Marco Ferrero – Alessandro Padoan
Imago Ecclesiæ
Medioevo di pietre e colori
Arte e storia di un territorio medievale
Vicenza tra viii e xiv secolo
casa editrice
Presentazione e piano del lavoro
Queste brevi note rappresentano esclusivamente una sintetica premessa per la comprensione delle finalità del
lavoro.
Si tratta di una ricerca volta a fornire uno strumento per ulteriori approfondimenti, una sorta di repertorio che
ha l’ambizione di rappresentare, attraverso un’analisi artistica e, in subordine, storica, un quadro completo della
superstite architettura sacra medievale del territorio vicentino.
■ L’area della ricerca
La scelta è stata quella di operare su un ambito geografico che non ha confini istituzionali nettamente definiti, ma
trova la sua ragion d’essere in motivazioni di ordine storico e culturale.
Punto di partenza è stato quello dei confini delle attuali province, che si intersecano tuttavia con quelli diocesani:
una pieve o un qualunque edificio sacro rientra in questi ovviamente e a questi deve fare riferimento.
Trattandosi di un’indagine che contempera passato e presente abbiamo inteso prendere in considerazione i confini
attuali della diocesi di Vicenza unitamente a quelli precedenti le modifiche operate dopo il 1818: il risultato è un
territorio assai ampio, che confina (e questo non è privo di significato per comprendere molte contaminazioni
sotto il profilo artistico) con il Padovano, il Veronese e – sia pure con minori, ma importanti, implicazioni – con
il Trentino.
■ La cronologia
Sotto il profilo cronologico non possiamo evidentemente definire un vero e proprio punto di partenza, ma uno
di arrivo sì, ovvero quello del passaggio al gotico, che nel Vicentino avviene in ritardo rispetto ad altre aree della
pianura padana. La nostra ricerca si chiude dunque in un periodo compreso tra gli ultimi anni del XIV e i primi del
XV secolo.
■ La metodologia
L’individuazione di un metodo coerente sul quale fondare ogni elaborazione ha rappresentato il problema principale.
Se la mancanza di una precedente letteratura – intesa in senso contemporaneo – poteva in qualche modo penalizzare la ricerca, dall’altro essa ha fatto sì che l’indagine si sia svolta in un contesto privo di evidenti condizionamenti
e dunque valido per creare un piano di lavoro completamente nuovo.
Il lavoro è stato condotto contemporaneamente su due fronti: quello delle carte, che rappresentano un ausilio prezioso e indispensabile per collocare correttamente ogni edificio nel proprio contesto, e quello della permanenza
architettonica, necessario e ineludibile trait d’union tra passato e presente. In mancanza di quest’ultima si sarebbe
realizzato un quadro storico tanto affascinante quanto sterile sotto il profilo dell’attualizzazione del soggetto; ed
è bene ricordare che le finalità del lavoro sono di ordine artistico e architettonico.
■ Le fonti
1. Il punto di partenza – utile sotto il profilo geografico e istituzionale – è stato quello delle Rationes decimarum, un
censimento voluto dalla Chiesa di Roma, redatto negli ultimi anni del XIII e nei primi del XIV secolo al fine
di stabilire il censo dovuto da ogni edificio ecclesiastico: fondamentale dunque la sua elencazione delle chiese
presenti, articolato secondo precisi criteri territoriali.
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2. Su questa base si è innestata la lettura della Storia del territorio vicentino compiuta a cavallo tra XVIII e XIX
secolo dall’abate Gaetano Maccà: le Rationes costituiscono una fonte originale cui fare riferimento, mentre
l’analisi dell’abate Maccà si configura come un importante elemento di collegamento tra quelle e il presente,
una “fotografia” dettagliata dell’esistente realizzata in un momento in cui, tra la fine del XVIII e l’inizio del
XIX secolo, l’unico strumento a disposizione era quello dell’osservazione diretta.
3. Terzo momento quello della lettura delle Visite pastorali del Novecento, un tassello importante per comprendere il mutamento verificatosi a livello di persistenza e conservazione degli edifici.
4. A completamento dell’aspetto documentario è stato poi compiuto uno spoglio bibliografico relativo a ogni
edificio, raccogliendo sia le monografie e gli eventuali articoli in riviste di settore, sia quanto apparso sulla
stampa periodica locale: Il Giornale di Vicenza, Il Gazzettino, La Voce dei Berici e La Difesa del Popolo – ma anche
le numerose testate con ristretta circolazione, patrimonio spesso inesplorato della storiografia locale – alla
ricerca anche degli articoli che nel tempo hanno sottolineato l’attenzione – o la trascuratezza – verso questi
manufatti; integrando poi il tutto con una bibliografia artistica di più ampio respiro, con l’intento di sottolineare come anche apparentemente modesti edifici oggi isolati nella campagna si possano talvolta inserire a
pieno titolo tra i migliori esempi artistici nazionali.
■ L’analisi delle permanenze
Il passo successivo è stato quello di lavorare sull’«esistente», ovvero sui manufatti artistici ancora esistenti (architetture, affreschi, reperti lapidei ...), confrontandoli con le fonti storiografiche citate: tutto ciò ha consentito
poi di verificare sul territorio cosa agli inizi del terzo millennio è sopravvissuto e di effettuare una campagna
fotografica completa: 6000 scatti circa, sui quali abbiamo operato una scelta, integrandola in tempi recenti con
aggiustamenti «digitali», sfruttando le nuove tecnologie e verificando anche, a distanza di alcuni anni dalla prima campagna (circa 15), quali edifici avessero subito interventi di restauro o se vi fossero state nuove scoperte.
In tal senso non sono mancate le sorprese.
■ I risultati
Il risultato è stato quello della presa in esame di circa 130 edifici con la stesura di una scheda per ciascuno di
essi, che intende offrirne un quadro il più possibile esaustivo, senza peraltro avere la presunzione che sia anche
definitivo. Del resto, ognuno di essi meriterebbe una monografia.
Di ciascun edificio sono forniti l’indicazione della posizione geografica al fine di facilitarne l’individuazione sul
territorio, approfondimenti che riguardano le fonti storiografiche, l’illustrazione storica e artistica e la bibliografia specifica.
Né si pensi che i risultati siano solo numerici: intendiamo cioè che anche sotto il profilo prettamente estetico e
artistico ci troviamo spesso di fronte a capolavori che meriterebbero di essere maggiormente valorizzati e di rientrare anche in un circuito turistico che potrebbe ampliare l’orizzonte culturale del Vicentino oltre il consueto
e ampiamente sfruttato momento palladiano.
■ La raccolta dei dati
Non tutte le chiese possono essere considerate “medievali” nel loro complesso o possono offrire analoghi reperti d’epoca medievale. Se vogliamo essere più precisi è possibile raggrupparle in almeno tre grandi categorie
che ci consentono di chiarire e differenziare la diversa tipologia riscontrata:
- oltre la metà conservano parti rilevanti di elementi strutturali e/o decorativi risalenti al medioevo: facciata,
pianta e ampie porzioni di muri, abside, campanile, affreschi sui muri originari. Tra gli esempi più significativi vi sono le chiese di S. Giorgio a Bassano, S. Giorgio a Velo d’Astico, S. Vittore a Priabona (Monte di
Malo), S. Michele a Caldogno, S. Donato a Cittadella, S. Maria Etiopissa a Polegge (Vicenza), S. Michele
di Armedola a San Pietro in Gù, S. Agostino a Vicenza e S. Salvatore a Montecchia di Crosara;
- poco più di un terzo presentano tracce strutturali risalenti al medioevo: fondamenta dell’edificio originario,
ruderi, arco absidale, singole porte, singole finestre, spessore dei muri. Tra queste possiamo ricordare quelle
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di S. Eusebio a Bassano, di S. Pietro a Rosà, dei SS. Fermo e Rustico a Bolzano Vicentino, dei SS. Nicolò e
Osvaldo a Pianezze;
- infine, una quindicina di altri edifici, completamente ricostruiti in epoca successiva, contengono singoli reperti risalenti al periodo medievale, quali iscrizioni lapidee, fregi usati come materiali di recupero, affreschi
staccati dai muri originari, sculture. A titolo di esempio citiamo le chiese di S. Martino a Torri di Quartesolo
(Lerino), di S. Andrea a Trissino, di S. Vigilio a Pove, di S. Vincenzo a Spiazzo (Grancona), di S. Spirito a
Oliero (Valstagna).
■ Gli apparati introduttivi
Una serie di brevi testi introduttivi sono stati redatti per contestualizzare gli edifici sotto il profilo politico e
istituzionale:
- chiese legate alle vie di comunicazione (a Pressana abbiamo incisioni che si rifanno al ciclo bretone);
- chiese inserite nel rilevante tessuto medievale delle reti monastiche (S. Maria Etiopissa in dipendenza da
Pomposa, ma anche S. Croce di Campese fondata dall’allora in carica abate di Cluny);
- altre collegate al ruolo assistenziale di alcuni ordini, come quello del Battuti (così per il rilevante ciclo di
affreschi della chiesa dell’Immacolata di S. Vito di Leguzzano);
- e, ancora, la presenza di diversi edifici con doppia abside, tipologia che negli ultimi anni, grazie alle indagini
archeologiche, ha evidenziato un’ampia diffusione anche a livello europeo e di cui il Vicentino ha mostrato
di far parte pienamente (per esempio S. Pietro di Rosà e SS. Fermo e Rustico di Bolzano Vicentino).
Si tratta soltanto di pochi esempi che tuttavia testimoniano visivamente a noi, oggi, della complessità artistica,
politica e religiosa del mondo medievale, vicentino nello specifico.
■ Conclusioni
I sopralluoghi condotti in ogni località sono serviti a verificare la realtà attuale e la consistenza artistica dei
manufatti, l’attendibilità delle varie fonti bibliografiche e lo stato di conservazione.
Il primo e più importante risultato è senza dubbio quello che conduce a sottolineare come il cospicuo patrimonio storico-architettonico medievale del territorio versi per gran parte in un pessimo stato per quanto riguarda
la sua conservazione, tutela e valorizzazione; la lunga gestazione del lavoro ha inoltre evidenziato impietosamente tale iter, così come ha portato all’attenzione di chi scrive come molti progetti avviati per restituire
dignità ad alcuni tra questi edifici siano rimasti per lo più sulla carta, per cui l’area oggetto della ricerca rivela
un degrado talvolta malinconicamente evidente.
Tutela e valorizzazione sono le parole d’ordine obbligate, che una sensibilità moderna e matura dovrebbe saper
trasformare in interventi concreti quando è in gioco la gestione di un importante lascito artistico: non solo salvando con provvidenziali restauri gli edifici più compromessi dal tempo e dall’incuria degli uomini, ma anche
portando a termine opportune campagne di scavo alla ricerca di utili testimonianze da aggiungere a quanto
già conosciuto attraverso l’analisi dell’alzato – in tal senso alcuni accenni a recenti scoperte compiute grazie
all’ausilio delle più moderne tecnologie renderanno chiaro il concetto di possibili futuri sviluppi nel settore – o
cercando di sensibilizzare i privati proprietari incentivandone l’opera di restauro.
Uno degli obiettivi del presente lavoro è anche quello della fissazione di uno status quo e dello stimolo al recupero di una coscienza storica e artistica di assoluto valore.
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Gli Autori
Marco Ferrero
Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università di Torino con una tesi in Storia Medievale incentrata sul ruolo
svolto dalla storiografia subalpina nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo.
Il lavoro ha conseguito il 2° premio a un concorso indetto dalla provincia di Cuneo per opere storiche relative
al territorio.
Dopo aver effettuato un periodo di insegnamento presso istituti della provincia di Torino, ha avviato un’attività
autonoma di consulente editoriale e di grafica che si è concretizzata nello studio grafico Scriptorium.
È stato membro e consigliere del Mediæ Ætatis Sodalicium di Bologna, al cui interno si è occupato di storia del
monachesimo in collaborazione con il Prof. Réginald Grégoire dell’Università di Urbino.
In tale contesto ha curato la semestrale Rassegna Stampa, che si proponeva di portare all’attenzione generale
una selezione dei migliori articoli di storia medievale comparsi sulla stampa quotidiana e periodica.
È stato membro del Centro Studi Abbaziali, inserito all’interno dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia,
che si occupa dello studio dei contenuti relativi ai grandi movimenti monastici medievali, sia sotto il profilo
storico sia artistico-architettonico.
Ha collaborato con la L.A.R.T.I. (Libera Associazione Ricercatori Templari Italiani) nell’organizzazione dei
Convegni annuali).
Svolge inoltre attività di ricerca nel settore della storia medievale e tiene, sullo stesso argomento, conferenze e
lezioni presso istituzioni pubbliche e private.
A vario titolo ha collaborato con riviste di settore pubblicando saggi a carattere storico e artistico.
Collabora con la manifestazione ticinese Cantar di Pietre.
Nel 1998 ha fondato il Centro Studi medievali Ponzio di Cluny a Bassano del Grappa (Vicenza)
(http://www.ponziodicluny.it).
L’associazione opera nel settore della ricerca e della divulgazione in ambito medievistico attraverso
l’organizzazione di corsi annuali e la pubblicazione di ricerche scientifiche in collaborazione con i principali
centri di insegnamento medievistico in Italia.
Alessandro Padoan
Musicologo e clavicembalista, diplomatosi al Conservatorio di Bologna e perfezionatosi a Vienna con Gordon
Murray, è docente di ruolo al Conservatorio “C. Monteverdi” di Bolzano. È laureato in Discipline della Musica
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, con una tesi sulla semiologia del canto
gregoriano con Nino Albarosa.
Nel 1991 è stato tra i fondatori dell’Associazione Mediæ Ætatis Sodalicium, dedita allo studio e alla diffusione della
cultura medievale, con sede a Bologna.
Oltre alla sua attività concertistica e didattica nel campo della musica antica e della sua diffusione (è presidente
dell’Accademia Berica per la Musica Antica, fondata nel 2012) e della storia musicale della città di Vicenza
(è autore del libro Il Teatro della Pusterla, Vicenza, Edizioni Nuovo Progetto, 1993), da molti anni si dedica
anche alla ricerca di ambito medievale, legata in particolare alla storia, alla semiologia e alla paleografia del
canto gregoriano. Numerose sono le conferenze al suo attivo, tra cui un suo intervento al “5° Congresso
dell’Associazione Internazionale Studi di Canto Gregoriano”, tenutosi a Vienna nel 1995, e i suoi saggi pubblicati in
«Studi Gregoriani», «Beiträge zur Gregorianik», «I Quaderni del M.AE.S.» e nel volume Gregoriano in Lombardia,
LIM Editrice, 2000. Ha collaborato inoltre alle edizioni in facsimile del Graduale Benevento, Biblioteca Capitolare 40
(1991) e del Messale Verdun, Bibliothèque Municipale 759 (1994).
È stato Cultore della Paleografia Musicale presso l’Università di Udine dal 1994 al 1997.
I suoi interessi per gli approfondimenti di storia dell’arte riguardanti gli edifici di culto medievali lo hanno
spinto a dedicarsi, fin dal 1994, in collaborazione con il collega Marco Ferrero, anch’egli all’epoca consigliere
del Mediæ Ætatis Sodalicium, all’appassionante e impegnativo progetto d’indagine sulle chiese medievali del
Vicentino, che è sfociato nella pubblicazione di Imago Ecclesiae.
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Indice
■
■
Presentazione
Introduzione metodologica
■ L’area interessata dall’indagine
■ Provincia e diocesi; pre- e post- 1818
■ Le fonti
■ Da Barbarano e Maccà a Mantese. Utilizzo dell’erudizione
■ Rilevanze artistiche
■
Schede
■
Indice delle cose notevoli: architettura
■
Indice delle cose notevoli: scultura
■
Indice delle cose notevoli: pittura
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Elenco degli edifici
LOCALITÀ
Chiesa
AGUGLIARO (Finale)
Chiesa di S. Bernardino
AGUGLIARO (Fogliascheda)
Chiesa di S. Marco
ALBETTONE (Lovertino)
Chiesa di S. Vito
ALONTE
Chiesa di S. Maria della Rasa
ARCOLE (Alzana)
Chiesa di S. Maria
ARCUGNANO
Chiesa di S. Margherita
ARCUGNANO (Villa di Fimon)
Chiesa di S. Rocco
ARZIGNANO
Chiesa di S. Matteo
ARZIGNANO
Chiesa di S. Bortolo
ARZIGNANO (Costo)
Chiesa di S. Maria in Allo (Madonnetta)
BARBARANO
S. Maria Assunta
BARBARANO
Chiesa di S. Martino
BARBARANO (S. Giovanni in Monte)
Chiesa di S. Giovanni
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Maria delle Grazie
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Maria in Colle
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Francesco
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Antonio Abate
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Donato
BASSANO DEL GRAPPA
Chiesa di S. Sebastiano
BASSANO DEL GRAPPA (Angarano)
Chiesa di S. Giorgio “alle acque”
BASSANO DEL GRAPPA (Angarano)
Eremo di S. Bovo
BASSANO DEL GRAPPA (Angarano)
Chiesa di S. Eusebio
BASSANO DEL GRAPPA (Campese)
Chiesa di S. Martino
BASSANO DEL GRAPPA (Campese)
Chiesa di S. Croce
BOLZANO VICENTINO
Chiesa dei SS. Fermo e Rustico
BREGANZE
Chiesa di S. Stefano
BROGLIANO
Chiesa di S. Martino
CALDOGNO
Chiesa di S. Michele
CALDOGNO
Chiesa di S. Giovanni
CALTRANO
Chiesa di S. Giorgio
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CARRÈ
Chiesa di S. Lucia
CASTEGNERO
Chiesa di S. Maria (già parrocchiale di Nanto)
CASTEGNERO
Chiesa di S. Giorgio
CASTELGOMBERTO
Chiesa dei SS. Fermo e Rustico
CASTELGOMBERTO
Chiesa di S. Stefano
CHIAMPO
Chiesa di S. Biagio in Vignalta
CHIAMPO
Chiesa di S. Daniele
CITTADELLA
Chiesa di S. Prosdocimo
CITTADELLA
Chiesa di S. Donato
COGOLLO DEL CENGIO
Chiesa di S. Agata
COLOGNA VENETA
Chiesa di S. Giovanni (Domus di Umiliati)
CORNEDO (Cereda)
Chiesa di S. Andrea Apostolo
COSTABISSARA
Chiesa di S. Zeno
COSTABISSARA
Chiesa di S. Maria in Favrega
CREAZZO (Olmo)
Chiesa di S. Nicolò
GAMBELLARA
Chiesa di S. Marco
GAMBELLARA (Sorio)
Chiesa di S. Giorgio
GRANCONA (Acque)
Chiesa di S. Antonio Abate
1
GRANCONA 1
Chiesa dei SS. Gaudenzio e Apollonia
GRANCONA (Spiazzo)
Chiesa di S. Vincenzo
GRUMOLO DELLE ABBADESSE (Rasega)
Chiesa di S. Zeno
ISOLA VICENTINA
Chiesa di S. Maria del Cengio
ISOLA VICENTINA (Castelnovo)
Chiesa di S. Lorenzo
LONGARE (Costozza)
Chiesa di S. Antonio Abate
LONGARE (Costozza)
Chiesa di S. Sofia
LONGARE (Costozza)
Chiesa di S. Mauro
LONGARE (Lumignano)
Chiesa di S. Maiolo
LONGARE (Lumignano)
Chiesa di S. Maria in Valle (o “della Neve”)
LONIGO
Chiesa dei SS. Fermo e Rustico
LONIGO
Chiesa di S. Marina
LUSIANA (Campana)
Campanile
MALO
Chiesa di S. Benedetto
MALO
Chiesa di S. Francesco
MALO
Chiesa di S. Bernardino
MALO
Santuario di S. Libera (Chiesa di S. Maria Assunta)
MAROSTICA
Chiesa di S. Antonio
MAROSTICA
Chiesa di S. Maria Assunta
1
1
Manteniamo in questo caso il nome del Comune originale. Dal mese di marzo 2017 il Comune di Grancona e il
Comune di Villa del Ferro si sono fusi in una nuova entità istituzionale con il nome di Val Liona
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MAROSTICA
Chiesa di S. Vito
MAROSTICA (Marsan)
Chiesa di S. Agata
MASON (Turra)
Chiesa di S. Biagio
MONTE DI MALO
Chiesa di S. Giorgio
MONTE DI MALO (Priabona)
Chiesa di S. Vittore
MONTEBELLO
Chiesa di S. Daniele
MONTECCHIA DI CROSARA
Chiesa di S. Salvatore
MONTECCHIO PRECALCINO (Castelvecchio)
Chiesa di S. Pietro
MONTEFORTE D’ALPONE
Chiesa di S. Antonio
MONTEFORTE D’ALPONE (Brognoligo)
Chiesa di S. Stefano (vecchia)
MONTEFORTE D’ALPONE (Sarmazza)
Chiesa di S. Croce
MONTEGALDA (Castello)
Chiesa del SS. Crocifisso
MONTORSO V.NO (Ponte Cocco)
Chiesa dei SS. Marcello e Anna
NOGAROLE V.NO (Castellaro)
Chiesa dei SS. Rocco e Sebastiano
ORGIANO
Chiesa dei SS. Antonio Abate e Lazzaro
ORGIANO
Chiesa di S. Rocco
PIANEZZE
Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo
PIANEZZE
Chiesa dei SS. Nicolò e Osvaldo
POVE DEL GRAPPA
Chiesa di S. Vigilio
POVE DEL GRAPPA
Chiesa di S. Pietro
POVE DEL GRAPPA
Chiesa di S. Bartolomeo
PRESSANA
Chiesa di S. Maria
PRESSANA (Gazzo)
Chiesa di S. Giovanni Battista
ROMANO D’EZZELINO
Chiesa di S. Maria (cimitero vecchio)
RONCÀ
Chiesa di S. Margherita
ROSÀ (San Pietro)
Chiesa di S. Pietro
SALCEDO
Chiesa dei SS. Sigismondo e Valentino
SAN BONIFACIO
Chiesa di S. Abbondio
SAN BONIFACIO (Villanova)
Basilica di S. Pietro di Villanova
SAN GERMANO DEI BERICI (Villa del Ferro)
Chiesa di S. Lorenzo
SAN GIOVANNI ILARIONE (Scandolaro)
Chiesa di S. Zeno
SAN PIETRO IN GU’ (Armedola)
Chiesa di S. Michele
SAN PIETRO MUSSOLINO
Chiesa di S. Pietro (vecchia)
SAN VITO DI LEGUZZANO
Chiesa di S. Maria Maddalena
SAN VITO DI LEGUZZANO
Chiesa dell’Immacolata Concezione (Chiesa di Sotto)
SANTORSO
Chiesa di S. Dionigi
SANTORSO
Chiesa di S. Orso
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2
Manteniamo in questo caso il nome del Comune originale. Dal mese di marzo 2017 il Comune di Grancona e il
Comune di Villa del Ferro si sono fusi in una nuova entità istituzionale con il nome di Val Liona
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SANTORSO
Chiesa di S. Vito
SARCEDO (San Giorgio, Ròvere)
Chiesa di S. Giorgio
SARCEDO
Chiesa di S. Pietro in Bodo
SAREGO
Chiesa di S. Eusebio
SCHIO
Chiesa di S. Maria
SCHIO (Giavenale)
Chiesa di S. Giustina
SCHIO (Magrè, Val Bova)
Chiesa di S. Zeno
SCHIO (Magrè)
Chiesa dei SS. Leonzio e Carpoforo
SCHIO (Poleo)
Chiesa di S. Martino
SELVAZZANO DENTRO
Chiesa di S. Michele
SELVAZZANO DENTRO (Quarta)
Chiesa di S. Maria
SOLAGNA
Monastero o chiesa (?), affresco
SOLAGNA
Chiesa di S. Giorgio
SOVIZZO
Chiesa di S. Pietro
SOVIZZO
Chiesa di S. Reparata
THIENE
Chiesa di S. Vincenzo
THIENE (Santo)
Chiesa di S. Antonio
TOMBOLO (Onara)
Chiesa di S. Margherita
TORRI DI QUARTESOLO (Lerino)
Chiesa di S. Martino
TRISSINO
Chiesa di S. Andrea
VALDAGNO (Maglio di Sopra)
Chiesa di S. Maria di Panisacco
VALSTAGNA (Oliero)
Chiesa di S. Spirito
VELO D’ASTICO
Chiesa di S. Giorgio
VICENZA
Abbazia di S. Agostino
VICENZA
Chiesa di S. Giorgio
VICENZA
Chiesa di S. Martino al Ponte del Marchese
VALDASTICO (Forni)
Chiesa di S. Maria Maddalena (Crocifisso, ora a Vicenza, Chiesa di S. Maria in Araceli ora di Cristo Re)
VICENZA (Bertesinella)
Chiesa di S. Benedetto
VICENZA (Longara)
Chiesa di S. Giovanni Battista
VICENZA (Polegge)
Abbazia di S. Maria Etiopissa
VILLA DEL CONTE
Chiesa di S. Giuliana
VILLAVERLA
Chiesa di S. Simeone
ZUGLIANO
Chiesa di S. Maria
ZUGLIANO (Grumolo Pedemonte)
Chiesa di S. Biagio
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Comuni con evidenze
medievali
Vicenza
Padova
Verona
Cismon
del Grappa
Valdastico
Rotzo
Oliero
(Valstagna)
Solagna
Cogollo del Cengio
Lusiana
Pove
Ro
ma
Velo d’Astico
no
Caltrano
d’E
zze
nez
Cartigliano
ze
Zugliano
Mason V.
Schio
Sarcedo
Breganze
o
o
Pia
Santorso
it
S. V
Bassano
del Grappa
Marostica
Carrè
lin
Salcedo
Rosà
Thiene
.
di L
Montecchio
Precalcino
Malo
Cittadella
Villaverla
Monte di Malo
Valdagno
Fontaniva
Tombolo
Isola Vicentina
Cornedo
Caldogno
telg
Cas
Brogliano
Costabissara
to
ber
om
S. Pietro
Muss.
San Pietro
in Gù
Bolzano
Vicentino
Nogarole
Trissino
San Giovanni
Ilarione
Piazzola
sul Brenta
Vicenza
Chiampo
Sovizzo
Torri di
Quartesolo
Arzignano
Montecchio
Maggiore
Montecchia
di Crosara
Grumolo
delle Abb.
Montorso
Roncà
Arcugnano
Montegalda
ra
a
bell
Gam
Longare
Castegnero
Monteforte
D’Alpone
Sarego
Grancona
San Bonifacio
Nanto
Villaga
S. Germano
dei Berici
Lonigo
Arcole
Alonte
Sossano
Barbarano
Vicentino
Albettone
Orgiano
Agugliaro
Cologna Veneta
Pressana
Selvazzano
Dentro
VICENZA (Polegge) (VI)
Abbazia di S. Maria Etiopissa
Posizione geografica
Percorrendo la strada statale che conduce da Vicenza
a Marostica, superato il semaforo della località di
Polegge, si prosegue in direzione nord per circa due
chilometri. Raggiunta un’ampia curva che piega verso
destra, si trova un largo parcheggio sulla sinistra, di
proprietà di un ristorante, e sulla destra di fronte allo
spiazzo un grande cortile al termine del quale è facile
scorgere la chiesa di S. Maria.
Indirizzo: Strada Marosticana, località Polegge
Illustrazione storica e artistica
L
’edificio di cui qui ci occupiamo costituisce uno
dei momenti di maggiore complessità e, nel contempo, di maggiore indeterminatezza nel panorama dell’area geografica racchiusa entro i limiti della
presente ricerca, a partire dall’intitolazione stessa. Non
è scopo di questo lavoro dilungarsi in considerazioni
che non attengono direttamente alla storia dell’edificio
e ci limitiamo dunque ad osservare come non poche siano state nel corso degli anni le dispute intorno al reale
significato e all’origine di quel termine, “Etiopissa”, che
accompagna nei documenti la dedicazione alla madre di
Dio. Per lungo tempo si è creduto che la parola facesse
riferimento a lontane radici nordafricane, un’interpretazione avvalorata dall’erronea lettura di una delle figure
affrescate all’interno della chiesa, che sembrava rivelare
un personaggio femminile dalla pelle scura: recentemente, invece, la critica ha ritenuto più corretto credere che quel termine, nelle carte medievali indicato con
Teupexe, non fosse altro che il riferimento alla posizione
geografica dell’edificio (PELLIZZARI 1997, pp. 281-292).
Ben più interessante invece è soffermarsi sulle vicende
storiche e artistiche che l’hanno accompagnato sino ai
giorni nostri e possiamo già ora osservare come l’alone
di mistero che in qualche modo circonda il nome della
chiesa, si riflette anche nelle interpretazioni intorno
alle sue origini.
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, facciata e campanile
Da una parte troviamo infatti quanti sostengono con
sicurezza che la fondazione della chiesa debba essere
assegnata ai secoli VII-VIII, in altre parole al periodo
longobardo, cui rimanderebbe anche la presenza di un
reperto lapideo che più avanti prenderemo in esame
(per l’interpretazione longobarda v. ZIRONDA 1985, pp.
473-520). Altri hanno fermato la propria attenzione
sulla coincidenza fra le prime testimonianze scritte e
l’analisi della struttura architettonica (DANI 1997, pp.
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Vicenza (VI)
293-302). Al di là della bontà dell’una o dell’altra interpretazione, resta il fatto che già a partire dal XV
e XVI secolo la chiesa ha suscitato l’interesse degli
eruditi prima e degli storici poi.
Il primo a occuparsene è stato Giambattista Pagliarino, il quale tuttavia fece riferimento non alla chiesa,
ma al monastero di S. Maria di Teupese (PAGLIARINO
1663, p. 169), anche se la conoscenza che l’autore
vicentino mostrava delle vicende dell’edificio era assolutamente irrilevante (DANI 1997, p. 294). Si doveva giungere alla seconda metà del XVIII secolo per
ritrovare l’atto che ancora oggi è il primo in ordine
cronologico ad essere conosciuto: il padre Barbarano
avviava comunque una prima seria indagine suscettibile di ulteriori e importanti sviluppi (BARBARANO
1762, pp. 208-209).
La lunga tradizione di storici che si sarebbero occupati della chiesa fino agli anni ‘40 del XX secolo
avrebbe tuttavia operato con un’evidente monotonia
interpretativa, che non si allontanava dalle generiche
osservazioni del Pagliarino e del Barbarano, i quali
si erano limitati a etichettare con un generico “antichissima” l’oggetto del nostro interesse. Nel 1942 sarebbe stato monsignor Lorenzon a tentare di definire
con maggiore precisione gli sfocati contorni entro i
quali fino ad allora la chiesa era stata racchiusa, definendola uno dei più importanti momenti dell’arte
paleocristiana vicentina e collocandone di fatto la
fondazione negli anni che precedono la fine del X
secolo (DANI 1997, p. 296).
Quale ulteriore testimonianza della sua importanza, nel primo dopoguerra anche Bognetti vi avrebbe
dedicato pagine importanti, inserendola in maniera
netta e definita nel contesto di una tradizione interpretativa che faceva dei Longobardi il principale
punto di riferimento per la storia politica e artistica
del Vicentino.
L’edificio si viene dunque a trovare per buona parte della critica in pieno ambito longobardo al pari
delle vicine chiese di S. Martino di Vicenza, di S.
Michele di Caldogno, di S. Giorgio in Gogna ancora
a Vicenza, parte integrante di quel potente nucleo
longobardo destinato a caratterizzare gran parte
dell’interpretazione storica del Vicentino: per contro, è interessante la lettura offerta da Dani, il quale
chiarisce come il principale motivo per il quale la
chiesa è stata assegnata al pieno periodo longobardo,
il reperto marmoreo, appartenga invece con grande
probabilità ad un altro edificio (DANI 1997, p. 299).
Forte doveva dunque rimanere lo iato tra i due differenti filoni di indagine e di interpretazione.
Per quanto riguarda la datazione dell’attuale edificio,
l’analisi compiuta è, ancor prima che architettonica,
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storica e si basa essenzialmente sulle testimonianze relative all’invasione degli Ungari che, tra l’899
e il 947, compirono nel territorio vicentino undici
scorrerie, accanendosi particolarmente sugli edifici
ecclesiastici, almeno secondo tale interpretazione.
La metà del X secolo appare dunque come un momento discriminante di grande importanza per stabilire, secondo la critica, il periodo di (ri)fondazione
di numerosi edifici del territorio (DANI 1997, p. 305):
l’osservazione di Dani ci sembra significativa, soprattutto se consideriamo quanto a livello generale l’idea
dell’origine longobarda di numerosi edifici ecclesiastici vicentini abbia pesato fino ad oggi. Se infatti
accettiamo tale ipotesi, dobbiamo anche assumere
che del periodo longobardo ben poco è rimasto nel
nostro ambito territoriale.
Sulla scorta di queste affermazioni, Dani osserva
come proprio soltanto dopo la sconfitta degli Ungari
nel 955 a Lechfeld da parte di Ottone III si sarebbe
potuta avviare un’opera ricostruttiva degna di nota:
in tal senso in questo periodo si dovrebbe collocare
anche la costruzione o ricostruzione della chiesa di
S. Maria, di cui avremo testimonianza definitiva documentaria nel 1107 con la donazione effettuata dai
signori di Vivaro all’abbazia di Pomposa della “capella edificata in honore Sanctae Mariae que est posita
in villa nomine Teupese” (DANI 1997, p. 306).
Se riteniamo di poter sostanzialmente concordare
in linea generale con le osservazioni dello storico
vicentino, non possiamo fare a meno di aggiungere che le scorrerie degli Ungari potrebbero in effetti
non aver portato alla distruzione totale o parziale di
una chiesa presente sul sito oggi occupato da quella
di S. Maria e che dunque alcune sue parti potrebbero
appartenere all’edificio primitivo, in particolar modo
la base dell’abside e i muri di fondazione indagati nel
corso degli interventi degli anni Novanta del XX secolo (NAPIONE 200, p. 269): per contro, è altrettanto
vero che non pochi sono stati gli interventi successivi, che hanno in buona parte stravolto l’impianto
originale.
Abbazia di S. Maria Etiopissa
L’edificio
La chiesa attuale si presenta con un’aula unica delle
dimensioni di m. 12,5 x 5,15, al cui estremo orientale
vi è un’abside semicircolare del diametro di m. 3,15:
ogni lato della chiesa riveste un particolare interesse. Partendo dalla facciata osserviamo che ha subito
interventi e modifiche rilevanti nel corso dei secoli:
inizialmente si presentava in maniera non dissimile
da altri edifici contemporanei, di semplice e modesta
fattura, caratterizzati da un tetto spiovente a capanna e priva dunque del campanile che oggi si mostra
in maniera evidente e prepotente al visitatore e che
contraddistingue l’edificio come pochi altri dell’area
vicentina (il riferimento va alla chiesa di S. Martino
di Brogliano; v. la scheda relativa). Tale intervento
sarebbe avvenuto intorno alla metà del XII secolo,
anche se non riteniamo possa costituire elemento
probante della tardiva costruzione della struttura il
fatto che nessuna chiesa vicentina medievale avrebbe
attualmente un campanile costruito contemporaneamente all’edificio (DANI 1997, p. 313).
In effetti Dani osserva ancora che la sua costruzione
sarebbe di poco successiva al terremoto del 1117 che
avrebbe praticamente distrutto (evidentemente per
la seconda volta dopo le scorrerie ungare) la chiesa e
pressoché contemporanea alla sua trasformazione in
monastero, rendendo automaticamente indispensabile la presenza di un campanile e di una campana per
una più precisa e definita celebrazione della liturgia e
scansione del tempo (DANI 1997, p. 313). Se crediamo di poter accettare la suddivisione dei momenti costruttivi tra i primi anni del XII secolo e il XV, ci pare
che le motivazioni debbano essere cercate altrove.
Quasi al centro della facciata si apre un piccolo occhio, anche questo ritenuto erroneamente testimonianza puntuale dell’antichità dell’edificio (CANOVA
DAL ZIO 1986, p. 139).
Un secondo momento per cercare di dipanare il
complesso groviglio delle vicende costruttive e per
la funzione della chiesa è quello relativo al muro meridionale, del quale quasi nulla esiste più, probabilmente, nelle sua composizione originale. Notiamo
infatti chiaramente come vi siano, tamponati, due
grandi archi ogivali che dovevano rappresentare il
punto di comunicazione tra la navata della chiesa
come oggi la vediamo – e probabilmente nella sua
facies originaria – e una seconda navata, aggiunta al
fine di rendere disponibile uno spazio maggiore per
la celebrazione della liturgia, nel momento in cui il
monastero vide accrescere il numero delle presenze.
La chiesa venne dunque a configurarsi come un edificio binavato e probabilmente dotato di una seconda
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, facciata e muro meridionale
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, muro meridionale e abside
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Vicenza (VI)
Resta, di fatto, la pregevole fattura di quest’opera,
il portale appunto, finemente cesellato nella pietra
con motivi floreali e racchiudente al suo interno il
monogramma di S. Bernardino come pure, sul lato
opposto, il nome del committente (DANI 1997, pp.
316-321):
MARCUS VITR
IANUS ABAS HO
C OPUS FI FECIT
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, il portale lungo il muro meridionale
abside, aggiungendosi, per quanto spurio, ai numerosi altri casi presenti sul territorio (v. la scheda di S.
Pietro di Rosà per ulteriori approfondimenti sulla tipologia; v. anche PRANDINA 2016, pp. 241-243, in cui
l’autore avanza la medesima ipotesi, anche se ascrive
al X-XII l’apertura dei due arconi e la conseguente
aggiunta della seconda abside, datazione che non ci
trova d’accordo osservando le caratteristiche degli
archi tamponati; v. sotto).
Non nascondiamo, però, alcune perplessità di natura
storica in quanto, sempre lungo il lato meridionale, notiamo una porta d’accesso all’attuale navata in calcare
giallo dei Colli Berici, che reca la data del 1474: le arcate che oggi appaiono tamponate sono rese peculiari
da archi ogivali di chiara ispirazione gotica e dunque
collocabili tra la fine del XIII e i primi decenni del XIV
secolo (ipotesi che ci pare più plausibile considerato
il sostanziale “ritardo” tipico di gran parte dell’edilizia sacra vicentina), arco cronologico cui appartiene
evidentemente anche l’erezione della seconda navata, abbattuta poi in coincidenza della costruzione del
portale. Perché allora la seconda navata avrebbe avuto
una vita così breve? Si tratta di una domanda alla quale
si potrà dare una risposta precisa soltanto nel momento di auspicabili indagini archeologiche.
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Anche la parte absidale dell’edificio, perfettamente
orientato come già abbiamo avuto modo di osservare, porta in sé i segni dei numerosi interventi operati
nel corso dei secoli.
La fascia inferiore è costituita da pietre di rilevanti
dimensioni, ben squadrate, che lasciano il posto, a
mano a mano che si sale, a pietre frammiste a mattoni,
che definiscono a loro volta uno spazio centrale che,
verso l’alto, diventa una struttura mista nella quale è
evidente la prevalenza del mattone: il cambiamento
di tessitura cui si assiste al di sopra dell’abside potrebbe in qualche modo essere testimone del punto
in cui l’edificio fu rialzato, a partire circa da un terzo
della sua altezza. Osserva Dani che la tecnica impiegata, ovvero l’utilizzo contemporaneo di ciottoli di
fiume e alcuni pezzi di mattoni, potrebbe essere fatta
risalire all’età longobarda o franca, ma ci sembra che
tale interpretazione, oltre ad apparire un’evidente
forzatura, contrasti in maniera chiara con la datazione presunta, a meno che non si voglia ritenere che
una parte dell’edificio precedente e databile ai secoli
VIII-IX sia rimasta intatta anche dopo le incursioni
degli Ungari e che sia stata la base di partenza non di
una totale riedificazione, ma di un restauro.
Al di sopra di questa fascia si osserva quella che riteniamo essere la seconda fase costruttiva o ricostruttiva, da riferirsi probabilmente al periodo relativo alla
presenza dei signori di Vivaro e dunque alla prima
metà del XII secolo, cui apparterrebbe peraltro anche
la terza fase, da individuarsi con il tratto di muro che
fa da cornice alla monofora centrale.
Il terremoto del 1117 avrebbe poi imposto ulteriori
interventi, conclusi con la quinta e ultima fase costruttiva, che possiamo leggere nella parte sommitale
della struttura absidale: è sicuramente a quest’ultimo
momento che dobbiamo la cornice a denti di sega,
poggiante su una fila di mattoni, che fa da corona
all’abside intera. La datazione proposta da Dani per
questa cornice è quella della seconda metà del XV
secolo in quanto, egli osserva, nel 1455 una visita
pastorale aveva denunciato lo stato di trascuratezza
della chiesa (DANI 1997, p. 331): lo storico sostanzialmente fa risalire l’incastonamento della cornice
Abbazia di S. Maria Etiopissa
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, abside
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, abside e muro settentrionale
ad un periodo vicino a quello in cui fu realizzato il
portale laterale sul muro meridionale, considerazione che non condividiamo, apparentandola piuttosto
alle analoghe decorazioni che troviamo nelle chiese
di S. Sofia a Costozza di Longare (vedi la scheda relativa) e di S. Martino a Barbarano (vedi la scheda
relativa), dunque tra XIII e XIV secolo. Né del resto
il fatto che la chiesa si trovasse in pessime condizioni
implica che sia stata edificata ex-novo.
Qualche nota merita anche il muro settentrionale,
privo di aperture, caratterizzato da filari di ciottoli e
malta, che in alcuni settori della critica ha stimolato
pensieri di una datazione paleocristiana e alto medievale (ARSLAN 1956, p. 221). La tessitura muraria
appare sostanzialmente divisa in due parti in senso
orizzontale: quella inferiore, composta da frammenti di maggiori dimensioni, anteriore al secolo XIII;
quella superiore frutto di rifacimenti, tuttavia precedenti l’intervento decisivo cui abbiamo già fatto riferimento e databile all’ultimo quarto del secolo XV
(DANI 1997, p. 335). Tale datazione troverebbe conferma all’interno dell’edificio, particolarmente negli
affreschi che si trovano sulla parete settentrionale.
Ci soffermeremo più avanti sul complesso insieme
di figure e di scene affrescate, ma è opportuno porre
l’accento sulla diversa datazione tra la figura che si
trova circa a metà della navata, che collocheremmo intorno alla prima metà del XIII secolo, e i due
riquadri posti invece nella parte prossima al presbiterio, questi della fine del XV o dei primi anni del
succssivo. Se alcuni hanno creduto che gli affreschi
più tardi giustificassero una datazione di quella parte del muro al XV secolo (Dani 1997, p. 335), noi
propendiamo per una coerenza di tutta la muratura
settentrionale..
Passiamo dunque a considerare l’interno dell’edificio,
rilevante per una serie diversa di motivi riconducibili
sostanzialmente alla presenza di un campanile inglobato nella navata e di una teoria di affreschi, la cui
componente più antica mostra caratteri qualitativamente assai elevati: neppure dobbiamo trascurare un
ultimo momento artistico, quello del reperto lapideo,
che se non è appartenuto sin dall’inizio alla chiesa in
oggetto, pure rientra in un contesto artistico di non
banale fattura.
Internamente, dunque, leggiamo come in negativo
quanto già osservato per la struttura esterna: si tratta
di una navata unica, che termina a oriente con il catino absidale e sullo spigolo sud-occidentale ha subìto
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Vicenza (VI)
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, bifora della cella campanaria
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, navata
l’innesto di una colonna con funzione portante nei
confronti della torre campanaria.
È stato osservato che l’accesso all’ambito presbiteriale
è simile a quello della chiesa di S. Giorgio in Gogna
a Vicenza (Dani 1997, p. 336) ovvero attraverso un
arco a doppia ghiera: simile sarebbe l’accesso anche
nelle chiese cittadine di S. Silvestro e dei SS. Felice e
Fortunato. Se questo è vero a livello di impostazione
generale, ci pare che le differenze non siano poche e
che il confronto stesso, a causa dei ripetuti interventi
che sulla chiesa di Polegge – così come su quella di
S. Giorgio – sono stati compiuti nel corso dei secoli
sia particolarmente difficoltoso.
Lo stesso Dani, nel corso della sua analisi, definisce la propria interpretazione basandosi su un presupposto che ritiene di fondamentale importanza,
ovvero il fatto che la chiesa in questione, dopo
il terremoto del 1117, fu ricostruita in un contesto culturale di derivazione monastica: tale fattore
avrebbe influito in maniera evidente sulle caratteristiche principali dell’edificio, consentendo l’inserimento di alcuni momenti tecnologici e artistici che
l’avrebbero allontanato dagli stereotipi sostanzialmente poveri della maggior parte degli edifici rurali
coevi, tipici dell’architettura romanica, e tra questi
proprio l’arco a doppia ghiera. Tuttavia egli poco
dopo rileva come questo elemento non appartenga
al XII secolo, ma sia il frutto dei lavori compiuti
alla fine del XV secolo, in parte dunque contraddicendo le precedenti affermazioni (DANI 1997, pp.
336-338).
Per quanto si possa concordare con una persistenza
di caratteristiche tipologiche in ambiente rurale ben
superiore a ciò che avvenne nei contesti cittadini –
e questo per il Vicentino vale in modo particolare
–, ci sembra assai difficile ritenere che un elemento
tipologico, come appunto quello dell’arco a doppia
ghiera, caratteristico del periodo romanico, sia stato realizzato nel nostro caso specifico addirittura al
termine del periodo gotico e comunque contemporaneamente alla realizzazione sia delle arcate di cui
abbiamo detto, sia delle ogive che caratterizzano
spiccatamente le bifore del campanile.
Riteniamo dunque che, per quanto modificato, questo momento dell’edificio debba essere collocato
poco dopo i rifacimenti realizzati a seguito del terremoto. Del resto, lo stesso Dani, riferendosi poco
oltre alla nicchia aperta all’interno del catino absidale, osservando la sua sommità “a schiena d’asino“ e
osservando che essa non può appartenere al periodo
120 |
Abbazia di S. Maria Etiopissa
nale e a quello occidentale per mezzo di due archi a
tutto sesto in pietra: pure da blocchi di pietra bianca
sono composti i due tratti di muro che chiudono la
cella sino all’altezza della copertura dell’edificio. Interessante il capitello posto al di sopra della colonna,
decorato con motivi geometrici che costituiscono un
unicum nel territorio (una certa assonanza si potrebbe ravvisare nei confronti della decorazione di un
copricapo di un personaggio affrescato nella fascia
superiore della parete settentrionale della chiesa di
S. Giorgio di Velo d’Astico – v. scheda relativa) e per
la cui difficile datazione lasciamo aperto il quesito.
Si noti infine come il tratto di muro meridionale occupato sostanzialmente dall’incavo posto alla base
della cella campanaria e pronunciato in direzione
est di pochi centimetri, sia l’unico di questa sezione
dell’edificio probabilmente riconducibile alle origini
della costruzione, come permette di interpretare anche la presenza di un affresco cui più avanti faremo
riferimento.
Gli affreschi
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, cella campanaria
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, capitello a decorazioni geometriche
di costruzione dell’abside del XII secolo, la colloca in
maniera sicura nel pieno periodo gotico (DANI 1997,
p. 338).
L’ultimo elemento cui dobbiamo fare riferimento
all’interno dell’edificio è rappresentato dalla base del
campanile che, al pari di pochi altri esempi del territorio vicentino, è inglobata nel corpo della chiesa.
Essa poggia su una colonna, legata al muro meridio-
Non possiamo nascondere che i numerosi affreschi,
in parte mutili, che ci è dato leggere all’interno della
chiesa di S. Maria costituiscono forse l’elemento di
maggiore interesse di tutto l’edificio, grazie anche al
fatto che essi non appartengono a uno stesso periodo, ma accompagnano lungo i secoli le vicende complesse di cui esso è stato attore.
Fermeremo la nostra attenzione esclusivamente su
quelli riconducibili ai secoli XII e XIII, situati sulla
parete settentrionale, su quella meridionale e in controfacciata e trascureremo invece le rappresentazioni
che cronologicamente si situano in pieno XV secolo
e ricoprono in maniera quasi totale la parete del catino absidale oltre a comporre, con una fascia floreale,
una cornice decorativa tutto intorno all’aula.
Un piccolo riquadro, più tardo, raffigurante la Vergine
Maria con il Bambino si trova inoltre sul muro nord.
Gli affreschi sono noti soltanto dal 1933, anno in
cui si eseguirono alcuni lavori di restauro sull’edificio
(DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 345), durante i quali
vennero alla luce anche frammenti oggi perduti, come
il resto di una crocifissione collocata esternamente
nell’area del campanile (FRANCESCHINI 1934, p. 118).
Si tratta di tre gruppi, frutto di interventi diversi e
diversi anche nell’iconografia rappresentata, elemento che esclude la possibilità di parlare di un progetto
organico.
Partendo dalla controfacciata, in alto a destra vediamo
“due figure maschili stanti [...], entro una superficie
rettangolare definita da larghe strisce a colori alternati
| 121
Vicenza (VI)
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, controfacciata
rosso e bianco”; la loro qualità e il loro significato sono
stati oggetto di attenzione da parte della critica in due
momenti diversi. Il primo nel 1939, quando Arslan vi
lesse la presenza di Abramo e di tre fedeli con accanto
una seconda figura, situandoli cronologicamente nella
seconda metà del XIII secolo (ARSLAN 1965, p. 188).
Più avanti, all’inizio degli anni ‘60, Dani ha invece interpretato il gruppo di personaggi, basandosi sull’ipotetica quanto probabile presenza di una terza figura,
leggendo la scena come una simbologia di chiara derivazione trinitaria (DANI 1964, p. 214).
Per circa quarant’anni non vi sono stati più tentativi
di rilettura, agevolati ultimamente dai restauri che
hanno indicato nuove vie e stimolato nuove proposte, soprattutto da parte della storica dell’arte Giovanna Dalla Pozza Peruffo: l’autrice rifiuta l’interpretazione trinitaria in considerazione del fatto che, a
pochi decenni di distanza dallo scisma tra la chiesa
occidentale e quella orientale del 1054, una rappresentazione iconografica della Trinità che si basasse
su tre figure antropomorfe avrebbe avuto pochi motivi per esistere. Piuttosto si tratterebbe di una delle
“più antiche raffigurazioni nell’Italia del Nord dei tre
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco in controfacciata, i patriarchi e le animule
122 |
Abbazia di S. Maria Etiopissa
patriarchi dell’antico testamento: Abramo, Isacco e
Giacobbe che accolgono tra le loro braccia i beati o
le loro animulae secondo la convenzione medievale”
(DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 350).
La lettura offerta dalla storica vicentina è a nostro
avviso quella più calzante e trova riscontri evidenti
in numerosi esempi distributi in Italia e in Oriente,
anche se non nascondiamo un velo di perplessità su
alcuni degli elementi portati quali prove dell’attribuzione in considerazione del fatto che numerosi tra
essi appartengono, come quelli fiorentini o pugliesi, a una cultura lontana sotto il profilo geografico
ma, ancora più, sotto quello qualitativo, in particolar
modo per quanto attiene al caso dei mosaici della cupola del battistero di S. Giovanni a Firenze, da cui le
figure vicentine avrebbero ripreso anche la tonalità
dei colori (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 350).
Nessun dubbio sul tema raffigurato invece, in
quanto si legge ancora tra le due figure parte del
nome [A]BRA[HA?M].
Le evidenze di questo soggetto sono come detto numerose e con molteplici varianti, in particolar modo
per quanto attiene al numero delle animule – da una
soltanto, come nella chiesa di S. Maria del Casale
a Brinidisi, a una presenza molteplice, così negli affreschi dell’abbazia di Pomposa – e alla presenza o
meno di tre corone pendenti sul capo dei patriarchi,
che possono comparire tutti e tre, come nel caso della chiesa di S. Michele a Oleggio (NO), oppure essere rappresentati da uno soltanto di loro, così nella
pieve di S. Andrea a Sommacampagna (Vr).
Nel nostro caso ci troviamo di fronte a un modello
che riteniamo il più ortodosso, ovvero dove i tre patriarchi recano in grembo tre anime ciascuno. Nell’iconografia cristiana le figure nel grembo dei saggi
sono simbolo secondo alcuni delle anime salvate e
in attesa di essere condotte in paradiso (Dizionario di
iconografia romanica 1997, p. 22), secondo altri sono
invece i risorti che già godono del corpo spirituale
(BASCHET 1991, p. 809); così crediamo potrebbe per
esempio essere interpretato il riquadro della già citata chiesa di S. Maria del Casale a Brindisi, dove una
santa aureolata – e dunque defunta e già santificata –
si trova da sola tra le braccia di Abramo. Altrettanto
vero tuttavia è che nel grembo di Isacco e di Giacobbe si trovano più anime che, timorose, sembrano
quasi nascondersi in un contesto di sostanziale riverenza ovvero potrebbero essere ancora in uno stadio
precedente di attesa.
Tornando al nostro caso, crediamo che la posizione
frontale delle anime in atteggiamento orante possa
rimandare piuttosto al loro stato di transeunti verso
il paradiso.
Sommacampagna, chiesa di S. Andrea, il Seno di Abramo con un solo Patriarca, le corone e le animule
La difficoltà di assegnare il soggetto a un contesto
preciso trova la sua ragion d’essere soprattutto nella
composizione iconografica del quadro e del contesto
entro il quale si trova inserito, laddove le tre (o solo
una di esse) figure si trovano non isolate ma facenti
parte della più complessa raffigurazione del Giudizio
Universale che possiamo vedere in controfacciata,
nella chiesa dedicata a s. Andrea a Sommacampagna.
È questo il più completo quadro raffigurante il tema
giudiziale in territorio veronese e se da un lato esso
può venire in aiuto per comprendere meglio il nostro
esempio, per contro sembra complicare le possibilità
di interpretazione.
Notiamo infatti come sul capo di Abramo (?), il quale, come nel caso di Polegge, accoglie tra le sue braccia tre personaggi, vi sia una corona e altre due siano
collocate a destra e a sinistra, senza tuttavia che vi
siano altre figure affrescate: dunque forse una sorta di
simbolica sintesi tra rappresentazione dei patriarchi
con le anime e raffigurazione della Trinità?
Non possiamo infatti trascurare l’importante episodio biblico con al centro l’incontro tra il patriarca e le
tre misteriose figure: “Poi il Signore apparve a lui alle
Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso
della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli
occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di
lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso
| 123
Vicenza (VI)
della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio
signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar
oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere
un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto
l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone
di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati
dal vostro servo” (Genesi 18, 1-5). Sia pure in modi
diversi questo importante passo, interpretato dai Padri come una sorta di anticipazione della Trinità – il
cui concetto di base non è ancora presente nell’Antico Testamento –, è stato ripreso anche dal mondo
dell’arte: prima a Ravenna, nei preziosi mosaici di
S. Vitale, poi e più compiutamente nel mondo orientale, precisamente russo: indimenticabile la celebre
Trinità o Ospitalità di Abramo di Andrej Rublëv.
In Oriente, poco alla volta – anche se per molti secoli ci si astenne dal rappresentare il Padre in figura
umana –, imitando l’arte occidentale, s’introdusse la
rappresentazione del Padre in forma umana insieme
con il Figlio, il Cristo, e lo Spirito in forma di colomba (come nel Battesimo di Gesù), ma si continuò
a considerare l’episodio dei tre Angeli come anticipazione della raffigurazione della Trinità traendola
dall’Antico Testamento (GALBIATI 1994, p. 65).
Sotto il profilo stilistico a Polegge l’aspetto ieratico
del patriarca rimanda a una cultura artistica di matrice bizantina, che in effetti sarebbe potuta giungere
senza difficoltà per il tramite della donazione della
chiesa di S. Maria all’abbazia di Pomposa.
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco sulla parete nord, cavaliere disarcionato
124 |
Senza volere peraltro aggiungere nulla di particolare
alla erudita interpretazione della studiosa vicentina,
ci pare che anche gli abiti delle figure nel grembo
possano in qualche modo essere ricondotti a una
cultura romano-bizantina: resta di fatto l’interesse
per figure che non trovano alcun riscontro nell’area interessata dalla nostra ricerca, sia che si voglia
accettare l’interpretazione trinitaria di Dani, sia che
si propenda per la più coerente lettura di Giovanna
Dalla Pozza Peruffo.
Piuttosto il tema ha trovato nuove recenti testimonianze in area veneta: a Teglio Veneto infatti, in località
Cintello, sono stati scoperti nel corso di restauri all’interno della locale chiesa dedicata a s. Giovanni, alcuni affreschi che direttamente si collegano a quelli del
nostro edificio (COZZI 1998). La lacunosità di quell’esempio e del nostro non consente di esporsi in maniera
decisa, ma in qualche modo permette di collocare gli
affreschi di S. Maria Etiopissa in un panorama di ampio
respiro e di interessanti collegamenti culturali e artistici
tra le diverse aree della Pianura Padana.
Concentriamo ora la nostra attenzione sulla parete
settentrionale, che mostra due riquadri, diversi per
il contenuto e per la mano che li ha tratteggiati. Il
primo racchiude una scena a carattere cavalleresco,
più vicina secondo noi al momento di una battaglia piuttosto che allo svolgimento di un torneo,
in considerazione anche della presenza delle mura
– di una città più ancora che di un castello – e di
asperità naturali che sembrano volere ricondurre la
Abbazia di S. Maria Etiopissa
mente alla scena di un assedio e ai relativi scontri.
Un frammento di scudo sulla destra potrebbe fare
ipotizzare la presenza di armati dotati di frecce o
giavellotti; ma ci rendiamo conto che si tratta di
semplici ipotesi.
Il raffronto compiuto con gli affreschi ancora oggi visibili nella casa delle guardie del castello di Avio, circa a metà percorso tra Verona e Trento, ci pare poco
pertinente e non ci sembra sufficiente il legame di
parentela tra i signori di Vivaro e i Castelbarco per
giustificare un’assonanza stilistica – al di là dunque del
contesto storico –, che ci pare molto difficile da sostenere, in considerazione delle numerose differenze di
gusto e di qualità tra gli affreschi stessi (DALLA POZZA
PERUFFO 1997, p. 353); l’unico elemento in comune
potrebbe essere quello relativo a una cultura militare e
cavalleresca che appare nel nostro caso e per il nostro
territorio un unicum a livello assoluto
Circa allo stesso periodo degli affreschi trentini risale
anche il ciclo di affreschi a Frugarolo, nei pressi di Alessandria, di relativamente recente scoperta (1971; l’iter
per portarli in salvo è stato lungo e complesso e il ciclo
è stato portato all’attenzione del pubblico soltanto grazie a una esposizione a cavallo tra il 1999 e il 2000),
raffigurante le gesta di Artù: in una delle cornici che
compongono il ciclo si può osservare un cavaliere colpito a morte, che si avvicina, per la posizione tenuta, a
quello raffigurato sulla parete settentrionale di Polegge.
È vero tuttavia che l’apparato iconografico complessivo
è nel nostro caso cronologicamente antecedente ad entrambi gli esempi che abbiamo portato e non trova di
fatto alcun momento comparativo nel territorio vicentino, se si eccettua forse l’uso di uno stile di disegno ad
intreccio che notiamo sull’abito del cavaliere morente e
in alcune figure di armati nella chiesa di S. Giorgio di
Velo d’Astico (v. la scheda relativa).
Quale possa essere il significato profondo di questo
affresco, di cui rimane purtroppo una porzione esigua per consentire un’interpretazione serena, è difficile dire: l’unico punto sul quale crediamo di dover
dissentire è quello che vedrebbe il cavaliere in una
posizione irrigidita dal rigor mortis. Piuttosto ci pare
che l’autore dell’affresco abbia voluto cogliere – e in
un certo senso fotografare – un momento particolare, quello in cui il cavaliere è colpito e disarcionato:
potrebbe trarre in inganno la rigidità della figura,
ma oggettivamente non dobbiamo dimenticare che
la mancanza di tutto ciò che avrebbe dovuto comporre la scena non viene certamente in aiuto.
Rimane, in basso a destra rispetto al cavaliere, un lacerto raffigurante probabilmente la parte inferiore di
uno stemma o di uno scudo, forse appartenente allo
stesso quadro affrescato.
Sempre sulla stessa parete osserviamo poi un secondo lacerto che ritrae questa volta una scena caratterizzata da una maggiore serenità: pure nella lacunosità dell’insieme ci pare di non andare troppo
lontani dal vero osservando che si tratta di una scena
campestre, forse un contadino che accudisce gli animali, certamente dei volatili in considerazione delle
piume che emergono dal poco rimastoci. È caratteristica evidente l’uso di larghe pennellate che finisco-
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco sulla parete nord, scena di vita agreste (?)
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Vicenza (VI)
no per conferire all’insieme l’aspetto di una sorta di
panneggio composto da fasce colorate giustapposte
(un campo con spighe di cereali?).
Non ci sembra invece sia sufficiente la calzatura appuntita per caratterizzare in senso sociale ciò che è
dato di vedere dell’unica figura umana presente (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 352).
Veniamo infine all’ultimo affresco di cui ci occupiamo, quello più enigmatico, avendo oltretutto contribuito a conferire l’appellativo “Etiopissa” alla dedicazione della chiesa.
Si tratta di “una figura sul lato sud, nella zona che fa
da base al campanile, seduta in trono e avvolta in una
ampia veste”; è una figura con ogni probabilità femminile, come permette di intuire la ricchezza della veste
nella sua qualità (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 354,
appunta la propria attenzione proprio sull’abito e sulla
sua foggia per individuare le peculiarità femminili del
personaggio). La staticità, la ieraticità, la nobiltà del
portamento riconducono sicuramente alle caratteristiche più evidenti della pittura di matrice bizantina e
non pochi sono gli elementi che portano alla mente
esempi tipici di quella cultura come gli affreschi della
basilica di S. Angelo in Formis (DALLA POZZA PERUFFO
1997, p. 356, similitudine che porterebbe a datare la
chiesa agli ultimi decenni dell’XI secolo).
Anche se certo da approfondire, non possiamo non
sottolineare come nella sua interezza richiami stilisticamente alcuni momenti degli affreschi della chiesa di S. Giorgio di Velo d’Astico e di quella di S. Bartolomeo a Romeno, in Val di Non.
È stato del resto giustamente osservato che la posizione occupata da questo affresco, apparentemente
defilata, secondaria, non corrisponde a quella ben
più importante che doveva ricoprire nel momento in
cui fu dipinta, se consideriamo che la chiesa non disponeva di un ingresso sul lato meridionale, ma che
l’unica entrata era quella occidentale e che neppure, all’inizio, era presente il campanile che oggi disturba in parte e rende difficile la visione del riquadro. Lasciamo al visitatore il gusto di ipotizzare una
possibile decifrazione dell’identità del personaggio,
che alcuni hanno voluto assimilare a quella S. Maria
“Etiopissa” che ha dato alla chiesa la sua intitolazione
(DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 356).
Fino ai primi decenni del XIX secolo la chiesa avrebbe anche ospitato una “tavola di legno, fatta all’antica, con cinque nicchie nelle quali sono dipinte
cinque figure. Quella di mezzo rappresenta la Bea-
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, parete sud, donna in trono (?)
126 |
Abbazia di S. Maria Etiopissa
ta Vergine col Bambino sopra le ginocchia sotto la
quale sta scritto «opus Tadei» in S. Maria Etiopissa
presso Povolaro” (DE ZUANI s.d., p. 37).
Il pluteo
Eccoci infine giunti all’ultimo pezzo pregiato di questo straordinario e prezioso contenitore di altrettanto unici esempi dell’arte medievale vicentina.
All’interno dell’aula si trovava fino a poco tempo fa
una lastra in marmo bianco-grigio di pregevole fattura, ora invece facente parte del patrimonio del Museo Diocesano di Arte Sacra.
La sintetica ed efficace descrizione riassuntiva proposta da Previtali rileva che “il pluteo, in marmo greco,
misura cm. 75 di altezza, cm. 195 di lunghezza e cm.
9 di spessore, ed è munito nei lati corti di due incompleti listelli d’incastro (altezza cm. 60 x larghezza cm.
3) originariamente inseriti in elementi verticali. [...] è
il più importante pezzo della persistente cultura “classica” a Vicenza in periodo alto-medievale. Va notato
il fatto della contemporaneità dell’opera con la produzione di arte longobarda” (PREVITALI 1983, p. 153).
Il pregevolissimo manufatto, di cui non conosciamo la
provenienza, ma di cui potremmo accettare la derivazione locale (NAPIONE 1997, p. 368), raffigura due pavoni che si abbeverano – a una fonte? – inseriti entro
una cornice composta da cerchi affiancati a formare una
teoria senza soluzione di continuità e ciascuno solcato da due grosse linee incrociate a formare un’ulteriore
decorazione a losanghe: se è vero che sotto i pavoni
compaiono due coppie di fiori o piante, più difficile ci
sembra poter pensare che i due eleganti volatili siano
per questo all’interno dell’Eden (PREVITALI 1983, p. 153).
Accanto a ciascuno dei pavoni due coppie del cosidetto “fiore” o “sole” delle Alpi, presente nel Vicentino soltanto in due altri casi: S. Martino a Barbarano
e S. Vittore a Monte di Malo (v. le schede relative).
La datazione del manufatto è stata ed è tuttora controversa a causa del complesso insieme di elementi
che lo contraddistinguono. Così, alcuni hanno visto
al suo interno emergere “elementi paleocristiani di
derivazione tipicamente romana” (PREVITALI 1983,
p. 153), altri hanno ritenuto che la cornice “ampia e
attraversata da un motivo ad intreccio, ha un’importanza accentuata, secondo modalità più tipiche delle
sculture su lastra del secolo VIII”, per poi rilevare che
“la larga e appiattita fettuccia di matrice bizantina,
diffusa soprattutto nel VI secolo”, ben si unisce al
“nastro solcato imperante negli interlace dall’epoca di
Liutprando in poi” (NAPIONE 1997, p. 365).
Diversa l’interpretazione di Previtali, il quale rileva
che “l’orientamento più sicuro viene da considerazioni
di carattere formale e da comparazioni con opere già
datate. Dal punto di vista formale l’appiattimento dei
volumi, l’accentuarsi del linearismo portano ad interpretare la naturalezza e l’eleganza della composizione
in modo differente da valutazioni ancora paleocristiane. Ci si trova di fronte ad un’opera di grande pregio,
certamente, in cui però bisogna tener conto che l’a-
Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, parete nord, pluteo marmoreo (ora conservato presso il Museo Diocesano di Vicenza)
| 127
Vicenza (VI)
strattismo è fortemente sentito: qui in forme ancora
classiche, mentre altrove e per altre vie sta per prevalere definitivamente nella scultura longobarda dei secoli VIII e IX. [...] Per queste ragioni, diversamente da
quanto da altri ritenuto, viene proposta per la scultura
vicentina una collocazione storica che si volga alla
prima metà del secolo VIII, rispondente – oltre tutto
– al momento storico cui la dedicazione della badia si
richiama” (PREVITALI 1983, p. 153).
Più recentemente un’ultima interpretazione ha mediato tra le diverse posizioni, collocando il frammento in un periodo compreso tra VI e VII secolo, frutto genericamente di un gusto ravennate (LUSUARDI
SIENA 1989, p. 216). Non mancano del resto indizi
di influssi ravennati e bizantini nel nostro territorio
e stupisce un poco che tale ipotesi non sia stata allargata anche a parte degli affreschi, almeno quello
raffigurante il personaggio femminile.
Appare evidente come la critica non sia univoca nel
definire i confini cronologici di questo oggetto e
neppure la sua reale collocazione e funzione – una
lastra tombale o un pluteo? -, proprio a causa di quella che sembra la sua principale caratteristica ovvero il
sincretismo tra momenti artistici diversi.
In merito alla sua reale funzione è forse possibile
avanzare una terza ipotesi, facendo riferimento a un
esempio interessante, ovvero un sarcofago conservato nel pesarese; S. Gervasio è situato in una valle fluviale contraddistinta da una forte continuità di
insediamenti, lungo una strada valliva, diverticolo
della Flaminia ed entro l’attuale territorio di Mon-
dolfo (PS). L’imponente sarcofago di marmo, datato
al primo quarto del VI secolo, costituisce per S. Gervasio l’unica testimonianza materiale oggetto di studi
approfonditi e perciò anche la più nota. Conservato
nella cripta della chiesa, esso è venerato come l’antica tomba di S. Gervasio, il cui corpo però è custodito
nella basilica di S. Ambrogio a Milano. Più verosimilmente l’arca dovrebbe essere servita in origine per la
sepoltura di un personaggio importante e posta presso le reliquie di un martire.
Quanti lo hanno esaminato lo ritengono probabilmente lavorato sul luogo e si tratta del più antico e
più grande sarcofago di stile ravennate nelle Marche:
ha il coperchio a doppio spiovente, asimmetrico,
e presenta nel pannello anteriore una croce monogrammatica a otto raggi con ai lati due pavoni dal
ricco piumaggio.
Interessante anche il chrismon del pannello anteriore, a causa delle aste che fuoriescono dal disco e
addirittura dalla riquadratura: la lastra contenente
appunto il chrismon costituisce il particolare sul quale appuntiamo la nostra attenzione per due diversi
motivi. In primo luogo perché proprio il prezioso
simbolo anche a Vicenza avrebbe potuto occupare la parte centrale del pannello e nella sua originaria funzione la lastra sarebbe potuta essere non
un pluteo o una lastra tombale, ma uno dei lati di
un sarcofago; solo in un secondo momento, forse,
sarebbe stato utilizzato quale copertura di una sepoltura, lasciando sostanzialmente immutata la sua
collocazione.
Rationes decimarum
Rationes decimarum 1297: Monasterium S. Marie de Theupese (2805)
Rationes decimarum 1303: Monasterium S. Marie de Theupese (3049)
128 |
Abbazia di S. Maria Etiopissa
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COSTABISSARA (VI)
Chiesa di S. Zeno
Posizione geografica
Costabissara si trova a pochi chilometri da Vicenza,
lungo la provinciale che conduce a Schio. La chiesa si
trova alle falde del monte Tondo: al secondo tornante
si incontra un sentiero che conduce alla chiesa.
Indirizzo: via San Zeno
Illustrazione storica e artistica
I
l caso dell’edificio qui trattato è senza dubbio uno
dei più interessanti e complessi di tutto il lavoro.
Molteplici sono i dubbi legati alla sua edificazione,
ai committenti, all’evoluzione storica di cui mancano
documentazione e certezze, a fronte della ricchezza
di reperti ritrovati sull’area sulla quale la chiesa insiste. Più facile per contro indagare le vicende recenti,
documentate nel corso degli ultimi decenni da scavi,
immagini fotografiche e straordinari ritrovamenti.
L’intitolazione stessa al santo, vescovo di Verona
nel IV secolo, costituisce un interessante oggetto di
indagine, tenuto conto soprattutto della larga diffusione del culto e delle dedicazioni anche nella diocesi vicentina: si ricordino a questo proposito le chiese di S.
Zeno di Rasega (Grumolo delle Abbadesse), di Magrè
e di S. Giovanni Ilarione (v. le schede relative).
A tal proposito varrà la pena accennare rapidamente alla diffusione e al ruolo del culto zenoniano,
elemento che potrebbe tornare utile anche per la datazione dell’edificio, tuttora incerta.
Accettando quanto proposto unanimente dalla critica intorno al periodo in cui Zeno resse la diocesi di
Verona, assai interessante e importante è comprendere
il contesto ecclesiologico in cui egli si trovò ad operare
(ARNOLD 1896-1913). Verona, unitamente ad Aquileia,
apparteneva – fra il 360 e il 380 – alla provincia della
Venetia et Histria, ma l’organizzazione religiosa, proprio
al tempo di Zeno, cominciò a prendere la fisionomia
della circoscrizione imperiale; se Roma restò sede primaziale per tutta l’Italia almeno per la prima metà del
Costabissara, chiesa di S. Zeno, facciata e muro meridionale
IV secolo, successivamente al 374, anno dell’insediamento di Ambrogio – che riuscì a catalizzare attorno
alla sua figura tutti i vescovi dell’Italia settentrionale
(MENIS 1973, pp. 271-294 e CATTANEO 1972, pp. 467484) -, fu via via sostituita da Milano, capitale dell’impero d’Occidente.
Due concili spiegano meglio di qualsiasi argomentazione la situazione teologica del periodo zenoniano:
il concilio di Rimini del 359, con la negazione della
fede nicena e l’accettazione dell’arianesimo, e il concilio di Aquileia del 381, con la vittoria della fede nicena; Zeno opera proprio in questo periodo e almeno
fino al 373 con la presenza a Milano di un vescovo
ariano, Aussenzio (SIMONETTI 1975). Non si hanno
notizie per poter affermare se direttamente il vescovo
veronese partecipò ad alcun dibattito o sinodo; probabilmente, si trovò sostanzialmente isolato, ma il rifles-
| 75
Costabissara (VI)
so di questa polemica e la fermezza delle posizioni
teologiche nicene contro gli eretici sono presenti nei
suoi sermoni e vivono nella tradizione cultuale che
presenta il santo continuamente impegnato nell’opera di conversione (SGREVA 1989, pp. 34-39).
A tal riguardo Vitacchio, nel suo studio sui vescovi pre-zenoniani, compie una serie di osservazioni che puntualizzano la tipologia delle conversioni
ottenute da Zeno (VITACCHIO 1955, pp. 15-21); egli
sostiene che tali conversioni non si compirono dal
paganesimo al cristianesimo – vedremo oltre invece
in qual senso – e sottolinea come ben sette vescovi
precedettero Zeno, per tre dei quali si hanno testimonianze di una notevole attività. Procolo, il quarto vescovo, è chiamato confessor pastor et egregius e la
tradizione lo ricorda come santo; i Veronesi eressero in suo onore una chiesa e una leggenda più tarda
lo collegherà al martirio dei ss. Fermo e Rustico,
presentandolo come un uomo che a rischio della
vita professò la sua fede. Lucillo fu pastore tanto
zelante da recarsi al concilio di Sardica nel 343-344
e avrebbe potuto farlo solo se sostenuto da un clero
in grado di reggere la diocesi in sua assenza, perché
la presenza del clero è garante della vita religiosa
dei fedeli.
Il settimo vescovo, l’immediato antecessore di
Zeno, è definito doctor, con chiaro riferimento a
quella che fu la sua illuminazione in campo teologico. Con vescovi di questo spessore istituzionale e
carismatico, Zeno non poteva certo trovarsi di fronte
una Verona da evangelizzare in toto e dunque, probabilmente, le conversioni ottenute dal vescovo furono
altre; la crisi spirituale del IV secolo e l’eresia ariana
avevano fatto molti proseliti anche a Verona e Zeno
si sarebbe assunto il compito di far rientrare i fedeli
nel campo dell’ortodossia. Il Versus de Verona con l’espressione reduxit intenderebbe allora proprio questo
ritorno alla fede. Con ciò non si vuole affermare che
al tempo di Zeno non esistesse il problema di un paganesimo diffuso, ma piuttosto sottolineare che tale
fenomeno, profondamente radicato nelle campagne
(Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica 1982), era
decisamente meno presente nell’area cittadina esposta piuttosto a tentazioni eretiche.
Zeno non è un martire e non si hanno attestazioni agiografiche di un’avvenuta morte violenta per
la difesa della fede; inoltre il periodo in cui resse la
diocesi di Verona non fu quello delle persecuzioni
imperiali o delle invasioni barbariche e forse il termine attribuitogli è indice di un modo di recepire la
santità che lega necessariamente al martirio la persona da venerare: sono gli stessi vescovi tardo antichi a
incentivare il culto nei riguardi del santo come mar-
76 |
tire. Infatti, la tendenza a trasformare i vescovi santi
in martiri è proprio la manifestazione della priorità
data al culto martiriale che va a rafforzare il potere
vescovile e amplifica il suo essere testimone del Cristo anche senza l’effusione del proprio sangue, tanto
che nel IV secolo le persecuzioni degli ariani, pur
non giungendo alla pena capitale, sono considerate
creatrici di martiri (PICARD 1988, pp. 714 e sgg).
Zeno lottò indiscutibilmente contro gli ariani e
confessò in tutti i suoi sermoni l’ortodossia cristiana;
in questo senso lo si vide martire e sicuramente la
sua forza di confessore fu immediatamente recepita,
anche se è per noi assai più difficile comprendere da
chi lo fu e ancor più chi lo venerò come santo e ne
proclamò il culto.
In questo periodo non abbiamo fonti scritte che
ci possano indicare come si trasformò il culto di s.
Zeno e soprattutto se ne era rimasta viva la devozione, ma è difficile credere che in un’epoca di guerre e
di continui cambi al vertice, la popolazione veronese
non avesse continuato a rivolgersi al santo confessore per invocarne la protezione e mantenere salda la
propria identità. Sarebbe infatti paradossale che non
fosse vivo a Verona un culto che in altre diocesi si era
invece assai diffuso, come dimostrano il caso di Ravenna – che nel 553 annovera tra le sue chiese quella intitolata al beato Zenone vescovo di Verona – e
quello di Pistoia, che a partire dal VI secolo dedica
allo stesso la sua cattedrale. Verona, del resto, era rimasta profondamente legata all’ortodossia, pur nella
sua adesione allo scisma tricapitolino, e la gerarchia
ecclesiastica rimase sostanzialmente intatta almeno
fino al 568, data che “cambiò radicalmente il quadro
dell’Italia religiosa” (CRACCO 1993, p. 113).
L’invasione longobarda portò con sé forme di
intolleranza più o meno distruttive e, nonostante la
debolezza delle chiese ariane, la situazione si fece
carica di tensioni: “da una parte, gli invasori con le
loro robuste credenze pagane e con la loro ufficialità
ariana; e dall’altra i cattolici, per giunta divisi tra loro
a causa dello scisma tricapitolino e lasciati in balia di
se stessi, senza difese, dal declinare del potere bizantino” (CRACCO 1993, p. 114).
Fu il periodo delle “eclissi”; non più una classe dirigente locale fatta di nobili, ma la scomparsa
dei proprietari, la pretesa dei conquistatori su tutte
le risorse disponibili, l’insediamento progressivo dei
gruppi guerrieri che diventarono il ceto dominante
dei nuovi possessores (CASTAGNETTI 1989, pp. 12-13),
ma soprattutto non più vescovi capaci di surrogare
il potere centrale e di catalizzare attorno alla propria
figura la città e il contado nel loro ruolo di defensor civis. Proprio in questo momento Verona trovò il pro-
Chiesa di S. Zeno
prio patrono, che si fece sentire con l’unica voce che
poteva essere ascoltata in una comunità così provata
nelle gerarchie, e cioè la voce del miracolo.
La fonte di questo episodio è quella dei Dialogi di
Gregorio Magno, protagonista principe e insieme
testimone pressoché unico di quegli anni (GREGORII
MAGNI 1924, pp. 90-92): egli contribuì in modo decisivo al passaggio dei Longobardi da un’ufficialità
ariana all’adesione al cattolicesimo, ma da parte dei
re longobardi non si innescò un processo di consapevolezza del ruolo e della figura del papa, i cui
poteri andavano ben al di sopra di quello spirituale;
la gerarchia ecclesiastica inoltre non poteva ridursi
ad agire nell’ambito della coscienza dei fedeli dopo
aver rappresentato l’unica garanzia per le istituzioni, comprese quelle civili, e quindi per l’esistenza
stessa delle città. Se Liutprando, Rachi e Astolfo,
avevano attribuito al cattolicesimo il valore di religione ufficiale del regnum Langobardorum, nei “rapporti dei sudditi fra loro, dei sudditi con l’autorità pubblica e del potere sovrano con i suoi ufficiali, non
riconobbero mai un posto particolare alle gerarchie
ecclesiastiche e monastiche” (BERTOLINI 1964, pp.
1-26. In questo saggio l’autore dimostra attraverso
l’indagine degli editti longobardi e dei capitolari
franchi il mutamento della posizione del sacerdotium
di fronte al Regnum, dalla dominazione longobarda a
quella carolingia: se i vescovi del periodo longobardo erano rimasti estranei al potere temporale, con i
Carolingi essi ripresero potere e iniziò a costituirsi
il ceto dei grandi ecclesiastici che governava a fianco del ceto dei grandi laici). I vescovi non erano
visti come organi del potere sovrano e la loro autorità era riconosciuta solo in ambito strettamente
ecclesiastico, non sancita dalla legge, ma legata al
ministero di guida spirituale della diocesi; in sostanza erano più deboli, avevano perso quella forza, che
nei secoli della tarda antichità li aveva visti a guida
delle città e patroni delle stesse.
Gli anni compresi fra il 750-51 e il 780, ovvero
quelli dell’episcopato veronese di Annone, rivestono particolare importanza; Verona assisteva alla fine
del dominio longobardo e mentre il papato opponeva Carlo Magno a Desiderio, Annone cercava di
potenziare il ruolo del vescovo dando impulso ad un
nuovo culto, quello per i martiri Fermo e Rustico. Ad
Annone infatti si deve il trasporto delle loro reliquie
dall’Istria a Verona intorno al 765 (TONIOLLI 19611970, col. 1314).
In questo modo il vescovo assicurava alla città la
presenza di un culto martiriale, “paragonabile a quello di Felice e Fortunato a Vicenza o di santa Giustina
a Padova” (GOLINELLI 1989, p. 280), ma soprattutto
legava quel martirio al vescovado, inserendo nella
narrazione la figura del vescovo veronese Procolo.
Se i Longobardi avevano svuotato la funzione politica del vescovo, essa veniva però recuperata attraverso l’egida della santità; il vescovo diventava l’intermediario dell’intervento in favore dei cittadini da
parte dei martiri Fermo e Rustico.
L’avvento dei Carolingi avrebbe però radicalmente cambiato la situazione esistente, rapidamente sostituendo al culto dei ss. Fermo e Rustico quello di
Zeno. Le motivazioni più profonde ci sembra di poter cogliere in due motivi tra loro strettamente correlati: da un lato la precisa volontà di far dimenticare
tutto ciò che poteva in qualche modo richiamare la
dominazione longobarda e, dall’altro, il voler sostituire quei patroni con una figura altrettanto autorevole
ma che, in più, si era sempre battuta contro l’arianesimo longobardo.
Le considerazioni che abbiamo inteso riportare
ci sembrano importanti nella prospettiva non tanto
delle vicende dell’edificio di Costabissara, cui peraltro ben poco possono aggiungere, quanto in vista di
alcune precisazioni in merito alla datazione dell’edificio che, come abbiamo osservato, è piuttosto dubbia, oscillando tra i secoli VI-VII (CANOVA-MANTESE,
p. 219) e il IX-X (PREVITALI 1983, p. 190; più recentemente lo stesso autore sembra tuttavia avere accettato tale indeterminatezza: PREVITALI 2001, p. 130).
Tra gli storici locali più attivi, Attilio Previtali non
ha ritenuto accettabile la datazione dell’edificio sacro in un contesto politico ancora longobardo per
due diverse ragioni.
In primo luogo la consueta volontà di prolungare la periodizzazione longobarda facendola arrivare
a IX secolo inoltrato, quando ormai da circa 70/80
anni i Franchi avevano di fatto preso possesso del
territorio vicentino.
Inoltre vogliamo aggiungere analisi più profonde
relative all’uso fatto dai sovrani longobardi e franchi
del nome dei santi. Tralasciamo per brevità le vicende
legate ai ss. Fermo e Rustico (v. la scheda della chiesa
omonima di Bolzano Vicentino) e puntiamo l’attenzione sulla volontà dei nuovi dominatori di sostituire
a questi ultimi un vescovo campione dell’ortodossia e,
ancor più importante, fortemente avverso all’arianesimo longobardo. Che i Longobardi nel corso degli
ultimi anni avessero mutato le prospettive di natura
religiosa non è significativo a tal fine. Inoltre, riteniamo che non sarebbe stato possibile erigere un edificio
con tale intitolazione in un territorio che, come vuole
la storiografia locale e come certo in buona parte fu,
ebbe accentuate caratteristiche longobarde.
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Costabissara (VI)
Costabissara, chiesa di S. Zeno, area absidale e muro nord con gli edifici abitativi addossati prima dei restauri
Ecco quindi che la datazione del IX-X parrebbe plausibile e rapportata alla dominazione franca
piuttosto che longobarda: semmai, in accordo con
i numerosi inserti di decorazioni che è dato osservare sui muri esterni e scartando la possibilità che
essi siano appartenuti a un precedente edificio di cui
non è dato di ritrovare traccia, ci sembra possibile
retrodare la costruzione della chiesa fino alla metà
del IX secolo.
Per dovere di completezza dobbiamo riportare
anche la datazione proposta da Canova Dal Zio, la
quale, basandosi sulla tipologia delle due finestre che
permettono l’ingresso della luce nella chiesa dal lato
meridionale, ritiene che “non si può andare con la
datazione molto al di là del Mille” (CANOVA DAL ZIO
1987, p. 145).
Più recentemente, nel corso del IV Congresso di
Archeologia Medievale, Annalisa Colecchia ha affrontato il tema della datazione partendo dalle funzioni dell’edificio religioso, funerarie o liturgiche, di fatto
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retrodatandone l’origine – anche se non è chiaro se
dell’edificio attuale o di uno preesistente – a un periodo compreso tra VII e VIII. Pure partendo dall’analisi
delle sepolture in esso contenute (e di cui ci occuperemo più avanti) è evidente la difficoltà della datazione,
tanto più che in esordio di analisi l’autrice non esita
ad affermare che la chiesa ancora “conserva l’impronta
romanica”, in contrasto evidente con le cosiderazioni
di cui sopra (COLECCHIA 2006, p. 317).
Gli anni che corrono tra la nascita della chiesa e
il periodo contemporaneo sono totalmente privi di
notizie relative alle vicende storiche e le prime di cui
siamo in possesso datano la chiesa al XV secolo, per
la precisione al 1457 (v. Storiografia), una conclusione
evidentemente inaccettabile: le più recenti, infine, ci
ricordano che fino ai primi anni ‘60 del Novecento
la chiesa era adibita ad abitazione e dunque questi
sono i decenni durante i quali essa ha subito gran
parte delle manomissioni che ci è dato di accertare
(CANOVA DAL ZIO 1987, p. 143).
Chiesa di S. Zeno
L’edificio
La chiesa è perfettamente orientata, ad aula unica delle dimensioni di m. 12,7 x 5,20; internamente, lungo
il muro settentrionale e meridionale, corre quello che
doveva essere un sedile in pietra, la subsellia.
Nel fornire una descrizione particolareggiata
dobbiamo evidentemente fare riferimento a quanto
precedentemente osservato in merito alle sue vicende recenti, sicché ciò che oggi noi possiamo osservare è il frutto di reiterati interventi, testimoniati accuratamente dalle diverse immagini relative allo stato
dell’edificio poco prima e dopo il crollo del 1977.
La ricerca che qui proponiamo si è protratta
per oltre un decennio e accanto alle difficoltà per
condurla a termine vi sono anche aspetti positivi.
Su tutti quello di avere fotografato alcuni edifici
prima e dopo i restauri, consentendo così, sia pure
parzialmente, di operare confronti che, dopo alcuni
interventi di certo pesanti, sarebbero stati di difficile
realizzazione.
Così è per la chiesa di S. Zeno, oggetto di un intervento che potremmo definire di ricostruzione più
ancora che di salvaguardia, come mostrano i raffronti tra il prima e il dopo. Non concordiamo pertanto
con chi afferma che l’intervento “si è concretizzato in
operazioni di pulizia e nella messa in evidenza delle
strutture interne ”(COLECCHIA 2006, p. 317). Se questa affermazione è valida nella sua seconda parte, ben
diverso è il concetto di “pulizia” laddove si è assistito
a una vera e propria ricostruzione, sia pure attenta ai
particolari.
Costabissara, chiesa di S. Zeno, facciata prima degli interventi di recupero
Costabissara, chiesa di S. Zeno, rilievo planimetrico [da Corpus Architecturae Religiosae Europeae (saec. IV-X), p. 284]
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Costabissara (VI)
Costabissara, chiesa
di S. Zeno, finestrella
dell’abside prima dei
restauri (a sinistra) e
a restauri effettuati
(a destra)
Due soltanto sono i muri che possiamo attribuire
al periodo in cui la chiesa fu presumibilmente costruita: quello meridionale e quello orientale (La chiesetta
protocristiana s.d., p. 1), mentre gli altri due sono purtroppo crollati e dunque quasi interamente ricostruiti, sia pure con i materiali originali e basandosi sulle
numerose immagini disponibili.
La copertura, anche se non siamo in grado di affermarlo con certezza, doveva essere a capriate (La
chiesetta protocristiana s.d., p. 1).
Poiché la chiesa è stata eretta sulla sommità di un
promontorio, le fondamenta poggiano direttamente
Costabissara, chiesa
di S. Zeno, arco della
porta d’ingresso
prima dei restauri (a
sinistra) e a restauri
effettuati (a destra)
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sul forte strato di roccia sottostante, elemento che ha
reso possibile ricavare anche le tre tombe che sono
state scoperte nel corso dei lavori di scavo. Due di
esse sono vicine all’area occupata dal presbiterio e una
si trova a destra dell’ingresso e, pur potendo essere
coeva, non presenta le stesse caratteristiche formali.
La collocazione nell’angolo sud-ovest di una delle tre
tombe farebbe pensare che essa sia stata la sepoltura
del fondatore della chiesa o comunque del principale
attore della trasformazione dell’edificio da struttura
meramente funeraria a chiesa adibita al culto come più
avanti vedremo (LUSUARDI SIENA 1989, p. 217).
Chiesa di S. Zeno
Costabissara, chiesa di S. Zeno, finestrelle sul muro meridionale
Costabissara, chiesa di S. Zeno, muro meridionale durante i restauri (in alto) e a restauri conclusi (in basso)
A causa di interventi operati in maniera non sempre ortodossa le sepolture non risultano di agevole
datazione e l’unico elemento utile è il raffronto con simili tipologie e, in parte, la relazione con “gli elementi
strutturali superstiti” (COLECCHIA 2006, p. 318).
Qui però la critica si divide tra chi ritiene che le
due tombe appartengano a un’ipotetica prima fase,
nella quale più che di una chiesa si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un mausoleo (COLECCHIA 2006, p.
319 e poi, ancora Colecchi con BROGIOLO e NAPIONE
in Corpus Architecturae Religiosae Europeae, p. 284) e chi invece ritiene che le due tombe siano da inserire nel
contesto dell’edificio absidato che vediamo oggi (lo
stesso BROGIOLO 2013, p. 74).
Frutto comunque di fasi costruttive che si sono
succedute nel tempo, l’edificio attuale dovrebbe essere il risultato – restauri recenti a parte naturalmente
– della terza importante modificazione della struttura originaria: il primo momento dovette essere quello dell’edificazione di un sacello quadrangolare, che
contiene le due tombe scavate, cui seguì un secondo
edificio che rappresenta in qualche modo la base su
cui insiste l’attuale chiesa, che della precedente tutta-
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Costabissara (VI)
Costabissara, chiesa di S. Zeno,
(in alto) l’interno dell’edificio durante i restauri;
(sopra) due delle tre sepolture rinvenute, prima dei restauri;
(a sinistra) la navata e le due tombe dopo i restauri (foto gentilmente fornite
da Stefano Torresan)
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Chiesa di S. Zeno
via abbassò il piano di calpestio (Storia dell’architettura
nel Veneto 2009, p. 74).
Come osservato, la facciata ha subito interventi
mirati a ricostruire l’originario profilo, anche se l’arco
che sovrasta l’ingresso è rimasto inalterato: ci sembra
tuttavia di non dover concordare con quanti hanno
inteso datarlo al periodo romano, sia pure secondo considerazioni di carattere tecnico-artistico (La
chiesetta protocristiana s.d., p. 2). Più facile che alcuni
mattoni provenienti da edifici di epoca romana siano
stati utilizzati anche nella presente costruzione; del
resto i rinvenimenti di oggetti appartenenti al periodo imperiale sono stati numerosi nell’area intorno
alla chiesa. Le immagini che riportiamo nel volume
permettono di osservare che la chiesa è stata adibita
per un lungo arco di tempo ad abitazione.
Le murature, del resto, per quanto frutto di interventi successivi e di restauri che ne hanno in parte
complicato la lettura, appaiono secondo alcuni quelle
originali (MICHIELIN – BOSCATO – VENZATO 2005, p. 76).
Nella parte absidale – larga m. 3,30 e profonda m.
2,15 – spicca poi una finestrella con arco a tutto sesto
che può essere ritenuta originale. Composta da materiali diversi per tipo e colorazione, spicca per la sua
bellezza e la sua posizione, quasi gli autori avessero inteso assegnare una particolare importanza alla facciata
e all’abside, arricchendole con particolari preziosi pur
nel contesto di una generale semplicità costruttiva. In
tale ambito si collocano anche diversi reperti di natura scultorea incastonati nelle pareti e analizzati da
Previtali in una interessante chiave compositiva di cui
riportiamo i momenti più significativi.
“Per quanto riguarda i reperti di Costabissara,
vanno notati i quattro notevoli frammenti di architrave di pergula, in pietra tenera di Vicenza, decorati
da una serie di cani correnti in alto e da una treccia
biviminea nella parte inferiore. Sono sculture che
mostrano il notevole interesse dei costruttori nei
confronti della chiesetta di S. Zeno, dalla quale esse
provengono. Il lavoro di queste sculture è così bene
ordinato, che denuncia un influsso bizantino [...]”
(PREVITALI 1983, p. 191).
La vicinanza di questi reperti con opere conservate
presso i lapidari di Grado e di Vicenza ha spinto a
datarli al IX secolo (così anche Napione in La Diocesi di Vicenza 2001, pp. 139-143). Accanto a questi,
“va considerato l’insieme di reperti riconducibili ad
un pluteo, sempre della stessa epoca. [...] Il pluteo
di Costabissara va pensato come appartenente alla
chiusura dello spazio attorno all’altare. [...] È ricomponibile accostando i frammenti, che permettono di
individuare una decorazione con occhielli ad ogiva,
Costabissara, chiesa di S. Zeno, le decorazioni lapidee (resti di pergula?) spostati durante i lavori del 1971
annodati tra loro e combinati con diagonali incrociate” (PREVITALI 1983, p. 191).
All’opposto appaiono spogli i muri settentrionale –
che prima dei restauri era interamente crollato (v.
la fotografia a p. 144 di CANOVA DAL ZIO 1987) – e
meridionale: entro quest’ultimo sono state aperte due
porte, sicuramente però in un periodo successivo.
Sempre nel muro meridionale appaiono inoltre due
finestre a strombatura contrapposta che ci sembrano coeve alla fondazione (Kozlovich, autore del più
volte citato saggio La chiesetta protocristiana, prima sostiene la tarda apertura delle due finestre – p. 3 –,
poi – p. 6 – osserva che è “da stabilire la contemporaneità alla costruzione […], ma nei bordi del muro ai
loro lati non esistono tracce di manomissione, e ciò
potrebbe convalidare la certezza della loro autenticità”). Diversamente sostiene Previtali, secondo il
quale le due finestrelle non sono originali (PREVITALI
1983, p. 190).
Gli ultimi importanti interventi si sono avviati nel
2009.
L’affresco
Nel periodo di pieno utilizzo della chiesa, gli affreschi dovevano ricoprire i muri interni della chiesa
con una certa continuità: ancora alla fine degli anni
‘70 del Novecento si potevano intravvedere alcuni
panneggi lungo il muro meridionale, oggi totalmente
scomparsi (La chiesetta protocristiana s.d., p. 3).
Di ben diverso rilievo invece un altro casuale ritrovamento effettuato nel corso dei lavori di recupero, un
volto di angelo o di santo che fu staccato da quel muro
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Costabissara (VI)
Costabissara, chiesa di S. Zeno, l’affresco con figura di santo, staccato e conservato negli spazi del Comune di Costabissara
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Chiesa di S. Zeno
per salvarlo dal degrado. Non siamo in possesso di molti elementi per la sua datazione e ci basiamo sulle considerazioni, purtroppo soltanto verbali, di Carlo Guido
Mor che, visitando l’edificio su espressa richiesta del
locale Gruppo Archeologico – il vero promotore del
recupero – non ebbe dubbi nel collocarlo in un arco di
tempo compreso tra l’VIII e il IX secolo e a questa seconda opzione crediamo di poter aderire (dissentiamo
invece dalla sommaria datazione al XIII secolo proposta
in Corpus Architecturae Religiosae Europeae, p. 284).
Attualmente questo frammento di affresco (cm.
40x50 circa), insieme con molto altro materiale recuperato nella chiesa e nel terreno circostante, restaurato nel 2011, si trova nei locali del Comune di
Costabissara: come in molti altri casi non resta che
auspicare una ben più degna collocazione, anche e
soprattutto in considerazione del fatto che comunque si tratta di una delle testimonianze più antiche in
assoluto del territorio.
Storiografia
Maccà:
«Già romitorio, è senza oficiatura. [...] Di questa chiesa trovai memoria del 1427 13 maggio, nel qual anno un testatore
lasciole soldi cinque di piccioli.»
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ALBETTONE (VI)
Chiesa di S. Vito
Posizione geografica
Lovertino è frazione di Albettone, comune posto tra
le pendici sud-orientali dei Colli Berici e le propaggini
occidentali dei Colli Euganei e la chiesa di S. Vito
sorge lungo la strada principale: trattandosi di area
aperta, un buon punto di riferimento è il cimitero,
posto a poche centinaia di metri dalla chiesa.
Indirizzo: via S. Vito
Illustrazione storica e artistica
L
’area, per quanto oggi apparentemente isolata e
priva di attarttive particolari, è stata abitata sin
dall’età romana (ROSSIGNOLI et Al. 2014, pp. 26,
48-49).
Nell’alto medioevo il monastero benedettino di Nonantola era proprietario di un gran numero di terre
nel Vicentino. A Lovertino esisteva una cella che una
bolla del 1168 di Papa Alessandro III riconobbe come
proprietà della potente abbazia. Probabilmente il documento si riferisce al monastero benedettino di S.
Silvestro, che sorgeva sul colle di Lovertino, e non alla
chiesa di S. Vito, ma è possibile che questa esistesse
già - anzi, come vedremo, gli studiosi concordano su
questa ipotesi - e che vi fosse uno stretto legame con il
più grande monastero posto sul colle e dunque anche
con quello nonantolano.
Colpisce il fatto che l’abate Maccà, ineludibile punto
di riferimento per questo lavoro, solitamente prodigo
di annotazioni, abbia dedicato all’edifico poche scarne
righe di testo.
Di per sé, l’intitolazione a s. Vito (in realtà la dedicazione
precisa era ai ss. Vito, Modesto e Crescenzia), che potrebbe riportare al periodo in cui maggiormente si diffusero i benedettini nel nostro territorio, ossia ai secoli VIII
e IX, non è prova sufficiente a far risalire la nostra chiesa
a quell’epoca, in mancanza di documenti che ne attestino
l’antichità; in tutta l’area presa in esame dall’indagine sono
Albettone, chiesa di S. Vito
ancora superstiti due chiese con la stessa intitolazione: a
Marostica e a Santorso (v. le schede relative).
Nonostante non si disponga di alcun documento di
epoca medievale che menzioni l’edificio, è possibile
ipotizzare una datazione sulla base dell’osservazione
del manufatto, anche sulla scorta delle conoscenze relative alle condizioni in cui versava prima dei restauri,
compiuti fra il 1992 e il 1994.
Se osserviamo le fotografie scattate alcuni decenni fa
nell’imminenza dell’inizio dei lavori e quelle realizzate
per la presente pubblicazione, ci rendiamo conto che
l’intervento compiuto per iniziativa della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali di Verona e
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Albettone (VI)
Albettone, chiesa di S. Vito, facciata e muro nord prima (in alto) e dopo i restauri (in basso)
del Comune di Albettone ha avuto carattere di integrazione - del resto necessaria considerato lo stato in
cui la chiesa versava - e non solo di conservazione.
Ciò sta a significare che numerose e ampie porzioni
dell’edificio, crollate da tempo, furono ricostruite a
integrazione di quanto rimasto in piedi. È importante
180 |
partire da questa osservazione per poter distinguere,
all’interno della struttura attuale, tra parti originali e
parti ricostruite.
Come si può notare, la chiesa risultava completamente priva di copertura e poco prima dell’inizio dei
restauri la situazione si era ulteriormente aggravata,
tanto che la parte sommitale della facciata aveva già
ceduto e ampie crepe erano evidenti su tutta la struttura. Inoltre, anche la piccola abside semicircolare
era crollata in ampie porzioni, sicché quella che noi
oggi vediamo è il frutto di una ricostruzione, che non
ne altera tuttavia le dimensioni e le proporzioni.
La chiesa risulta perfettamente orientata e la dimensione dell’abside fa supporre che proprio questa parte
dell’edificio - sebbene, come abbiamo detto, ampiamente ricostruita - sia la parte che risale ad epoca
più remota; a questa conclusione giungono tutti gli
studiosi - e noi concordiamo - sulla base delle dimensioni e in particolare della profondità del catino,
riscontrabili in molte altre chiese del nostro territorio: m. 3,5 di diametro, m. 4 circa di altezza, m. 1,5
di profondità. Potrebbe essere databile all’XI o al XII
secolo (di XII-XIII scrive invece DIANO 2005, p. 27,
anche se altri pretendono che si tratti di manufatto
dell’VIII o del IX; questo più sulla scorta di quanto
detto circa la diffusione dell’ordine benedettino nelle
campagne vicentine piuttosto che su puntuali considerazioni di carattere archeologico e architettonico
(CANOVA DAL ZIO 1986, p. 160; Relazione storico-artistica 1992; GAMBIN 1994, p. 19; PIROCCA 1974). La
composizione muraria dell’abside comprende conci
di pietra calcarea frammisti a laterizi di epoca romana. In ogni caso sia Canova Dal Zio sia Pirocca
mettono in risalto il fatto che soltanto l’abside può
considerarsi elemento antico e (forse) originario,
mentre “il corpo della chiesa fu nei secoli posteriori
completamente modificato” (PIROCCA 1974).
Prima di prendere in considerazione la rimanente
struttura, proponiamo di osservare con una certa attenzione un frammento di pietra gialla con motivi di
decorazione “ad intreccio” a cinque nastri (NAPIONE
2001, tav. XIII, foto n. 35), incorporato nel muro meridionale e probabilmente risalente ai secoli VIII-IX.
Questo tipo di fregio si ritrova in molte chiese comprese nella nostra indagine e in una vasta regione
corrispondente all’intera Italia settentrionale e oltre,
fino alla Dalmazia. Se riteniamo di non dover utilizzare, perché priva di fondamenti di documentazione
storica e di chiare delimitazioni temporali e geografiche, la definizione di “arte longobarda”, nondimeno
crediamo opportuno considerare tali testimonianze
come reperti artistici la cui datazione oscilla tra il periodo longobardo e quello carolingio-ottoniano.
Chiesa di S. Vito
È indubbio che la presenza di un elemento scultoreo
con tali caratteristiche induce a ritenere che l’edificio attuale, sia pure rimaneggiato, affondi le proprie
radici in un periodo anteriore al X secolo oppure che
l’intreccio sia il frutto di un riutilizzo derivante da
una chiesa comunque presente in loco.
Dunque, il corpo dell’edificio - se si esclude il catino
absidale - potrebbe essere il frutto di una totale o
parziale ricostruzione, avvenuta in epoca successiva
al XII secolo. Osservando la facciata si può ipotizzare che l’intera costruzione risalga al XIV o addirittura
al XV secolo: campaniletto a vela, due grandi finestre
ad arco in posizione simmetrica, un piccolo occhio
e un portale d’ingresso costituito da due pilastri e
da un architrave quattrocentesco sul quale si legge
il monogramma di Cristo; difficile tuttavia poter af-
Albettone, chiesa di S. Vito, abside
Albettone, chiesa di S. Vito, muro sud e abside prima (in alto) e dopo i restauri (in basso)
fermare che tutta l’attuale muratura (ovviamente il
riferimento non è a quella reintegrata con i recenti
restauri) sia così recente. Sopra l’architrave, ad esempio, si nota la curva di un’apertura ad arco precedente, peraltro di difficile datazione. Altre tracce di
apertura con arco in mattoncini si distinguono lungo
la parete settentrionale, all’esterno. In ogni caso non
riteniamo che la struttura muraria coeva all’abside sia
sorta su una pianta diversa dall’attuale, che disegna
un’aula di m. 11 x 6. Soltanto l’altezza dell’edificio
è stata aumentata in concomitanza con i rifacimenti
della copertura, come è possibile costatare confrontando le immagini pre e post restauri. Della stessa
epoca delle aperture della facciata è anche la finestra
ad arco che si apre nel muro meridionale.
Albettone, chiesa di S. Vito, frammento con treccia a cinque nastri murato
nella parete meridionale
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Albettone (VI)
Albettone, chiesa di S. Vito, muro settentrionale in cui si nota un’apertura ora tamponata
Albettone, chiesa di S. Vito, aula
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Chiesa di S. Vito
L’interno è caratterizzato da un’aula unica al termine della quale è ancor oggi ben visibile l’originario arco absidale e l’intero catino ben restaurato. Interessante è notare che la mensa d’altare monolitica è sorretta da una
sezione di fusto di colonna marmorea di epoca tardo-romana (così Verlato in GAMBIN 1994, p. 19) di considerevoli dimensioni.
Storiografia
Maccà:
«Lontana dalla parrocchiale circa mezzo miglio, ed è pure anch’essa de’ suddetti signori Consorti.»
Bibliografia
Monografie
BARBARANO Francesco, Historia Ecclesiastica della Città, Territorio e Diocesi di Vicenza, VI, 1762, cap. L, p. 154.
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1987), p. 159-60.
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CONDESTAULE D., Memorie storiche di Albettone, Vicenza, 1871.
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1942, p. 38.
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Relazione storico-artistica chiesetta SS. Vito e Modesto, sita in Comune di Albettone - via S. Vito, Albettone, 13 marzo 1992.
Stampa periodica locale
BERTINATO Giacomo, Nel piccolo lo spirito resta vivace. Lovertino:
è rimasta solo la parrocchia ad aggregare la gente, in “La Voce dei
Berici”, 12 giugno 1994, p. 15.
GAMBIN Giuliano, L’oratorio di Lovertino, in “Il Basso Vicentino”, n° 161, ottobre 1994, p. 69.
GAMBIN Giuliano, Un millenario oratorio è ritornato a splendere.
Dedicato ai SS. Vito, Modesto e Crescenzia. Terminati i restauri è
stato benedetto dal Vescovo, in “La Voce dei Berici”, 10 luglio
1994, p. 19.
PIROCCA Tarcisio, La Chiesa di S. Vito in Santorso, in “Maggio
a Santorso”, 1974, p. 46.
SACCARDO Mario, L’antico oratorio dei santi Vito e Modesto e la
pala del Pasqualotto. Un recente restauro a Lovertino, in “La Voce
dei Berici”, 21 gennaio 1996, p. 24.
Sos per la chiesa di S. Vito. Per salvarla è sorto un comitato, in “La
Voce dei Berici”, 23 giugno 1991, p. 27.
VERLATO Antonio, La Pala di Lovertino. Ad Albettone è stato restaurato il prezioso dipinto del ‘700 in memoria di Giovanni Mantese,
in “Il Basso Vicentino”, luglio - agosto 1996, n. 181, pp.
68-69.
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