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Parte II STORIA DEI RAPPORTI ROMA – COSTANTINOPOLI Dal 1453 al 1958 di P. Gerardo Cioffari o.p. Bari 2018 1 Sommario Introduzione 1. Il patriarcato ecumenico dopo la caduta di Costantinopoli (1453) 2. Cattolici e ortodossi disattendono i decreti del Concilio di Firenze 3. 3. θapi umanisti ed ΟecumeniciΠ: da δeone X (1521) a Giulio III (1555) 4. La comunità greca di Venezia: tensioni fra uniti e dissidenti 5. δa svolta ΟantiecumenicaΠ dei papi dopo il concilio di Trento 6. Il metropolita di Filadelfia a Venezia: α α 7. Gregorio XIII e il Collegio greco di S. Atanasio a Roma (1583) 8. Geremia II: i Protestanti e il Calendario 9. Lo scontro fra papi e patriarchi si sposta in Rutenia: l΢Uniatismo (1596) 10. La nascita della Propaganda Fide. 11. Successi protestanti nel patriarcato ecumenico. Cirillo Lukaris 12. La reazione ortodossa antiprotestante: P. Moghila e M. Syrigos (1642) 13. δ΢ηrtodossia panellenica di Dositeo di Gerusalemme (1672) 14. δ΢attivismo missionario cattolico e le bolle di Benedetto XIV (1755) 15. Il Patriarcato e i fermenti nella teologia greca 16. Dalla Communicatio in sacris al Ribattesimo dei latini (1755). 17. Enciclica di Pio IX: In suprema Petri Apostoli sede (6 gennaio 1848) 18. Enciclica dei Patriarchi orientali in risposta a Pio IX (maggio 1848) 19. La Praeclara Gratulationis di Leone XIII (20 giugno 1894). 20. δa risposta: l΢Enciclica di Antimo VII (agosto 1895) 21. La svolta del patriarca Gioacchino III (1902). δ΢enciclica del 1920. I Delegati patriarcali a Losanna (1927). 22. I papi da Pio X e Pio XII. . Appendici I.- La bolla di Leone X (1521) nel commento del Rodotà II.- Il patriarca Geremia II nel carteggio di Antonio Possevino (1581-1584) III.- Lettera di Cirillo Lukaris al papa Paolo V (1608) IV.- Il Patriarca Cirillo Kontaris al Papa Urbano VIII (1637) V.- Relazione sulla tragica morte del patriarca Cirillo Kontaris (1641) VI.- Risposta dei Patriarchi orientali al papa Pio IX (1848) VII.- Lettera del patriarca ecumenico Gioacchino III alle chiese ortodosse (1902) VIII.- Enciclica del patriarcato ecumenico (1920) IX.- Pio XI. Enciclica Mortalium animos (1928) 2 Introduzione La conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi il 29 maggio del 1453 fu un fatto epocale. La città non era una città qualsiasi, bensì il centro e crocevia di commerci verso l'oriente e l'occidente, il punto di riferimento dell'antica cultura greca, nonché della grande era patristica e quindi cuore della spiritualità ortodossa. La grande impresa di Maometto II il Conquistatore, che poneva fine ad una civiltà millenaria (qualche studioso fa finire il Medioevo proprio con la conquista di Costantinopoli), ebbe tutta una serie di conseguenze storiche che interessarono i campi più diversi. Fu una tragedia per la cristianità, che con l'Asia Minore perdeva la terra teologicamente più feconda (da lì provenivano la maggior parte dei Santi Padri e lì si erano tenuti tutti e sette i concili ecumenici comuni alle due chiese) 1. Le principali fonti sulla situazione dei cristiani nelle terre conquistate dai turchi sono le seguenti: - Allatius L., Greciae Orthodoxae, I-II, Roma 1652, 1659. - Chalcocondyles Laonicus, Historiarum demonstrationes, ed. E. Darkò, I-III, Budapest 19221927; ed. I. Bekker, Bonn 1843. - Critoboulus Ermodorus Michael, De rebus gestis Mechemetis II , in ΟFragmenta Historicorum GraecorumΠ, ed. C. εüller, V, θaris 1883, pp. 40-161. - Crusius Martin, Turco-Graeciae libri octo, Basilea 1584 (contiene la ΟStoria politica ed ecclesiasticaΠ di Nik. Malaksa) - Filippo di Cipro, Cronaca dei Patriarchi di Costantinopoli, ed. Henr. Hilarii, Lipsiae Francf. 1687. - Dorotheos di Monemvasia, Σ ο Χ ο ο ο , - Gemistus, Georgius (Pletho), PG 160, 805-1020. - Georgius Trapezuntius, PG 161, 769-908. - Ipsilanti Ath. Komi, Ἐ α ῶ α πο ῶ ῶ ἐ ώ α η I’, Ἐ Κ α ο πό 1870. - Leonardus Chiensis, Historia Constantinopolitanae Urbis a Mahumete II captae, PG 159, 923-944. - Melezio di Atene, Ἐ α ὴ ἱ ο α, 1784 - Miklosich F., Müller J., Acta et diplomata graeca medii Aevi, Vindobonae 1862. - Nettario di Gerusalemme, Ἱ ὰ ἱ ο α, 1669. - Phrantses Georgios, Χ ο ό . Annales Georgii Phrantzae Protovestiarii, ed. I. Bekker, Bonn 1838; anche ed. I. B. Papadopoulos (Teubner ed.), Lipsiae 1935 - Plousiadenos Iohannes (Giuseppe di Methone), PG, 159, 959-1394 α α α α α π (Historia politica et patriarchica Constantinopoleos), ed. I. Bekker, Bonn 1849. - Raynaldus O., Annales Ecclesiastici, t. VIII-IX, Lucca 1752. - Scholarios G., Oeuvres Complètes de Gennade Scholarios, I-VIII, ed. L. Petit, X. A. Siderides, M. Jugie, Paris 1828-36, PG 160-161. - Syropoulos Sylvester, Vera Historia Unionis non verae, Hagae-Comitis 1660. - Sinossi dei Patriarchi di Costantinopoli dal 1594, ed. in Bandurio, Imperii Orientali, t. XI (1711) [fonte εalyševskij] - Theiner A., Monumenta spectantia ad unionem ecclesiarum graecae et romanae, Vindobonae 1872. - Zoras G., Chronicle of Greco-Turkish History from 1373 -1513 of Cod. Barb. 111, edita a puntate in varie riviste (1. π α α α π 2. π π α π 3. α) tra gli anni 1949-1956. 1 3 Sotto l΢aspetto dei rapporti fra la Chiesa di Roma e la Chiesa ortodossa la conseguenza più appariscente fu lo spostamento dell΢asse gravitazionale da Costantinopoli (con Alessandria, Antiochia e Gerusalemme ugualmente sotto il dominio musulmano) a Mosca. Tuttavia, per svariati motivi che vengono evidenziati nella mia ΟStoria della Teologia russaΠ, persino εosca doveva idealmente fare riferimento a Costantinopoli. Maometto II, tutto preso dalle sue conquiste, non aveva però alcun interesse a convertire i cristiani all'Islam. Voleva solo assoggettarli e integrarli nel suo impero. Ecco perché mantenne l'istituzione del patriarcato. Ad esso anzi conferì, oltre l'autorità spirituale, anche il potere governativo e amministrativo sui cristiani che durante il periodo bizantino non aveva mai avuto, essendo appannaggio dell'imperatore. Naturalmente, il fatto che il patriarca di Costantinopoli dipendeva (e doveva essere previamente riconosciuto) dal sultano in più d΢una occasione complicava i rapporti con gli altri rappresentanti delle chiese cristiane. Il sultano, infatti, non interferiva direttamente negli affari interni o dottrinali del patriarcato ma, quando questo entrava in contatto con le potenze straniere (ad esempio, con la Polonia), si faceva particolarmente vigile a che, se non proprio vantaggiosi alla Turchia, tali contatti non risultassero di nocumento. E dato che i rapporti del patriarcato ecumenico sotto i turchi con la Chiesa romana, quasi sempre solo indiretti, coinvolgevano interessi più vasti, furono immancabilmente condizionati dalla situazione politica. In ogni caso, se Maometto II fu di larghe vedute nel permettere una certa libertà di culto, non altrettanto lo fu relativamente alle scuole teologiche. Furono tutte chiuse, ad eccezione di quella patriarcale, che in questi primi anni di dominio turco rimase sotto la direzione di Matteo Kamariotas. I greci furono così costretti a studiare in occidente, in città come Bologna, Firenze, Padova, dove nel 1508 giunse Marco Musuros (e che sarebbe stata scelta per i loro studi da Massimo Margounios, Gabriel Severos e Melezio Pigas). Ma centro principale era destinata ad essere Venezia. Qui da Creta giunsero con la loro tipografia Laonikos e Alexandros, e soprattutto Zaccaria Kalliergis. La mancanza di un΢attiva tipografia ortodossa in territorio turco fu determinante nel quadro di quella crisi della teologia greca che avrebbe portato alla ribalta quella slava, e soprattutto russa. Fondamentale, ma purtroppo isolata e temporanea, fu l΢iniziativa del patriarca di Gerusalemme Dositeo alla fine del XVII secolo di impiantare una tipografia greca in Romania. Quanto ai rapporti con i latini, in questa lotta per la sopravvivenza, i greci non poterono fare altro che arroccarsi sulle loro antiche posizioni e combattere il cattolicesimo con gli stessi argomenti del tempo di Fozio, e il protestantesimo con gli argomenti dei cattolici. A loro volta i papi, ad un periodo di apertura (fino al concilio di Trento) fecero seguire un periodo di intransigenza fino a tutta la prima metà del XX secolo. Una intransigenza ed una autosufficienza spesso coperte da un linguaggio dolce e paterno che irritava ancor più gli ortodossi. I protagonisti della svolta, come si sa, furono il papa Giovanni XXIII e il patriarca ecumenico Atenagora. Furono 4 essi ad abbandonare da una parte il tono di autosufficienza caratteristico dei papi del passato e dall΢altro il tono assurdamente accusatorio dei patriarchi ecumenici anteriori al XX secolo, che vedevano in ogni differenza ΟlatinaΠ un΢eresia. 1. Il patriarcato ecumenico dopo la caduta di Costantinopoli (1453) Più volte nella sua storia Costantinopoli era stata in pericolo. Si era tuttavia salvata, superando un millennio di vita, ora per l΢abilità dei suoi sovrani ora per le discordie dei suoi nemici. Persino la politica unionista che portò ai concili di Lione (1274) e di Firenze 2 aveva come scopo principale l΢intento di salvare la città dagli Angioini di Carlo I e dalla capitolazione dinanzi ai musulmani. In quest΢ultimo caso, però, anche il sacrificio ecclesiale si rivelò inutile. Era troppo tardi. Nel XV secolo i papi di Roma non avevano più la forza trainante di un Urbano II o un Innocenzo III. E solo Genova e Venezia rimasero a difendere la città (e i loro interessi commerciali). La mattina del 29 maggio 1453 Maometto II il Conquistatore (Mehmet II Fatih) irrompeva nella più splendida delle capitali e la metteva letteralmente a ferro e a fuoco3. La vigilia, mentre il sultano preparava le sue truppe alla battaglia, i Cristiani, greci e latini assieme, celebravano in Santa Sofia la loro ultima funzione religiosa 4. ζel corso della battaglia trovarono la morte l΢imperatore Costantino XI Paleologo (1449-1453), il comandante genovese Giovanni Giustiniani ed il patriarca Atanasio II (1450-1453). Diverse chiese, e soprattutto Santa Sofia, furono saccheggiate e poi trasformate in moschee. Altre furono lasciate alla popolazione cristiana sopravvissuta. Maometto il Conquistatore non volle infatti abbandonare la città nella confusione. Benché sull΢onda della vittoria continuasse a mietere spettacolari successi, era chiaro che anche per lui Costantinopoli era destinata ad essere la capitale naturale del nuovo impero. Egli era abbastanza tollerante in religione (secondo la dottrina coranica: tolleranza in cambio di tributi), ma non poteva lasciare Santa Sofia ai Cristiani. Lo storico turco coevo Tursun Bey, trascurando tutte le altre chiese, vedeva il Padre della Conquista soffermarsi ad ammirare lo splendore non offuscato dalla rovina. Egli vedeva che era rimasta intatta solo la cupola: Ma che cupola! Essa rivendica uguaglianza con le Nove Volte celesti 5. Il miglior lavoro sul concilio di Firenze e il seguito dei rapporti Roma-Costantinopoli fino alla caduta della capitale è quello di Joseph Gill, Il concilio di Firenze, Sansoni ed., Firenze 1967. 3 Per la prospettiva turca, vedi Tursun Bey, La Conquista di Costantinopoli, Mondadori, Milano 2007; per quella occidentale vedi Steven Runciman, La caduta di Costantinopoli, Piemme Pocket, Casale Monferrato 2001; Agostino Pertusi, La caduta di Costantinopoli, 2 vol., Milano 1976; Id., Testi inediti e poco noti sulla caduta di Costantinopoli, ed. postuma a cura di A. Carile, Bologna 1983. 4 Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi Tascabili, Torino 1993, p. 508. 5 Tursun Bey, La Conquista, cit., p. 81. Costruita sotto Giustiniano da Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, e consacrata nel 537, Santa Sofia divenne moschea per volere di Maometto II il Conquistatore (1453), finendo come Museo nel 1934 per disposizione di Mustafà Kemal Atatürk. 2 5 Maometto II il Conquistatore Gennadios II Scholarios, primo patriarca dopo la conquista ottomana 6 Al fine di riportare ordine religioso in città il sultano scelse la figura del monaco Gennadios Scholarios, capo indiscusso degli antiunionisti (dopo la morte di Marco di Efeso, avvenuta nel 1445)6, fatto prigioniero nel monastero annesso alla chiesa del Pantokrator e ben presto condotto ad Adrianopoli (Edirne). Egli in parte era già informato sulle tensioni cittadine fra unionisti e antiunionisti, per cui gli parve opportuno affidare allo Scholarios la guida dei cristiani ortodossi di Costantinopoli. A tale scopo lo fece tornare da Adrianopoli e gli offrì la chiesa dei Santi Apostoli, seconda per grandezza soltanto a Santa Sofia. Accolta, dopo qualche reticenza e soltanto per un anno, la proposta del sultano, Scholarios alcuni mesi dopo si trasferiva nella chiesa del Pammakaristos, allocando le monache e le reliquie nel convento di S. Giovanni in Trullo. Adempite tutte le cerimonie sinodali che lo avrebbero portato all΢elezione patriarcale, Scholarios si presentò al sultano, il quale gli offrì un bastone d΢argento con tante pietre preziose e soprattutto il titolo di etnarca, vale a dire governatore della nazione greca all΢interno del sultanato turco (la nazione greca era designata dai turchi come ΟmilletΠ e il capo di essa come Οmillet bazΠ). Da allora gli ortodossi avrebbero goduto di una relativa libertà confessionale e il patriarca sarebbe stato il responsabile presso la Sublime Porta. Secondo lo storico coevo Phrantzes (1401-1478) il primo documento concesso dal sultano fu proprio questo ΟberatΠ di Maometto il Conquistatore allo Scholarios7. Sul suo esempio anche i sultani successivi avrebbero espresso la loro conferma dell΢eletto con un berat, contenente i privilegi e le competenze del patriarca. Tali privilegi e competenze erano molto vasti, e comprendevano la giurisdizione su tutto il clero e popolo ortodosso (spesso anche sugli altri cristiani), il libero possesso di chiese e monasteri (compreso il diritto di ereditare), l΢amministrazione delle istituzioni educative e di beneficenza, nonché il diritto familiare (essenziale al riconoscimento delle garanzie sociali). Naturalmente, non tutti i sultani rispettavano le concessioni previste nel berat, e se erano animati da spirito islamico cercavano di ostacolare in tutti i modi la libertà religiosa dei cristiani. Altri, poi, avidi di denaro, non si sarebbero fermati dinanzi allo scempio della dignità patriarcale con frequenti e umilianti deposizioni. Il Protonotario della Grande Chiesa, Filippo di Cipro, riferendosi a Gennadio scriveva: Primus a Deo vocatus sapientissimus Georgius Scholarius, cui sultanus Mechmet sceptrum judiciale et pileum sua manu donavit, aliaque beneficia, quae romani imperatores Patriarchis praestare solebant, huic etiam Gennadio Scholarios, l΢uomo più colto in quel momento a Bisanzio, era stato uno dei più convinti assertori dell΢unione con la Chiesa di Roma, appoggiando in tal senso la politica dell΢imperatore Giovanni θaleologo, che l΢aveva portato con sé a Firenze. Al ritorno dal concilio, a contatto con Marco di Efeso, si fece monaco mutando il nome (da Giorgio in Gennadio) e cambiò atteggiamento, divenendo il leader del partito antiunionista. Per la sua produzione letteraria vedi Oeuvres complètes de Gennade Scholarios, 8 voll., ed. L. Petit, X. A. Siderides, M. Jugie, Paris 1928-1936. Anche in PG 160 e 161. 7 Phrantses Georgios, , ed. I. B. Papadopoulos (Teubner ed.), Lipsiae 1935, p. 456. Il patriarca veniva eletto da un΢assemblea di vescovi della città o dei borghi vicini, nonché da igumeni o laici rappresentativi. Appena ci si accordava sul nome l΢assemblea acclamava con la parola ΟE΢ degnoΠ( Ἄ ). Il nome veniva comunicato alla Sublime θorta e, se non c΢erano ostacoli, dopo due o tre giorni un funzionario veniva a prendere e ad accompagnare dinanzi al sultano il patriarca eletto. 6 7 libens concessit. Quum vero ecclesiam Christi gubernasset annos V, menses VI, post abdicatus est 8. Eletto il 6 gennaio 1454 restò in carica fino al 6 gennaio 1456, cioè un anno in più di quanto si fosse riproposto. Un suo breve ritorno alla stessa dignità si ebbe tra la fine di aprile e la fine di maggio 1463, ma fu interrotto bruscamente da una sua fuga per evitare di essere costretto ad approvare il matrimonio adulterino del cugino del sultano (cosa alla quale non si piegò neppure il suo successore Ioasaf I Koclas, che fu deposto nel novembre del 1463). Fu patriarca una terza volta per un anno intero tra l΢agosto 1464 e la fine dell΢estate 1465. Quindi tornò sul Monte Athos al raccoglimento e agli studi, chiudendo gli occhi nel Signore in un anno vicino al 1472. Il sultano Maometto II e il patriarca Gennadios II Scholarios Chronicon Ecclesiae Graecae, Franequerae 1679, p. 13 (cito da Varnalidis, La vita del Patriarcato ecumenico, dattiloscritto, p. 13). 8 8 δo Scholarios, che tra l΢altro era un gran conoscitore di S. Tommaso d΢Aquino, si dimostrò particolarmente deciso contro ogni comunione con i latini, senza però giungere a chiamarli eretici. Anzi egli auspicava un futuro concilio che risolvesse la questione. Nel frattempo la cosa più prudente era di attenersi alla tradizione e di non apportare innovazioni. . In un suo articolo (δ’Unionisme de George Scholarios), Martin Jugie, faceva riferimento ad una lettera dello Scholarios all΢igumeno della grande δavra athonita di S. Atanasio, che gli chiedeva come comportarsi con gli ortodossi che avevano accettato l΢unione ed ora rientravano nell΢ηrtodossia. Lo Scholarios gli suggeriva di non seguire l΢intransigenza dei Novaziani e di accoglierli con comprensione. Quanto ai rapporti col sultano, sembra che questi incontrasse almeno tre volte lo Scholarios, chiedendogli di scrivere qualcosa che riassumesse in modo chiaro la fede cristiana. Il primo scritto, intitolato δ’unica via che porta gli uomini alla salvezza, apparve al sultano alquanto complicato. Il patriarca ne compose allora un altro con lo stesso titolo, che risultò al sultano più comprensibile ed è noto come Confessione di fede di Gennadio, da alcuni annoverata fra i libri simbolici della Chiesa ortodossa9. In realtà si tratta di uno scritto molto semplice, che evita le dispute teologiche in corso, e presenta la dottrina cristiana partendo dalla Trinità, per passare all΢incarnazione e quindi alla redenzione, senza dimenticare gli aspetti morali del dogma 10. Secondo lo storico turco Ismail Hakki Uzunçarsili, l΢atteggiamento di Maometto II Conquistatore verso lo Scholarios era un chiaro avvertimento a non continuare la politica unionista con i cattolici romani. In cambio egli avrebbe garantito agli ortodossi di poter continuare nella loro tradizione, liberi cioè dalle pressioni latine. Gli imperatori bizantini si erano trovati spesso nella necessità di ricorrere al papa, ma lo avevano fatto forzando la loro coscienza al fine di salvare Bisanzio dal pericolo turco. Invece, alla prova dei fatti, il governo turco liberò la Chiesa ortodossa da questa involontaria sottomissione a Roma 11. In realtà, come nota anche il Varnalidis, la divisione delle chiese coincideva con gli interessi politici turchi, in quanto l΢opposizione a Roma indeboliva ogni tentativo di organizzazione di una nuova crociata per la riconquista cristiana della capitale. ζonostante l΢asprezza dello scontro fra unionisti ed antiunionisti, non mancava anche il partito di chi, come il poeta del Compianto sulla Santa Sofia, sperava in un ritorno della città alla cristianità, sia pure alla cristianità latina: Iddio suona e suona la terra, suonano i firmamenti e suona Santa Sofia, il grande monastero con quattrocento simandré e sessantadue campane, ogni campana un prete, ogni prete un diacono. Canta a sinistra il re, a destra il patriarca e dal gran salmodiare tremavano le colonne. Com’erano al cherubico e all’uscita del re, una voce scese dal cielo dalla bocca dell’arcangelo: ”Il cherubico cessi e si cali il Santissimo, e voi preti prendete i sacri arredi, e voi ceri spegnetevi: è stata volontà di Dio che la città sia ora Testo in Karmiris 1960, I, pp. 429-436. Sullo Scholarios vedi la voce molto erudita di M. Jugie Scholarios Georges, in DTC XIV, col. 1521-1570. 11 Il Varnalidis, da cui prendo questa informazione, rinvia al volume di questo autore Osmanli tarichi, vol. II, Ankara 1964, p. 6. 9 10 9 turca. Ma in Francia vada un messo, che vengano tre navi: una prenda la croce e l’altra il Vangelo, la terza, la più bella, il nostro santo altare per elevare lodi, e non sia preda dei cani”. Si turbò la Madonna e piansero le icone: “εadonna, sta’ tranquilla, icone non piangete”, con gli anni e con il tempo, tutto qui sarà di nuovo vostro12. Sulla stessa scia si muoveva il poemetto (1045 versi) intitolato Lamento di Costantinopoli (Θ α π ). Al pianto l΢autore faceva seguire un appello ai grandi dell΢occidente affinché stringessero una lega antiturca. Egli non parlava solo per sé, ma esprimeva il desiderio di coloro che lo avevano incaricato di scrivere.. Omettendo prudentemente le polemiche pro e contro l΢unione, egli ricordava che si trattava di una causa che coinvolgeva tutta la cristianità. Per questo era opportuno che il papa di Roma, Οcapo della ChiesaΠ, Οcolonna della fedeΠ, Οluce e luminare dei cristianiΠ si facesse carico di convocare i principi cristiani che, vincendo tutte le loro discordie, partissero per la santa guerra di liberazione di Costantinopoli13. Chiesa dei Santi Apostoli, concessa dal sultano come sede patriarcale Cfr. Varnalidis ΟRelazioni tra Cattolici ed Ortodossi dopo il Concilio di FirenzeΠ, dattiloscritto, p. 7. 13 Cfr. Ellissen Adolf, Analekten der mittel- und neugriechischen Literatur, Leipzig 1860. Cfr. Vacalopoulos 1970, p. 366. θer uno studio complessivo su questi ΟδamentiΠ vedi Zoras G., α π , Atene 1959, pp. 157/283. 12 10 Nei primi anni di dominio turco fra i cristiani di Costantinopoli regnava lo smarrimento. Alcuni ritenevano che la caduta della capitale era stata una conseguenza del tradimento della fede ortodossa nell΢accettare l΢unione di Firenze, altri, al contrario, che la causa era proprio l΢esser venuti meno alla parola data a Firenze e di non aver proclamato l’unione nella capitale bizantina. Tra i fautori dell΢unione degni di menzione sono Giuseppe di Metone, autore tra l΢altro di una Apologia del concilio di Firenze, e Giorgio di Trebisonda (13951484). Quest΢ultimo, spirito di umanista turbolento, fidando nella protezione del papa Paolo II di cui era stato maestro, assunse un atteggiamento che scandalizzò molti e lo fece finire agli arresti in Castel Sant΢Angelo. θartendo infatti dal concetto mistico della città di Costantinopoli, vedeva come un fatto voluto da Dio la conquista di Maometto II, da lui considerato superiore a d Alessandro εagno e a Giulio Cesare. ηra, se l΢imperatore di Costantinopoli per volere di Dio ha rivestito la sacralità riconosciutagli da tutti i cristiani, anche Maometto II ha occupato quel trono per volere di Dio e per compiere una missione: Quoniam nemo dubitare potest, quin haec omnia in melius omnipotens Deus reformaturus sit, tum ipse rerum variae immutationes et corporum Europae inaudita confusio his nostris temporibus cuncta in melius reformanda significant, tum etiam tua virtus et foelicitas et res magnificentissime gestae id ipsum portendunt tum maxime atque maxime Constantini sedes tibi data demonstrat, ab omnipotenti Deo tuam ad hoc maiestatem electam esse, ut sicuti Constantinus in una fide, in una ecclesia in unoque diutino imperio terrarum orbem ad id flexum foelicitate magis quam virtute firmavit. E΢ difficile dire però se questa ΟutopiaΠ fosse parte integrante della sua mentalità, oppure fosse stata ispirata da quel tentativo di dialogo religioso che si era stabilito fra il Conquistatore e Gennadio Scholario (che egli menziona sul finire della seconda lettera a Maometto II)14. 14 Cfr. A. Mercati, Le due lettere di Giorgio di Trebisonda a Maometto II, OCP IX, 1943, pp. 6599. La citazione è a p. 96. 11 Più frequente però era la sensazione di confusione e smarrimento, non sapendosi spiegare come Dio avesse permesso una simile tragedia. δ΢autore del Chronicon, attribuito a Phrantses (forse Macario Melisseno), non riusciva a credere in una punizione divina, non avendo commesso i greci, dal punto di vista della fede, alcunché di male dinanzi a Dio: Noi sappiamo di essere peccatori e che nessuno è senza peccato eccetto Dio. Quanto al pensare rettamente sapete, padri e fratelli, che noi nessuna innovazione abbiamo fatto nelle sentenze del Vangelo, ma crediamo e professiamo tutto ciò che i testimoni oculari, i ministri, ci hanno insegnato, e tutto ciò che i santi ed ecumenici sinodi e quelli locali, convocati nei diversi tempi, ci hanno realmente consegnato fedelmente e con fermezza manteniamo15. 2. Cattolici e ortodossi disattendono i decreti del Concilio di Firenze Nonostante la relativa tolleranza religiosa dei turchi, la situazione sin dagli inizi era tutt΢altro che rosea, come dimostrano le continue interruzioni di governo patriarcale. Ecco infatti approssimativamente l΢avvicendamento molto irregolare dei patriarchi della seconda metà del XV secolo: Gennadio II Scholarios ....................................... 1454-1457 Isidoro II Xanthopoulos ..................................... 1457 Ioasaf I Koklas ................................................... 1463 Sofronios Syropoulos ........................................... 1463-1464 Marco Xylokarabes ............................................ 1465-1466 Simeone I di Trebizonda .................................... 1466, 1471-1474, 1481-1486 Dionisio I ............................................................ 1466-1471, 1489-1491 Raffaele I ............................................................. 1474-1477 Massimo III ......................................................... 1477-1481 Nifon II ................................................................ 1486-1489, 1497-1498, 1502 Massimo IV Manasses ......................................... 1491-1497 Gioacchino I ......................................................... 1498-1502, 1504-1505 Di volta in volta i patriarchi erano costretti ad affrontare problemi con i turchi o risolvere quesiti delle altre chiese ortodosse non sempre facili. Alla prima categoria di problemi appartengono ad esempio gli interventi a protezione delle chiese, delle quali i turchi ogni tanto cercavano di appropriarsi. Basti citare il caso del patriarca Dionisio I che nel 1490 dovette fronteggiare il tentativo di Baiazet II di fare sloggiare il patriarca dalla chiesa del Pammakaristos. Dionisio riuscì a non perdere la sede patriarcale richiamando la concessione di Maometto II. Non gli riuscì invece di difendere altre chiese, molte delle quali facevano gola ai funzionari turchi16. δ΢altro problema irrisolto era quello dell΢unione con Roma: era ancora valida quell΢unione o era venuta meno ? δa confusione nasceva da un fatto ben preciso: il concilio di Firenze aveva proclamato l΢unione della chiesa ortodossa alla Romana, una unione che prevedeva il primato del papa e il rispetto dei privilegi dei patriarchi. Le successive vicende provocarono degli equivoci non indifferenti. Non solo qua e là i latini si comportavano con una certa aria di 15 16 Cfr. Varnalidis, ΟRelazioniΠ, cit., p. 9. Runciman, La Caduta, cit., p. 253. 12 superiorità, ma violavano apertamente l΢accordo fiorentino. Già nel maggio del 1463 il papa Pio II era dovuto intervenire con la bolla Regiminis universalis ecclesiae, richiamando l΢arcivescovo latino che in Creta creava tutta una serie di difficoltà ai greci uniti a Roma per il loro rito 17. Poco a poco però furono gli stessi papi a dimenticare gli accordi del concilio di Firenze, non accontentandosi più di avere il primato tra i patriarchi, ma di mettere del tutto da parte la loro giurisdizione sulle chiese tradizionalmente a loro soggette, aspirando alla monarchia assoluta, giungendo cioè a nominare propri patriarchi di Costantinopoli e pretendendo che le chiese già sotto la giurisdizione di Costantinopoli facessero ora riferimento a Roma 18. Tale il caso ad esempio di Paolo II (1464-1471), il quale scrisse ai Maroniti esortandoli a conformare il più possibile i loro riti al rito romano 19. Quanto alla nomina romana dei patriarchi di Costantinopoli è il documentatissimo Ludwig von Pastor a parlarne: Roma seguitò sempre a nominare patriarchi di Costantinopoli, i quali non furono tuttavia puri patriarchi in partibus infidelium 20. Probabilmente, però, i papi non nominavano sistematicamente i patriarchi, ma lo facevano solo quando l΢atteggiamento del patriarca in carica era apertamente contro l΢unione. Le loro nomine del resto non avevano alcun valore, a meno che non avessero l΢avallo turco. Per cui, è ben immaginabile quanto sia difficile interpretare il vero meccanismo nelle continue deposizioni e riassunzioni dei patriarchi. Come esempio di patriarca decisamente avverso all΢unione si può portare il caso di Massimo III, al quale alcuni cataloghi cattolici attribuiscono il periodo 14771481. In realtà egli continuò imperterrito anche nel periodo di Simeone I di Trebisonda, tanto è vero che presiedette un concilio antiunionista nel 1484, e fu un concilio di grande importanza se veniva ricordato espressamente ancora alla fine del XVII secolo da Dositeo di Gerusalemme. Già in precedenza Massimo III aveva scritto una lettera al doge di Venezia Giovanni Mocenigo, lamentandosi di come i greci fossero continuamente sotto pressione da parte del clero latino nei territori veneziani. Ora con il concilio costantinopolitano del 1484 procedeva ad una condanna solenne del concilio di Firenze e dei suoi aderenti21. . Hofmann G., Papst Pius II und die Kircheneinheit des Ostens, OCP XII (1946), p. 220. Su questo punto centrale della controversia, sul quale quasi tutti gli scrittori cattolici sorvolano, torna a più riprese il De Vries (di gran lunga il più imparziale). Egli scrive tra l΢altro: I papi del resto hanno continuamente prospettato alle chiese orientali l’unione con le condizioni di Firenze. Qui c’era l’assicurazione della salvaguardia dei riti liturgici e dei “diritti e privilegi dei patriarchi orientali”. Questa seconda parte della promessa era però appesantita dall’ambiguità del tutto non intenzionale delle clausole di Firenze, di cui abbiamo parlato più sopra. A Roma, con il centralismo dominante nel secondo millennio, era andata perduta la sensibilità per la possibilità di una vera autonomia dei patriarchi. Cfr. De Vries 1983, p. 119. 19 Raynaldi O., Annales ecclesiastici, accedunt notae chronologicae, criticae, etc., auctore I. D. Mansi, Lucae 1753-1754, all΢a. 1469. Cfr. Quaresmius Fr., Historica Terrae Sanctae elucidatio, I, Venetiis 1880, p. 324 ss. Pastor, II, p. 367. 20 Purtroppo il Pastor (II, p. 453, n. 2), che sembra conoscere tutto sui papi, dopo una simile impegnativa affermazione, si limita ad aggiungere: Un notevole scritto su questo argomento dell’anno 1476 ha pubblicato il Rattinger nella Zeitschrift für Katolische Theologie, XIV, 527. 21 εalyševskij 1872, p. 44 . δ΢autore ricorda come questo concilio è menzionato ben due volte nel α di Dositeo di Gerusalemme. Quindi assegna a Massimo III il periodo 1481-88, e rinvia su questo concilio ad un articolo dell΢archim. Arsenij sul Pravoslavnoe Obozrenie (1868, maggio). 17 18 13 A questo concilio del 1484, da alcuni definito ecumenico, parteciparono tutti e quattro i patriarchi. In esso fu redatto un ufficio relativo alla riconciliazione dei latini che tornavano all΢ηrtodossia. Costoro furono classificati come eretici della seconda categoria, nel senso che non era previsto il ribattesimo (come per quelli della prima), ma solo la reiterazione della confermazione e una specie di professione di fede con abiura degli errori. Il concilio di Firenze doveva essere espressamente ripudiato, come si evince da una delle domande poste al neoconvertito: Rigetti tu e consideri nullo il concilio tenuto a Firenze, in Italia, come pure tutte le decisioni erronee e illegittime prese in esso contro la Chiesa cattolica ? E il convertito risponde: Santo Padre, rigetto questo concilio, e considero nulla sia la sua convocazione che le sue deliberazioni 22. Nelle abiure erano previste ovviamente la negazione sia del primato romano che della infallibilità del successore di Pietro. Verso la fine del XV secolo dunque le posizioni si stavano irrigidendo nel senso che entrambe le parti avevano messo alle spalle il concilio di Firenze, Roma negando la giurisdizione costantinopolitana sulle chiese orientali tradizionalmente ad essa soggette, Costantinopoli annullando esplicitamente il concilio di Firenze e quindi l΢unione. Ma nonostante questo atteggiamento sia di Roma che di Costantinopoli, è innegabile una certa nostalgia dell΢unione anche oltre la fine del XV secolo. δa cosa risulta evidente in una lettera del patriarca ζifon II, animato tra l΢altro da sentimenti unionistici, in risposta al metropolita di Kiev Giuseppe Bolgarinovič: Così voi chiedete il nostro aiuto ed una lettera di raccomandazione per il vostro potente re. Inoltre, desiderate sapere come sono andate le cose nel sinodo di Firenze per utilizzarne gli accordi nei confronti di coloro che vi perseguitano e vi opprimono. Sappiate che questo sinodo fiu convocato e approvato con gioia universale in presenza del nostro illustre imperatore Giovanni Paleologo, di sua beatitudine il patriarca di Costantinopoli Giuseppe, nostro predecessore di felice memoria, in presenza dei vicari, dei nostri fratelli i patriarchi, di altri arcivescovi e duchi che costituiscono le fondamenta della Chiesa orientale. C’era anche il vescovo di Roma con il suo partito. ζonostante questo, alcuni partigiani del nostro rito che non avevano partecipato al sinodo, rifiutarono di accettare l’unione, a causa, si dice, del loro odio contro i latini; costoro suscitarono dei moti, dei disordini fra di noi e cercarono di governare noi ed il gregge che ci è stato affidato, senza che ci fosse possibile spuntarla. Chissà che non sia a causa della nostra opposizione alla santa unità che Dio ci ha puniti, e ci ha puniti così severamente e ci punisce ancora! Nessuno si dà da fare per darci sostegno e, fino a questo momento, non solo i latini ci lasciano senza alcun aiuto, ma si mostrano mal disposti nei nostri confronti. Non vi meravigliate quindi che vi trattano poco benevolmente. Tuttavia, la vostra carità può facilmente difendersi e scusarsi, dicendo che non gli è possibile intraprendere checchessia senza l’assenso del patriarca di Costantinopoli. (...) La vostra carità non deve fare alcuna opposizione, ma vivere in amicizia con gli occidentali, poiché anche noi abbiamo permesso ai nostri preti che Rhalli e Potli 1855, pp. 143-147. Anche L. Petit, δ’entrée des catholiques dans l’Eglise orthodoxe, Echos d΢ηrient, 1898, II, pp. 129-131 ; M. Jugie, Schisme Byzantin, DTC XIV, col. 1388. 22 14 abitano le isole e dipendono dal senato di Venezia di prendere parte alle preghiere e alle riunioni dei latini e di conservare la religione dei loro padri come tutte le usanze della chiesa orientale. I nostri avi non si sarebbero riuniti con i latini durante il concilio di Firenze, se non avessero ricevuto ogni assicurazione che tutti i nostri privilegi non avrebbero subìto alcuna modifica 23. . Da quanto detto si può concludere che i rapporti diretti fra i papi ed i patriarchi di Costantinopoli dopo la caduta della capitale furono sporadici. Prima di qualsiasi relazione diretta i papi richiedevano l΢obbedienza alla Santa Sede, ma i patriarchi, con poche eccezioni (tra l΢altro ambigue) erano lungi da una simile prospettiva. Allo stesso tempo, tutti i papi indistintamente si impegnarono a creare le condizioni per una guerra di riconquista di Costantinopoli, anche se i tentativi andavano immancabilmente a vuoto a causa delle guerre intestine dei sovrani occidentali. La stessa Venezia andava molto cauta per non compromettere i suoi commerci. La preoccupazione principale era dunque la guerra contro i turchi. I patriarchi di Costantinopoli, almeno a giudicare dalla documentazione pervenutaci, è come se non esistessero affatto. θrobabilmente, essendo confermati dall΢autorità turca, per i papi essi non erano che degli emissari del governo turco. E mentre questi comunque si attendevano un qualche aiuto dall΢occidente cristiano, i papi si atteggiarono verso il mondo greco cristiano con sentimenti di conquista religiosa, dimentichi dei termini dell΢accordo di Firenze. Come giustamente fa osservare il De Vries, grande studioso del Pontificio Istituto Orientale, i papi di questa seconda metà del XV secolo si discostarono dal riconoscimento fondamentale dei riti e delle usanze greche stabilito nel concilio di Firenze, tornando all΢assolutismo caratteristico dell’atteggiamento mentale medioevale 24. 3. Papi umanisti ed “ecumenici”: da Leone X (1521) a Giulio III (1555) La prima metà del XVI secolo rappresenta un momento particolarmente positivo dei rapporti fra cristianità greca e cristianità latina. Ormai le speranze della riconquista di Costantinopoli erano definitivamente tramontate, e il papato sperava solo di arginare la sete e la straordinaria capacità di conquista che i sultani dimostravano. Nel 1458 era caduta Atene (e il Partenone, con la sua chiesa dedicata alla Vergine, divenne moschea); nel 1460 era occupata la Morea, nel 1461 Trebisonda, nel 1462 molte isole dell΢Egeo, nel 1463 i turchi erano entrati in Bosnia, Erzegovina e Serbia (praticamente a ridosso di Venezia e dell΢impero); nel 1468, nonostante le eroiche gesta di Skanderbeg, era la volta dell΢Albania; nel 1472 i turchi erano in Valacchia (Romania), penetrando in Ungheria e minacciando la stessa Vienna. I successori di Maometto II non si erano neppure accontentati delle conquiste ai danni dei cristiani. Nel 1517 s΢impadronivano dell΢Egitto, e tre anni dopo della Palestina e della Siria. Nel 1523 era sottomessa l΢Armenia ed entro il 1538 erano conquistate anche la θersia e l΢Arabia con tutta la costa del Mar Rosso. Così dalle conquiste di Maometto II a quelle di Solimano il Magnifico molti paesi cristiani e le 23 24 Monumenta Ucrainae Historica, I, Roma 1964, pp. 6-7. De Vries 1983, pp. 110-111. 15 principali nazioni musulmane erano cadute sotto il dominio dei turchi. Il che significa, dal punto di vista della storia dei rapporti Roma Costantinopoli, che politicamente, economicamente e religiosamente, i conti bisognava farli con i turchi. Il che vale ovviamente per gli altri tre antichi patriarcati d΢ηriente: Alessandria (con sede al Cairo), Antiochia e Gerusalemme. Sul versante cristiano, con Rodi conquistata nel 1522, quindi Belgrado, conquistata da Solimano il Magnifico, Vienna in pericolo, Otranto e il Veneto saccheggiati dai musulmani, i papi lanciavano un appello dopo l΢altro, ma tutti o quasi cadevano nel vuoto di fronte allo strapotere dei turchi. Di fronte a questa situazione drammatica, che vide una emigrazione dei greci senza precedenti, si registrò in Europa un fenomeno culturale particolarmente interessante. Il medioevo latino, grazie all΢apporto di tanti intellettuali greci, cominciava ad entrare in crisi mentre cresceva l΢umanesimo con la riscoperta di Platone e dei classici greci. Il che fu favorito anche dal fatto che molti intellettuali greci erano riusciti a fuggire portando con sé preziosi manoscritti. Vivo era perciò il desiderio di ricreare in Italia (e in Francia) un movimento intellettuale greco, che facesse rivivere gli studi ellenistici e la Roma dei papi divenisse una seconda Atene. Il papa che meglio interpretò questa esigenza fu Leone X, il quale sin dal primo anno del suo pontificato (1513-1521) chiamò a Roma il noto Giovanni Laskaris, già stretto collaboratore di Lorenzo il Magnifico. Il Laskaris divenne la mente delle iniziative pontificie, mentre il braccio era il suo disepolo Marco Musuro. A questi il papa fece sapere di voler creare a Roma una scuola di lingua e cultura greca. Gli dava quindi l΢incarico di scegliere una decina di studiosi greci e di portarli a Roma, ove nella casa del Colocci sul Quirinale sarebbe sorto il nuovo Collegio greco (denominato Accademia Medicea), fornito tra l΢altro di una sua tipografia. Partito con grandi speranze (il Musuro soleva dire che nel Lazio sarebbe rivissuta Atene) il Collegio greco ebbe un duro colpo con la morte improvvisa dello stesso Musuro (1517), cui il papa un anno prima aveva dato l΢arcivescovado di εonemvasia. Fu sostituito dall΢ellenista εanilio Rallo, ma con la morte del papa il collegio greco entrò in crisi25. Spinto anche da questa passione per la cultura greca, Leone X non si lasciò trascinare in controversie teologiche ispirate al massimalismo confessionale come molti papi prima e dopo di lui. In lui era totalmente assente quella assurda convinzione di molti suoi successori sulla ΟpraestantiaΠ del rito latino su quello greco. Ecco perché egli fu il papa che con più energia lottò contro ogni latinizzazione. Il documento che meglio esprime questo ecumenismo ante litteram è il breve Accepimus nuper del 18 maggio 1521: [Tamen] ordinarii locorum Latini ipsam nationem super dictis ritibus et observantiis, in locis ubi prefati Greci morantur, quottidie molestant, perturbant et inquietant, cogentes pueros ipsorum et alios, eorum more baptizatos, iterum more Romanae ecclesiae rebaptizari dictumque sacramentum sub utraque spetie omnibus etiam pueris predictis minime ministrari debere, neque barbam nutrire, neque in fermentato sed azimo celebrare, ac ordinatos in dictis sacris ordinibus matrimonio non uti. Propter 25 Pastor IV, pp. 419-453. 16 quae ac nonnulla alia quottidie in populo diversa scandala exoriuntur ac in dies nisi de opportuno remedio per nos aut sedem predictam provideretur exoriri contingeret; considerantes autem nosque opere pretium piumque fore ac necessarium ut unio predicta multo labore quesita ac per Romanos pontifices sollicitata conservetur, et dictorum Grecorum molestiis ac impedimentis huiusmodi obvietur atque ipsorum quiet et animarum consolationi in premissis opportune consulatur, necnon ritus et observantiae in eorum ecclesiis et alibi iuxta antiquam ipsorum consuetudinem preservetur; motu proprio non ad alicuius nobis super hoc oblate petitionis instantiam, sed de nostra mera liberalitate et ex certa scientia ac de apostolicae potestatis plenitudine dictis Grecis, tam prelatis quam aliis personis nationis Greciae et eorum cuilibet, ut eorum ritibus et observantiis sive consuetudinibus, ut premittitur, uti ac illos et illas observare missasque et alia divina officia secundum eorum antiquam consuetudinem celebrare; necnon archiepiscopis, episcopis et aliis prelatis Grecis, ut inter eosdem Grecos ubi archiepiscopi, episcopi ac alii prelati Latini iurisditionem habent, pontificalia libere exercere, officia ac a suis ordinariis officiis, ecclesiis ac piis locis et oratoriis super huiusmodi rituum observantia per Latinos antistites et prelatos etiam locorum ordinarios etiam divinos temporales et magistratus seculares in iudicium vel alias inviti minime trahi". (…) "Et insuper cum in parochialibus ecclesiis ipsorum Graecorum ex antiquissimo et hactenus observato ritu non nisi semel in die per unum sacerdotem celebrari liceat et tamen nonnulli sacerdotes Latinorum, dimissis ipsorum propriis parochialibus ecclesiis, ut praefatos Graecos iniuria afficiant et ad disturbandum eorum ritus et consuetudinem huiusmodi, nescitur quo spiritu ducti, interdum altaria dictarum parochialium ecclesiarum preoccupant et inibi, contra voluntatem eorundem Grecorum, missas et forsan alia divina officia celebrant, adeoque dicti Greci saepe numero sine auditione missarum cum magna animorum molestia festivis et aliis diebus quibus missam audire consueverunt remanent. Nos autem ad obviandum scandalis et providendum ne in futurum molestiae huiusmodi Grecis ipsis inferantur. sacerdotibus Latinis praedictis, ne de caetero missas et alia divina in dictis et aliis ecclesiis eorundem Grecorum celebrare, Magistratibus vero, si qui sunt, ne dictis sacerdotibus auxilium et favorem praestent.26 Il Capizzi, che come molti scrittori cattolici vuole ad ogni costo cercare la continuità della politica pontificia, parla di ambiguità (come se il papa si lasciasse ingannare sull΢appartenenza dei greci, agli uniti oppure agli scismatici)27. Anche il Pastor parla di ΟGreci unitiΠ, ma quel che scrive fa capire che anche lui è convinto della grande apertura mentale di quel papa: Leone X trattò con benevolenza e grandissima lealtà i Greci Uniti soggetti alla signoria veneta. Fin dal 1513 il papa si dié premura di togliere controversie tra Latini e Greci a Rodi. Ripetutamente Leone intervenne di fronte al clero Cfr. S. Varnalidis, Nicolaus 1981/2 Cfr. C. Capizzi, Spiridione Milia (1700?-1770), collaboratore greco all’Amplissima del εansi, OCP XXXVII (1971), pp. 441-490 (in particolare p. 455, riferendosi comunque a tutta la situazione veneziana, e non soltanto a Leone X). 26 27 17 cattolico di Corfù, che voleva costringere i greci ad abbandonare il loro rito, come prese sotto la sua speciale protezione i Greci di Venezia. E poiché nei possedimenti veneti del Levante particolarmente a Corfù, continuava da parte del clero latino la vessazione dei Greci, il Mediceo addì 18 maggio 1521 emanò una bolla concepita in termini energici, la quale riconosceva nuovamente tutti i diritti e privilegi concessi ai Greci e condannava severamente le ostilità del clero latino. Vi si stabiliva che i vescovi greci non ordinassero chierici latini e viceversa neanche i vescovi latini chierici greci. Con tutto il rigore si vieta ai Latini di dir messa in chiese greche. Nessuno ardisca condannare o dileggiare i riti approvati nel concilio fiorentino. Ove risiedono due vescovi, un latino e un greco, nessuno s’immischi negli affari dell’altro. ζonostante le gravi pene stabilite contro i trasgressori, Clemente VII e Paolo III dovettero più tardi fare dei passi a tutela dei Greci 28. Papa Leone X (dipinto di Raffaello, 1519, Firenze) il maggiore difensore dei diritti degli ortodossi. Pastor IV, 568-569. δ΢autore cita al riguardo Regest. Leonis X, nn. 3045, 5049, 9124. Nonché Hefele-Hergenröther, Konziliengeschichte, Freiburg 1887, vol. VIII, p. 691. . 28 18 Il caso che meglio dimostra come Leone X intendesse instaurare rapporti sereni con l΢ηrtodossia è l΢affare di Arsenio. Intorno all΢anno 1500 fungeva da diacono presso la chiesa greca di Venezia tale Arsenio Apostolos, uomo di buona preparazione intellettuale. All΢epoca di papa Giulio II (1503-1513) fece un viaggio a Roma ove raccolse delle elemosine per i suoi parrocchiani e si dichiarò apertamente per l΢unione con Roma. Il papa lo nominò suo legato presso il senato veneziano, con preghiera di affidargli la metropolia di Monemvasia. Il desiderio del papa fu soddisfatto e il suddetto Arsenio, con una lettera del senato, si presentò a Monemvasia, dove fu accolto onorevolmente, ma non si mancò di rilevare che era soltanto diacono. Allora, senza scomporsi, invitò il vescovo di Elous, suo suffraganeo, e si fece ordinare sacerdote. Quindi convocati altri due sacerdoti uno di δacedemona e l΢altro di Christianopolis fu consacrato vescovo. La cosa non era avvenuta secondo i canoni, anche perché il metropolita di Monemvasia era ancora in vita ed era stato espulso dai Veneziani, finendo a Corona sotto il dominio turco. Gli ortodossi non reagirono perché, secondo l΢interpretazione del εalyševskij, la lettera del senato veneziano era perentoria e minacciosa. In ogni caso, Arsenio cominciò a girare nei territori veneziani ordinando diaconi, consacrando sacerdoti e sostituendo i vescovi non uniti a Roma, comportandosi cioè come se fosse il primate di tutti i greci nei territori veneziani. Papa Paolo III (dipinto di Tiziano, 1543), come tutti i papi anteriori al concilio di Trento richiama i Latini a rispettare le usanze bizantine. 19 A questo punto che il patriarca di Costantinopoli, Pacomio, si sentì in dovere di intervenire, scrivendo una lettera ad Arsenio, in cui gli chiedeva di essere più rispettoso delle tradizioni greche. Arsenio gli rispose con una certa alterigia. Allora Pacomio riunì un sinodo a Costantinopoli (giugno 1509) in cui fu discusso il caso di Arsenio, concludendo con una condanna e una scomunica. Il Patriarca comunicò a tutti i greci dei territori veneziani la decisione conciliare ordinando di ritenere Arsenio per scomunicato. Ciò che fece un certo effetto fu la precisazione che il patriarcato riteneva invalide tutte le ordinazioni di Arsenio, e che chi intendesse continuare nel ministero avrebbe dovuto essere nuovamente consacrato da un vescovo ortodosso 29. Vedendogli venir meno il terreno sotto i piedi, Arsenio lasciò Monemvasia e tornò a Roma a patrocinare la sua causa, specificando, per maggiormente suscitare interventi a suo favore, che i greci chiamavano eretici i cattolici. La cosa colpì il papa Giulio II, che inviò Arsenio a Venezia con una lunga lettera in cui si chiedeva di imporre ai greci dei territori veneziani di obbedire ad Arsenio. Il senato era incline ad accontentare il papa, ma era trattenuto dalla dura reazione dei greci (e specialmente dalla confraternita di S. Giorgio) nei confronti di Arsenio. Il nuovo papa Leone X si comportò invece come il senato veneziano, privando Arsenio di ogni appoggio (il che lo costrinse a tornare a dedicarsi agli studi classici). Così il primo braccio di ferro (sul campo di Venezia) tra un papa (Giulio II) ed un patriarca (Pacomio I), grazie alla decisione di papa Leone X, si chiudeva con la ΟvittoriaΠ del patriarca ecumenico, che così riaffermava la sua giurisdizione sui territori greci soggetti a Venezia. Secondo εalyševskij, nostra fonte principale su questa vicenda, il papa aveva agito così perché impressionato (come il senato veneziano) dalla reazione dei greci 30. In realtà, il popolo non c΢entra per nulla e δeone X agì secondo le sue profonde convinzioni di rispetto del mondo greco, sia classico che moderno. Il che è riconosciuto poco dopo (commentando la bolla del 18 maggio 1521) dallo stesso εalyševskij che definisce Leone X ellenofilo. δ΢azione energica di δeone X a difesa del rito greco contro ogni ingerenza dei latini ebbe un certo effetto per almeno altri quattro decenni. Sulla sua scia si mossero, infatti, altri tre pontefici: Clemente VII, Paolo III e Giulio III. Il primo lo fece rimproverando il vescovo latino di Cefalonia in data 15 luglio 1525 31. Paolo III, con sua bolla del 23 dicembre 1534, ribadì in tutto e per tutto la bolla di Leone X del 18 maggio 1521, menzionandola esplicitamente. Non solo, ma c΢è un documento del 20 novembre del 1542 che attesta inequivocabilmente l΢ortodossia dei greci, senza neppure specificare se divisi o uniti con Roma. In questo documento (Istruzione per Dionigi, guardiano del convento Sion in Gerusalemme, come visitatore dei Maroniti del Libano), dato che l΢interesse del papa è per tutta la cristianità orientale, si parla spesso dei libri biblici, teologici e liturgici di questi cristiani. Per determinare la loro ortodossia, il testo indica come criterio la loro concordanza con i libri che hanno li Greci et li Latini, che le loro siano interpretazioni come hanno li Greci et li Latini, e così via. Allargando Il decreto di deposizione di Arsenio da parte di Pacomio è edito in greco ed in francese da Oudot Ioannes, Patriarchatus Constantinopolitani acta Selecta, II Grottaferrata 1967, doc. XLIII 30 εalyševskij 1872, p. 47. Tutto l΢episodio è narrato diffusamente nella Cronaca del Malaksa (Turco-Graecia, pp. 146-151). 31 De Vries 1963, p. 194. 29 20 il discorso, verso la conclusione si ha questa disposizione: Item pigliate una informatione di tutte le cose della fede loro et anchora dimandate delle cose della fede come passano in li paesi loro vicini et lontani anchora verso la Arabia et India et verso la Armenia et come vi sono Christiani et se vi sono chiese et vescovi, et se tengono la fede accordo il rito o nostro o Greco o pure sono heretici32. Che tale distinzione fra Greci uniti e divisi fosse verso la metà del secolo molto labile è dimostrato da un episodio particolarmente significativo concernente il papa Giulio III (1550-1555) che, vale la pena notarlo, cade in pieno concilio di Trento. Questo papa confermò con sua bolla il vescovo greco di Agrigento nominato dall΢arcivescovo di ηchrid. E΢ vero che egli pensava (erroneamente) che fosse unito a Roma, ma è anche vero che non fece nulla per appurare la sua appartenenza ecclesiale 33. Segno questo dell΢apertura mentale dei papi verso i greci nel XVI secolo fino al concilio di Trento. Naturalmente, il filoellenismo che caratterizzò Leone X, Clemente VII, Paolo III e Giulio III non portò tutti gli effetti sperati, ma lo stesso εalyševskij (che non brilla certo per simpatie verso il cattolicesimo) riconosce che la causa non fu nell΢indecisione dei papi, bensì nel fatto che molti prelati latini appartenevano a potenti famiglie veneziane34, ed agivano con una elevata autonomia, per cui la latinizzazione non fu troncata come la bolla di Leone X imponeva. 4. La comunità greca di Venezia: tensioni fra uniti e dissidenti δ΢atmosfera ΟecumenicaΠ della prima metà del XVI secolo ebbe benefici risvolti sulla più importante e attiva comunità greca della diaspora, quella di Venezia. A motivo dei rapporti commerciali della Serenissima con la città di Costantinopoli, nonché per il suo dominio su tanti territori greci, era stato abbastanza naturale, dopo la caduta di Costantinopoli, vedere in essa il miglior punto d΢incontro dei greci fuori della patria. Qui avevano potuto celebrare in case private o ascoltare la messa di ortodossi uniti a Roma nella chiesa di S. Biagio. Poi, il senato, con decreto del 18 giugno 1456 (dietro richiesta in tal senso del metropolita greco di Kiev, ed ora cardinale Isidoro), aveva concesso loro una chiesa. Sarebbe stato il patriarca latino di Venezia Matteo Contarini (1456-1460) a individuarla. Ma appena ci si rese conto che una forte componente era contraria all΢unione, il decreto non fu attuato. Una data importante della sua storia fu il 1498, allorché la comunità ottenne dalle autorità di fondare una Confraternita (S. Nicola della nazione Greca) con un proprio statuto e diritto di eleggersi propri sacerdoti. Nel 1514 (30 aprile) ottennero il permesso dal doge Leonardo Loredan di comprare un terreno per edificare la chiesa. Ma fu solo grazie alle bolle di Leone X (18 maggio e 3 giugno 1514) e Clemente VII (26 marzo 1526) che le autorità sottrassero i Greci alla giurisdizione del patriarca latino, il che ovviamente provocò aspre contese. Dopo una piccola chiesa provvisoria, nel 1539 iniziò la Pastor V, 815-816 (per l΢Istruzione per Dionigi). De Vries, Rom, cit., p. 194 (per la bolla del 1534) 33 A. Mercati, Una bolla di Giulio III su un vescovo pei greci in Italia, Οδ΢ηriente cristiano e l΢unità della chiesaΠ, II (1937), pp. 73-74. Anche De Vries 1963, p. 194. 34 εalyševskij 1872, p. 49. 32 21 costruzione della chiesa di S. Giorgio, che fu terminata solo nel 1573. Nel 1534 aspre furono le contese per l΢erudito Arsenio Apostolis, del quale si è parlato in precedenza. Passato al cattolicesimo, questi aveva ottenuto il permesso di predicare in S. Giorgio. La vicenda, che stava per prendere una brutta piega, si risolse l΢anno dopo con la morte di Arsenio35. Tra gli episodi più interessanti di questo periodo va annoverata la visita nel 1546 del metropolita di Cesarea εetrofane a Roma. Egli era l΢esarca inviato dal patriarca Dionisio II (1546-1555) a Venezia per risolvere le discordie nate nella comunità greca di Venezia tra filo- e anti-unionisti. Metrofane (che più tardi fu patriarca di Costantinopoli, 1565-1572, 1579-1580) era giunto a Venezia mentre infuriava la controversia intorno al sacerdote Nicola Trizentos, che era stato allontanato per essersi schierato per l΢unione con Roma (anche se l΢accusa ufficiale fu di essere colpevole per non aver saputo impedire il furto di un΢icona della Vergine). La comunità riuscì a deporlo e a farlo scomunicare dal patriarca Geremia I nel 1541. Egli allora si era recato a Roma denunciando i sentimenti antilatini dei Greci di Venezia. Il papa Paolo III reagì rimettendo in vigore (6 marzo 1542) il decreto del 1534, che prevedeva che i cappellani greci fossero approvati dal patriarca di Venezia. Metrofane, insieme a Giovanni Zygomalas, non riuscì a sedare le discordie perché si schierò con gli unionisti, riconfermando il sacerdote Nicola Trizentos. Quando il caso sembrava rientrato, lo stesso Paolo III tornò sui suoi passi e il 22 giugno 1549 ridiede vigore alle bolle di Leone X che davano ai Greci libertà di culto. Intanto, unionista convinto, Metrofane rimase a Venezia fino al maggio del 1547, dopo di che in compagnia di Dionisio Zanetti (+1566) prese la via di Roma, dove rese omaggio al pontefice, affermando che anche il patriarca aveva sentimenti unionistici. La notizia si diffuse rapidamente e la cosa creò serie difficoltà al patriarca, che per poco non fu deposto. Ciò nonostante, in una lettera a Metrofane (che era tornato a Venezia nel dicembre del 1547), il patriarca approvava tutte le sue azioni. Unica eccezione, l΢affare Trizentos, al quale il patriarca concesse solo la facoltà delle confessioni, ma non di celebrare messa. La lettera si concludeva con l΢invito a εetrofane di tornare a Costantinopoli. Egli effettivamente raggiunse Costantinopoli nell΢ottobre 1549, quando un sinodo in quella città lo aveva appena deposto. Con l΢aiuto di εichele Cantacuzeno fu riabilitato, ma poi preferì dedicarsi agli studi nell΢isola di Halki, da dove scrisse una lettera al pontefice. In una lettera al barone d΢Argenson l΢ambasciatore tedesco nel 1562 scriveva: εentre dimoravo nell’isola di θringhipo ho conosciuto il metropolita Metrofane, igumeno di un cenobio della vicina isola di Halki, uomo liberale e dotto, che desiderava moltissimo l’unione della chiesa latina e greca. Questo suo desiderio è però completamente estraneo al resto della nazione, che rifiuta Geanakoplos, D. J., Bisanzio e il Rinascimento. Umanisti greci a Venezia e la diffusione del greco in occidente (1400-1453, Roma 1967, pp. 151-177. Anche Manussacas 1973, p. 51. Lo studio del Manussacas è fondamentale dal punto di vista documentario, in quanto come direttore dell΢Istituto greco di Venezia, ha avuto accesso a tutta la ricca documentazione archivistica. 35 22 gli uomini del nostro culto come empii e mancanti di rispetto. Ognuno ama le sue usanze 36. La comunità greca di Venezia, nonostante le pretese del patriarca veneziano di esercitare la sua giurisdizione su di essa, grazie alle leggi della Serenissima e alle bolle papali su menzionate, continuò a rivendicare la sua autonomia e il riconoscimento della giurisdizione costantinopolitana 37. 5. δa svolta “antiecumenica” dei papi dopo il concilio di Trento Col concilio di Trento e la controriforma le cose cambiarono radicalmente. Il bisogno di uniformità liturgica allo scopo di evitare errori e imprecisioni, che colpì un gran numero di liturgie locali, difficilmente avrebbe potuto lasciare indenne quella greca, che presentava tutta una serie di peculiarità non sempre armonizzabili con la teologia latina. Un problema che diventava acuto in quelle terre ove preti greci e preti latini vivevano fianco a fianco. I papi, convinti che il rito non si riducesse solo ad una questione di lingua o di cerimonie, pensarono che queste differenze non fossero tollerabili. Un certo sentore del cambiamento si era avvertito già durante alcune sessioni del concilio, in particolare allorché un vescovo latino, tale Cavensi (di Cava ?) afferrò per la barba (strappandogliela) il vescovo greco unito Dionisio Zanetti. δa ΟcolpaΠ di quest΢ultimo era stata quella di ritenere i vescovi greci allo steso livello dei latini, e che quindi era opportuno non fare pressioni per latinizzare i greci 38. Un episodio questo, che avrebbe potuto essere soltanto un brutto caso. Invece era la spia del cambiamento che stava per verificarsi nella curia romana. Un colpo durissimo alla vitalità del rito greco nel mezzogiorno d΢Italia venne col breve di Pio IV del 16 febbraio 1564 (pochi mesi dopo la conclusione del concilio di Trento) col quale tutti i Greci residenti in Italia venivano sottoposti alla giurisdizione dei vescovi latini: reliquis ipsorum Graecorum in divinis celebrandis aliisque ritibus a sede Apostolica approbatis ... intactis remanentibus 39. Ancora una volta era l΢accordo di Firenze a venire violato. Per i papi, una volta ammesso il primato, i privilegi dei patriarchi garantiti dalle conclusioni conciliari, non avevano più valore. Di conseguenza, la ΟpretesaΠ dei greci d΢Italia di avere una loro gerarchia greca diveniva inaccettabile. Queste Ecclesiae Graecorum sparse per l΢Italia: osservano i costumi e i riti della Chiesa greca e pretendono di avere dei prelati propri della stessa nazione e di essere sottomessi a questi e non agli Ordinari del luogo.Nel corso di tutto il breve è evidente la preoccupazione papale che il rito possa nascondere gravi errori che possano divenire di scandalo per i cattolici latini. Ecco perché il breve non si limita a dare disposizioni, ma diffida i praesbyteri Graeci, praecipue uxorati dal contestarle adducendo a motivo precedenti privilegi. Manussacas 1968, pp. 6-7. Fedalto 1967. Anche il εanussacas è molto sensibile al tema dell΢indipendenza giuridica della comunità greca di Venezia, specialmente nel già menzionato α πα α . 38 Le Quien, 1740, III, 918. 39 Archivio Segreto Vaticano, Editti, V, 10. Bullarium Diplomatum et Privilegiorum SS. Romanorum Pontificum editio Taurinensis, VII, Torino 1862, 271-273. δ΢opera è comunemente indicata come Bullarium Romanum, cfr. Peri 1973, p. 275. 36 37 23 Pio IV (sopra) e Pio V. I papi del Concilio di Trento sottomettono i greci alla giurisdizione dei vescovi latini 24 Tale preoccupazione per l΢ortodossia liturgica e sacramentale pervade tutte le sue lettere ai patriarchi orientali da lui invitati ad adeguarsi ai decreti del concilio di Trento. Egli mandò anche un suo nunzio, Giovanni Battista, a recapitare le sue lettere in Etiopia (al re Minas), come pure al patriarca caldeo Abdišo, al patriarca armeno εichele, allo zar di Russia Ivan il Terribile, al patriarca maronita Pietro 40 . Il fatto che il De Vries, nel commentare tutte queste lettere, non menzioni alcuna ai quattro patriarchi ΟortodossiΠ (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme) fa supporre o che Pio IV non abbia loro indirizzato alcuna lettera o che non contenesse alcunché di peculiare. δa principale conseguenza dell΢atteggiamento papale postridentino fu, come nota Vittorio Peri, lo sradicamento gerarchico. Per Roma non esisteva una gerarchia greca, ma solo quella latina. I Greci avevano solo riti e cerimonie che potevano ancora celebrare, ma con prudenza. La stessa preoccupazione di possibili errori e confusioni nutriva due anni dopo Pio V, che ancor più di Pio IV si impegnò all΢applicazione nel mondo dei decreti del concilio di Trento. Nel breve del 20 agosto 1566 metteva in guardia : ne deinceps presbyteri graeci, praecipue uxorati, latino more, vel latini graeco ritu... missas et alia divina officia celebrare vel celebrari facere praesumant. A suo avviso il pericolo era reale: Hoc ab antiquo catholicae ecclesiae instituto et SS. Patrum decretis deviare considerantes 41. Nelle Istruzioni emanate da Pio V si prevedeva addirittura la carcerazione di qualsiasi vescovo greco che fosse trovato sul suolo italiano 42 . Data la situazione delle terre greche sempre infestate dai turchi tali vescovi greci si vedevano qua e là, e per fortuna non sempre le istruzioni di Pio V vennero applicate. La nuova linea di condotta dei papi fu comunicata poi a tutti i vescovi latini interessati grazie alle circolari inviate dalla Congregazione dei Greci creata da Gregorio XIII. Valga come esempio quella del 1596 dal titolo: Perbrevis instructio super aliquibus ritibus Graecorum ad RR. PP. DD. Episcopos Latinos, in quorum civitatibus vel dioecesibus Graeci vel Albanenses Graeco ritu viventes degunt, Romae apud Impressores Camerales. 6. Il metropolita di Filadelfia a Venezia: Χ Ἐ η α ὰ ῆ ἀ α ῆ Naturalmente il nuovo atteggiamento dei papi di Roma, che preferivano il proselitismo e la latinizzazione, non poteva non provocare una risposta da parte degli ortodossi, i quali sfruttavano al massimo il senso di indipendenza che la Repubblica di Venezia mostrava nei confronti di Roma. Del resto la polemica antiromana non si era del tutto sopita neppure nella prima metà del XVI secolo, come dimostra la figura di Manuele di Corinto (+ 1551), discepolo del Kamariotas, il quale pose a sistema le precedenti controversie sulle De Vries 1963, pp. 195-197; De Vries, Einladung nicht-Römisch-katholischer Orientalen zum Konzil von Trient, in γCatholicaΟ 15 (1961), 134-150; P. Dib, Une mission en Orient sous le pontificat de Pie IV, in ROC 19 (1914), 24 ss., e 266 ss. 41 Bullarium Romanum, VII, 473; Pastor VIII, 511. 42 John Krajcar, Cardinal Gliulio Antonio Santoro and the Christian East. Santoro’s Audiences and Concistorial Acts, OCA 177, Roma 1966 40 25 differenze fra latini e greci affrontando, tra gli altri, il domenicano fra Francesco e rilevando sei errori dei latini: Filioque, azzimi, purgatorio, primato, aspersioni (invece della triplice immersione), opposizione senza eccezioni al divorzio. Se però i polemisti vedevano il negativo nella Chiesa romana, non mancavano gli scrittori che più onestamente individuavano la crisi all΢interno del mondo ortodosso, come ad esempio Pacomio di Rhus (+ Zante 1553). Egli invitava gli ortodossi a insistere nella lettura della Sacra Scrittura che è la parola di Dio. Notevole anche la sua lotta al monachesimo idiorritmico (individualistico), auspicando un ritorno al cenobitismo. Per lui un monachesimo troppo personalizzato fa andare il monaco incontro a tanti pericoli. La stessa tendenza particolaristica egli la criticava a proposito della corrente che propugnava il risveglio dei dialetti greci. A suo avviso i dialetti spezzano quella matrice comune che linguisticamente è la koiné, portando a serie deviazioni. Il caso più eclatante era allora rappresentato da Joannes Kartanos, che aveva composto in dialetto greco un'opera di tendenza alquanto panteistica, nel senso cioè di proporre un Dio natura più che un Dio persona. Tra i pochi che si occuparono di evidenziare la conciliabilità della dottrina cattolica e di quella ortodossa fu Massimo Margounios, teologo ed umanista (+ 1602), il quale tentò di accordare il punto di vista ortodosso e quello cattolico nelle questioni del Filioque e del primato. Collaborò col patriarca Geremia II, il che gli giovò molto quando fu accusato presso il patriarca dall'arcivescovo di Filadelfia, Gabriel Severos, come poco ortodosso. Ed è proprio la figura di Gabriel Severos ad impersonificare la reazione ortodossa alla svolta ΟintransigenteΠ dei papi postridentini. Dopo gli studi svolti a Padova, Gabriel Severos (+ 1616 Dalmazia) si era trasferito a Venezia nel 1572, divenendo cappellano della comunità ortodossa di S. Giorgio. Geremia II, accogliendo l΢istanza del ricco commerciante cretese Leoninus, lo consacrò il 18 luglio 1577 metropolita di Filadelfia in Lidia. Naturalmente quel titolo senza territorio non lo soddisfaceva, per cui tentò, ma invano, di ottenere da Venezia il permesso di risiedere come metropolita ortodosso nell΢isola di Creta. Venezia gli concesse tuttavia di tenere quel titolo risiedendo nella città lagunare, con la dignità di esarca del patriarca. Dato il suo carattere indipendente, il Severos non intrattenne sempre buoni rapporti col patriarca Geremia II, il quale voleva essere sempre avvertito prima di ogni decisione. Motivo di irritazione fu ad esempio il fatto che il metropolita di Filadelfia, appena il papa propose la riforma del calendario, senza consultare il patriarca, espresse il suo consenso in un suo rapporto al doge 43. Cosa che il patriarca gli rimproverava ancora il 6 luglio 159044. A Venezia egli rappresentò la risposta ortodossa alla svolta intransigente e latinizzatrice dei papi postridentini. Gabriel Severos non mancò occasione di entrare in polemica con chiunque criticasse l'ortodossia o facesse tentativi, come Massimo Margounios, di dimostrare che in fondo il cattolicesimo e l΢ortodossia Fedalto 1967, p. 139-141, doc. XXX. G. Veludo, α α Φ α α π α π 43 44 π α α α α 20-24 ( πα α πα α , Venezia α α π 1873 (2da ed. 1893), pp. . ΢). εanussacas 1973, p. 82. 26 erano conciliabili dottrinalmente. Il suo compito non era troppo difficile perché i pensatori ΟecumeniciΠ erano in minoranza nell΢uno come nell΢altro schieramento. Se il Margounios, infatti, era per la conciliabilità, gli influenti gesuiti θossevino e Bellarmino continuavano a chiamare ΟereticiΠ gli ortodossi. Nel suo Trattato contro i Latini, il Severos ribaltò le accuse di eresia lanciate all'ortodossia, qualificando come eretiche le tradizionali differenze: Filioque, primato, azzimi, purgatorio, e momento della beatitudine perfetta dei santi (a suo avviso solo dopo il giudizio finale). Una certa notorietà godette un suo trattato sui sacramenti, con un linguaggio (rivelante la formazione scolastica) che ora sembrava filocattolico ora filoprotestante. Cercava sempre di riportare all'ortodossia gli indecisi, come quel Nathanael Chichas che a Roma si era convertito al cattolicesimo ed egli lo riaccolse nella comunità otodossa. δ΢asprezza di linguaggio contro il εargounios, però, non piacque a Geremia II sia nel primo che nel secondo (1580-1584) e terzo (1587-1595) periodo di patriarcato. Geremia impose ai due contendenti di andare a Costantinopoli, ove dinanzi ad un sinodo avrebbero esposto le loro ragioni. Inoltre il patriarca ingiungeva al Severos di tornare a Filadelfia, ov΢era richiesto dai fedeli, oppure di dimettersi. In caso contrario lo avrebbe deposto. Il temperamento del Severos si rivelò in occasione della risposta (12 gennaio 1591). Egli non sarebbe andato a Filadelfia e se fosse stato deposto sarebbe rimasto a Venezia a guida del popolo cristiano che la provvidenza divina e la serenissima signoria di Venezia gli avevano affidato. Simultaneamente a questo atteggiamento di sfida il Severos seguì anche la linea diplomatica, chiedendo al doge di Venezia di domandare a mezzo del bailo a Costantinopoli di farlo restare a Venezia. Geremia cedette, ma ad una condizione: aveva deciso di lasciare entrambi (Severos e Margounios) al loro posto a condizione che si riconciliassero, e che in caso contrario venissero a Costantinopoli. A questo punto prevalse l΢elemento umano. θur di restare a vivere a Venezia i due si rappacificarono e vissero in pace fino alla morte. La soluzione pacifica di tutta la vicenda ebbe l΢importante risvolto che la Repubblica di Venezia continuò a permettere alla comunità greca di essere guidata dagli arcivescovi di Filadelfia 45. Il Manussacas dà questo elenco cronologico degli arcivescovi di Filadelfia che risiedettero a Venezia: Gabriel Seviros (+1616) Theofanis Xenakis (1617-1632) Nicodemo Metaxàs (1632-1635) Attanasio Velleriano (1635-1656) Meletios Chortatsis (1657-1677) Metodios Moronis (1677-1679) Gerasimos Vlachos (1679-1685) Meletios Tipaldos (1685-1713) Sofronios Cutuvalis (1780-1790)46. Tutti costoro venivano consacrati dopo che il patriarca ecumenico aveva concesso la sua licenza ( ). δa richiesta non era avanzata dall΢interessato, 45 46 Manussacas 1973, pp. 82-85. Ivi, p. 58. 27 bensì dalla comunità greca di Venezia per il tramite di lettere o di procuratori, mentre da parte sua il senato veneziano faceva analoga richiesta a mezzo del suo bailo a Costantinopoli. Era il patriarca dunque a esercitare la giurisdizione attraverso il suo esarca, che era appunto il metropolita di Filadelfia. δ΢unico di questi metropoliti a riconoscere la giurisdizione papale sarebbe stato poi Meletios Tipaldos, il quale per questo fu deposto dal patriarca (sigillo del giugno 1712). Altro caso fu quello di Gregorio Fatseas, il quale godeva dell΢appoggio della Repubblica veneta, ma era stato consacrato senza licenza e non aveva inviato la necessaria confessione ortodossa. Benché consacrato da arcivescovi ortodossi, il patriarca nel 1762 non lo riconobbe e lo depose47. La presenza di Severos a Venezia, con il titolo di metropolita di Filadelfia, aveva avuto quindi il significato di restituire la dignità agli ortodossi non uniti a Roma, e di combattere ogni tentativo di unione. Con lui era iniziata la lista dei metropoliti dipendenti giuridicamente dal patriarca e non dal papa. Il successo, come si è detto, si fondava sul senso di indipendenza politica di Venezia da Roma, che sarebbe divenuto ancor più evidente nel primo ventennio del secolo successivo. 7. Gregorio XIII e il Collegio greco di S. Atanasio a Roma (1583) ζel corso del XVI secolo tutti i papi si interessarono all΢oriente, nessuno però quanto Gregorio XIII. Dotato di un forte senso dell΢universalità della chiesa cattolica, questo papa, con l΢aiuto dei gesuiti, fondò a Roma vari collegi che rispondessero alle esigenze di questa missione universale. Tuttavia, pur essendo il papa più filogreco fra quelli postridentini del XVI secolo, sin dagli inizi non volle alcun contatto diretto con la gerarchia ortodossa. Per lui esistevano i greci uniti. Per gli altri non poteva esserci che una relazione politica senza alcun risvolto religioso. Era stato da poco elevato alla cattedra pontificia, quando il 3 dicembre 1572 gli fu detto che avrebbe dovuto incontrare un vescovo greco. Il card. Santoro riferì successivamente la sua reazione: Disse che il papa “non respondet de Graecis”, et che questo l’imparò la prima volta che in minoribus andò in segnatura 48 . La reticenza a qualsiasi contatto diretto anche col patriarca di Costantinopoli è rivelata in una relazione dell΢ambasciatore veneto relativa all΢anno 1583: Perché nel dare indricio alla lettera vi era gran difficoltà per causa delle pretension del θatriarca de’ Greci... . Finalmente s’è rissoluto, per non dir cosa che offenda né questa né quella parte, di far la soprascritta che dica: “Venerabili fratri θatriarchae Constantinopolitano”, et non altro, giudicandosi che questo titolo dalla bocca del papa sia per essergli di soddisfatione 49. Come si è detto però, Gregorio XIII era interessato all΢oriente. Il che è dimostrato sia dal suo impegno nel creare a Roma un Collegio Greco sia nei vari tentativi per capire la situazione socio politica. Ivi, p. 62. Krajcar, Cardinal Gliulio Antonio Santoro, cit., p. 20. Peri 1973, p. 372. 49 Peri 1973, p. 398 47 48 28 Fu in questo contesto che nel marzo del 1580 inviò a Costantinopoli il nunzio Pietro Cedolini, vescovo di Nona, ufficialmente come delegato e visitatore per le comunità della Chiesa latina in Turchia 50. Temendo complicazioni coi turchi, Venezia rifiutò di fare viaggiare il Cedolini col bailo Paolo Contarini, il quale però, grazie alla mediazione di mercanti ragusei, ottenne per il nunzio il salvacondotto del sultano. A Costantinopoli gli occidentali lo evitavano, ad eccezione dell΢inviato francese Giacomo Germigny, che gli procurò il permesso di soggiorno. Dopo aver interrogato un gran numero di chierici e laici il Cedolini stese una preziosa relazione dalla quale si evinceva lo stato pietoso della chiesa latina che aveva perduto molte chiese, occupate da greci e armeni, e qualche volta divenute moschee. Una certa presenza latina si registrava ancora a Chios, Paros, Tinos, e Naxos, i cui vescovi erano in unione con Roma. A Santorini, nonostante le pressioni ortodosse, la popolazione era rimasta quasi interamente cattolica. Ad Andros i cattolici avevano dovuto rifugiarsi nelle montagne a causa della persecuzione scatenata dall΢ebreo portoghese José εiquez. εolti i cattolici ad Adrianopoli, ma neppure un prete. A Sofia i cattolici erano di origine ragusina. Notevole la comunità cattolica di Novibazar, più piccole quelle di Varna, Nisch, e Rustschuk. A Costantinopoli e nei suburbi di Pera e Galata i latini avevano 12 chiese povere e pericolanti. Approfittando dei sentimenti antiprotestanti del patriarca ortodosso Geremia II, il Cedolini entrò in contatto con lui discutendo sul come arginare la propaganda protestante. Le conversazioni furono amichevoli, ma i risultati non furono molto incoraggianti dal punto di vista romano. Geremia, infatti rispose negativamente un anno dopo sulla questione del calendario. Poco prima del suo ritorno, il 16 aprile 1581, il nunzio inviò un francescano come visitatore in Bulgaria e un domenicano in Crimea. δ΢effetto più rimarchevole dell΢azione del Cedolini fu la creazione a Costantinopoli di un Collegio di Gesuiti nel 1583, ottenendo il permesso del sultano grazie sempre all΢intervento dell΢inviato francese. δa chiesa di riferimento fu quella di S. Benedetto in Galata51. E΢ vero che la peste del 1586 svuotò il collegio, ma ormai l΢istituzione era avviata. δ΢incontro del Cedolini con Geremia II fu uno dei rari contatti diretti dopo la caduta di Costantinopoli fra un inviato del papa ed un patriarca ortodosso. Un patriarca fra l΢altro che proprio in quegli anni era diventato noto per le sue risposte ai teologi protestanti. Ma, nonostante le aperture di Geremia II (come si è constatato a proposito della sua protezione all΢unionista εassimo εargounios), l΢intesa era per quei tempi impossibile, in quanto Gregorio XIII amava sì i greci, ma aveva fatto propria la mentalità del concilio di Trento e quindi non aveva altro metro di riunificazione se non il ritorno degli ΟscismaticiΠ alla santa madre chiesa. Anche la creazione del collegio greco va vista nel quadro della missione universale. Il suo sogno di un ritorno dei greci alla romanità era già espresso nella bolla In Apostolicae Sedis specula, datata 13 gennaio 1576, con la quale annunciava la fondazione di un collegio greco a Roma 52 , facendo suo un Theiner Aug., Annales Ecclesiastici, quos post... Baronium, Od. Raynaldum ac Iacobum Laderchium ab anno MDLXXII ad nostra usque tempora continuat A. Th., I-III, Romae 1856 (III, 228). 51 Sulla missione del Cedolini, vedi Pastor, IX, 745-748. 52 Bullarium Romanum, VIII, 159. Peri 1973, p. 404. Una storia manoscritta (Historia Collegii Graecorum de Urbe), conservata nell΢Archivio del Collegio, non esisteva più già ai tempi del 50 29 progetto che i gesuiti carezzavano da oltre due anni. Lo scopo era quello di formare i giovani greci che, tornando nella loro patria, avrebbero fatto opera di riunificazione dell΢ortodossia alla Chiesa di Roma: Ut postquam in Catholicae fidei firmitate solidati fuerint et in... studiis profecerint, ad eorum patriam et loca redeuntes, alii, qui monasticam vitam maluerint profiteri, ceteros monachos et religiosos catholice instruere ... studeant; alii autem qui in clerum adscribentur nationis suae populis prodesse et praeesse animarum curam exercere verbum Dei sincere praedicare populos ab erroribus et schismate removere et ad salutarem orthodoxae fidei veritatem reducere possint; reliqui vero qui in laicali vita permanserint, publice per civitates aliorum Graecorum filios eiusdem fidei rudimenta et veritatem litterasque et artes liberales edocere, ac similiter in orthodoxae religionis cultu continere valeant; atque ita, divina favente gratia, sperari possit ut sana et integra fidei praedicatio et doctrina in ipsa Graecia et totius praeterea Orientis partibus aliquando restituatur.53 Il papa lo dotò immediatamente di 1200 scudi, aggiungendovi poi i proventi dell΢episcopato vacante di Chissano (Creta) e il pieno possesso dell΢abbazia benedettina della santa Trinità di Mileto. Cardinali protettori furono nominati Savelli, Sirleto, Santoro e Carafa. Dopo un breve periodo a fitto in via Ripetta, il collegio fu dal papa trasferito in via del Babuino, con annessa chiesa di S. Atanasio, voluta con bolla del 20 ottobre 1580 (e terminata nel 1583, architetto Giacomo della Porta; iconostasi di Francesco Trabaldese). Una iscrizione al secondo piano della facciata completava il messaggio già rivelato dallo stemma: Gregorio P. O. M. Fundator et Parens. I cardinali Sirleto e Santoro redassero il regolamento e ben presto molti alunni vennero dai territori veneziani del Levante. La liturgia era ovviamente in greco, e la stampa e diffusione di 12000 copie di catechismi aveva l΢intento di riportare i greci ΟscismaticiΠ all΢unione con Roma. Già pochi mesi dopo la bolla di fondazione il papa aveva fatto tradurre in greco moderno e pubblicare dal cardinal Sirleto i decreti unionistici del concilio di Firenze, ai quali il Sirleto aggiunse una Exhortatio ad Graecos 54. Non ci furono sensibili risultati, ma almeno si cominciava ad avere sempre più chiara coscienza del fallimento del concilio di Firenze e che gran parte del mondo greco restava ancora diviso da Roma. Nel 1593, quando la prima generazione di studenti aveva completato i corsi, nacque un problema pratico. Essi, infatti, sapevano che se fossero stati ordinati da un vescovo unito a Roma, non sarebbero neppure stati accolti dagli ortodossi, vanificando così tutto il senso dell΢esistenza del collegio greco. Il quesito presentato alla Congregazione dei greci era quello sulla possibilità di farsi ordinare da sacerdoti ΟscismaticiΠ. ζel 1595 la Congregazione diede una risposta negativa: non posse schismaticos episcopos nullum sacramentum ac praesertim sacri ordinis canonice administrare. Dato però che appariva Pastor, ma ne avevano scritto Pietro Arcudi (cfr. Legrand, Bibliographie Hellénique, Paris 1895, 482 ss), Rodotà (Dell’ηrigine, III, 153), P. de Meester, Le college pontifical grec de Rome, Roma 1910; Netzhammer, Das griechische Kolleg in Rom, Salzburg 1905. Cfr. Pastor, IX, 178-179. 53 Bullarium Romanum, VIII, pp. 159-160. 54 Cod. Vat. 6792. 30 eccessivo che ad ordinare i greci fosse un vescovo latino, nel 1596, dopo lunghe consultazioni, il papa decise di fare venire a Roma un vescovo greco proprio col compito di ordinare i greci. La persona scelta fu Germanos Kouskonari, monaco basiliano di Cipro il quale, quattro anni dopo la caduta di Famagosta in mano ai turchi, continuò a fare il vescovo di Leucara, Amatunte e Kouraii. Era stato in comunione col patriarca ecumenico, fino a che in fuga si rifugiò a Roma. Qui riconobbe la sua elezione come non canonica, sia perché eletto dal popolo sia perché a Cipro non aveva riconosciuto la giurisdizione del vescovo latino di Limassol, Filippo Mocenigo. Sin dal 1581 Gregorio XIII in una udienza riconobbe valida la sua consacrazione: Della risolutione per quel D. Germano vescovo di Limisò da Cipro, che sia riconciliato, abiurando il schisma e professando la fede catholica, e così restarà vescovo, supplendo a i difetti nella sua ordinatione e consecratione. 55 Al momento dunque di scegliere il vescovo ordinante per i greci d΢Italia e delle isole, le autorità romane pensarono a lui, che in origine aveva avuto il riconoscimento patriarcale ed ora aveva l΢avallo del pontefice. Il collegio greco di S. Atanasio fu una fucina di intelletti di notevole spessore. Basti ricordare solo alcuni. Giovanni Matteo Karyophyllios insegnò nel Collegio, lavorò nella Biblioteca Vaticana e confutò la Confessione del Lucaris. Pietro Arcudi si impegnò per l'unione di Brest e pubblicò opere di G Bekkos e Bessarione sullo Spirito Santo. Leone Allacci (+1669) lavorò nella Biblioteca Vaticana e scrisse opere per la riconciliaione fra le chiese. Fondamentale la sua De Ecclesae orientalis atque occidentalis perpetua consensione, Colonia 1648. δ΢importanza del collegio calò notevolmente dopo il 1622, quando, con la nascita della Congregazione De Propaganda Fide, poco a poco fu ridotto al rango di seminario. Ma, anche dopo questa data, molti dei protagonisti dei rapporti fra Roma e Costantinopoli si formarono in questo collegio. Alcuni si dedicarono decisamente e con sincerità alla causa dell΢unione, anche se i frutti della loro opera furono poco rilevanti a causa del fatto che l΢essere notoriamente uniti a Roma impediva persino l΢inizio del dialogo. Altri preferirono la via intermedia, quella dell΢ambiguità della loro posizione (esempio classico Paisios Ligarides), che permise loro non solo un buon dialogo ma anche una certa attività tra gli ortodossi. Altri, infine, come quelli del primo gruppo, ma all΢inverso, preferirono appena tornati in patria schierarsi apertamente contro l΢unione. . 8. Geremia II: i Protestanti e il Calendario Altre circostanze, oltre a quelle su riferite, favorirono contatti, sia pure indiretti, fra il papa Gregorio XIII (1572-1585) e il patriarca Geremia II Tranos (1572-1579, 1580-1584, 1586-1595). La prima fu occasionata dal tentativo dei protestanti di ΟconvertireΠ il patriarca ecumenico. δa seconda fu la riforma del calendario da parte del papa e che da lui ha preso il nome di ΟgregorianoΠ. Geremia era nato verso il 1530 ad Anchialos, sulla costa del Mar Nero. Dopo una buona preparazione culturale era divenuto vescovo di Larissa intorno al 1565. Il 5 maggio 1572, a seguito delle dimissioni forzate del patriarca Metrofane II, fu 55 Krajcar, Santoro’s Audiences, cit., p. 45. 31 eletto patriarca. La situazione non era però delle migliori, poiché Geremia dovette far fronte ai tentativi di Metrofane presso la autorità turche al fine di riottenere la sede patriarcale. Il suo rivale riuscì così a farlo deporre e a tornare lui sul trono patriarcale (29 novembre 1579). εa già nell΢agosto dell΢anno dopo Metrofane moriva e Geremia non aveva difficoltà a tornare in carica (13 agosto 1580). Anche questa volta però il suo governo fu tutt΢altro che tranquillo. Il 22 febbraio del 1584 il suo rivale Pacomio II, metropolita di Cesarea, la spuntò e Geremia dovette andare in esilio a Rodi. Pacomio conservava la cattedra esattamente un anno, poiché il 20 febbraio 1585, veniva scacciato da Teolepto II, metropolita di Filippopoli. Vita difficile ebbe comunque anche Teolepto, poiché presero il sopravvento nell΢amministrazione i diaconi Neofito e Niceforo, che riuscirono il 4 luglio 1589 a riportare Geremia sul trono. La competizione era costata molto denaro e quindi, già prima della felice conclusione della vicenda (15 giugno 1588), Geremia aveva ritenuto opportuno prendere la via della Polonia e della Russia per rimettersi in sesto finanziariamente. Il 15 giugno 1588 era a Smolensk, l΢anno dopo era a εosca (dove istituì il patriarcato), rientrando in sede ai primi del 1590. Morì alla fine di settembre del 1595. . Intanto, nel corso del concilio di Trento, incuriosito dagli avvenimenti che stavano sconvolgendo la chiesa dell΢ηccidente, il patriarca Ioasaf II (1555-1565) aveva mandato nel 1559 a Wittenberg il diacono Demetrio Mysos. Uno dei capi più autorevoli del protestantesimo, Filippo Melantone, gli consegnò una lettera per il patriarca Ioasaph, invitandolo ad unirsi alla chiesa protestante 56 . δ΢iniziativa non ebbe seguito. Tornando dall΢oriente esattamente dieci anni dopo, il teologo protestante Davide Chytraeus (Kochhafe) in un sermone a Wittenberg affermò che, a parte alcune superstizioni, gli ortodossi greci la pensavano come i protestanti 57 . Il terzo tentativo fu proprio con Geremia II, in occasione di un΢ambasciata inviata a Costantinopoli dall΢imperatore Massimiliano II. δ΢ambaciatore David von Ungnad volle essere accompagnato dal predicatore protestante Stefano Gerlach. Questi, giunto a Costantinopoli il 6 agosto 1573, era latore di una lettera di Martin Crusius (datata 7 aprile del 1573) per il patriarca. I termini erano rispettosi e alquanto generici, ed avevano l΢unico scopo di avviare dei contatti. Più specifica era la seconda lettera (datata 15 settembre 1574) firmata anche da Giacomo Andreae, cancelliere di Tubinga. La lettera era tra l΢altro accompagnata dalla confessione di Augusta tradotta in greco da Paolo Dolscius e stampata a Basilea nel 1559. Ma le cose andarono per le lunghe e Gerlach poté consegnare il tutto a Geremia soltanto il 24 maggio 1575. Un anno dopo (15 maggio 1576) Geremia faceva consegnare all΢ambasciatore la sua risposta, con la quale non solo rigettava l΢esortazione a togliere gli abusi nella chiesa ortodossa (icone, reliquie, ecc.), ma in 21 articoli sottolineava le differenze dottrinali fra ortodossia e protestantesimo. Innanzitutto rimproverava i protestanti di riferirsi solo alla Sacra Scrittura, mentre altrettanto impotanti erano i Padri e i concili ecumenici. Contraria sia alla Scrittura che ai θadri è poi l΢aggiunta del Filioque. ζei sacramenti i latini commettono diverse violazioni della tradizione, come ad esempio il battesimo Epistolae Melanchtonis, lib. III, ep. 36; Emmanuel Schelstrate, Acta orientalis Ecclesiae, Roma 1739, pp. 73-74. Crusius 1584 , 484; Renaudin P., Les Eglises orientales orthodoxeset le protestantisme, Revue de l΢ηrient Chrétien, 5 (1900), 566-568. 57 Davidis Chytraei oratio de statu Ecclesiarum hoc tempore in Graecia, Asia, Africa, Ungaria, Boemia, etc., Wittenberg 1582. 56 32 senza la triplice immersione. Errore più specificamente protestante è invece la negazione della presenza reale nell΢eucarestia, e l΢efficacia della confessione sacramentale. I sacramenti e la liturgia sono gli strumenti privilegiati verso la salvezza, e questa non si raggiunge solo con la fede, ma anche con le buone opere. Infine (articoli 20 e 21) il protestantesimo è in errore perché rigetta le feste dei santi, i digiuni e il monachesimo 58. Questa risposta giunse a Tubinga il 18 giugno 1576, e i professori luterani, alquanto delusi, redassero una risposta che porta la data del 18 giugno 1577, e fu consegnata al Gerlach insieme alla traduzione greca del Compendium Theologiae di Giacomo Heerbrand e ad alcuni doni (tra cui un pendolo) per il patriarca. Questi, che era fuori sede, ebbe la lettera solo nel marzo 1578, e diede la sua risposta soltanto nel maggio 1579. . Mettendo da parte il Compendium, Geremia ridusse la questione a sei articoli, rigettando punto per punto la posizione luterana. Gli argomenti trattati erano i seguenti: 1. Processione dello Spirito Santo 2. Libero arbitrio 3. Giustificazione e buone opere 4. Sette sacramenti 5. Invocazione dei Santi 6. Vita monastica La lunga risposta dei professori protestanti datata 24 giugno 1580 confutava tutti questi punti, rivendicando soprattutto il diritto all΢interpretazione personale della Bibbia e privando di autorevolezza la voce dei Padri.. La lettera giunse a Costantinopoli mentre Geremia non occupava più il trono patriarcale. Appena lo riottenne rispose in termini molto simili alla precedente lettera, concludendo che non era proprio il caso di insistere su questi temi viste le distanze che separavano le due confessioni: Vi esortiamo a non infastidirci più con i vostri sforzi e con ulteriori lettere. Voi trattate i teologi che furono la luce della chiesa in un modo che sembra onorarli e riverirli, ma che poi nella realtà non date loro il giusto valore. Voi dite che gli strumenti da noi usati, vale a dire le azioni sacre di cui vi abbiamo parlato, sono del tutto inutili. Bene, allora lasciateci in pace e non disturbateci più. Andate per la vostra strada e non scriveteci più intorno ai dogmi, ma soltanto, se volete, per motivi di amicizia 59. Coerentemente a quanto scritto in questa lettera, quando i professori protestanti replicarono, egli fece cadere la cosa senza alcuna risposta60. Vedendo forse il deciso atteggiamento del patriarca nei confronti dei protestanti, il nunzio Pietro Cedolini sperò di poter intavolare un dialogo costruttivo. Ed effettivamente, Geremia lo accolse con tante parole di elogio verso il papa, scusandosi di non poter dire pubblicamente le stesse cose per timore delle autorità turche. Maloney 1976, pp. 102-103. Maloney 1976, p. 104. Tutte e tre le risposte, in Karmiris 1960, I, pp. 437-504; II, 435-489. 60 Questa corrispondenza ha avuto un gran numero di edizioni sia in greco che in latino. Cfr. Palmieri 1911, pp. 453-463. Da notare che le tre lettere di Geremia sono comunemente considerate fra i libri simbolici della Chiesa ortodossa. Cfr. Mesoloras 1883, t. I, pp. 124-264. 58 59 33 Tomba di papa Gregorio XIII. Sotto: il riquadro scultoreo della riforma del Calendario (che da lui prende il nome di ΟGregorianoΠ). 34 Stesso incontro positivo ebbe il nunzio Livio Cellini, inviato dal papa al seguito dell΢ambasciatore veneziano Jacopo Soranzo allo scopo di trattare dell΢introduzione del nuovo calendario. ζel primo incontro il patriarca ringraziò il nunzio per aver accolto nel collegio greco di Roma due suoi nipoti, Costantino e Alessandro Laskaris. Purtroppo, durante uno degli incontri giunse la notizia che il papa, quale che fosse stata la risposta del patriarca, avrebbe comunque pubblicato la bolla per la riforma del Calendario. La cosa irritò il patriarca a tal punto che interruppe la conversazione, licenziando l΢interlocutore. Il seguito portò al fallimento della trattativa, secondo i cattolici per l΢insincerità del patriarca (il 20 maggio 1583 Cellini scriveva: sendomi alla fine chiarito che la penna di detto mons. patriarca è stata diversa dalla lingua), secondo gli ortodossi perché apportava ingiustificate innovazioni. θressato dall΢eterno problema finanziario (sia per i tributi al sultano che per spuntarla contro il rivale Teolepto, che occupava la cattedra patriarcale), Geremia, come si è detto, intraprese nel giugno 1588 un viaggio a Mosca, ove ben sapeva che lo zar Fedor intendeva istituire il patriarcato. Giunto nella capitale fu accolto con tutti gli onori e, considerando che in quel momento non era patriarca, il potente boiaro Boris Godunov gli propose di divenire patriarca di Mosca. Egli fu quasi sul punto di accettare, ma ne fu dissuaso da Hieroteo di Monemvasia e altri del suo seguito. Così le trattative si protrassero per mesi. Finalmente fu proposto come patriarca Giobbe, il quale fu eletto ufficialmente il 23 gennaio 1589 e intronizzato solennemente tre giorni dopo. Coperto di doni Geremia si fermò parecchi altri mesi in Russia. Alla fine dell΢estate cominciò il viaggio di ritorno durante il quale apprese che il governo turco in data 4 luglio 1589 gli aveva restituito il titolo di patriarca. In un sinodo tenuto a Costantinopoli nel maggio 1590 fu approvata l΢istituzione del nuovo patriarcato di Mosca, ma bocciata la sua collocazione al terzo posto (dopo Costantinopoli e Alessandria). Si stabilì invece che stesse al quinto posto (dopo i quattro patriarchi tradizionali). Le proteste violente dello zar non cambiarono le cose, e il sinodo di Costantinopoli del 12 febbraio 1593 confermò il quinto posto del nuovo patriarca della regione del Nord. 61 . Così, sia pure fra considerevoli perplessità, sospetti e delusioni, Roma aveva ripreso il dialogo con Costantinopoli. Era pur sempre un dialogo difficile, visto che gli ortodossi accusavano Roma di volere non l΢unità ma la sottomissione, mentre Roma li accusava di volere lo scisma invece dell΢unità. 9. δo scontro fra papi e patriarchi si sposta in Rutenia: l’Uniatismo δ΢ultimo decennio del XVI secolo fu un decennio caratterizzato da avvenimenti straordinari nei rapporti fra cattolici ed ortodossi. Fra questi il più importante, con riflessi importanti ancora oggi, fu il concilio di Brest del 1596, che sancì l΢unine di parte dell΢ηrtodossia russa occidentale alla chiesa di Roma. Il fatto di per sé, e soprattutto come narrato da parte cattolica, sembrerebbe escludere il ruolo di Costantinopoli e tale era anche l΢intento della chiesa di Roma. In realtà, Costantinopoli era ben presente, sia pure spesso dietro le quinte, e quindi 61 Su tutti e tre questi aspetti (disputa coi protestanti, riforma del calendario, istituzione del patriarcato di Mosca) vedi L. Petit, Jerémie II Tranos, in DTC vol. 8, col. 886-894. 35 questo capitolo della storia della chiesa rientra pienamente nella storia dei rapporti Roma Ν Costantinopoli. Tutta la vicenda va inquadrata nel contesto storico, che vedeva l΢ortodossia russa occidentale (Ukraina e Bjelorussia) all΢interno del Regno cattolico polacco, nonché il patriarcato di Costantinopoli (come quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) all΢interno del sultanato turco musulmano. In mancanza di un governo ecclesiastico forte e libero non poteva mancare un qualche successo alle iniziative dei gesuiti di riportare gli ortodossi all΢unione con Roma in osservanza delle conclusioni del concilio di Firenze. δ΢impresa non era facile perché, come si è detto, la chiesa di Roma (ad eccezione del periodo che va da Leone X a Giulio III, 1513-1555) si era completamente allontanata dalle decisioni fiorentine, che prevedevano la dignità della tradizione orientale (e non il tentativo di latinizzazione) e il rispetto dei privilegi dei patriarchi (con la loro giurisdizione), mentre i papi tendevano a trattare direttamente con tutti i vescovi locali come se non esistesse alcuna giurisdizione territoriale. Per meglio raggiungere lo scopo, i gesuiti Pietro Skatga e Benedetto Herbest, cambiarono registro. Dalla polemica tendente a mettere in rilievo gli errori dei ruteni, intorno al 1590 cominciarono a scrivere in tono conciliante, come se fosse soltanto una questione di rito, senza implicanze dottrinali. Naturalmente furono scoperti e pubblicati vari scritti (autentici, fra l΢altro) a suo tempo scritti a favore del concilio fiorentino. La cosa non poteva ovviamente fare piacere ai patriarchi di Costantinopoli, i quali, nonostante il loro stato di soggezione al potere turco, avevano ormai netta coscienza di essere nuovamente contrapposti a Roma. Fu per difendere la fedeltà dei Ruteni al patriarcato di Costantinopoli (oltre naturalmente ad esigenze economiche, sulle quali non è il caso di fare dell΢ironia, vista la necessità dei tributi ai turchi) che personalità ecclesiastiche vicine al patriarcato di Costantinopoli si avventurarono in Polonia e Russia. Nel 1586 era giunto in Ukraina il patriarca di Antiochia Gioacchino, il quale fermandosi a Lvov incontrò la locale confraternita, esortandola a mantenersi fedele all΢antica tradizione. Anzi, sembra che le desse il compito di sorvegliare l΢azione del clero, affinché non se ne allontanasse. Quando, poco più di due anni dopo, giunse il patriarca Geremia (sebbene non in carica), le confraternite si videro confermata questa missione di fedeltà. . Inoltre, su richiesta del potente principe Konstantin ηstrožskij, protettore degli ortodossi, Geremia sostituì il metropolita Onesiforo Devočko, due volte sposato, con Michele Ragoza. Nel ripartire, però, nominò come suo esarca il vescovo di Luck, Kirill Terleckij. Questi due elementi, il ruolo dato alle confraternite e la nomina di un esarca patriarcale, si dimostrarono decisivi ai fini degli sviluppi della vicenda. Gli storici ortodossi infatti riconducono tutto alla propaganda cattolica, ma questa non avrebbe avuto alcun successo se non avesse avuto man forte da queste scelte ΟcostantinopolitaneΠ. I vescovi ruteni, vedendosi ridotti drasticamente i privilegi (irrisori a confronto con l΢autorità dei vescovi cattolici) covarono tanto risentimento che cominciarono a guardare a Roma 62. Ironia della sorte, contro Costantinopoli si rivolse anche l΢esarca nominato da Geremia. Infatti quando, dietro le insistenze di Geremia, che stava rientrando da Mosca, il metropolita di Kiev era sul punto di inviare i 14.000 pezzi d΢oro dovuti a Costantinopoli per la sua ordinazione, fu proprio il Terleckij a dirgli di N. Vasilenko, Unija, in Enciklopedičeskij Slovar΢ di Brokgaus Efron δ΢autore è un ortodosso. 62 XXXIV/A, p. 823. 36 soprassedere. ζell΢assemblea di Belza (24 giugno 1590) tutti i vescovi ruteni cominciarono a prendere in considerazione di rivolgersi a Roma invece che a Costantinopoli in caso di contenziosi tra di loro. Rispondendo al Terleckij, il re Sigismondo III promise (18 marzo 1592) che in caso di unione con Roma l΢episcopato ruteno avrebbe goduto gli stessi diritti dell΢episcopato latino.In tutta la vicenda cercò di inserirsi anche il protettore dell΢ortodossia, Konstantin ηstrožskij, scrivendo al neoeletto vescovo di Brest (Ipatyj Poty) e sottoponendogli un progetto di unione con la chiesa romana, da comunicare però anche ai patriarchi orientali affinché fossero coinvolti positivamente. Fu proprio il coinvolgimento dei patriarchi orientali, che Roma non vedeva di buon΢occhio, a fare cadere il progetto dell΢ηstrožskij, mentre la macchina dell΢unione, guidata dal Terleckij, faceva progressi. Il 12 giugno 1595 i vescovi ruteni ponevano per iscritto la loro adesione a Roma nei termini del concilio di Firenze. Fu questa lettera che Kirill Terleckij e Ipatyj Poty, giunti a Roma il 25 novembre di quell΢anno, lessero dinanzi al papa il 23 dicembre. Il papa volle che il tutto fosse sancito da un concilio. Questo si aprì il 6 ottobre 1596 a Brest, e proclamò solennemente l΢unione della Chiesa rutena a Roma. Costantinopoli, però, nonostante fosse ormai morto Geremia, non era rimasta con le mani in mano. θrotetti dalle armi di Costantino ηstrožskij giunsero a Brest anche gli inviati costantinopolitani Cirillo Lukaris e Niceforo, con quest΢ultimo che, in veste di esarca del patriarca, scomunicò i vescovi che avevano aderito a Roma 63. Dispose quindi di non commemorare Michele, il deposto metropolita di Kiev, ma soltanto Gabriele, patriarca di Costantinopoli 64. ζaturalmente i cattolici, temendo una marcia indietro dell΢episcopato ortodosso che si era unito a Roma, non trovarono di meglio che cominciare a diffondere dubbi e sospetti sulla personalità e la carica di Niceforo. In una sua Relatio al superiore generale dei Gesuiti, Pietro Arcudi così scriveva in data 10 novembre 1596: : Per il che il Palatino mutò partito, et menò seco una massa di heretici nobili et audacii quali dovessero turbare tutto questo atto, et non so dove trovò un certo Niceforo Greco, che un tempo fà studiò in Padova et credo sia stato anche diacono del Patriarca Hieremia, et forse Exarcho, questo tale menò, acciò havesse a disputare in greco del dogma della processione dello Spirito Santo perché credo haveva inteso che erano venuti dui del Collegio greco, et anco me prima il Palatino conosceva, et non so chi di più della famiglia del Palatino salutò messer Georgio Moschetti per nome et cognome, quando una volta ci videro a celebrare. Di più se diceva che questo tal Nicephoro, oltra la disputa, nella quale tengo certo che saria stato simile alli altri greci, et io me ne rideva, havesse ordine dal patriarcha (non so chi si sia perche sin hora sono stati dui doppo da morte di Hieremia, l’uno costituito da Sinan Bassa, et doppo la morte di detto Bassa deposto, et costituito un altro more solito, nimirum oblata a 63 δ΢opera del protosincello ζiceforo è esaltata in una coeva Relatio amplissima cuiusdam graeci presentis in Synodo Berestensi.(ottobre 1596). Cfr. Halecki 1956, I, pp. 115-126 (testo greco), 126-136 (polacco). 64 Weliky, p. 371, n. 238. Da notare che le vicende del patriarcato di Costantinopoli alla morte di Geremia (tra il 1595 ed il 1596) sono alquanto confuse. Morto Geremia nel 1595, gli successe εatteo II, cui nel 1596 succede Gabriele, e dopo poco tempo Teofane I. E΢ più che probabile che quando Niceforo diceva di commemorare Gabriele, il trono patriarcale fosse già occupato da Teofane. 37 Graecis pecunia) Basta da qualunque si sia haveva questo Nicephoro ordine, o almeno così si fingeva, di scommunicare il Metropolita et deponerlo, et non è dubio che se havesse letto simil lettere in chiesa presente populo, haveria causato molto disturbo, et i populi, massime agiutati dalli malevoli, si sariano alterati da i propri pastori; ma lodato sia Dio, non gli vene fatta 65. Un brano, questo dell΢Arcudi, estremamente significativo dei rapporti Roma Ν Costantinopoli. δa prima guardava alla seconda decisamente dall΢alto in basso, anzi nell΢affare del concilio di Brest non l΢aveva neppure calcolata. θersino un uomo colto come l΢Arcudi, che avrebbe dovuto conoscere la situazione a Costantinopoli (e sapere che Niceforo era stato il protagonista assoluto della vita ecclesiale nella capitale turca, facendo cadere Teolepto II e rimettendo sul trono patriarcale Geremia) parlava di Niceforo, ripetendo tre volte in poche righe Οun tal ζiceforoΠ. Una certa insincerità nell΢Arcudi è rivelata dal fatto che da altri documenti 66 mostra di conoscere benissimo chi sia Niceforo e che abbia addirittura letto il privilegio a lui concesso da Geremia dove gli dà potestà che sieda sopra gli altri patriarchi et che sia il primo dottor della chiesa orientale, α α ο , idest primo inquisitore, gli concede più facultà... radunar synodi provinciali, deponere vescovi, arcivescovi, metropoliti, et sustituir altri in loco loro, et circa li dogmi determinar quello che gli piace. Secondo Arcudi però tutti questi privilegi non gli davano alcuna competenza nell΢affare dei ruteni, a motivo del fatto che quando questo si era verificato Niceforo era in prigione in Valacchia, e che doppo che fugì, Hieremia morse, et non gli diede commissione veruna. Arcudi sapeva dunque vita, morte e miracoli di questo Niceforo, e tuttavia ne parlava come di Οun certoΠ, Οun taleΠ67. . Altri, come Germanico, vescovo di S. Severo, scrivendo al card. Aldobrandini, gettava ombra sullo stesso patriarca: Il che (l’Unione) se seguirà, sarà di gran giovamento alla christianità; perché oltre all’acquisto delle anime, l’asserto θatriarca costantinopolitano essercita più l’offitio di esploratore del Turco, che di Pastore 68 . Ancora più esplicito era il palatino di Novogrod, che aveva accettato l΢unione, e negava qualsiasi legittimità al patriarca di Costantinopoli, dicendo che in Constantinopoli non era Patriarca, perché non è eletto ne confirmato da chi ha potestà canonica di farlo, ma ch’era eletto da duonzole (sic) confirmato dalla Porta, posto et deposto ad ogni suo capriscio. Ch’era esplorator del Turco, e più turco che christiano, ch’era simoniaco et notato d’infiniti vizzi, ch’era indignità non solo riconoscerlo per capo, ma nominarlo per tale 69. Weliky, p. 384, n. 246. Ad esempio Weliky, p. 425-26, n. 270. 67 Il disprezzo dei cattolici verso la pietà ortodossa si rileva anche da un altro episodio. Il card. Legato Gaetano, durante un pranzo in onore dei ruteni uniti (Varsavia, 30.X.1596) ebbe ad ascoltare da questi vescovi la situazione religiosa dei Moscoviti: Dissero ancora che quei Moscoviti hanno molti riti et abusi reppugnabili alla fede cattolica, et che tengono quasi in maggior veneratione S. Nicolò che Christo nostro Signore, vero Dio e Salvatore del mondo; di poi dissero che dubitavano assai di havere molte persecutioni dalli popoli delle loro città, che aderendo al Palatino di Chiovia havevano avuto per male cha havevano ratificata l’unione con la sede apostolica. Cfr. Documenta Unionis Berestensis, n. 244, p. 382. 68 Weliky, p. 423, n. 268. 69 Ivi, p. 424, n. 269. 65 66 38 Le cose in realtà stavano ben diversamente. Benché in situazione drammatica e per tanti versi controversa, il patriarcato era ben vivo, come dimostra l΢entrata in campo di due altri protagonisti della storia del tempo, Melezio Pigas e Cirillo Lukaris. Benché patriarca alessandrino, Melezio Pigas prese le redini anche del patriarcato di Costantinopoli. In una sua lettera al re di Polonia per protestare contro l΢oppressione della chiesa ortodossa in θolonia si intitolava: Meletius, misericordia Dei, Papa ac Patriarcha Alexandrinus et Constantinopoleos Praeses (17 luglio 1597) 70. Il tono è davvero quello di un papa: Sigismundo Tertio, Serenissimo Poloniae Regi invictissimo, filio in Domino dilectissimo, salutem et apostolicam benedictionem. Dopo averlo esortato a non permettere che gli ortodossi fossero perseguitati, gli ricordava che meritevoli agli occhi di Dio sono i principi che difendono la vera Chiesa: Qui ea quae Apostoli docuere, quae Patres tradidere, quae Ecclesia universalis observavit per saeculorum innumeram seriem: ea credunt, ea praedicant, ea observant, nullis Romani Pontificis adiectionibus, immutationibus, ac omnino innovationibus, qua de re Paulus severissime censuit, non esse admittendos hos novarum rerum sonitus. Di come il θigas lasciasse un ricordo di lottatore per l΢orgoglio e la dignità del patriarcato di Costantinopoli è indizio anche il lungo titolo della raccolta greca che conserva le sue lettere: π πα α πα π α α , , απ , πα α π π , πα πα ,π π , α π α , ᾶ. π α 71 Così, in mancanza di un dialogo diretto fra Roma e Costantinopoli, l΢occasione al dialogo (ma sempre in tono polemico) la davano le situazioni storiche. Il Pigas, però, lungi dall΢accontentarsi dell΢esortazione al re, cominciò a scrivere una serie di lettere alle confraternite che dipendevano direttamente dal patriarcato costantinopolitano, esortandole a non lasciarsi attirare dalla chiesa di Roma, ma di mantenersi nella fedeltà all΢ortodossia72. Per potersi muovere più liberamente a favore delle popolazioni ortodosse, il patriarca alessandrino (facente funzione di patriarca di Costantinopoli) cercò di essere utile diplomaticamente al regime turco nei contatti con le potenze straniere. Nel maggio 1597 si recò in Valacchia proprio in veste di inviato dei turchi. Una attività che in occidente era spesso interpretata come spionaggio a favore dei turchi, cosa di cui fu accusato ad esempio lo stesso Niceforo, che finì in carcere, da dove fuggì rifugiandosi presso Costantino ηstrožskij. In altri termini, Melezio Pigas dedicò gli ultimi anni della sua vita a fare fallire i tentativi di unione e a rafforzare l΢identità della chiesa ortodossa. . In Rutenia giunse anche Cirillo δucaris, Οvicario del patriarca di AlessandriaΠ, a seguito di una lettera di εelezio θigas al campione dell΢ηrtodossia. Il luogotenente del patriarcato di Costantinopoli lo raccomandava in questa lunga lettera. Il giovane Lucaris comunque preferì cedere la scena a Niceforo mentre Ivi, p. 436, n. 283. Questa raccolta di scritti del Pigas apparteneva a Teofilo, metropolita di Libia, poi patriarca d΢Alessandria, che morì a θatmos nel 1832. Secondo Teofilo, la raccolta avrebbe dovuto contenere 320 lettere del θigas. In realtà ce ne sono pervenute 94. Cfr. εalyševski 1872, pp. XIXII. 72 Lettera alla confraternita di Leopoli, Weliky, p. 444, n. 286. 70 71 39 egli col principe manteneva i contatti con gli ambienti protestanti della Polonia, utili alla comune guerra religiosa contro Roma. 10. La nascita della Propaganda Fide. Il grande successo di Roma con l΢unione di Brest incrementò le speranze della curia romana in altre terre. Ma non tutto andava secondo i desideri del papa. Tra i meno soddisfacenti agli inizi del XVII secolo erano i rapporti con Venezia. Questi presero una piega talmente critica da sfociare nell΢interdetto pontificio contro la Serenissima in data 17 aprile 1609. Tali tensioni ovviamente non favorirono soltanto i progressi del protestantesimo nei domini veneziani, ma anche la reazione ortodossa, sempre meno timorosa di fronte al clero latino. θer quanto riguarda però la città di Costantinopoli, grazie all΢appoggio della Francia, il papa riuscì a fare tornare i gesuiti proprio in quello stesso anno dell΢interdetto contro Venezia. Come si è detto, essi erano già stati a Costantinopoli oltre venti anni prima, ma sotto il pontificato di Sisto V la loro presenza era stata interrotta da una micidiale epidemia che li aveva portati tutti alla morte. Il loro ritorno fu molto importante sia per la cura che essi presero del clero cattolico sia per arginare i progressi del calvinismo73. ζon c΢è dubbio comunque che l΢iniziativa maggiore della Santa Sede, e propriamente del papa Gregorio XV (1621-1623) fu l΢istituzione della Congregatio de propaganda Fide, che nei suoi Annali così riporta: In nome di Cristo. Amen. ζell’anno 1622 dalla sua nascita, il 6 gennaio, il nostro santo Padre in Cristo Gregorio XV, per la Divina Provvidenza papa, nella convinzione che il compito più alto del suo ufficio pastorale è la propagazione della fede cristiana, per la quale gli uomini vengono condotti a conoscere e adorare il vero Dio, fondò una Congregazione di tredici cardinali, due prelati e un segretario, ai quali affidò e raccomandò l’opera della diffusione della fede 74. I poteri di questa congregazione sulle missioni furono amplissimi. Per meglio agire e in modo puntuale, nella seduta dell΢8 marzo 1622 si procedette alla ripartizione secondo le province di tutta la terra. Il nunzio di Parigi si sarebbe occupato di Belgio, Olanda, Inghilterra, Scozia, Irlanda, Danimarca e Norvegia. Il nunzio di Lucerna avrebbe provveduto alla Svizzera, Alsazia e Germania sudovest. Il nunzio di Colonia si occupava della Germania nord-ovest. Al nunzio di Vienna competeva la Germania sud-est, Austria-Ungheria, Transilvania, Moldavia e Valacchia. Al nunzio della Polonia, oltre la sua nazione, la Russia, la Pomerania, la Svezia e la Prussia. Il nunzio a Venezia aveva competenza sui paesi jugoslavi. Quello spagnolo aveva autorità sui territori soggetti alla corona di Spagna, mentre il collettore portoghese a quelli della corona del Portogallo. Diverse furono le disposizioni per i Balcani, l΢Asia εinore e l΢Africa Cfr. Pastor, XII, p. 275. Quanto alla missione dei gesuiti nelle isole greche (1613 e 1615) vedi Iuvencius Ios., Historiae Societatis Jesu, Pars Quinta, tomus posterior (1591-1616), Roma 1710, p. 437. 74 Castellucci, Il risveglio dell’attività missionaria e le prime origini della S. Congregazione de Propaganda Fide, Roma 1924, p. 123 73 40 settentrionale, per i quali paesi erano previsti altrettanti vicari patriarcali (a Costantinopoli, Gerusalemme e Alessandria). La Congregazione contattò anche i maestri generali degli Ordini religiosi, ingiungendo di fornire i dati di tutti i missionari e che da ogni provincia di missione annualmente fornissero una relazione. Il che ha fatto sì che l΢archivio di Propaganda Fide risulti oggi tra i più importanti del mondo. Per quanto riguarda Costantinopoli particolarmente prezioso è il fondo Visite. Ecco una sintesi che ne fa il θastor per l΢anno 1622: Visitatio Constantinopolitana Episcop. Santorin [Pietro de Marchis]. Relazione da Costantinopoli 12 novembre 1622, specie sull’opera dei Domenicani e Conventuali in Pera e Costantinopoli. – Relazione 26 novembre 1922: in Pera 9, in Costantinopoli 2 chiese, 4 conventi (Predicatori, Minori Conventuali, Minori osservanti, Gesuiti). “Quelle chiese sono tenute tutte pulite e onorate come a Roma stessa”. Il servizio divino viene tenuto regolarmente a porte aperte senza molestie [dunque più libertà che nei paesi protestanti] “et ben spesso alle prediche sono Greci heretici et anco Turchi, forse per curiosità, ma con gran silentio, et facendosi la cerca danno essi ancora l’elemosina”. In θera circa 580 anime. Il patriarca greco nega la confessione. La plebe del rito greco è ignorante assai et li sacerdoti poco sanno et la gente vile odia la gente nostra latina et sol dire queste parole: più tosto turco che franco. Li Turchi naturali moralmente sono di buona natura et cortesi”, gli attacchi vengono in genere da rinnegati. Seguono decreti del visitatore. – Relazione del P. De Marchis (Smirne 1623, luglio 27): In Gallipoli nessun latino tranne un Francescano, c’è ancora una chiesa latina. In Smirne 60 anime di rito latino, chiesa edificata recentemente dai Veneziani. - Relazione da Chio, 9 agosto: visita. Necessità di un vicario generale in Smirne. – Relazione da Chio, 18 settembre 1623: visita accurata in Chio ove ancora 12 chiese (prima 14, due trasformate in moschee). Nei dintorni 100 chiese vecchie, abbandonate. 7000 anime 75. Come si denota da questa preziosa relazione, da un lato vi sono tanti greci non uniti che frequentano le chiese cattoliche, dall΢altra tanti greci ortodossi che mantengono l΢antica esclamazione, meglio i Turchi dei Franchi. E΢ più che probabile che questa espressione anticattolica sia stata fatta rinverdire dal nuovo patriarca Cirillo Lukaris, di cui si è già parlato come giovane assistente di Niceforo, il vicario patriarcale inviato a dare man forte a Costantino ηstrožskij contro gli uniati. 11. Successi protestanti nel patriarcato ecumenico. Cirillo Lukaris A Cirillo Lukaris sono legati i successi del protestantesimo nel patriarcato ecumenico. Ovviamente non era il protestantesimo come vissuto in Germania o in ηlanda, essendoci nell΢ηrtodossia delle manifestazioni devozionali (icone, reliquie, ecc.) diametralmente opposte ai principi del protestantesimo. Per ingraziarsi i rappresentanti degli stati generali e dell΢Inghilterra che lo finanziavano nella lotta per la conquista del trono patriarcale, egli accoglieva i 75 Cfr. θastor, XIII, p. 109. δ΢autore rinvia all΢Archivio di θropaganda Fide, Visite, I, 99 ss. 41 punti fondamentali della dottrina protestante, senza giungere a ferire i sentimenti popolari sulle icone, sulle reliquie e sui santi in genere. Il suo temperamento, incline all΢opportunismo, rendeva questa operazione più agevole, anche se non passava inosservata negli ambienti teologici. Il Lucaris, nato a Creta nel 1572, era stato un brillante intelletto, molto apprezzato dal luogotenente patriarcale a Costantinopoli, Melezio Pigas. Prima della missione anti-uniata (partecipando all΢anti-concilio di Brest nel 1596) era stato a Padova e Venezia, ove aveva compiuto gli studi e aveva conosciuto gli uomini più in vista del mondo greco in diaspora. Alla morte del Pigas ne prese il posto come patriarca di Alessandria (1602-1620). Come il suo maestro però, più che ad Alessandria, era interessato a Costantinopoli. Quando nel gennaio del 1612 fu deposto Neofito II (per nepotismo), Cirillo si proclamò reggente, ma durò soltanto un mese, perché fu deposto e rimpiazzato dal metropolita di θatras, Timoteo II, che gli rimase sempre ostile. Un mandato d΢arresto del governo turco lo raggiunse mentre si recava sull΢Athos, per cui preferì rientrare ad Alessandria. Cominciò allora ad allacciare una serie di contatti con i protestanti. Nel 1616 inviò ad Oxford Metrofane Kritopoulos. Scrisse poi a εarco Antonio de Dominis, l΢arcivescovo di Spalato passato al protestantesimo, quindi a diversi altri vicini agli ambienti protestanti. . Il 4 novembre 1620, a seguito di complicati intrighi tra le diplomazie, divenne patriarca di Costantinopoli, ma per gli stessi intrighi, dei quali questa volta fu protagonista l΢ambasciatore francese, il gran vizir lo sostituì con l΢arcivescovo di Amasea sul Ponto. Ma i metropoliti e vescovi ortodossi, non vedendo di buon occhio un patriarca ΟnominatoΠ dal gran vizir, posero fine al suo patriarcato (30 aprile- 25 giugno 1623), eleggendo il metropolita di Adrianopoli, Antimo II, che dai documenti dell΢epoca sembra simpatizzasse con la chiesa di Roma. Benché in catene a Rodi, il Lukaris, grazie all΢appoggio dell΢ambasciatore olandese, riuscì a tornare a Costantinopoli e il 2 ottobre 1623 per la terza volta riprendeva il trono patriarcale, che mantenne sino al maggio del 1630, un periodo abbastanza lungo da permettergli una più organica formulazione del suo pensiero e una parziale pubblicazione. Tra il maggio e il 18 giugno 1630 fu spodestato dal metropolita di Calcedonia, Isacco. Ma ormai era una lotta senza quartiere, con un elemento decisivo in queste conferme turche, il pagamento del tributo, che nel frattempo si era accumulato. Dopo cinque mesi di patriarcato, il 4 ottobre 1633 era nuovamente spodestato, anche se il nuovo patriarca Cirillo di Berea, vecchio allievo del Collegio dei Gesuiti di Galata, tenne il trono per pochi giorni (4 Ν 11 ottobre). Soltanto nel marzo dell΢anno dopo Atanasio θatellaro riusciva a pagare l΢enorme debito e ad essere riconosciuto patriarca. Il mancato pagamento di una rata provocava però anche la sua caduta e il ritorno del Lukaris per la sesta volta (aprile 1634). Dopo un anno, sempre per questioni finanziarie, fu deposto e prese nuovamente il patriarcato Cirillo di Berea (marzo 1635). Questi fece esiliare il Lukaris a Rodi, ma non seppe trattare con i membri del sinodo, nel quale c΢erano alcuni partigiani del δukaris. Onde il sinodo lo depose eleggendo uno di questi, Neofito di Eraclea, il quale fece deportare lui a Rodi, e al contempo fece tornare Cirillo con la stessa nave. Finalmente nel marzo del 1637 Lucaris occupava per la settima volta il trono, ma proprio mentre i protestanti esultavano ecco tornare a Costantinopoli Cirillo di Berea. Questi nel frattempo era riuscito a convincere il gran vizir che il Lukaris stava complottando sia 42 presso i greci (incitandoli alla rivolta) sia presso i cosacchi. δ΢autorità turca condannò allora il Lukaris come traditore, gettandolo in prigione (20 giugno 1638). Ma a Cirillo di Berea non bastò aver ripreso il trono. Temendo la pericolosità del Lukaris fece in modo che venisse ucciso, e lo fece con l΢aiuto del pascià Bayram e del sacerdote ortodosso Lamerno. Il 27 giugno il Lukaris fu prelevato col pretesto che doveva essere trasferito in un΢altra isola, in realtà col segreto proposito di ucciderlo. Erano appena salpati, infatti, che i marinai turchi lo strangolarono e lo gettarono in mare. Il Lucaris fu dunque patriarca sette volte: 1. gennaio-febbraio 1612 (locumtenens). 2. 4 novembre 1620 Ν aprile 1623 3. 2 ottobre 1623 Ν maggio 1630 4. maggio 1630- 4 ottobre 1633 5. 11 ottobre 1633 Ν marzo 1634 6. aprile 1634 Ν marzo 1635 7. marzo 1637 Ν 20 giugno 1638 La vita di Cirillo Lukaris, con tutta questa serie di interruzioni e ritorni sul trono patriarcale, rende bene l΢idea di quanto difficili fossero le condizioni di vita dei patriarchi di Costantinopoli, costretti non solo a fare i conti (umanamente e finanziariamente) col governo turco, ma anche a sapersi districare fra le varie ambasciate dei paesi stranieri che volevano influenzare la politica religiosa. Come si è detto, il periodo in cui il Lukaris poté esprimersi meglio furono gli anni 1623-1630. Fu in quell΢arco di tempo che pubblicò la famosa Confessione di sapore calvinista, sulla quale tanto si è scritto, a favore e contro la sua paternità. ηggi tale attribuzione a lui è quasi generalmente accettata, anche se l΢Apologia76 del 1634, pubblicata ai primi del Novecento, ha smorzato alquanto i toni dell΢accusa. In realtà, il Lukaris era un uomo del suo tempo, sensibile a tutti i richiami, da quello cattolico, a motivo dei suoi primi studi, a quello protestante, in ragione dell΢attivismo che i protestanti dimostravano nelle diplomazie europee, fino a quello ortodosso, che egli amava, ma di cui sentiva la crisi. Egli non percepiva che fra le diverse confessioni ci fossero grandi differenze. Ad esempio, rigettando le accuse di filoprotestantesimo che gli erano piovute addosso all΢indomani del concilio di Brest, aveva scritto all΢arcivescovo latino di δvov, Demetrio Sulikovskij, in questi termini: In Grecia come a Roma tutti coloro che sono dotati di scienza professano dottrine assolutamente simili o almeno molto vicine. Lungi dal detestare la cattedra di S. Pietro, noi la circondiamo di rispetto e della venerazione che le è dovuta, e noi riconosciamo ad essa il primato e il titolo di madre. Quasi che questa affermazione risuonasse come cattolica la lettera fu inserita dallo Skarga nella raccolta Miscellanea de Synodo Berestensi, e nello stesso senso recentemente citata da Emerau77. Ora, queste sono parole che qualsiasi ortodosso firmerebbe tranquillamente, convinto come Chrysostomos Papadopoulos, archim. Di Gerusalemme, π α , in α ώ , gennaio febbraio 1905, pp. 17-35. δ΢Apologia era una lettera (probabilmente in risposta ad una richiesta di chiarimenti) alla parrocchia della Vergine di Lvov, in cui Lucaris si dichiara ortodosso. 77 Emerau C., Lucar Cyrille, DTC IX, col. 1003-1019 (in particolare 1014). 76 43 è che i termini ΟvenerazioneΠ e ΟprimatoΠ sono ben lontani da qualsiasi implicanza giurisdizionale, come vorrebbero i cattolici. ζon c΢è dubbio comunque che le sue simpatie andavano al protestantesimo ed in particolare al calvinismo. La Confessione, scritta a Costantinopoli in latino e nel gennaio 1631 tradotta in greco, ebbe vasta risonanza, facendo un certo scalpore per il linguaggio vicino alle posizioni calviniste 78 . Questa prima edizione divenne ben presto una rarità, mentre una qualche diffusione ebbe quella riveduta e corretta (cui adiuncta est gemina eiusdem Confessionis censura synodalis una a Cyrillo Berrhoeensi altera a Parthenio Patriarchis itidem Constantinopolitanis promulgata) del 1645. In una lettera del 1632 al professore ginevrino Jean Diodati, il Lukaris affermava che il papa in persona si era interessato alla Confessione, incaricando il conte di Marcheville, ambasciatore di Luigi XIII a Costantinopoli. Il Marcheville, accompagnato dal superiore dei Cappuccini (Arcangelo delle Fosse), si fece ricevere dal patriarca, portando con sé una copia della Confessione. Giunto alla sua presenza, il conte mostrò il documento e gli chiese se fosse opera sua. Al che il Lukaris avrebbe risposto: Io, riconosciutola, risposi esser mia Confessione e professione (si noti che il Lukaris conosceva bene l΢italiano). Il conte aggiunse che il papa desiderava sapere se Cirillo intendeva perseverare in quelle dottrine: Io all’hora con intrepidità risposi esser mia e che l’ho scritta io perché così tengo, credo, confesso, et se qualcheduno in quella trova errore e che mostrare me lo volesse, gli risponderei christianamente et con buona conscientia.79. La Confessione è divisa in 18 capitoli, ciascuno dei quali corredato da una serie di citazioni scitturistiche. Ecco alcuni punti: : - Il criterio della fede è la Sacra Scrittura, che è divinamente ispirata ( α ), mentre tutti gli altri scritti dei Padri e della chiesa sono di origine umana. - All΢interno della Trinità vi sono delle relazioni. Una di queste concerne lo Spirito Santo, che procede dal Padre tramite il Figlio ( α π ). - Già prima che il mondo fosse creato, Dio ha predestinato (π α ) alcuni alla salvezza altri alla condanna, senza considerare le loro opere, ma soltanto secondo misericordia e giustizia. - Gesù Cristo, è detto nel cap. VIII, intercede per noi presso il Padre. Lui solo assolve l’ufficio di vero e legittimo pontefice e mediatore. Per cui Egli soltanto si prende cura dei suoi ed è capo della Chiesa che decora e feconda di benedizioni diverse. - Dato che in nessun modo, dice al cap. X, un uomo mortale può essere capo della Chiesa, è nostro Signore Gesù Cristo stesso e soltanto lui ad essere il capo e solo lui ha il potere di governarla. Tuttavia quaggiù vi sono delle chiese particolari che sono visibili; ciascuna ha qualcuno che è il primo nell’ordine, ma questo non deve essere chiamato strettamente parlando capo di questa Il titolo originale è: Confessio fidei Reverendissimi Domini Cyrilli Patriarchae Constantinopolitani nomine et consensu Patriarcharum Alexandrini et Hierosolimitani aliorumque Ecclesiarum orientalium Antistitum scripta, Constantinopoli, Mense martio, Anni MDCXXIX. Il titolo greco è più breve: α α π α α π . Cfr. Pichler 1862. 79 Cfr. E. Legrand 1885, t. IV, p. 403 ss. Anche Emerau, cit., col. 1010. 78 44 chiesa particolare; lo si chiama così in modo improprio, poiché in questa chiesa è tuttavia il membro principale. - La giustificazione viene dalla fede, cioè dalla giustizia di Cristo ( α ), e non dalle buone opere. Queste però non sono inutili, anzi sono necessarie ( α α αῖα), non alla giustificazione perché non danno meriti, ma alla manifestazione della nostra vocazione. - Il libero arbitrio (cap. XIV) è reale solo nei rigenerati. Nei non rigenerati è morto ed essi non possono fare il bene. Tutto ciò che fanno è peccato. - Sacramenti sono da considerarsi solo i due trasmessi dal Salvatore, il battesimo e la cresima. Nella Scrittura non vi sono altri sacramenti. - ζel sacramento dell΢eucarestia Cristo è presente realmente, non nella sua materialità (come indica il termine transustanziazione, .), bensì nel suo comunicarsi tramite la fede all΢anima. - Appena si separa dal corpo l΢anima è trasportata o presso Gesù o all΢inferno. E΢ da rigettare cioè la favola del Purgatorio ( π α α ). Cap. XVIII. - Le immagini si possono conservare e onorare, ma lo Spirito Santo non vuole che vengano venerate. Certe espressioni sono così evidenti da rendere quanto meno strane alcune difese che lo stesso Cirillo faceva di sé, come ingiustamente accusato di Calvinismo. In ogni caso la corrente protestantizzante da lui creata a Costantinopoli non si arrestò con la sua morte. Diversi teologi ne svilupparono e continuarono il pensiero. Tra di essi è sufficiente menzionare Metrofane Kritopoulos, Zaccaria Gerganos, Massimo Callipolita e Giovanni Karyophyllos. Metrofane Kritopoulos, benché discepolo del Lukaris, scrisse una Confessione di fede della Chiesa orientale cattolica e apostolica ( α α α α α π Helmstaedt 1661, alquanto più sfumata nelle affermazioni e quindi più in sintonia colla tradizione ortodossa80. La maggiore prudenza nelle espressioni ha fatto sì che non pochi ortodossi la considerino uno dei libri simbolici. Un΢altra Confessione ortodossa di sapore protestantico, anteriore solo di qualche anno a quella del Lukaris, fu quella di Zaccaria Gerganos. Questi aveva studiato a Wittenberg, dove nel 1622 compose la suddetta Confessione. Consapevole che la stella della cultura greca era tramontata, ritenne opportuno scrivere la Confessione in greco volgare, al fine di renderla comprensibile ad un più vasto pubblico. Per lui la Sacra Scrittura è sufficiente a conoscere la verità. Tra le altre cose affermava che non c΢è alcuno stato intermedio dopo la morte e che l'eucarestia del prete in peccato è invalida. La sua Confessione fu aspramente criticata da Joannes Mattaios Karyophillos. Ciò che invece Testo in Karmiris 1960, II, pp. 489-641. Metrofane Kritopoulos , n. a Berea in Macedonia nel 1589 incontrò il Lukaris sul Monte Athos e lo seguì in Egitto ove da lui fu fatto protosincello. Inviato dal Lukaris a Oxford, vi restò sette anni, dopo di che passò in Germania e in Svizzera. Su richiesta di alcuni professori protestanti compose una Confessione, dal Mesolora considerata uno dei libri simbolici della Chiesa ortodossa, dall'Androutsos soltanto uno scritto personale, per di più con qualche venatura protestante (tre i sacramenti necessari: eucarestia, battesimo, penitenza; i libri deuterocanonici non sono ispirati). Un concilio athonita nel 1925 ne dichiarava l'ortodossia, mentre altri continuano a dubitare. Nel 1638 firmò anche lui al concilio di Costantinopoli che condannò il Lukaris. Morì come patriarca di Alessandria (1633-1639) , sembra ucciso durante un viaggio in Valacchia. 80 45 maggiormente apprezzavano i protestanti era il suo attacco contro l'eresia dell'adorazione del papa (α α παπα α) 81. Massimo Callipolita, seguace anch'egli del Lukaris, fu il primo a tradurre in greco volgare il Nuovo Testamento, sostenuto nell'iniziativa dall'ambasciatore olandese Cornelio Van Haga, dal cappellano calvinista Antonio Leger nonché dallo stesso Lukaris. Ma la sua pubblicazione seguì un iter particolarmente complesso a causa dello spirito protestantizzante che emerge qua e là. Infatti, già nell'introduzione affermava che solo la Scrittura è fonte della vera fede, l'esegesi patristica non fa che aumentare la confusione. L'autore non ne vide la pubblicazione, che avvenne nel 1645, mentre egli era morto già nel 1633. Ma, anche una volta stampata, la distribuzione fu bloccata dalla critica di Melezio Syrigos. Partenio II lo riabilitò, mandando il Syrigos in esilio a Chios. Ma, nonostante la riabilitazione, le autorità ortodosse guardarono sempre con sospetto a questa traduzione. Nel 1714 Alessandro Helladios auspicava che chiunque avesse una copia la desse alle fiamme. Giovanni Karyophyllos, nato presso Costantinopoli nei primi decenni del XVII secolo, frequentò la scuola patriarcale mentre insegnava Teofilo Korydalleus, dal quale assimilò alcuni spunti protestanti (specie sul sacramento dell'eucarestia). Fattigli ritrattare i suddetti punti, Partenio II lo designò professore nella scuola patriarcale (1644-65). Dositeo di Gerusalemme però lo criticò aspramente, ed egli fu costretto a scrivere per difendersi, dicendo che egli rigettava soltanto il termine ΟtransustanziazioneΠ, perché d΢origine latina. In realtà c'erano anche altri punti non del tutto in linea con la tradizione ortodossa. Ad esempio, egli riteneva che riceveva Gesù solo il fedele in stato di grazia, mentre quello in stato di peccato riceveva solo del pane. Nel 1691 il patriarca Callinico II convocò un concilio per definire la questione. Il Karyophyllos, specie a motivo delle pressioni di Dositeo, fu condannato. Nel 1693 si trasferì in Bulgaria a fare il parroco in una cittadina, ed ivi morì. 12. La reazione ortodossa antiprotestante: Pietro Moghila e Melezio Syrigos δa stesura delle Confessioni attiravano dunque l΢attenzione di papi e patriarchi, anche se neppure questo fenomeno spinse i protagonisti a mettersi in contatto diretto. Anzi, il fenomeno non faceva che consolidare nei papi la convinzione di avere a che fare con gente non solo in errore, ma anche poco affidabile. . Del resto, la Confessione del Lucaris provocò vivaci reazioni anche a Costantinopoli, e non soltanto da parte di Cirillo di Berea (il che sarebbe stato comprensibile in un nemico dichiarato del Lukaris educato presso i Gesuiti), ma anche da parte di Partenio. Il sinodo del 1638, presenti tre patriarchi e 21 fra metropoliti e vescovi, emanò il 15 dicembre un anatema contro Cirillo che aveva affermato che la chiesa ortodossa professava le stesse dottrine di Calvino ( α α ). A firmare la condanna del Lukaris c΢erano sia εetrofane Kritopoulos, patriarca di Alessandria, che Melezio Syrigos, noto controversista di Costantinopoli82. Dopo la deposizione e lo strangolamento di Cirillo di Berea, prese il trono Partenio I. Alla cerimonia d΢intronizzazione intervenne il teologo 81 82 Maloney 1976, p. 158. Testo in Karmiris 1960, II, pp. 562-575. 46 Teofilo Korydalleos, il quale riabilitò la memoria del Lucaris, difendendo l΢ortodossia della Confessione 83. Fu uno scandalo, per cui il patriarca sentì il dovere di riequilibrare la situazione. Invitò perciò Melezio Syrigos a tenere un sermone il 27 ottobre, cosa che il Syrigos fece accusando apertamente il defunto patriarca per la diffusione delle idee calviniste. δ΢intervento del Syrigos, dal punto di vista umano, è abbastanza sorprendente, in quanto molta della sua fortuna la doveva proprio al Lukaris. Melezio Syrigos era nato a Creta verso il 1585 e aveva studiato a Padova. Tornato a Creta si era fatto monaco, iniziando una veemente predicazione anticattolica che irritò le autorità veneziane. Fuggito, fu accolto dal patriarca Cirillo Lukaris che lo nominò pastore della chiesa di Chrysopeghe, proprio di fronte alla chiesa dei Gesuiti. Il Syrigos combatté il cattolicesimo, ma già nel concilio costantinopolitqno del 1638 era tra coloro che condannavano il Lukaris per la Confessione protestantizzante. Alla morte del Lukaris il patriarca Partenio I gli commissionò uno scritto sul Lukaris, che egli terminò nel 1640 col titolo: α α α α . Partecipò quindi al concilio di Jassy che rivide la Confessione del Moghila e la tradusse in greco. Al ritorno dovette stare in ombra, perché il nuovo Patriarca Partenio II era un seguace del Lukaris. Poi riprese la sua attività. Morì nel 1664. Come si è detto, tra il 1638 ed il 1640 le idee di Lukaris avevano già raggiunto la Rutenia, dove si era rimasti sorpresi e scossi, tanto che sia il metropolita Giobbe che la Confraternita di Lvov chiesero dei chiarimenti. Il patriarca di Gerusalemme Teofane III (1608-1644), che era di passaggio a Jassi, li rassicurò che il patriarca di Costantinopoli, protagonista della lotta contro l΢uniatismo, non si era reso colpevole di nessuna eresia. Se però questa deriva del patriarcato di Costantinopoli era presa alla leggera negli ambienti anticattolici, non così nella nascente scuola di Kiev. Fu quindi abbastanza naturale che il nuovo metropolita, Pietro Moghila, fondatore della scuola, progettasse una Confessione ortodossa tendente a rimettere le cose al giusto posto. Stese o fece stendere (forse da Isaia Trofimovič Kozlovskij, igumeno del monastero ζikol΢skij) un Catechismo, quindi convocò i vescovi della sua metropolia in Santa Sofia a Kiev e l΢8 settembre 1640 esaminarono ed approvarono lo scritto. Volendo però dare una dignità panortodossa al suddetto Catechismo, furono presi dei contatti con Costantinopoli. Il patriarca Partenio incaricò i migliori teologi, Porfirio di Nicea e il più volte ricordato Melezio Syrigos, di seguire la vicenda. Questi raggiunsero Jassi nel dicembre del 1641, ma varie cause provocarono dei rinvii, tanto che gli incontri con i rappresentanti russi (Isaia Trofimovič Kozlovskij, Josef Kanonovič e Joseph ηksenovič) si protrassero addirittura sino al mese di ottobre del 1642. Partenio approvò il loro lavoro e nel Teofilo Corydalleus, nato ad Atene nel 1563, dopo gli studi al collegio greco di Roma, passò a Padova ove ebbe come professore di filosofia Tommaso Cremoni, che insegnava nello spirito del liberalismo filosofico. Tornato ad Atene aprì una rinomata scuola di filosofia. Il Lucaris lo invitò a Costantinopoli ad insegnare filosofia aristotelica nella Scuola patriarcale. Del suo protettore condivideva la teologia calvinistica che negava la presenza reale nell'eucarestia. In un discorso a Costantinopoli, menzionando il Lukaris, ne prese le difese. La risposta affidata a Melezio Syrigos, fu molto dura. Il Syrigos accusò il Corydalleus di calvinismo e di ateismo filosofico, chiamandolo ΟεisòtheosΠ (odiatore di Dio) invece che ΟTheòfilosΠ (amante di Dio). ζominato vescovo di Artos e Naupactos, fu ben presto deposto per la sua eterodossia. Morì nel 1645. 83 47 marzo del 1643 il Catechismo del Moghila vedeva la luce con le correzioni del Syrigos, che aveva provveduto anche alla traduzione in greco84. . Gli interventi del Syrigos non piacquero molto al Moghila, ma per quanto riguarda il tema che interessa in questa sede, non vi sono differenze fra il teologo kieviano ed il teologo greco. ζel campo dell΢ecclesiologia, in particolare nella Confessione estesa, va segnalata la circostanza che l΢impostazione metodologica è la stessa che si ritrova nella teologia cattolica, partendo cioè dalle quattro note della chiesa: una, santa, cattolica, apostolica 85. Tuttavia si precisa subito che proprio tali note escludono che qualsiasi chiesa locale possa avanzare la pretesa dell΢universalità. Anche se la madre di tutte le chiese è quella gerosolimitana: Ecclesia igitur hierosolymitana est Mater omnium Ecclesiarum et prima (quamvis reges postea dederint primitias Veteri et Novae Romae propter imperii sedem, iuxta canonem tertium concilii secundi oecumenici Constantinopolitani), quia evangelii propagatio ab illa exordium sumpsit in omnes fines terrae; et propterea facta est catholica, cum sit ab omnibus gentibus quoad doctrinam fidei recepta 86. Quanto al fondamento è Cristo e soltanto lui: Non enim Christus Dominus Ecclesiam suam fundavit supra homines, sed supra seipsum, tamquam verum Deum, et supra doctrinam suam. Gli altri, cioè gli Apostoli e i Profeti sono fondamento soltanto secundum quid et secundario 87. 13. δ’Ortodossia panellenica di Dositeo di Gerusalemme La morte violenta di Cirillo Lukaris aveva dato la possibilità ai suoi discepoli e seguaci di difenderne la memoria, per cui a Costantinopoli, come si è detto, nel corso della seconda metà del XVII secolo, si crearono due correnti, quella a lui favorevole che negava l΢autenticità della famosa Confessione e quella contraria (capeggiata da Melezio Syrigos), che lo accusava apertamente di eresia. Ciò nonostante, il partito filocattolico non prese mai il sopravvento, come era avvenuto invece al tempo del Lukaris con i patriarchi Atanasio Patellaros e con Cirillo di Berea. A dominare la scena furono sempre polemisti anticattolici, come Sevastos Kymenites o come Nikolaos Kerameus (+1672), che pure aveva studiato al collegio greco di Roma. Un΢opera polemico-apologetica di quest΢ultimo fu introdotta dal Dositeo in una delle sue raccolte 88. Non mancavano ovviamente scrittori più irenistici, come Nikolaos Bulgaris (nato nel 1634, autore di un Catechismo), Gregorio di Chios (discepolo del Per gli atti greci dei sinodi di Costantinopoli e Jassy del 1642, vedi Karmiris 1960, II, pp. 575582. Per il testo della Confessione del Moghila tradotta in greco dal Syrigos, ivi, pp. 582-686. 85 Confessione ortodossa, in Malvy, Viller 1927, Q. 83. 86 Ivi, Q. 84, pp. 47-49. 87 Ivi, Q. 85, p. 49. 88 Il Kymenites, originario di Trebisonda (+1702), era professore alla scuola patriarcale fra il 1671 e il 1682, anno in cui fu estromesso a seguito di una rivolta degli studenti. Rettore della scuola del monastero di S. Saba a Bucharest nel 1690, lasciò molte opere, il più delle quali inedite. Una riguarda la teologia del Palamas, esposta e difesa, un'altra affronta le tematiche vive anche nella scuola di Kiev (Transustanziazione, l'Immacolata Concezione, valore sacro delle particelle minori del pane consacrato sula patena nel rito bizantino). 84 48 Coressio, ma più simpatizzante per il cattolicesimo) o Nikolaos Kursulas (che dopo gli studi al collegio greco di Roma divenne un predicatore affermato e compose uno dei pochi manuali organici di teologia ortodossa). Le cose si stavano dunque trascinando fra influssi cattolici ed influssi protestanti, con l΢incognita fra l΢altro dell΢autenticità o meno della Confessione del Lukaris, quando il marchese Olier de Nointel non suggerì al patriarca di Gerusalemme Dositeo di risolvere la questione con un concilio. Il fatto di rivolgersi al patriarca di Gerusalemme non deve sorprendere, poiché con Dositeo si verificò qualcosa di analogo a quanto accaduto con Melezio Pigas nell΢ultimo decennio del XVI secolo. Dositeo, infatti, per vari motivi, non ultimo la concorrenza dei Francescani nella Chiesa del Santo Sepolcro, viveva più spesso a Costantinopoli, dove gli veniva riconosciuta una grande autorità morale. Per cui si potrebbe dire che le sue iniziative nei confronti di Roma e di tutta la Chiesa latina avevano lo stesso valore come se fossero partite direttamente dal patriarca di Costantinopoli. Egli colse al volo l΢occasione sottoponendo nel gennaio 1672 il progetto del concilio al patriarca di Costantinopoli, Dionisio εouslim. Avuta l΢approvazione, con grande energia e celerità organizzò la convocazione e nel marzo di quell΢anno si tenevano le prime sessioni a Gerusalemme 89 . I sei decreti che furono promulgati furono introdotti da una breve quanto esplicita accusa a Cirillo Lukaris. Tuttavia per attutire un΢ombra così grave i θadri espressero comunque i loro dubbi sulla paternità della Confessione. La condanna avvenne perciò sub conditione, vale a dire: Se la Confessione è stata davvero opera sua, allora che sia anatema. Leggendo la Confessione di Dositeo90, si sarebbe tentati di definirlo filocattolico. In realtà egli fu uno dei patriarchi più violenti contro il papato. I Francescani di Terra Santa lo definivano: infensissimus latinae Ecclesiae hostis. Chi era dunque Dositeo ? Nato il 31 marzo 1641 nel villaggio di Arakhovo presso Kalavrita (Peloponneso), divenne ben presto orfano ad otto anni e a prendersi cura di lui fu Gregorio Galanos, metropolita di Corinto. Questi gli fece fare i primi studi nel monastero dei Santi Apostoli. Nel 1653 era ad Atene, il che fa pensare che entrasse in contatto con Nicola Kerameus, ai cui scritti fa spesso riferimento. Nel 1657 era a Costantinopoli, nel metochion del Santo Sepolcro, ove il patriarca di Gerusalemme Paisios (1645-1660) lo prese sotto la sua protezione. Per accompagnare Paisios in Romania, Asia Minore e a Gerusalemme, Dositeo cominciò ad allargare le conoscenze sulla situazione dell΢ortodossia nel mondo. Il sinodo di Costantinopoli del 1661 elesse Nettario Pelopides patriarca di Gerusalemme, il quale nominò Dositeo arcidiacono e poi metropolita di Cesarea, quindi suo esarca in Romania. Essendosi dimesso Nettario per ragioni di salute, un sinodo a Costantinopoli nel 1669 elesse patriarca Dositeo, che aveva solo 28 anni. . Per pagare i debiti della conferma elettorale dovette intraprendere numerosi viaggi e fare la questua in Romania, Bulgaria, Transilvania, Georgia, Russia e Asia Minore. In un sinodo a Costantinopoli nel 1670 attaccò e fece deporre 89 Gli atti dei sinodi di Costantinopoli e Gerusalemme del 1672 sono editi in Karmiris 1960, II, pp. 687-733. 90 Il testo della Confessione di Dositeo si trova in Karmiris 1960, II, pp. 734-773. Anche Kimmel, Monumenta Fidei Ecclesiae Orientalis, parte I, Jenae 1850, pp. 425-488. 49 Anania, arcivescovo del Sinai, che aveva fatto dei passi per ottenere l΢indipendenza dal patriarca di Gerusalemme. Nel 1671 fece invece deporre e scomunicare il metropolita di Gaza, Paisios Ligarides, accusato di apostasia, avendo difeso il primato del papa 91. Quello stesso anno, col denaro raccolto fece restaurare il santuario di Betlehem, e l΢anno dopo (1672) tenne a Gerusalemme il suddetto concilio di fondamentale importanza per l΢ηrtodossia, e dal quale uscì la famosa Confessione ortodossa92. In essa il concetto del primato è espresso in modo discorsivo. La polemica è appena percepibile. Dopo aver rigettato la distinzione fra Ecclesia militans ed Ecclesia triumphans così continua: Huius autem Catholicae Ecclesiae quum universim ac perenniter caput esse mortalis homo non possit, caput est ipse Dominus noster Jesus Christus, et in eius gubernatione clavum ipse tenens hanc sanctorum patrum ministerio gubernat; ac singulis propterea ecclesiis, quae proprie ecclesiae sunt, atque eius inter membra vere locum obtinent, praepositos ac pastores, qui nequaquam abusive, sed verissime capitum instar illis praesint, episcopos Spiritus Sanctus posuit, qui quidem in auctorem et consummatorem nostrae salutis adspiciant, et ad eum hanc, quam pro ratione capitum impendunt, operam referant.93 Secondo Michalcescu, la Confessione, che nel 1723 fu inviata al Santo Sinodo a Pietroburgo, è troppo impregnata di teologia latina, come a proposito dell'uso del termine transustanziazione ( ) e l'affermazione di uno stato intermedio dopo la morte (entrambe queste opinioni sarebbero state ritrattate dopo il 1690 da Dositeo). Tuttavia la Confessione, firmata dai quattro patriarchi, fu inviata al santo Sinodo di Pietroburo nel 1723. Secondo Mesoloras e Androutsos si tratta di un libro simbolico, mentre i russi (Makarij, Sil'vestr e Malinovski) la considerano una confessione personale. Pochi anni dopo, su richiesta del patriarca di Mosca Gioacchino (1674-1690), Dositeo inviò in Russia i fratelli Gioannikio e Sofronio Likhudes, col compito di Paisios Ligarides era nato a Chios nel 1610. Dopo aver studiato nel collegio greco di S. Atanasio a Roma, fu ordinato sacerdote, ed inviato in medio oriente nel 1641 per lavorare per l'unione dei cristiani orientali a Roma. Il patriarca di Costantinopoli Partenio I lo fece predicare nelle chiese della capitale, e stessa accoglienza favorevole ebbe in Moldavia, ove incontrò il patriarca di Gerusalemme Paisios. Questi lo portò con sé a Gerusalemme trattandolo con molta amicizia. Il Ligarides si fece allora monaco lasciando il sio nome Panteleimon e prendendo quallo di Paisios in omaggio al patriarca. Questi lo consacrò metropolita di Gaza, e in tale veste Ligarides scrisse a Roma come se fosse ancora cattolico. Invitato a Mosca da Nikon per essere aiutato nel varare le riforme, il Ligarides ne approvò la deposizione assumendo spesso un ruolo di arbitro, e fu lui il principale organizzatore del concilio del 1666 al quale invitò i quattro patriarchi. Le cose cambiarono col nuovo patriarca di Gerusalemme Nettario, che lo prese in antipatia, e ancor più con Dositheos, che gli rimproverava le sue simpatie per il cattolicesimo. Dositheos comunicò anche ai russi di aver privato il Ligarides degli ordini sacri. Vistosi in pericolo, cercò di lasciare la Russia. Morì a Kiev nel 1678. 92 Su questo concilio vedi Aleksandr Gorskij, O sobore Ierusalimskom, Pribavlenija k tvorenijam Sv. Otcev, XXIV (M 1871). 93 Seguo il testo latino edito in Dosithei Confessio, sive Decreta XVIII Synodi Hierosolymitanae, in Philip Schaff, The Creeds of Christendom with a History and critical notes, vol. II, New York 1919, ΟDecretum X, pp. 410.411. 91 50 avviare l΢Accademia slavo-greca (che contro le sue disposizioni divenne Slavogreco-latina) e combattere senza tregua gli influssi cattolici della scuola di Kiev. Intanto ingaggiava un decisa lotta con i Francescani per l΢amministrazione dei Luoghi Santi. Per diverso tempo i suoi tentativi fallirono a causa dell΢intervento del marchese di Nointel, ambasciatore francese. Ma nel 1675 ottenne dal sultano Maometto IV un iradé che gli dava un certo primato di governo su Bethleem e Gerusalemme. A quel punto riscattò i monasteri georgiani di Gerusalemme e restaurò la famosa lavra di S. Saba. Nel 1690 però le cose cambiarono nuovamente e, per l΢interessamento del marchese di Castagnères de Chateauneuf, i Francescani ottennero un iradé che ridava loro il predominio sui Luoghi Santi. Dositeo espresse tutta la sua irritazione e delusione in una lettera al popolo. Il patriarca di Gerusalemme Dositeo, che si impegò molto contro il calvinismo del Lukaris e per la creazione in Romania di tipografie ortodosse. 51 Per dispetto lasciò per sempre la città di cui era patriarca trasferendosi a Costantinopoli, da dove continuò la guerra ai Francescani. Ma tutto invano, perché l΢unico che avrebbe potuto aiutarlo, Pietro il Grande di Russia, tutto preso da guerre a nord e sud, non rispondeva neppure alle sue lettere pressanti. Dositeo credeva di avere grande influenza sulle scelte della politica russa sia per l΢affare dei fratelli δikhudes sia per il ruolo avuto nel risolvere l΢affare del patriarca Nikon (era stato lui infatti a rispondere alla lettera dello zar Fedor nel 1676 al patriarca di Costantinopoli Giacomo, 1679-1673) nel senso di riabilitarne la memoria, pur dichiarando al contempo valide le riforme uscite dal concilio di Mosca del 1666. Ma Dositeo si illudeva. Pietro il Grande non aveva alcun interesse a fare rifiorire l΢ηrtodossia. ζon solo non lo coadiuvò nell΢affare dei Francescani, ma neppure prese in considerazione le sue insistenti esortazioni affinché deponesse il luogotenente del patriarcato russo, Stefano Javorskij, accusato anche lui di simpatie per il cattolicesimo 94. Negli ultimi anni della sua vita Dositeo fece frequenti viaggi tra Adrianopoli, la Romania e Costantinopoli, dove morì il 7 febbraio 1707. Egli fu certamente uno dei più grandi gerarchi di tutta la storia dell΢ηrtodossia. Dotato di un fortissimo senso della missione universale della Chiesa d΢ηriente, cercò di creare le condizioni, soprattutto culturali, di una unità che fosse anche visibile attraverso la predominanza dell΢elemento ellenistico. Tutta la sua cultura era greca, ma il suo occhio puntava alla Russia (specie nella lotta all΢uniatismo e al latinismo kieviano) e alla Romania. Quest΢ultima nazione fu fondamentale per la realizzazione del suo sogno di un΢ηrtodossia libera dagli influssi protestanti e soprattutto in guerra dichiarata contro il papato. In Romania trasferì una attivissima tipografia che nell΢ultimo suo ventennio di vita sfornò un gran numero di opere, per la maggior parte contro il papato e il cattolicesimo. Se si scorrono tutte queste opere si ha l΢impressione della prima grande enciclopedia ortodossa. Uno dopo l΢altro, ma sempre con una sua prefazione, vennero pubblicati tutti i trattati anticattolici (e qualcuno antiprotestante). La loro pubblicazione diede un ulteriore strumento alla polemica anticattolica, che nel giro di mezzo secolo avrebbe assunto toni di straordinaria violenza. Ecco l΢elenco come presentato dal θalmieri 95: 1. π α Θ πα ὡ ῖ α , ἤ π α α α α α ὗ α π π ῖ α ῖ π ῖ , π α α α Θ ῖ α α Scudo dell’Ortodossia. Ovvero Apologia e confutazione dei denigratori della Chiesa Orientale che ragionano ereticamente intorno a Dio e alle cose divine, quali sono i calvinisti, ed esposti in modo chiaro dal sinodo locale di Gerusalemme al tempo di Dositeo, patriarca di Gerusalemme. Trattasi degli Atti del sinodo di Gerusalemme del 1672, da alcuni però considerati falsi, nel senso che sarebbe un΢opera di Dositeo e non gli Atti veri e propri del concilio. Vi 94 Sull΢attività di Dositeo in rapporto alla Russia, vedi: Kapterev, Snošenija ierusalimskago patriarcha Dositheja s russkim pravitel’stvom, M 1891. 95 Palmieri Aurelio, Dosithée, in DTC IV, 1788-1800. 52 si difende la realtà eucaristica contro i teologi protestanti che si appellavano alla Confessione del Lukaris che, comunque, Dositeo non ritiene del Lukaris. 2. α Γ α ῖ π , ἤ α π α ῖ. α π α π π α π α Confessione ... per coloro che si pongono domande e vogliono sapere intorno alla fede e alla religione dei Greci, vale a dire della Chiesa orientale, e quale sia il suo vero pensiero sulla fede ortodossa. E΢ la famosa Confessione del Dositeo. Il tono è più scorrevole e meno anticattolico. A parte infatti il Filioque (la cui negazione è diretta contro i cattolici), sono prese di mira prevalentemente le tesi protestanti sulla Sacra Scrittura, il valore delle opere e il culto dei Santi. . 3. α α α Tomus reconciliationis. Jassy 1692. E΢ direttamente preso di mira l΢Allacci e la sua opera De perpetua consensione. Dositeo ripubblica il trattatello α α (attribuito a Macario, metropolita di Ancira, che accompagnò l΢imperatore Manuele II, 1391-1425, in Italia e in Francia); quindi il di Giovanni Eugenico (fratello di Marco di Efeso) contro il concilio fiorentino; seguito all΢ π π . α di Giorgio Coressio di Chio96, e dal Pro\j Lati/nouj di Macario Macres sempre contro il Filioque. Il quinto trattato è l΢ π α dei vescovi e preti di Costantinopoli all΢imperatore Giovanni VIII (1425-1448) in cui giustificano il loro rifiuto del concilio di Firenze. Al trattato di Massimo il Confessore segue la α α di Teodoro Agallieno (XV secolo). Senza nome dell΢autore è il α α π π . α . Di Matteo Blastares, scrittore del XIV secolo, è invece lo scritto α α . Quindi vengono gli Atti del sinodo costantinopolitano del 1450: α π π ῖ α ᾳ ᾳ (contro l΢Allacci che ne aveva negato l΢autenticità nella sua De Ecclesiae Occidentalis atque Orientalis perpetua consensione, Colonia 1648, col. 1379-1395, Dositeo ne sostiene l΢autenticità). Ritenuto autentico da Demetrakopoulos, Adam Zernikaw e Costantino Economo, è rigettato criticamente da Papaioannes su Vizantijskij Vremennik 1895, II, pp. 394-415. . 4. π . Tomus Amoris. Jassy 1698. Vorrebbe essere secondo Dositeo uno scritto che tratta i Latini con dolcezza. In realtà, appena può, attacca sempre duramente la chiesa cattolica. E΢ diretto specialmente contro uno scritto cattolico in greco volgare pubblicato da P. Francesco Richard a Parigi nel 1658. Come il primo 96 Giorgio Coressios, nato a Chios nel 1554, studiò a Pisa e a Padova, quindi esercitò medicina a Livorno prima di rientrare a Chios, ove cominciò a scrivere opere antilatine. Nel 1635 fu chiamato dal sinodo di Costantinopoli a difendere l'ortodossia dalle critiche di Antoine Leger, cappellano calvinista presso l'ambasciata olandese alla Sublime Porta. 53 tomo, anche questo raccoglie un gran numero di scritti la maggior parte dei quali è edita anche nel Migne. Dopo una prefazione seguita da alcuni scritti, comincia con la α α α α α , dopo di che si ha il trattato α α Γ ᾶ, di Filoteo di Costantinopoli, seguito da quattro scritti di di Giorgio/Gennadio Scholarios: 3. α α α π α α Θ ώ Γ απ , 4. Ἔ π . α π , 5. α π , 6. α α α . Vengono poi: 7. α α α ῳ α , 8. π α α , di Giorgio Gemistio Pletone. Il nono scritto proviene da un prete cattolico, tale Costantino, che nel 1452 si era convertito all΢ηrtodossia ed aveva abiurato dinanzi a Giorgio Scholarios: π π . Di Teodoro Agallieno è l΢ α π α π . Segue 11. Ἔ α π presentata dai legati di papa Gregorio IX (1222-1240) al patriarca Germano II. Sconosciuto è invece l΢autore del 12. π α α απ . α π . Di Giorgio di Cipro è il π π . α . Ancora di autore ignoto è il 14. α α . A Michele Psello risale il trattato 15: αα α, mentre di Niceforo Blemmide è il 16. α . δo stesso Dositeo è l΢autore del 17: α π π πα α α α . Del patriarca Giovanni VIII è il 18: π . Vari documenti della polemica greca contro la riforma del calendario sono compresi nel n. 19: α α α πα α . Seguono due lettere di Cirillo δucaris, quindi l΢anonimo 21: α α α . Al n. 22 c΢è la cerimonia liturgica α prevista dal concilio del 1484 sul modo di ricevere un latino convertitosi all΢ortodossia. Una lettera del metropolita di θetra Doroteo contro i matrimoni misti precede la lettera di Marco di Efeso: Γ α ῖ ... α ῖ . Chiude al n. 25: α π di Marco di Efeso con la confutazione di Gregorio Mammas. 5. α ᾶ Tomus jubilationis. Rimnic 1705. La gioia è quella che ogni buon ortodosso prova nel constatare che basta un briciolo di dottrina per mettere a nudo le assurdità delle novità latine. Il testo apre con alcune lettere di Fozio seguite da α π Φ α . Dalla penna di Dositeo esce lo scritto n. 3: ώ πα α , mentre di Nicola Kerameus di Janina (+1672) è il 4: α α α ᾶ ... α . Di Melezio Pigas è il n. 5: π α α... α α ππα ώ , mentre di Teodoro Agallieno è il 6: α α . Chiude una lettera a tutti i cristiani ortodossi, 7: Γ α ῖ πα α α ῖ . 6. απ πα α , Bucarest 1715. Meglio nota come . Ivi si condanna tra l΢altro lo scritto sui patriarchi di Gerusalemme di Paisios Ligarides contenente la difesa del primato del papa. Il Ligarides fu condannato dal patriarca di Costantinopoli Metodio III 54 (1668-1671) e da Nettario di Gerusalemme. Questa raccolta è considerata l΢opera capitale di Dositeo. Secondo l΢archimandrita θapadopoulos eccede nella rabbia contro i latini, ma rimane la base apologetica esprimente l΢avversione secolare dell΢ηriente nei confronti dei papi. πα, 7. 1676). Cetatuia 1682. α 8. α α γ di Simeone di Tessalonica, e l΢ α di Marco di Efeso. Jassy 1683. α Peloponneso. Bucarest 1690. 9. , di Nettario di Gerusalemme (+ α απ di Massimo del Nella prefazione Dositeo racconta tutti gli episodi negativi e satirici sul papato, come la leggenda della papessa Giovanna e il patto del papa Silvestro II (999-1003) col diavolo. 10. α α α α α . E΢ il trattato di εelezio Syrigos con alcune aggiunte del Dositeo sul protestantesimo inteso come una miscellanea di tutte le eresie precedenti, ove difende la transustanziazione, ma cambia parere rispetto alla Confessione rinunciando del tutto al Purgatorio. Egli inserisce pure lo del concilio di Costantinopoli del 1633 e i α del Concilio di Jassy del 1642. α Γ 11. α 12. α α α , α απ π α π α α π α α α , α , Bucarest 1692. α π , Snagov 1699. α π Contiene la Confessione ortodossa di Pietro Moghila (+ 1646) e il trattato sulle tre virtù teologali di Bessarione Makres di Janina (+1699). Nella prefazione Dositeo si dà alle solite invettive contro i protestanti e i gesuiti. 13. Φ π α ῂ Θ ᾳ ῳ π α α ῳ π α α , α α , αα α α ὅ α α , α α α, πα , α πα , Jassy 1694. Con l΢edizione di tutte queste opere Dositeo intendeva ergersi a custode dell΢ortodossia, dando al clero ortodosso gli strumenti per conoscere meglio la propria tradizione e di difenderla meglio. Egli aveva una grande stima di sé ed era convinto di essere riuscito ad imporsi nel mondo ortodosso al punto da 55 influire sui destini anche delle altre nazioni. Ma le cose non andarono sempre secondo i suoi desideri. Aveva sperato, ad esempio, che la Russia avrebbe realizzato il suo sogno di un'ortodossia panellenica, sull'onda delle riforme di Nikon, quindi con i fratelli Likhoudes ed infine con Pietro il Grande. Ma Nikon fu condannato nel concilio del 1666, i Likhoudes lo delusero, mentre Pietro il Grande non sfruttò religiosamente, come egli avrebbe voluto, le sue vittorie sui turchi. Benché fosse ugualmente ostile al protestantesimo, i suoi atti principali portano un΢impronta anticattolica. Quando impiantò la tipografia a Jassy, affidandone la conduzione al monaco Metrofane, la prima opera che fece stampare fu il Trattato contro il primato del papa scritto dal suo predecessore patriarca di Gerusalemme Nettario (+ 1676). Naturalmente tutte queste opere polemiche fecero una certa impressione anche a Roma, e non è da escludere che fosse la Propaganda Fide, se non proprio il papa in persona, a commissionare la confutazione. Questa fu affidata ad un alunno del Collegio greco della capitale, che compose due opere: 1. α α α π α π α α α, π δ’antica Grecia che aveva una grande stima della sede romana, ovvero risposta a Dositeo, patriarca di Gerusalemme, Venezia 1713 (in greco e latino). 2. α Γ α α α α α , α α π α π . . Consenso dei Padri greci e latini sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, contro Dositeo, patriarca di Gerusalemme.Roma 1716 (greco e latino). δ΢autore, Luigi Androutsis, era nato a Famagosta ed era entrato nel Collegio greco di Roma nel 1697. Nonostante fosse gravemente malato riuscì a scrivere diverse opere. Sull΢onda del contrattacco accentuò ulteriormente il ruolo del primato, tanto che sembra che le sue tesi anticipino di un secolo e mezzo il concilio Vaticano I. Valga come esempio il titolo di quest΢opera: Perpetua Ecclesiae doctrina de infallibilitate papae in decidendis ex cathedra fidei quaestionibus extra concilium oecumenicum et ante fidelium acceptionem, Bologna 1720. . 14. δ’attivismo missionario cattolico e le bolle di Benedetto XIV La prima metà del XVIII secolo sembrava confermare i progressi del cattolicesimo. In Medio Oriente una parte del patriarcato antiocheno aveva fatto la stessa scelta dando origine ai melchiti cattolici (1724) 97 . Anche l΢indebolimento della potenza turca era seguita con molta attenzione da Roma. 97 A Damasco fu eletto patriarca il cattolico Seraphim Tanas (che prese il nome di Cirillo VI). δ΢operazione di cattolicizzazione di tutto il patriarcato però non riuscì, in quanto si creò subito un΢opposizione che elesse patriarca Silvestro. Questi fu riconosciuto dal sultano e Cirillo VI 56 Clemente XI era molto interessato all΢oriente e al ritorno degli orientali alla Chiesa romana. Ogni anno, scrive il Pastor, nella festa di S. Atanasio egli celebrava la messa nel Collegio greco e aumentò notevolmente le sue entrate. Spesso egli discuteva col celebre orientalista Eusebio Renaudot e lo invitò a compilare dei memoriali intorno alle missioni in oriente 98. La situazione era già abbastanza buona dal punto di vista cattolico. Basti dire, ad esempio, che i gesuiti avevano sedi in Costantinopoli, Smirne, Tessalonica, Chios, Naxos, Eubea, Santorini, Trebisonda, Saida, Damasco, Sifanto, Serfo, Terasia e Paro 99. Nel 1713 si convertiva il patriarca greco di Alessandria, Samuele Capassulis. Altre conversioni furono quelle degli arcivescovi Macario di Tripoli e Partenio di Amida, dei vescovi Partenio di Eliopoli, Silvestro di Beirut, Anastasio di Nicosia. Ma tutto questo al papa non bastava e sognava addirittura un rovesciamento del potere in Turchia. Un΢altra area in cui il cattolicesimo segnò un successo che infastidì molto il patriarcato di Costantinopoli fu Venezia. Come si è visto, nel corso del XVII secolo ivi si succedettero con grande regolarità i metropoliti di Filadelfia, direttamente nominati dal patriarca, fino alla nomina di Melezio Tipaldos (1685-1713). Dopo di questi trascorreranno decenni prima di un΢altra nomina, con Sofronios Cutuvalis(1780). Il Manussakas, riferendosi al Tipaldos e alla sua sottomissione al papa verso il 1700 col successivo ristabilimento in data 18 gennaio 1709 degli antichi decreti del 1534 e 1542 (che prevedevano il riconoscimento dell΢unione con Roma), parlava di una Οgrave crisiΠ scoppiata per l΢occasione 100 . Il Capizzi, pur condividendo il termine ΟcrisiΠ, l΢attribuiva al fatto che col Tipaldos finalmente venivano Οsmascherati gli equivoci su cui ci s΢era adagiati in passatoΠ. Certo è che gli eventi presero una piega diversa, in quanto il senato veneziano, pur non accogliendo la richiesta di Clemente XI di fare nominare un altro cattolico come successore del Tipaldos, sottomise la comunità di S. Giorgio al patriarca di Venezia. E le conseguenze furono ben presto evidenti. Nel 1716 il patriarca Pietro Barbarigo richiamò energicamente la comunità al rispetto dei suoi decreti. Un intervento che ebbe l΢approvazione del papa Clemente XI espressa nel breve Nihil profecto est del 15 luglio 1718. Anche quando Venezia si decise a concedere al Venerando Capitolo della Scuola di S. Nicola di eleggersi un Vicario (9 agosto 1751) inserì ugualmente la clausola dell΢accettazione del concilio di Firenze da parte dell΢eletto. θer l΢occasione fu eletto don θietro εuazzo, e alla sua morte (1758) Spiridione Milia. εa l΢ambiguità di cui tanto parla il Capizzi non scomparve del tutto. Infatti, non era quasi mai chiaro se l΢eletto fosse cattolico o ortodosso. Tutti facevano giuramento di riconoscere il concilio di Firenze, essendo questa una clausola su cui Venezia non intendeva transigere. Ma il fatto stesso che Venezia volesse mantenere il diritto di riconoscimento delle persone, liberandole in qualche modo dal controllo diretto sia del papa di Roma sia del patriarca di Costantinopoli, faceva sì che entrambi questi ultimi fossero sempre dovette lasciare Damasco e rifugiarsi nelle montagne del Libano. Silvestro, giunto a Costantinopoli nel 1728, fece riunire un sinodo, presenti i patriarchi di Costantinopoli e di Gerusalemme, che si concluse con la scomunica del patriarca cattolico e dei suoi seguaci. 98 Pastor XV, p. 281. 99 Ivi, p. 283. 100 Manussacas 1973, p. 67. 57 sospettosi dell΢ortodossia dell΢eletto, premendo per l΢elezione di qualche persona di loro fiducia101. Il papa, comunque, non poteva alzare troppo la voce con Venezia, essendo questa decisiva in ogni strategia politica si volesse adottare. Approfittando, infatti, del momento di debolezza della Turchia in seguito alla pace di Carlovitz (26 gennaio 1699), che diede a Venezia il pieno dominio da Corinto alla Dalmazia, il papa Clemente XI nel 1701 aveva cercato di promuovere un΢alleanza fra l΢imperatore (Carlo VI) e la θolonia. εa l΢inattività di Venezia e la neutralità della Francia (da sempre in buoni rapporti con la Porta) fece fallire le trattative, tanto che nel dicembre del 1714 la Turchia riapriva le ostilità proprio contro Venezia. Il sultano Ahmed III abilmente fece sapere a tutta l΢Europa che intendeva combattere solo Venezia e nessun altro. La Francia non entrò in guerra, ma assicurò il pontefice che avrebbe comunque protetto i cristiani d΢ηriente. Nel corso del 1715 caddero così Tinos, quindi Corinto, Nauplia e Modon e finalmente tutto il Peloponneso. Ma nemmeno il papa restò inoperoso, riuscendo finalmente a fare entrare in guerra l΢imperatore. Il 5 agosto 1716 l΢esercito imperiale comandato dal principe Eugenio ottenne una splendida vittoria contro i turchi a Petrovaradin (Ungheria). La successiva vittoria a Temesvar consegnava all΢imperatore l΢intera Ungheria. Eclatante fu anche la riconquista di Belgrado (18 agosto 1717). Era l΢inizio della crisi della potenza turca. Una crisi dalla quale non sarebbe più uscita. A raccogliere i frutti di tanti eventi favorevoli fu il papa Benedetto XIV (17401758), il quale si avvalse dell΢opera preziosa di valenti orientalisti, come ad esempio Giuseppe Simone Assemani (1687-1768), prefetto della Biblioteca Vaticana ed autore di un Menologium Graecorum (Urbino 1727) e dei famosi Kalendaria Ecclesiae Universae in 6 volumi (1750-1755), nonché Pietro Pompilio Rodotà (1707-1770), alunno del Collegio greco di S. Atanasio ed autore di un΢opera valida ancora oggi: Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, osservato dai greci, monaci basiliani e albanesi, in tre volumi (Roma 1758-1763). Eletto dopo vari mesi di conclave, Benedetto XIV mise ordine in tante situazioni orientali e sfruttò il ruolo della Francia come protettrice dei cristiani presso la θorta. ζaturalmente anche il suo fu uno sforzo tutto proteso a riportare l΢oriente al cattolicesimo102, onde qua e là gli ortodossi reagivano con qualche violenza. Tale fu ad esempio il caso degli ortodossi greci in Palestina. Durante la settimana santa erano entrati nella chiesa del sepolcro abbattendo candelabri e tagliuzzando tappeti parietali. Convinsero le autorità turche che quegli atti vandalici erano stati compiuti dai cattolici, per cui un firmano dell΢agosto 1757 tolse ai cattolici il possesso del luogo della nascita di Gesù e la Basilica in Betlemme. Il papa riuscì però a rimettere ordine incaricando il ministro generale francescano di Terra Santa, Raffaele da Lucagnano, di stendere un nuovo statuto. Quanto a Costantinopoli, il papa inviò più volte il suo visitatore apostolico, come nel 1745 l΢arcivescovo Francesco Girolamo Bona. εa i suoi delegati non avevano C. Capizzi, Spiridione Milia (1700?-1770), collaboratore greco all’Amplissima del εansi, OCP XXXVII (1971), pp. 441-490. 102 Sul pensiero di Benedetto XIV sui cristiani orientali vedi tra l΢altro θellegrini 1914, pp. 203213, 263-273; King 1940; Hoffmann Henricus, De Benedicti XIV Latinisationibus, Città del Vaticano 1955. 101 58 quasi alcun rapporto con la gerarchia ΟscismaticaΠ. I loro contatti erano prevalentemente con gli ambasciatori francesi. A parte i tanti brevi relativi alla situazione dei cattolici in oriente, di lui ci sono pervenute due encicliche sui greci uniti a Roma. La prima, Allatae sunt, del 26 luglio 1755 103, la seconda, Ex quo primum, del 1 marzo 1756. Prendendo spunto dai quesiti proposti da un missionario a Bassora sugli orientali (armeni e siriani) che frequentavano le chiese dei latini, sull΢opportunità che ivi osservassero i loro riti e così via, il papa indirizzava la sua enciclica a tutti i missionari che operavano in oriente. Fermo restando che nulla andava innovato, rimaneva valido il decreto della Congregazione di Propaganda Fide del 31 gennaio 1702, secondo il quale i missionari non erano autorizzati a rilasciare dispense agli orientali che volevano cambiare rito. Se il rito era stato approvato dalla Santa Sede doveva continuare ad essere osservato. Consapevole che i missionari, per convertire gli Orientali dallo scisma e dall’errore all’unità e alla santa cattolica religione, tolgono di mezzo il rito orientale o almeno lo indeboliscono e attirano i cattolici orientali ad abbracciare il rito latino, non per altra ragione, se non col desiderio di amplificare la religione e di fare opera buona e gradita a Dio, il papa con questa enciclica richiamava alcuni criteri da osservare in caso di conversione di orientali. Papa Benedetto XIV 103 Bellocchi 1993, I, pp. 323-356. 59 Il papa procedeva quindi ad una rassegna storica degli eventi e dei tentativi dei Romani Pontefici per ridurre ad unità gli Orientali dopo il funesto scisma di Fozio. Tutti questi tentativi, da Leone IX (con Cerulario), Urbano II (al concilio di Bari), Gregorio X (al concilio di Lione), Eugenio IV (al concilio di Firenze), furono vanificati appena Marco Arcivescovo di Efeso, come un nuovo Fozio, cercò di distruggere l’Unione e cominciò ad alzare la voce contro di essa, subito il frutto desiderato andò perduto completamente. In questi concili si corressero gli errori, facendo accettare il Filioque, gli azzimi, il purgatorio, la visione beatifica e il primato del Romano Pontefice. In una sola parola fu messa ogni cura per eliminare gli errori contrari alla fede cattolica, ma mai si fece sì che venisse alcun danno al venerabile rito orientale. Questa era stata la linea di condotta di Innocenzo III, Onorio III, Innocenzo IV, Alessandro IV. Anche quando Gregorio XIII fondò a Roma i collegi greco, maronita e armeno, insistette sull΢osservanza del loro rito. Bisogna però sottolineare, aggiungeva il papa, che le disposizioni che la Santa Sede emanava per i greco cattolici in Italia soggetti ad un vescovo latino, non valevano per i greco cattolici che nelle loro terre erano soggetti ad un vescovo del loro rito. Dopo aver ricordato che la Congregazione di Propaganda Fide aveva stampato nel 1623 la professione di fede richiesta da Gregorio XIII per i greci che si convertivano, e nel 1642 quella richiesta da Urbano VIII, l΢Enciclica proseguiva menzionando gli studi fatti per correggere i libri liturgici e soprattutto l΢eucologio dei Greci. Per dirla in una parola, curando il ritorno dei Greci e degli scismatici orientali alla Religione cattolica, massima preoccupazione dei Romani pontefici fu di estirpare radicalmente dalle coscienze gli errori di Ario, Macedonio, Nestorio, Eutiche e Dioscoro, dei Monoteliti e di altri, nei quali erano sciaguratamente incappati, salvi tuttavia ed intatti i riti e la disciplina che osservavano e professavano prima dello scisma, e ciò che si fonda nelle loro venerande, antiche liturgie e nei rituali. I Romani Pontefici non richiesero mai che tornando alla fede cattolica dovessero abbandonare il loro rito e abbracciare quello latino: ciò avrebbe portato con sé tale devastazione della chiesa orientale e dei riti greci che non solo non fu mai tentato, ma fu, ed è, totalmente alieno dai propositi di questa Santa Sede 104. Quanto alla maniera di ricondurre i greci all΢unione la principale è quella di richiamarsi ai testi degli antichi padri greci che, come ha dimostrato Leone Allacci, concordano con i padri latini in tutto ciò che riguarda il dogma e nella confutazione degli errori nei quali gli Orientali e i Greci sono ora miseramente caduti. δ΢apprezzamento del rito greco non legittima però il passaggio dal rito latino a quello greco: Dal momento che il rito latino è quello che usa la santa Romana Chiesa, che è madre e maestra delle altre chiese, deve preferirsi a tutti gli altri riti 105 . Tuttavia è proibito anche l΢inverso. Ecco perché la Santa Sede non permette ai melchiti cattolici che osservano il rito greco di passare, come molti vorrebbero, al rito latino. δ΢importante, comunque, è che quando ritornano alla Ivi, p. 332. Ivi, p. 333. Questo principio era stato sottolineato già nella bolla Etsi pastoralis del 26 maggio 1742. 104 105 60 chiesa cattolica riconoscano espressamente la validità dell΢eucarestia col pane azzimo, della comunione sotto una sola specie, non attacchino il celibato e non si permettano di dubitare del valore del battesimo latino solo perché non è seguito dalla cresima. In particolare sul Filioque va ricordato che per la chiesa cattolica è un dogma, e che nonostante che il concilio di Efeso proibisca qualsiasi aggiunta va riconosciuto alla Chiesa il diritto di fare le aggiunte non contrarie alla fede. Riconoscendo poi che i papi si sono comportati diversamente a proposito dell΢obbligo di recitare il credo con l΢aggiunta del Filioque, il criterio dev΢essere che si lascino liberi di recitarlo, a meno che l΢omissione ingeneri il dubbio che essi non credano che lo Spirito proceda dal Padre e dal Figlio 106. Infine il papa si soffermava su altri temi come la frequenza della celebrazione delle messe nella stessa chiesa, le concelebrazioni, il nuovo calendario, il digiuno. E concludeva che il suo atteggiamento voleva essere di comprensione. Egli abbraccia gli orientali, mentre ordina che si conservino i loro antichi riti che non si oppongono né alla religione cattolica né all’onestà; né chiede agli scismatici, che tornano all’unità cattolica, di abbandonare i loro riti, ma solo che abiurino le eresie, desiderando fortemente che i loro differenti popoli siano conservati, non distrutti e che tutti (per dire molte cose con poche parole) siano Cattolici, non Latini 107. La seconda enciclica108, Ex quo primum, del 1 marzo 1756, come indicano le prime parole, era una rivendicazione del suo amore per gli orientali uniti e il suo impegno per il ritorno degli scismatici. Iniziava con informare gli orientali della nuova edizione molto accurata dell΢Eucologio (tipografia di Propaganda Fide, Roma 1754). Come si sa l΢Eucologio era stato pubblicato nel 1647 dal domenicano Jacques Goar, e la sua opera fu ristampata a Venezia nel 1730. La nuova edizione di θropaganda Fide, seguita attentamente dal papa, teneva conto dell΢antico Euchologium Berberinum S. Marci, nonché dell΢Euchologio Patriarcale del Bessarione. Naturalmente, il pontefice si soffermava sulla necessità di menzionare il papa durante la messa (nonché il proprio vescovo, se unito a Roma). Un secondo lungo monito si occupava dell΢introito maggiore e del non rapportarsi alle sacre specie come se fossero già consacrate. Anche in altri casi si preferì lasciare il testo come era e di accompagnare il tutto con una esortazione ai sacerdoti laddove l΢usanza contrastava troppo con quella latina. Ad esempio, i sacerdoti erano esosrtati a non conferire l΢estrema unzione ai sani, ma solo ai malati. Altra differenza era nel fatto che dato che i sacramenti imprimevano il carattere, come la Cresima, per i Latini non poteva essere ripetuta in caso di ritorno alla chiesa, mentre gli scismatici la reiteravano. Per evitare questo ΟerroreΠ (contenuto anche in un articolo di Balsamon sull΢accoglienza dei latini con la Cresima) si preferì utilizzare la versione dell΢Euchologio patriarcale di Bessarione, che non conteneva tale clausola. δ΢enciclica si chiude con la soluzione di alcuni casi particolari (cibi immondi, leggi giudaiche, le puerpere, . Nel delineare il bilancio della politica di Benedetto XIV verso gli orientali il De Vries vi scorge una certa contraddittorietà. Mentre in oriente era deciso a che non si alterassero i riti e i costumi (con la costituzione Demandatam coelitus del Ivi, p. 345 Ivi, p. 356. 108 Bellocchi 1993, I, pp. 361-408. 106 107 61 24 dicembre 1743 proibiva ai missionari di far passare gli orientali al rito latino), nell΢Italia εeridionale favorì, con la costituzione Etsi Pastoralis (26 maggio 1742), l΢affermazione di tale rito, mettendo ovviamente in crisi quello greco. Da un lato impediva al patriarca melkita di procedere alla mitigazione dei digiuni, dall΢altra difendeva l΢introduzione ad Aleppo della processione del Corpus Domini; cosa chiaramente contraria alla spiritualità orientale che avvolgeva l΢eucarestia in un velo di mistero ed era aliena dall΢esporla per le strade. 15. Il Patriarcato e i fermenti nella teologia greca I rapporti fra Roma e Costantinopoli hanno anche un altro versante, quello della teologia. Ovviamente, non della teologia in quanto tale, che fa parte di un altro ambito. Bensì della teologia che, attirando l΢attenzione del patriarcato ecumenico oppure del sinodo, ne riceveva l΢approvazione o la disapprovazione da parte di questi. In questo campo si può ben notare l΢importanza dell΢atteggiamento personale, più irenistico o più polemico. Lo scontro violentissimo tra il patriarca e il sinodo verso la metà del XVIII secolo va considerato dunque come il punto d΢arrivo o il termometro di queste sensibili oscillazioni nell΢atteggiamento da tenere verso i cattolici, se considerarli eretici ed abbandonarli al loro destino oppure considerare i loro errori non tali da precludere qualsiasi avvicinamento. I teologi greci del XVIII secolo furono generalmente molto sensibili agli influssi occidentali, sia per quanto riguarda il metodo della scolastica sia per i contenuti derivanti dal nascente illuminismo. Tuttavia bisogna evitare assolutamente l΢equazione: influsso scolastico = filo-latinismo. Gli influssi scolastici sono comprensibili e diffusi a causa del fatto che tutti i teologi greci si formarono in scuole ubicate in occidente e soprattutto sotto il dominio veneziano. Di conseguenza, il metodo scolastico si rivela in minor o maggior misura in Elias Meniates come in Vincenzo Damodos (+ 1752), in Antonio Moschopoulos (+1788) come in Giovanni Kontones (+ 1761), nonché nel più noto Eugenio Bulgaris (+1806). Elias Meniates (1662-1714) di Cefalonia, aveva studiato a Venezia, scegliendo poi una vita itinerante come predicatore. Lasciò una raccolta di sermoni (Didaxai\) molto apprezzata. θiù nota è però la sua opera polemica ΟPe/tra Skanda/louΠ 109 , in cui dopo aver parlato dell'origine dello scisma partendo dall'epoca di Fozio (ignora quasi del tutto Michele Cerulario) e dei tentativi di riunione, si sofferma sulle differenze tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, insistendo particolarmente sul primato. Per lui questo è il vero ed unico ostacolo all΢unione, in quanto le altre differenze possono essere declassate a Οordinazioni ecclesiasticheΠ e Οse tutti i cristiani si accordassero su questa importantissima questione ... sarebbe facile trovare un accordo anche sugli altri Titolo intero: α α ἤ α α α α α α α π α α (Pietra di scandalo ossia delucidazione dell΢inizio e della causa dello scisma tra le due chiese orientale e occidentale con le cinque differenze che le dividono), Leipzig 1717 (anche 1743 e Atene 1969). Per le citazioni ho seguito Spiteris 1992 (pp. 49-55), che si basa sul testo greco edito da Antimios Mazarakis (Venezia 1849). 109 62 problemiΠ. εolto espressiva (come si è detto era il predicatore più vivace del suo tempo) è la sua analisi della vicenda del primato papale: Molte cose sono state scritte intorno a questo problema, però sono state scritte con animosità o ispirate da adulazione o da odio e passione, lungi dalla via di mezzo che è la verità. δ’adorazione dei papolatri ha innalzato il papa là dove voleva elevarsi lucifero ed ha messo il suo trono al di sopra delle nubi e lo ha fatto uguale all’Altissimo. D’altra parte l’odio dei luterani e dei calvinisti lo ha abbassato veramente là dove è precipitato lucifero... facendolo uguale all’Anticristo. Io invece lascio quelle cose che si dicono pro e contro il papa, perché sono fuori del mio scopo, e mi occupo solo delle ragioni che portano gli adoratori del papa. Quindi il Meniatis passava a criticare il primato inteso come superiorità del papa sul concilio e i patriarchi, la sua infallibilità e la sua pretesa di dominio temporale. Non contestava però il primato in sé: Contro i luterani noi diciamo che il papa non è l’anticristo. Egli è genuino successore degli apostoli e dei discepoli di Cristo,detiene la prima cattedra nella gerarchia della chiesa universale così come è stato onorato dai sacri concili. Importante è poi la conclusione che esprime la speranza della riunificazione delle due chiese: Così lo scisma rimane fino ad oggi tra le due chiese. Che la grazia dello Spirito Santo le faccia finalmente riunificare con una unione indissolubile. Si può supporre che questa posizione ΟapertaΠ del εeniates esprimesse l΢atteggiamento del patriarcato in quel periodo, almeno a giudicare dal fatto che nel gennaio del 1704 il Meniates fu nominato dal patriarca ecumenico Gabriele III e dal sinodo Οdottore e predicatore della grande Chiesa di CristoΠ, e la motivazione era la seguente: per la purezza di vita, per il suo comportamento modesto e decente, e per aver fin dalla sua prima giovinezza approfondito la teologia attingendo alle fonti dei santi padri della chiesa orientale e apostolica e nutrendosi del loro puro e ortodosso dogma. Poco a poco però, anche in concomitanza ai successi del cattolicesimo che riusciva a convertire locali gerarchie ortodosse, l΢atteggiamento del patriarcato diveniva sempre più intransigente. Un indizio di questo processo di deteriorizzazione dei rapporti Roma Costantinopoli nel corso della prima metà del XVIII secolo è dato dall΢approvazione da parte del patriarcato ecumenico della ponderosa (3000 pagine) Teologia dogmatica ortodossa in 5 tomi (Dio, Trinità, Incrnazione, Grazia, Sacramenti) di Vikentios Damodòs. Essendo rimasta inedita, l΢opera è conosciuta da una sintesi scritta dallo stesso autore. Egli non si limitò ad esporre la teologia ortodossa, ma tutte le volte che questa presentava una certa differenza dalla cattolica, non solo la faceva rilevare ma criticava aspramente la posizione cattolica. Cosa del resto necessaria, a suo avviso, dato che molti ortodossi vivevano nelle isole greche gomito a gomito coi latini. Il suo è tra l΢altro un caso esemplare di come si potesse fare teologia seguendo il metodo della scolastica e al contempo essere estremamente avverso alla chiesa latina. Le differenze teologiche sono per lui una dimostrazione di quanto la teologia latina si sia allontanata dai Padri e di come sia caduta in tante innovazioni. Per lui tutte queste novità sono niente altro che eresie, tali da impedire che nella chiesa latina possa sussistere la grazia e quindi la possibilità 63 dei miracoli. Oltre che sul Filioque egli si soffermava su una questione che di lì a poco sarebbe divenuta di grande attualità e drammaticità: il rigetto del battesimo per aspersione. Nonostante che si trattasse di un manuale di teologia, l΢autore si abbandonava ad un linguaggio che purtroppo diverrà abbastanza generalizzato fra gli ortodossi nei confronti dei cattolici. I teologi scolastici erano ΟbugiardiΠ. Questi ΟpseudoteologiΠ, che hanno immaginato teorie che i santi Padri non hanno neppure sognato, ricorrono a Οspiegazioni pazzesche e blasfemeΠ 110. Personalità di respiro europeo fu Eugenio Bulgaris, nato a Corfu nel 1716. Dopo gli studi nella sua città natale e Jannina, continuò a Padova ove assimilò sia materie linguistiche che filosofiche. Fondò scuole a Jannina e Kozani (Macedonia), ma il patriarca Cirillo V nel 1753 lo volle a dirigere la nuova scuola da lui fondata nel 1743 sul Monte Athos. Qui però si trovò nel pieno di una controversia che diede al suo predecessore l΢occasione per attaccarlo aspramente. Nel 1754, infatti, i monaci dell΢eremo di Sant΢Anna, che vivevano dei loro prodotti venduti al mercato di Karies, città principale del Monte Athos, decisero (per poter vendere i loro prodotti al mercato di sabato) di spostare la commemorazione dei defunti dal sabato alla domenica. La cosa suscitò un movimento tradizionalista di protesta, i cui membri erano detti ΟkollyvàdesΠ a motivo del fatto che la commemorazione dei defunti comportava l΢uso di un frumento bollito e zuccherato detto ΟkòllivaΠ. A capo dei kollyvàdes si mise Neòfitos Kafsokalibitis, che accusò il Bulgaris di appoggiare gli innovatori. Intanto, nel 1757 al Monte Athos giungeva anche Cirillo V, il patriarca deposto, il quale si schierò con i kollyvàdes e costrinse il Bulgaris alle dimissioni. I kollyvàdes non si accontentarono di quel provvedimento, ma provocarono un incendio alla scuola di teologia presso Vatopedi, dove egli insegnava. Andato poi a dirigere la scuola patriarcale, fu allontanato dal patriarca Samuele per analoghi motivi (accusa di razionalismo francese). Giunto a Leipzig, incontrò il maresciallo russo Fëdor Orlov, che lo portò al riordino della biblioteca di Caterina II a Pietroburgo (1771). Ordinato sacerdote nel 1775, fu nominato arcivescovo di Cherson l'anno dopo. Non trovandosi a suo agio in quella diocesi, preferì tornare a Pietroburgo andando a risiedere nel monastero S. Alessandro ζevskij (ove c΢era anche la principale scuola teologica della capitale, che diverrà poi l΢Accademia di θietroburgo). Ivi, continuando a scrivere opere polemiche, morì nel 1806. Più enciclopedico che creativo, scrisse in un greco classicheggiante e avvicinò il mondo greco alle nuove filosofie occidentali. Il suo grande compendio ΟΘ Π fu pubblicato nel 1872 a Venezia dall'archimandrita Agatangelo Lontopoulos. Tradusse molte opere relative allo Spirito Santo e al Filioque, come ad esempio l'Historia controversiae de processione Spiritus Sancti del θrokopovič, il De processione Spiritus Sancti di Adam Zernikaw, e ripubblicò con suoi commenti i trattati su questo argomento di Niceforo Blemmyde, Marco di Efeso nonché la lettera dogmatica di Teofilo Korydalleus al rettore dell'accademia di Kiev Sofronij Pokzanskij. Compose anche una Confessione diretta al gesuita Pierre Leclerc, con spunti sia contro cattolici che contro i protestanti. Per il suo conservatorismo in materia di Sacra Scrittura il patriarca Spiteris 1992, pp. 55-63. δ΢autore si basa sul testo di D. G. εetallinos, α α (Tradizione e alienazione), Atene 1987. 110 α in 64 Gregorio VI (1835-1840, 1867-1871) fece pubblicare in turco i suoi commenti al Pentateuco. Suoi discepoli furono Atanasio di Paros (+1813) e Teofilo θapaphilos, autori di compendi (il primo dal titolo Ο π , il secondo Ο α ῖ α Π, il Tesoro dell΢ηrtodossia). Nella controversia sui kollyva fu coinvolto anche il più celebre scrittore spirituale ortodosso del XVIII secolo, ζicodemo l΢Agiorita. Benché autore di numerosissime opere, Nicodemo è famoso per aver composto insieme a Macario di Corinto la Filocalia. ζato nel 1749 nell΢isola di ζaxos, era dunque ancora giovinetto quando la controversia scoppiò, ma non mancò di prendere posizione a favore dei tradizionalisti allorché il patriarca Teodoro II emise un decreto secondo il quale la commemorazione dei defunti poteva essere celebrata sia di sabato che di domenica. δ΢anno dopo però i tradizionalisti venivano condannati (sarebbero stati riabilitati da un sinodo soltanto nel 1807). Benché schierato con i tradizionalisti, Nicodemo era talmente preso dalla spiritualità monastica da non fermarsi neppure di fronte al fatto che certe opere capitate fra le sue mani fossero di autori cattolici. Ad esempio stese un rifacimento del Combattimento spirituale del teatino Lorenzo Scupoli (+1610). Ancor più aderente al testo cattolico sono i suoi Γ α απ α vale a dire gli Esercizi spirituali di Ignazio di δoyola. δ΢aspetto devozionale cattolico che maggiormente penetrò nella spiritualità dei tradizionalisti fu la comunione frequente, che suscitò dure proteste da parte degli ambienti ortodossi. In ogni caso, benché fosse il perfetto rappresentante della spiritualità ortodossa, Nicodemo mantenne nei confronti della chiesa cattolica un atteggiamento di apertura. Contro la presa di posizione del Damodòs, egli riteneva che la chiesa cattolica, nonostante gli errori, fosse ancora fonte di grazia. Era convinto ad esempio che il corpo di S. Nicola, anche dopo la sua traslazione in terra cattolica (Bari), emanasse la santa manna e compisse miracoli. Stimatore della filosofia occidentale fu anche Adamantios Koraes, nato a Smirne nel 1748. Avendo appreso il latino a Smirne dal calvinita olandese Bernhard Keun, si recò in Olanda, quindi studiò medicina a Montpellier. Assimilata la mentalità occidentale sul ruolo del popolo, criticò aspramente il modo in cui la gerarchia ortodossa governava la chiesa. La soluzione, a suo avviso, era di creare una chiesa greca autocefala, indipendente cioè da una gerarchia condizionata dal governo turco. Convinto poi che la liberazione della Grecia dal giogo turco non poteva che passare da una consapevolezza culturale, si impegnò con tutte le forze nella traduzione della Sacra Scrittura in vernacolo, per cui nel 1808 entrò in contatto con l'English Bible Society, cominciando col tradurre l'epistola di Paolo a Tito. Ben presto fu affiancato dal monaco Ilarion del Monte Sinai che tradusse il Nuovo Testamento. Il patriarca Gregorio V sostenne l'iniziativa, ma quando vide che l'influente predicatore Costantino Ekonomos l'avversava, anch'egli fece sospendere il tutto con una decisione del sinodo del 1824 favorevole al mantenimento della koiné. Nel 1828, tuttavia, Koraes pubblicò la lettera a Tito e le due a Timoteo (nel suo Ο α Π. Anche il testo di Ilarion fu pubblicato con la koiné a fronte. Al Koraes e Ilarion si aggiunse poi Neophitos Vamvas e, nonostante l'opposizione del sinodo, nel 1845 la Bibbia in greco vernacolare fu pubblicata. Stessa mentalità occidentale si riscontra in Teofilo Kairis (1784-1853), il quale studiò sei anni a Pisa, quindi si trasferì a Parigi, ove incontrò Auguste Comte, del quale condivise il positivismo. Cominciò così a sostenere una religione del 65 Οculto di DioΠ, in cui il cristianesimo era ridotto a suggerimenti morali (mentre la dogmatica veniva negata). Tornato in Grecia per la lotta di liberazione, fu condannato dalla chiesa greca. Fuggito in Francia e Inghilterra, tornò nel 1844, ma finì ugualmente in prigione, ove morì. Come si può vedere, dunque, l΢atteggiamento dei patriarchi di fronte alle opere teologiche può essere considerato una ΟspiaΠ indicatrice delle tendenze, ispirate talvolta all΢apertura talaltra alla chiusura verso la chiesa cattolica. Ma, se questo oscillare si riscontra per tutto il XVIII secolo, è innegabile che verso la metà di quel secolo il dibattito sul battesimo dei latini per aspersione divenne di una durezza senza precedenti, condizionando anche il secolo successivo. 15. Dalla Communicatio in sacris al Ribattesimo dei latini (1755). Tra il XVII ed il XVIII secolo si verificò un mutamento radicale nelle relazioni fra cattolici e ortodossi. Con tutte le difficoltà e asprezze isolate, tale rapporto nel corso del XVII secolo era stato tutto sommato abbastanza buono, al punto che i vescovi ortodossi erano talvolta contenti per l'arrivo di sacerdoti cattolici e li utilizzavano nel ministero pastorale, permettendo la communicatio in sacris. Verso la fine del XVII secolo e soprattutto agli inizi del XVIII le cose cambiarono, e in peggio. I fattori che determinarono il peggioramento sono molteplici. Già il patriarca di Gerusalemme Dositeo aveva avviato un processo di netta contrapposizione, pubblicando preferibilmente trattati polemici. Alla sua opera si aggiunse poi l'occupazione veneziana del Peloponneso (1685-1718), che presentò il volto ΟinaffidabileΠ del cattolicesimo. Le antiche chiese ortodosse, divenute moschee tornavano cristiane, ma latine. I vescovati latini si moltiplicavano. Un processo di latinizzazione che inasprì i rapporti perfino a Chios, quando fu conquistata dai veneziani nel 1695. Timothy Kallistos Ware attribuisce la causa del peggioramento alle direttive di Propaganda Fide che suggeriva come metodo di convertire al cattolicesimo personalità ortodosse influenti. Del resto la speranza di una conversione di qualche patriarca non era venuta mai meno, considerando ad esempio le simpatie per il cattolicesimo di alcuni di essi Né si può negare che questo metodo dell΢uniatismo, come nelle vicende che portarono alle elezioni patriarcali melkite del 1724, di tanto in tanto aveva un certo successo. Il patriarcato di Costantinopoli avvertiva quindi una sensazione di accerchiamento con un sempre incombente pericolo di erosione del corpo ecclesiale ortodosso. La reazione non poteva dunque essere, non avendo altri mezzi per difendersi, che moltiplicare agli occhi degli ortodossi gli errori dei latini e considerarli suggerimenti satanici contro la fede (invece che contro il rito o la disciplina). Abbastanza articolato è il testo dottrinale uscito dal concilio di Costantinopoli del 1722, in cui vengono confutate le principali tesi cattoliche considerate contro l΢antica fede ortodossa secondo questo ordine: Primato, Filioque, Azzimi, Purgatorio, Beatitudine dei Santi 111. ζello stesso contesto ΟdifensivoΠ va considerata la Confessione ortodossa edita a termine del Concilio di Costantinopoli del 1727, che contiene espliciti riferimenti 111 Testo in Karmiris 1960, II, pp. 820-859. 66 a queste differenze112. Nel suo poema in versi giambici Diamantes Rhysios (laico sposato) giunse ad elencarne ben 33, inserendo tra gli errori, la venerazione delle statue, il radersi della barba da parte dei preti, il nuovo calendario, l'immacolata concezione, la negazione della luce taborica increata, e così via 113. Nel corso della prima metà del XVIII secolo i rapporti fra Latini e Greci si erano fissati in modo abbastanza chiaro, su linee rigoristiche, ma rispettose delle antiche tradizioni, secondo le quali i latini erano scismatici ed in errore, ma con la possibilità di una riconciliazione attraverso l'unzione, come stabilito sia dalla tradizione antica sia nel concilio costantinopolitano del 1484. Aussenzio rompe la tregua. Un Sinodo lo condanna (1752) La chiarezza della posizione ortodossa, dura ma allo stesso tempo rispettosa della disciplina canonica al riguardo (per la quale i Latini e gli Armeni erano accolti nella Chiesa ortodossa solo mediante l΢unzione e non con la reiterazione del battesimo, come invece i cristiani considerati eretici), aveva garantito lunghi periodi di pace, sia pure guardinga. Sembrava che questa pace dovesse durare a lungo. Ma non fu così, poiché nel 1752 ci fu un monaco ortodosso che, con la sua infiammata predicazione, rimise tutto in discussione. I fatti si conoscono grazie ad un decreto di condanna da parte di un concilio ortodosso del 1752, pubblicato da Manuel Gedeon nel 1889 114. Il decreto di questo concilio (presumibilmente tenuto a Costantinopoli) prende le mosse dalla constatazione che la dottrina ortodossa ha il suo principio in Dio, il cui Figlio si è incarnato per redimere l'uomo che aveva perduto la sua dignità a causa della caduta originale. Gli apostoli e i loro successori ne hanno continuato l'opera e l'insegnamento, il cui strumento privilegiato è costituito dai sacrosanti concili. Con il settimo concilio ecumenico la rivelazione si è chiusa, con la disposizione che in materia di fede nulla va aggiunto e nulla tolto o cambiato. La Chiesa, continua il decreto, da tempo stava vivendo in pace, quando il diavolo ha fatto di tutto per turbarla, e lo ha fatto suscitando la predicazione dello ierodiacono Aussenzio nel villaggio di Catirli. Questo Aussenzio, che negli anni precedenti aveva tenuto un comportamento lodevole, improvvisamente nel 1752 cominciò a proclamare la necessità di ribattezzare tutti gli eretici e specialmente Armeni e Latini. Naturalmente la reazione di questi cristiani è stata molto vivace ed hanno cominciato nei territori in cui si trovano in gran numero a mettere in gravi difficoltà gli ortodossi. Non contento di aver turbato la pace, Aussenzio ha addirittura lanciato l'anatema contro chiunque non condivida questa posizione, siano essi semplici sacerdoti, o anche vescovi o patriarchi. Per questo motivo è stato richiamato a più riprese dalla gerarchia, ma egli si è sempre difeso dicendo che ciò che egli affermava non veniva da lui ma dall'alto, vale a dire che egli non poteva resistere ad una forza interiore che gli imponeva di parlare. Testo in Karmiris 1960, II, pp. 860-870. Maloney 1976, pp. 173-176. 114 Manuel Gedeon, Textum e codice , in α α, t. IX (1889), pp. 261-262, 270-272, 279-280. A questa edizione si rifà J. D. Mansi 38, che lo pubblica con questo titolo: Auxentius hierodiaconus a sacra synodo damnatur, quod Latinos denuo baptizandos esse clamitaret. 1752, pp. 587-606. 112 113 67 Ora, a parte il fatto che, sul battesimo e la sua ripetibilità, la Chiesa si è espressa attraverso i concili e chiunque abbia letto i libri ortodossi dovrebbe conoscere l'antica dottrina, ma non è neppure ammissibile che chiunque senta di dover dire una cosa ne abbia poi il diritto di proclamarla, altrimenti l'ordine ecclesiastico ne verrebbe stravolto. Vengono quindi riportate antiche testimonianze a favore della non reiterabilità del battesimo, e in particolare il canone 47 degli apostoli col commento di Balsamon e Zonaras. Dopo aver ricordato la posizione di S. Cipriano, non fatta propria dalla Chiesa, si passa al canone 14 del concilio di Calcedonia, anche qui con i commenti di Balsamon e Zonaras115. In tempi recenti, insiste il decreto, questa usanza è ribadita dal α α α (Tomus Reconciliationis). Ivi, parlando di Nestoriani, Giacobiti e Armeni, è detto che devono riceversi col sacro crisma, sempre dopo che hanno ripudiato le loro false dottrine. E in un altro punto si fa specifico riferimento ai Latini: Secondo quale modalità sono da accogliersi coloro che dall'eresia tornano alla chiesa cattolica è prescritto specificamente nel canone 7 del sacro secondo concilio ecumenico. Tutti i casi sono ridotti a due, chi è accolto mediante l'unzione e chi mediante il rinnovo del battesimo. Coloro che sono battezzati con una sola immersione, dopo che hanno rinnegato tutti gli errori, devono essere ribattezzati. Chi invece con tre immersioni, dopo aver rigettato per iscritto tutti gli errori, non si ritiene doversi ribattezzare, ma soltanto ungere col sacro unguento la fronte, gli occhi, le narici, la bocca e le orecchie, e nel segnarli pronunciare queste parole: Signaculum doni Spiritus Sancti, amen. Oltre a tali prescrizioni, per antica consuetudine dall'inizio dello scisma sino ad oggi, stesso atteggiamento teniamo nei confronti dei Latini che tornano alla nostra santa e cattolica chiesa di Cristo. Rigettate le loro dottrine, dai nostri sacerdoti vengono unti col sacro crisma secondo il rito appena descritto. Dalla questione a carattere rituale sacramentale il sinodo passa ad una di carattere ecclesiologico. Prescindendo cioè dal caso specifico del battesimo, viene ribadito un concetto fondamentale che nella Chiesa ortodossa non deve essere dimenticato: tutto ciò che riguarda la chiesa tutta (ecclesiastica negotia quotquot ad totam christianorum universitatem pertinent) non può essere risolto da una singola persona o da un concilio locale, ma da un concilio generale. E questo è in fondo il senso della convocazione, con l'aiuto dello Spirito Santo, di tanti padri in concili locali e universali. (Ὅ ἶ α , di conseguenza non è affare di un sol uomo. Un altro importante principio ecclesiastico viene illuminato dall΢Ecclesiastica Hierarchia di Dionigi Areopagita, secondo la quale vi sono vari gradi e i relativi uffici vanno rispettati. Il che, interpretato da Massimo il Confessore, significa che mentre il vescovo ha la facoltà di compiere ciò che fa il sacerdote, il sacerdote e tanto meno il diacono non può fare ciò che è di competenza del vescovo. 115 Si noti però che il decreto sinodale omette il particolare che in tutti questi casi si parla di tre immersioni, e che è proprio questo il punto cruciale contestato da Aussenzio, oltre al fatto dell'eresia dottrinale. 68 Un terzo punto da considerare è pure quello che, quando si affrontano questioni dottrinali o canoniche, lo facciano persone teologicamente preparate o esperte nei sacri canoni. E non, come in questo caso, una persona del tutto inesperta e senza alcuna erudizione come Aussenzio. Tanto più che in questi tempi non c'è alcuna necessità di sollevare questo polverone sulla ripetizione del battesimo. Quindi tanto clamore e turbamento è del tutto fuori luogo. Omettiamo poi, aggiungono i padri conciliari, tutto il chiasso che Aussenzio fa con i suoi pretesi miracoli e le voci di commento che si avvicinano piuttosto alla comicità e all'oscenità che non all religiosità. Tutte cose che danneggiano il buon nome dell'ortodossia in bocca ai Latini e agli Armeni che o deridono o reagiscono con insulti, obbrobrii e contumelie contro gli ortodossi, quando non con odi e persecuzioni. Tutto ciò considerato, questo sinodo con l'assenso del santissimo e beatissimo papa di Alessandria e nostro fratello Matteo, ammoniamo ed esortiamo tutti gli ortodossi cristiani della nostra gente, chierici e laici, principi e sudditi, uomini e donne, giovani e vecchi, che si astengano dalla dottrina tanto dannosa e perniciosa foriera di tanti mali, ascoltando il divino precetto:”Guardatevi da chi viene per sedurvi. Molti infatti vengono a mio nome, dicendo: io sono il Cristo, e seducono molti e offendono, se possibile, anche gli eletti”. Il patriarca Cirillo V con asprezza: i Latini vanno ribattezzati ! (gennaio 1755) Tutto sembrava scorre tranquillamente secondo il desiderio dei padri conciliari del 1752, quando il nuovo patriarca Cirillo V rimise tutto in discussione. Nel gennaio del 1755 infatti emise un decreto particolarmente duro nei confronti dei latini 116. Egli apriva la sua lettera ricordando il concilio tenuto a Costantinopoli in cui i padri nobis non admonitis avevano preso posizione a favore della validità del battesimo dei latini. Già dalle prime parole si nota il contrasto con i vescovi presenti a Costantinopoli nel 1752, i quali avevano agito chiaramente in contrasto con le sue vedute, tanto è vero che avevano fatto riferimento soltanto al consenso del patriarca alessandrino. Non è tuttavia chiaro se il contrasto fosse riferito unicamente al tema in questione oppure comprendesse tutta un'altra serie relativa ad esempio alle elezioni e deposizioni dei patriarchi per altri motivi più o meno personali. Né è da escludere che i progressi dei cattolici nel corso della prima metà del secolo (dei quali si è parlato sopra) lo preoccupassero sopra ogni cosa. Sembra comunque che egli personalmente fosse un antilatino convinto perché parla delle innovazioni dei latini come di Οdiaboliche novitàΠ ( α α α α). Dopo aver ricordato di essere stato eletto Οcanonicamente ed apostolicamenteΠ, e che questa dignità ha lo scopo di conservare integri ( α α α α) i dogmi, dice di aver esaminato attentamente la loro lettera e di dichiararla assolutamente contraria alla tradizione apostolica del divino e santo battesimo come è stato trasmesso dal tempo di Gesù Cristo fino ad oggi e che non si è mai udito che i sacramenti degli eretici siano stati sanciti o 116 Mansi, 38, pp. 605-609. 69 approvati da un concilio ecumenico o locale o dai Padri della nostra chiesa come invece hanno fatto costoro nella loro nefasta ed eretica lettera (πα α α α α), nella quale accettano e approvano quella nefanda, putrida, verminosa e insulsa aspersione, quasi che conferisse, non invenzioni umane, o meglio diaboliche, ma la vera dottrina sul sacro battesimo divinamente trasmesso. Noi dichiariamo invece che chi, seguendo quello scritto eretico, ritiene che qualsiasi cristiano che riceve quel rito puzzolente sia da equiparare a chi ha ricevuto il divino battesimo, sia allontanato dalla comunità cristiana. Deciso dunque a preservare la purezza della fede e Οindossata l'armatura dello Spirito SantoΠ ( α α πα π α πα α α ), Cirillo lancia l'anatema contro tutti coloro che condivideranno la tesi della lettera dei vescovi, che afferma la validità del battesimo dei latini. Avviandosi alla conclusione Cirillo, non potendo emettere il suo decreto col sinodo endemousa (che era proprio il sinodo da lui condannato), lo fa Οcol suo clero e il popolo cristianoΠ ( π ᾶ α α π ώ α ), quindi, ribadendo l'anatema, si abbandona a tutta una serie di invettive che rivelano la foga con cui affrontava la questione. Gli scomunicati, egli si augurava, siano esecrati, siano tremebondi e terrorizzati sulla terra come Caino, con la lebbra di Giezi, l'ira di Dio si scateni sulle loro teste, abbiano la stessa sorte del traditore Giuda nonché dei Giudei nemici di Dio, la terra si apra e li ingoi come fece con Dathan e Abiron, l'angelo della vendetta li ferisca tutti i giorni con la sua spada e, finalmente, siano dannati eternamente nel fuoco dell'inferno. Il sinodo tenuto contro la volontà del patriarca e l'estrema violenza verbale di quest'ultimo farebbe pensare che il tema del battesimo non fosse l'unico punto di contrasto. Certo è che l'intervento di Cirillo V ebbe l'effetto di riaccendere la lotta. Il sinodo endemousa condanna Cristoforo di Etolia (e il patriarca) (aprile 1755) Nonostante la violenta presa di posizione del patriarca che dichiarava il precedente decreto eretico e scomunicato, il sinodo endemousa si riuniva nuovamente nel mese di aprile finendo con lo stilare un altro decreto117 che, sebbene indirettamente, rispondeva con forza al decreto patriarcale. Il pretesto partiva da uno scritto di un certo Cristoforo che dichiarava nullo il battesimo dei latini. I padri si riunirono e stilarono un Ὥ che apriva anch΢esso con le macchinazioni del diavolo, tese ad impedire la salvezza agli ortodossi, e sopratutto agli ortodossi impreparati. Il compito pertanto di di illuminare le menti ed impedire che nella chiesa di Cristo sorgano scandali e dissensi era di coloro che sono preposti all'insegnamento. Purtroppo, osservavano i padri, sono più di due anni che la chiesa ortodossa si trova non solo in stato di servitù ma anche attraversata da tante molestie e discordie. Proprio per superare questo stato di cose che si trascina da anni, essi vogliono dire una parola di rasserenamento, soprattutto perché è stato appena edito un 117 Mansi, 38, pp. 609-617 70 inetto libello ( α ) che, considerando il battesimo dei latini alla stregua di un rito pagano, insiste nella necessità del ribattesimo. Discordando da simili novità, dichiariamo che le tre aspersioni sono da loro considerate alla stregua delle nostre tre immersioni e quindi non c'è stato alcun mutamento, in quanto, benché non secondo i canoni, essi le considerano come immersioni. Per questa loro diversità sono considerati scismatici e quindi separati dal corpo degli ortodossi. Ma lo sono non solo per questa, bensì per parecchie altre novità che hanno escogitato, e prima di tutte l'aggiunta che hanno apportato al simbolo. Tuttavia, non solo da alcun sinodo ma neppure da alcuno dei nostri santi Padri sono mai stati dichiarati non battezzati e bisognosi di essere battezzati allorché tornano alla fede della nostra Chiesa, ma per consuetudine ed antica tradizione osservata fino ad oggi, vengono accolti con la sola unzione del crisma, professando e facendo penitenza in questo ritorno, e con un libello di esecrazione rigettano tutti gli errori degli scismatici latini. Che la chiesa ortodossa abbia considerato l'aspersione dei Latini come una lecita variante dell'immersione è dimostrato sia per il periodo anteriore alla caduta di Costantinopoli sia per quello posteriore. E ciò vale sia per Gennadio Scholarios sia, più recentemente, per Dositeo e Crisanto, che pure furono Οpolemici e avversari acerrimi dei latiniΠ (π α πα α α α ). Pertanto, dopo essersi consultati con i nobili e i primati della città, i padri del Sinodo intendono denunciare quest'opera sobillatrice, con personaggi che vanno porta per porta a creare discordia, e dichiarare apertamente che trattasi di una iniziativa che va contro tutta la tradizione ed è foriera di grandi turbamenti e vessazioni nella Chiesa. Né soltanto questo falso libro ( ), ma anche coloro che hanno aderito a queste false convinzioni sul ribattesimo, convinti che sia contro i sacri canoni, e hanno accolto le sciocchezze che sono state scritte e le hanno difese, costoro dunque ed il falso libello condanniamo, a meno che da questo esizioso errore non rinuncino e recedano. La condanna del sinodo, come si vede, è molto più pacata di quella del patriarca, ma fa impressione nel finale il lungo elenco dei vescovi partecipanti al sinodo ed in chiaro e netto contrasto col patriarca. Tutte queste cose sono state fatte nella grande chiesa orientale di Cristo, essendo patriarca il signore Cirillo, presenti i metropoliti che hanno sottoscritto questo decreto sinodale legittimamente composto, nell'anno della salvezza 1755, il giorno 28 aprile: α α Ἡ α α α α α α α α Γ α α α Γα α 71 α α απ Γ Φ ππ π α π α α α α Ἄ π α α αῖ α πα Il patriarca Cirillo è menzionato soltanto per la precisazione del tempo. I Padri ΟribelliΠ mantengono però un atteggiamento decoroso nonostante il linguaggio del patriarca alcuni mesi prima. Benché lo scontro fosse particolarmente ben definito negli schieramenti, nei confronti del patriarca si omette qualsiasi polemica, se non indiretta. Cirillo V e due patriarchi insistono: i Latini vanno ribattezzati (luglio 1755) La netta presa di posizione del sinodo endemousa al completo non fermò il terribile patriarca, il quale riuscì a tirare dalla sua parte il patriarca di Alessandria (lo stesso che nel 1752 si era espresso contro il ribattesimo ?) e di Gerusalemme. Non c'è menzione di quello di Antiochia, se fosse impedito oppure non condivideva il nuovo decreto. Questo si intitola: Oros della santa Chiesa di Cristo, che definisce quale sia il battesimo divinamente dato, e rigetta i battesimi diversi degli eretici118. Cirillo inizia ricordando i modi scelti dal Salvatore per guidarci sulla via della salvezza, precisando che un posto particolare spetta proprio al sacramento del battesimo: A meno che non si è rinati dall'acqua e dallo Spirito non si può entrare nel regno dei Cieli. Infatti l'acqua, come quella della piscina evangelica (ove l'uomo si immerse tutto vestito), è segno di purificazione. Ma per purificarsi è necessario immergersi dentro tre volte e così l'acqua agisce a contatto col corpo. Intorno alla validità del battesimo degli eretici, continua il patriarca, sono ormai tre anni che nella nostra chiesa divampa una controversia, se accettare o meno il battesimo conferito contro i sacri canoni e la tradizione dei padri. Noi, per la dignità conferitaci, dichiariamo che il battesimo è valido quando segue la volontà del Salvatore, che sia fatto cioè nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nonché la disposizione dei Santi Padri, che venga fatto mediante le tre immersioni. Noi, che per la miseridordia di Dio siamo stati nutriti dalla chiesa ortodossa, sulla base dei canoni dei santi apostoli e dei santi Padri, riconosciamo la nostra come l'unica santa chiesa cattolica e apostolica ( α ώ 118 Mansi, 38, pp. 617-621. 72 α α α α π α ), accettando come validi i suoi sacramenti e quindi il divino battesimo.I sacramenti invece degli eretici conferiti diversamente da come lo Spirito Santo ordinò agli apostoli e da cme li conferisce la Chiesa di Cristo, essendo invenzione di uomini perduti, essendo contrari atutta la tradizione apostolica, unanimemente rigettiamo. Di conseguenza il batesimo degli eretici, come affermano i santi Ambrogio e Atanasio, non ha alcuna validità e l'acqua utilizzata è solo acqua senza alcun significato. Quanto i latini si convertono vanno quindi accolti come se non sono mai stati battezzati e devono essere ribattezzati secondo i canoni apostolici e sinodali. Il decreto è firmato da Cirillo di Costantinopoli, Matteo di Alessandria e Partenio di Gerusalemme: K ῳ Θ π π α π α Ῥώ α πα α αῖ ῳΘ π πα α πα π α α α α ῳ Θ πα α π α α π α α . E' da notare qui come la precedente lettera (del sinodo endemousa) insista sul fatto che su simili argomenti di valore universale la Chiesa debba decidere sinodalmente e universalmente. L'oros dei tre patriarchi insiste invece sulla fedeltà ai canoni, affermando implicitamente che il Patriarca di Costantinopoli da solo (come nell'oros del gennaio 1755) o con altri due patriarchi (come in questo di luglio), può definire una questione dogmatica. Sembra quasi che Cirillo avesse una concezione ΟpapaleΠ del ruolo del patriarca costantinopolitano, analogamente a quella di un secolo prima di Nikon a Mosca. Da notare anche l'espressione netta che la chiesa ortodossa è l'unica chiesa cattolica ed apostolica, il che è come dire che tutti i cristiani non ortodossi sono fuori di essa. Nonostante che altre voci si levassero a contestare questo decreto, va detto che esso aprì la via al periodo più negativo nei rapporti fra chiesa cattolica e chiesa ortodossa. Infatti per tutto il XIX secolo prevalse la linea dura di Cirillo che ha condizionato i rapporti fra le due chiese fino alla prima metà del XX secolo. Dal punto di vista teologico il sostegno più autorevole alla linea dura di Cirillo V venne da Eustrazio Argenti, al quale spetta il primato fra i polemisti anticattolici del tempo. Nato a Chios verso il 1687, studiò medicina ad Halle, esercitando la professione in Germania, Italia ed Egitto. Laico sposato, presentava l'ortodossia come l'unica vera chiesa, in linea in questo col massimalismo di Cirillo V. Fondava tale convinzione su una considerazione che successivamente divenne il punto di partenza di quasi tutti i documenti costantinopolitani: solo la chiesa ortodossa si è tenuta fedele alla tradizione della Scrittura e dei Padri, mentre la Chiesa romana ha proceduto a dei cambiamenti che ne hanno tradito lo spirito. Contro la teologia cattolica scrisse tre trattati specifici (uno sugli azzimi, uno sul Filioque ed uno sul primato). Importante, specialmente per il dibattito allora in corso, fu il suo Manuale sul Battesimo. Chiamato, infatti, dal patriarca Cirillo V per la controversia sul ribattesimo dei latini, egli si pronunciò sulla sua necessità 73 che i cattolici venissero ribattezzati. Gli ambienti cattolici di Costantinopoli naturalmente presero la cosa come un insulto e reagirono cercando di fare deporre il pariarca, che comunque aveva già contro tutto il suo sinodo. Cirillo fu deposto dai turchi e al suo posto fu eletto Paisio II. Successivamente i turchi rimisero Cirillo sul trono. Quanto alla posizione dell΢Argenti nella questione del ribattesimo dei latini, essa derivava coerentemente dalla sua ecclesiologia: se l'unica vera chiesa di Cristo è quella ortodossa, i sacramenti delle altre chiese non hanno alcun valore. Eustrazio aggiungeva che ai latini non può essere applicata neppure l'economia, in quanto, mancando dell'immersione, il loro battesimo è totalmente invalido: Da tutto ciò che è stato detto nel corso di questo breve trattato, la nostra giusta conclusione è che gli occidentali che vengono all'ortodossia necessitano di essere battezzati. Questa pratica non è chiamata “ribattesimo”, poiché noi non li battezziamo perché pensiamo che essi siano stati battezzati male, ma perché essi non sono battezzati affatto. Infatti, ciò che essi chiamano battesimo è chiamato così erroneamente, ed è un falso battesimo 119. 16. Enciclica di Pio IX: In suprema Petri Apostoli sede (6 gennaio 1848) Le vicende di fine XVIII inizi XIX secolo, con la rivoluzione francese da una parte e i primi tentativi di liberarsi dal dominio turco dall΢altra, distrassero alquanto l΢attenzione sia di Roma che di Costantinopoli. θiù che dai contrasti con Roma l΢attenzione del patriarcato ecumenico fu rivolta con molta preoccupazione ai protestanti, i cui missionari ormai mietevano sensibili successi, e agli ortodossi greci, che premevano sempre più per ottenere l΢autocefalia. δ΢attenzione al cattolicesimo fu risvegliata verso la metà del secolo. Il 6 gennaio del 1848 il papa Pio IX inviò un'enciclica a tutti i cristiani orientali sia uniti che dissidenti. La lettera fece un grande scalpore in oriente, passando quasi inosservata in occidente a motivo del momento storico che l΢Europa (e l΢Italia in particolare) stava attraversando. δ΢enciclica In suprema Petri Apostoli sede 120 fu commentata ovunque come un documento di origine ecclesiastica. In realtà la sua nascita è legata ad un fatto squisitamente politico. In tutti i secoli precedenti i papi non avevano neppure pensato a relazioni diplomatiche con il sultano. Tutti, con maggior o minor successo, avevano tentato di creare alleanze per la guerra contro i turchi. E questo era stato anche uno dei motivi (forse il principale) per non allacciare relazioni col patriarcato ecumenico, una istituzione ritenuta intimamente legata al governo turco e quindi politicamente inaffidabile. Poi era venuta la rivoluzione francese, e non Ware 1964, p. 97. Sia l'Enciclica che la Risposta ottennero una rapida diffusione in tutto il mondo cristiano. Naturalmente la maggior parte delle edizioni fu in greco, ma ben presto ci furono numerose traduzioni. A Parigi, ad esempio, nel 1850 venivano pubblicate sia congiuntamente (Lettre Encyclique di S. S. le Pape Pie IX aux chrétiens d'Orient, et Encyclique responsive des Patriarches et des Synodes de l'Eglise d'Orient. Traduites du grec par le docteur Demétrius Dallas) che la Risposta degli orientali da sola (Réponse de l'Eglise orthodoxe d'Orient à l'Encyclique du Pape Pie IX, adressée par S. S. aux chrétiens orthodoxes Grecs en janvier 1848. Traduit du grec par M. A. P.). 119 120 74 solo il papato non era riuscito più a promuovere alleanze antiturche, ma aveva dovuto pensare a difendere la sua esistenza come stato pontificio. Curiosamente però, proprio nel momento di maggior debolezza, ecco che i rivoluzionari italiani cominciarono a vedere nel papa, e propriamente in Pio IX, l΢uomo che avrebbe potuto far convergere i vari movimenti verso la formazione della nazione italiana, promuovendo eventualmente la guerra contro l΢Austria. Tra il 1847 ed i primi mesi del 1848 Pio IX stava vivendo dunque un momento magico sia nella situazione politica italiana che in quella internazionale. Quando nell΢aprile del 1848 egli dichiarò che non avrebbe promosso una guerra contro l΢Austria, si attirò l΢inimicizia e le acerbe critiche dei liberali e dei rivoluzionari. In politica internazionale grande scalpore fece nel 1847 l΢allacciamento di normali rapporti diplomatici con l΢impero turco. Nel corso di quell΢anno, infatti, il Sultano Abdul Medjid inviò in Vaticano un suo ambasciatore, Chebib-Effendi, intendendo non solo riprendere le normali relazioni diplomatiche (interrotte sin dal XV secolo), ma addirittura affidare al Vaticano la protezione dei cristiani orientali sotto il dominio turco121. Il passo del sultano si spiega forse con la speranza che il papa, per portare avanti la politica di unificazione italiana, diventasse inirettamente il principale alleato della Turchia, in quanto il successo dell΢Italia era legato alla guerra contro l΢Austria. D΢altra parte, la Turchia trovava troppo ingombrante dover reggere le varie diplomazie europee che proteggevano ciascuna i suoi connazionali. Prospettò quindi al papa la possibilità, da tener segreta, di assumersi il compito di protezione dei cristiani sotto il dominio turco. εa l΢ambasciatore francese, rappresentante cioè la nazione che da secoli aveva il monopolio di quel compito, venne a saperlo e con altri mise alle strette il governo turco vanificando tali progetti. I contatti li prese il gran vizir Reschid Pascià attraverso il Demauri, che ne scrisse al P. Ventura, che assicurò il gran vizir sull΢interesse alla cosa da parte del papa. I tentativi dell΢ambasciata francese di fare recedere il giovane sultano riuscirono solo parzialmente, nel senso che il sultano, invece che personalmente, fece seguire la vicenda dal gran vizir. δ΢ambasciatore Chebib Effendi giunse ad Ancona l΢11 febbraio del 1847 e il sabato 20 fu accolto con tutti gli onori dal papa al Quirinale122. Cfr. Tesi Passerini Carlo, Pio Nono e il suo tempo, vol. I, Firenze 1877, pp. 247-255. Breve ma incisivo fu il discorso dell΢ambasciatore turco all΢indirizzo del papa: Sua Maestà Imperiale, il Sultano Abdul-Medjid, mio augusto padrone e sovrano, ha saputo con la più grande soddisfazione il felice avvenimento di vostra Santità al potere del mondo cattolico, tuttoché fino ad ora non sieno mai state relazioni tra la Sublime Porta ed il governo della Santa Sede. Talché, nello inviarmi a vostra Santità per esprimerle le sue felicitazioni vive e sincere, il mio Sovrano non ha fatto che cedere al suo ardente desiderio di provare quanto di cuore egli si associa all’universale soddisfazione, colla quale è stato accolto tanto felice avvenimento. E’ la prima volta che egli coglie l’onorevole occasione di entrare in relazione diretta col governo della Santa Sede: è uno dei benefìci del nostro secolo, quello della civiltà e dell’umanità, che a vicenda stringe, il quale sarà anche più forte mediante l’attestato delle virtù e delle benevoli intenzioni, che il mio Sovrano e vostra Santità caratterizzano. Ella valuterà certamente i benevoli sentimenti del mio augusto Sovrano, il quale ricolma di attenzioni e di cure tutte le classi dei suoi sudditi, eguali ai suoi occhi, come sono quelli di un padre tutti i suoi figli che ama indistintamente. Loché essendo vero, va certo, anzitutto, avere acquistato per avventura la stima e l’amicizia di vostra Santità, ch’egli tiene in gran conto. ζulla potrà mai uguagliare l’alto onore di essere stato incaricato dal mio Sovrano di questa nobilissima missione, inquantoché lo avere acquistate le simpatie e la bontà del santo Padre, è per me la più grande felicità della mia vita. Cfr. Tesi Passerini, Pio Nono, cit., pp. 252-253. 121 122 75 Tra la fine del 1847 e i primi del 1848, dunque, tutto andava a gonfie vele, per cui il papa non resistette alla tentazione di rivolgersi ai cristiani orientali, e di invitarli all΢unione ecclesiale, quasi presupposto teologico a quello che avrebbe dovuto essere il suo impegno nel proteggerli. Agli uniti egli dava le disposizioni per un sempre più ordinato governo ecclesiastico nonché per una conferma delle liturgie aventi una lunga tradizione. Ai dissidenti rivolgeva un invito a riconciliarsi con la Chiesa cattolica. Non vi imponiamo alcun peso, scriveva il papa nel suo appello, oltre a quello che è necessario, vale a dire che voi ritorniate all’unità, che concordiate con noi nella confessione della vera fede, che la chiesa cattolica conserva e insegna, e inoltre che manteniate la comunione con la chiesa stessa e con questa suprema cattedra di Pietro. Il De Vries fa notare gli elementi che irritarono gli orientali: 1. Il papa menziona la possibilità che durante lo scisma possano essersi infiltrati nelle chiese orientali elementi erronei sul piano dottrinale. 2. Durante lo scisma esse (nella loro molteplicità) avevano perduto l΢unità di dottrina e di governo. 3. Il primato romano è confermato da numerosi testi patristici, anche orientali.123 θapa θio IX nel 1848 indirizza un΢enciclica ai cristiani orientali (invece che ai Patriarchi). 123 De Vries, 1983, pp. 130-131. 76 Come si può vedere, il papa non apportava elementi nuovi rispetto alle bolle di Benedetto XIV. La chiesa romana era convinta che dopo lo scisma si fossero introdotti nella chiesa d΢oriente vari errori, che poi sono gli stessi che gli ortodossi rimproveravano ai cattolici come novità. Solo che per i cattolici, almeno a giudicare dal testo di Benedetto XIV, andavano ormai considerati dogmi, per gli ortodossi erano eresie. Spesso il testo di Pio IX viene indicato come Enciclica ai patriarchi orientali. In realtà è proprio questo che irritò al massimo i patriarchi, il fatto che, invece di rivolgersi a loro, dando così un segno di stima, si era rivolto a tutti i cristiani dell΢ηriente (il che fu interpretato come un subdolo tentativo di rubare fedeli alla chiesa ortodossa). Diplomaticamente il testo fu affidato al nunzio apostolico in Turchia, Innocenzo Ferreri, arcivescovo di Side, legato papale presso il sultano. Consegnata anche alla gerarchia ortodossa, la lettera ebbe, come si è detto, una pessima accoglienza ed una durissima risposta. ζaturalmente questa enciclica del 1848 non fu l΢unico documento di Pio IX sull΢oriente cristiano. A parte i tanti interventi relativi agli slavi, agli armeni o ai caldei, egli tornò anche in altre occasioni ai cristiani ortodossi. Ad esempio nel 1868 promulgò la lettera apostolica Arcano Divinae Providentiae diretta ad omnes episcopos ecclesiarum ritus orientalis communionem cum Apostolica sede non habentes, invitando così tutti i vescovi ortodossi al concilio. Ma nessuno accettò l΢invito. Alcuni anni prima, con la costituzione apostolica Romani pontifices (6 gennaio 1862) creava in seno alla Propaganda Fide un ramo specifico, la Sacra Congregatio de Propaganda Fide pro negotiis Rituum Orientalium (non mancarono membri illustri di questa, come il benedettino G. B. Pitra). In generale, si può dire che Pio IX fu zelante nella salvaguardia dei riti orientali, anche se per nulla rispettoso della tradizione canonica, che egli si sforzò al massimo di adeguare a quella latina (anche nel corso del Concilio Vaticano I). Questa sua mancanza di rispetto verso il diritto orientale fu all΢origine della sua ostilità nei confronti del patriarca caldeo Giuseppe Audo e del patriarca melkita Gregorio Jusof. Essi infatti non accettarono simpliciter la definizione conciliare sul primato e l΢infallibilità, bensì sub conditione. E questa condizione era che il papa era tenuto a rispettare i privilegi dei patriarchi. Anche la definizione fiorentina era conciliare. Non si vedeva perché, essi dicevano, quella vaticana dovesse avere più valore 124. 17. Enciclica dei Patriarchi orientali in risposta a Pio IX (maggio 1848) δ΢enciclica di θio IX giungeva a Costantinopoli in un momento delicato, con la Chiesa Greca che aveva proclamato da anni la sua autocefalia ed il patriarcato di Costantinopoli che considerava la cosa come una ingiustificabile violazione dell΢antico ordinamento ecclesiastico. Il vento dell'occidente, prima con l'illuminismo poi con la Rivoluzione francese, come si è visto, era penetrato anche in Grecia. Il razionalismo da una parte e il 124 Ivi, p. 128. 77 sogno di libertà dall'altro non potevano lasciare indifferente il mondo greco, e in nessuna chiesa cristiana tali concetti erano così sconvolgenti come nella chiesa greca, che fondava la sua identità proprio sulla fedeltà alla tradizione. Due correnti si contrapponevano con forza, quella innovatrice di Teoklitos Pharmakidis, e quella conservatrice Kostantino Ekonomos. Il Pharmakidis era nato presso Larissa nel 1785. Aveva studiato a Bucharest, quindi a Göttingen, ove acquisì una mentalità più europea. La sua riflessione riguardava il rapporto fra chiesa e stato, e lo risolse ispirandosi alla visione del θrokopovič, con una chiesa cioè retta sinodalmente e in stretto rapporto con lo stato, sottolineando allo stesso tempo l'importanza centrale della Sacra Scrittura e l'uso della ragione anche in materia di fede. Allorché il re Ottone il 6 febbraio 1833 a Nàuplion proclamò il regno indipendente di Grecia, egli parlò apertamente della necessità di creare un sinodo della chiesa autocefala di Grecia, essendo del tutto naturale che ogni stato indipendente avesse una chiesa autocefala. Nel luglio dello stesso anno, sempre a Nàuplion, il parlamento greco proclamò l'autocefalia della chiesa greca, rompendo i legami canonici con Costantinopoli (che tuttavia non riconobbe la nuova istituzione, considerata un prodotto di quell΢errore ecclesiale che va sotto il nome di filetismo). Nel 1844 l'istituzione dell'autocefalia fu sancita anche dalla Costituzione. Si istituì quindi un Sinodo sul modello della chiesa russa, che il patriarca riconoscerà solo nel 1850 (quindi dopo la vicenda di Pio IX e dei patriarchi orientali). Costantino Ekonomos fu il maggiore oppositore di questi progetti e di queste realizzazioni. Dopo aver viaggiato in occidente, era rientrato in Grecia nel 1834, quando ormai le idee del Pharmakidis erano già in una fase avanzata di realizzazione. Ingaggiò allora un'accesa controversia sia col Pharmakidis che col Maurer, il reggente della Baviera che offriva il sostegno politico a quei programmi. Per l'Ekonomos, rompere i legami con la chiesa madre era un po' come perdere la fede. Egli era convinto che questo modello, che richiamava quanto verificatosi in Russia, affondava le sue radici nel protestantesimo. Similmente di origine razionalista e contro il magistero ecclesiastico era per lui la traduzione della Bibbia in volgare (da parte di Vamvas). Era invece necessario, secondo l'Ekonomos, mantenere la tradizione dei padri greci, che aveva fatto sì che l'ellenismo diventasse parte essenziale del cristianesimo, e quindi il patriarca era l'unico interprete autentico della tradizione. Intanto nel 1837 era stata fondata l'università di Atene, e la riforma dell'insegnamento teologico ebbe come criterio, sulla scia delle riforme di Protasov in Russia, la liberazione della teologia greca dall'invadente protestantesimo. Su questo Costantino Ekonomos fu d'accordo. Anzi, nel 1836 aveva già consigliato al patriarca Gregorio VII di promulgare un'enciclica in cui venivano condannati gli errori di Lutero, Calvino, Zwingli e altri. Quanto alla polemica antiromana, alcuni anni prima il patriarca Costanzo I (+ 1834) aveva composto un testo che, secondo il Popescu, costituirà la parte principale della risposta dei Patriarchi orientali al papa Pio IX nel 1848. δ΢enciclica di θio IX giungeva dunque a Costantinopoli in uno di quei momenti di rivolgimenti sia civili (formazione della nazione greca dopo secoli di dominio musulmano) che dell΢autorità patriarcale, come sta a dimostrare questa successione: 78 Gregorio VI (1835-1840) Antimo IV (1840-1841) Antimo V (1841-1842) Germano IV (1842-1845) Antimo VI (1845-1848) Antimo IV (1848-1852) seconda volta Germano IV (1852-1853) seconda volta Antimo VI (1853-1855) seconda volta Cirillo VII (1855-1860) Gioacchino II (1860-1863) Sofronio III (1863-1866) Se il papa inseriva l΢esortazione ai patriarchi in un quadro di ampio intervento politico ecclesiale, i patriarchi gli rispondevano avendo una sola preoccupazione: evitare che il papa allettasse qualche ortodosso e lo attirasse a passare alla chiesa cattolica. Per cui, come il papa si era rivolto ai patriarchi non direttamente, ma all΢interno di un indirizzo più universale, anche i patriarchi orientali risposero rivolgendosi ai fedeli ortodossi, esortandoli a non lasciarsi ingannare dal papa, ed all΢interno di questo appello venivano elencati gli errori della Chiesa romana e del papa.. A Tutti i nostri cari e amati fratelli nello Spirito Santo, i venerabili vescovi, al loro pio clero e a tutti gli ortodossi, veri figli della Chiesa santa, una cattolica e apostolica, un saluto fraterno nello Spirito Santo e la benedizione divina125. δ΢esortazione di cui si è detto è argomentata punto per punto, e il fondamento da cui partono i patriarchi è l’immutabilità della dottrina evangelica. Tale dottrina, fonte della nostra salvezza, è stata trasmessa immutabile dai santi padri, dicono i patriarchi nella risposta a Pio IX, ma il principio di ogni male, mescolando la verità col veleno dell'eresia, continua a far cadere nella trappola tanti fedeli innocenti. E questo lo fa dando a credere che la verità evangelica fissata dai sacrosanti concili è insufficiente e che è necessario apportare delle innovazioni. Proprio in questa tendenza alle novità è l'origine di “tante e mostruose eresie che la Chiesa cattolica sin dall'inizio, rivestendosi dell'armatura di Dio e afferrando la spada spirituale, cioè la parola di Dio,è stata costretta a combattere (n. 2). Οtra le eresie che, per decreti che solo Dio conosce, si sono stese su una gran parte dell'universo, dominava una volta l'arianesimo, oggi il PapismoΠ (n. 4). La novità da cui hanno origine tutti gli altri errori del Papismo è il Filioque. “δa nuova dottrina secondo cui lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio è in contrasto con l'affermazione esplicita e positiva di nostro Signore (Gv XV, 26), che lo Spirito Santo procede dal Padre; contraria all'universale professione di fede della chiesa cattolica, secondo la testimonianza dei 7 concili ecumenici che hanno stabilito che lo Spirito Santo procede dal θadre”. Da questa eresia sgorga tutta un'altra serie di gravi errori che manifestano disprezzo per le parole delVangelo. Infatti, mentre il Vangelo parla per il battesimo di tre immersioni, i 125 Testo greco in Karmiris 1960, II, pp. 902-925. Utilizzo qui tuttavia il testo greco con traduzione francese in Mansi 40, col. 377-418. Per maggiore aderenza al testo si è mantenuto, in corrispondenza delle citazioni, il numero del paragrafo come riportato nel Mansi. 79 papisti hanno introdotto l'aspersione. Il Vangelo dice prendete e mangiate, prendete e bevete, e invece i papisti danno ai laici solo il pane e non il vino. Invece del pane fermentato si dà quello azzimo e per di più sotto forma di sottile ostia. Nella messa hanno soppresso l'invocazione dello Spirito Santo. Nel battesimo omettono l'unzione crismale che segue e non danno la comunione ai bambini battezzati. Impediscono agli uomini sposati di accedere al sacerdozio, e l'infallibilità di Gesù Cristo l'hanno trasferita sulla persona del papa (n. 5). Purtroppo, non solo questi errori li sta vivendo l'antica chiesa di Roma, a suo tempo un pilastro della Chiesa universale, ma di essi ha contaminato altre chiese precedentemente ortodosse, come la Spagna, la Francia e l'Italia. La nuova dottrina sullo Spirito Santo è una bestemmia che non sarà mai perdonata né nel presente né nei secoli a venire (Mt 12). Il papato si è tenuto ortodosso fino a Leone III (che incise su tavole d'argento il simbolo senza il Filioque) e Giovanni VIII (per la nobile lettera a Fozio in occasione dell'VIII concilio ecumenico, nonché la lettera a Sfendopulcro a favore di Metodio, vescovo della Moravia) (n. 6). Riferendosi all'ostinazione degli occidentali e del papa, già S. Basilio scriveva: Essi non conoscono la verità e non sopportano che gliela insegnino. Essi si mettono a litigare proprio con coloro che vogliono loro mostrare la verità, e con i loro esempi essi affermano l'eresia (Lett. A Eusebio di Samosata). I nostri predecessori hanno tentato più volte di riportarli sulla retta via, ma senza alcun risultato. Di conseguenza allontanandosi li hanno lasciati nei loro errori. θoiché la “guerra è preferibile alla pace, laddove la pace ci separa da Dio, come ebbe a dire il nostro santo padre Gregorio parlando degli Ariani. Da allora non c'è stata più alcuna comunione spirituale tra loro e noi, poiché il solco che essi hanno scavato con le proprie mani tra di essi e l'ortodossia è molto profondo”. (n.7). Nei tempi recenti i papi se ne sono stati quieti, e gli attacchi sono venuti piuttosto da alcuni missionari, o meglio Οtrafficanti d'animeΠ. Ora è accaduto che colui che nel 1846 è stato eletto ad occupare la sede episcopale di Roma ha inviato una lettera enciclica Οai Cristiani d'orienteΠ, comprendendo sotto questo nome sia gli uniti che gli ortodossi, accusandoci presso il gregge a noi affidato da Dio, di esserci separati violentemente dai nostri padri e di non considerare i nostri sacri doveri e la salvezza dei nostri figli spirituali, affermando espressamente: Voi non avete nemmeno una ragione o un pretesto per non tornare nel seno della vera Chiesa e nella comunione con questa Santa Sede, (n. 9). Senza dubbio, tutti i fedeli ortodossi capiranno che le parole dell'attuale vescovo di Roma, come quelle di tutti i suoi predecessori dopo lo scisma, non sono, come egli dice, parole di pace e di amore paterno, bensì parole d'inganno e di conquista, non avendo altro scopo che l'interesse particolare, secondo l'abitudine dei suoi predecessori, costanti avversari dei concili. Siamo convinti però che gli ortodossi non si lasceranno trarre in inganno e secondo le parole del Signore non seguiranno lo straniero, ma da lui rifuggiranno, poiché essi non conoscono la voce dei forestieri (Gv XV).n. 10. Volendo comunque dare una risposta, facciamo notare che egli non dalla confessione apostolica trae la gloria della sua sede, ma è dalla sua sede apostolica che egli fa derivare il primato, e da questo primato egli deduce l'autorità della sua confessione. Se è per questo Antiochia dovrebbe avere il 80 primato, come fa notare s. Basilio nella lettera a S. Atanasio. In ogni caso qui si rovesciano i valori. Noi non dobbiamo giudicare l'ortodossia secondo le insinuazioni della Santa Sede, ma dobbiamo giudicare la Santa Sede e colui che la occupa a partire dalle sacre Scritture, dalle decisioni e limiti posti dai concili, e secondo la fede confermata, cioè secondo l'ortodossia dell'insegnamento eterno. Il Santo Padre vorrebbe l'unione, ma per lui questa unione non è altro che un mezzo per consolidare e aumentare il potere e la preminenza di coloro che occupano la Santa Sede. Da parte nostra invece, ci limitiamo ad augurarci che verrà un giorno in cui colui che occupa la supposta sede di Pietro si renda conto dei tanti errori e si penta, dopo di che con molta prudenza e riflessione si ponga il problema dell'unione (nn. 11-12). Noi non neghiamo affatto le antiche prerogative di cui godeva la chiesa di Roma, anzi non le negheremmo neppure ora, se come allora la Santa Sede si attenesse ai dogmi trasmessi dai santi Padri, dalla Sacra Scrittura e dai Concili. Invece la realtà è ben diversa, in quanto non è salvaguardato il dogma della Trinità, né il tipo apostolico del battesimo, né l'epiclesi. Il primato di Roma, come afferma il XXVIII canone di Calcedonia deriva dal fatto di essere capitale dell'impero, e non dalla promessa di Cristo a Pietro. Ed in ogni caso era una preeminenza di autorità fraterna, e non, come l'hanno trasformata i papi in sovranità temporale (n. 13). Il concorso fraterno e la sollecitudine non si esercitano al prezzo dell'asservimento delle Chiese di Dio. n. 14. E' vero che a Calcedonia dopo la lettura della lettera di Papa Leone I si gridò: Tramite la bocca di Leone è Pietro stesso che ha parlato. Ma fu il concilio a rilevare l'ortodossia del papa. Il che si deduce dalle dichiarazioni dei padri al momento di firmare, come ad esempio di Teodoreto che dichiarò: La lettera del venerabile arcivescovo Leone si accorda con la fede esposta a Nicea dai venerabili padri e con il simbolo di fede dettato a Costantinopoli dai 150 padri e con le lettere del venerabile Cirillo. Di conseguenza, assentendo alla suddetta lettera, firmò (n. 15). La nostra speranza è che proprio sua Santità, rigettando gli errori dei suoi predecessori, ritorni alla fede autentica della Chiesa universale, di modo che le sedi vescovili ora occupate abusivamente dai vescovi occidentali siano loro rese dalla Chiesa universale e le occupino legittimamente. Seguendo egli le orme di S. Pietro, Leone I e Leone III rifaccia incidere su tavole d'argento il simbolo incorrotto, ci mandi dei pensieri che esaminati saranno trovati in accordo con i sette concili, ed allora non solo diremo che Pietro ha parlato per bocca di sua Santità, ma aggiungeremo: Abbracciamo la mano venerabile che ha asciugato le lacrime della Chiesa universale. Lacrime derivate dal fatto che con la sua tendenza alle innovazioni il papismo ha gettato anche i più saggi e i più pii vescovi della Chiesa romana in un inestricabile labirinto di errori. Il papa ha avuto l΢ardire di affermare: Voi non avete potuto conservare tra di voi l'unità della dottrina e del governo ecclesiastico. Sua santità attribuisce a noi la sua propria malattia. Siamo convinti che se sua Santità richiamasse alla memoria l'archeologia ecclesiastica e la storia, l'insegnamento dei santi padri e le antiche liturgie della Gallia e della Spagna e il breviario dell'antica chiesa di Roma, rimarrà sorpreso di scoprire a quante altre mostruosità ancora in atto ha dato adito il 81 papismo in occidente mentre l'ortodossia ha conservato in mezzo a noi la chiesa universale come una fidanzata senza macchia per il suo celeste sposo, benché noi non siamo sostenuti da alcun potere secolare, che sua santità qualifica come governo ecclesiastico, non avendo altro legame tra di noi se non quello di una vicendevole carità né altra garanzia di unità se non la nostra pietà filiale verso la comune madre. E questa pietà filiale è la sorgente della nostra obbedienza alla verità e alla dottrina segnata dai sette sigilli dello Spirito, vale a dire i sette concili ecumenici (n. 16). Il male delle innovazioni è proprio della Chiesa Romana. Da noi le innovazioni non hanno potuto introdurle né i patriarchi né i concili: poiché da noi la salvaguardia della religione risiede nel corpo intero della Chiesa, vale a dire nel popolo stesso che vuole che il dogma religioso resti eternamente immutabile e conforme a quello dei Padri. Sarebbe quindi opportuno che il papa, rinunciando alla pretesa dell'infallibilità, torni al rispetto del Vangelo, dei Padri e dei concili. La Chiesa universale è costretta a condannare tutti quegli scritti e dottrine che sono un pericolo per la salvezza dell'anima. A questa categoria appartiene in prima linea la suddetta “δettera enciclica ai Cristiani d'ηriente” del vescovo dell'antica Roma, papa θio IX: e noi la proclamiamo tale nella Chiesa universale (n. 17). Esercitando il servizio patriarcale i vescovi ortodossi sono esortati a vegliare sul loro gregge perché ci sono i lupi rapaci che vogliono corromperlo e portarlo via (n. 18). Quindi ci si rivolge indistintamente a tutti gli ortodossi, clero e laici, ricchi e poveri, colti e ignoranti, monaci, preti diaconi, offrendo incoraggiamenti e consigli, tutti possiamo resistere alle macchinazioni del demonio (n. 19). In conclusione: Conserviamo la nostra professione di fede che abbiamo ricevuto intatta da sì grandi uomini, fuggendo qualsiasi innovazione come suggerita dal demonio: colui che accetta un'innovazione accusa d'insufficienza la fede proclamata ortodossa. Ma questa fede è segnata col sigillo della perfezione, e non è perciò suscettibile né di aggiunte né d'alterazione alcuna. E chi osasse fare una cosa simile o consigliare o premeditare un atto simile, ha già di per sé rinnegato la fede di Gesù Cristo e si è procurato volontariamente l'anatema come bestemmiatore dello Spirito Santo, tacciato di aver dogmatizzato in modo incompleto nelle Sacre Scritture e nel ministero dei sette concili ecumenici (n. 20). La lunga successione dei nostri santi padri e predecessori, cominciando dagli apostoli e da coloro che gli apostoli hanno designato loro successori fino ad oggi, formando una catena indissolubile e tenendosi tutti per mano costituisce una sacra muraglia di cui Gesù Cristo è la porta e all'interno della quale tutto il gregge ortodosso trova gli alimenti della vita nelle fertili praterie del mistico Eden, e non nei sentieri scoscesi e senza uscita, come crede invece sua Santità. Nell'antichità anche le Chiese d'Occidente si nutrivano a questa fede comune, poi vennero uomini astuti e rapaci che hanno osato, mediante argomenti miserabili e dogmi eretici, sporcare l'ortodossia di questi popoli, come insegna la storia vera e come è stato predetto da S. Paolo (n. 21). 82 Restiamo dunque fedeli a questa madre, la santa chiesa ortodossa, che ci ha nutriti nella vera fede e manteniamoci saldi allorché degli uomini dai cuori di lupi e dei trafficanti d'anime si sforzano di trascinarla in schiavitù o a rapirli, come pecorelle strappate alla madre (n. 22). Costantinopoli, maggio 1848, indizione VI. Seguono le sottoscrizioni: Antimo, per la grazia di Dio, arcivescovo di Costantinopoli, nuova Roma e patriarca ecumenico, fratello in Gesù Cristo. Ieròtheos, per la grazia di Dio, patriarca di Alessandria e di tutto l'Egitto, fratello in Gesù Cristo. Methòdios, per la grazia di Dio patriarca della grande città di Dio Antiochia e di tutto l'Oriente, fratello in Gesù Cristo. Kìrillos, per la grazia di Dio, patriarca di Gerusalemme e di tutta la Palestina, fratello in Gesù Cristo. Il santo Sinodo di Costantinopoli: Paisio, vescovo di Cesarea, Antimo, vescovo di Efeso, Dionigi, vescovo di Eraclea, Gioacchino, vescovo di Cizico, Dionigi, vescovo di Nicomedia Ieròtheos, vescovo di Calcedonia, Neòfito, vescovo di Derkos, Geràsimos, vescovo di Adrianopoli Kirillos, vescovo di Neocesarea, Theòklitos, vescovo di Berrea, Melètios, vescovo di Pisidia, Atanasio, vescovodi Smirne, Dionigi, vescovo di Melenico, Paisio, vescovo di Sofia, Daniele, vescovo di Lemnos, Panteleìmon, vescovo di Dryinopoli, Giuseppe, vescovo di Erseca, Antimo, vescovo di Bodenes, Il santo sinodo di Antiochia: Zaccaria, vescovo di Arcadia, Methòdios, vescovo di Emesa, Gioannichio, vescovo di Tripoli, Artémios, vescovo di Laodicea. Il santo sinodo di Gerusalemme: Melétios, vescovo di Petra in Arabia, Dionigi, vescovo di Betlemme, Filemone, vescovo di Gaza, Samuele, vescovo di Naplous, Taddeo, vescovo di Sebaste, 83 Gioannichio, vescovo di Filadelfia, Ieròtheos, vescovo del monte Tabor. Come si può vedere, la lettera di Pio IX fu accolta malissimo dai patriarchi orientali, feriti personalmente nell'orgoglio (non essendo i destinatari dell΢enciclica), nonché per il fatto che l΢ηrtodossia è accusata di errori (causati dalla mancata comunione con la Chiesa di Roma) e di carenza di unità nel governo ecclesiastico. Il fatto che il papa si fosse rivolto a tutti i cristiani dell'Oriente fu visto come un tentativo subdolo di strappare fedeli all'altra chiesa. Questa impressione estremamente negativa dell'enciclica del papa provocò pertanto una reazione durissima tesa a salvaguardare la fedeltà degli ortodossi alla propria Chiesa, la cui garanzia di verità sta nel fatto che accoglie le Sacre Scritture, i Santi Padri e i sette concili ecumenici, senza alcuna aggiunta o alterazione, come invece ha fatto la chiesa di Roma, col Filioque, il battesimo per aspersione, la comunione sotto una sola specie, il rifiuto del sacerdozio agli uomini sposati, e così via. E in questa luce va letta anche la risposta negativa del patriarca Gregorio VI all΢invito di θio IX a partecipare al concilio Vaticano I (1868)126. δ΢enciclica dei Patriarchi orientali a Pio IX (1848) suscitò reazioni contrastanti. Irritata quella del metropolita di Mosca Filarete (perché violando il principio della conciliarità la Chiesa russa non era stata consultata), entusiastica quella di Aleksej Chomjakov (per l΢affermazione che guardiano della fede è il ΟpopoloΠ). 126 Testo in Karmiris 1960, II, pp. 926-930. 84 Reazioni contrapposte ebbe la ΟRispostaΠ dei θatriarchi da parte della chiesa russa. Il metropolita di Mosca, Filarete Drozdov, avrebbe voluto una risposta meno negativa e aspra, e soprattutto era furioso perché, pur essendo a capo della più grande chiesa ortodossa (quella russa), non era stato neppure consultato. Entusiastica fu invece l΢accoglienza di essa da parte del noto teologo laico Aleksej Chomjakov il quale, estrapolando una frase dal contesto (da noi la salvaguardia della religione risiede nel corpo intero della Chiesa, vale a dire nel popolo stesso) vi leggeva una conferma della sua teoria ecclesiologica della Sobornost΢. 18. La Praeclara Gratulationis di Leone XIII (20 giugno 1894). La mancanza di dialogo fra Roma e Costantinopoli si poté osservare anche dall΢andamento del concilio Vaticano I. Infatti, i pontefici avevano messo in alcuni posti chiave degli orientali che non amavano le loro tradizioni. Ad esempio la Commissione per le Missioni e le Chiese orientali, preparatoria al Concilio Vaticano I era dominata dal patriarca latino di Gerusalemme, Giuseppe Valerga, il quale, come osserva il P. Salvatore Manna, non comprese le particolarità liturgiche e disciplinari dell’ηriente, che considerò scorie di una situazione di scisma, e s’impegnò a sacrificarle nella promozione di una latinizzazione che meglio facesse risplendere l’unità della Chiesa nella uniformità anche esteriore127. La suddetta Commissione, il cui presidente era Alessandro Barnabò, cardinale prefetto di Propaganda Fide, era composta sia da membri latini che da orientali latinizzati. Una delle tesi principali del Valerga era che i canoni e i decreti del Concilio dovessero valere anche per gli orientali, eccetto i riti e le usanze approvate dalla Santa Sede. Del resto, secondo lui, la distinzione disciplinare non c΢era nella Chiesa antica, ma era nata e cresciuta con lo scisma. Condividendo questo punto di vista, il segretario della Commissione riteneva che questa linea latinizzatrice era la stessa che la chiesa romana aveva approvato nei sinodi del Libano (1736), di Odiamper (1599) e Zamosc (1720), ove frequenti erano i riferimenti al concilio Tridentino. Il programma era disastroso, commenta il P. Manna, e ci fa meraviglia che il Valerga non l’abbia voluto comprendere; stranamente non si è reso conto che il cattolicesimo orientale usciva da questa riforma profondamente latinizzato e perciò snaturato e squalificato 128. Se a tutto ciò si aggiunge il dogma dell΢infallibilità del papa (proclamato nel Concilio Vaticano I), preceduto da quello dell΢Immacolata Concezione promulgato sempre da Pio IX nel 1854, si può ben comprendere che la situazione tra Roma e Costantinopoli all΢avvento del nuovo papa δeone XIII (1878-1903) non era certo delle migliori. 127 Chiesa latina e Chiese orientali all΢epoca del θatriarca Giuseppe Valerga (1813-1872), Excerpta e dissertatione ad lauream, Napoli 1972, p. XXV. 128 Manna Salvatore, Chiesa Latina, cit., p. 51. 85 Purtroppo, anche il papa Leone XIII, invece di rivolgersi alla gerarchia ortodossa, si rivolse Ai sovrani ed ai popoli di tutto il mondo. D΢altra parte, come nel caso di Pio IX, il suo indirizzo all΢oriente non aveva una valenza interecclesiale, ma un interesse ed afflato universale, che tagliava fuori il ruolo della gerarchia ortodossa. δa circostanza dell΢epistola era descritta nelle prime parole: Le luminose testimonianze di pubblica riconoscenza che per tutto lo scorso anno ricevemmo da ogni dove a ricordo dell’inizio del nostro episcopato ci recarono anzitutto motivo di gioia in quanto in quella affinità e concordia di sentimenti rifulse l’unità della chiesa e la sua mirabile unione col sommo Pontefice 129. La gioia del papa non era però piena, poiché il suo pensiero andava ai popoli che non conoscono Dio e suo Figlio Gesù Cristo. Il suo ricordo andava poi con nostalgia ai popoli che erano uniti a Roma e se ne erano allontanati. Anzitutto rivolgiamo un amoroso sguardo ad Oriente, da dove inizialmente partì la salvezza del mondo. In verità l’ansia del nostro desiderio comanda di aprirci a lieta speranza che le chiese orientali, insigni per avita fede e per antica gloria, ritornino presto là donde partirono. Egli era convinto che ciò che ci unisce è immensamente superiore a ciò che ci divide: Se si eccettuano poche cose, per il resto concordiamo a tal punto che nella difesa della cattolicità non raramente noi desumiamo testimonianze e prove dalla dottrina, dal costume, dai riti praticati dagli orientali. Punto principale del dissidio è il primato del Pontefice romano. Ma risalgano ai primordi, considerino il sentimento dei loro precursori, l’eredità dell’epoca più prossima alle origini. In verità quella divina affermazione di Cristo “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa” conferma magnificamente il riconoscimento relativo ai Pontefici romani. Dopo aver ricordato che vari papi erano d΢origine greca, il papa affermava che prima dello scisma il nome della Sede Apostolica era venerando presso tutte le genti del mondo cristiano, e al Pontefice Romano, come legittimo successore del beato Pietro e perciò vicario di Gesù Cristo in terra, ubbidivano sia l’ηriente che l’ηccidente con uniformità di princìpi e senza alcuna riserva. Anche l΢episodio relativo allo scisma foziano (contenzioso sul patriarca Ignazio) confermava secondo il papa il ruolo del Pontefice romano cui lo stesso Fozio ricorse. Lo stesso vale per i concili di Lione II e fiorentino, ove con spontaneo consenso e a una sola voce, tutti, latini e greci insieme, sancirono come dogma la suprema potestà dei Pontefici romani. Proseguendo in questa ottimistica interpretazione il papa, partendo dalla buona accoglienza riservata ai pellegrini cattolici, credeva ora di scorgere una disposizione d’animo assai più mite verso i cattolici, anzi un certo benevolo atteggiamento. Quindi, citando il Bessarione, rivolgeva questo invito al ritorno alla concordia e unità ecclesiale: Ponderate saggiamente al cospetto di Dio i nostri desideri. Non certo indotti da motivi umani, ma dalla divina carità e dall’ansia per la comune salvezza, sollecitiamo alla riconciliazione e all’unione con la Chiesa romana: intendiamo 129 Bellocchi 1993, pp. 126-136. In particolare p. 126. 86 una unione piena e perfetta. Tale non sarebbe infatti in alcun modo se non recasse nulla di più che una certa concordia circa i dogmi in cui credere e uno scambio di amore fraterno. Unione vera tra cristiani è quella che il fondatore della Chiesa, Gesù Cristo, istituì e volle, riponendola nell’unità della fede e della disciplina. Né avete motivo di temere che noi o i successori nostri vorremo in alcun modo menomare il vostro diritto, le prerogative patriarcali, le consuetudini rituali di ciascuna Chiesa. Infatti negli intendimenti e nella pratica della Sede Apostolica è stabilito (e lo sarà sempre in futuro) di rispettare largamente e con equità le origini e i costumi di ciascun popolo. Dopo questo pressante invito, Leone XIII prospetta i grandi vantaggi per la Cristianità, ma ricorrendo ad un argomento implicitamente irritante per gli orientali, quello di essere stati loro ad essersi allontanati dalla tradizione: Così ritornate a quella fede una e santa che la più remota antichità trasmise inalterata a noi come a voi; a quella fede che i padri e i vostri antenati serbarono inviolata; a quella stessa fede che con lo splendore delle virtù, con l’altezza dell’ingegno, con l’eccellenza della dottrina fu illuminata a gara da Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, dai due Cirilli e da molti altri grandi, la cui gloria, come retaggio comune, appartiene ugualmente all’ηriente e all’ηccidente. Anche rivolgendosi alle genti Slave il papa presupponeva un tempo d΢unione: Se poi maligna avversità di tempi distolse in gran parte i vostri maggiori dalla fede di Roma, considerate quanto sarebbe meritevole il vostro ritorno all’unità. Con un ottimismo che rasenta l΢ingenuità il papa vedeva buone prospettive con i protestanti, i quali facilmente ammetteranno di aver dimenticato le loro origini e di essere giunti, da un errore all’altro, a fallaci novità in molte questioni di somma importanza; né vorranno negare che di quel patrimonio di verità (che i fautori di novità avevano recato con sé nel separarsi) quasi nessuna formula di fede sicura e autorevole rimane presso di loro. Il ritorno all΢unità, come il papa precisava in seguito, era un ritorno alla Chiesa di Cristo e al suo magistero affidato a Pietro e ai suoi successori. δ΢obbedienza alla Sede Apostolica si ripresentava sotto la penna del papa anche nell΢esortazione ai cattolici ad ubbidire in ogni caso al magistero e all’autorità della chiesa, non già con riserva o diffidenza ma con tutto l’animo e con lieta volontà. Poi il papa entrava in alcune tematiche molto sentite al suo tempo, come i rapporti fra Chiesa e Stato, la Massoneria, la questione sociale. La sua speranza era che, avendo preso coscienza della sua missione, l΢Europa divenisse faro di cristianesimo per i popoli di tutto il mondo. Che però, l΢invito ai cristiani orientali fosse centrale, è dimostrato anche dalle parole conclusive: Vi sarà un solo ovile e un solo pastore. Il grande desiderio del ritorno dei cristiani orientali alla chiesa cattolica ricorre in altri scritti del papa, che sono numerosissimi 130 . δ΢enciclica Orientalium dignitas Ecclesiarum (30 novembre 1894) può essere considerata un complemento della Praeclara gratulationis. In essa c΢è un alto apprezzamento 130 Si veda al riguardo Esposito 1960. 87 dei tesori spirituali dell΢oriente, un chiaro riconoscimento di ecclesialità facendole giustamente risalire agli apostoli e, soprattutto, un grande rispetto del diritto canonico orientale. E΢ proprio su quest΢ultimo punto che si registra un passo avanti rispetto a Pio IX. Se da un lato mostra una certa ignoranza storica (affermava che gli orientali avevano accolto l΢unione al concilio di Lione e di Firenze spontaneamente e con lieto animo, quando tutti sanno che Michele VIII θaleologo aveva il coltello di Carlo I d΢Angiò alla gola, e i turchi erano sotto le mura di Costantinopoli), dall΢altra aveva un grande desiderio di conoscere il punto di vista orientale e di andare incontro ai loro desideri. Invitò tutti a Roma, uniti e dissidenti, ed anche se quasi nessuno si presentò, venne tuttavia il patriarca melkita Gregorio Jusof che invitò il papa al rispetto del concilio di Firenze. Il disprezzo dell΢autorità dei patriarchi era, a suo avviso, il vero ostacolo sulla via dell΢unione. Un pò tutti riconobbero le buone intenzioni del papa, che nella Orientalium Dignitas aveva previsto punizioni per i missionari che tentavano di latinizzare gli orientali. Ma, nonostante ciò, la Congregazione orientale nel 1920 ancora lamentava questi tentativi, senza conseguenze per i missionari. Onde sembrava profetico il commento del celebre oberprokuror russo Konstantin Pobedonoscev: Le Pape passe, la Curie reste. Il che era come dire: ΟQuel che decide il papa vale fino ad un certo punto, poiché lui passa, mentre la curia romana restaΠ. E la curia tende a non perdere il controllo disciplinare e quindi cerca di vanificare gli sforzi di apertura dei papi. 19. La risposta: l’Enciclica di Antimo VII (agosto 1895) La Praeclara Gratulationis (come l΢Orientalium Dignitas) conteneva, come si è visto, un invito al ritorno degli ortodossi alla Chiesa di Roma. Anche in questo caso però, la situazione a Costantinopoli era in movimento. Si era appena dimesso Neofito VIII e ai primi del 1895 era stato eletto Antimo VII. Ecco la successione patriarcale per quel periodo: Gregorio VI (1867-1871) seconda volta Antimo VI (1871-1873) terza volta Gioacchino II (1873-1878) seconda volta Gioacchino III (1878-1884) Gioacchino IV (1884-1886) Dionisio V (1887-1891) Neofito VIII (1891-1894) Antimo VII (1895-1896) Costantino V (1897-1901) Gioacchino III (1901-1912) seconda volta Gli scrittori greci commentarono l΢invito in senso generalmente critico e negativo. Ma ci fu anche una risposta ufficiale, redatta probabilmente dal giovane prelato Germano Karavanghelis, esaminata e approvata da un sinodo convocato dal patriarca di Costantinopoli Antimo VII, da poco eletto. Il titolo è: α Θ πα α α π π α π α π π α 88 π π α α α α πα α α π α α α Θ α π (Epistola Enciclica patriarcale e sinodale ai santissimi e carissimi fratelli in Cristo, metropoliti e vescovi, e al loro santo e sacro clero ed a tutto il pio ed ortodosso gregge del santissimo e patriarcale Trono di Costantinopoli) 131. Come il papa si era messo sulla stessa lunghezza d΢onda dei suoi predecessori anche l΢enciclica patriarcale riprende il tono delle precedenti risposte orientali. La dottrina di Cristo è fonte di salvezza ed è immutabile. Bisogna dunque guardarsi da coloro che vogliono tentare il gregge ortodosso trascinando i fedeli adducendo dottrine diverse e straniere. In altri termini l΢enciclica di δeone XIII veniva vista come un ulteriore tentativo di strappare subdolamente i fedeli al patriarcato di Costantinopoli: Il diavolo ha ispirato ai Vescovi di Roma sentimenti di orgoglio insopportabili. Parla della dignità delle Chiese orientali (riferimento alla seconda enciclica del papa) ma in fondo la sua è solo sete di dominio, tanto è vero che si rivolge in occasione del suo giubileo episcopale (l΢enciclica Praeclara) ai principi e ai popoli di tutto il mondo. δ΢errore della chiesa di Roma consiste nel non attenersi alle verità evangeliche, ma di apportare innovazioni. Tali novità riguardano importanti punti dottrinali, in particolare: 1. Il Filioque 2. Gli Azzimi 3. Battesimo per aspersione, invece che per immersione. 4. Consacrazione con le parole di Gesù, omettendo l΢epiclesi 5. Comunione sotto una sola specie 6. Purgatorio 7. Perfetta remunerazione dei defunti prima del giudizio finale 8. Indulgenze 9. Dogma dell΢Immacolata Concezione 10. Dogma del primato e dell΢infallibilità pontificia. Per gli ortodossi l΢unione non è più possibile, poiché la chiesa romana ha apportato tutte queste novità, mentre la chiesa ortodossa, come ben sottolinea Fozio, è rimasta fedele ai θadri. D΢altra parte, il papa sembra cadere in contraddizione, quando afferma da un lato che la vera unione consiste nell’unità della fede, dall΢altro che ogni chiesa, anche dopo l’unione, può mantenere le sue massime dogmatiche e canoniche, sebbene queste siano differenti da quelle della chiesa papale 132. La confutazione punto per punto di queste innovazioni latine segue molto da vicino le precedenti encicliche di Cirillo V e soprattutto dei Patriarchi orientali del 1848. La ΟnovitàΠ di questa enciclica riguarda invece il dogma Edita nell΢ α α, a. 15, n. 31 (29 settembre 1895), pp. 241-249; anche Karmiris 1960, II, pp. 930-946; da parte cattolica fu pubblicata in Duchesne 1905, cap. III (pp. 59-112), e in S. Brandi, Dell’unione delle chiese. Risposta al patriarca Greco di Costantinopèoli, in ΟCiviltà CattolicaΠ, S. 16, vol. 4 e 5 (settembre 1895-gennaio 1896), pp. 509-522, 655-672, 1631, e 166-190 (in estratto, Roma 1896). 132 Già il Brandi nel suo lavoro sulla Civiltà Cattolica avanzava l΢ipotesi di un errore di traduzione in greco. Infatti non c΢è possibilità di equivoco che il papa si riferisse a riti e usanze, non ai dogmi. 131 89 dell΢Immacolata Concezione: Da ormai 40 anni la Chiesa papistica ha accettato un’innovazione, imponendo un nuovo dogma sull’Immacolata Concezione della Madre di Dio e sempre Vergine Maria; dogma ignoto all’antica chiesa ed acremente discusso un tempo presso i nobilissimi teologi papistici. δ΢universale bisogno della redenzione del Cristo non poteva esentare la Vergine. Il nuovo dogma è quindi un errore dottrinale. Ma più che le questioni dottrinali al patriarca interessavano i risvolti pratici, onde il documento si avvia alla conclusione riprendendo il tradizionale attacco al proselitismo cattolico: Da un anno a questa parte la Chiesa del Papa, disertando la via della persuasione e della discussione, tra lo stupore e la inquietitudine generale, ha cominciato a scandalizzare i sentimenti dei semplici cristiani ortodossi mediante l’intrufolamento di astuti operai che si travestono da apostoli di Cristo, ed ha inviato in oriente degli ecclesiastici che indossano il costume e l’acconciatura dei sacerdoti ortodossi e si permettono parecchie altre astuzie per fare dei proseliti. Come si vede, riecheggiano qui i toni dell΢enciclica dei θatriarchi in risposta a Pio IX (1848), che parlava dei missionari cattolici come di Οtrafficanti d΢animeΠ. δ΢enciclica di Antimo VII è firmata, oltre che dal patriarca, dai seguenti vescovi: Nikodimos di Cizico Filòtheos Bryennios di Nicomedia Ierònimos di Nicea Nathànael di Proussos Basileios di Smirne Stéphanos di Filadelfia Athanasios di Lemnos Bessarion di Durazzo Doròtheos di Belgrado Nikodimos di Elassos Sophronios di Karpatos e Casos Dionysios di Eleuteròpolis Secondo il Fortescue, colpisce il fatto che, mentre il papa aveva usato un tono paterno, il patriarca di Costantinopoli aveva risposto con asprezza: Nulla sorprende maggiormente del tono differente delle due lettere, né del tono offensivo della risposta di Antimo. Il papa evita accuratamente di rivolgere qualsiasi accusa agli ηrtodossi; Antimo non fa che ripetere l’antica lista delle accuse 133. Indubbiamente, se ci si riferisce al tono, il Fortescue aveva ragione. Quanto al contenuto le cose sono un pò diverse, specie se ci si mette nei panni degli ortodossi. Questi, infatti, essendo attaccati oltre ogni misura alla tradizione (talvolta sino alla lettera) non possono in alcun modo tollerare di sentirsi dire che dopo lo scisma hanno apportato delle innovazioni. Che le innovazioni apportate dai cattolici siano giustificabili col magistero o con altre argomentazioni è un discorso. Ma, dire che le innovazioni le hanno apportato gli ortodossi, anche se detto in tono paterno, è né più mé meno che un insulto. 133 Fortescue 1916, pp. 434-435. 90 ζell΢opinione dell΢Esposito e di altri commentatori dell΢enciclica patriarcale, Antimo VII firmò quell΢enciclica non molto spontaneamente, essendo nota la sua pietà e e la sua simpatia per il cattolicesimo. Nato a Jannina verso il 1835, aveva studiato ad Halki e poi nella scuola superiore greca di Costantinopoli. Dopo un certo periodo di insegnamento, divenne vescovo di Paramythia (1869), quindi metropolita di Ainos (1878), per passare alle sedi di Kaystra, Leros e Kalymnos. Fu eletto patriarca nel gennaio del 1895 (quindi pochi mesi dopo le encicliche di Leone XIII), a seguito delle dimissioni di Neophytos VIII. Sembra che volesse dare una risposta più conciliante, ma l΢ambiente patriarcale lo costrinse allo stesso linguaggio dei suoi precursori. I contrasti fra le chiese ortodosse lo misero in difficoltà, come nel caso del tentativo dei Valacchi di ottenere l΢autocefalia. Antimo diede le dimissioni e si ritirò ad Halki, ove morì nel dicembre del 1913. 20. La svolta ecumenica del patriarca Gioacchino III (1902/4) Con l΢inizio del nuovo secolo il patriarcato ecumenico cambiò completamente registro (un pò come era accaduto fra i papi pretridentini e i papi posttridentini). Il linguaggio e il tono dei documenti assunsero quel tono conciliante ed universalistico dei papi, e per di più senza alcuna precondizione (come nei documenti pontifici il riconoscimento del primato romano). In altre parole, il patriarcato divenne veramente ecumenico, anche nel senso moderno del termine. In particolare, con Gioacchino III veniva inaugurata un΢epoca nuova, che lasciava dietro di sé quel linguaggio irruento e aspro dei patriarchi Cirillo V (1755), Antimo VI (1848) e Antimo VII (1895). Non si tiravano più in ballo Satana e le forze del male, e si finiva con l΢adottare un linguaggio propositivo, sereno e pieno di speranze, nonostante che non si nascondesse le difficoltà. Nel 1902 e nel 1904 Gioacchino III inviava un΢enciclica a tutte le chiese autocefale in cui chiedeva consigli sul come rafforzare i rapporti di fratellanza cristiana, fra di esse e col patriarcato, sul come comportarsi a proposito del calendario e sul come rapportarsi alle altre confessioni cristiane, in particolare ai vecchiocattolici 134. E’ gradito a Dio e in sintonia col Vangelo, egli diceva (quasi inaugurando una sobornost΢-conciliarità greca), chiedere l’opinione delle sante chiese autocefale relativamente ai rapporti attuali e futuri con i due grandi rami della cristianità, la chiesa d’ηccidente e la θrotestante. Come è noto, nella nostra chiesa si osserva la regola di una preghiera costante e di orazioni per loro, e ogni vero cristiano avverte un pio amore e una unione di cuori con essi e con tutti coloro che credono in Cristo. Ma al contempo si sa che questo amore gradito a Dio si scontra con la persistenza di queste chiese nella discordanza dottrinale, e stando in essa e consolidandosi nel tempo, appare del tutto improprio scendere sulla via dell’unione alla quale rinviano la verità storica ed Testo greco in Karmiris 1960, II, pp. 946 α-946 . Il testo da me seguito (e tradotto) è quello russo pubblicato in Cerkovnye Vedomosti, 7 luglio 1903, n. 23, pp. 242-243. Riedito in Pravoslavie i Ekumenizm. Dokumenty i materialy 1902-1997, M 1998, pp. 55-57. 134 91 evangelica, nei limiti e confini nei quali l’auspicabile accordo dogmatico e la comunione appaiono per noi inaccettabili. Ed è anche chiaro, continua il patriarca, che la chiesa è una, con un unico capo che è Cristo, colonna e fondamento della verità, sulla base della tradizione fissata nei Concili Ecumenici. εa ciò che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio. In vista di questa speranza il nostro compito è quello dell΢amore evangelico, cioè dell΢impegno nel preparare la strada, liberandola dai detriti e dagli ostacoli e valorizzando il patrimonio comune. Convinto che questi sono anche i sentimenti dei suoi fratelli nell΢episcopato, il θatriarca coraggiosamente pone questa domanda: Non bisognerebbe riconoscere come opportuna una certa riflessione su questo tema al fine di preparare una via piana e larga per un fraterno reciproco avvicinamento e definire, col comune consenso dei membri di tutta la nostra Chiesa ortodossa, le basi, le misure e gli strumenti, considerati migliori a questo scopo ? Passando poi oltre, Gioacchino poneva la questione dei vecchiocattolici, separatisi dalla Chiesa romana dopo il Concilio Vaticano I, i quali erano entrati in corrispondenza con varie chiese ortodosse affermando di credere a tutto ciò che era stato definito fino al IX secolo e soprattutto dai sette concili ecumenici. Sentendosi già parte della chiesa ΟcattolicaΠ, chiedevano ora di formalizzare questa unione con la chiesa orientale. Dato che le varie chiese ortodosse stavano prendendo atteggiamenti diversi, alcune molto possibiliste, nel senso che non vedevano ostacoli di questi a far parte della chiesa cattolica ortodossa, altri che vedevano ancora distanze troppo grandi nei dogmi, Gioacchino chiedeva ora la loro opinione al riguardo per definire meglio come comportarsi. Voluta fortemente dal patriarca, l΢enciclica, che apriva un΢epoca nuova anche dal punto di vista ortodosso (con questa richiesta di opinioni e consigli alle varie chiese locali), fu firmata anche da: Gioacchino di Efeso, Nathanaìl di Proussos Alessandro di Neocesarea Atanasio di Iconio, Basilio di Smirne Costantino di Chios Policarpo di Varna Gioacchino di Xanthos Nicodemo di Bodeno Niceforo di Lititoe Tarasio di Eliopoli Girolamo di Gallipoli Le chiese risposero in modo diverso. Quella russa, che era da tempo intensamente impegnata nel dialogo coi vecchiocattolici, rispose che non solo pregava e desiderava tanto l΢unione, ma apprezzava molto l΢iniziativa del 92 patriarcato ecumenico. Tuttavia, al momento era più preoccupata a non perdere i suoi fedeli a causa del proselitismo. Cattolici e protestanti, infatti, facevano a gara per strappare figli alla madre chiesa ortodossa. Del resto anche i contatti erano difficili visto il disprezzo con cui i protestanti, ancor più dei cattolici, guardavano agli ortodossi. La Russia era invece più pronta all΢unione con gli anglicani (della High Church), i quali si comportavano con rispetto ed erano alieni da proselitismo. E lo stesso vale per i vecchiocattolici. Per questi ultimi però c΢è l΢ostacolo della loro indecisione. Il tempo passa, e coloro che vengono dopo non continuano l΢opera dei defunti. θiù opportuna sembra invece l΢unione con le antiche chiese che sono molto più vicine alla tradizione ortodossa, come i nestoriani, gli armeni, i copti e altri 135. Dopo aver raccolto il punto di vista delle chiese locali Gioacchino tornava a scrivere un΢enciclica, firmata questa volta da un gruppo di vescovi totalmente diverso dal primo (l΢unico presente nel 1902 ed anche ora nel 1904 è Gioacchino di Efeso). Gli altri firmatari sono: Filoteo di Nicomedia Gioacchino di Rodi Gregorio di Serre Cirillo di Mitilene Filarete di Didimotichos Costantino di Ganos e Chora Procopio di Durazzo Basilio di Belgrado Costanzo di Serbia e Kozani Panareto di Eleuteropoli Theoklito di Krine 136. Con la nuova enciclica il il patriarca prendeva atto che le difficoltà erano reali, in particolare il proselitismo cattolico e protestante. Ed era anche più che d΢accordo che le aperture da lui proposte non dovevano fare abbassare la guardia ai pastori che dovevano difendere il proprio gregge. Ma impegnandoci nel custodire i propri, dobbiamo preoccuparci anche degli altri e con tutta l’anima pregare per l’unione di tutti, non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà e non considerare la cosa come non meritevole di riflessione o irraggiungibile; ma, al contrario, dobbiamo prendere le misure necessarie per spianare la strada verso l’unione di tutti, rapportandoci verso coloro che sono divisi da noi con benevolenza e con mitezza, ricordando che anch’essi, credendo nella santissima Trinità e invocando il nome di nostro signore Gesù Cristo, hanno la speranza di conseguire la salvezza con la grazia di Dio. Secondo Gioacchino III, particolare attenzione bisognava rivolgere agli anglicani e ai vecchiocattolici che, tra gli occidentali, erano i più vicini alle Cfr. Cerkovnye Vedomosti, 14 giugno 1903, n. 24, pp. 252-256. In Pravoslavie i Ekumenizm, cit., pp. 57-61. 136 Testo greco in Karmiris 1960, II, pp. 946 -964. δ΢autore pubblica questo testo, considerandolo in continuità col precedente, come se fosse un solo documento. 135 93 posizioni ortodosse. Con essi non bisognava giudicare per sentito dire, ma era necessario studiare le loro dichiarazioni ufficiali in materia di dottrina. Dato poi che fra gli stessi ortodossi vi sono opinioni diverse anche su tematiche importanti, come il battesimo e il sacerdozio di coloro che sono separati dall΢ortodossia, sarebbe auspicabile che ogni tre anni si tenessero dei convegni al fine di trovare una linea ortodossa comune che potrebbe poi essere dichiarata solennemente a tutte le chiese dall΢arcivescovo di Costantinopoli, che ha il ruolo di ΟprimusΠ ( π ώ π π α π α α αῖ α α π α ώ ).137. Qui il patriarca di Costantinopoli rivelava una straordinaria comprensione della debolezza insita nella chiesa ortodossa, nonché una lungimiranza che solo dopo Atenagora I avrebbe portato i suoi frutti. Fino al patriarca Gioacchino l΢ortodossia aveva continuato a parlare della sua unità ecclesiale e della sua cattolicità, nonché della sua conciliarità. Concretamente però non si vedeva nulla. Ognuno camminava per proprio conto, senza preoccuparsi granché di come si poneva un΢altra chiesa di fronte allo stesso problema. In altre parole, l΢unità ecclesiale era fondata sull΢ignoranza reciproca, non preoccupandosi molto di fronte a situazioni quanto meno contraddittorie. Insistere sulla conciliarità e poi, come aveva protestato Filarete di Mosca, non si comunicava neppure una questione della massima importanza, come una risposta al papa, era davvero incomprensibile. Parlare di unità ecclesiale e differire su un problema fondamentale come il valore del battesimo dei latini (come fra chiesa greca e russa nel caso di William Palmer) era a dir poco inaccettabile. A differenza della maggior parte degli ortodossi che, timorosi di essere sottoposti a critica da parte dei cattolici, difendono l΢indifendibile, il patriarca Gioacchino prendeva qui posizione su una questione tanto semplice quanto fondamentale: il coordinamento ecclesiale nell΢ηrtodossia. δ΢idea da lui lanciata non ebbe l΢effetto che avrebbe meritato. Le chiese ortodosse continuarono ad andare per proprio conto. La chiesa russa, non consultata nell΢affare di θio IX, non sentì affatto il bisogno di chiedere alcun consenso o approvazione da parte del patriarcato di Costantinopoli in occasione del concilio del 1917-1918. E soltanto la diaspora del 1922 costrinse greci e russi a venire in contatto e in dialogo. Tuttavia, la grande iniziativa di Gioacchino III non finì nel nulla. Era un germe che prima o poi doveva rinascere. In questa luce può essere visto un altro testo prodotto dal patriarcato di Costantinopoli, vale a dire l΢enciclica del 1920 138, che miracolosamente fu promulgata in un periodo drammatico per il patriarcato. Da due anni non si era potuto eleggere il patriarca, perché erano scoppiati dei moti giovanili tendenti fra l΢altro ad incrementare l΢elemento ΟturcoΠ all΢interno del patriarcato. In quella situazione confusa il clero ortodosso visse un momento di Karmiris 1960, II, p. 946 . ζella risposta del 18 marzo 1905 (Cfr. Cerkovnye Vedomosti, 14 gennaio 1906, n. 2, pp. 33-34, anche in Pravoslavie i ekumenizm, pp. 63-65) il Santo Sinodo russo delinea la sua corrente attività di dialogo teologico con le altre chiesa, plaudendo allo scambio di esperienze fra le chiese ortodosse che permetterebbe di rivivificare Οil principio di governo universale conciliare, sul quale si basava il secolo d΢oro dell΢ηrtodossiaΠ (načalo vselenskogo sobornogo upravlenija, kotoroe sostavljalo zolotoj vek Pravoslavija). In realtà l΢iniziativa di Gioacchino III era pienamente in linea con la teologia russa della sobornost΢ (anche se più nella concezione di Filarete Drozdov, di una sobornost΢ gerarchica interecclesiale, che non in quella di Chomjakov, di un ruolo predominante del popolo di Dio). 138 Karmiris 1960, II, pp. 957-960. 137 94 sollievo grazie alle visite di rappresentanti dei luterani svedesi e degli episcopaliani d΢America. A dispetto della situazione tutt΢altro che rosea il luogotenente patriarcale ed il santo sinodo assunsero un linguaggio universalistico, indirizzando l΢enciclica non soltanto alle chiese ortodosse, ma A tutte le chiese di Cristo ovunque si trovino ( πα α α ). θrendendo lo spunto dall΢iniziativa mondiale della δega delle ζazioni, il luogotenente del patriarcato Doròtheos esortava tutte le chiese di Cristo a tentare un avvicinamento reciproco. Superando interessi particolari, era opportuno rifarsi all΢amore evangelico e promuovere una più autentica conoscenza reciproca che avrebbe portato frutti evangelici a tutte le chiese. Tale amicizia ecclesiale si poteva realizzare 1. unificando il calendario, 2. scambio di lettere, 3. incontri fra rappresentanti delle varie chiese, 4. scambio di contatti accademici, 5. scambio di studenti di teologia, 6. conferenze interecclesiali su temi di interesse comune, 7. approfondimento imparziale delle differenze dogmatiche, 8. maggior rispetto e conoscenze delle tradizioni dell΢altra chiesa, 9. ospitalità nelle proprie chiese e cimiteri, 10. regolarizzazione dei matrimoni misti, 11. supporto amichevole nelle attività. Il testo con tutte queste proposte era sottoscritto da Doroteos, metropolita di Prus e luogotenente del patriarcato ( π α α Θ α π , π ) e da tutto il suo sinodo 139. δ΢afflato ecumenico che veniva dal patriarcato di Costantinopoli fu però messo a dura prova proprio quando si trattò di concretizzare gli scambi e gli incontri. E΢ rimasta in tal senso famosa la dichiarazione dei rappresentanti del patriarcato a conclusione della conferenza di Losanna del 1927140. Dopo aver dichiarato che il patriarcato ecumenico aveva molto auspicato questo tipo di conferenza, Germano di Tiatira, a nome del patriarcato e di tutta la delegazione ortodossa, dichiarò che a parte il primo documento (sugli intenti e Οatteggiamento della Chiesa verso il mondoΠ) non poteva firmare gli altri sulla Οnatura della ChiesaΠ e Οsulla fede comune della chiesaΠ, essendoci differenze importanti rispetto al modo di concepire queste realtà da parte della chiesa ortodossa. δ΢ecclesialità di questa non concepisce come sufficienti i riferimenti alla Sacra Scrittura, ma ritiene ugualmente necessari la Tradizione, la voce dei Padri e dei Concili ecumenici. Pur apprezzandone gli intenti, la delegazione ortodossa non condivideva neppure il metodo ermeneutico, vale a dire indagare e ricercare una terminologia che può fare accettare a dutti le affermazioni. Gli ortodossi non possono credere che l’unità, fondata su simili equivoche formulazioni, sarà duratura. Dopo Germano di Tiatira, firmarono i rappresentanti dei patriarcati di Alessandria e Gerusalemme, quelli delle chiese di Cipro e di Grecia, i rappresentanti dei patriarcati di Serbia e Romania, i rappresentanti delle chiese bulgara, polacca, russa (della diaspora) e georgiana. Firmarono poi i metropoliti Nikolaos di Cesarea, Costantino di Cizico, Germano di Amasea, Gerasimo di Pisidia, Gervasio di Ancira, Gioacchino di Ainos, Antimo di Vizue, Eugenio di Selivria, Agatangelo di Saranta, Crisostomo di Tiroloe e Serentio, Ireneo dei Dardanelli e Lampsaco. Cfr. Karmiris 1960, II, p. 960. 140 Karmiris 1960, II, pp. 963-966. 139 95 Cominciava così l΢avventura della chiesa ortodossa nel movimento ecumenico, inteso per lo più come missione e testimonianza. Resta però il fatto della inattesa apertura del patriarcato ecumenico che, rompendo il suo isolamento, si apriva a tutte le chiese locali ortodosse e persino a tutte le chiese di Cristo. 21. I papi da Pio X e Pio XII La prima metà del XX secolo non portò nulla di nuovo nei rapporti fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. I papi che vanno da Leone XIII a Pio XII incluso, osserva il De Vries, si attennero saldamente alla tesi tradizionale: l’unica vera Chiesa di Cristo è di fatto identica alla chiesa cattolica concreta 141. Il successore di δeone XIII, θio X, provenendo da un΢esperienza pastorale italiana, non poteva avvertire come importante il problema della riunificazione delle chiese d΢oriente. In occasione del 1500° anniversario della morte di S. Giovanni Crisostomo, nella liturgia celebrata in S. Pietro nel 1908 non mancò tuttavia di richiamare gli splendori cristiani dell΢oriente. Pochi mesi dopo (1° gennaio 1909) stabiliva che le iniziative prese in Russia dopo l΢avvento della libertà religiosa (1905) seguissero le disposizioni dell΢enciclica di δeone XIII Orientalium Dignitas. Con la costituzione Tradita ab Antiquis concedeva che qualsiasi cattolico (latino o greco) potesse comunicarsi sia nel rito orientale che nell΢occidentale. Più che documenti, Benedetto XV (1914-1922) produsse fatti. Sotto di lui infatti fu fondata la Congregazione per le Chiese orientali (1° maggio 1917) , nonché, nello stesso anno (15 ottobre) il Pontificio Istituto per gli Studi Orientali. Se queste sue creazioni si riveleranno di grande fruttuosità per il futuro, non così la mentalità del papa che rimase ancorata alla vecchia concezione del ritorno. Infatti, accolse cordialmente nel 1919 i delegati del congresso ecumenico che si sarebbe dovuto tenere a Ginevra l΢anno dopo e che lo invitavano a fare entrare anche la chiesa cattolica in questo consesso, ma reclinò l΢invito. δ΢unica via per l΢unità ecclesiale, egli rispose, era quella del ritorno degli altri cristiani nella Chiesa cattolica romana. Più interessato alla riunificazione delle chiese d΢oriente alla Romana fu θio XI (1922-1939), come si evince già dall΢allocuzione nel concistoro del 24 marzo 1924. δ΢anno dopo (1925) fondava il monastero orientale di Benedettini ad Amay sur Meuse (dal 1939 a Chevetogne) che dal 1926 pubblicò la rivista Irénikon. Fondò pure il centro domenicano di Parigi che col P. Dumont pubblicò la rivista Istina (rivolta soprattutto agli ortodossi russi). Nel 1929 fondava il Russicum, e nello stesso anno istituiva una Commissione per la revisione del diritto canonico orientale. Nonostante questo straordinario attivismo filorientale, Pio XI mantenne un deciso atteggiamento negativo nei confronti dell΢ecumenismo, come si evince chiaramente dall΢enciclica Mortalium animos del 6 gennaio 1928, che porta questa intestazione: Ad RR. PP. DD. Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes de vera religione unitate fovenda. Il papa apre con la constatazone che gli Οanimi 141 De Vries 1983, p. 144. 96 dei mortaliΠ non sono mai stati attratti come oggi dal desiderio di una maggiore comunione. Se questo vale per il mondo civile, non minore è il senso dell΢unità ecclesiale, per cui si promuovono incontri interreligiosi. Il che ha portato alla falsa convinzione che le religioni più o meno si equivalgano: Eiusmodi sane molimenta probari nullo pacto catholicis possunt, quandoquidem falsa eorum opinione nituntur, qui censent, religiones quaslibet plus minus bonas ac laudabiles esse, utpote quae etsi non uno modo, aeque tamen aperiant ac significent nativum illum ingenitumque nobis sensum, quo erga Deum ferimur eiusque imperium obsequenter agnoscimus. Quam quidem opinionem qui habent, non modo ii errant ac falluntur, sed etiam, cum veram religionem, eius notionem depravando, repudient, tum ad naturalismum et atheismum, ut aiunt, gradatim deflectunt 142. ηggi c΢è un errore gravissimo (sub horum illecebris blandimentisque verborum error latet sane gravissimus, quo catholicae fidei fundamenta penitus disiiciuntur) che serpeggia anche tra molti fedeli cattolici. Questo errore, che rischia di sradicare le fondamenta della vera chiesa cattolica, è quello di un pancristianesimo, vale a dire un amore per l΢unità dei cristiani in vista di un miglior confronto col mondo non credente, che porta però alla confusione religiosa. Papa Pio XI è noto per aver felicemente concluso la lunga vertenza con lo stato italiano (θatti δateranensi del 1929). Con l΢enciclica Mortalium animos manteneva però l΢atteggiamento di totale chiusura verso gli Ortodossi. 142 Acta Apostolicae Sedis, a. XX, vol. XX, Roma 1928, p. 6. 97 In verità, Dio ha parlato all΢uomo attraverso la rivelazione biblica, ed attraverso il Figlio ha creato la Chiesa per la salvezza degli uomini. Questa chiesa è una società perfetta, con un solo capo di governo affinché i fedeli la possano ben individuare. E certamente quando Cristo parlava di un solo ovile e un solo pastore non intendeva un Foedus ex variis christianorum communitatibus compositum, ma una sola vera chiesa contro la quale le porte degli inferi non prevarranno. Ora, gli altri cristiani separati dalla Chiesa romana si sono privati di alcune verità fondamentali alla natura della Chiesa. I Protestanti ad esempio hanno rinunciato al primato romano, e altri che lo accettano gli danno un valore umano, verrebbe cioè dal consenso degli uomini e non da diritto divino (non a iure divino, sed a fidelium consensu). I cattolici non possono quindi partecipare a questi congressi intercristiani, perché così facendo dovrebbero patteggiare sulle verità divine: Num Nos patiemur – quod prorsus iniquum foret – veritatem, eamque divinitus revelatam, in pactiones deduci ? Né si può derogare da questi principi in nome della carità propugnata da questi pancristiani. In quanto la Scrittura è chiara: Se qualcuno viene a voi e non professa questa dottrina, non accoglietelo in casa, né dategli il saluto (II Gv, 10). La distinzione fra verità fondamentali e verità relative porta direttamente all΢indifferentismo. δe verità di fede sono rivelate da Dio. ζon si può quindi distinguere le verità sulla Trinità o l΢Incarnazione da altre come l΢Immacolata Concezione o l΢infallibile magistero del Romano Pontefice. Qualsiasi contatto con gli acattolici deve avere dunque lo scopo di promuovere il ritorno dei dissidenti all’unica vera chiesa di Cristo, dalla quale un tempo infelicemente si staccarono (fovendo dissidentium ad unam veram Christi Ecclesiam reditu, quandoquidem olim ab ea infeliciter descivere). La Chiesa dunque non deve accettare in sé la macchia dell΢errore. Adulterari non potest sponsa Christi, diceva Cipriano. I cristiani che vogliono tornare saranno ben accetti come da una madre. Il Pontefice romano, una volta che viene riconosciuta la sua autorità come legittimo successore di Pietro, li accoglierà dimenticando benevolmente le ingiurie di cui la Sede Apostolica è stata oggetto. εa l΢unica via all΢unione ecclesiale resta il ritorno dei dissidenti. Come si può vedere, la Mortalium animos ha in vista il movimento ecumenico. εa anche l΢unico riferimento all΢ortodossia (Photii novatorumque erroribus) rivela che il papa in questo contesto la considera alla stregua del protestantesimo. Il successore Pio XII già nella sua prima enciclica (Summi Pontificatus) ha un riferimento agli ortodossi, usando la celebre espressione Οfratelli separatiΠ. Nella Orientalis Ecclesiae (1944) riprende il tema della legittimità dei riti orientali. Uguale apprezzamento si respira in altre encicliche (Orientales omnes Ecclesias del 1945, Sempiternus Rex del 1951), tuttavia il suo atteggiamento è in linea con i precedenti. La Chiesa cattolica si identifica con la Chiesa che è governata dal pontefice romano. η, secondo l΢espressione della Mystici Corporis: Coloro che sono tra loro separati per la fede o per il governo non possono vivere nell’unico corpo del Signore e mediante il suo unico Spirito divino. Coerentemente con questi principi Pio XII il 5 giugno 1948, con un monito del Santo Uffizio, deliberava che qualsiasi partecipazione di cattolici a congressi interconfessionali doveva avere una previa licenza della Santa Sede. Alla Conferenza di Amsterdam del 1948 i cattolici erano dunque assenti (a parte 98 qualche giornalista). Nel 1954 venne proibita la partecipazione dei cattolici alla Conferenza di Evanston. In conclusione, per tutta la prima metà del XX secolo l΢atteggiamento della Chiesa cattolica verso gli ortodossi e il movimento ecumenico fu decisamente negativo dal punto di vista dottrinale. Tuttavia, come giustamente fa osservare il De Vries, le istituzioni create soprattutto da Benedetto XV e Pio XI portarono dei frutti che andarono molto al di là di ciò che questi papi pensavano, e prepararono il terreno alla grande svolta di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II. 99 APPENDICI I La bolla di Leone X nel commento del Rodotà (1521, maggio 18). Circa il principio del secolo XVI143 si accese un gran fuoco contro de΢ riti greci fra le due nazioni soggette al Veneto dominio, il quale fu estinto dalla cura e provvidenza di δeone X l΢anno 1521. Alcuni vescovi latini, ignorando l΢origine, la santità ed i misteri del rito greco, l΢abominavano come velenoso serpente. Di loro, come perturbatori, scrive il lodato Pontefice: Ordinarii locorum latini ipsam nationem super dictis ritibus et observantiis in locis, ubi praedicti Graeci morantur, quotidie molestant, perturbant et inquietant. Giunti alla debolezza di credere che il battesimo conferito dai Greci fosse privo di virtù di santificare i battezzati, commettevano sacrileghe abbominazioni con ribattezzare nel rito romano quei ch΢erano stati battezzati secondo le cerimonie orientali. Contrastavano ai laici l΢uso della communione sotto ammendue le specie, e ai Sacerdoti la consecrazione nel pane fermentato; e con disprezzo unito ad insulto, anche la validità del matrimonio contratto innanzi agli ordini sacri. Con questi mezzi cagionavano scissure, scandali e sconcerti nei popoli, e movevano a rissa gli scismatici, come continua a dire il lodato papa. Qui ci si presenta un luttuoso confronto. Una volta i Greci aveano in tale aborrimento il battesimo de΢ latini, che ribattezzavano nel loro rito quei che l΢avevano ricevuto dalle mani di essi. ηra per contrario i δatini mostrano sì strana avversione al battesimo de΢ Greci, che non lasciano di ribattezzare i battezzati da questi. I primi meritarono le alte reprensioni del Concilio Lateranense IV, ed i secondi del Sommo θontefice δeone X. I Sacerdoti latini calcando le orme de΢ loro vescovi, ne seguivano l΢esempio. Stendevano la malignità fin dove poteva aver luogo la loro possanza, ed impedivano ai Greci la celebrazione della δiturgia d΢una maniera strana e violenta. ζon sacrificando essi nell΢altare, dove altro sacrificio preceda nel medesimo giorno, i Latini per disarmarli della libertà di recitar la messa, li prevenivano di buon mattino. Riuscì insoffribile quest΢acerba persecuzione al paterno amore di δeone X, il quale volendo frenare l΢insolente ardire de΢ contraddittori, molte cose stabilì a favore de΢ Greci e loro conferì prerogative e privilegi nella medesima Bolla segnata li 18 maggio del 1521. Cfr. Pompilio Rodotà, Dell’origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia, III, Roma 1763, pp. 135-137. 143 100 Dispone in primo luogo, che i Greci fra i Latini possono liberamente professare il loro rito, ed andare anche questuando nelle loro terre. Che i Prelati Greci non sieno sturbati dall΢esercizio delle funzioni pontificali nelle diocesi latine. Che nessun vescovo latino anche ordinario imponga le mani a chierici greci per sollevarli al sacerdozio: né il greco ai Latini. Che gli stessi Vescovi latini stabilischino nelle proprie diocesi a piacere de΢ Greci, ed a loro spese, un vicario generale, il quale esamini le loro cause, ammetta i ricorsi, e dia gli opportuni provvedimenti. In conseguenza di ciò, che il εetropolitano latino nelle cause d΢appellazione costituisca loro un giudice similmente greco. Che i Sacerdoti latini s΢astengano dal conferire i sagramenti, dal celebrare messe, e da qualunque altra funzione nelle chiese greche, nisi ad haec specialiter per ipsos vocati fuerint. Che ciaschedun Vescovo greco o latino eserciti la giurisdizione privatamente sopra i propri nazionali. Che le vedove de΢ chierici e preti greci, durante lo stato vedovile, godano l΢immunità che godevano i loro mariti. Che i Sacerdoti greci secolari e regolari vengano a parte delle grazie e privilegi conceduti a΢ sacerdoti e regolari latini. Finalmente sogetta alle pene di sospensione a divinis i Vescovi, e di scommunica latae sententiae i ministri inferiori, che ricusassero di conformarsi a queste provvide leggi, le quali fecero tornare il cuore ai Greci, rinascere l΢affetto, e riaccendere la volontà ossequiosa al supremo pastore. Fu questa Bolla di sostegno al loro rito nell΢Isole soggette al dominio Veneto. δa traduzione in lingua greca, che ne fece la nazione fin da quel tempo, palesa il gradimento, onde l΢accolse. δeone Allazio l΢ha data alla luce nel medesimo idioma, trascritta da un codice a penna e successivamente replicate volte è stata riprodotta colle stampe in Venezia. Di essa pure come di scudo si valsero poco dopo i Greci di Corfù nelle nuove e più furibonde tempeste eccitate contro al rito greco dai Latini loro conterranei. Appena lo videro ferito dagl΢intollerabili insulti, mordaci censure, e ree azioni onde ne impedivano l΢uso; che tutti uniti in una sola volontà corsero a sovvenirlo; in quella guisa che, percosso il piede, tutte le membra si affrettano a risarcir la ferita: gli occhi a compiangerlo, la testa ad iscoprir la piaga, la lingua a cercar rimedio, e la mano a stendere il balsamo. Non altrimenti i diversi ordini di quella rispettabile adunanza entrando a parte della comune afflizione s΢interessarono chi d΢una maniera e chi nell΢altra, per procacciare a tanto male l΢opportuno rimedio. Interposero l΢appello alla S. Sede, e con un medesimo intendimento, ed uno stesso volere spedirono Luigi Rarturo Protopapa a Paolo III, dalla cui autorità potevano unicamente sperare la calma. Vennero ad un giudice, e trovarono un padre. Esposte le violenze recate alla nazione da Veniero Arcivescovo latino e suo clero, discussa la causa e udite più volte le parti, ottennero un Breve segnato li 8 marzo 1540 con cui, frenato l΢orgoglio e l΢insolenza de΢ contradittori a tenore della Bolla di δeone X, fu restituito al rito il natìo splendore e a΢ Greci il libero esercizio di esso. 101 II Il patriarca Geremia II nel carteggio di Antonio Possevino 1581-1584144. 1583, maggio 14. Il card. di Como al Possevino: Da Costantinopoli è stato scritto a questi giorni che il Gran Turco per sospetto che Vostra Reverenza sia andata non con altro fine che di lega, n'ha fatto risentimento col Bailo Veneto. Il che, se è vero, dovrà esser a Vostra Reverenza per avvertimento d'andar più cauta et con manco apparenza et timore che potrà verso quei paesi di Moldavia et Vallachia ove il Turco è tanto obedito145. 1583, dicembre 17.. Il card. Galli al Possevino: Ritornorno di Costantinopoli quelli che furono mandati a quel patriarca per conto del calendario, et hanno riportato risposta piena d'ossequio et di riverenza verso 1a Sede Apostolica et risolutione d'accettar et far accettare da tutti del rito greco esso calendario, ma però con qualche commodità del tempo per la distanza dei Paesi 146 . 1584. Possevino al nunzio in Polonia Bolognetti: Il patriarca di Costantinopoli, con fremito di tutta la Grecia, è stato rilegato in Rodi; scrivo a Roma perchè, come amico delle Sede Apostolica, si vegga o di cavarlo di là, o di socorrergli con denaro, accioché questo beneficio in ogni evento di sua libertà affettioni gli animi de Greci alla S(an)ta Sede Ap(ostolica). 1584. Possevino al card. di Como: Il S(igno)r Dietristano mi ha mostrato le lettere dí Costantinopoli delli 25 del passato, portate per un corriere con molta diligenza, dove fra l'altre cose ha che il Patriarca Gieremia è stato dal Turco relegato in Rodi con sommo dispiacere dei Greci, í quali non volevano dar alcuna limosina a chi è stato surrogato ín luogo di Gieremia; laonde pensavano che colui pel donativo che haveva fatto al Turco, sarebbe stato costretto per i debiti contratti a vender gli argenti delle chiese etc. et che un Giudeo offeriva al Turco 12000 scudi l'anno, se voleva dargli il carico di sforzare i greci a pagare al patriarca qualche danaro, già di voluntaria limosina. Or io pensava, sotto 'l giuditio di Vostra Signoria Illustrissima che forse sarebbe 144 I brani sono tratti da Vittorio Peri, Roma e l’idea del patriarcato di εosca all’epoca di Gregorio XIII, in ΟIV Centenario dell΢Istituzione del θatriarcato in RussiaΠ, Herder Editrice e Libreria, Roma 1989. In un altro studio (Due date in un’unica θasqua. δe origini della moderna disparità liturgica in una trattativa ecumenica tra Roma e Costantinopoli (1582-1584), Milano 1967, pp. 240-242 e 251-253), l΢autore riferisce di ΟBreviΠ di Gregorio XIII al Venerabilis Frater Geremia II Tranos. 145 ASV Nunziatura Venezia, 24 f. 162 r 146 Da Alberti Bolognetti nuntii apostolici in Polonia Epistolae et acta 1581 -1585, pars II, 1583, a cura di E Kuntze [Monumenta Poloniae Vaticana, 6] Cracoviae 1938, p. 720]. 102 bene usar un paterno sforzo se non di liberare (il che sarebbe forse et riuscibile et bene) almeno di soccorrere il detto Gieremia, perciò che non essendo più tenace colla detta carità non è dubbio che questo atto fattosi con pura intentione di aiutar la salute dei Greci, quando bene non ne seguisse l'edificatione de Greci, come senza dubio farebbe, giustificherebbe inanti Dio la sollecitudine di Sua Beatitudine. Vanno in Rodi diversi mercanti, Francesi parimenti vanno assai sicuri. Da Greci stessi avrà anco qualche luce; però Dio Signor Nostro inspiri a Vostra Signoria Illustrissima tutto quel che possa essere in questo et in altro a gloria Sua147 . 1584, aprile. Dalla Santa Sede al Possevino: Della calamità di quel patriarca Sua Santità ha sentito dispiacer grande, sapendo ch'è di gran qualità et non alieno dalla Sede Apostolica et perciò desidera giovargli come può. Ma tra l'altre cose venute in pensiero a Sua Santità, una è che questa occasione potrebbe esser al proposito per separar i Moschi et i Rutheni da l'obedienza dei nuovo patriarca di Costantinopoli, per farli adherire al primo ch'è stato deposto, et operare che esso patriarca, quando sarà libero come pur speramo che sarà presto, si riducesse ad habitare in qualche terra di Russia o in altra parte commode di quelle regioni, dal che risulterebbe al Moscovita et ai suoi popoli, et a tutti gli altri del medesimo rito nel regno di Polonia grandissimo honore et commodo, per non haver più d'andar a Costantinopoli; et alla Chiesa latina sarebbe poi forse più facile di ridurli all'unione col buon mezo di esso patriarca. 1584, aprile 27. Il card. Galli al Possevino: Credo che Vostra Reverenza haverà inteso il caso acerbo et duro dei patriarca Greco di Costantinopoli il quale, per l'opera d'un monaco, arcivescovo di Cesarea suo inimico, è stato calumniato presso il Gran Turco così di mala maniera ch'è stato privo del patriarchato et messo prigione, et che v'è stato mescolato l'aver tenuto prattica con Sua Santità. Il che è falsissimo, se non quanto tocca a l'introduttione del novo calendario che è cosa mera spirituale et di nissuna consideratione, quanto al temporale che è quello che preme ai Turchi; ma, per quanto si intende, la maggiore oppugnatione è stata una grossa somma di ducati148. 1584, aprile 27. Lettera del card. Bolognetti: Intenderà Vostra Signoria Illustrissima per lettere del Reverendo Padre Possevino, oltre a gl'altri particolari del duca d'Ostrow il vecchio, com'egli si mostra talmente affettionato al patriarca greco di Costantinopoli hora deposto, che si può havere bonissima speranza che quando esso patriarca si trovi qui, egli sia per seguitarlo et spiccarsi dall'obbedienza dell'intruso, anzi dubita il duca che l'aver esso mandato a ricercarlo dell'unione sia stato in gran parte causa di questa disgratia149 . 1584, agosto 2. Possevino al nunzio di Varsavia Bolognetti: Circa í1 patriarca di Costantinopoli che è in Rodi (...) credo che la più sicura et utile risolutione sarebbe che venisse a Roma (...). Quanto al mandarlo poi in Moscovia, la cosa è di molta consideratione. Però, presupposto quel che nel secondo Commentario mio di Moscovia, mandato a Nostro Signore si comprende (il che è necessario che molto bene si sappia), io credo che la cosa haverebbe pochissimo esito et moltissima difficoltà. Si 147 Cfr. Alberti Bolognetti, cit., pp. 318-319. Ivi, p. 206 149 Ivi, p. 405. 148 103 perché non facilmente il Moscovite nuovo l'ammetterebbe, atteso che suo Padre et Avolo non più domandavano la confirmatione del loro Metropolita da Patriarchi di Costantinopoli, poiché uno mandato di Costantinopoli in Moscovia per riformar quelle Chiese secondo il rito greco fu dall'Avolo di questo Principe, posto prigione, dove morì, et ritrovò scisma et heresie intolerabili in quei Ruteni; si anche perchè, come Moscoviti sono sospettosissimi (et hora in tempo dí nuovo governo tanto più lo saranno), non è dubbio che pensarebbono che fosse stratagemma del Turco per porre piede in Moscovia per la via di Asof et d'Astracano, et anche per via de' Ta rtari Precopensi, i quali ultimamente hanno dato una rotta a Moscoviti verso il Boristene. Et in somma, o non farebbe niente quel Patriarca in Moscovia, o, tenendolo in captività non se ne potrebbe promettere la Sede Apostolica alcuna cosa, overo, quanto bene egli potesse haver alcun credito et volesse promuover l'unione de' Latini coi Ruteni, è molto probabile cha lui avverrebbe ciò che già avvenne ad Isidoro Patriarca o Metropolita di Russia, quando tentò il medesimo doppo il Concilio Fiorentino. Aggiungesi che è molto verisimile che Moscoviti, per non danneggiar le cose loro, lo renderebbono a Turchi se lo dimandassero. Però quando del Patriarca fussimo sicuri davero che più tosto non rivocasse i Ruteni della Russia del Re di Polonia, che li promovesse in sincera unione co' Latini, nissuno luogo parebbe più idoneo di Chiovia che anticamente i Metropoliti di Moscovia facevano ivi la sua residenza et i Moscoviti portano anco rispetto hoggi di quella città. Et molto moverebbe i loro cuori quando cí fosse persona tale che attendesse (come è desiderabile) a far davero150 . 1587: Factum est autem (...) paterna Summi Pontificis charitate et sedula diligentia, ut idem Patriarcha Constantinopolitanus veritate victus, non solum ei assenserit, verum etiam legationem ad urbem miserit, qua se idipsum inter suos curaturum polliceretur, ingenui animi signum praebens et christiano deinde pectore Patriarchatus quam veritatis iacturam perpeti malens. Nam paulo post in custodiam coniectus est calumniis oppressus a quodam Caesareae episcopo, qui pecunia Turcis data in eius loco suffectus est: neque sane absque suspicione, quod haeretici quidam, qui alio praetextu Constantinopoli degunt, aegerrime ferentes a Ieremia primum quidem (...) haereses pluribus censuris fuisse confossas, deinde etiamnum Kalendarium Romanum emendatum recipi. Turcarum imperatorem ad eum relegandum accenderint151 . 150 Ivi, pp. 385-386. Possevino A., Moscovia et alia opera de statu huius saeculi adversus Catholicae Ecclesiae hostes, in officina Birkmannica 1587. Cfr. sect. IV, De anni et Paschae emendatione, cap. VI, pp. 216-217 151 104 III Lettera di Cirillo Lukaris al papa Paolo V. 1608, 28 ottobre. Beatissime Pontifex Romane [Ecclesiae] Paule V, Pater ac Domine Clementissime, post subiectionis meae humillimam commendationem152. Benigne quas Tuae Sanctitati quam breves mittimus litteras, annuat legere, prout exigit christiana charitas et officium paternum, quo totum orbem terrarum prosequeris; universalis enim es pastor ac in terris caput ecclesiae, ad quod recurrere debent omnia membra, quoties eguerint consilio, nec secus nos, qui ab exemplo maiorum nostrorum didicimus ecclesiam istam alexandrinam, cui nos per Dei gratiam praesumus, Pontificum Romanorum authoritate multoties adiutam atque in statu catholico restitutam, et quod maioris est momenti, Petro apostolorum principe exponente atque docente Marcus audiebat et audita exarabat, adeo ut nemo sit, cui non pateat evangelium Marci Petro dictante, scriptum fuisse. Quare igitur nos ad Tuam Beatitudinem, non recurremus vel quare a Beatitudine Tua legitimo Petri successore et in fide et in sede, cuius doctrina totam irrigat ecclesiam, dissentiemus amplius? Ac non potius, id quod nobis est salutare, unio quaeremus? Quam et si ad hoc tempus vel culpa nostra vel alias ob causas, quae plures sunt, quaerere pretermiseramus, posthac tamen, si neglexerimus, detrimentum maximum absque dubio reportabimus. Stimulus enim: examinatae conscientiae est ille, qui pungit, ac ideo sine mora pulsamus, et confidimus, quod aperietur pulsantibus, et tam plus, ubi successu temporis candor animi nostri magis magisque exploratus fuerit erga officia submissionis et obedientiae, quae sanctae romanae ecclesiae servari debent. A qua etsi hoc elapso temporis curriculo egregie dissentiebamus, in iis omnibus articulis, quibus et ecclesia orientis, at non innixis aliqua praesumptione vel passione humana, magna cum diligentia scriptis sanctorum patrum tam latinorum quam graecorum volutis ac revolutis per Spiritus S. inspirationem et illuminationem veritas nobis constat, ita ut nemo sit, qui firmitatem et columnam fidei nostrae in posterum vel a proprio deponere loco vel concutere valeat. Hinc fit, quod ab illo mutati ecclesiae catholicae tibique capiti adhaeremus et sub authoritate tua obedientissime vivere ac mori volumus, illam spiritus unitatem servantes in pacis vinculo, quam a scriptis apostolicis admonemur. In hoc enim certum est, si quis offenderit, omnium reus erit. Et si verum est non manentem in charitate salvari non posse et qui scandalizaverit unum de pusillis, expedit ei, ut suspendatur, non periclitantur summopere qui scandalum per dissensionem ecclesiae catholicae romanae praebent ac cum ea illam charitatem, quae deberetur, 152 Archivio Segreto Vaticano, Fondo Borghese, IV, 11, ff. 215-216v. Edita in OCP XV, 1, n. 52 (1929), pp. 44-46. 105 non servant? Ita sane, imo partem eorum cum schismaticis, de quibus fore, ut condemnentur, S. Augustinus affirmat, ponendam sine dubio credendum, nisi praeveniat poenitentia. Quam D. Optimus Maximus per suam misericordiam Tuae Beatitudinis intercessionibus, ut amplectatur, dignum faciat orientem, qui tenebris ignorantiae obfusus tantum patitur in schismate detrimentum, quantum vix dici possit; non animadvertens, id quod pro certo habeo, iugum servitutis propria cervice excussurum, quando toto corde ad Dominum Deum suum converteretur, sanctaeque Romanae Ecclesiae Tuaeque Beatitudini illam redderet obedientiam, quam oporteret christianos homines unico pastori et Christi nostri salvatoris vicario, cui ego subditus memetipsum per praesentes quas temporis angustia dederit scribere, per Reverendum Patrem Caesarium, qui Hierosolymitanam ecclesiam cum hoc triennio gubernasset, iterum Romam suam patriam redit, omniaque mea offero atque dedico. Et cum his pedes Tuae Beatitudinis humillime amplectens atque deosculans annos quam longos et incolumes Tuae Beatitudini desidero. Datae Alexandriae, anno Domini MDCVIII, XXVIII octobris. Tuae Beatitudinis in Christo servus ac filius Cyrillus patriarcha Alexandriae. 106 IV Il Patriarca Cirillo Kontaris al Papa Urbano VIII. 1637, aprile153. Beatissimo atque sapientissimo Patri Maximo Summo Pontifici Domino D. nostro Urbano octavo Cyrillus Berreensis, de exilio reversus miseratione divina Patriarcha Constantinopolitanus debitam reverentiam debitumque honorem reddo atque praesto. Se ben con proprie lettere in quel tempo che per la misericordia divina son stato Patriarca di Costantinopoli, non ho baciato le vostre mani, divinissimo Patre, temendo la comminatione di quelli che signoreggiano, et il commandamento loro; con tutto ciò l΢honore e la riverenza ch΢io ho verso di δei, l΢ho sempre servato, e sempre mi son΢affatigato di trovare modo, di pagar΢ il debito della riverenza e questo così per l΢eminenza della dignità, e per l΢infinite celeberrime Sue virtù, come per la compassione e carità ch΢ha verso l΢infelice nostra natione. Di ciò mi possono far testimonio e l΢Ill.mo Signor Gio. Rodolfo Schmid Residente del Ser.mo e piissimo Cesare Imperatore di Romani (il quale ancora adesso, in questa somma miseria trovandomi, si degnò venire a consolarmi, accertandomi dell΢infinita benignità, misericordia e fervente volontà di V. Santità in aiutare gli bisognosi) et il R.mo Padre Vicario. Gli quali ancora in quel tempo ogni giorno pregavo, che dovessero da parte nostra riverire et adorare V. Santità. Hora per la somma longanimità di Dio, e per le Sue orationi essaudite da Dio, essendo ritornato dall΢essilio, con aiuto e gran spesa di pii christiani, et havendo ritrovato la Sedia precipitata di nuovo con certi modi, ch΢Iddio sà, dal calvinista Cyrillo, e vedon(do le pecorelle di Christo, per le quali l΢istesso sparse il suo sangue, alcune disperse, altre ammazzate; havendo lasciato da parte ogni timore, avanti l΢immaculati piedi (di) V. Santità adesso mi butto, e con la debita riverenza gl΢abbraccio, pregando Iddio di servare V. S. in longissima vecchiezza, per stabilimento della catholica et apostolica chies(a) e per mia sollevatione, e consolatione spirituale. A quali dunque e quante (ca)lamità e disgratie il calvinista e luterano Cyrillo Candioto già quindici anni sono, ha sottoposto la Chiesa Costantinopolitana, divinissimo Signore, lo sà la Vostra sapientissima Beatitudine e con quanti tradimenti m΢hanno fatto guerra gl΢inglesi e fiamenghi, suoi amici per l΢impietà dell΢heresia; tanto che per la potentia di danari m΢hanno mandato in essilio; e poco mancò che mi privassero di vita, per l΢instabilità di quelli che signoreggiano. εa hora quante cose ha fatto, doppo che gl΢è stato permesso di salire nella Sedia Patriarcale (e questo per li miei peccati, o vero per esser manifestati gli buoni) chi 153 Archivio di Propaganda Fide, Scritture riferite, voI. 180: 190r-190v. Trad. it. coeva. Ed. in Orientalia Christiana n. 64 (t. XX, 1-1930), pp. 20-23. 107 le potrà scrivere? Vedendo gli pii prelati perseguitati e scacciati et intromessi gli suoi seguaci per la mercede della malitia d΢ambedue; gli clerici virtuosi e celebri per l΢opere e per la dottrina, dishonorati; gli scelerati honorati; gli più divoti sacerdoti deposti; li religiosi di buona vita mandati in essilio; e gli pii signori scommunicati et anatematizati. Tali e tante cose va facendo sfacciatamente essendo appoggiato alla potestà di tiranni; e per esser aiutato dalli seguaci, non v΢è nessuno che a lui si possa opporre per adesso. E S. D. M. usa longanimità seco, nè manda sopra di lui gli debiti fulmini. Ma per questa longanimità di Dio indurito più il suo crudel cuore, pretende, com΢una volta quel Giuliano, quelli, che non sono della sua opinione, ruinarli affatto, (se può) e primo di tutti me, il quale con la potentia divina gli son stato contrario, et ho guerreggiato e vinto il secondo Goliat. Et ho anatematizato lui, e li suoi capitoli fatti da lui contro la fede ortodoxa, con compito et incorrottibile sinodo di prelati e chierici, la cui depositione et anathematismo fatto in scriptis, havendolo dato al sopradetto lll.mo S. Presidente, credo havrà significato a V. Beatitudine. Adesso per l΢infermità della carne temo, e mi son nascosto; ma con tutto ciò con ferma speranza aspetto l΢aiuto di Dio. E non solamente queste cose; ma la presente longanimità di Dio, pensando che sia dono d΢impietà, gli più semplici per mezzo della breve mondana vittoria chiama alle sue heresie, quasi pubblicamente seminando li dogmi dell΢impietà; e nessuno ardisce di dire la verità. θerchè a questi fedeli di qui non gl΢è restata forza d΢opporsi a quest΢empio, aiutato dalli suoi confederati calvini e luteri. Sta dunque in pericolo la gregge di Christo. E noi non habbiamo nessun΢altra speranza salvo che primieramente quella di Dio, e secondariamente la cura e protettione di V. Beatitudine. Vi preghiamo però e supplichiamo, Beat.mo θadre, che con l΢òcchio di misericordia V. B. guardi la nostra Chiesa, ripigli le viscere di compassione, e la sua liberatione dalle mani di questo heretico diligente consideri. Offitio vostro è, B.mo Padre, il pascere le pecorelle di Christo, et haver cura di quelle. Perchè a Voi è stata data da Chrìsto la suprema potestà, come primo, e capo delli prelati e della fede ortodossa, essendo suo Vicario. Possanza non vi manca, per discacciare il lupo dal gregge di Christo Dio. Bisogna che la Tua divina volontà si muova solamente e così con il divino aiuto liquefiet tamquam cera a facie ignis. E certamente che V. B.ne per tutte le sue infinite virtù havrà da Dio 1΢immarcescibili corone, ma non meno ancora per tale aiuto (il quale sarà causa di salvare molte anime e di tirare molti all΢affettion΢et alla servitù di V. B.ne, essendo δei potentissimo mezzo) havrà le mercedi centuplicate; e dalla chiesa che sarà liberata infinite lodi e perpetua commemoratione havrà da dovero in Gesù Cristo. E finalmente di nuovo io indegno e perseguitato per la religione servo di Christo e della sua apostolica e catholica Chiesa con riverenza abbraccio li suoi piedi e come membro della catholica orthodossa Chiesa alla benignità di V. B.ne humilmente mi raccomando, pregando Iddio, che conceda a V. S. longissima vita. Di Constantinopoli nel 1637 nel mese d΢aprile. Di V. Santità minimo in Christo servo, Cyrillo di Berrea. 108 V Relazione sulla tragica morte del Kontaris Narrazione154 di Michele Velasto di Chios. 11 ottobre 1641 Die XI mensis octobris 1641. Informationes captae per Ill.mum et Rev.mum Iohannem Baptistam Gorium Pannelinum inquisitorem generalem Melitensem et apostolicum delegatum, ad futuram rei memoriam et ad alium meliorem finem. Dominus capitaneus Michael Velasto Chius de ritu latino filius quondam Antonii aetatis annorum 28 circiter, cui delato iuramento de veritate dicenda tactis S. Scripturis, interrogatus, an cognoverit quondam Ill.mum D. Cirillum de Veria patriarcam Constantinopolitanum, et cuius opinionis et famae, respondit: Tre anni sono incirca essendo io andato in Costantinopoli ivi rimasi per spatio di tre mesi incirca, nel qual tempo ho inteso communemente da christiani del rito latino, e particolarmente da... Castelli Scioto mercante et habitante in detta città che Monsignor Cirillo Contarini il (?) Veria patriarca allora di Costantinopoli haveva intelligenza con la Santità di N. Signore, e con altri pr(i)ncipi christiani, e che voleva sottomettere il rito greco al rito latino e che questo negotiava per mezzo di Musu Sezin ambasciatore allora in detta città per il Rè Christianissimo. E duoi anni sono incirca mentre stavo in Scio, ivi capitò Carà Choggia col suo vassello, il quale se n΢ andava in Barbaria e perche io volevo andar in Barbaria a comprare un vassello caglì sopra il detto vassello di Carà Choggia, dove vi trovai il detto patriarca Cirillo in catena in guardia di papa Georgio caloyro e di Costandino secolare da Metelino mandati da Costantinopoli per condurre carcerato detto patriarca in Tunesi, nel qual tempo nessuno della città di Scio di rito greco ardiva di suvvenire detto patriarca nè d΢un pane per timore, e finalmente havendo io imbarcata mia mercanzia sopra detto vassello, partissemo da Scio nella vigilia di S. Andrea per Tunesi, e nel viaggio che fu di quattro mesi incirca io ho fatto sicurtà della persona di detto patriarca Cirillo a Apttrauman Ba(sci)a da Natulia, quale andava per autorità dell΢imperio ottimano per Bascià di Tunesi, e questo lo fè levare da catena sotto detta mia sicurtà, et io gli somministravo quel che haveva di bisogno per il suo vivere per quanto potevo. E perche in malvagia certi papassi diedero non so che camiscia et un può di pane e certi libri al detto patriarca che si trovava quasi igniudo per i maltrattamenti che gl΢usavano i sudetti suoi guardiani, et il sudetto papa Georgi in mia presenza minacciò i detti papassi per la su detta opera che lui haverebbe scritto in Costantinopoli e fattoli rovinare, del che i turchi di detto vassello si maravigliorno grandemente vedendo i maltrattamenti usati al detto patriarca, la sua pacienza e che venivano minacciate persone che gl΢usavano 154 Archivio di Propaganda Fide, Scritture riferite, vol. 167, ff. 191-197v. Edita in OCP 1930, t. XX, pp. 53-58. 109 carità e si risolsero di voler ammazzar detto papa Georgio, il quale pregò me che l΢havessi protetto, et io ho la consulta del detto patriarca, il quale me disse ch΢io havessi aiutato detto papa Georgio, perche non voleva che niuno havesse patito per suo rispetto, si come ho fatto, e cosi io in compagnia del detto patriarca siamo andati dal sudetto Bascia, e pregatolo per la sicurtà della persona di detto papa Georgio si come a detta nostra instantia fu assicurata sua persona. E nel sudetto viaggio molte volte me dissero li detti papa Georgio e Costandino che i seguaci del gia patriarca di Costantinopoli, il vecchio heretico predecessore del detto Monsignor Cirillo haveano mandato certi metropoliti in Persia al Gran Turco con supplica che il popolo non voleva detto Monsignor Cirillo per patriarca reputandolo per mal΢huomo e che andava prendendo denari da questo e quello, spendendoli a suoi gusti senza volerne dar conto e che per farlo levare havevano offerto a favoriti del Gran Turco cento mila pia(s)tri incirca e perche detti ragionamenti molte volte mi si facevano innanti il medesimo patriarca, questo in loro presenza mi diceva che l΢essationi di denari che lui cercava non era altra se no che havendo lui trovata la chiesa molto indebitata dal suo predecessore al turco, la cercava sollevare e liberare e che percio lui succedendo l΢occasione di metropoliti d΢alcun delitto per il quale il suo predecessore l΢haverebbe subito privati e mes(s)i altri in loro luogo, lui non parendogli il delitto degno di privatione li tassava a certa somma di denari per la sudetta liberatione della chiesa. E che lui con assai meno di cento mila piastre quando l΢havesse voluto dare s΢haverebbe fatto confirmare nella sua sedia patriarcale dal Gran Turco, conforme gl΢era stato offerto, ma che lui non havea voluto pagare cosa alcuna per non indebitare la chiesa quale cercava liberare e così il primo capo come questo li sudetti papa Georgio e Costandino in presenza mia confessavano, ancorche havessero mala volontà col detto patriarca Cirillo. E neI medesimo viaggio il medesimo patriarca Cirillo me disse che da Costantinopoli havea mandato in Roma a N. Signore un tal suo huomo caloyro chiamato quando era secolare Giovanni Albano e che lui voleva sottomettere la chiesa e rito greco alla chiesa e rito latino e che i seguaci del suo predecessore per loro interesse e per fare un patriarca a loro gusto havevano cercato di levarlo dalla sedia. Et arrivati in Susa il secondo giorno di Pasqua di Resurrezione del 1640 detto patriarca scrisse al E.mo Signor Cardinale Antonio in Roma et a Musu Sezin in Francia con i quali diceva d΢haver intelligenza per il sudetto suo desiderio così con N. Signore come con il Rè di Francia e per dette lettere dava conto alli sudetti SSignori Cardinali e Musu Sezin della sua persecutione e stato, et io ne presi il detto plico da mano di detto patriarca e di suo ordine lo inviai per mezzo dell΢Ill.mo Signor Gran Croce Bubudran allora schiavo in Barbaria che veniva in Malta. Et da Susa io ne presi una carrozza nella quale io vi mes(s)i il detto patriarca e lo condussi nel palazzo del sudetto Bascia in Tunesi il quale sotto nuova mia sicurtà lo lasciò senza ferri astretto in una camera, et io ogni domenica e festa andavo a prenderlo dalla detta camera e l΢accompagnava, quando nella chiesa di S. Antonio e quando nel bagno a dire alcune volte messa, altre a sentirla, e ragionare con i christiani sacerdoti e particolarmente col cappellano di S. Antonio Fra Vincenti εarchi dell΢ordine della S.ma Trinità e Vincenzo Tassone θanormitano e con Fra Giuseppe di Messina, Fra Andrea Matamanno Alemano con Fra Giovanni della Rocca dell΢ordine di S. Agostino, Fra Santo Ruggiero carmelitano e con molt΢altri. 110 Et io più volte ho portato lettere del detto patriarca dirette all΢E.mo S. cardinale Antonio e altri Signori per Roma e per N. Signore istesso ancora, alli sudetti cappellano di S. Antonio e Don Vincenzo Tassone e particolarmente... Et alli tanti di maggio 1640 egli scrisse una lettera a N. Signore delli benefici ch΢havea da me ricevuti, raccomandogli la mia persona e finalmente apunto la vigilia di S. Giovanni Battista del sudetto anno con una galera ch΢era arrivata a Susa arrivorno duoi schiavi in Tunesi al detto Bascia e l΢indimane a buonissima hora mi sentì picar la porta e mi fu detto che quella notte per ordine del Gran Turco venuto al sudetto Bascia era stato strangolato il detto patriarca, e che il suo corpo era stato buttato in strada alla porta del palazzo, per lo che io subito me n΢andai al sudetto luogo, dove trovai il sudetto cadavero, per lo che me n΢andai dal Bascia, e gli lo dimandai per dargli sepoltura, e dopo d΢haverme fatti ostacoli, finalmente havendo regalati alcuni delli suoi con cinquanta scudi incirca, hebbi il sudetto cadavero, quale con quella maggior pompa che s΢è possuto fare in quella parte l΢habbiamo sepelito dentro una cassa nella chiesa sudetta di S. Antonio et da Calfaul turco però bonissimo intendente della lengua greca che fù uno di quelli che strangolorno detto patriarca, dal luogotenente del Bascia Mehmet Celebi e da Britio Giustiniano Sciotto scrivanello di detto Bascia, quali si trovorno presenti alla morte del detto patriarca, me fu detto come verso le due hore di notte della detta vigilia di S. Giovanni Battista mentre il detto Calfaul haveva posta la corda duplicata grossa quanto la grossezza d΢un dito piccolo humano della mano ordinario al collo per afforarlo che detta corda (dicendo il patriarca in lingua greca che i sudetti l΢intendevano in manus tuas commendo spiritum meum) s΢era rotta con molta faciltà senza offendere niente detto patriarca il che poi successe nel medesimo tempo per altre due volte che del medesimo modo con la corda duplicata l΢haveano voluto strozzare del che essi astanti restorno grandemente maravigliati, parendogli che naturalmente non poteva spezzarsi quella corda dicendo che quello patriarca non haveva peccato e tenendolo per miracolo. E publicamente poi in Tunisi si disse che la detta corda s΢era rotta per miracolo, essendo restato finalmente alla quarta volta strangolato, dicendo sempre quelle parole in manus tuas, Domine commendo spiritum meum. E così il detto Bascia come il suo luogotenente me dissero che Bechir Bascia in Costantinopoli quale haveva havuti quattro mila piastre dalli seguaci del predecessore patriarca heretico haveva trovato vania e detto al Gran Vezir come il patriarca Cirillo di Veria haveva machinato con i christiani di fare una rebellione nella Barbaria contro i turchi e che per tal΢ occasione il detto gran vezir diede ordine che fosse detto patriarca strangolato dove si trovasse, si come fu eseguito in Tunesi. E per le sudette cose e per quel che publicamente ho inteso parlare del sudetto patriarca così in Levante come in Barbaria e per la stretta prattica che ho havuto con lui in detto tempo, havendo viste le sue attioni e pacienza, tengo che sia stato un gran huomo da bene e servo d΢Iddio et hoggi santo martire, come anche è tenuto da tutti suoi conoscienti comunemente e più volte in presenza mia il sudetto Apttrauman Bascia gl΢ha detto che se lui si facesse turco gl΢haverebbe dato tutto il suo governo in potere e fattolo in suo luogo, del che detto patriarca se ne burlava e gl΢ha fatta sempre repulsa. Et io che trattai col detto Bascia più volte la liberatione del detto patriarca per condurlo in christianità e dalla Santità di N. Signore havendone havuta buona intentione promes(s)i al detto Bascia tre mila piastre del mio, però egli ne volse più, del che il detto patriarca me sconsiglio dicendomi che 111 Iddio haverebbe provveduto e che forse da Costantinopoli haverebbe venuto l΢ordine di sua liberatione e qualche somma di denaro, e potersi liberare con meno somma di quel che voleva detto Bascia. E puo esser informato delle genti che son΢ in εalta d΢alcune cose delle sopradette Leone Berdesci Sciotto del rito greco, o forse altri. Quibus habitis etc. Io Michele Velasto affermo ut supra. 112 VI Risposta dei Patriarchi orientali al papa Pio IX 1848 A tutti i nostri cari ed amati fratelli nello Spirito Santo155, i venerabili vescovi, al loro pio clero e a tutti gli ortodossi, veri figli della Chiesa santa, una, cattolica ed apostolica, un fraterno saluto nello Spirito Santo e la benedizione di Dio. § 1. Sembrava che la dottrina santa e divina del Vangelo della nostra redenzione fosse destinata ad essere preservata nella fede di tutti intatta e pura come il Signore l΢aveva rivelata ai suoi santi discepoli, allorché egli si è immolato per fondarla prendendo l΢aspetto di un uomo, schiavo del peccato, scendendo dal divino grembo del Padre. Tale (dottrina) i suoi discepoli, avendola ascoltata con i propri orecchi, avendo visto con i propri occhi, l΢hanno proclamata per tutta la terra, come delle trombe sonanti (di modo che tutta la terra ha sentito la loro voce e le loro parole sono arrivate sino ai confini dell΢universo). E come loro l΢hanno trasmessa a tutti i popoli senza alcuna alterazione, così i grandi ed ispirati Padri della chiesa cattolica, eco degli apostoli per tutta la terra, ripetendola insieme nei concili e singolarmente nelle loro opere hanno trasmesso fino ai nostri giorni i loro divini insegnamenti. Eppure, il principe di ogni male, il nemico spirituale della salvezza degli uomini, allo stesso modo in cui una volta nell΢Eden aveva assunto l΢immagine ingannevole del buon consigliere per fare trasgredire all΢uomo il comandamento espresso di Dio, così, in questo Eden intellettuale, cioè la Chiesa di Dio, egli inganna un gran numero di uomini portandoli a pensieri cattivi ed empi. Poi servendosi di essi come di suoi strumenti, mescolando il veleno dell΢eresia alle limpide acque della dottrina ortodossa in coppe che sembrano indorare la dottrina evangelica, dà da bere a parecchi innocenti, che non sanno nella vita guardarsi dal male, che non prestano la dovuta attenzione a ciò che hanno ascoltato (Ebrei XI, 1) , a ciò che è stato proclamato dai loro padri (Deuter. XXXII, 7) nello spirito del vangelo, in sintonia con coloro che devono essere i nostri eterni maestri; che non credono sufficiente alla salute delle loro anime la parola detta e scritta dal Signore, e l΢autorità perenne della Chiesa, ma che corrono dietro i cambiamenti e le innovazioni del culto, come dietro la moda dei vestiti, e preferiscono abbracciare l΢insegnamento evangelico macchiato di gravi alterazioni. § 2. Ecco l’origine delle molteplici mostruose eresie che la chiesa cattolica, dalla sua culla, rivestendosi dell΢armatura di Dio e brandendo la spada spirituale, cioè la parola di Dio (Ef. V, 17) è stata costretta a combattere. Fino ad oggi essa ha 155 Edita in Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. 40, col. 377-418 113 trionfato contro tutte, e certamente trionferà per tutti i secoli, riapparendo eternamente più radiosa e più forte dopo ogni nuovo combattimento. § 3. Di tutte queste eresie, alcune sono completamente scomparse, altre stanno scomparendo, altre vivacchiano, altre conservano ancora un certo vigore fino a che non abbiano fatto il loro tempo; qualcuna si sta perfino sviluppando, al fine di percorrere il suo arco di tempo che va dalla nascita alla sua dissoluzione. Poiché essendo niente altro che miserabili concezioni e invenzioni di uomini miserabili sono destinate, anche se vivessero mille anni, a svanire nel nulla, colpite dai fulmini dell΢anatema dei sette concili ecumenici. Solo l΢ortodossia della Chiesa cattolica ed apostolica, animata dalla vivifica parola di Dio, è destinata a vivere e durare eternamente, secondo l΢infallibile promessa del Signore: Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt XVI, 18); il che significa, secondo la spiegazione dei santi padri, che le bocche degli empi e degli eretici, quantunque eloquenti, abili e persuasive, non resisteranno di fronte al suo sereno e santo insegnamento. Del resto, che cosa importa che la via dei peccatori abbia successo! Che cosa importa che gli empi si glorifichino e che si elevino come i cedri del Libano (Salmo XXXVI, 45), sforzandosi di attentare al culto immutabile di Dio! La parola di Dio è irrevocabile; e la Chiesa, benché preghi ogni giorno che questo angelo del male Satana sia da essa allontanato, sente la voce del Signore che le dice: La mia grazia ti basta, poiché è nell’infermità che si rivela la mia forza (II Cor. XII); ecco perché, essa si compiace con orgoglio delle sue sofferenze, affinché la virtù di Gesù Cristo venga a riposare su di essa, e affinché gli eletti possano manifestarsi nel gran giorno (I Cor. XI, 19). § 4. Tra le eresie che, per decreti che solo Dio conosce, si sono sparse su una gran parte dell΢universo, un tempo dominava l΢arianesimo, oggi il papismo; ma quest΢ultimo, come l΢altro che è interamente scomparso, non avrà vita lunga, a dispetto della sua forza apparente. Esso passerà e andrà a fondo e allora si sentirà una voce celeste dall΢alto: Si è inabissato (Ap. XII, 10). § 5. La dottrina nuova dello Spirito Santo che procederebbe dal Padre e dal Figlio è contraria alla formale dichiarazione di nostro Signore (Gv XV, 26): che lo Spirito Santo procede dal θadre; è contraria all΢universale professione della Chiesa cattolica, secondo la testimonianza dei sette concili ecumenici che hanno stabilito che lo Spirito Santo procede dal Padre (Simbolo della fede). 1°. Questa dottrina rinnega la testimonianza del Vangelo che fa emanare da un principio unico, ma in modo diverso, le divine persone della Santa Trinità. 2°. Essa indica l΢idea di rapporti ineguali e dissimili tra queste persone ugualmente potenti e degne d΢adorazione, e la confusione dei loro attributi. 3° Essa accusa come imperfetta, o almeno come oscura e difficile da comprendere, la confessione della Chiesa santa, una, cattolica ed apostolica. 4° essa attenta alla dottrina dei santi padri del primo concilio ecumenico di Nicea, e dei padri del secondo concilio ecumenico di Costantinopoli, accusandoli di avere esposto in maniera imperfetta gli attributi del Figlio e dello Spirito Santo, di aver passato sotto silenzio una così importante proprietà della natura divina di ciascuna persona, quando invece era necessario che tutti i loro divini attributi fossero ben definiti contro gli ariani e i Macedoniani. 5°. Essa insulta i padri del 3°, 4°, 5°, 6° e 7° concilio ecumenico che hanno dichiarato a tutto l΢universo che il simbolo della fede era completo e perfetto, al punto da proibire a sé stessi e a tutti gli altri, sotto pena d΢irrevocabili scomuniche, qualsiasi aggiunta o menomazione, qualsiasi alterazione, qualsiasi spostamento persino di accenti. E invece, secondo la dottrina di Roma era necessario fare questa 114 correzione e aggiunta. E΢ stato necessario cioè modificare tutto l΢insegnamento teologico dei padri cattolici, pretendendo di aver scoperto un nuovo attributo in ciascuna delle tre persone della Santa Trinità. 6° Quest΢aggiunta si è inizialmente furtivamente intrufolata nelle chiese d΢ηccidente, come il lupo in veste di agnello, col pretesto che esprime non la processione, secondo l΢accezione greca del vangelo e del simbolo, ma la missione nel tempo; poiché è così che cercava di giustificarsi il papa Martino con Massimo il Confessore, ed è così che spiegava la cosa Anastasio Bibliotecario sotto Giovanni VIII. 7°. Essa ha particolarmente violato con una inconcepibile audacia e alterato il simbolo stesso che è il comune deposito del cristianesimo. 8° Essa ha introdotto discordie immense nella pacifica chiesa di Dio, e diviso le nazioni. 9° Essa è stata condannata pubblicamente sin dalla sua prima apparizione da due papi immortali, Leone III e Giovanni VIII. Quest΢ultimo ha perfino accomunato a Giuda , nella sua lettera al venerabile Fozio, coloro che l΢hanno per primi inserita nel simbolo. 10° Essa è stata condannata da vari nobili sinodi dei quattro patriarchi dell΢ηriente, 11°. Essa è stata colpita d΢anatema in quanto innovazione e addizione al simbolo dall΢VIII concilio ecumenico tenuto a Costantinopoli per pacificare le chiese d΢oriente e d΢occidente, 12° Appena essa si è insinuata nelle chiese d΢occidente ha cominciato a generare altre dottrine riprovevoli, oppure essa stessa ha introdotto poco a poco altre novità, in gran parte contrarie ai precetti di nostro Signore formalmente scritti nel Vangelo, precetti religiosamente conservati fino a che essa non fosse introdotta nelle chiese, le quali da allora hanno cominciato ad ammettere: l΢aspersione invece dell΢immersione nel battesimo, la privazione del santo alimento per i laici, la soppressione del pane unico spezzato e distribuito ai fedeli e conseguente uso dell΢ostia, il pane azzimo invece del lievitato, l΢omissione nel rito della messa dell΢invocazione dello Spirito Santo, l΢abolizione delle antiche cerimonie apostoliche della chiesa cattolica; si è da allora cessato di ungere i bambini dopo il battesimo e di dare loro la santa comunione; si è proibito agli uomini sposati di accedere agli ordini sacri; si è trasferita sulla persona del papa l΢infallibilità e il vicariato di Gesù Cristo, ecc. Così questa dottrina ha rinnegato tutto l΢antico rituale degli apostoli, andando ad intaccare tutti i sacramenti e tutto l΢insegnamento conservato dall΢antica, santa e ortodossa chiesa di Roma, che allora era uno dei membri più nobili della santa chiesa cattolica ed apostolica, 13° Essa ha spinto i teologi occidentali, che sono divenuti suoi difensori, non solo a false interpretazioni della Scrittura che non si possono trovare in alcuno dei padri della chiesa cattolica, ma anche ad una alterazione dei testi puri e santi dei divini padri d΢oriente e d΢occidente, non potendosi questa dottrina appoggiarsi ad alcun brano della Bibbia o dei santi padri, e bisognava quindi adattarli artificiosamente a queste innovazioni sopradette in materia di dogma, 14° Essa è apparsa estranea, inaudita e blasfema persino alle altre società cristiane che, prima della sua apparizione, erano state escluse per alcune giuste ragioni dal vero gregge del Signore, 15° Nessuna difesa che abbia un minimo di credibilità a che sia appena plausibile, tirata dalle scritture o dai padri, ha potuto essere addotta a suo favore, a dispetto di tutto l΢impegno e di tutti gli sforzi dei suoi difensori che non sono riusciti a collocarla in una delle categorie suddette. Una tale dottrina presenta naturalmente tutte le caratteristiche di una dottrina nuova, e come ogni dottrina nuova relativa al dogma cattolico sulla santa Trinità e sui suoi attributi divini, e specialmente al modo di esistenza dello Spirito Santo, è e deve essere dichiarata eresia, e coloro che adottano una tale dottrina sono degli eretici, come giustamente disse il papa Damaso, papa di Roma: Colui 115 che penserà rettamente del Padre e del Figlio, ma avesse opinioni erroneesullo Spirito Santo, è un eretico (Confessione della Fede cattolica, inviata dal papa Damaso a Paolino, vescovo di Tessalonica). Per tutte queste ragioni la santa chiesa, una, cattolica e apostolica, sulla scia dei santi padri d΢oriente e d΢occidente, ha dichiarato al tempo dei nostri avi e dichiara apertamente anche oggi in pieno sinodo che questa nuova dottrina di cui abbiamo parlato e che fa procedere lo Spirito Santo dal θadre e dal Figlio, è essenzialmente un΢eresia, secondo la decisione conciliare del papa Damaso, e i seguaci di questa dottrina, chiunque essi siano, sono eretici, come eretiche sono le assemblee di cui fanno parte, ed ogni comunicazione spirituale e religiosa con essi da parte dei figli ortodossi della chiesa cattolica, è illecita. E ciò in virtù del 7° canone del 3° concilio ecumenico. § 6. Questa eresia che ha comportato, come abbiamo detto, una massa d΢altre innovazioni (accolte verso la metà del VII secolo senza precisi lineamenti e senza che ne fosse chiarita la portata dottrinale), insinuandosi poco a poco secondo diversi significati nelle province occidentali dell΢Europa nel corso di quattro o cinque secoli, l΢ha avuta vinta, grazie all΢incuria dei pastori del tempo e alla protezione sei sovrani, sull΢antica ortodossia di questi paesi. Essa non solo indusse in errore le chiese sino ad allora ortodosse della Spagna, ma anche quelle della Germania, della Gallia e dell΢Italia stessa, la cui ortodossia era fino ad allora rinomata in tutto il mondo; chiese con le quali spesso comunicavano i nostri santi padri, come il grande Atanasio e il divino Basilio, e grazie all΢unione di esse con noi nella volontà e nell΢azione fino al 7° concilio ecumenico si conservò intatto l΢insegnamento della chiesa cattolica ed apostolica. Successivamente, purtroppo, il nemico di ogni bene provò invidia di questa nostra unione, e così la nuova dottrina che toccava la teologia sana e ortodossa dello Spirito Santo (bestemmia che non sarà giammai rimessa agli uomini né al presente né nei secoli a venire) secondo la decisione di nostro Signore (Mt XII), andò ad inficiare poi i santi sacramenti, specialmente i sacramenti salvifici del battesimo e della santa comunione, con innovazioni sul clero. Tutte queste mostruose innovazioni, una dopo l΢altra, hanno invaso persino l΢antica Roma, che rivestiva una grande importanza nella chiesa, e da allora questa dottrina fu designata con la speciale denominazione di papismo. Infatti, i vescovi di Roma, chiamati papi, benché agli inizi qualcuno di essi si sia pronunciato solennemente contro l΢innovazione, in particolare δeone III e Giovanni VIII come abbiamo detto, e l΢abbiano condannata dinanzi a tutti, l΢uno con le famose tavole d΢argento, l΢altro mediante la sua lettera al venerabile Fozio nell΢VIII concilio ecumenico e mediante la sua lettera a Sfendopulcro a favore di Metodio, vescovo della Moravia, tuttavia la maggior parte dei loro successori, sedotti dalle prerogative che forniva loro l΢eresia contro i concili, al fine di dominare le altre chiese di Dio, trovando in questi privilegi enormi vantaggi mondani e una grande utilità, sognando un potere assoluto sulla chiesa cattolica e il monopolio delle grazie dello Spirito Santo, non soltanto hanno alterato l΢antica pietà, separandosi con le innovazioni dal resto della società cristiana stabilita dall΢antichità, ma hanno persino tentato, con macchinazioni illecite, come dice la storia verace, di trascinare nella loro separazione violenta, nella loro rivolta contro l΢ortodossia, gli altri quattro patriarcati, assoggettando così la chiesa universale alle decisioni e agli ordini di un solo uomo. § 7. I nostri predecessori, di felice memoria, e i nostri padri, vedendo l΢antico insegnamento evangelico messo sotto i piedi, e la celeste tunica di nostro Signore lacerata da mani empie, mossi da un amore paterno e fraterno, piansero in un 116 primo momento la perdita di tanti cristiani per i quali Gesù Cristo è morto, successivamente con uno sforzo comune ed una comune volontà misero ogni cura e tutto il loro onore, sia conciliarmente che singolarmente, nel conservare l΢insegnamento ortodosso della santa chiesa cattolica, a ricucire per quanto potevano ciò che era stato strappato, e come medici esperti si consultarono suk come salvare il membro malato, sopportando ogni sorta di amarezza, di disprezzi e di persecuzioni, all΢unico scopo di impedire che il Corpo di Cristo non fosse smembrato, che le norme decise nei santi concili non fossero calpestate. Ma la storia vera ci ha trasmesso l΢inflessibile ostinazione dell΢occidente nell΢errore. Questi uomini illustri dovettero convincersi della verità che contenevano le parole del nostro santo padre Basilio che, fatto edotto dall΢esperienza, già allora diceva dei vescovi dell΢occidente e del papa: Essi non conoscono la verità né tollerano che qualcuno la insegni loro; essi litigano con coloro che vogliono mostrare loro la verità, e con i loro esempi essi rafforzano l’eresia (Lett. A Eusebio di Samosata). Così i nostri pii predecessori, dopo una prima ed una seconda ammonizione fraterna, prendendo atto che gli occidentali non hanno alcuna intenzione di pentirsi, si allontanarono e rinunciarono ad ogni speranza, abbandonandoli ai loro pensieri malvagi poiché la guerra è preferibile alla pace che ci separa da Dio, come ha detto il nostro santo padre Gregorio parlando degli Ariani. Da allora non c΢è stata più alcuna comunione spirituale tra loro e noi, poiché il solco che essi hanno scavato con le proprie mani tra di essi e l΢ortodossia è molto profondo. § 8. Tuttavia il papismo non ha smesso di turbare la tranquilla chiesa di Dio. Inviando ovunque dei missionari, dei trafficanti d΢anime, esso vaga per terra e per mare per fare proseliti, per sedurre un ortodosso, per alterare l΢insegnamento di nostro Signore, per falsificare con un΢aggiunta il divino simbolo della nostra fede, per dimostrare che il battesimo nella forma che Dio ci ha trasmesso è superfluo, per dimostrare che che la comunione col calice del testamento è inutile, e diffondere le altre mille cose che il demone delle novità suscitò nei dottori del medioevo, la cui audacia ha toccato ogni cosa, e nei vescovi dell΢antica Roma che la brama del potere ha spinto a tutto osare. I nostri pii predecessori e padri, benché perseguitati in tutti i modi dal papismo, sia nei propri paesi che all΢estero, sia direttamente che indirettamente, ponendo la loro fiducia nel Signore, poterono conservare e trasmetterci intatto questo inestimabile retaggio dei loro padri. Noi, a nostra volta, lo trasmetteremo con l΢aiuto di Dio, come un tesoro prezioso alle future generazioni fino alla fine dei secoli. Ma i papisti non cessano e non la smetteranno, secondo il loro costume, di accanirsi contro l΢ortodossia che si erge dinanzi ai loro occhi come una vivente accusa quotidiana della loro rivolta contro la fede dei loro avi. Ah, se avessero diretto i loro attacchi contro l΢eresia che ha invaso ed ha dominato l΢occidente ! θoiché chi potrebbe dubitare che tutto il loro zelo impiegato per distruggere l΢ortodossia, se fosse stato diretto alla distruzione dell΢eresia e delle novità, secondo i pii consigli di δeone III e Giovanni VIII, immortali ed ultimi papi ortodossi, da tempo non ne sarebbe rimasta traccia nell΢universo e noi ora terremmo uno stesso linguaggio, secondo il comando dell΢apostolo. εa lo zelo dei successori di questi due pontefici non fu diretto alla difesa della fede ortodossa, come era lo zelo memorabile del beato Leone III. § 9. Gli attacchi degli antichi papi, fino ai tempi recenti, provenendo dalle loro persone, erano cessati, e restavano solo quelli di qualche missionario. Ma recentemente colui che nel 1846 è salito sulla cattedra episcopale di Roma ed è stato proclamato papa col nome di Pio IX, ha pubblicato il 6 gennaio di quest΢anno 117 una lettera enciclica diretta ai Cristiani d’ηriente, composta di 12 fogli nella traduzione greca che il suo legato ha diffuso come un miasma importato da fuori in mezzo al nostro ovile ortodosso. In questa enciclica egli parla a coloro che in diverse epoche si sono staccati dalle diverse comunioni cristiane per gettarsi fra le braccia del papismo, e che egli conseguentemente considera suoi. Inoltre, egli si rivolge ugualmente agli ortodossi, senza specificarne il nome, ma citando per nome (p. 3, l. 14-18; p. 4, l. 19, e p. 9, l. 17-23) i nostri divini padri, dipinge sotto falsa luce essi e i nostri successori coi loro discendenti. I primi, considerandoli sottomessi senza alcun esame agli ordini e alle decisioni dei papi, per il fatto stesso che le decisioni provenissero dai papi, come arbitri della chiesa universale. Noialtri, considerandoci come trasgressori dei loro esempi, e quindi accusandoci presso i fedeli che Dio ci ha confidati, di esserci violentemente separati dai nostri padri, e di non tener conto dei nostri sacri doveri e della salvezza dei nostri figli spirituali. Poi, appropriandosi come di un suo bene personale della chiesa universale di Gesù Cristo, col pretesto che egli occupa, come si vanta, la cattedra episcopale di S. Pietro, vuole ingannare i semplici e strapparli all΢ortodossia, ripetendo queste parole che suonano così strane all΢orecchio di chiunque abbia un po΢ di infarinatura di teologia (p. 10, l. 29): Voi non avete neppure una ragione o un pretesto per non tornare nel seno della vera chiesa e nella comunione con questa Santa Sede. 10. Chiunque dei nostri fratelli e dei nostri figli in Gesù Cristo che abbia avuto un΢educazione ed un΢istruzione religiosa, guidato dalla saggezza che viene dall΢alto, senza dubbio capirà leggendo attentamente le parole dell΢attuale vescovo di Roma, come del resto quelle dei suoi predecessori dopo lo scisma, che non si tratta, come egli dice, di parole di pace e di amore paterno (p. 7, l. 18), ma di parole d΢inganno e di conquista, non avendo altro scopo che l΢interesse particolare, secondo l΢abitudine dei suoi predecessori, tenaci avversari dei concili. ζoi siamo perciò sicuri che gli ortodossi non si lasceranno trarre in inganno, come hanno fatto fino ad oggi, poiché abbiamo fiducia nella parola del Signore (Gv XV): Essi non seguiranno lo straniero, ma lo fuggiranno, poiché essi non riconoscono la voce degli stranieri. § 11. Tuttavia riteniamo nostro dovere paterno e fraterno, nostro sacro dovere, di confermarvi mediante questa lettera pastorale nell΢ortodossia che avete avuto dai vostri avi e allo stesso tempo di segnalare brevemente la debolezza dei ragionamenti del vescovo di Roma, che del resto la sente lui stesso. Infatti, non è dalla confessione apostolica che egli deduce la gloria della sua sede, ma è dalla sua sede apostolica che egli fa derivare il primato e da questo primato fa derivare l΢autorità della sua confessione. εa le cose non vanno così. θoiché, non soltanto la sede romana, che per una semplice tradizione si crede sia stata onorata da S. Pietro, non ha mai avuto alcun diritto di mettersi al di sopra del giudizio delle sacre Scritture e delle decisioni dei concili, ma questo stesso diritto non è stato mai attribuito neppure alla sede che, secondo la testimonianza delle Sacre Scritture, è veramente appartenuta a S. Pietro, vale a dire la sede di Antiochia la cui chiesa è ricordata in tal senso da S. Basilio (Lettera ad Atanasio il Grande): la chiesa più importante fra tutte le chiese del mondo; inoltre, il secondo concilio ecumenico scrivendo al concilio degli occidentali (ai onoratissimi e religiosissimi fratelli e colleghi Damaso, Ambrogio, Britton, Valeriano ecc.) porta questa testimonianza: La molto venerabile e veramente apostolica chiesa di Antiochia in Siria, la quale per prima vide nascere il glorioso nome di cristiano. εa non c΢è ragione di dire di 118 più, quando la persona stessa di S. Pietro è stata giudicata dinanzi a tutti in base alla verità del Vangelo (Gal. II), e secondo sta scritto, lo stesso S. Pietro è stato trovato degno di biasimo, e in cammino non secondo la retta via. Che cosa dobbiamo allora pensare di coloro che si vantano e si inorgogliscono unicamente perché posseggono la sede a lui attribuita ? In effetti, S. Basilio il Grande, questo maestro universale dell΢ortodossia nella chiesa cattolica, al quale gli stessi vescovi di Roma sono obbligati a rinviarci (p. 8, l. 31), ci ha chiaramente e nettamente spiegato sopra (§ 7), quale stima noi dobbiamo avere dei giudizi del Vaticano. Egli dice: Questi uomini non conoscono la verità e non tollerano che qualcuno gliela insegni. Essi litigano con coloro che annunciano loro la verità, e con i loro esempi incrementano l’eresia. Così dunque, gli stessi santi padri che sua santità cita ammirandoli a ragione per aver illuminato anche l΢occidente, e dei quali ci consiglia di seguire l΢insegnamento (stessa pagina) ci insegnano che noi non dobbiamo giudicare l΢ortodossia dalle insinuazioni della Santa Sede, ma che dobbiamo giudicare la Santa Sede e colui che l΢occupa, in base alle Sacre Scritture, le decisioni e i limiti imposti dai concili e sulla base della fede confermata, cioè secondo l΢ortodossia dell΢insegnamento eterno. E΢ secondo questi princìpi che i nostri padri hanno giudicato e censurato conciliarmente Onorio, papa di Roma, Dioscoro, papa di Alessandria, Macedonio e Nestorio patriarchi di Costantinopoli, Pietro, patriarca di Antiochia, ecc. Poiché, se l’abominazione della desolazione può risiedere ion un luogo sacro, secondo la testimonianza della Scrittura (Dan., IX, 27, e εt XXIV, 15), perché l΢innovazione e l΢eresia non potrebbero trovarsi sulla Santa Sede ? Quanto detto può servire a provare in poche parole l΢insufficienza e la debolezza degli altri argomenti (p. 8, l. 9, 11, 14) che vorrebbero affermare il primato del vescovo di Roma. Poiché, se la chiesa di Gesù Cristo non fosse stata fondata sulla pietra incrollabile della confessione di Pietro (e questa confessione è stata la risposta comune di tutti gli Apostoli alla domanda del loro maestro: E voi, chi credete che io sia? (Mt XVI, 15), confessione consistente nelle parole: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (ivi, 16), secondo la spiegazione di tutti i santi padri dell΢oriente e dell΢occidente), essa non avrebbe che delle fondamenta vacillanti anche se poggiasse sulla persona di Pietro, figuriamoci su quella dei papi i quali, dopo essersi impadroniti in modo esclusivo delle chiavi del regno dei cieli, ne hanno fatto in seguito un uso che la storia denuncia fin troppo chiaramente. Quanto al senso della triplice ingiunzione: Pasci le mie pecore, i nostri comuni maestri, i santi padri, sono concordi nello spiegarle non come una prerogativa data a S. Pietro rispetto agli altri apostoli e ancor meno ai suoi successori, ma soltanto come la sua riabilitazione nell΢apostolato dal quale era decaduto per avere tre volte rinnegato il suo maestro. S. Pietro stesso sembra che abbia così inteso il senso della triplice domanda del Signore: Mi ami tu ? e di queste parole: più di costoro ? (Gv XXI, 16); poiché, ricordandosi ciò che aveva detto al Signore: Anche se tu dovessi diventare oggetto di scandalo per tutti, non lo sarai mai per me (§ 12), egli si rattristò sentendosi chiedere per tre volte: Mi ami tu? Ora, i suoi successori non hanno voluto vedere in queste parole del Salvatore che la straordinaria benevolenza verso S. Pietro, perché questo conveniva ai loro scopi. § 12. Sua Santità dice ancora (p. 8, l. 12) che nostro Signore disse a Pietro (Lc XXII, 25): Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. Quando dunque tu sarai convertito, abbi cura di confermare i tuoi fratelli. La preghiera di nostro Signore fu proferita a motivo del fatto che Satana cercava di tentare (ivi, 31) la fede di tutti i discepoli, e il Signore l΢aveva permesso solo nei confronti di Pietro, 119 e ciò perché Pietro aveva pronunciato quelle parole presuntuose, stimandosi al di sopra degli altri discepoli (Mt XXVI, 33), dicendo: Anche se tu diventassi oggetto di scandalo per tutti gli altri, non lo sarai mai per me. Ma questo permesso del Signore non fu per un tempo molto lungo: Pietro si mise ad affermare con giuramento che egli non conosceva affatto quell’uomo. Tanto la natura umana è debole allorché è abbandonata a sé stessa ! Lo spirito è pieno di zelo, ma la carne è debole (Mt XXVI, 41). Questo permesso, abbiamo detto, fu temporaneo affinché, rientrato in sé stesso e tornato al Signore, egli potesse, con la sua conversione con lacrime di pentimento, confermare maggiormente i suoi fratelli nella loro fede in colui che essi non avevano rinnegato né ripudiato con un giuramento. I decreti del Signore sono davvero pieni di saggezza ! E quanto divina e grande fu essa quell΢ultima notte passata dal Salvatore sulla terra ! Questa stessa cena mistica noi crediamo che la realizziamo ogni volta sino ad oggi in virtù del comandamento: Fate questo in memoria di me (Lc XXII, 19), ed altrove: Tutte le volte che voi mangerete questo pane e berrete questo calice, voi annuncerete la morte del Signore fino al giorno che ritornerà (Paolo, I Cor. XI, 26). Questo amore fraterno che a noi tutti è stato raccomandato con tanta insistenza dal maestro: E’ da questo che tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri (Gv XIII, 35), quest΢amore di cui i papi hanno per primi lacerato il patto e il pegno, proteggendo e permettendo delle innovazioni eretiche in contrasto con quanto era stato insegnato e stabilito dai nostri comuni maestri e padri, è lo stesso amore, noi diciamo, che agisce sino ad oggi sulle anime dei popoli rimasti fedeli all΢insegnamento di Cristo, e in modo particolare sulle anime dei loro pastori. Poiché noi dichiariamo pubblicamente dinanzi a Dio e agli uomini, che la preghiera di nostro Signore a Dio suo Padre che la carità reciproca regni tra i cristiani tenendoli uniti nel grembo della stessa chiesa, santa, cattolica ed apostolica, alla quale noi crediamo, che essi siano uno, come noi siamo uno (Gv XVII, 22), operi in noi come su sua Santità. Qui il nostro affetto e il nostro zelo fraterno si confondono con quelli di sua santità, con questa sola differenza che noi ci mettiamo la condizione di conservare intatto e puro il divino, irreprensibile e perfetto simbolo di fede dei cristiani, secondo la parola del Vangelo e i canoni dei sette concili ecumenici, e in conformità alla dottrina della chiesa universale, invariabile nella sua perpetuità, mentre invece sua Santità non vede in questa unione che dei mezzi per rafforzare e aumentare il potere e la preminenza di coloro che occupano la sede pontificia, e di estendere l΢autorità dei loro moderni insegnamenti. Questo è in fondo il punto centrale della discussione, tale il muro di separazione che si erge fra loro e noi. Noi speriamo che la divina predizione (ivi, X, 16) : Io ho ancora altre pecore che non sono di questo ovile. Bisogna ugualmente che io le conduca, ed esse ascolteranno la mia voce (che lo Spirito procede dal Padre), assecondata dalla saggezza tanto vantata di sua santità, eliminerà nel corso del suo pontificato, le differenze che ancora ci dividono. Ed ora, terza considerazione. Supponendo, secondo le parole di sua Santità, che la preghiera di nostro Signore a favore di Pietro, che doveva poi rinnegarlo mancando al giuramento, sia relativa ed inerente alla sede di Pietro, e che la sua influenza si trasmetta a coloro che nel corso del tempo occupino quella cattedra, benché come abbiamo già detto (§ 11) una simile supposizione non conferma in alcun modo questa dottrina (come siamo convinti seguendo le Scritture proprio dall΢esempio di S. Pietro, persino dopo la discesa dello Spirito Santo), risulta comunque positivamente dalle parole del Signore, che deve venire un tempo in cui questa 120 preghiera, fatta in previsione del rinnegamento di Pietro, affinché la fede non gli venisse poi meno, agirà su qualcuno dei suoi successori che, come lui, piangerà amaramente e, tornando su sé stesso, ci confermerà con altrettanta autorità, noi suoi fratelli, nella confessione ortodossa che noi abbiamo ricevuto dagli antichi. E piacesse al cielo che questo vero successore di S. Pietro fosse proprio sua Santità! Ma a questo umile auspicio da parte nostra è lecito aggiungere un sincero e cordiale consiglio nel nome della santa chiesa universale ? Senza dubbio noi non osiamo esprimerci come sua Santità, noi non pretendiamo che si prenda una decisione così importante senza alcuna preparazione. Noi diciamo al contrario, che si proceda con cautela, dopo matura riflessione e, se necessario, dopo essersi consultati con i teologi più sapienti, con i più pii, i maggiori amici della verità e i più esenti da pregiudizi tra i vescovi i quali, per la grazia di Dio, abbondano oggigiorno presso tutte le nazioni dell΢occidente. § 13. Sua Santità dice che Ireneo, vescovo di Lione, scrive a lode della chiesa romana: E’ necessario che ogni chiesa si allinei (ad essa), vale a dire, tutti i fedeli ovunque si trovino, a causa della preminenza di questa chiesa che ha conservato fedelmente l’insegnamento trasmesso dagli apostoli su tutto ciò che credono i fedeli nel mondo. Benché questo padre abbia detto tutt΢altro rispetto a ciò che pensano i partigiani del Vaticano, noi lasceremo che da questo passo si intenda ciò che loro conviene, e domanderemo loro: Chi nega che l΢antica chiesa di Roma non sia stata apostolica ed ortodossa ? Anzi noi rinvieremo, a sua grande lode, a quanto dice lo storico Sozomeno (Hist. Eccl. L. III, cap. 12) sul modo in cui essa è riuscita fino ad una certa epoca a consevare l΢ortodossia che noi lodiamo in essa, e che sua Santità ha omesso : In generale, la chiesa di tutto l’occidente, attenendosi rigorosamente ai dogmi trasmessi dai nostri santi padri, si è tenuta esente da ogni divisione e da ogni aberrazione in materia religiosa. Del resto, chi tra i nostri padri, chi di noi stessi ha giammai negato le sue prerogative canoniche nell΢ordine della gerarchia, fintato che essa si governava attenendosi al tenore dei dogmi trasmessi dai nostri padri, aderendo così alla regola infallibile della Scrittura e dei santi Concili ? εa al giorno d΢oggi noi non troviamo più in essa conservato né il dogma della santa Trinità, secondo il simbolo dei santi padri riuniti nel primo concilio di Nicea e nel secondo di Costantinopoli; simbolo che essi hanno professato, che hanno sanzionato, e di cui la minima deviazione è stata colpita d΢anatema dai cinque concili successivi. Noi non riscontriamo più in essa il tipo apostolico del santo battesimo, né l΢invocazione dello Spirito sui Sacramenti. Noi vediamo al contrario con dolore che essa considera il calice stesso come superfluo, e un gran numero di altre cose sconosciute non soltanto ai nostri santi padri, che sono sempre stati la regola universale e guide infallibili dell΢ortodossia, come sua Santità stessa insegna in rispetto della verità (p. 2), ma sconosciute agli stessi padri dell΢occidente. Una di queste cose è precisamente questa supremazia per la quale sua Santità combatte con tutte le forze, come hanno combattuto i suoi successori; supremazia trasformata in sovranità temporale, mentre all΢inizio era un΢autorità fraterna e una prerogativa gerarchica. Che cosa bisogna dunque pensare di queste tradizioni orali, se le tradizioni scritte hanno subìto un così drastico cambiamento e una tanto forte alterazione verso il male ? E chi è l΢uomo che tanto confida nel diritto della Santa Sede da osare dire che, se S. Ireneo tornasse in vita, vedendo questa chiesa violentemente separata dall΢antico e primo insegnamento apostolico su articoli così importanti ed essenziali del cristianesimo, non si sarebbe opposto, lui per primo, alle innovazioni ai decreti arbitrari di questa 121 stessa chiesa romana, così giustamente allora da lui lodata, in quanto si governava attenendosi strettamente ai dogmi dei nostri padri ? Vedemdo, ad esempio, la chiesa romana che non si accontenta di rigettare dalla sua liturgia, istigata da qualche falso dottore, la tanto antica ed apostolica invocazione dello Spirito Santo, mutilando così pietosamente la liturgia proprio nella sua parte più essenziale, va oltre sforzandosi continuamente di farla rigettare anche dalle altre liturgie delle altre comunioni cristiane, pretendendo falsamente, in maniera indegna della sede apostolica della quale tanto si vanta, che questo uso si è introdotto dopo la separazione (p. 11, l. 11). Che direbbe di questa innovazione il nostro santo padre, egli che assicura (Iren. Lib. IV, cap. 34, ed. Massuet, 18) che: il pane terreno, preso sotto l’invocazione di Dio, non è più un pane ordinario, ecc. Francesco Feu Ardentius, dell΢ordine dei monaci latini chiamati frati εinori, che pubblicònel 1639, con dei commenti le opere di questo santo, segnalò nel cap. 18 del primo libro, p. 114, che sant΢Ireneo credeva che il sacramento della divina liturgia non era compleyo senza questa invocazione: Panem et calicem commixtum per invocationis verba corpus et sanguinem Christi vere fieri. Il pane dell΢eucarestia ed il vino mescolato con l΢acqua nel calice si trasformano davvero con le parole dell΢invocazione in corpo e sangue di Gesù Cristo (sant΢Ireneo). Che direbbe poi riguardo al vicariato terreno e all΢arbitraggio universale che i papi si arrogano, lui che, in occasione della controversia di non grande importanza come la data della Pasqua (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 26), riuscì con le sue energiche e vittoriose rimostranze a mettere a tacere le pretese del papa Vittore che rivelavano disprezzo per la libertà cristiana nella chiesa di Gesù Cristo. Così, proprio colui che sua Santità porta a testimone della supremazia della Chiesa romana, dichiara che il suo diritto non è quello di un sovrano e neppure arbitrale, cosa che S. Pietro stesso non ha mai preteso, ma una semplice presidenza tra fratelli all΢interno della Chiesa universale, un onore concesso ai papi per l΢antichità e la gloria della città. E΢ così che il quarto concilio ecumenico, occupandosi dell΢indipendenza delle chiese, regolata dal terzo concilio ecumenico (can. 8) e seguendo i principi del secondo concilio (can. 3), appoggiandosi sul primo concilio ecumenico (can. 6), che definisce il potere arbitrale del papa sull΢occidente un costume, proclama che i padri hanno dato a giusta ragione la preminenza al vescovo di Roma, perché questa città era la capitale dell’Impero (can. 28), senza quindi dire una sola parola sulla pretesa origine apostolica risalente a S. Pietro, e ancor meno del vicariato dei suoi vescovi e del diritto di essere pastore universale. Un così profondo silenzio intorno a prerogative tanto importanti, e ancor più sulle cause a cui si fanno risalire, vale a dire alle parole: Pasci le mie pecore, oppure Su questa pietra edificherò la mia chiesa. Il riferimento è invece unicamente al ΟcostumeΠ e alla circostanza che questa città era capitale dell’impero, e queste stesse prerogative così spiegate, concesse non dal Signore, ma dai padri, appariranno, ne siamo sicuri, tanto più straordinarie a sua Santità avendo egli tutt΢altra idea della loro origine (p. 8, l. 16), rispetto a come la vediamo noi (§ 15), che invece troviamo la corretta interpretazione nel quarto concilio ecumenico. S. Gregorio Dialogo, soprannominato ΟεagnoΠ, era solito dire che questi quattro concili ecumenici erano come i quattro vangeli e pietra angolare sulla quale è edificata la chiesa universale. § 14. Sua Santità dice che i Corinti (p. 10, l. 12), avendo opinioni discordanti, si rivolsero a Clemente, papa di Roma, che comunicò loro per iscritto il suo giudizio sulla questione. I Corinti tennero la sua opinione in grande stima, al punto 122 da leggerla nelle chiese. Ma questa circostanza è un argomento abbastanza debole a favore dell΢autorità dei papi nella casa di Dio, poiché allora Roma era sede del governo, la capitale ove risiedevano gli imperatori. Era abbastanza ovvio quindi che ogni affare di una qualche importanza, come appare questa differenza di opinioni tra i Corinti, fosse giudicato lì, soprattutto se una delle parti volesse sottomettere la soluzione delle differenze ad un intervento esterno. Ciò accade anche oggi. I patriarchi di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme nei casi straordinari e difficili scrivono al patriarca di Costantinopoli, poiché questa città è la sede dell΢Impero e a motivo della presidenza di questa sede nei sinodi. E se il concorso fraterno aiuta a risolvere le perplessità, tutto finisce lì. Altrimenti ci si rivolge al potere temporale a norma di legge. Ma questo concorso fraterno negli affari della fede cristiana non si esercita a spese dell΢asservimento delle chiese di Dio. Noi possiamo dirlo apportando esempi da S. Atanasio il Grande e da S. Giovanni Crisostomo (p. 9, l. 5, 17). Sua Santità vuole dedurre la prova dell΢autorità fraterna dovuta alle prerogative dei vescovi di Roma riferendosi ai papi Giulio e Innocenzo. I successori di questi papi vogliono costringerci a riconoscere ancora oggi questa autorità anche nell΢alterazione del simbolo divino. Tuttavia noi vediamo che questo stesso Giulio si irritava contro alcuni uomini del suo tempo che turbavano la chiesa non attenendosi ai dogmi di Nicea (Socrate, Storia Ecclesiastica, l. III, cap. 7) minacciandoli di non aver più pazienza nei loro confronti a meno che non la smettessero di introdurre novità. Bisogna inoltre notare nell΢affare dei Corinti, di cui si è parlato prima, che, non essendoci allora che tre sedi patriarcali, qualla di Roma era la più vicina ai Corinti e la più conveniente dopo la divisione dell΢Impero in province. Era dunque a questa sede che dovevano rivolgersi secondo i canoni. Da tutto ciò che precede non si può dedurre alcunché di fuori della norma, nulla che dimostri l΢autorità assoluta del papa nella libera chiesa di Dio. § 15. Sua Santità dice che nel 4° Concilio ecumenico (stessa pagina, l. 20), che per errore dice di Carchedon, dopo la lettura della lettera di Leone Magno, i padri gridarono: Pietro stesso ha parlato per bocca di Leone! Questo è perfettamente vero. Ma sua Santità non avrebbe dovuto passare sotto silenzio come e dopo quale approfondito esame i nostri padri elevarono le loro lodi a Leone. Ma poiché sua Santità, forse per non essere troppo lungo, lascia incompleto il racconto di questo avvenimento così importante e che prova in una maniera che più evidente non si può la superiorità del concilio non solo sul papa, ma anche al suo collegio, noi vogliamo far conoscere ai fedeli tutto ciò che è veramente avvenuto in quel consesso. Su più di 600 padri riuniti al concilio di Calcedonia, 200, i più istruiti, furono incaricati di esaminare la lettera e lo spirito della lettera di Leone, e quindi esprimere per iscritto e con tanto di loro firma un giudizio su di essa, se era o meno ortodossa. Le opinioni motivate di ogni vescovo, 200 di numero, sono riportate letteralmente, soprattutto nei verbali della quarta sessione del detto concilio. Eccone qualche esempio: Massimo, vescovo di Antiochia in Siria, dice: La lettera del venerabile arcivescovo della città capitale di Roma, Leone, è consona a tutto ciò che è stato esposto dai 318 venerabili padri di Nicea, dai 150 di Costantinopoli, nuova Roma, e con la fede esposta ad Efeso dal santo vescovo Cirillo. Io la firmo. E ancora: Teodoreto, vescovo di Ciro: La lettera del venerabile arcivescovo Leone si accorda con la fede esposta a Nicea dai venerabili padri e con il simbolo di fede 123 dettato a Costantinopoli dai 150 padri e con le lettere del venerabile Cirillo. Di conseguenza, assentendo alla suddetta lettera,ho firmato. E così di seguito si esprimono anche gli altri padri: La lettera si accorda, la lettera è consona al senso, ecc. E΢ dopo un così grande e minuzioso esame, dopo averla confrontata coi dogmi dei santi concili precedenti, dopo essersi pienamente convinti della correttezza dei pensieri, e non semplicemente perché era una lettera del papa, che essi proferirono senza alcuna esitazione la famosa esclamazione di cui si vanta e si orna sua Santità. Ma se sua Santità ci avesse mandato lui stesso dei pensieri in accordo con i sette primi concili ecumenici, invece di vantarsi della religiosità dei suoi predecessori alla quale i nostri predecessori e i nostri padri hanno reso omaggio in pieno concilio ecumenico, allora avrebbe avuto motivo di vantarsi della sua propria ortodossia. Invece di proclamare le belle azioni dei suoi padri, avrebbe mostrato le sue proprie. Dipende perciò da sua Santità, ancora oggi, l΢inviarci dei pensieri che 200 padri, dopo averli esaminati e confrontati, li troveranno in perfetto accordo coi primi sette concili ecumenici. Dipende, ripetiamo, da Lei sentirsi dire ancora oggi da noi umili peccatori non soltanto le parole: Pietro stesso ha parlato per la sua bocca, ma anche queste: Stringiamo la mano venerabile che ha asciugato le lacrime della chiesa universale. § 16. Ci si può attendere da sua Santità, dall΢alto della sua intelligenza, un΢opera così grande, degna di un vero successore di San θietro, di δeone I e δeone III, il quale per conservare intatta la fede ortodossa fece incidere il divino simbolo su delle tavole affinché resistesse a qualsiasi attentato. Quest΢opera riunirebbe le chiese dell΢ηccidente alla santa chiesa universale nella quale la presidenza canonica di sua Santità e le sedi di tutti i vescovi dell΢occidente restano vacanti, ma pronte ad essere loro rese. Poiché la chiesa universale, sempre disposta ad accogliere il ritorno dei pastori che hanno disertato con i loro greggi, non ordina sotto un altro nome degli intrusi per le sedi che di fatto sono già occupate da altri, facendo commercio del ministero sacerdotale. Noi aspettiamo questo appello e su di esso fondiamo le nostre speranze al fine, come scriveva S. Basilio a S. Ambrogio, vescovo di Milano (Lettera 55), di ricostituire le antiche orme dei nostri padri, quando, leggendo, non senza grande sorpresa, la lettera enciclica ai cristiani d΢oriente, abbiamo visto con indicibile dolore, sua Santità tanto elogiata per la sua saggezza, seguire l΢esempio dei suoi predecessori dopo lo scisma e parlare un linguaggio innovativo: cioè falsare il nostro divino irreprensibile simbolo già irrevocabilmente fissato dai concili ecumenici, violare le sante liturgie la cui celeste organizzazione, i nomi della sua sistemazione, lo stile dell΢augusta antichità e la consacrazione data nel settimo concilio ecumenico (sessione VI), avrebbero da soli fatto inaridire e ritirare la mano sacrilega e pronta a tutto osare, che colpì il Signore sul volto. Da tutto ciò abbiamo potuto giudicare in quale labirinto di errori, in quale circolo vizioso il papismo ha gettato anche i più saggi e i più pii vescovi della chiesa romana, affinché essi non conservassero altro che il dogma dell΢infallibilità e di conseguenza la pretesa al vicariato e al primato assoluto con tutto ciò che ne consegue, calpestando tutto ciò che c΢è di più sacro, attaccando tutto con estrema audacia, il tutto affettando a parole il rispetto per la venerabile antichità (p. 11, l. 16), ma conservando di fatto nel fondo del cuore tutto l΢implacabile furore degli innovatori contro le cose sante, come si nota da queste parole: Bisogna rigettare dalle liturgie tutto ciò che è stato introdotto dopo lo scisma !! ecc. (p. 11), allargando così il veleno delle novità fin sulla celebrazione della santa Cena. Sembra, da queste parole di sua Santità, che è accaduto alla 124 chiesa cattolica ortodossa ciò che egli sa benissimo che è accaduto nella chiesa romana dopo il papismo, cioè i gravi cambiamenti in tutti i sacramenti e la loro alterazione mediante le sottigliezze scolastiche, sulle quali si basa per affermare che le nostre sante liturgie, i nostri sacramenti, i nostri dogmi hanno ugualmente patito. Tuttavia, sua Santità rispetta comunque la loro venerabile antichità, e usando un΢indulgenza interamente apostolica, non vuole affatto, come dice, affliggerci con una rigorosa prescrizione. E΢ da una simile ignoranza delle usanze apostoliche e cattoliche conservate presso di noi che proviene certamente questa altra asserzione (p. 7, l. 22): Voi non avete potuto conservare tra di voi l'unità della dottrina e del governo ecclesiastico. Sua santità attribuisce a noi la sua propria malattia. E΢ proprio così che Leone IX scrisse una volta al beato Michele Cerulario, accusando i greci, senza alcun rispetto per la sua dignità né per la verità storica, di avere alterato il simbolo della chiesa universale. Siamo convinti che se sua Santità richiamasse alla memoria l'archeologia ecclesiastica e la storia, l'insegnamento dei santi padri e le antiche liturgie della Gallia e della Spagna e il breviario dell'antica chiesa di Roma, rimarrà sorpreso di scoprire a quante altre mostruosità ancora in atto ha dato adito il papismo in occidente mentre l'ortodossia ha conservato in mezzo a noi la chiesa universale come una fidanzata senza macchia per il suo celeste sposo, benché noi non siamo sostenuti da alcun potere secolare, che sua santità qualifica come governo ecclesiastico (p. 7, l. 23), non avendo altro legame tra di noi se non quello di una vicendevole carità né altra garanzia di unità se non la nostra pietà filiale verso la comune madre. E questa pietà filiale è la sorgente della nostra obbedienza alla verità e alla dottrina segnata dai sette sigilli dello Spirito (Apoc. V, 1), vale a dire i sette concili ecumenici. Sua Santità riconoscerà allora quanto sia necessario rigettare gli insegnamenti e i riti del papato in quanto non sono che comandamenti umani, affinché la chiesa dell΢occidente, che ha apportato innovazioni in tutti i campi, possa riavvicinarsi alla inalterabile fede cattolica ortodossa dei nostri comuni padri, per la quale ella stessa dice (p. 8. l. 30) di conoscere il nostro zelo nel vegliare sulla dottrina trasmessa dai nostri avi. Ella fa bene a raccomandarci (ivi, l. 31) di seguire gli antichi vescovi e i fedeli delle province d’oriente. Questi vescovi ci hanno prescritto conciliarmente (§ 15) ed il divino Basilio ci ha chiaramente spiegato (§ 17) come essi intendevano l΢autorità magisteriale dei vescovi dell΢antica Roma, e quale idea dobbiamo farcene nella chiesa ortodossa, e in che modo dobbiamo accogliere le loro dottrine. Questo stesso Basilio il Grande, per non incamminarci qui in una inopportuna dissertazione, ci farà capire con poche parole ciò che egli pensava della supremazia dei pontefici romani. Egli dice: Io volevo scrivere al loro capo (ivi). § 17. Da quanto detto, chiunque abbia un po΢ di dimestichezza con la sana dottrina cattolica, a maggior ragione sua Santità, può dedurne quanto sia empio e contrario ai decreti dei concili osare attentare ai nostri dogmi, alle nostre liturgie e alle altre nostre sante pratiche, che sono stati riconosciuti contemporanei alla predicazione cristiana primitiva, e sono stati considerati sempre e rispettati come inviolabili, anche dagli stessi antichi papi ortodossi, che li avevano in comune con noi. Al contrario, è davvero molto salutare e conforme alla pietà correggere le innovazioni la cui data di nascita negli annali della chiesa romana ci è ben nota, e contro le quali i nostri padri hanno da tempo protestato. Vi sono poi altre ragioni che militano a favore delle riforme indicate e che le presentano a sua Santità come molto opportune: innanzitutto, il fatto che i nostri dogmi erano un tempo molto 125 venerati anche dagli occidentali, i quali avevano le stesse pratiche religiose e confessavano lo stesso simbolo, mentre i nuovi dogmi non erano neppure conosciuti dai nostri padri e non si possono neppure appoggiare sugli scritti dei padri ortodossi dell΢occidente, e non potrebbero essere raccomandabili né per l΢antichità né per la loro cattolicità. In seguito, da noi le innovazioni non hanno potuto introdurle né i patriarchi né i concili: poiché da noi la salvaguardia della religione risiede nel corpo intero della Chiesa, vale a dire nel popolo stesso che vuole che il dogma religioso resti eternamente immutabile e conforme a quello dei θadri, come l΢hanno provato nei fatti vari papi dopo lo scisma e alcuni patriarchi fautori del papato, che non hanno potuto raggiungere alcun risultato. Nella chiesa occidentale al contrario, benché a diverse riprese i papi, con o senza difficoltà, abbiano legittimato le innovazioni per opportunità, come dicevano per giustificarsi con i nostri padri, benché smembrando così il corpo di Gesù Cristo, allo stesso modo oggi un papa, questa volta per una veramente giusta opportunità divina, , può, non rattoppando pezzi di stoffa sfilacciati, ma ricucendo ricucendo la tunica lacerata del Salvatore riedificare la venerabile antichità che sola è in grado di conservare la vera devozione, come dice sua Santità (p. 11, l. 16). Se è vero che egli onora come dice (ivi, l. 14) e come fecero un tempo i suoi predecessori (Celestino, al tempo del 3° concilio ecumenico). Desinat novitas incessere vetustatem: Che le novità cessino dal deturpare l΢antichità. Che la chiesa cattolica rinunci almeno a questo vantaggio della presunta infallibilità dei decreti del papa! In verità, in una simile impresa, Pio IX, per quanto grande sia la sua saggezza, e per la pietà e lo zelo che egli testimonia per l΢unità cristiana nella chiesa universale, vedrà tuttavia sorgere da ogni parte ostacoli ed innumerevoli sofferenze. E qui siamo però obbligati, ed egli non ce ne voglia, a ricordare a sua Santità il passaggio della sua lettera (p. 18, l. 32): In tutto ciò che riguarda la santa religione non c’è male che non si debba sopportare per la gloria di Gesù Cristo e per la rimunerazione nella vita futura. Dipende da sua Santità manifestare davanti a Dio e agli uomini che se egli prende l΢iniziativa dei pii consigli, egli è ugualmente pronto, anche a danno dei propri interessi, a vendicare l΢autorità disconosciuta dei Vangeli e dei Concili, al fine di ergersi così, secondo l΢espressione del profeta: Sovrano nella pace e pontefice nella giustizia. E così sia. Ma, in attesa di questo ritorno tanto desiderato delle chiese separate dal corpo della santa Chiesa una, cattolica ed apostolica di cui Gesù Cristo è il capo (Paolo, Efesini, IV, 15), e ciascuno di noi sue membra, ogni consiglio che viene dalla sua parte e ogni esortazione che attenti all΢irreprensibile fede che abbiamo ricevuto dai nostri padri, sono giustamente condannati conciliarmente, non soltanto come sospetti e degni di essere rigettati, ma anche come erronei e in grado di mettere in pericolo la salvezza dell΢anima. A questa categoria dev΢essere annoverata in prima linea la suddetta ΟLettera enciclica ai Cristiani d'OrienteΠ del vescovo dell'antica Roma, papa Pio IX: e noi la proclamiamo tale nella Chiesa universale. § 18. Ecco perché cari fratelli e coadiutori della nostra mediocrità, abbiamo sempre creduto e a maggior ragione ora, in occasione della promulgazione delle suddetta enciclica, riteniamo nostro grave dovere, sotto pena di responsabilità patriarcale e collettiva, ad evitare che nessuno si perda del sacro ovile della chiesa cattolica ortodossa, nostra santa madre, di ricordare a tutti ogni giorno e di esortarvi a riflettere, allo scopo di rammentarci costantemente e di ripeterci gli uni agli altri le parole e le esortazioni di S. Paolo ai nostri predecessori convocati ad Efeso: State in guardia voi stessi ed il gregge sul quale lo Spirito Santo vi ha 126 costituiti vescovi per governare la chiesa di Dio che egli ha riscattato col suo sangue. Poiché so che dopo la mia partenza tra voi entreranno dei lupi rapaci che non risparmieranno il gregge, e che tra voi stessi sorgeranno persone che proporranno dottrine corrotte, allo scopo di conquistarsi dei discepoli. Perciò, state vigili (Atti XX). Un giorno, i nostri predecessori e i nostri padri, avendo compreso questi celesti ammonimenti, versarono lacrime abbondanti, e gettandosi al collo (di Gesù) più volte le abbracciavano. Allo stesso modo noi, o fratelli, docili ai consigli dell΢apostolo e santificati dalle lacrime, andiamo tutti insieme a gettarci al suo collo, e cerchiamo di consolarlo con le nostre strette filiali e con la nostra formale promessa che mai nessuno ci separerà dall΢amore di Gesù Cristo, mai nessuno ci allontanerà dall΢insegnamento evangelico, mai nessuno ci stornerà lontano dalla via tracciata dai nostri padri, allo stesso modo in cui nessuno poté portarli fuori strada, malgrado tutti gli sforzi messi in atto a diverse epoche da coloro che il tentatore suscita a tale scopo. In tal modo meriteremo di sentire dal nostro maestro queste parole: Bene, servo buono e fedele, ricevendo il salario della fede, cioè la salvezza della nostra anima e quella del gregge spirituale di cui lo Spirito Santo ci ha costituiti pastori. § 19. Questo comandamento apostolico e questa esortazione li trasmettiamo per il vostro tramite a tutta la comunità ortodossa su tutta la faccia della terra, ai sacerdoti regolari e secolari, ai diaconi e ai monaci, in una parola a tutto il clero e a tutto il popolo dei fedeli, ai governanti e ai governati, ai ricchi e ai poveri, ai padri e ai figli, ai maestri e agli allievi, agli istruiti e agli ignoranti, ai padroni e ai servi, al fine che tutti, prestandoci mutuamente forze e consigli, possiamo resistere alle macchinazioni del demonio. θoiché così ci esorta tutti ugualmente l΢apostolo Pietro (Ep. II): Astenetevi e state vigili, perché il vostro nemico spirito delle tenebre, come un leone che ruggisce, vaga alla ricerca della preda da divorare. Voi gli resisterete consolidandovi nella fede. § 20. La nostra fede non viene dagli uomini, o fratelli, ma dalla rivelazione di Gesù Cristo. Essa è stata proclamata dai santi Apostoli, confermata dai santi concili ecumenici, trasmessa poi dai dottori e grandi maestri universali, e sigillata dal sangue dei martiri. Conserviamo perciò la nostra professione di fede che abbiamo ricevuto intatta da sì grandi uomini, fuggendo qualsiasi innovazione come suggerita dal demonio. Colui che accetta un'innovazione accusa d'insufficienza la fede proclamata ortodossa. Ma questa fede è segnata col sigillo della perfezione, e non è perciò suscettibile né di aggiunte né d'alterazione alcuna. E chi osasse fare una cosa simile o consigliare o meditare un atto simile, ha già di per sé rinnegato la fede di Gesù Cristo e si è procurato volontariamente l'anatema come bestemmiatore dello Spirito Santo, che verrebbe così accusato di aver dogmatizzato in modo incompleto nelle Sacre Scritture e nel ministero dei sette concili ecumenici. Questo terribile anatema, cari fratelli e figli in Gesù Cristo, non siamo noi a pronunciarlo oggi, ma è stato nostro Signore in persona a pronunciarlo per primo (Mt XII, 32): Se qualcuno vi viene a parlare contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonato né in questo secolo né nel secolo a venire. Lo ha dichiarato S. Paolo (Gal. I, 6): Mi sorprende che abbandonando colui che vi aveva chiamati alla grazia di Gesù Cristo siate passati così rapidamente ad un altro vangelo. Non che esista un altro vangelo, ma vi sono persone che vi turbano e che vogliono stravolgere il Vangelo di Gesù Cristo. Ma se qualcuno vi annuncia un altro Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato noi, anche se fossimo noi 127 stessi o un angelo del cielo, che sia anatema. Esso è stato pronunciato dai sette concili ecumenici e dall΢intera schiera dei santi padri. Quindi tutti gli innovatori per eresia o per scisma hanno indossato, come dice il salmista (Ps. CVIII, 17) la maledizione come un indumento, siano essi stati papi, patriarchi, chierici o laici. Se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato noi, anche se fosse un angelo del cielo, che sia anatema. Con questi pensieri, e in obbedienza alle salutari parole di Paolo, i nostri padri sono rimasti fermi e incrollabili nella fede che è stata loro trasmessa per successione, ed essi l΢anno conservata immutata e senza macchia in mezzo a tante eresie, e ce l΢hanno trasmessa pura e senza alterazioni come è uscita dalla bocca dei primi servitori del Verbo. Compenetrati della stessa convinzione, noi la trasmetteremo pura a nostra volta alle generazioni future, al modo in cui l΢abbiamo ricevuta, senza cambiarla in nulla, affinché anch΢essi possano, come noi, parlare a fronte alta e senza vergogna della fede degli antenati. § 21. Così, cari fratelli e figli in Gesù Cristo, avendo purificato le nostre anime nell΢obbedienza alla verità, seguendo l΢apostolo (I θietro I, 22), dobbiamo prestare grande attenzione alle cose che abbiamo ascoltato, nel timore che non le lasciamo disperdere (Ebr. II, 1). La fede e la professione che noi abbiamo è irreprensibile, poiché essa è insegnata nel Vangelo dalla bocca stessa del nostro Salvatore, confermata dai santi apostoli e dai sette concili ecumenici, proclamata su tutta la terra, confermata dagli stessi suoi nemici prima che si separassero dall΢ortodossia per gettarsi nelle eresie, quando essi stessi e i loro padri avevano questa medesima fede. Questa è attestata dalla storia di tutti i tempi, come trionfatrice di tutte le eresie che l΢hanno perseguitata e ancora la perseguitano, come potete vedere, fino ai nostri giorni. La lunga successione dei nostri santi padri e predecessori, cominciando dagli apostoli e da coloro che gli apostoli hanno designato come loro successori fino ad oggi, formando una catena indissolubile e tenendosi tutti per mano costituisce una sacra muraglia di cui Gesù Cristo è la porta e all'interno della quale tutto il gregge ortodosso trova gli alimenti della vita nelle fertili praterie del mistico Eden, e non nei sentieri scoscesi e senza uscita, come crede invece sua Santità (p. 7, l. 12). La nostra chiesa conserva intatti gli oracoli delle Sacre Scritture, la vera e completa traduzione dell΢Antico Testamento, e il sacro testo originale del Nuovo. I riti della celebrazione dei santi sacramenti, in particolare quelli della sacra liturgia, riflettono le stesse solenni e commoventi cerimonie trasmesse dagli apostoli. Nessuna nazione, nessuna comunione cristiana può vantarsi di avere per maestri Giacomo, Basilio, Crisostomo. I venerabili concili ecumenici, sette vere colonne della casa della sapienza, sono sorti nella nostra fede e nei nostri paesi. La nostra chiesa possiede gli originali dei loro sacri canoni. I suoi pastori, il suo venerabile corpo sacerdotale, il suo ordine monastico, conservano questa antica e pura rigorosità dei primi secoli del cristianesimo sia in rapporto alla dignità sacerdotale di cui sono insigniti sia nella loro esistenza collettiva, sino alla semplicità delle loro vesti. Sì, è proprio contro questo ovile che si sono continuamente riversati e si riversano, come vediamo anche ai nostri giorni, i lupi rapaci secondo la predizione dell΢apostolo; il che prova che le vere pecorelle del supremo pastore si trovano proprio in questo ovile. Ma sempre è risuonato e continua a risuonare fino alla fine dei secoli il cantico glorioso: Essi mi hanno circondato e mi hanno accerchiato, ma io li ho respinti nel nome del Signore (Salmo 117, 11). Aggiungiamo un ricordo, benché alquanto penoso, ma utile per la dimostrazione e la conferma delle verità delle nostre parole: Tutte le nazioni 128 cristiane, che noi oggi vediamo vantarsi del nome di Gesù Cristo, senza eccettuare l΢occidente, e la stessa città di Roma, come si può constatare dal catalogo dei primi papi, tutti sono stati istruiti nella vera fede di Gesù Cristo dai nostri santi padri e predecessori, benché in seguito a causa di uomini astuti, di cui parecchi erano pastori e pastori supremi di queste nazioni, abbiano osato con argomenti miserabili e con dogmi eretici insudiciare, ohimé, l΢ortodossia di questi popoli, come insegna la vera storia e come era stato predetto da S. Paolo. § 22. Riconosciamo dunque fratelli e figli nello Spirito la grandezza della grazia accordata da Dio alla nostra fede ortodossa e alla sua santa Chiesa, una, cattolica e apostolica che, come una madre, irreprensibile agli occhi dello sposo, ci rende capaci di rispondere senza arrossire e la nobile certezza della speranza che è in noi. Ma come potremo ricambiare al Signore, noi peccatori, per tutto ciò che egli ci ha donato ? Nostro Signore, che non ha bisogno di nulla, il nostro Dio che ci ha redenti con il suo sangue, non ci chiede altro che la nostra fedeltà con tutto il nostro cuore e tutta la nostra anima verso la fede irreprensibile dei nostri padri, il nostro amore e il nostro affetto nei confronti della Chiesa ortodossa che ci ha purificati, non con una aspersione inventata recentemente, ma con la divina immersione del battesimo apostolico, a questa chiesa che ci ha nutriti secondo l΢immortale testamento del nostro Salvatore, con il proprio corpo e che, come una vera madre, ci disseta abbondantemente col prezioso sangue che egli ha versato per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo. Mettiamoci dunque attorno ad essa come fanno gli uccellini con la loro madre, in qualunque parte della terra ci troviamo, al Nord o al mezzogiorno, in oriente come in occidente. Rivolgiamo i nostri occhi del corpo e dello spirito sulla sua vista divina, sulla sua splendente bellezza. Restiamo attaccati con le nostre mani alla sua tunica luminosa che, con le proprie mani, gli ha cucito la bellissima sposa che egli ha liberato dalla schiavitù dell΢errore e che egli ha adornato come sua eterna sposa. Risentiamo nelle nostre anime il mutuo doloroso sentimento di una tenera madre e di dolci figli, nel momento in cui uomini dal cuore di lupi e dei trafficanti di anime si protendono a trascinarla nuovamente in schiavitù, o a rapirla come pecorella strappata alla madre. Fortifichiamo soprattutto questo sentimento, chierici e laici, ora che il nemico spirituale della nostra salvezza, offrendo delle ingannevoli agevolazioni (p. 11, l. 2, 25), utilizza strumenti tanto potenti e vaga in ogni luogo, secondo le parole di S. Pietro, cercando la preda da divorare; oggi che nella via in cui camminiamo pacificamente e senza malizia, egli sistma le sue trappole. § 23. Che il Dio della pace, che ha fatto risorgere dai morti il grande pastore delle sue pecore, il pastore che non dorme e che nella guardia d’Israele non s’addormenterà, custodisca i vostri cuori e i vostri pensieri, e diriga le vostre vie verso azioni virtuose! State bene e gioite nel Signore! Costantinopoli, maggio 1848, indizione VI. Seguono le sottoscrizioni: Antimo, per la grazia di Dio, arcivescovo di Costantinopoli, nuova Roma e patriarca ecumenico, fratello in Gesù Cristo. Ieròtheos, per la grazia di Dio, patriarca di Alessandria e di tutto l'Egitto, fratello in Gesù Cristo. Methòdios, per la grazia di Dio patriarca della grande città di Dio Antiochia e di tutto l'Oriente, fratello in Gesù Cristo. Kìrillos, per la grazia di Dio, patriarca di Gerusalemme e di tutta la Palestina, fratello in Gesù Cristo. Il santo Sinodo di Costantinopoli: 129 Paisio, vescovo di Cesarea, Antimo, vescovo di Efeso, Dionigi, vescovo di Eraclea, Gioacchino, vescovo di Cizico, Dionigi, vescovo di Nicomedia Ieròtheos, vescovo di Calcedonia, Neòfito, vescovo di Derkos, Geràsimos, vescovo di Adrianopoli Kirillos, vescovo di Neocesarea, Theòklitos, vescovo di Berrea, Melètios, vescovo di Pisidia, Atanasio, vescovodi Smirne, Dionigi, vescovo di Melenico, Paisio, vescovo di Sofia, Daniele, vescovo di Lemnos, Panteleìmon, vescovo di Dryinopoli, Giuseppe, vescovo di Erseca, Antimo, vescovo di Bodenes, Il santo sinodo di Antiochia: Zaccaria, vescovo di Arcadia, Methòdios, vescovo di Emesa, Gioannichio, vescovo di Tripoli, Artémios, vescovo di Laodicea. Il santo sinodo di Gerusalemme: Melétios, vescovo di Petra in Arabia, Dionigi, vescovo di Betlemme, Filemone, vescovo di Gaza, Samuele, vescovo di Naplous, Taddeo, vescovo di Sebaste, Gioannichio, vescovo di Filadelfia, Ieròtheos, vescovo del monte Tabor. 130 VII Lettera del patriarca ecumenico Gioacchino III alle chiese ortodosse 1902, giugno 12. Ai beatissimi e santissimi patriarchi di Alessandria e di Gerusalemme ed alle santissime sorelle in Cristo Chiese autocefale in Cipro, Russia, Grecia, Romania, Serbia e Montenegro156. Nelle lettere di pace che ci hanno inviato i santissimi capi delle venerate Chiese ortodosse autocefale, in risposta al nostro annunzio della nostra, per benevolenza di Dio, elezione ed elevazione al santissimo apostolico e patriarcale Trono Ecumenico, lieti abbiamo osservato il vetustissimo e saldo legame spirituale, con tutta prontezza e potente ardore manifestato, e parole di carità evangelica con grande zelo pronunciate e voti ardenti elevati a Dio per questa anziana per nascita, santa e grande Chiesa di Cristo, loro sorella zelantissima nella fede e nella speranza e nella carità. Questa armoniosa presentazione, come in sacro coro, dei fratelli in Cristo insieme preganti, che ha commosso la nostra anima, ci ha maggiormente infiammati per una piú frequente e giovevole comunione ed ha ispirato in noi piú fertili speranze di coltivazione dei rapporti tra loro delle Chiese omodosse, per una piú fulgida ed abbondante fruttificazione religiosa. Abbiamo accolto le piene di saldi propositi e di zelo divino e decisamente raccolto nel seno le schiette assicurazioni fraterne delle santissime Chiese, tra cui la santissima sorella che possiede la dignità di anzianità tra le Chiese degli stati ortodossi, cioè la Chiesa ortodossa di tutte le Russie, la quale ci è stata portatrice di grande consolazione, dicendo ed assicurando quanto segue: «Il vostro appello a noi indirizzato ed alle altre Chiese autocefale per la pace e carità fraterna e reciproca comunione incontrerà viva risonanza e simpatia nei cuori di tutti i cristiani ortodossi, sinceramente affezionati alla loro Chiesa madre. Separati per la storia e per la differenza delle lingue e delle nazionalità, le sante Chiese locali di Dio trovano la loro unità nel reciproco amore e nella stretta comunione tra loro, coraggio e forza attingono per progredire nella fede e nella conoscenza di Dio e respingere le insidie dell'avversario e per la predicazione universale del Vangelo». E lo stesso spirito di fratellanza e di unità, che scorre dalla divina fluente fonte del 156 Il testo greco si può trovare in Giovanni Karmiris, α α ῖα α α , vol. II, Graz (Austria) 1968, pp. [1034-1044]. La traduzione italiana qui riportata è tratta dal testo di Gennadios Zervos, Il contributo del Patriarcato ecumenico per l’unità dei cristiani, Città Nuova, Roma 1974, pp. 229-236. δ΢ho mantenuta intatta anche laddove l΢italiano non è particolarmente scorrevole. 131 Vangelo, vivamente spira, con simili parole e significati nelle preziose lettere di tutte le altre Chiese sorelle, che ci dà veramente coraggio e forza, offrendo giuste occasioni per chiedere, secondo l΢antico ben posto costume dei saluti di fratellanza e di carità, di chiedere ogni volta le loro sagge opinioni su questioni, il cui studio in comune ed il giudizio su di esse potrebbe considerarsi dalle Chiese opportuno ed allo stesso tempo portare a termine "opere buone per il bene comune sia delle singole sia di tutta la Chiesa, della quale è capo Cristo. Rinvigoriti, dunque, giustamente da un cosí realmente fraterno rinforzo ed avendo in mente l'esortazione dell'apostolo Paolo ai Corinti ed a tutti in tutti i secoli credenti in Cristo. «E vi prego, fratelli, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, affinché tutti diciate la stessa cosa e non vi siano tra voi degli scismi, e siate formati nello stesso pensiero e nella stessa opinione», abbiamo deciso di proporre al Santo Sinodo presso di noi, per consulto, lo studio che noi abbiamo ritenuto necessario e santo e degno di considerazione profonda, e cioè se la nostra santa grande Chiesa di Cristo ritenga opportuno cercare lo scambio di pensieri coi santissimi patriarchi e gli eminentissimi capi delle Chiese autocefale su alcuni argomenti di sostanza e carattere generali, per dire, religioso, ma di molto significato ed importanza, uno schema dei quali, per una più chiara formulazione e più facile studio, abbiamo comunicato ai venerabili ed insigni sinodici, fratelli in Cristo. Dopo aver compiuto, dunque, il profondo studio ed esame, avendo noi la concorde opinione sinodica degli amatissimi nello Spirito Santo ed insigni fratelli santi gerarchi, ed allo stesso tempo osservando l΢uso vigente nell'antica Chiesa, secondo il quale i vescovi che con amore di Dio presiedono le Chiese i loro dubbi e le soluzioni di essi con lettere comunicano tra loro, con accorgimento e fraternamente con attenzione cercando la concordia di parole e fatti, procediamo nella formulazione dei quesiti approvati sinodicamente, non sollevando alcune questioni nuove, ma sottoponendo allo studio quelle da tempo esistenti, per reciproca illuminazione delle sante Chiese ortodosse di Dio, le quali, ispirate da uguali proponimenti di utilità a tutti comune, siamo persuasi con piacere, accoglieranno favorevolmente e riterranno opportuno allargare la cerchia della comunicazione spirituale per l'esame, non solo di quello indicato dall΢andamento delle cose, ma anche quello imposto dall'appello, col quale siamo stati tutti chiamati in Cristo, quanti, per benevolenza e grazia di Dio,siamo stati comandati per la protezione delle sue sante Chiese, badando a noi stessi e per dovere curandoci della salvezza di tutti. Dunque è infatti doveroso per quelli che sono stati preposti dall'alto per il governo spirituale dei fedeli ed è anche utile aver cura del gregge cristiano, affinché il preziosissimo fine della carità possa produrre maggior numero di frutti secondo il santo volere. Pertanto, abbiamo pensato che principalmente è da ricercare che cosa mai i venerandi presidi delle santissime Chiese autocefale ritengono utile che venga fatto, ma non è stato fatto, e che cosa è opportuno e possibile fare d'ora in avanti, per l'incontro dei popoli cristiani nell΢unità della fede e nella reciproca carità e concordia; e che cosa fare in seguito per il maggior consolidamento della nostra santa ed ortodossa fede e per la migliore difesa delle sante Chiese di Dio contro il sovrastante spirito avverso di questo secolo. Grato a Dio ed evangelico è il ricercare gli avvisi delle santissime Chiese autocefale sui nostri rapporti presenti e futuri colle due grandi viti del cristianesimo, la Chiesa occidentale cioè e quella dei protestanti. Ed è noto che è pio e profondo desiderio ed oggetto di continuo voto e preghiera nella nostra Chiesa e di ogni genuino 132 cristiano, conformemente alla dottrina evangelica sull'unità, per la loro unione e di tutti i credenti in Cristo nella fede ortodossa, ma non ignoriamo che tale desiderio grato a Dio urta contro l'irremovibile insistenza di queste Chiese le quali reggendosi, su credenze, come su piedistallo reso compatto col tempo, si mostrano del tutto restie a incamminarsi sulla via dell'unione, come è indicata dalla verità storica ed evangelica, oppure mostrano bensí una volontà, ma a condizioni e su delle basi, per le quali la vagheggiata concordia dogmatica e comunione sono per noi inaccettabili. E' superfluo dire agli intenditori, che la santa cattolica ed apostolica Chiesa, creata sul fondamento degli Apostoli e rafforzata da sacri ed ispirati da Dio padri dei Concili Ecumenici, avente come capo l'arcipastore Cristo, che col proprio sangue l'ha preservata, ed essendo, secondo l'ispirato e celestiale Apostolo, colonna e fondamento della verità e corpo di Cristo, la santa, diciamo, Chiesa, è in realtà una per identità di fede e rassomiglianza d'usi e costumi, giusta le decisioni dei sette concili ecumenici; ed una dev'essere, e non già molte e diverse tra loro sia per i dogmi che per le leggi fondamentali del governo ecclesiastico. E come ogni cosa impossibile agli uomini, è possibile a Dio, cosí c'è speranza anche per l'unione di tutti, che un giorno sarà possibile; e coll'intervento e l'assistenza della divina grazia e l'incamminarsi degli uomini sulla strada di amore evangelico e di pace, è necessario, di conseguenza, pensare e provvedere, per quanto possibile, come si possa avanzare sulla non facile strada che conduce verso questa meta, scoprendo i punti d'incontro e di contatto o trascurando reciprocamente quanto, entro i limiti del lecito, fino al giorno del completamento di tutta l'opera, colla quale sarà adempita, per la comune gioia ed utilità, la parola del Signore Iddio e nostro Redentore Gesú Cristo per un gregge ed un Pastore. Cosí, ben gradito sarà ai nostri fratelli accogliere la proposta per tale idea, con fiducia proponiamo questa domanda fraterna, se si ritiene opportuna cioè, una preconferenza per la preparazione di un terreno propizio per l'accostamento amichevole e per determinare in comune concordia dei membri di tutta la nostra Chiesa ortodossa le basi, le misure ed i mezzi che saranno ritenuti i migliori. Connesso coll'unità cristiana è eminente anche il fatto dei cristiani occidentali i quali, non molto tempo fa, si sono distaccati dalla Chiesa Romana, assumendo la denominazione di vecchi cattolici e dichiarando di accettare quanto è stato dogmatizzato dalla Chiesa indivisibile fino a circa il IX secolo e le ordinanze dei sette santi veneratissimi Concili Ecumenici, proclamando che essendo già in seno a tutta la Chiesa ortodossa, cercano la loro unione e comunione con essa come un atto di semplice formalità. Del tutto lodevole è l'ardente zelo di questi cristiani, dediti a Dio, per la verità cristiana e l'amore evangelico, dal quale sembrano ispirati per la loro buona lotta, e sono note al mondo cristiano le opinioni e gli atti dei loro consigli e l'insegnamento dogmatico e rituale nei loro libri di catechismo e simbolica. E poiché sulla loro dichiarazione di confessione di fede non regna tra di noi un'opinione chiara e comune ma in diversi modi è giudicata dai nostri uomini ecclesiastici, sia che li conoscano da vicino, sia che li abbiano studiati da lontano, dei quali alcuni si pronunziano nel senso che tale confessione essenzialmente dista ancora da alcuni punti dogmatici dalla perfetta ortodossia, mentre altri giudicano che essa non contiene differenze essenziali che ostacolino l'unità della fede e la comunione ecclesiale, ma soltanto completa il loro distacco da tutta la dottrina ortodossa sana e dalla tradizione, abbiamo ritenuto utile chiedere la pia e fraterna opinione, anche su questo importante argomento, delle santissime «omodosse » 133 Chiese: che cosa esse credono opportuno ed in quale modo consigliano qualche cosa di buono ed accettabile per facilitare l'attuazione della desiderata completa unione con noi dei cristiani in questione, quale inizio della sperata e desiderata universale unità dei cristiani. Non crediamo che sia degno di minore attenzione quanto scritto e detto già da lungo tempo per un comune calendario, specialmente circa i proposti sistemi di riforma del calendario giuliano, da secoli in vigore nella nostra Chiesa ortodossa, o l'adozione del gregoriano. Il primo, scientificamente incompleto, il secondo piú preciso, mentre si considera necessaria conseguenza lo spostamento del nostro tempo Pasquale ecclesiastico. Anche per questo argomento osserviamo divergenza di opinioni tra i nostri che si sono specialmente occupati di esso. Alcuni di essi considerano quale unico adatto alla Chiesa quello da antico tempo in uso, perché trasmessoci dai nostri padri e da sempre ecclesiasticamente sancito e per nulla bisognoso di riforma, ché anzi é da evitare per i motivi che espongono altri per precisione cronometrica il piú possibile completa, o portando come argomento l'utilità di una nuova uniformità, si fanno difensori del calendario occidentale e si esprimono per la sua introduzione da noi, essendo a loro favore, naturalmente, la speranza forse di eventuali utilità religiose, dalla chiesa occidentale, sempre secondo il loro parere. Prolungandosi la discussione fino ai nostri giorni, nella quale da ciascuna delle parti con insistenza vengono proposte argomentazioni, varie e degne di studio, che si riferiscono sia alla religione che alla scienza contemporaneamente, mentre allo stesso tempo in alcuni paesi ortodossi si manifesta una certa tendenza ad adottare il cambiamento del nostro calendario o una sua riforma, riteniamo giovevole la questione avente insieme con l'aspetto scientifico una manifesta importanza ecclesiastica, che le Chiese ortodosse scambino tra loro le relative comunicazioni affinché si possa formare un comune concetto ed un giudizio e decisione di tutta la Chiesa alla quale sola spetta il relativo giudizio e la ricerca, in caso di necessità, in maniera che combini, per quanto possibile, la ricercata precisione scientifica con la desiderata conservazione dei consacrati limiti ecclesiastici. δa nostra Grande Chiesa di Cristo, considerando molto utile all΢ortodossia lo scambio di opinioni sui predetti punti, quale dimostrazione tangibile di comunione spirituale ed effettiva, e come comprensiva dell΢unità da osservare in tutti i problemi comuni, nutre buone speranze che questa sua preoccupazione fraterna e preghiera, tendente verso sacri ed evangelici fini, avrà favorevole risonanza nel cuore dei venerati fratelli in Cristo e troverà consenziente la loro fratellanza per la comunicazione dell΢opinione di coloro che presiedono piamente alle Chiese. E pensiamo inoltre che, con gli sperati comuni utili, sarà evidenziata al mondo, ancora una volta, la potente forza morale che esiste nella santa Chiesa ortodossa di Cristo, la cui fonte è l'immutabilmente contenuta verità e leva potente l'infrangibile unità delle singole Chiese tra loro. Con tali speranze e confidenze, che fondiamo sul caloroso zelo per la gloria e saldezza delle sante Chiese di Dio dei loro venerati presidenti e dei santissimi Concili, dall'intimo del cuore preghiamo il Signore perché salvi e protegga sotto la sua invincibile egida tutto il gregge dei fedeli ortodossi, e prodighi alla vostra a noi carissima ed insigne Beatitudine ed Eminenza vita felicissima, sana e lunga. 1902, 12 giugno. 134 VIII Enciclica del patriarcato ecumenico 1920. A tutte ovunque le Chiese di Cristo «Con cuore puro amatevi fortemente a vicenda» (1 Pietro 1, 22).157 La nostra Chiesa, opinando che il riavvicinamento delle diverse chiese cristiane tra loro e la comunione non sono esclusi dalle differrenze dogmatiche tra loro esistenti, e che tale riavvicinamento è tanto augurabile, necessario e assai utile sia per il bene inteso interesse di ciascuna delle locali Chiese e di tutto il corpo cristiano, sia per la preparazione e la facilitazione, coll'aiuto di Dio, di una completa e benedetta unione, ha ritenuto il presente tempo molto conveniente per sollevare e studiare insieme questa importante, questione. E se anche ora potrebbero risultar ed inserirsi difficoltà da vecchi pregiudizi ed usanze o da pretese, che hanno tante volte reso vana l'opera d'unione, tuttavia, secondo il nostro pensiero, trattandosi al principio di semplice contatto e riavvicinamento, tali difficoltà avranno minore importanza, ed esistendo buona volontà e disposizione, non possono né devono essere di ostacolo invincibile ed insuperabile. Pertanto noi, considerando la cosa effettuabile e più che mai opportuna colla istituzione felice della Società delle Nazioni, coraggiosamente veniamo a proporre qui in breve i nostri pensieri e l'opinione sul modo in cui riteniamo possibile questo riavvicinamento e contatto, chiedendo con ardore ed accettando il giudizio e l'opinione sia degli altri nostri fratelli in Oriente, che delle veneràbili Chiese cristiane in Occidente in ogni altra parte. Noi, dunque, crediamo che due cose possono contribuire moltissimo ad ottenere questo desidérabile ed utile riavvicinamento, ed elaborarlo ed, esprimerlo. In primo luogo, è necessaria ed indispensabile, a nostro avviso l΢eliminazione e l'allontanamento di ogni reciproca diffidenza tra le varie chiese, dovuta alla tendenza tra alcune di esse ad irretire e far proseliti tra i fedeli di altre confessioni. Nessuno ignora ciò che anche oggi avviene sfortunatamente in molti posti, disturbando la pace interna delle Chiese, specialmente delle Orientali, alle quali vengono causati nuovi dolori e prove da correligionari stessi; ciò che provoca, contro un trascurabile risultato astio grande ed acuta avversione, questa tendenza di alcuni ad irretire e far proseliti tra i seguaci di altre confessioni cristiane. Così, ristabilita la franchezza e la fiducia specialmente tra le Chiese, crediamo che la seconda cosa che si impone è il ravvivare e rinvigorire la carità tra le Chiese, che non devono considerarsi estranee ed aliene tra loro, ma come parenti e familiari in Cristo «membri dello stesso corpo e compartecipi delle promesse di Dio in Cristo» 157 Cfr. Gennadios Zervos, Il contributo del θatriarcato ecumenico per l’unità dei cristiani, Città Nuova, Roma 1974, pp. 236-238. ζon ho apportato correzioni all΢italiano poco scorrevole. 135 (Ef. 3, 6). Ispirate dunque dall'amore, le varie Chiese, e questo tenendo in prima linea nei loro giudizi e rapporti tra loro, e anziché allargare ed approfondire il divario, diminuirlo, invece, per quanto potranno, e col nascere di normale interesse fraterno sullo stato, la saldezza e la vigoria delle altre Chiese, colla prontezza di seguire quanto in esse avviene e conoscere loro con maggior precisione e collo stendere con buona volontà reciprocamente la mano di aiuto e comprensione, molti beni per la gloria ed utilità sia loro che di tutto il corpo cristiano compiranno ed otterranno. E questa reciproca amicizia e benevola disposizione si manifesta e si evidenzia specialmente, secondo noi, come segue: a) coll'adozione di un unico calendario per il contemporaneo festeggiamento delle grandi festività cristiane da parte di tutte le Chiese; b) collo scambio di fraterne lettere in occasione delle grandi festività dell'anno ecclesiastico, come si usa ed in altre speciali occasioni; c) con una piú familiare relazione tra i rappresentanti delle varie Chiese ovunque; d) con la comunicazione del le scuole Teologiche e degli esponenti della Scienza Teologica e con lo scambio di riviste e di opere e riviste teologiche, ed ecclesiastiche pubblicate in ciascuna Chiesa; e) con l'invio di giovani per studio da una ad altra scuola di altra Chiesa; f) con l'istituzione di congressi intercristiani per l΢esame di questioni di interesse comune a tutte le Chiese; g) con la spassionante e piú storicamente fondata disamina delle differenze dogmatiche dalla cattedra e negli scritti; h) col reciproco rispetto degli usi e costumi in vigore nelle varie Chiese; i) con la reciproca concessione di luoghi di preghiera e di cimiteri per i funerali e la sepoltura di morti in terra straniera. di seguaci di altre confessioni; 1) con la regolarizzazione tre le varie confessioni della questione dei matrimoni misti; m) ed infine colla benevola reciproca assistenza delle Chiese nelle opere di rafforzamento religioso, di filantropia ed affini. E questo contatto tra le Chiese, senza diffidenza e piú vivo sia vantaggioso ed utile a tutto il corpo della Chiesa, poiché pericoli di ogni specie minacciano non già questa o quella singola Chiesa, ma la loro totalità, ed essendo contrari alle basi stesse della fede cristiana ed all΢istituzíone della vita e della società secondo Cristo. Ed infatti, la testè terminata terribile guerra mondiale, come ha messo in evidenza moltissime cose malsane nella vita dei popoli cristiani ed ha messo a nudo la grande mancanza di rispetto, anche verso gli elementi stessi del diritto e della filantropia, cosí ha peggiorato le ferite già esistenti e ne ha aperto altre nuove, di natura, per cosí dire, piú essenziale, contro le quali, è ovvio, necessita attenzione e sollecitudine da parte di tutte le Chiese. E l'alcoolisrno che ogni giorno acquista maggiori dimensioni, sotto la bandiera dell'abbellimento della vita e del godimento; il lusso superfluo che trionfa; la lussuria e la lascivia sotto la protezione della libertà e dell'emancipazione; la impensabile bruttura nella letteratura, nella pittura, nel teatro o nella musica, protetta dal decoroso nome di sviluppo dell'amore del bello e della coltivazione delle belle arti, la divinizzazione della ricchezza e il disprezzo di piú alti ideali, tanti e tali, che creano temibili pericoli alla struttura delle società cristiane, costituiscono problemi atti e bisognosi dello studio comune e della cooperazione delle Chiese Cristiane. Né le sue Chiese, che si adornano del santo nome di Cristo, dimentichino e trascurino ancora il suo grande e nuovo precetto sull'amore, e che oggi sono da meno delle autorità civili, le quali applicando esattamente lo spirito del Vangelo e della dottrina di Cristo, hanno fondato già con buoni auspici, la cosí detta Società 136 delle Nazioni per la difesa del diritto e la coltivazione della carità e della concordia tra le nazioni. Per tutto ciò, noi pure, riconoscendo e credendo che anche 1e altre Chiese condividono il nostro pensiero e la nostra opinione sulla necessità di una tale unione, — in principio almeno un contatto e comunione tra le Chiese, — preghiamo che con sollecitudine sia a noi dichiarato, in risposta di ciascuna, il suo giudizio e la sua opinione, affinché cosí precisata la cosa in comune assenso e decisione, avanziamo verso l'esecuzione insieme e in tal modo «ma professando la verità, noi cresceremo per mezzo della carità sotto ogni aspetto in colui che è il capo, Cristo. E΢ in virtù sua, che il corpo tutto intiero, grazie ai veri legami che gli danno coesione e unità, cresce mediante l'attività propria di ciascuno dei suoi organi, e si ricostruisce nella carità» (Ef. 4, 15-16). Nel patriarcato di Costantinopoli, nel mese di Gennaio dell'anno della salvezza 1920. Il Locum tenens del Trono Ecumenico Patriarcale di Costantinopoli Metropolita di Brussa Doroteo. Il Metropolita di Cesarea Nicola, il M. di Cizico Costantino, il M. di Amasea Germano, il M. di Pisidia Gerasimo, il M. di Ancira Gervasio, il M. di Eno Gioacchino, il M. di Vizia Antimo, il M. di Silivra Eugenio, il M. di Saranta Ecclesiae Agatangelo, il M. di Tirolac e Sarentio Crisostomo, il M. di Dardanelli e Lamsaco Ireneo. 137 IX Pio XI. Enciclica Mortalium animos. 1928 Ad RR. PP. DD. Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos, aliosque locorum Ordinarios Pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes: de vera religionis unitate fovenda158. Pius PP. XI. Venerabiles Fratres, salutem et apostolicam benedictionem. Mortalium animos nunquam fortasse alias tanta incessit cupiditas fraternae illius, qua — ob unam eandemque originem ac naturam — inter nos obstringimur copulamurque, necessitudinis cum confirmandae tum ad commune humanae societatis bonum transferendae, quantam per nostra haec tempora incessisse videmus. Cum enim nationes pacis muneribus nondum plene fruantur, quin immo vetera alicubi et nova discidia in seditiones inque civiles conflictiones erumpant; controversias autem sane plurimas, quae ad tranquillitatem prosperitatemque populorum pertinent, dirimi nequaquam liceat, nisi concors eorum actio atque opera intercedat, qui Civitatibus praesunt earumque negotia gerunt ac provehunt; facile intelligitur — eo magis quod de generis humani unitate iam nulli dissentiunt. — quare cupiant plerique, ut, universa eiusmodidi germanitate instinctae, cotidie arctius variae inter se gentes cohaereant. Rem haud dissimilem in iis, quae invectam a Christo Domino Novae Legis ordinationem respiciunt, efficere quidam contendunt. Quod enim pro comperto habeant, homines quovis religionis sensu destitutos perraro inveniri, idcirco eam in spem ingressi videntur, haud difficulter eventurum, ut populi, etsi de rebus divinis alii aliud tenent, in nonnullarum tamen professione doctrinarum quasi in communi quodam spiritualis vitae fundamento, fraterne consentiant. Qua de causa ab iis ipsis conventus, coetus, contiones, haud mediocri cum auditorum frequentia, haberi solent, et advocari illuc ad disceptandum promiscue omnes, cum ethnici omne genus, tum christifideles, tum etiam qui ab Christo infeliciter descivere vel qui divinae eius naturae ac legationi praefracte pertinaciterque repugnant. Eiusmodi sane molimenta probari nullo pacto catholicis possunt, quandoquidem falsa eorum opinione nituntur, qui censent, religiones quaslibet plus minus bonas ac laudabiles esse, utpote quae etsi non uno modo, aeque tamen aperiant ac significent nativum illum ingenitumque nobis sensum, quo erga Deum ferimur eiusque imperium obsequenter agnoscimus. Quam quidem opinionem qui habent, non modo ii errant ac falluntur, sed etiam, cum veram religionem, eius notionem depravando, repudient, tum ad naturalismum et atheismum, ut aiunt, gradatim deflectunt: unde manifesto consequitur, ut ab revelata divinitus religione omnino recedat quisquis talia sentientibus molientibusque adstipulatur. 158 Edita in Acta Apostolicae Sedis, a. XX, vol. XX. Roma 1928, pp. 5-16. 138 At fucata quadam recti specie nonnulli facilius decipiuntur cum de unitate agitur christianos inter omnes fovenda. Nonne —dictitari solet — aequum est, immo etiam cum officio consentaneum, quotquot Christi nomen invocant, eos et a mutuis criminationibus abstinere sese et mutua tandem aliquando caritate coniungi? Ecquis enim dicere audeat, ab se Christum amari, nisi pro viribus optata ipsius perficienda curet, Patrem rogantis ut discipuli sui «unum» essent? Atque idem Christus discipulos suos nonne hac veluti nota insigniri ab ceterisque distingui voluit, ut scilicet inter se diligerent: «In hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem»? Christiani quidem universi - addunt - utinam «unum» essent: etenim ad propulsandam impietatis luem multo plus possent, quae, cum latius in dies serpat ac pervagetur, enervare Evangelium parat. Haec aliaque id genus iactant atque inflant qui panchristiani vocantur; iidemque tantum abest ut pauci admodum rarique sint, ut, contra, in integros veluti ordines creverint, et in societates coiverint late diffusas, quas plerumque, etsi alii alia imbuti de rebus fidei doctrina, acatholici homines moderantur. Inceptum interea istud tam actuose provehitur, ut multifariam sibi civium assensum conciliet, et ipsos complurium catholicorum animos spe capiat alliciatque talis efficiendae unionis quae cum Sanctae Matris Ecclesiae votis congruere videatur, cui profecto nihil antiquius quam, ut devios ad gremium suum filios revocet ac reducat. Verum sub horum illecebris blandimentisque verborum error latet sane gravissimus, quo catholicae fidei fundamenta penitus disiiciuntur. Conscientia igitur apostolici officii cum moneamur, ut dominicum gregem perniciosis ne sinamus circumveniri fallaciis, vestram, Venerabiles Fratres, in cavendum eiusmodi malum diligentiam advocamus; confidimus enim, per scripta et verba cuiusque vestrum posse facilius et ad populum pertingere et a populo intellegi quae mox principia et rationes proposituri sumus, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumve cum res est de inceptis quae eo spectant, ut, quotquot christiani nuncupantur, ii omnes in unum corpus quoquo pacto coalescant. A Deo, universarum rerum Conditore, idcirco creati sumus ut eum cognosceremus eique serviremus; plenum igitur Auctor noster ius habet, ut sibi a nobis serviatur. Potuit quidem Deus regundo homini unam tantummodo praestituere naturae legem, quam scilicet, creando, in eius animo insculpsit, eiusque ipsius legis ordinaria deinceps providentia temperare incrementa; at vero praecepta ferre maluit, quibus pareremus, et decursu aetatum, scilicet ab humani generis primordiis ad Christi Iesu adventum et praedicationem, hominem ipsemet officia docuit, quae a natura rationis participe sibi Creatori deberentur: «Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis, novissime diebus istis locutus est nobis in Filio». Liquet inde, veram religionem esse posse nullam praeter eam quae verbo Dei revelato nititur: quam quidem revelationem, fieri ab initio coeptam et sub Veteri Lege continuatam, Christus ipse Iesus sub Nova perfecit. Iamvero, si locutus est Deus - quem reapse locutum, historiae fide comprobatur Ν, nemo non videt, hominis esse, Deo et revelanti absolute credere et omnino obedire imperanti: utrumque autem ut nos, ad Dei gloriam nostramque salutem, recto ageremus, Unigenitus Dei Filius suam in terris Ecclesiam constituit. Porro qui se christianos profitentur, putamus eos tacere non posse quin credant, Ecclesiam quandam, eandemque unam, ab Christo conditam esse; verum si quaeritur praeterea, qualem, Auctoris sui voluntate, eam esse oporteat, iam non omnes consentiunt. Ex iis enim bene multi, exempli causa, negant, Ecclesiam 139 Christi adspectabilem atque conspicuam esse oportere, eatenus saltem, quatenus unum apparere debeat fidelium corpus, in una eademque doctrina sub uno magisterio ac regimine concordium; at, contra, Ecclesiam adspectabilem seu visibilem intellegunt, non aliud esse, nisi Foedus ex variis christianorum communitatibus compositum, licet aliis aliae doctrinis, vel inter se pugnantibus, adhaereant. — Ecclesiam vero suam instituit Christus Dominus societatem perfectam, natura quidem externam obiectamque sensibus, quae humani generis reparandi opus, unius capitis ductu, per vivae vocis magisterium perque sacramentorum, caelestis gratiae fontium, dispensationem, in futurum tempus persequeretur; quamobrem et regno et domui et ovili et gregi eam comparando similem affirmavit. Quae quidem Ecclesia, tam mirabiliter constituta, Conditore suo itemque Apostolis eius propagandae principibus morte sublatis, desinere atque exstingui profecto non poterat, utpote cui mandatum esset, ut universos homines, nullo temporum locorumque discrimine, ad aeternam salutem perduceret: «euntes ergo docete omnes gentes». Cuius in perpetua perfunctione muneris num Ecclesiae aliquid virtutis efficaciaeque defuturum est, quando ei praesens perpetuo adest Christus ipsemet, sollemniter pollicitus: «Ecce vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi» ? Itaque fieri non potest quin Ecclesia Christi non modo et hodie et in omne tempus, sed etiam eadem prorsus exsistat, quae in aevo apostolico fuit, nisi dicere velimus - quod absit - Christum Dominum aut non suffecisse proposito, aut tum errasse cum asseveravit, portas inferi adversus eam nunquam fore praevalituras. Atque hoc loco aperienda occurrit ac tollenda falsa quaedam opinio, unde tota eiusmodi causa pendere videtur, itemque acatholicorum actio et conspiratio proficisci illa multiplex, quae ad consociandas christianas ecclesias, ut diximus, pertinet. Scilicet huius auctores consilii Christum dicentem: «Ut omnes unum sint ... Fiet unum ovile et unus pastor» paene infinite afferre consueverunt, ita tamen, ut significari per ea verba velint Christi Iesu votum et precem, quae adhuc effectu suo careant. Opinantur enim, fidei ac regiminis unitatem - quae verae et unius Ecelesiae Christi insigne est - nec fere unquam exstitisse antehac nec hodie exsistere; eandemque optari quidem posse et fortasse per communem voluntatum inclinationem aliquando effici, sed commenticium quiddam interea habendam esse. Addunt, Ecclesiam per se, seu natura sua, in partes esse divisam, idest ex plurimis ecclesiis seu communitatibus peculiaribus constare, quae, disiunctae adhuc, etsi nonnulla doctrinae capita habent communia, tamen in reliquis discrepant; iisdem sane iuribus frui singulas; Ecclesiam, ad summum, ab aetate apostolica ad priora usque Oecumenica Concilia unicam atque unam fuisse. Oportere igitur aiunt, controversiis vel vetustissimis sententiarumque varietatibus, quae christianum nomen ad hunc diem distinent, praetermissis ac sepositis, de ceteris doctrinis communem aliquam credendi legem effici ac proponi, cuius quidem in professione fidei omnes non tam norint quam sentiant se fratres esse; multiplices autem ecclesias seu communitates, si universo quodam foedere coniunctae sint, ea iam condicione fore, ut solide fructuoseque impietatis progressionibus obsistere queant. Ista quidem, Venerabiles Fratres, communiter. Verumtamen sunt qui ponant ac concedant, Protestantismum, quem vocant, quaedam fidei capita nonnullosque esterni cultus ritus, sane gratos atque utiles, inconsulto nimis abiecisse, quos, contra, Ecclesia Romana adhuc retinet. Mox tamen subiiciunt, hanc quoque ipsam perperam fecisse, quae priscam religionem corruperit, aliquibus doctrinis, Evangelio non tam alienis quam repugnantibus, 140 additis ad credendumque propositis; quas inter praecipuam illam numerant de iurisdictionis Primatu, qui Petro eiusque in Sede Romana successoribus adiudicatur. In quo quidem numero adsunt. Quamquam non ita multi, qui Romano Pontifici aut primatum honoris aut iurisdictionem seu potestatem quandam indulgeant, quam nihilominus non a iure divino sed a fidelium consensu quodammodo proficisci arbitrantur; atque alii vel eo progrediuntur, ut conventibus illis suis, quos versicolores dixeris, ipsum Pontificem praesidere cupiant. Quodsi multos, ceteroqui, reperire acatholicos licet fraternam in Christo Iesu communionem pleno ore praedicantes, at nullos profecto invenias, quorum in cogitationem cadat, ut Iesu Christi Vicario vel docenti vel gubernanti se subiiciant ac pareant. Interea affirmant, sese cum Ecclesia Romana, aequo tamen iure, idest pares cum pari libenter acturos: at agere si possent, non videtur dubitandum quin ea mente agerent, ut per pactum conventum forte ineundum ab iis opinionibus recedere ne cogerentur, quae causa adhuc sunt, cur extra unicum Christi ovile vagentur atque errent. Quae cum ita se habeant, manifesto patet, nec eorum conventus Apostolicam Sedem uno pacto participare posse, nec ullo pacto catholicis licere talibus inceptis vel suftragari vel operam dare suam; quod si facerent falsae cuidam christianae religioni auctoritatem adiungerent, ab una Christi Ecclesia. admodum alienae. Num Nos patiemur - quod prorsus iniquum foret - veritatem, eamque divinitus revelatam, in pactiones deduci ? Etenim de veritate revelata tuenda in praesenti agitur. Siquidem ad omnes gentes evangelica fide imbuendas misit Christus Iesus in mundum universum Apostolos, quos, ne quid errarent, per Spiritum Sanctum doceri ante voluit omnem veritatem: numne haec Apostolorum doctrina, in Ecclesia, cui rector et custos Deus ipse adest, aut penitus defecit aut perturbata aliquando est? Quodsi Evangelium suum Redemptor noster non ad apostolica tantum tempora, sed ad futuras quoque aetates pertinere, significanter edixit, potuitne obiectum fidei tam obscurum incertumve procedente tempore fieri, ut opiniones vel inter se contrarias hodie oporteat tolerari ? Hoc si verum esset, dicendum quoque foret, et Spiritus Paracliti in Apostolos illapsum et eiusdem Spiritus in Ecclesia permansionem perpetuam et ipsam Iesu Christi praedicationem abhinc pluribus saeculis efficaciam utilitatemque omnem amisisse: quod sane affirmare, blasphemum est. Iamvero Unigenitus Dei Filius, cum legatis suis imperavit ut docerent omnes gentes, tum omnes homines hoc obstrinxit officio, ut iis rebus fidem adiungerent quae sibi a «testibus praeordinatis a Deo» nuntiarentur, atque ita iussum sanxit: «Qui crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit; qui vero non crediderit, condemnabitur»; sed utrumque Christi praeceptum, quod non impleri non potest, alterum scilicet docendi, alterum credendi ad aeternae, adeptionem salutis, ne intellegi quidem potest, nisi Ecclesia evangelicam doctrinam proponat integram ac perspicuam sitque in ea proponenda a quovis errandi periculo immunis. In quo de via ii quoque declinant, qui censent, depositum quidem veritatis in terris exsistere, sed tam operoso labore, tam diuturnis studiis disceptationibusque illud quaeri oportere, ut ad inveniendum ac potiundum vix hominis vita sufficiat; quasi benignissimus Deus per prophetas et Unigenitum suum sit idcirco locutus, ut quae per hos revelasset, pauci tantummodo, iidemque aetate iam graves, perdiscerent, minime vero ut fidei morumque doctrinam praeciperet, qua homo per totum mortalis vitae curriculum regeretur. 141 Videantur quidem panchristiani isti, qui ad consociandas ecclesias intendunt animum, nobilissimum persequi consilium caritatis christianos inter omnes provehendae; at tamen qui fieri potest, ut in fidei detrimentum caritas vergat ? Nemo sane ignorat, Ioannem ipsum, caritatis Apostolum, qui in evangelio suo Cordis Iesu, Sacratissimi videtur secreta pandidisse perpetuoque memoriae suorum praeceptum novum «Diligite alterutrum» inculcare consueverat, omnino vetuisse ne quid cum iis haberetur commercii, qui Christi doctrinam non integram incorruptamque profiterentur: «Si quis venit ad vos et hanc doctrinam non affert, nolite recipere eum in domum, nec ave ei dixeritis». Quamobrem cum caritas fide integra ac sincera, quasi fundamento, innitatur, tum unitate fidei, quasi praecipuo vinculo, discipulos Christi copulari opus est. Itaque fingere animo qui liceat christianum quoddam Foedus, quod qui inierint, vel tum, cum de fidei obiecto agitur, suam quisque cogitandi sentiendique rationem retineant, quamvis ea ceterorum opinionibus repugnet ? Et quo pacto, rogamus, unum idemque fidelium Foedus participent homines qui contrarias in sententias abeunt? ut, exempli causa, sacram Traditionem genuinum esse divinae Revelationis fontem, qui affirmant et qui negant ? ut qui ecclesiasticam hierarchiam, ex episcopis, presbyteris acque ministris constantem, censent divinitus constitutam, et qui asserunt pro rerum temporumque condicione pedetemptim inductam ? qui in Sanctissima Eucharistia per mirabilem illam panis et vini conversionem, quae transsubstantiatio appellatur, praesentem reapse Christum adorant, et qui ibi corpus Christi tantummodo per fidem vel per signum ac virtutem Sacramenti adesse affirmant; qui in ea ipsa sacrificii item ac sacramenti naturam agnoscunt, et qui eam dicunt nihil esse aliud quam Dominicae Coenae memoriam seu commemorationem qui bonum atque utile esse credunt, Sanctos una cum Christo regnantes, in primis Deiparam Mariam, suppliciter invocari eorumque imaginibus venerationem impertiri, et qui contendunt eiusmodi cultum adhiberi non posse, utpote qui honori «unius mediatoris Dei et hominum» Iesu Christi adversetur ? Qua quidem tanta opinionum discrepantia nescimus quomodo ad unitatem Ecclesiae efficiendam muniatur via, quando ea nisi ex uno magisterio, ex una credendi lege unaque christianorum fide oriri non potest; at scimus profecto, facile inde gradum fieri ad religionis neglegentiam seu indifferentismum et ad modernismum, ut aiunt, quo qui misere infecti sunt, tenent iidem, veritatem dogmaticam non esse absolutam sed relativam, idest variis temporum locorumque necessitatibus variisque animorum inclinationibus congruentem, cum ea ipsa non immutabili revelatione contineatur, sed talis sit, quae hominum vitae accommodetur. Praeterea, quod ad res credendas attinet. discrimine illo uti nequaquam licet quod inter capita fidei fundamentalia et non fundamentalia, quae vocant, induci placuit, quasi altera recipi ab omnibus debeant, libera, contra, fidelium assensioni permitti altera queant; supernaturalis enim virtus fidei causam formalem habet, Dei revelantis auctoritatem. quae nullam distinctionem eiusmodi patitur. Quapropter quotquot vere sunt Christi, quam, exempli gratia, Augustae Trinitatis mysterio fidem praestant, eandem dogmati Deiparae sine labe originis Conceptae adhibent, pariterque Incarnationi Dominicae non aliam atque infallibili Romani Pontificis magisterio, eo quidem sensu quo ab Oecumenica Vaticana Synodo definitum est. Neque enim quod eiusmodi veritates alias aliis aetatibus, vel proxime superioribus, sollemni Ecclesia decreto sanxit ac definivit, eaedem idcirco non aeque certae, non aeque credendae; nonne Deus illas omnes revelavit? Etenim Ecclesiae magisterium - quod divino 142 consilio in terris constitutum est ut revelatae doctrinae cum incolumes ad perpetuitatem consisterent, tum ad cognitionem hominum facile tutoque traducerentur — quamquam per Romanum Pontificem et Episcopos cum eo communionem habentes cotidie exercetur, id tamen complectitur muneris, ut, si quando aut haereticorum erroribus atque oppugnationibus obsisti efficacius aut clarius subtiliusque esplicata sacrae doctrinae capita in fidelium mentibus imprimi oporteat, ad aliquid tum sollemnibus ritibus decretisque definiendum opportune procedat. Quo quidem extraordinario magisterii usu nullum sane inventum inducitur nec quidquam additur novi ad earum summam veritatum, quae in deposito Revelationis, Ecclesiae divinitus tradito, saltem implicite continentur, verum aut ea declarantur quae forte adhuc obscura compluribus videri possint aut ea tenenda de fide statuuntur quae a nonnullis ante in controversiam vocabantur. Itaque, Venerabiles Fratres, planum est cur haec Apostolica Sedes numquam siverit suos acatholicorum interesse conventibus: christianorum enim coniunctionem haud aliter foveri licet, quam fovendo dissidentium ad unam veram Christi Ecclesiam reditu, quandoquidem olim ab ea infeliciter descivere. Ad unam veram Christi Ecclesiam, inquimus, omnibus sane conspicuam et talem, Auctoris sui voluntate, perpetuo mansuram, qualem ipsemet ad communem salutem instituit. Neque enim mystica Christi Sponsa, saeculorum decursu, contaminata est unquam, nec contaminari aliquando potest, teste Cvpriano: «Adulterari non potest Sponsa Christi: incorrupta est et pudica. Unam domum novit, unius cubiculi sanctitatem casto pudore custodit». Et sanctus idem Martyr iure meritoque mirabatur vehementer, quod credere quispiam posset «hanc unitatem de divina firmitate venientem, sacramentis caelestibus cohaerentem, scindi in ecclesia posse et voluntatum collidentium divortio separariΠ . Cum enim corpus Christi mysticum, scilicet Ecclesia, unum sit, compactum et connexum corporis eius physici instar, inepte stulteque dixeris Mysticum corpus ex membris disiunctis dissipatisque constare Posse : quisquis igitur cum eo non copulatur, nec eius est membrum nec cum capite Christo cohaeret. Iamvero in hac una Christi Ecclesia nemo est, perseverat nemo, nisi Petri, legitimorumque eius successorum, auctoritatem potestatemque obediendo agnoscat atque recipiat. Episcopo quidem Romano, summo animarum Pastori, nonne maiores paruerunt eorum, qui Photii novatorumque erroribus implicantur? Recesserunt heu filii a paterna domo, quae non idcirco concidit ac periit, perpetuo ut erat Dei fulta praesidio; ad communem igitur Patrem revertantur, qui, iniurias Apostolicae Sedi ante inustas oblitus, eos amantissime accepturus est. Nam si, quemadmodum dictitant, consociari Nobiscum et cum nostris cupiunt, cur non ad Ecclesiam adire properent, «matrem universorum Christi fidelium et magistram ?». Lactantium iidem audiant clamitantem : ΟSola ... catholica Ecclesia est quae verum cultum retinet. Hic est fons veritatis, hoc domicilium Fidei, hoc templum Dei: quo si quis non intraverit vel a quo si quis exierit, a spe vitae ac salutis alienus est. Neminem sibi oportet pertinaci concertatione blandiri. Agitur enim de vita et salute: cui nisi caute ac diligenter consulatur, amissa et extincta erit». Ad Apostolicam igitur Sedem, hac in Urbe collocatam quam Petrus et Paulus Principes Apostolorum suo sanguine consecrarunt, ad Sedem, inquimus, «Ecclesiae catholicae radicem et matricem, dissidentes accedant filii, non ea quidem mente ac spe, ut ΟEcclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis Δ fidei integritatem abiiciat suosque ipsorum toleret errores, sed, contra, ut se illius 143 magisterio ac regimini permittant. Utinam, quod tam multis decessoribus Nostris nondum obtigit, id Nobis auspicato contingat, ut, quos funesto discidio seiunctos a Nobis filios dolemus, paterno animo amplectamur; utinam Salvator noster Deus « qui omnes homines vult salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire». Nos audiat enixe exposcentes, ut errantes omnes ad unitatem Ecclesiae vocare dignetur. Quo quidem in negotio sane gravissimo deprecatricem Beatam Mariam Virginem Matrem divinae gratiae, omnium victricem haeresum et Auxilium christianorum adhibemus adhiberique volumus, ut optatissimi illius diei Nobis quamprimum impetret adventum, quo die universi homines divini eius Filii vocem audient « servantes unitatem Spiritus in vinculo pacis». Hoc, Venerabiles Fratres, intellegitis quam Nobis sit in votis, idque sciant cupimus filii Nostri, non modo quotquot sunt ex orbe catholico, sed etiam quotquot a Nobis dissident: qui si humili prece caelestia lumina imploraverint, sane non dubium quin unam Iesu Christi veram Ecclesiam sint agnituri eamque tandem ingressuri, perfecta nobiscum caritate coniuncti. In huius exspectatione rei, auspicem divinorum munerum ac testem paternae benevolentiae Nostrae, vobis, Venerabiles Fratres, et clero populoque vestro apostolicam benedictionem peramanter impertimus. Datum Romae apud Sanctum Petrum die VI mensis Ianuarii, in Festo Epiphaniae Iesu Christi D. N., anno MDCCCCXXVIII, Pontificatus Nostri sexto. Pius Papa XI. 144