tutte interessa la tematica dei profili
penalistici del trattamento sanitario plurisoggettivo è l’art. 27 della nostra Costituzione che
stabilisce il principio della personalità della responsabilità penale6.
Molto spesso, infatti, quando si è chiamati a giudicare delle singole posizioni all’interno
dell’équipe sanitaria si ricorre a criteri sostanzialmente “oggettivi” di attribuzione della
responsabilità in capo a ciascun medico, finendo per affermare la colpevolezza di ogni singolo
componente del gruppo per il solo ed unico rilievo di aver concretamente preso parte all’attività
plurisoggettiva, prescindendo dal rigoroso accertamento, per ogni sanitario, dei presupposti di
imputazione della responsabilità sul piano oggettivo e soggettivo.
Come si vedrà, infatti, nel nostro lavoro si è sottolineato come nella casistica giurisprudenziale
si assiste, talvolta, ad una sorta di indifferenziata attribuzione di responsabilità a tutti i componenti
dell’équipe, ove la posizione del singolo – la valutazione della quale mai dovrebbe prescindere dalla
corretta individuazione della specifica condotta a lui rimproverabile sul piano individuale – si
scolora fino a scomparire in un indiscriminato accertamento collettivo, giuridicamente inaccettabile
sul piano dei valori costituzionali, prima ancora che su quello squisitamente penale.
4
5
6
Santuosso, 1996, p. 206; Fucci, 2000, pp. 123 ss.; Vallini, 2003, p. 185; Facci, 2006, pp. 1671 ss.
Morana, 2015, pp. 125 ss.; Balduzzi, Paris, 2008, p. 4945; Morana, 2008, pp. 4970 ss.; Coraggio, 2009, pp. 2890 ss.
Per un’analisi della disposizione v. Pietropolli, 2011.
4
Nel corso di tale analisi, dunque, si è cercato di individuare criteri ascrittivi di responsabilità
penale nel lavoro medico d’équipe coerenti con i principi dell’art. 27 della Costituzione e tali da
“proteggere” i professionisti sanitari da meccanismi di ascrizione della responsabilità meramente
oggettivi.
3. Il rapporto di causalità nel trattamento medico plurisoggettivo
L’accertamento del nesso di causalità nei procedimenti penali per responsabilità medica ha ad
oggetto, all’evidenza, l’individuazione della cause dell’esito infausto di un trattamento sanitario.
Si dovrà valutare, in sostanza – secondo la logica del c.d. giudizio controfattuale – se e quali
condotte dei sanitari possano classificarsi come azioni senza le quali non vi sarebbe stato l’esito
negativo dell’intervento ovvero se, nonostante tali condotte, l’evento infausto si sarebbe comunque
verificato.
Allo stesso tempo dovrà essere accertato se il personale medico avrebbe potuto e dovuto porre in
essere altre condotte, trattamenti e valutazioni terapeutiche alternative, doverose ed egualmente
idonee a scongiurare l’evento lesivo.
In questi casi vengono in considerazione modalità di agire attinenti ad una professione regolata
da leges artis di carattere tecnico-scientifico che, oltre a disciplinare le modalità operative dell’arte
medica, avranno logicamente anche un ruolo nella spiegazione causale dei fatti di reato legati
all’esercizio dell’attività sanitaria.
La corretta individuazione di queste conoscenze tecniche, nonché l’affidabilità dei risultati da
esse forniti, costituiscono uno dei temi più dibattuti nell’accertamento della causalità nella materia
della responsabilità professionale7.
Vi è, infatti, un’estrema difficoltà di tali regole scientifiche a calarsi nella realtà del diritto e del
processo penale ove si tende a ragionare in termini di certezze fattuali e processuali.
Si tratta, invero, quasi sempre di regole e conoscenze che, nella spiegazione causale di un
evento, forniscono risposte in termini meramente probabilistici che mal si conciliano con il diritto
penale sostanziale e processuale che spesso di tali probabilità non si accontenta, o meglio, non può
accontentarsi, dovendo esigere qualcosa in più.
La scienza e il diritto penale sono dunque chiamate ad un dialogo astratto e, allo stesso tempo,
concreto.
La grande incertezza della causalità in ambito medico, del resto, non è determinata soltanto dai
risultati meramente probabilistici forniti dalle leggi scientifiche utilizzate nell’accertamento del
nesso eziologico, ma anche dalla continua mutabilità di tali c.d. leggi di copertura.
Infatti, lo straordinario progresso in ambito medico comporta la sempre più frequente scoperta
di nuove leggi scientifiche idonee a spiegare i procedimenti causali che regolano i fenomeni
7
Diffusamente sul punto: Stella, 2000; Stella, 2006; Blaiotta, 2004.
5
biologici e patologici dell’essere umano, aprendo nuovi orizzonti nello studio e nella spiegazione
degli accadimenti in ambito sanitario.
Ogni nuova scoperta, tuttavia, rappresenta la base per nuove ipotesi scientifiche idonee a fornire
risposte, spesso diverse dal passato, sul perché di certi eventi relativi alla salute dell’essere umano.
Ciò, chiaramente, aumenta ulteriormente l’incertezza nelle spiegazioni causali in medicina,
dovendo tali ipotesi attendere future conferme di carattere tecnico per assumere quei connotati di
affidabilità e sicurezza scientifica che le convinzioni e le leggi precedenti avevano acquisito negli
anni8.
Tali problematiche, peraltro, non possono che ripercuotersi anche in sede processuale ove,
sovente, i processi per colpa medica diventano delle “battaglie” in cui le principali (e spesso uniche)
“armi” a disposizione delle parti sono date dalle perizie e dalle consulenze tecniche, con il rischio
che il giudice rimanga, in qualche misura, “ostaggio” del modello di spiegazione scientifica
acquisito al processo.
Il rischio, pertanto, è quello di un’eccessiva tecnicizzazione scientifica del processo penale che
abbia come effetto quello di espropriare il giudice dal proprio ruolo decisionale, rendendolo un
mero ricettore di consulenze professionali all’interno delle quali, molto spesso, è probabile si
annidino “guerre di religione” tra studiosi legate a dispute di scuola e divisioni accademiche nella
comunità scientifica.
Tra i vari consulenti tecnici infatti sono molto frequenti accesi confronti sulla validità scientifica
e sull’applicabilità al caso oggetto del processo delle leges artes utilizzate da ciascun esperto per
fornire la spiegazione causale dell’accadimento lesivo9.
Nella nostra giurisprudenza di legittimità, del resto, le risposte a tali problematiche non sono
state univoche, com’è lecito attendersi in un argomento così dibattuto.
Ed invero in argomento si è registrato un contrasto diacronico, tradottosi in una lenta
evoluzione, che soltanto dopo un celebre intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
(con la sentenza Franzese) sembra aver trovato un ragionevole punto di equilibrio.
Dall’analisi di tale percorso giurisprudenziale è possibile cogliere il problema di fondo che ha
determinato il segnalato contrasto: le difficoltà nell’individuare l’etiopatogenesi dell’evento clinico
– e con essa la corrispondente legge di copertura – non può giustificare né un’eccessiva larghezza di
riconoscimento del nesso causale sulla base di semplici (e spesso soltanto teoriche) possibilità
statistiche, che trasformerebbero l’obbligazione di mezzi del medico in un’obbligazione di risultato
non configurabile nel nostro ordinamento, né una eccessiva rigidità nella ricerca della certezza del
nesso causale, che rischia di lasciare impunite condotte che il senso comune e la logica avvertono
come causali rispetto all’evento.
8
Palazzo, 2010, p. 1232.
9
In argomento v.: Taruffo, 2006, pp. 93 ss., secondo il quale, il giudice penale, proprio per ovviare a tali problematiche,
dovrebbe fornire adeguato riscontro in motivazione circa l’effettiva esistenza e la comprovata validità scientifica della
legge di copertura utilizzata per fornire la spiegazione causale dell’evento lesivo; Palazzo, 2010, pp. 1232 ss.
6
Queste contrapposte esigenze nelle applicazioni concrete hanno lasciato prevalere – nel corso
del tempo – l’una o l’altra opzione nella giurisprudenza di legittimità10, fino al mutamento di rotta
segnato dalla predetta sentenza Franzese.
Il merito principale di tale decisione, infatti, consiste nell’aver evidenziato come non sia la
validità e la credibilità di per sé (in generale e in astratto) della legge di copertura utilizzata a
confermare la sussistenza del nesso di causalità, ma la sua credibilità razionale in concreto, in
relazione al particolare caso di specie. In sostanza, non bisogna guardare agli enunciati generali
della legge, ma alla sua applicazione rispetto alla fattispecie concreta oggetto di giudizio.
La seconda indicazione fondamentale fornita dalla Sezioni Unite consiste, inoltre, nel fornire
all’interprete gli strumenti procedurali per effettuare tale verifica “in concreto” del nesso di
condizionamento.
In particolare, si sottolinea che poiché all’interno di un processo penale l’oggetto della
spiegazione causale è un comportamento umano, esso mal si presta ad essere descritto, spiegato ed
espresso mediante coefficienti numerici di mera probabilità statistica.
10
In argomento v.: Sini, 1986, p. 8; Giannini, 1992, pp. 361 ss.; Negli anni ’80, ad esempio, si riteneva che il nesso di
causalità tra la condotta colposa del sanitario e l’evento lesivo della salute del paziente sussistesse sempre quando
l’intervento doveroso omesso, anche in assenza di certezze in ordine al suo esito positivo, aveva buone probabilità di
raggiungere tale scopo (v., ex multis, Cass., Sez. IV, n. 4320 del 1983). Rispetto a tale orientamento furono inevitabili le
critiche conseguenti ai rischi di un’inaccettabile riduzione delle garanzie nell’accertamento dei requisiti per
l’imputazione oggettiva dell’evento nei procedimenti per colpa medica. Da qui, una progressiva evoluzione finalizzata a
correggere il tiro, rispetto ad una così ampia apertura, che si coglie in alcune pronunce successive che ribadiscono come
nei procedimenti per responsabilità medica al consueto criterio della “certezza degli effetti della condotta si può
sostituire quello della probabilità di tali effetti”, ma precisano che ciò vale solo se le probabilità di successo siano
“serie ed apprezzabili” e tali che “la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata” (v. Cass., Sez. IV, n. 8290
del 1987). Anche tale orientamento però fu oggetto di critiche in dottrina in quanto rimaneva inevasa ogni risposta sul
quando, in che modo, a quali condizioni, in che limiti, le probabilità di successo dell’intervento potessero dirsi “serie ed
apprezzabili”. Pertanto, nella giurisprudenza successiva si tentò di risolvere il problema fornendo una quantificazione
numerica e ritenendo sufficiente un coefficiente del 30 % di probabilità di successo dell’intervento medico (v. Cass.,
Sez. IV, n. 371 del 1991). La medesima linea interpretativa fu seguita da una successiva pronuncia della stessa sezione,
ove il coefficiente ritenuto sufficiente è stato quantificato in una possibilità di buon esito della doverosa condotta
medica del 75 % (v. Cass., Sez. IV, n. 1126 del 1999). È evidente come tale orientamento fosse molto rigoroso per la
posizione processuale dei sanitari. Il rischio più volte paventato era quello di un’inaccettabile attenuazione del rigore
richiesto al giudice nell’accertamento del nesso causale, giustificato unicamente sulla base del primario interesse della
salute del paziente o sulla base della congenita ed insuperabile incertezza caratterizzante le scienze mediche, che
determinava l’impossibilità di poter utilizzare i consueti canoni penalistici di verifica della causalità. Di tali
considerazioni e necessità comincia a farsi carico la giurisprudenza successiva, che affermò come l’accertamento del
nesso eziologico dovesse essere effettuato “in base a regole di comune esperienza, preesistenti al giudizio, che
consentano di affermare che la condotta dovuta, se attuata, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento con un grado di
certezza che, pur tenendo conto della regola applicata, deve in ogni caso essere elevato ma non assoluto” (v. Cass., Sez.
IV, n. 10780 del 2000). Tale grado di certezza viene poi specificamente individuato in una pronuncia successiva in una
“percentuale vicina a cento” (v. Cass., Sez. IV, n. 9780 del 2000). È evidente, però, come l’apprezzabile tentativo di tale
orientamento giurisprudenziale di recuperare esigenze di tassatività nel settore della causalità “sanitaria”, pur
condivisibile nelle sue finalità, finisse per divenere esorbitante nei mezzi utilizzati. Nella scienza medica, infatti, un
ragionamento causale in termini di certezza o “quasi-certezza” rappresenta una meta ipotetica ed irrangiungibile. Perciò
ritenere necessario un coefficiente di probabilità anche soltanto vicino al 100 % avrebbe significato addivenire ad una
lettura paralizzante della causalità in ambito medico. In questo confuso ed incerto quadro giurisprudenziale era dunque
inevitabile e necessario un intervento delle Sezioni Unite.
7
Ciò comporta la necessità di procedere ad un giudizio non quantitativo, ma qualitativo che si
esprime in una più o meno ampia credibilità razionale “dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto
da provare”, secondo un procedimento valutativo volto ad escludere l’incidenza di fattori causali
alternativi – e per converso a trovare conferma dell’efficacia eziologica della condotta considerata –
sulla causazione dell’evento lesivo “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
In tal modo la Corte, anche per i procedimenti volti ad accertare le responsabilità di
professionisti del settore sanitario, ha opportunamente ricondotto i meccanismi di verifica delle
relazioni causali nell’alveo di ordinari giudizi di carattere qualitativo che utilizzano le normali
regole del processo penale11.
La giurisprudenza successiva, del resto, pur con qualche sporadica “sbavatura” applicativa si è
in massima parte orientata nel senso indicato dalle Sezioni Unite che, dunque, nell’occasione hanno
positivamente svolto la funzione nomofilattica loro affidata dall’ordinamento12.
La sentenza in questione, tuttavia, non è sfuggita ad alcuni rilievi critici.
Autorevole dottrina, infatti, ha evidenziato come il meccanismo valutativo descritto dalle
Sezioni Unite riscontri alcune difficoltà operative con riferimento ai reati omissivi impropri.
Rispetto a tale categorie di illeciti, infatti, al medico si imputa di non aver contrastato un fattore
di rischio già presente nella situazione concreta, sicché non ha senso interrogarsi, nel momento in
cui si effettua il c.d. giudizio controfattuale, circa l’esclusione dell’incidenza di fattori causali
alternativi, essendo già noto il fattore determinante l’evento lesivo che, naturalisticamente, è
costituito dalla malattia del paziente13.
Con riferimento ai reati omissivi impropri, quindi, sarebbe possibile unicamente chiedersi cosa
sarebbe accaduto ove la condotta doverosa fosse stata compiuta e se essa sarebbe stata in grado di
contrastare il fattore di rischio già in atto. Ma a tale domanda, come noto, possono rispondere
soltanto delle leggi di copertura scientifiche che non potranno quasi mai offrire risposte certe.
Pertanto il quesito sull’efficacia salvifica della condotta doverosa omessa non andrebbe
effettuato nell’ambito della causalità, ove le incertezze probabilistiche lo rendono difficilmente
risolvibile, ma nell’ambito della colpa o meglio nell’ambito del giudizio sulla causalità della colpa
che consiste nel valutare non soltanto la violazione obiettiva della regola cautelare da parte
dell’agente, ma anche la rimproverabilità soggettiva, sulla base di tutte le circostanze del caso
concreto, di tale violazione14.
11
Cass., Sez. U., n. 30328 del 2002. In dottrina, sulla decisione, v.: Di Martino, 2003, pp. 50 ss.; Cacace, 2003, pp. 195
ss.; Blaiotta, 2003, pp. 1175 ss.; Massa, 2002, p. 3643; Di Salvo, 2003, p. 3798. Per i risvolti civilistici della decisione
v. Capecchi, 2003, pp. 246 ss.
12
In particolare si vedano: Cass., Sez. IV, n. 988 del 2002; Cass., Sez. IV, n. 27975 del 2003; Cass., Sez. IV, n. 4675
del 2006; Cass., Sez. U., n. 38343 del 2014 sul noto caso Thyssenkrupp. Per un’analisi della giurisprudenza in questione
si vedano: Pianezzi, 2011; Bartoli, 2014, pp. 2568 ss.
13
14
Viganò, 2012, pp. 7 ss.
Viganò, 2012, p. 10.
8
Sarebbe in sostanza il terreno della colpa quello ove ricercare “l’equilibrio tra esigenze di tutela
degli interessi del paziente ed istanze della professione medica”15.
Un “terreno” nel quale è necessario addentrarsi affrontando, pur nell’economia del presente
contributo16, la tematica delle linee guida.
Con l’art. 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. legge Balduzzi), infatti, il
legislatore – per la prima volta nel nostro ordinamento – ha valorizzato il ruolo di questi strumenti
che, innanzitutto, “oggettivizzano” il giudizio di responsabilità del sanitario, in quanto individuano
un corpus di regole cautelari specificamente codificate per l’attività sanitaria, fornendo al giudice
uno strumento da sempre mancante in tale settore e garantendogli, almeno in parte, la “riconquista”
di un ruolo decisionale “centrale” in tali procedimenti17.
Le linee guida, inoltre, nella logica della legge Balduzzi consentono al sanitario che le rispetti di
rispondere penalmente dell’esito infausto del trattamento soltanto in caso di colpa grave, salvo che
– come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, le cui indicazioni sono state recepite dalle
recentissime novelle normative18 – le rilevanti specificità del caso concreto non impongano una
modifica o un radicale abbandono del percorso terapeutico indicato dalle linee guida19.
Ciascun caso clinico, infatti, è profondamente diverso da ogni altro. Di conseguenza il sanitario
non può adeguarsi in modo acritico alle buone pratiche sanitarie, ma deve sempre verificare la loro
adattabilità al quadro patologico specifico del paziente, verificando la validità delle linee guida non
solo in astratto, ma anche in concreto sulla base della specifiche condizioni del paziente20, secondo
un giudizio a nostro avviso assimilabile a quello che le Sezioni Unite impongono rispetto alla legge
scientifica utilizzata nel ragionamento causale.
Ad ogni modo l’applicazione giurisprudenziale della disposizione in questione non ha mancato
di palesare diverse criticità, a partire dall’assenza di una definizione codificata dell’oscuro concetto
di “colpa grave” che, tuttavia, definisce i confini dei comportamenti penalmente rilevanti, lasciando
così all’interprete e al giudice il compito di individuarli, con tutti i rischi che ciò comporta21.
15
Palazzo, 2010, p. 1233.
16
L’elaborato, infatti, tiene conto del quadro legislativo vigente fino al luglio del 2016. Rispetto alla tematica delle linee
guida, tuttavia, il legislatore è recentemente intervenuto con l’emanazione delle legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. riforma
Gelli-Bianco) che ha determinato un significativo superamento della disciplina precedentemente vigente. Il presente
elaborato, per ovvie ragioni, non può tener conto di tali modifiche.
17
Come si è visto, infatti, nei procedimenti per responsabilità sanitaria le perizie e le consulenze tecniche assumono un
ruolo assolutamente centrale e decisivo.
18
Ci si riferisce, in particolare, alle modifiche introdotte dalla legge Gelli-Bianco, che ha ribadito il valore esimente del
rispetto delle linee guida per il sanitario, limitandolo però ai soli casi di imperizia ed eliminando espressamente il
riferimento alla gravità della colpa.
19
Sul punto v. Caputo, 2012, pp. 875 ss.; Cupelli, 2012, pp. 1104 ss.; Vallini, 2014, pp. 2058 ss.; Cupelli, 2013, pp.
2984 ss.; Risicato, 2014, pp. 2070 ss.
20
Sul punto v. Debernardi, 2013, pp. 930 ss.
21
In argomento v., ex multis, Cass., Sez. IV, n. 35922/2012; Cass., Sez. IV, n. 16237/2013; Cass., Sez. IV, n.
47289/2014.
9
In conclusione può osservarsi come l’analisi di tali problematiche relative al profilo, per così
dire, “oggettivo” della responsabilità sanitaria, mostri, in definitiva, come nel nostro ordinamento le
problematiche connesse ai procedimenti penali per la responsabilità dei professionisti sanitaria
siano ben lontane dall’essere risolte.
Volendo ipotizzare un’opzione ermeneutica volta quantomeno a ridurre le problematiche
connesse alla cronica incertezza delle leggi scientifiche utilizzate nel ragionamento causale in
medicina e alle difficoltà applicative delle nuove disposizioni sulle linee guida, una possibile
soluzione, ad avviso di chi scrive, potrebbe rinvenirsi nel “patto” di alleanza terapeutica tra medico
e paziente.
A sciogliere, cioè, l’incertezza sulla correttezza del comportamento del sanitario potrebbero
essere le direttive “informate” che il paziente gli ha fornito prestando in modo consapevole il
proprio consenso.
Alla luce della costruzione costituzionale del rapporto medico-paziente, infatti, la correttezza del
comportamento del medico non andrebbe valutata soltanto “astrattamente” alla luce di quella che
costituiva la scelta migliore seconda la scienza – o secondo quegli strumenti che, come le linee
guida, mirano a rappresentarne una codificazione – ma anche, se non soprattutto, “in concreto”, in
relazione alle indicazioni che il paziente ha fornito nella sua massima libertà costituzionale di
autodeterminazione terapeutica, in relazione, cioè, alla scelta migliore secondo l’opinione della
scienza e secondo quella del paziente.
In tal modo potrebbe addivenirsi ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della sfera
di rischio lecito per il medico, i cui confini verranno sì definiti dalla conformità del suo
comportamento alle leges artis, ma anche dal rispetto delle “volontà” costituzionalmente garantite
del paziente.
Definite le questioni di carattere generale, va evidenziato come nell’ambito delle attività
sanitarie in équipe una specifica questione attinente anche al rapporto di causalità si pone
nell’ambito del trattamento plurisoggettivo c.d. diacronico, ove più medici si occupano della cura di
un paziente non contemporaneamente22, ma in momenti diversi, succedendo tra loro nell’esecuzione
della terapia e, di conseguenza, nei doveri di protezione nei confronti del soggetto assistito.
Si tratta, in particolare, del fenomeno della successione nella posizione di garanzia in cui, a
differenza dell’ipotesi della delega di funzioni23, si assiste – in presenza di alcune condizioni24 – ad
22
Come invece avviene nell’ambito del trattamento c.d. sincronico in équipe, per la cui specifica analisi si rinvia al
paragrafo IV.
23
Nell’ambito della delega di funzioni, infatti, si assiste ad un trasferimento di funzioni impeditive da un delegante ad
un delegato che da luogo ad una nuova ed aggiuntiva posizione di garanzia in capo a quest’ultimo, relativa alla
protezione dello stesso bene ed alla vigilanza sulla medesima fonte di pericolo. In tali ipotesi, quindi, non si assiste ad
alcuna sostituzione negli obblighi di protezione rispetto ad un determinato bene giuridico, ma soltanto all’assunzione da
parte del delegato di un ulteriore ruolo di garanzia che si aggiunge e non si sostituisce a quello del delegante il cui
obbligo di protezione relativo allo stesso bene giuridico non cessa ma, più semplicemente, si modifica, passando da un
diretto dovere di impedire l’evento ad un compito di vigilanza e controllo sull’operato del delegato.
24
La prima condizione, in particolare, consiste nel fatto che il trasferimento della posizione di garanzia deve avvenire
sulla base di una fonte formale (atto negoziale o norma di legge). La seconda condizione si concreta invece si concreta,
10
una integrale liberazione del cedente dalla funzione giuridica di garante, non residuando in capo a
tale soggetto né al cun obbligo di protezione sul bene giuridico, né alcun dovere di controllo o
vigilanza sul cessionario25.
Affinché possa verificarsi con certezza l’integrale liberazione del cedente, però, è necessario che
questi abbia adempiuto con scrupolo il suo ruolo, così trasferendo un’attività priva di qualunque
fattore di criticità o di pericolo.
La situazione è differente, invece, ove il cedente non abbia adempiuto tutti i suoi obblighi di
garanzia e, quindi, l’attività ceduta non sia immune da fattori (colposi) di rischio.
Proprio con riferimento a tali ipotesi, infatti, la Cassazione ha elaborato negli anni ’90 il
concetto della c.d. continuità delle posizioni di garanzia, affermando un principio destinato a
consolidarsi nella giurisprudenza successiva.
Secondo questa interpretazione, in sostanza, il soggetto cedente non può liberarsi dal proprio
ruolo di garante e dagli obblighi che ne derivano ove venga ceduta un’attività inficiata da
inosservanze cautelari a lui riferibili e causalmente determinanti l’evento dannoso verificatosi dopo
il trasferimento della posizione di garanzia.
In questa ipotesi, invero, va ravvisata una responsabilità del cedente per omesso impedimento
dell’evento anche nel caso in cui quest’ultimo si verifichi per una successiva omissione del
cessionario, non potendo considerarsi – salvo casi eccezionali in cui l’azione sia del tutto eccentrica
ed imprevedibile – la condotta del soggetto subentrato un fattore eccezionale sopravvenuto da solo
sufficiente a produrre l’evento in virtù della persistente responsabilità riferibile al soggetto che ha
ceduto un’attività senza rispettare gli obblighi cautelari che gli erano imposti26.
Il tema della successione nella posizione di garanzia, peraltro, può manifestare dei punti di
contatto con la figura del principio di affidamento che, come si vedrà, stabilisce un assunto in virtù
del quale un soggetto che partecipa ad un’attività plurisoggettiva deve poter confidare nel fatto che
gli altri partecipanti alla medesima attività si atterrano alle regole di diligenza loro imposte.
Secondo parte della dottrina nell’ipotesi del trattamento medico diacronicamente plurisoggettivo
il principio di affidamento non sarebbe ridimensionato ma, al contrario, vedrebbe ampliata la sua
operatività.
Infatti, essendo ciascun medico responsabile e garante della salute del paziente soltanto nella
frazione di trattamento da lui gestita, nelle fasi antecedenti e successive a quella assegnata al
singolo sanitario si verifica un’ipotesi, assimilabile alla successione nella posizione di garanzia, in
virtù della quale la responsabilità di ciascun professionista deve essere limitata alle fasi da lui
come noto, nel requisito dell’effettività dei poteri impeditivi ceduti al cessionario, essendo necessario trasferire a
quest’ultimo l’affidamento del bene da proteggere e la possibilità di gestire la fonte di pericolo in una posizione di
dominio fattuale reale e con poteri di organizzazione e controllo equivalenti o, comunque, parificabili a quelli del
predecessore. In assenza di tali condizioni, ovviamente, il cedente non si libera della propria posizione di garanzia.
Viceversa il garante, di regola, si libera definitivamente da ogni tipo di obbligo.
25
Gargani, 2004, p. 911.
26
Gargani, 2004, p. 913. In giurisprudenza v., ex multis, Cass. 11 dicembre 1990, in Foro it., 1992, II; Cass., 7
novembre 2011, n. 40092.
11
direttamente seguite, non potendosi estendere anche ai momenti antecedenti e successivi in cui,
peraltro, il sanitario perde ogni potere di intervento diretto sulle situazioni di rischio per il paziente,
considerando anche che i trattamenti in successione tra di loro avvengono in tempi e luoghi
differenti.
Ciascun medico che succede ad un altro nell’esecuzione di una determinata terapia, quindi, in
virtù dell’operatività anche in tali ipotesi del principio di affidamento, deve poter confidare nel fatto
che il collega precedente abbia adempiuto con scrupolo tutti i suoi obblighi.
Tuttavia, ove vi siano degli indizi o delle circostanze fattuali idonee a smentire questa
aspettativa di correttezza dell’altrui comportamento l’affidamento legittimo verrà meno ed il
sanitario dovrà prendere ogni opportuna iniziativa tecnica per garantire la salute del paziente27.
Deve essere precisato, però, che la soluzione in questione non è pacifica soprattutto in
giurisprudenza.
Ad esempio, in una sentenza della sezione quarta della Corte di Cassazione del 25 febbraio del
200028 si legge che “…nel caso di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica,
sia pure svolta non contestualmente, ogni sanitario – assumendo in quanto tale un obbligo di
garanzia nei confronti del paziente – oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza
connessi alle specifiche mansioni svolte, non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività
precedente o contestuale svolta da altro collega, e dal controllarne la correttezza, ponendo rimedio
agli eventuali errori altrui”. Secondo la Corte, in particolare, la circostanza che l’intera procedura
sanitaria sia finalizzata all’unico scopo della tutela dei pazienti interessati determinerebbe
l’insorgenza di una posizione di garanzia di cui sarebbero titolari tutti i medici intervenuti nella
terapia, a prescindere dal momento del loro intervento e dalle singole competenze.
In virtù di tale obbligo di protezione il singolo sanitario, si legge in sentenza, non può
“…esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia
pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, ponendo, se del caso rimedio
[…] ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con
l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”.
Questa impostazione giurisprudenziale è stata fortemente criticata in dottrina sul presupposto
che nel contesto delle attività sanitarie in équipe gli obblighi di ciascun medico si modellano sulle
sue specifiche competenze, operando al di là di tali confini il principio di affidamento nei confronti
del corretto agire degli altri colleghi dotati di specifiche specializzazioni settoriali.
Si è, poi, non senza ragione, rilevato che nelle attività complesse sorge la necessità di evitare
un’interferenza di competenze favorendo, al contrario, una separazione razionale di compiti e
responsabilità.
Sarebbe in tal senso irragionevole e antieconomico imporre a ciascun sanitario di ripetere le
analisi e la valutazioni effettuate in precedenza da un collega.
27
28
In argomento v. Miglio, Ferri, 2015, pp. 482 ss.; Mattheudakis, 2010, pp. 1479 ss.
Cass., Sez. IV, 25 febbraio 2000, Altieri e altri.
12
Sicché, secondo la dottrina maggioritaria, l’obbligo di controllo e correzione del comportamento
del professionista precedentemente intervenuto sorgerebbe solo in presenza di indici fattuali
inequivocabili ed idonei a far venir meno il legittimo affidamento sulla correttezza del
comportamento altrui29.
Tanto premesso in via generale, l’evoluzione della giurisprudenza in materia e l’analisi di tutti
gli aspetti problematici del trattamento sanitario plurisoggettivo saranno oggetto di specifica
disamina nelle pagine che seguono, ove si discuterà della responsabilità penale dell’équipe medica,
centro nevralgico della nostra indagine.
4. Le modalità di organizzazione e allocazione delle responsabilità nella prestazione sanitaria
collettiva
L’analisi sin qui svolta fa agevolmente comprendere che le peculiari criticità tecnico-scientifiche
dell’attività sanitaria rendono particolarmente complesso non soltanto il lavoro di ogni medico, ma
anche quello del penalista chiamato a risolvere le questioni giuridiche che interessano questa
importante e delicata professione. Una complessità che evolve in problematicità nel contesto
dell’attività sanitaria in équipe ove sia il medico sia il giurista sono chiamati a confrontarsi con una
realtà plurisoggettiva ove diversi sanitari collaborano contestualmente all’esecuzione di un
intervento medico condividendo e, allo stesso tempo, ripartendosi compiti e conseguenti
responsabilità30.
Il primo problema da affrontare è quello definitorio. Bisogna chiedersi, infatti, cosa si intende
per équipe medica. Tale nozione, infatti, non può “… essere estesa a tutte le plurime prestazioni cui
è sottoposto un paziente nel contesto ospedaliero o extraospedaliero, ma va riferita correttamente
solo alle attività che comportano una contestuale prestazione diagnostica o terapeutica, svolta da
un gruppo di sanitari aventi compiti differenziati”31.
Nell’ambito dell’attività sanitaria in équipe, quindi, essendovi più sanitari che cooperano tra di
loro per il conseguimento di un fine comune consistente nella salvaguardia della salute del paziente,
sarà necessario effettuare una precisa delimitazione dei doveri di diligenza imposti a ciascun
partecipante all’intervento. Tuttavia, addivenire ad un’oggettiva individuazione degli obblighi
incombenti su ogni sanitario in tale ambito è questione di peculiare complessità.
29
Sul punto v. Vallini, 2001, pp. 469 ss.
30
In tal senso anche Bravi, 2005, pp. 795, 796. L’Autore sottolinea come attualmente “…le prestazioni medicochirurgiche di un certo rilievo – e non solo – vengono normalmente eseguite non più dal singolo, ma da una pluralità di
soggetti, medici e paramedici, inseriti all’interno di una struttura più ampia ed organizzati secondo precisi criteri di
ripartizione delle competenze”.
31
Di Landro, 2005, p. 228. Nello stesso senso v. Palma, 2009, p. 592, secondo cui “…con il termine équipe si suole
indicare un insieme di sanitari (sia di pari specializzazione sia di differenti specializzazioni e grado gerarchico) che in
un unico contesto-spazio temporale eseguono un intervento diagnostico o terapeutico”.
13
In questi casi, infatti, i medici pongono in essere un’attività pericolosa per la salute del paziente;
di conseguenza, ciascuno di essi dovrà osservare delle regole cautelari che, pur essendo finalizzate
ad evitare lo stesso evento lesivo, avranno un contenuto differente per ogni componente dell’équipe,
anche in considerazione delle diverse specializzazioni e dei differenti ruoli gerarchici di ciascun
sanitario. In questo contesto, quindi, il problema interpretativo più importante diviene quello di
stabilire se ciascun medico dell’équipe, oltre alle leges artis ed alle regole cautelari relative al
proprio specifico ambito di competenza professionale, debba osservare, operando in un contesto
plurisoggettivo, anche un generico dovere cautelare di sorveglianza sull’operato dei colleghi.
Di conseguenza, si dovrà precisare anche se, ed in quali limiti, ciascun sanitario possa essere
chiamato a rispondere di comportamenti colposi riferibili ad altri professionisti partecipanti
all’intervento che abbiano cagionato o contribuito a cagionare l’evento lesivo32.
Nel porsi questi fondamentali interrogativi, come si vedrà, occorrerà trovare un punto di
equilibrio tra due opposte esigenze.
Se, infatti, non sembra ammissibile che il singolo medico si “isoli” dal contesto plurisoggettivo
in cui sta operando concentrandosi unicamente sul proprio operato, sembra parimenti eccessivo
porre a carico di ciascun sanitario un generico, onnicomprensivo ed inafferrabile dovere di controllo
su tutti i colleghi; dovere che potrebbe “distrarlo” eccessivamente dai suoi compiti non
consentendogli di svolgere al meglio le proprie mansioni.
Tutto ciò senza considerare la difficoltà di vigilare su professionisti dotati di specializzazioni
spesso totalmente differenti tra loro.
L’analisi di tali esigenze fa comprendere che, come più volte sottolineato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, lo svolgimento dell’attività medica in équipe rappresenta contemporaneamente un
fattore di sicurezza per il paziente, potendo ciascun medico concentrarsi al meglio sulle proprie
mansioni rispetto alle quali ha una specifica competenza che mette a disposizione del team, ma
anche un fattore di rischio, in quanto tale tipologia di attività fa sorgere rischi nuovi ed eterogenei
rispetto all’attività sanitaria monosoggettiva (ad es. i difetti di informazione e coordinamento, gli
errori di comprensione e sulle qualità e capacità dei collaboratori, l’assenza di una visione
d’insieme del trattamento etc.)33.
Riflettendo su questa problematica, innanzi tutto, bisognerà tenere a mente le istanze della
professione medica che da tempo paventa in questo campo il pericolo di accertamenti di
responsabilità penale “collettiva”, di “posizione” e per fatto altrui in cui ciascun sanitario viene
condannato per il solo fatto di aver preso parte all’operazione medica in équipe, in palese violazione
del principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 della nostra Costituzione34.
32
33
Gizzi, 2006, p. 753.
Risicato, 2013, pp. 31, 32. In giurisprudenza si veda Cass. Pen., Sez. IV, 11 ottobre 2007.
34
In tal senso si veda anche Cornacchia, 2013, p. 1220. Secondo l’Autore “…ogni volta che “le cose vanno male”,
sembra assai difficile per chi faceva parte dell’équipe, e quindi sapeva come si stavano svolgendo le cose potendosi
rendere conto in linea di massima delle attività svolte o omesse a altri professionisti, riuscire a dimostrare la propria
estraneità. L’errore di uno dei cooperanti, o più spesso il caso fortuito, è un’infezione che contagia irrimediabilmente
tutti i membri del team, senza possibilità di immunizzarsi preventivamente (magari premunendosi di linee guida o
14
Peraltro, come sottolineato da attenta dottrina, il rischio di tali inaccettabili conclusioni
giudiziali è aumentato dal fatto che il nostro ordinamento non dispone, come vedremo, di criteri
espliciti, certi e codificati per individuare le responsabilità penali nell’ambito delle organizzazioni
complesse, ma fornisce soltanto delle indicazioni generali che valgono sia per le responsabilità dei
singoli, sia per i contesti plurisoggettivi.
Di conseguenza è il giurista che deve farsi carico della ricerca dei criteri di allocazione delle
responsabilità all’interno delle strutture complesse e plurisoggettive35, individuando i parametri
teorici cui ancorare tale indagine.
Nell’effettuare questa ricerca, bisognerà sì venire incontro alle esigenze dei sanitari, ma sarà
anche necessario tenere in debita considerazione l’interesse (sempre primario) del paziente alla
piena tutela della sua salute.
In tal senso, è facile comprendere come l’individuazione di precisi criteri di ripartizione di
compiti e responsabilità all’interno delle équipe mediche non soltanto è utile ad evitare accertamenti
“collettivi” di responsabilità penale (consentendo di individuare e punire solo e soltanto quei
professionisti passibili di un rimprovero colposo), ma è anche una garanzia finalizzata a favorire un
intervento collettivo realmente efficace ed efficiente per la protezione della salute del paziente.
Al riguardo è necessario sottolineare che, nell’individuare i parametri valutativi della colpa nel
lavoro d’équipe, i tradizionali criteri della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento, espressione
della concezione “unidimensionale” e soggettiva della colpa, si sono rivelati largamente
insufficienti in quanto inidonei a restringere entro limiti ragionevoli il novero delle condotte
punibili che, attraverso l’applicazione di questi parametri, vede allargarsi eccessivamente i propri
confini. Infatti, specialmente in medicina, vi è sempre la possibilità astratta di prevedere il
verificarsi di eventi lesivi per le persone36.
Di conseguenza, ponendosi nel solco del processo dogmatico di “normativizzazione” della
colpa, in dottrina e, come vedremo, anche in giurisprudenza si è sentita la necessità di sostituire,
nella valutazione della colpa professionale, il criterio della prevedibilità dell’evento con il
parametro “normativo” dell’inosservanza delle regole cautelari di precauzione37.
moduli per il consenso informato) o in corso d’opera (se non esigendo una qualche forma di “verbalizzazione” del
proprio dissenso di fronte a qualsiasi situazione sospetta, anche a discapito della cura del paziente). Una soluzione
frequente in giurisprudenza, censurabile sul piano del rispetto del principio di cui all’art. 27 Cost. perché si risolve di
fatto in una forma di responsabilità di posizione”.
35
Deidda, 2000, p. 1. In tal senso, si veda anche Di Landro, 2005, p. 227. L’Autore sottolinea che “…Le difficoltà di
inquadramento della materia, notevoli già per il fatto che l’ospedale è, di per sé, una delle organizzazioni più
complesse e dinamiche esistenti, sono poi destinate ad aumentare dal momento che tale struttura si trova oggi al centro
di un processo di radicale trasformazione, che vede il superamento del tradizionale modello tipicamente “verticale”
(orientato cioè in senso gerarchico) e “a strutture chiuse” (volte a conseguire l’autosufficienza operativa e
organizzativa), in favore di un nuovo modello di integrazione funzionale; con conseguente ridefinizione dei compiti del
personale e delle relative responsabilità, ora riconnesse, più che ai singoli atti, ai risultati della gestione”.
36
Di Landro, 2005, pp. 229, 230.
37
Di Landro, 2005, pp. 229, 230. L’autore, richiamando il pensiero del Belfiore, 1986 (vedi nota successiva), sottolinea
che “…Un’attenta dottrina, in particolare, ha sottolineato come sia stato proprio l’approfondimento dello studio di
ipotesi come l’attività medica d’équipe (nel quadro più ampio della diffusione del fenomeno del “macchinismo” e della
15
Ciò detto, le difficoltà dello studio di ipotesi come quelle dell’attività sanitaria in équipe si
incentrano nel tentativo di individuare e costruire criteri interpretativi idonei a regolare ed a fornire
una risposta a tutti gli interrogativi sollevati da tali casi38.
Occorre infatti al riguardo tenere in considerazione le attuali caratteristiche delle prestazioni
sanitarie, la distribuzione di diversi ruoli e competenze, nonché i rapporti esistenti tra i vari
operatori39, in modo tale da fornire un quadro giuridico equilibrato ed idoneo a dare risposta alle
istanze di tutti i soggetti “in gioco”, considerato il crescente disorientamento della classe medica in
mancanza di un uniforme e stabile panorama dottrinale e giurisprudenziale.
La ricerca di questi criteri è complicata e tortuosa, ma la loro individuazione sembra esplicare
effetti particolarmente positivi per il sistema della responsabilità medica, soprattutto nel contesto
dell’attività in équipe, agendo anche in “combinato disposto”, ad esempio, con gli strumenti delle
checklist che, come si vedrà, favoriscono un’efficiente comunicazione tra i partecipanti al
trattamento, elemento imprescindibile per evitare il verificarsi di fatti colposi.
Come si è visto in precedenza, nell’ambito dell’attività sanitaria in équipe il principale problema
interpretativo consiste nello stabilire se, ed entro quali limiti, il singolo sanitario – oltre a dover
rispettare le regole cautelari relative al proprio ruolo professionale ed ai suoi specifici compiti –
abbia anche un dovere di vigilanza sull’operato dei colleghi e se, ed a quali condizioni, questi possa
essere chiamato a rispondere della condotta colposa riferibile ad altri componenti del gruppo40.
A venire qui in rilievo è il tema dei contenuti e dei limiti del principio di affidamento, elaborato
in dottrina e in giurisprudenza proprio per dare soluzione a simili ipotesi.
Come sottolineato da attenta dottrina, infatti,”…ogni premessa in materia di responsabilità
penale dei membri di un équipe medica è legata a filo doppio alla ricostruzione dell’ambito di
operatività del c.d. principio di affidamento”41.
Il principio in parola (il c.d. Vertrauensgrundsatz) è il frutto, principalmente, delle elaborazioni
della dottrina tedesca.
Esso nasce e si sviluppa nella giurisprudenza d’oltralpe, a partire dagli anni ’50 del secolo
scorso, come una declinazione del canone generale del rischio consentito (erlaubtes Risiko) che,
com’è noto, serve a individuare e circoscrivere le responsabilità individuali nell’ambito di attività
pericolose ma socialmente utili42.
divisione del lavoro) a far compiere un decisivo passo in avanti al processo dogmatico di “normativizzazione” della
colpa”.
38
Si veda, in tal senso, Belfiore, 1986, p. 294. L’autore, in particolare, ritiene che”...se si vuole pervenire ad una
delimitazione il più sicura possibile delle sfere di responsabilità dei singoli soggetti, indispensabile sia il riferimento a
criteri che, pur non trascurando quei dati fattuali che la pratica della divisione del lavoro quotidianamente ci offre,
presentino un grado di genericità ed astrattezza tale da consentirne l’utilizzabilità in un numero indefinito di ipotesi”.
39
40
41
Di Landro, 2005, p. 230.
Bravi, 2005, p. 795.
Massaro, 2011, p. 3858.
42
Risicato, 2013, pp. 39, 40. Per una panoramica completa dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale di tale
principio effettuata in Germania si veda Mantovani, 1997, pp. 11 ss., 65 ss. L’Autore, in particolare, (v. pag. 58)
sottolinea come il principio si sia affermato in Germania soprattutto nel settore della circolazione stradale, mentre in
16
Secondo tale principio in presenza di un’attività medica in équipe ciascun sanitario risponde
unicamente dell’inosservanza delle regole cautelari relative al proprio ruolo e settore professionale e
ai propri compiti tecnici, essendo necessario in tali ipotesi poter fare legittimo affidamento sul fatto
che i soggetti compartecipi all’intervento si atterrano scrupolosamente alle regole di diligenza loro
imposte43.
Di conseguenza, ciascun sanitario, essendo autorizzato ad attendersi che gli altri colleghi
svolgeranno correttamente le attività di loro competenza, dovrebbe essere esonerato da qualsivoglia
dovere cautelare di vigilanza sulla correttezza dell’operato altrui44 e non dovrebbe essere tenuto a
calibrare il proprio comportamento in funzione del rischio che altri pongano in essere condotte
colpose, potendosi fare affidamento sul fatto che essi agiranno lecitamente45.
Italia ne è stata reclamata l’applicazione precisamente nel settore dell’attività medica in équipe “…per l’inesistenza, in
subiecta materia, di ostacoli di diritto positivo all’applicazione del principio in parola dello spessore proprio di quelli
che, viceversa, si oppongono, da noi, alla penetrazione di questo principio nella materia del traffico stradale”. Si vedrà
in seguito la critica, effettuata dalla dottrina italiana, rispetto all’interpretazione della maggioritaria dottrina tedesca che
vede nella categoria generale del rischio consentito il fondamento dogmatico del principio di affidamento.
43
Tale interpretazione del principio di affidamento è ormai largamente dominante in dottrina. In passato, però, si
addiveniva ad una interpretazione radicalmente opposta di tale principio, influenzata dai tradizionali criteri della
prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento. In tal senso, si veda Palma, 2009, p. 598. L’Autore ricorda che
“...Inizialmente, con la diffusione delle concezioni psicologiche della colpa, dottrina e giurisprudenza trovavano
terreno fertile nel ritenere che i problemi dell’imputazione soggettiva, posti dal fenomeno dell’attività in équipe,
andassero risolti in termini meramente psicologici di prevedibilità ed evitabilità delle negligenze altrui. Nell’ambito di
queste concezioni trovava, quindi, riconoscimento un principio di non affidamento nell’attività dei propri colleghi e,
conseguentemente, un obbligo di controllo reciproco tra tutti i componenti dell’équipe: il medico che cooperi con altri
professionisti è chiamato a rispondere di eventuali esiti infausti, laddove non abbia previsto, e quindi evitato, il
comportamento imprudente, negligente o imperito dell’altro partecipante al trattamento. Senonché la trasposizione di
tali ricostruzioni della colpa nell’ambito dell’attività plurisoggettiva determina una “biasimevole esasperazione dei
doveri di diligenza del medico”, dal momento che l’errore del professionista, anche del più qualificato, è, invero,
sempre prevedibile. Si finisce, in tal modo, per svuotare completamente il principio della divisione del lavoro,
chiedendo al medico di avere una costante sfiducia nel comportamento dei propri collaboratori e di monitorarne,
conseguentemente, l’attività, con il rischio di pericolose forme di responsabilità per fatto altrui o di gruppo”. (Nel
virgolettato l’Autore utilizza un’espressione di G. Stratenwerth).
44
In tal senso anche Grimaldi, 2006, p. 232. L’Autore ricostruisce così il principio di affidamento, affermando che esso
“…affonda le proprie radici nella considerazione che ogni consociato può confidare nel fatto che ciascuno si comporti
adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che, di volta in volta,
viene in questione. Con la dottrina più evoluta, è possibile affermare che il principio in parola : a) presuppone i cc.dd.
obblighi divisi tra più soggetti, nel senso che ciascuno di essi è tenuto all’osservanza delle norme cautelari delle
rispettive attività, tutelando esse solo parzialmente il bene giuridico; b) si fonda sul principio dell’autoresponsabilità,
per cui ciascuno risponde dell’inosservanza delle rispettive regole cautelari e, perciò, può e deve poter contare sulle
altrui osservanze; c) persegue la duplice finalità di conciliare il principio della responsabilità personale con la
specializzazione e la divisione dei compiti, nonché di consentire il migliore adempimento, liberi dalla preoccupazione
di controllare l’altrui operato, delle proprie mansioni, nell’interesse degli stessi destinatari dell’attività; d) comporta la
responsabilità, in via primaria, soltanto per gli eventi causati dall’inadempimento del proprio dovere diviso; e)
comporta, altresì, l’obbligo secondario (con la relativa responsabilità) di adottare le misure cautelari per ovviare ai
rischi dell’altrui scorrettezza”.
45
Gizzi, 2006, p. 753. In tal senso, si veda anche Pavesi, 2009, p. 949. Secondo l’Autore, infatti, “…ogni partecipe al
lavoro pluridisciplinare in équipe risponde esclusivamente dell’inosservanza delle regole cautelari relative allo
specifico tipo di attività che lo stesso è chiamato ad eseguire, mentre non deve ritenersi obbligato a modellare il
proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose di altri componenti”. Così anche Salerno, 2014, p.
597. Secondo l’Autore, in particolare, “…nelle relazioni intersoggettive, di norma ognuno confida sul corretto
17
È definibile, poi, come aspettativa pienamente legittima anche quella che si riferisce a
comportamenti doverosi che si presumono già tenuti da coloro che vi sono obbligati in quanto,
nonostante tale affidamento si riferisca ad un “…comportamento che si è già prodotto o che
comunque avrebbe dovuto esserlo” il contare sul rispetto di una norma di diligenza “…si rapporta
sempre ad un dato futuro”, risultando “…corretta la sua qualificazione in termini di aspettativa”46.
È necessario sottolineare – come evidenziato da autorevole dottrina – che la funzione generale
del principio in parola è quella di tutelare le legittime aspettative che l’ordinamento genera su ogni
consociato in relazione all’esistenza di norme di diligenza gravanti sui soggetti con cui si verrà a
interagire, consentendo tali regole “…la fissazione di precise sfere di responsabilità riservate a
questi ultimi ed esonerando il singolo […] dalla neutralizzazione dei pericoli che esse sono
segnatamente dirette a prevenire”.
In tal modo il principio di affidamento assolve una “…funzione di orientamento ex ante dei
consociati” consentendo a ciascuno di essi di poter legittimamente confidare sul fatto che specifici
pericoli verranno affrontati, poiché rimessi alle loro competenze, da altri soggetti e che, di
conseguenza, alcun compito o responsabilità graverà sul singolo in relazione a tali rischi47.
In dottrina, nel combinato disposto degli artt. 54, comma 1 (dovere di osservare le leggi) e 3,
comma 1, (principio di uguaglianza davanti alla legge) della Costituzione si è individuata la
cristallizzazione costituzionale del nucleo centrale del principio di affidamento.
Infatti, posto che l’ordinamento si attende il rispetto da parte dei consociati non soltanto delle
regole legislative, ma anche delle norme sub-legislative (regolamenti, ordini e discipline) e sociali
(prudenza, diligenza, perizia), e che “…in forza del principio di uguaglianza […] ogni cittadino sa
che, allo stesso modo in cui l’ordinamento si attende da lui il rispetto di determinate prescrizioni
rivoltegli, così pure esso si attende dagli altri il loro conformarsi alle richieste di comportamento
loro indirizzate, ne consegue che ognuno di essi potrà orientare la propria condotta attendendosi
che – in forza delle aspettative riposte dall’ordinamento e della rispettiva uguaglianza di fronte
allo stesso – gli altri si uniformino ai precetti loro imposti. In una parola, potrà fare affidamento
circa la loro osservanza ad opera degli altri”48.
Così delineato, il principio di affidamento rappresenta un limite all’obbligo di diligenza gravante
su ogni sanitario titolare, in quanto tale, di una posizione di garanzia nei confronti del paziente.
comportamento altrui e dunque scatta un affidamento, rectius aspettativa, che gli altri adottino le precauzioni
normalmente riferibili al soggetto agente proprio dell’attività svolta in concreto”.
46
Mantovani, 1997, in Riv. It. Dir. e proc. pen., p. 1048. La questione è collegabile al tema, affrontato nel paragrafo
precedente, della successione nella posizione di garanzia, nel senso che dovrebbe ritenersi legittima ed idonea, in quanto
tale, ad esimere il singolo sanitario da responsabilità, l’aspettativa che ogni professionista ripone nella correttezza
dell’attività del collega che lo ha preceduto nello svolgimento della terapia, a meno che, come si vedrà del prosieguo,
non vi siano dei segnali tali da inficiare tale affidamento.
47
Mantovani, 1997, p. 181. L’Autore afferma che, come vedremo in modo approfondito nel prosieguo, il principio in
questione non può valere nei “…casi in cui constino indizi circa il fatto che le norme […] non saranno nel caso
concreto osservate”.
48
Mantovani, 1997, pp. 454, 455.
18
Secondo parte della dottrina, infatti, sostenere che il professionista su cui grava un obbligo di
protezione della salute del soggetto assistito debba proteggere il bene tutelato da ogni rischio di
evento lesivo, compresa la negligente attività di terzi, è un assunto che rischia di essere
“irragionevole nella sua rigidità ed astrattezza” e, proprio per questo, deve trovare un equo
temperamento nel principio di affidamento49.
Sul punto è opportuno ricordare che ciascun medico è titolare soltanto di una posizione di
garanzia relativa alla protezione della salute del paziente, mentre il suo presunto dovere di
impedimento di illeciti altrui non trova alcun fondamento normativo, salvo voler considerare ogni
collega una fonte di rischio “umana” per la salute del paziente – su cui il medico ha il dovere di
vigilare come accade per ogni altro “pericolo” di diversa natura relativo all’integrità psicofisica del
soggetto assistito – “…ovvero di configurare, praeter legem, un’ipotesi di responsabilità per fatto
altrui […], o, più drasticamente, di far coincidere ipotesi non assimilabili [… perché aventi
oggettività giuridiche del tutto eterogenee…], fondando la sussistenza della posizione di controllo
su quella di protezione”50.
Peraltro, secondo una risalente interpretazione dottrinale, da ritenersi ormai ampiamente
superata, il principio in parola non sarebbe invocabile in quanto il sanitario che rispetta le regole
cautelari relative alle sue specifiche mansioni non potrebbe fare affidamento sul fatto che gli altri
professionisti partecipanti all’intervento faranno altrettanto, poiché graverebbe su ogni sanitario in
quanto tale un generale dovere di controllo, fonte di culpa in vigilando sull’attività dei colleghi. Di
conseguenza, bisognerebbe accertare se il singolo membro dell’équipe avrebbe potuto prevedere ed
evitare l’errore altrui e basare su tale valutazione il giudizio sulla sua responsabilità51.
Ad ogni modo, va sottolineato come secondo tale impostazione – espressione del concetto del
c.d. “non affidamento” – il principio in parola potrebbe essere mitigato soltanto in presenza di
rapporti paritari tra medici che collaborano all’esecuzione di un trattamento (si pensi, ad es., ad una
collaborazione tra medico e specialista).
In tutti gli altri casi, invece, trattandosi della prestazione di terze persone, si ribadisce l’assunto
secondo cui non basta una fiducia “generica” nell’operato altrui per esonerare il singolo sanitario da
responsabilità penale, essendo necessaria, per raggiungere tale risultato, una fiducia “specifica” del
medico nell’azione dei colleghi che sia “…comprovata da una lunga e positiva serie di esperienze
di gruppo sempre felicemente conclusesi e tali, quindi, da esonerarlo da particolari controlli”52.
Se, quindi, tale risalente interpretazione del principio di affidamento sembra delineare un
contesto di “sistematica sfiducia” nell’altrui operato che può ritorcersi contro l’interesse del
49
Piras, Lubinu, 2009, p. 306. Secondo gli Autori, in particolare, l’effetto dell’applicazione del principio di affidamento
consentirebbe a ciascun garante di “…badare esclusivamente al compimento della propria attività; la tutela del bene di
cui ciascuno è garante, infatti, sta e cade col rispetto da parte di ognuno dei compiti previamente assegnati e, dunque,
delle relative regole di diligenza”.
50
Cornacchia, 2013, p. 1222.
51
In tal senso Crespi, 1955, pp. 70 ss. Per una ricostruzione di tali risalenti posizioni dottrinali, basate sui criteri della
prevedibilità ed evitabilità dell’evento, si veda anche Palma, 2009, p. 598.
52
Roiati, 2012, pp. 244, 245, che così interpreta il pensiero di Crespi, 1955, op. cit.
19
paziente, le odierne soluzioni interpretative, invece, sembrano delineare una più liberale visione di
“sistematica fiducia” nell’altrui operato53, cercando di giungere ad un punto di equilibrio con la
dottrina precedente attraverso una serie di limiti e di eccezioni che, come vedremo, vengono posti
all’operatività dell’affidamento legittimo.
È necessario sottolineare, inoltre, che all’affermazione del principio di affidamento si assegna,
oggi, una “ratio di implementazione del bene giuridico tutelato”: esso, infatti, offre ad ogni
sanitario la garanzia giuridica di potersi concentrare liberamente e in via esclusiva sullo
svolgimento delle proprie mansioni, senza essere “pressato” da un costante dovere di vigilanza e
verifica dell’operato altrui, mettendo così il professionista in grado di offrire una prestazione
realmente efficace ed efficiente, il tutto a vantaggio della salute del paziente54.
Secondo la dottrina prevalente, poi, il principio in parola trova il suo fondamento dogmatico
nella teoria della colpa, confinando entro limiti ragionevoli il dovere di diligenza del sanitario
(escludendo come regola principale la configurabilità di obblighi di vigilanza sul comportamento di
terzi) e determinando, ove operante, l’atipicità del fatto colposo per mancanza dell’elemento
“oggettivo” della colpa55.
La dottrina maggioritaria di lingua tedesca, invece, con qualche adesione nel panorama
italiano56, riconduce il principio di affidamento alla più generale categoria dogmatica del rischio
consentito.
53
Risicato, 2013, p. 41.
54
Cornacchia, 2013, p. 1223. In tal senso, si veda anche Gizzi, 2006, p. 754. Secondo l’Autore, in particolare, “…Se
nelle ipotesi di cooperazione di più sanitari nel trattamento medico-chirurgico, infatti, il dovere di diligenza
incombente su ciascuno di essi dovesse estendersi alla prevenzione dell’altrui negligenza, il fatto stesso della
collaborazione di più soggetti, invece di semplificare e rendere più sicura l’attività di gruppo, si convertirebbe in un
fattore di ostacolo e di intralcio al suo svolgimento. Il principio di affidamento, nell’ambito della curativa in èquipe,
consente invece al singolo sanitario che partecipa all’attività diagnostica e terapeutica di dedicarsi, con la dovuta
esclusività e concentrazione, ai compiti specifici di sua competenza e di adempierli al meglio, libero dalla costante
preoccupazione di controllare l’altrui operato”.
55
Palma, 2009, p. 599. L’autore precisa che “…Non mancano, tuttavia, orientamenti che, non riconoscendo un
autonomo fondamento al principio di affidamento, lo riconducono a categorie dogmatiche più generali, quali il rischio
consentito o il principio di autoresponsabilità”. Si veda, sul punto, anche Mattheudakis, 2010, p. 1489. Anche tale
Autore, infatti, ricorda che “…la dottrina interna che ha approfondito maggiormente il tema è giunta ad attribuire
lucidamente un fondamento autonomo al principio di affidamento, individuandone l’ambito di rilevanza nella
dimensione oggettiva del fatto colposo e descrivendo con precisione gli inconvenienti di interpretare, invece, il
Vertrauensgrundsatz come corollario del principio di autoresponsabilità oppure come espressione della teoria del
rischio consentito. Infatti, l’ordinaria possibilità di attendersi l’osservanza di terzi, coi quali si “interferisce
causalmente”, incide in via mediata sulla possibilità e, in un’ultima analisi, sulla doverosità di (non) prevedere le
lesioni di beni giuridici che abbiano a verificarsi proprio attraverso una deviazione degli stessi soggetti dal modello
cautelare di riferimento nel caso concreto”. Si veda, tuttavia, anche la riflessione di Risicato, 2013, p. 40. L’Autore,
infatti, sottolinea che l’essenza del principio di affidamento è “…strettamente collegata non tanto al perimetro generale
della tipicità colposa, quanto piuttosto alla necessità di valutare o, per contro, di escludere le responsabilità individuali
nei casi in cui l’evento lesivo sia prodotto dall’interazione – consapevole o meno – di più persone. Per tale motivo può
dirsi che il principio di affidamento rappresenti il confine oltre il quale sussiste la compartecipazione criminosa nel
fatto colposo: esso rappresenta, per molti aspetti, il cardine su cui ruota la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. nei
reati causalmente orientati”.
56
Si veda, ad esempio, Pagliaro, 1992, pp. 781 ss.
20
In dottrina, tuttavia, in senso critico a tale posizione, si è sottolineato che la categoria del rischio
non può costituire il fondamento dogmatico del principio in analisi in quanto “…è il principio di
affidamento, rectius la sua applicazione, ciò che contribuisce a definire i contorni del rischio
consentito, sì che la determinazione dell’estensione di questo rappresenta il risultato
dell’operatività di quello”57 e non il contrario.
Così interpretato, tale principio, esonerando ciascun sanitario dal dovere di adottare misure volte
a fronteggiare gli altrui comportamenti illeciti, consente di confinare entro limiti ragionevoli il
dovere di diligenza dei professionisti che collaborano in un contesto di équipe, “…conciliando così
il principio della personalità della responsabilità penale con il fenomeno, tipico in ambito medico,
della crescente specializzazione e divisione del lavoro”58.
In altri termini, è necessario sottolineare come soltanto attraverso una corretta applicazione del
principio di affidamento si garantisce il pieno rispetto dei principi di cui all’art. 27 della nostra
Costituzione nell’ambito dell’attività sanitaria in équipe.
In tale contesto, infatti, ove si estendesse, in senso eccessivamente ampio, l’obbligo cautelare di
ciascun sanitario fino a configurare un dovere di controllo sull’operato dei colleghi con il dovere di
prevenire e contrastare il pericolo di condotte colpose altrui, si finirebbe con l’aprire la strada ad
una inaccettabile “responsabilità di gruppo” se non per “fatto altrui”, in contrasto con il principio
costituzionale della personalità della responsabilità penale59.
La situazione è, invece, differente nel diritto civile ove in alcuni casi si è sostenuto in dottrina un
orientamento – non accolto in ambito penale proprio per l’evidente contrasto con l’art. 27 della
Costituzione – che riconosce la responsabilità di ogni sanitario componente l’équipe medica in
considerazione della difficoltà di individuare con certezza le singole responsabilità nei trattamenti
plurisoggettivi.
Questa forma di responsabilità collettiva, derivante dalla mera partecipazione all’équipe, viene
affermata attraverso l’applicazione del principio, di derivazione anglosassone, della res ipsa
loquitur secondo il quale, nel caso di esito infausto dell’intervento, deve presumersi la negligenza di
tutti i componenti del gruppo di lavoro60.
Ad ogni modo – come si anticipava in precedenza – è necessario sottolineare che l’affermazione
del principio di affidamento è andata di pari passo con l’individuazione di precisi limiti idonei a
confinarne gli effetti e la portata entro limiti ragionevoli.
57
58
Mantovani, 1997, in Riv. It. Dir. e proc. pen., p. 1045.
Gizzi, 2006, p. 753.
59
Pavesi, 2009, p. 949. Come sottolineato in precedenza, infatti, il rischio è quello di ritenere responsabile ogni membro
dell’équipe per il solo fatto di aver preso parte all’intervento, senza accertare le singole responsabilità colpose. Nello
stesso senso si veda anche Salerno, 2014, pag. 598. Secondo L’Autore, infatti, “…Così interpretato il principio di
affidamento si concilia con il modello organizzativo della divisione del lavoro e contempera da un lato l’esigenza di
assicurare la specializzazione e di sostanziare il dovere di diligenza dei sanitari e dall’altro circoscrive i confini del
dovere entro limiti che possono definirsi compatibili con i principi costituzionali in punto di responsabilità penale
personale”.
60
Palma, 2009, p. 599. Per la tesi in questione nella dottrina civilistica si vedano: Cattaneo, 1982; Macchiarelli, Feola,
1995.
21
In sostanza, al fine di scongiurare un pericoloso “effetto deresponsabilizzante”61 per i
partecipanti al trattamento plurisoggettivo che potrebbe derivare da un affidamento eccessivo che
ciascun sanitario ripone nella correttezza dell’operato dell’altro, si è sempre sentita la necessità di
distinguere tra begründetes Vertrauen (affidamento fondato) e blindes Vertrauen (affidamento
cieco) “…che, almeno prendendo in considerazione certi esiti giurisprudenziali, parrebbe
ammantare di una veste giuridica l’antico insegnamento per cui “fidarsi è bene, non fidarsi è
meglio”62.
Infatti, da un lato non vi è dubbio che la finalità principale del principio di affidamento è quella
di consentire ai singoli sanitari di concentrarsi sulle proprie mansioni evitando di essere “distratti”
da un dovere di controllo sui colleghi, sul presupposto che la divisione del lavoro, “consentendo un
approccio multidisciplinare alla singola patologia”, reca innegabili vantaggi e rende più efficiente
la cura del paziente. Dall’altro è altrettanto chiaro che questa esigenza deve essere bilanciata con la
preminente necessità di tutelare la salute del paziente, considerato che l’attività plurisoggettiva è
caratterizzata da rischi complessi e legati ai difetti di coordinamento tra i vari operatori63 di cui è
sempre necessario tener conto.
Sicché, per effettuare un corretto bilanciamento tra queste contrapposte esigenze e per
proteggere al meglio il prevalente interesse del soggetto assistito, sarà necessario un coordinamento
anche minimo tra i sanitari partecipanti all’intervento, non potendo ciascuno di essi isolarsi
totalmente dal contesto plurisoggettivo in cui presta la propria attività ed essendo inevitabile in tali
casi agire in modo coordinato.
Tali esigenze, dunque, hanno portato la dottrina e la giurisprudenza a individuare alcuni limiti
all’applicabilità del principio de quo tali per cui, come vedremo, in presenza di determinati
presupposti insorge (o in alcuni casi permane) a carico del sanitario un dovere di vigilanza e
controllo dell’operato dei colleghi e un obbligo di intervento al fine di porre rimedio ai loro errori
(si tratta del c.d. principio di affidamento temperato o relativo)64.
È evidente, inoltre, che solo individuando le eccezioni al principio di affidamento sarà possibile
descriverne l’effettiva portata tenendo presente che nel corso di tale indagine bisognerà verificare,
di volta in volta, se si tratti di eccezioni che confermino la regola o se le stesse comportino il
pericolo di “svuotare” di ogni significato il principio che si assume come principale (tale rischio, ad
61
In tal senso si vedano, in particolare, Miglio, Ferri, 2015, pag. 482. Secondo gli Autori, infatti, “…se si aderisse a una
concezione atomistica dell’atto medico, che parametri la responsabilità penale di un componente dell’équipe sul solo
atto da lui compiuto, si finirebbe inevitabilmente per deresponsabilizzare il medico da una visione d’insieme dell’intero
trattamento e per compromettere l’indispensabile rapporto di fiducia tra paziente e medico e, in ultima istanza, il buon
esito delle cure”.
62
Massaro, 2011, p. 3858. L’Autore, in particolare, aggiunge che bisogna “…rifuggire, in sede di accertamento, da un
acritico automatismo nel conformarsi a precedenti conformi, per quanto consolidati essi siano. La casistica ipotizzabile
è talmente variegata che la rilevanza attribuita alle peculiarità del caso concreto può, almeno in certi casi, assumere
valore dirimente”.
63
Piras, Lubinu, 2009, p. 306. Secondo gli Autori, infatti, “…Per questa serie di motivi, dottrina e giurisprudenza
hanno enucleato una serie di limiti al principio in analisi”.
64
Palma, 2009, p. 600.
22
esempio, è particolarmente evidenziato nella discussa individuazione degli obblighi di vigilanza
attribuiti al capo équipe)65.
Descrivendo i limiti e le eccezioni al principio di affidamento la prima considerazione da fare è
quella relativa alla precisazione che l’esonero dall’obbligo di vigilanza sui colleghi non è
incondizionato, ma vale soltanto sino a che non vi siano evidenti segnali di inadempimenti altrui.
Questi segnali fanno venir meno il legittimo affidamento sulla correttezza del comportamento
degli altri sanitari in quanto manifestano l’insorgenza di una situazione concreta che rende
prevedibile l’inosservanza delle regole cautelari da parte dei colleghi66.
Ove tali segnali inequivocabili si manifestino il singolo compartecipe all’intervento, percependo
l’errore altrui, dovrà adottare tutte le soluzioni pratiche e tecniche che il caso concreto impone in
modo tale da ovviare agli errori del collega, non potendosi escludere in questo caso una sua
responsabilità penale ove ometta tale “intervento riparatore”67.
Infatti, il sanitario in grado di riconoscere, sulla base di indizi concreti, l’altrui comportamento
inosservante dovrà evitare che tale condotta non conforme possa recar danno al paziente,
prevendendo e correggendo le negligenze altrui68.
Ovviamente, nella valutazione di questi casi assumerà carattere dirimente la valutazione sulla
riconoscibilità dell’inosservanza altrui.
Infatti, ove l’errore del collega era o doveva essere riconosciuto dal singolo sanitario questi non
potrà appellarsi alla valenza esimente dell’affidamento.
Ove, viceversa, la violazione altrui era assolutamente irriconoscibile ed impreventivabile,
l’affidamento sulla correttezza del comportamento dei colleghi continuerà ad essere legittimo e il
singolo professionista non risponderà in alcun modo delle loro condotte colpose.
In dottrina si è osservato che tale essenziale valutazione di riconoscibilità degli errori altrui può
certamente dipendere da dati di esclusiva percezione dell’agente, ma potrebbe anche essere legata al
parametro dell’agente modello (l’errore è riconoscibile quando è tale per l’agente modello),
65
66
Massaro, 2011, p. 3858.
In tal senso, si veda anche Palma, 2009, p. 601.
67
Bravi, 2005, pag. 795. L’autore aggiunge che “…Pur comportando una netta suddivisione di competenze, il lavoro in
èquipe determina, quindi, un reciproco obbligo di sorveglianza e di intervento, dal momento che il collegamento
funzionale ed ambientale tra le attività svolte – determinato proprio dal fatto di lavorare in gruppo – consente al
singolo partecipante di constatare eventuali condotte altrui scorrette o inadeguate (atteggiamenti distratti o incerti,
cattive condizioni fisiche di un membro dell’èquipe) o di rilevare, addirittura, veri e propri errori di condotta.
Naturalmente, un obbligo di questo tipo grava su tutti e ciascuno i componenti dell’èquipe. Nel caso in cui sussistano
rapporti gerarchici tra gli stessi, l’obbligo in oggetto implica la necessità di segnalare al capo èquipe quanto
eventualmente riscontrato”.
68
Massaro, 2011, p. 3858. Nello stesso senso v. Mantovani, 1999, p. 1197. Secondo l’Autore, infatti, l’aspettativa sul
corretto assolvimento degli obblighi altrui è destinata “…a venire meno in presenza di segnali attestanti il discostarsi
dagli standards di diligenza di uno (o più) degli altri partecipanti al lavoro multidisciplinarmente eseguito. In
quest’ultima evenienza, il singolo partecipe, al quale risultino percepibili tali segnali, dovrà adottare il comportamento
che la situazione concreta consiglia al fine di ovviare alle dèfaillances nelle quali sia incorso l’altro”.
23
determinandosi in tal modo “una soglia minima di rilevanza oggettiva della riconoscibilità in
parola”69.
È necessario sottolineare, inoltre, che il principio di affidamento non sarà invocabile da un
soggetto che tramite la propria condotta colposa abbia dato origine all’inosservanza da parte di terzi
delle norme cautelari loro imposte.
Allo stesso modo, non potrà parlarsi di legittimo affidamento sulla correttezza del
comportamento altrui ove chi ripone tale aspettativa sia egli stesso in colpa per avere violato
determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte doverose e,
ciononostante, confidi che gli altri soggetti pongano rimedio alle sue azioni70.
Anche in tal caso, ovviamente, non ci si potrà appellare alla valenza esimente del legittimo
affidamento essendo illegittima e palesemente non invocabile, in questa ipotesi, l’aspettativa sul
corretto comportamento altrui che ne è alla base.
Infatti, chi tiene una condotta inosservante recide “…la situazione di sostanziale equilibrio fra i
garanti che permette l’operatività del principio di affidamento” e, per questo motivo, non avrà
alcun diritto a che altri pongano nel nulla i pericoli eziologicamente rilevanti che ha innestato con la
propria condotta71.
E’ necessario precisare che, come si è visto, paradossalmente, ciascun collega di tale cooperante
inosservante ha comunque il dovere di porre rimedio agli errori di quest’ultimo ove si sia in
presenza di indici fattuali inequivocabili che segnalino l’avvenuta o probabile verificazione di una
condotta colposa di questo soggetto; ma tale obbligo deve essere adempiuto per onorare la propria
posizione di garanzia, che in tali casi si riespande, nonché per proteggere il bene giuridico anche a
lui affidato, “…non certo per ‘sollevare’ da responsabilità penale il proprio collega negligente”72.
69
70
Mattheudakis, 2010, p. 1490.
Grimaldi, 2006, p. 233.
71
Piras, Lubinu, 2009, p. 308. Si veda sul punto anche la soluzione, dello stesso segno, di Mantovani, 1997, p. 183.
Secondo l’Autore, in particolare, “…L’effetto di esonero dagli obblighi di fronteggiare determinati pericoli, insito
nell’operatività del Vertrauensgrund, può aver luogo soltanto quando gli altrui obblighi, di cui si attende l’osservanza,
siano in astratto efficienti, se adempiuti dai rispettivi destinatari, ad eliminare in ogni caso i pericoli presenti in una
determinata situazione: il che, nel caso in cui ad essere atteso sia l’adempimento dei possibili obblighi in astratto
incombenti sul singolo medico, non è”.
72
Piras, Lubinu, 2009, p. 309. Gli Autori proseguono precisando che “…Dunque, se il processo eziologico, innestato
dalla condotta inosservante di uno dei garanti, viene arrestato, l’autore dell’inadempimento potrà eventualmente
essere responsabile per un reato di mera condotta, qualora sia espressamente previsto dalla legge; altrimenti, potrà
essere punibile sul piano disciplinare; se invece l’exitus si verifica, il soggetto inosservante sarà penalmente
responsabile, a meno che l’evento non sia stato provocato da cause sopravvenute “da sole sufficienti a determinare
l’evento”, conformemente al capoverso dell’art. 41 c.p.. Invece il soggetto (o i soggetti) attivatisi avendo percepito il
pericolo: a) non risponderanno dell’evento lesivo nel caso in cui si sia realizzato nonostante abbiano rispettato le leges
artis loro riferibili, giacché alcun addebito colposo potrebbe esser mosso loro, b) ne risponderanno, al contrario, se
hanno anch’essi violato, colposamente, le regole di diligenza loro riferibili: in tal caso, come sostiene pressoché
unanimemente la giurisprudenza, il fatto ha due antecedenti causali (fatta salva, anche in tal caso, l’applicabilità
dell’art. 41 cpv c.p., quindi dell’interruzione del nesso causale per l’eccezionalità della causa sopravvenuta)”.
24
In sostanza, dunque, in tali casi si determina una singolare contraddizione in virtù della quale il
soggetto inosservante non può fare affidamento sul fatto che i suoi colleghi rimedieranno ai suoi
errori, nonostante essi abbiano, alle condizioni indicate, il dovere di farlo.
Ciò dipende dal fatto che, come detto, l’aspettativa che gli altri adempiano il proprio dovere non
è legittima se invocata da un soggetto nei cui confronti è possibile muovere un rimprovero colposo.
Il principio di affidamento, quindi, è un principio di regola operante la cui vigenza, però, viene
meno (oltre che nei casi precedentemente citati ove è configurabile una responsabilità colposa
“originaria” del soggetto che ne invoca l’applicazione) soltanto in presenza di situazioni fattuali e
fattori di natura eccezionale che ne giustificano la disapplicazione.
Tali fattori “eccezionali” corrispondono a positivi stati di fatto in cui – essendo palesemente
inaffidabile il comportamento altrui – si determina una situazione di evidente pericolo per il
paziente, cagionata dall’altrui condotta colposa, che può essere già in atto o che può
ragionevolmente palesarsi in virtù di una serie di indizi fattuali inequivocabili che segnalano
l’imminente e concreta possibilità di una sua verificazione (ad esempio, una situazione in cui sono
evidenti la distrazione o la stanchezza di un collega, la sua inesperienza, le sue precarie condizioni
di salute etc.).
In presenza di tali fattori, dunque, risulta invalidata l’aspettativa di una condotta altrui rispettosa
dei doveri di diligenza, prudenza e perizia e, di conseguenza, non potrà applicarsi il principio di
affidamento in quanto la sua regolarità è smentita dalle circostanze fattuali del caso concreto.
Verificandosi tale situazione, la possibilità di contare sugli effetti in termini di esclusione della
responsabilità del legittimo affidamento sulla correttezza delle condotte degli altri membri
dell’équipe verrà meno e a carico del sanitario sorgeranno degli specifichi obblighi cautelari di
carattere “relazionale”, da attivare, appunto, in relazione alla condotta di terzi73.
Tali obblighi avranno un diverso contenuto a seconda della specifica situazione fattuale che il
singolo sanitario si troverà ad affrontare.
Tuttavia, in ciascuna delle predette ipotesi in cui non è più possibile per il singolo sanitario
invocare l’applicabilità del principio di affidamento, a suo carico dovrà essere configurato
contemporaneamente sia l’obbligo di svolgere i propri compiti con diligenza e perizia (c.d. dovere
primario), sia l’obbligo di controllare l’operato dei colleghi e di attivarsi per prevenire e
neutralizzare gli altrui comportamenti colposi (c.d. dovere secondario), riespandendosi, in tali
ipotesi, il suo dovere di diligenza “per effetto della cessazione dell’affidamento nei confronti del
cooperante negligente”. Ciò in quanto la prevedibilità della violazione rende altrettanto prevedibile
73
Cornacchia, 2013, pp. 1223, 1224. In tal senso, si veda anche Palma, 2009, p. 601. L’autore precisa infatti che “…In
questi casi, l’assenza di un legittimo affidamento determina la riespansione del dovere di diligenza, per cui il medico
non è più tenuto semplicemente al rispetto delle regole cautelari che presiedono all’esercizio delle sue specifiche
mansioni, ma altresì all’adozione di misure cautelari volte ad evitare ovvero ad emendare gli errori altrui (c.d.
obblighi relazionali)”.
25
(di riflesso) l’evento tipico che il sanitario, di conseguenza, dovrà impedire ove, beninteso, tale
accadimento sia in concreto evitabile74.
In particolare, una volta accertata per il singolo sanitario che percepisce gli errori del collega la
doverosità di porvi rimedio è chiaro che si dovrà ulteriormente appurare dal punto di vista
dell’elemento oggettivo del reato, secondo i consueti parametri della causalità in ambito
scientifico75, se l’intervento riparatore dell’errore altrui sarebbe valso o meno a neutralizzarne gli
effetti.
Infatti, solo se la condotta doverosa omessa avrebbe potuto in concreto evitare l’evento lesivo
sarà possibile imputare tale accadimento al professionista che aveva il dovere di attivarsi per porre
rimedio all’errore altrui ma ha omesso tale intervento, fatta salva, ovviamente, la responsabilità di
colui al quale è riferibile l’originaria condotta colposa76.
Ove tale ulteriore dovere cautelare secondario di “contro-azione” – il cui fondamento normativo
“…è stato ravvisato dalla dottrina nell’art. 2 Cost., ritenendolo espressione di un’istanza
solidaristica rispetto al bene tutelato dai coobbligati garanti”77 – non venga rispettato, il sanitario
sarà anch’egli chiamato a rispondere dell’evento lesivo naturalisticamente verificatosi a causa della
condotta colposa altrui78, ma ciononostante “normativamente” a lui imputabile a causa della
violazione della regola cautelare che gli impone, verificatesi le condizioni sopra descritte, di porre
rimedio agli errori dei colleghi.
Nelle ipotesi descritte, infatti, il singolo sanitario ha percepito o avrebbe dovuto percepire –
sulla base delle concrete circostanze fattuali – la violazione di regole precauzionali da parte di altri
soggetti partecipanti all’intervento. Sorgerà, pertanto, a suo carico l’obbligo di impedire l’evento
lesivo per la salute del paziente, anche se il rischio di tale accadimento dipende dalla condotta
colposa altrui.
Per questo motivo ove decida di non intervenire dovrà configurarsi a suo carico una
responsabilità penale ex art. 40, comma 2, del codice penale, per l’evento verificatosi all’esito di un
trattamento in équipe79.
74
In tal senso si veda anche Palma, 2009, p. 601. Nonché, Mattheudakis, 2010, p. 1490. Propone la medesima
distinzione tra questi due doveri anche Risicato, 2013, p. 41. Secondo l’Autore bisognerebbe distinguersi “…tra un
obbligo primario e un obbligo secondario del medico: il primo si indentificherebbe, ma si esaurirebbe, nel puntuale e
corretto assolvimento dei compiti del singolo; il secondo avrebbe invece ad oggetto la sorveglianza dell’altrui operato
e sarebbe solo eventuale, dovendo semmai sorgere nelle circostanze in cui sia ragionevole supporre – in rapporto alle
caratteristiche del caso concreto – il venir meno della fiducia nell’altrui operato”. Il virgolettato è di Piras, Lubinu,
2009, p. 308.
75
76
Per l’analisi delle problematiche della causalità in ambito scientifico si rinvia al paragrafo III.
Mantovani, 1999, p. 1197.
77
Piras, Lubinu, 2009, p. 308. L’espressione “contro-azione” è mutata da Alessandri, 1992, p. 198. Individua nell’art. 2
della Costituzione il fondamento costituzionale dell’obbligo di “contro-azione” anche Mantovani, 1997, pp. 455 ss. In
tal modo secondo l’autore troverebbero riscontro a livello costituzionale anche i limiti connaturati all’applicazione del
principio di affidamento, oltreché, come già visto in precedenza, il nucleo fondamentale del principio in parola.
78
79
Gizzi, 2006, p. 754.
Pavesi, 2009, p. 949.
26
In sostanza, l’ordinamento, in presenza di precisi segnali inequivocabili che rendono palese
l’errore di un determinato soggetto, ritiene legittimo porre a carico del sanitario che li percepisce (o
che avrebbe dovuto farlo) un obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo che il collega rischia di
cagionare ritenendo, di conseguenza, tale soggetto responsabile della verificazione
dell’accadimento lesivo ove ometta il proprio intervento correttivo degli errori del terzo.
Tutto ciò, come detto, in coerenza con la disciplina ordinaria dell’art. 40 del codice penale che,
com’è noto, afferma al secondo comma il principio per cui “Non impedire un evento, che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
A parere di chi scrive, peraltro, tralasciando la questione relativa alla più o meno legittima
qualificazione dell’attività di terzi soggetti come fonti di rischio “umane” per la salute del paziente,
il sanitario che percepisce il “pericolo” costituito dall’errore del collega altro non fa che avvertire
un rischio per l’integrità psico-fisica del soggetto assistito che, nella realtà e nella sostanza pratica
delle cose, non è diverso da qualsiasi altro pericolo di carattere, per così dire, “naturalistico” e
biologico.
L’obbligo giuridico, quindi, più che incentrarsi sulla correzione dell’operato del collega,
dovrebbe tenere al proprio centro, come costante punto di riferimento quanto meno teorico, il
dovere di salvaguardare la salute del paziente da ogni tipo di minaccia esterna qualunque essa sia,
stante l’indubbia posizione di garanzia relativa alla protezione del soggetto assistito che ciascun
sanitario partecipante all’intervento in équipe riveste.
È chiaro che dalla descrizione di tale eccezione alla regola generale del legittimo affidamento,
può ricavarsi, a contrario, il principio secondo cui andrà necessariamente esclusa la responsabilità
del singolo sanitario partecipante all’attività in équipe ove il comportamento colposo del collega sia
assolutamente imprevedibile, “…non essendo emerso nel caso concreto alcun indice fattuale, tale
da rendere prevedibile l’errore altrui e conseguentemente far sorgere il dovere di controllo” e di
intervento80.
Ove, invece, tali indici fattuali emergano in modo inequivocabile, come detto, sorgeranno a
carico del sanitario che li percepisce degli specifici obblighi “esterni”, altresì detti di “carattere
relazionale”, di diverso contenuto a seconda della specifica situazione concreta che egli si trova ad
affrontare.
Tali obblighi, quindi, saranno un’eccezione alla regola della normale fiducia nel comportamento
altrui81.
Una prima tipologia di tali doveri sono i c.d. obblighi sinergici che si sostanziano in un dovere
cautelare volto a coordinare la condotta di un soggetto con quella di un altro.
La necessità di rispettare questi specifici adempimenti rappresenta, all’evidenza, la regola
cardine nel lavoro sanitario in équipe.
80
81
Palma, 2009, p. 601.
Cornacchia, 2013, p. 1224.
27
L’efficacia di tali obblighi, in particolare, è legata al comportamento diligente di ciascuno se è
vero che l’efficienza del coordinamento ed il raggiungimento di un risultato positivo per il paziente
dipendono dalla correttezza di ogni singola condotta .
I casi che vengono in rilievo sono quelli della c.d. causalità cumulativa in cui “…la condizione
colposa posta in essere da taluno è da sola carente dal punto di vista dell’idoneità lesiva, ma può
essere compensata dall’interazione con altri fattori” riferibili al comportamento colposo di altri
soggetti.
In queste ipotesi la necessità per i soggetti coinvolti di coordinare le proprie azioni orienterà
“…la scelta delle cautele adeguate in vista di tale coordinamento”82.
Se la natura di tali obblighi è, a nostro avviso, soprattutto di carattere “preventivo” vi sono altre
tipologie di obblighi relazionali che potremmo definire di carattere “rimediativo”.
Si tratta, ad esempio, dei c.d. obblighi accessori che servono a contenere comportamenti
astrattamente pericolosi o a neutralizzarne le conseguenze.
Essi, in particolare si configurano a carico di chi, avendo cagionato un rischio per il bene
giuridico tutelato che “…assume in maniera stereotipa un significato delittuoso”, riconosce la
condotta deviante di un terzo interveniente nell’attività in corso.
Tale situazione è chiaramente ostativa all’applicabilità del principio di affidamento che è
“…neutralizzato dall’evidenza per cui altri non vorranno rispettare le cautele conformi al proprio
dovere giuridico, ovvero non lo faranno perché nella normalità dei casi non potranno essere edotti
della situazione di pericolo”.
In tal caso, quindi, a carico dell’autore del primo fattore sorgerà l’obbligo di adottare ogni
cautela imposta dal caso concreto al fine di contenere o neutralizzare le potenziali conseguenze
dannose del proprio comportamento.
Tali ipotesi vengono in considerazione, ad esempio, soprattutto nei casi di collaborazione
multidisciplinare “diacronica” in cui, accanto ad un vero e proprio dovere del sanitario – per così
dire, “rivolto al passato” – di fare affidamento sulla correttezza dell’operato dei sanitari
precedentemente intervenuti a garanzia di un efficiente trattamento per il paziente, sorge un obbligo
di tipo accessorio – “rivolto al futuro” – “…di non creare incautamente affidamenti erronei negli
altri intervenienti”83.
82
Cornacchia, 2013, p. 1225. Si fa l’esempio dell’infermiera che “…violando per disattenzione le prescrizioni, inietta al
paziente una dose di farmaco superiore al dovuto ma inidonea a ledere la salute; altra infermiera, credendo che il
farmaco non sia stato ancora assunto (e quindi violando la regola che impone di controllare le cartelle cliniche, gli
orari, la divisione delle incombenze etc.) inietta al paziente una dose conforme alle prescrizioni: il cumulo delle due
quantità provoca danni gravi al soggetto passivo”. È evidente che in tali casi, per evitare eventi lesivi, bisognerà
osservare i descritti obblighi sinergici che, a nostro avviso, sembrano avere carattere prettamente “preventivo”.
83
Cornacchia, 2013, pp. 1225, 1226. La tematica della collaborazione multidisciplinare diacronica è stata affrontata nel
paragrafo III, ove si è sottolineato che, come sostiene lo stesso Autore, “…è escluso che un soggetto possa rispondere
per le attività da altri esplicate, sia pur sviluppando o portando a conseguenze delittuose decorsi causali innescati dal
primo”, fermo restando, ovviamente, i limiti della riconoscibilità e dell’evidenza dell’errore del primo soggetto che
inficiano l’aspettativa di un suo comportamento legittimo, non consentendo l’applicabilità del principio di affidamento.
28
Vi sono, infine, i c.d. obblighi eterotropi o relazionali in senso stretto che rimandano a precisi
doveri di controllo o di informazione nei confronti di terze persone, emergenti in determinate
situazioni.
Tali obblighi si rivolgono a specifiche categorie di medici (ad es. al primario che ha un dovere di
controllo sui medici in posizione subordinata) in ragione del particolare ruolo gerarchico rivestito,
ovvero insorgono in determinate situazioni fattuali (si pensi: al medico in posizione subordinata che
ha l’obbligo di manifestare il proprio dissenso rispetto a direttive del sanitario apicale che ritiene
erronee e pericolose per la salute del soggetto assistito; al dovere di segnalare al medico sovraordinato
gerarchicamente gli errori di un collega riscontrati nel corso dell’intervento, etc.)84.
Le analizzate soluzioni interpretative proposte in dottrina per risolvere le problematiche
intepretative relative all’analisi degli eventi lesivi intervenuti nel contesto dell’attività medica
plurisoggettiva, ad ogni modo, non sembrano essere state recepite in pieno dalla nostra
giurisprudenza di legittimità che esprime, in materia, un orientamento ormai consolidato che ci
appare eccessivamente rigoroso.
Sin dai primi anni 2000, infatti, come si evince dalla sentenza n. 24036 del 200485, la quarta
sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che “…in tema di colpa professionale, nel
caso di "équipes" chirurgiche e, più in generale, in quello in cui ci si trovi di fronte ad ipotesi di
cooperazione multidisciplinare nell'attività medicochirurgica, sia pure svolta non contestualmente,
ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche
mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte
le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal
conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista
in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in
modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e,
come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del
professionista medio”86.
La Cassazione, quindi, – come si legge in una successiva pronuncia della sezione quarta87
confermativa dell’orientamento in analisi – configura in modo costante a carico di ogni componente
dell’équipe sanitaria un vero e proprio “…dovere di conoscere e valutare le attività degli altri
medici in modo da porre rimedio ad eventuali errori, che pur posti in essere da altri siano evidenti
84
Cornacchia, 2013, p. 1226. In argomento v. anche: Salerno, 2014, pp. 593 ss.; Marzot, Negri, 2013, pp. 316 ss.;
Fineschi, Frati, Pomara, 2001, pp. 261 ss.
85
Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 24036 del 02/03/2004. In senso conforme si vedano anche: Cass. Pen., Sez. 4,
sentenza n. 18548 del 24/01/2005; Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 46824 del 26/10/2011.
86
La stessa soluzione è fornita dalla sentenza della Cass. Pen., Sez. IV, 25 febbraio 2000, già analizzata nel parafrago
III in tema di successione nella posizione di garanzia, a testimonianza del fatto che l’orientamento della Cassazione in
materia di attività medica plurisoggettiva, sia essa diacronica o sincronica, è sostanzialmente granitico. In particolare, la
pronuncia in questione può considerarsi “…come “capostipite di questo orientamento ermeneutico”, così Piras, Lubinu,
2009, p. 310.
87
Cass. Pen., Sez. 4, Sentenza n. 33619 del 12/07/2006. Per un commento della decisione v.: Nordio 2006, pp. 74 ss.
29
per un professionista medio”, rispondendo del decesso o delle lesioni del paziente “…ogni
componente dell'équipe, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed
effettive mansioni svolte” e che venga peraltro meno al dovere di controllare l’attività degli altri
sanitari partecipanti all’intervento al fine di correggere i loro errori caratterizzati da un evidenza tale
da “allarmare” qualsiasi professionista, al di là della sua particolare specializzazione.
In dottrina – nel descrivere le caratteristiche che deve rivestire, secondo la nostra
giurisprudenza, l’errore del collega per poter giustificare la presenza di un obbligo di intervento
correttivo da parte del membro dell’équipe che percepisce l’altrui comportamento inosservante – si
è sottolineato che l’analisi attenta delle pronunce giurisprudenziali in materia svela come “…il
requisito della settorialità non rivesta un’effettiva valenza pratica, risultando di contro decisivo
l’elemento della rilevabilità in concreto della negligenza altrui, sebbene questa astrattamente
afferisca ad una diversa specializzazione”88.
Quindi a fondare quello che, come abbiamo visto, è stato definito l’obbligo di “contro-azione”
del sanitario sarà l’evidenza e l’effettiva rilevabilità nel caso concreto dell’errore del collega,
requisiti che andranno parametrati sulla base del normale bagaglio di conoscenza di un
professionista medio.
Tuttavia si sottolinea che, in giurisprudenza, nella maggior parte dei casi “…l’evidenza
dell’altrui condotta colposa non si ricava dalla peculiare dinamica del caso e dalla sua agevole
rilevabilità empirica, ma si modella su un astratto piano deontico che è interamente affidato
all’analisi giurisprudenziale e che è condizionato da pressanti esigenze di tutela e delicati giudizi
di bilanciamento degli interessi”89.
Ad avviso di chi scrive, l’interpretazione della Corte di Cassazione, nel ricostruire l’operatività
del principio di affidamento nell’ambito dell’attività sanitaria in équipe, presenta, per le ragioni che
subito si diranno, un’incongruenza di non poco rilievo rispetto alle acquisizioni ormai consolidate
della nostra dottrina.
L’impostazione dei giudici di legittimità, infatti, può avere l’effetto di privare di significato il
principio di affidamento e la “garanzia” che esso rappresenta per i sanitari coinvolti nelle attività
plurisoggettive.
Tale garanzia invero, come si è evidenziato in dottrina, dispiega effetti positivi sia da un punto
di vista tecnico-pratico, in quanto la regola ordinaria dell’esonero da obblighi di controllo e verifica
dell’operato dei colleghi assicura la possibilità al sanitario di concentrarsi al meglio sulle proprie
specifiche mansioni, sia dal punto di vista giuridico del necessario rispetto delle garanzie
88
Roiati, 2012, pp. 267, 268.
89
Roiati, 2012, pp. 269, 270. L’Autore fa l’esempio della derelizione di oggetti nel corpo del paziente che in alcuni casi
“…non è di per sé evidente, ma lo diviene allorquando si stabilisca l’esistenza dell’obbligo della c.d. conta dei ferri per
tutti i compartecipi”. L’Autore prosegue affermando che il rischio di tale approccio giurisprudenziale è quello di
rendere il requisito dell’evidenza dell’errore non più “… un’eccezione fattuale al principio di affidamento determinata
dallo sviluppo della situazione concreta, ma la diretta conseguenza dell’imposizione dell’obbligo secondario di verifica
e controllo che, laddove inteso in senso ampio e capillare, nonché in un’accezione marcatamente normativa, finisce per
svuotare di significato l’affidamento e lo stesso ricorso alla divisione del lavoro”.
30
costituzionali dei sanitari, assicurandosi, attraverso l’applicazione del principio in analisi, il rispetto
del divieto di responsabilità “per fatto altrui” e del principio della personalità della responsabilità
penale.
È chiaro, tuttavia, che tale garanzia può esplicare correttamente i suoi compiti solo ove l’esonero
dall’obbligo di vigilanza sulle attività altrui sia la regola e non un’eccezione, come, invece, sembra
doversi ricavare dall’interpretazione della Corte di Cassazione.
Si è visto, infatti, che l’orientamento costante della nostra giurisprudenza di legittimità stabilisce
che il singolo sanitario non può “…esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o
contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la
correttezza”, ponendo rimedio, di conseguenza, agli errori di tali soggetti che abbiano i connotati
dell’evidenza e della non settorialità e, in quanto tali, della riconoscibilità ed emendabilità da parte
del professionista medio.
Se, da un lato, è vero che, al pari di quanto sostenuto in dottrina, il dovere di intervenire per
correggere gli errori altrui viene sottoposto a limiti precisi, sorgendo soltanto in presenza di errori
evidenti e aventi le caratteristiche precedentemente indicate, il principale punto critico
dell’orientamento in parola consiste, a nostro avviso, nell’individuazione della “piattaforma”
fattuale e giuridica in cui nasce tale dovere di intervento.
La migliore dottrina che ha approfondito lo studio del principio di affidamento, infatti, afferma
come il dovere di intervenire a correzione del collega sorga soltanto in presenza di segnali fattuali
inequivocabilmente idonei ad inficiare la legittima aspettativa sulla correttezza del comportamento
altrui.
In mancanza di tali “indizi”, sul singolo sanitario non grava alcun obbligo di vigilanza sugli altri
partecipanti all’intervento.
Nella ricostruzione operata più volte dalla sezione quarta della Cassazione, invece, sembra
delinearsi un dovere di controllo sui colleghi che grava ab origine sul singolo professionista ed a
prescindere dalla presenza di concreti indizi di inadempienze altrui, fermo restando che anche
nell’interpretazione della Suprema Corte, così come in quella della dottrina, l’obbligo di intervento
correttivo è limitato agli errori evidenti e riconoscibili dal professionista medio.
La differenza tra la ricostruzione della dottrina e quella della giurisprudenza, a nostro avviso di
non poco conto, consiste nel fatto che, potremmo dire, nel primo caso è l’indizio di inosservanze
altrui che “cerca” (rectius “trova”) il medico il quale, se esso non emerge nel caso concreto, non ha
alcun obbligo di andarlo a cercare “indagando” le azioni dei colleghi.
Nel secondo caso invece è il medico a (dover) “cercare” l’indizio, in quanto grava sin
dall’inizio sul sanitario l’obbligo di vigilare sugli altri partecipanti e di intervenire per porre rimedio
agli errori del collega ove si accorga di evidenti segnali di inadempienze altrui.
In tal modo, però, il rischio è quello di chiedere al singolo sanitario (specie a quello in posizione
apicale) una diligenza eccessiva nel “gestire” i rapporti con i propri colleghi, svuotando di
significato il principio di affidamento e mettendo in crisi il ruolo di garanzia tecnico-pratica e
costituzionale che, come abbiamo visto, esso svolge.
31
L’obbligo di controllo sui colleghi, infatti, deve essere, come insegna la nostra dottrina,
l’eccezione e non la regola del principio di affidamento.
Per essere tale esso non potrà sorgere sempre, ma solo ove vi siano indizi di inadempienze altrui
tali da giustificarlo.
Sostenendo il contrario e stabilendo un costante obbligo di vigilanza su terzi soggetti a carico di
ogni sanitario, il rischio è quello di giustificare pratiche di medicina difensiva da parte della classe
medica, ad esempio incentivando la costante ripetizione di esami e controlli già svolti da altri
colleghi o determinando atteggiamenti di sistematica sfiducia e pressanti controlli incrociati
all’interno dei trattamenti plurisoggettivi.
Si finisce, così, per rendere farraginoso il funzionamento dei meccanismi di coordinamento di
un’équipe con risultati non soltanto antieconomici per il servizio sanitario nazionale ma anche
antipratici per la stessa efficienza ed efficacia dei trattamenti sanitari, a svantaggio della stessa
salute dei pazienti.
Ciò detto, sembra comunque corretto, come fa la nostra giurisprudenza, limitare il dovere di
intervento correttivo dell’errore altrui ai soli casi in cui quest’ultimo risulti evidente e non settoriale
e, quindi, riconoscibile e risolvibile con le generiche conoscenze di qualunque professionista.
Da tale limitazione si ricava, a contrario, il principio secondo cui tale dovere di intervento
correttivo non sussiste quando la violazione del collega non abbia le caratteristiche precedentemente
indicate; in particolare ove si tratti di un errore in alcun modo riconoscibile o particolarmente
settoriale ed individuabile solo da un soggetto dotato di apposita e specifica specializzazione.
Il problema interpretativo che, forse, richiede un “cambio di passo” della nostra giurisprudenza
rimane quello della corretta individuazione dei presupposti in presenza dei quali, per il membro
dell’équipe, nasce quell’obbligo di controllo e vigilanza necessario e prodromico all’esplicazione
del dovere di intervento correttivo90.
90
Condividono le stesse perplessità sugli effetti dell’orientamento della Corte di cassazione anche Piras, Lubinu, 2009,
pp. 312, 313. Secondo gli autori, in particolare, “…il problema della cooperazione multidisciplinare dovrebbe
risolversi: a) assegnando al capo-équipe un ruolo di coordinamento molto pregnante, attraverso direttive, riparto delle
competenze e dei doveri il più possibile scevro da incertezze. La violazione di queste “discipline”, attraverso il
mancato rispetto da parte di ciascun membro del team della propria sfera di competenze previamente delimitata,
comporterebbe una responsabilità colposa in base all’esplicito disposto dell’art. 43 c.p. Il capo-équipe dovrebbe
svolgere le proprie mansioni diligentemente e con la massima perizia nei suoi confronti esigibile; dovrebbe inoltre
svolgere un’azione di controllo sull’operato altrui non “assoluta” ma bensì “temperata”: guidando un’équipe di
esperti in settori differenti, non potrebbe che verificare che non commettano atti genericamente colposi, negligenti,
imprudenti, imperiti. Ma quando l’apporto professionale di ciascuno travalichi le conoscenze proprie di ogni laureato
in medicina e chirurgia, non potrà che aver pieno vigore il principio dell’affidamento sull’altrui professionalità; b)
permettendo a ciascun componente dell’équipe di occuparsi pienamente delle proprie mansioni, ponendo fiducia sia
sull’altrui professionalità sia sulla bontà del controllo effettuato dal capo-équipe sull’operato di ciascuno; fermo
restando, naturalmente, che il pericolo derivante da eventuale colpa generica di ciascuno, potendo essere rilevato da
ogni operatore, dovrà essere segnalato al capo-équipe oppure – ma solo nelle situazioni connotate da urgenza – dovrà
essere rimosso da chi lo abbia individuato. Anche qui il limite della colpa generica trae giustificazione dal fatto che un
livello di conoscenza superiore, che permetta ad ogni membro dell’équipe di ovviare a qualunque errore altrui, anche
specialistico, non è esigibile, vanificando la stessa ragion d’essere della preventiva divisione dei ruoli e delle
competenze”. Sottolinea le citate differenze tra dottrina e giurisprudenza nell’interpretazione del principio di
affidamento anche Roiati, 2012, pp. 257 ss., il quale nel ricostruire le diverse posizioni che si sono assunte in dottrina
32
Per quanto riguarda, infine, l’interpretazione di uno dei più importanti limiti all’operatività
dell’affidamento consistente nella non invocabilità di tale principio da parte di chi, come abbiamo
visto, sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate
condotte doverose e, ciononostante, confidi che gli altri soggetti pongano rimedio alle sue azioni, la
nostra giurisprudenza di legittimità sembra invece aver fatto proprie le indicazioni della migliore
dottrina.
Anche in tal caso, l’orientamento della Suprema Corte risulta consolidato.
In particolare, in linea con la dottrina maggioritaria, la Corte di Cassazione afferma
costantemente che “…in tema di responsabilità medica, con riferimento all'ipotesi di intervento
effettuato da un'équipe chirurgica, il principio di affidamento non opera quando colui che si affida
sia in colpa per aver violato norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte
confidando che altri, succedendo nella posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio
all'omissione: ne consegue che l'eventuale evento dannoso, derivante anche dall'omissione del
successore, avrà due antecedenti causali, non potendo la seconda condotta configurarsi come fatto
eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a produrre l'evento”91.
In conclusione, è necessario chiedersi se sia possibile (ed utile) una codificazione del principio
di affidamento92.
Si è detto, in particolare, che il principio in parola serve ad individuare e distribuire le
responsabilità per colpa tra titolari di obblighi di diligenza di diverso contenuto che possono riferirsi
allo svolgimento di attività pericolose o essere la declinazione di posizioni di garanzia gravanti su
determinati soggetti.
In tale ambito, si è sottolineato in dottrina, è indifferente la fonte al livello della quale viene
operata la diversificazione degli obblighi incombenti in capo ai soggetti chiamati ad interagire,
potendo essa discendere tanto dalla legge quanto da un contratto; ciò che conta è che effettivamente vi
sia una ripartizione “fra più centri” di diversi compiti diretti a prevenire un medesimo evento lesivo.
sull’orientamento giurisprudenziale in esame afferma che “…per parte della dottrina, la giurisprudenza in tal modo ha
finito per sostituire il principio di affidamento con un generalizzato obbligo di controllo e vigilanza sull’operato altrui;
per un’altra parte l’indirizzo in esame sostanzierebbe invece il principio di affidamento c.d. relativo e temperato, volto
a conciliare le esigenze di tutela della vita e dell’integrità psico-fisica del paziente con il principio della personalità
della responsabilità penale”.
91
In tal senso si veda Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 18568 del 26/01/2005. Per un commento di questa decisione si
veda Iachino, 2006, pp. 398 ss. In senso conforme si vedano anche: Cass. Pen., Sez. 4., n. 8006 del 26/05/1999, così
massimata: “In tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere
violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri,
che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione; sì che ove,
anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire,
l'evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto,
sufficiente da solo a produrre l'evento. (Fattispecie di omicidio colposo per colpa professionale, in cui la Corte ha
giudicato corretto il giudizio di responsabilità di entrambi i medici, che, avendone ciascuno autonomamente la
possibilità, in successione temporale, non hanno eliminato la fonte di pericolo - emorragia - evolutasi a causa delle
loro omissioni nella morte di un soggetto sottoposto a splenectomia)”; Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 22614 del
19/02/2008; Cass. Pen., Sez. 4, sentenza n. 27959 del 05/06/2008.
92
È necessario sottolineare che il tema di una possibile codificazione del principio di affidamento ha suscitato scarso
interesse in dottrina.
33
Di conseguenza, dipendendo le possibilità di applicazione del principio in analisi “…dall’assetto
che viene conferito ai doveri di una pluralità di soggetti operanti in una situazione di rischio, una
eventuale codificazione del principio di affidamento nulla toglierebbe e nulla aggiungerebbe allo
stesso: ad essere decisivo rimarrebbe pur sempre quello e non questa”93.
A parere di chi scrive, quest’ultima impostazione è da condividere nella misura in cui afferma
che una codificazione generale del principio di affidamento, ad esempio all’interno dell’art. 113
c.p., non avrebbe utilità concreta, essendo dirimenti in materia le fonti che definiscono l’ampiezza,
il contenuto ed i limiti dei doveri di ciascun soggetto coinvolto nell’azione plurisoggettiva.
Tali fonti, chiaramente, saranno diverse per ciascun tipo di attività collettiva in cui può
concretizzarsi il problema di individuare le diverse responsabilità relative alla verificazione di fatti
colposi.
Di conseguenza una codificazione generale non risolverebbe il problema una volta per tutte
dovendosi necessariamente accertare, caso per caso, quali sono i diversi doveri e le diverse
responsabilità dei soggetti coinvolti, variando quest’ultime a seconda della tipologia di attività
concretamente svolta.
5. Note conclusive
L’indagine condotta ha evidenziato come ad essere decisivo, nella definizione dei limiti di
operatività del principio di affidamento, sia l’assetto dei doveri conferiti, all’interno delle varie
attività rischiose, ai diversi soggetti coinvolti (per quanto qui interessa, si tratta dei doveri attribuiti
ai vari partecipanti all’attività medica plurisoggettiva).
Il legislatore, pertanto, potrebbe intervenire regolando con maggiore chiarezza la distribuzione
di obblighi e responsabilità tra i sanitari coinvolti nelle attività in équipe.
In particolare, a nostro avviso, non sarebbe fuori luogo un intervento in tal senso del nostro
legislatore che stabilisca con chiarezza l’applicabilità – in campo medico – del principio
dell’affidamento c.d. temperato in cui la regola dell’assetto dei doveri, come detto, sia quella
dell’esonero dall’obbligo di vigilanza sull’operato altrui e della possibilità di fare affidamento sulla
professionalità dei colleghi, prevedendo allo stesso tempo delle rigorose eccezioni a tale principio che
si mantengano, però, entro limiti che consentano di poterle configurare realmente come tali (ad es.
stabilendo che il dovere di intervento correttivo dell’errore del collega insorga solo in presenza di
palesi inosservanze altrui – che il professionista medio ha il dovere di rilevare ed emendare – le quali
emergano in modo chiaro nel caso concreto e non, al contrario, obbligando i membri dell’équipe ad
esercitare un preventivo controllo dell’operato altrui, da cui il singolo sanitario, per salvaguardare la
reale efficacia dell’affidamento e dello stesso trattamento, deve rimanere esonerato).
93
Mantovani, 1997, p. 450.
34
La definizione dei presupposti del c.d. dovere di “contro-azione” sarà chiaramente un compito
estremamente delicato per il nostro legislatore che dovrà cercare un equilibrato bilanciamento dei
vari interessi in gioco, considerando l’importanza della tutela della salute dei pazienti.
In tal senso, sarebbe probabilmente molto più utile valorizzare l’aspetto preventivo (piuttosto che
quello repressivo) dei fatti colposi, sensibilizzando ed incentivando la classe medica a sviluppare
meccanismi di organizzazione, coordinamento e controllo sempre più moderni ed efficienti all’interno
delle équipes sanitarie, in modo tale da andare sempre più verso la necessaria configurazione in
materia di un sistema basato più sulla colpa in organizzazione che sulla culpa in vigilando.
Un possibile strumento volto a raggiungere tale risultato potrebbe essere costituto, nell’ambito
dell’attività sanitaria in équipe, dalle checklist, dei protocolli standardizzati di sala operatoria che
fissano alcune basilari regole cautelari di azione volte a procedimentalizzare i controlli tra i sanitari,
individuando precise competenze e favorendo il dialogo tra i vari compartecipi al trattamento.
Mediante un proficuo sfruttamento di tali strumenti, infatti, sarebbe possibile favorire un
mutamento degli obblighi gravanti sui partecipanti al trattamento plurisoggettivo, che passerebbero
da un dovere di controllo “diretto” su tutti i colleghi, inafferrabile e materialmente inesigibile, ad un
dovere di controllo “indiretto”, da attuare attraverso la predisposizione e l’attuazione, all’interno
delle équipes, di un corretto sistema di controlli incrociati.
In tal modo, da un lato si favorirebbe un più efficace funzionamento dell’équipe, in
considerazione del carattere “relazionale” della colpa in tali contesti plurisoggettivi94 in cui l’esito
infausto del trattamento dipende non tanto da errori individuali ma da “errori di gruppo” derivanti
da un difetto di coordinamento e di comunicazione tra i sanitari; dall’altro si configurerebbe – al
posto di una generica culpa in vigilando, la cui ampiezza indiscriminata rischia di configurare
ipotesi di responsabilità oggettiva in contrasto con il principio costituzionale di personalità della
responsabilità penale – una vera e propria colpa in organizzazione a carico, in particolare, del
sanitario apicale che, una volta predisposto un efficiente sistema di controlli incrociati andrebbe
esente da responsabilità per i fatti colposi dei propri collaboratori, fermo il limite dell’evidenza
dell’errore altrui di cui il sovraordinato abbia diretta percezione95.
A beneficiare di tale riallocazione delle responsabilità all’interno dell’équipe sarebbero, del
resto, tutti i sanitari partecipanti all’intervento che, adempiuti i loro obblighi (predefiniti e
standardizzati) di controllo secondo le procedure definite dall’apicale, si metterebbero al riparo da
qualsiasi addebito96.
Tale soluzione sembra, in definitiva, un ragionevole punto di equilibrio tra gli interessi della
classe medica e la necessità di tutela della salute del paziente.
94
95
96
Cornacchia, 2013, pp. 1223, 1224.
Sul punto v. anche Caputo, 2012, pp. 896 ss.; Massaro, 2013, p. 389.
Anche in tal caso, ovviamente, fermo restando il limite dell’evidenza dell’errore altrui.
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