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2017, IMAGO ECCLESIE. Medioevo di pietre e colori. Arte e storia di un territorio medievale, Vicenza tra VIII e XIV secolo

Presentazione e anticipazione della pubblicazione "IMAGO ECCLESIAE"

Marco Ferrero – Alessandro Padoan Imago Ecclesiæ Medioevo di pietre e colori Arte e storia di un territorio medievale Vicenza tra viii e xiv secolo casa editrice Presentazione e piano del lavoro Queste brevi note rappresentano esclusivamente una sintetica premessa per la comprensione delle finalità del lavoro. Si tratta di una ricerca volta a fornire uno strumento per ulteriori approfondimenti, una sorta di repertorio che ha l’ambizione di rappresentare, attraverso un’analisi artistica e, in subordine, storica, un quadro completo della superstite architettura sacra medievale del territorio vicentino. ■ L’area della ricerca La scelta è stata quella di operare su un ambito geografico che non ha confini istituzionali nettamente definiti, ma trova la sua ragion d’essere in motivazioni di ordine storico e culturale. Punto di partenza è stato quello dei confini delle attuali province, che si intersecano tuttavia con quelli diocesani: una pieve o un qualunque edificio sacro rientra in questi ovviamente e a questi deve fare riferimento. Trattandosi di un’indagine che contempera passato e presente abbiamo inteso prendere in considerazione i confini attuali della diocesi di Vicenza unitamente a quelli precedenti le modifiche operate dopo il 1818: il risultato è un territorio assai ampio, che confina (e questo non è privo di significato per comprendere molte contaminazioni sotto il profilo artistico) con il Padovano, il Veronese e – sia pure con minori, ma importanti, implicazioni – con il Trentino. ■ La cronologia Sotto il profilo cronologico non possiamo evidentemente definire un vero e proprio punto di partenza, ma uno di arrivo sì, ovvero quello del passaggio al gotico, che nel Vicentino avviene in ritardo rispetto ad altre aree della pianura padana. La nostra ricerca si chiude dunque in un periodo compreso tra gli ultimi anni del XIV e i primi del XV secolo. ■ La metodologia L’individuazione di un metodo coerente sul quale fondare ogni elaborazione ha rappresentato il problema principale. Se la mancanza di una precedente letteratura – intesa in senso contemporaneo – poteva in qualche modo penalizzare la ricerca, dall’altro essa ha fatto sì che l’indagine si sia svolta in un contesto privo di evidenti condizionamenti e dunque valido per creare un piano di lavoro completamente nuovo. Il lavoro è stato condotto contemporaneamente su due fronti: quello delle carte, che rappresentano un ausilio prezioso e indispensabile per collocare correttamente ogni edificio nel proprio contesto, e quello della permanenza architettonica, necessario e ineludibile trait d’union tra passato e presente. In mancanza di quest’ultima si sarebbe realizzato un quadro storico tanto affascinante quanto sterile sotto il profilo dell’attualizzazione del soggetto; ed è bene ricordare che le finalità del lavoro sono di ordine artistico e architettonico. ■ Le fonti 1. Il punto di partenza – utile sotto il profilo geografico e istituzionale – è stato quello delle Rationes decimarum, un censimento voluto dalla Chiesa di Roma, redatto negli ultimi anni del XIII e nei primi del XIV secolo al fine di stabilire il censo dovuto da ogni edificio ecclesiastico: fondamentale dunque la sua elencazione delle chiese presenti, articolato secondo precisi criteri territoriali. |3 Imago Ecclesiae 2. Su questa base si è innestata la lettura della Storia del territorio vicentino compiuta a cavallo tra XVIII e XIX secolo dall’abate Gaetano Maccà: le Rationes costituiscono una fonte originale cui fare riferimento, mentre l’analisi dell’abate Maccà si configura come un importante elemento di collegamento tra quelle e il presente, una “fotografia” dettagliata dell’esistente realizzata in un momento in cui, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, l’unico strumento a disposizione era quello dell’osservazione diretta. 3. Terzo momento quello della lettura delle Visite pastorali del Novecento, un tassello importante per comprendere il mutamento verificatosi a livello di persistenza e conservazione degli edifici. 4. A completamento dell’aspetto documentario è stato poi compiuto uno spoglio bibliografico relativo a ogni edificio, raccogliendo sia le monografie e gli eventuali articoli in riviste di settore, sia quanto apparso sulla stampa periodica locale: Il Giornale di Vicenza, Il Gazzettino, La Voce dei Berici e La Difesa del Popolo – ma anche le numerose testate con ristretta circolazione, patrimonio spesso inesplorato della storiografia locale – alla ricerca anche degli articoli che nel tempo hanno sottolineato l’attenzione – o la trascuratezza – verso questi manufatti; integrando poi il tutto con una bibliografia artistica di più ampio respiro, con l’intento di sottolineare come anche apparentemente modesti edifici oggi isolati nella campagna si possano talvolta inserire a pieno titolo tra i migliori esempi artistici nazionali. ■ L’analisi delle permanenze Il passo successivo è stato quello di lavorare sull’«esistente», ovvero sui manufatti artistici ancora esistenti (architetture, affreschi, reperti lapidei ...), confrontandoli con le fonti storiografiche citate: tutto ciò ha consentito poi di verificare sul territorio cosa agli inizi del terzo millennio è sopravvissuto e di effettuare una campagna fotografica completa: 6000 scatti circa, sui quali abbiamo operato una scelta, integrandola in tempi recenti con aggiustamenti «digitali», sfruttando le nuove tecnologie e verificando anche, a distanza di alcuni anni dalla prima campagna (circa 15), quali edifici avessero subito interventi di restauro o se vi fossero state nuove scoperte. In tal senso non sono mancate le sorprese. ■ I risultati Il risultato è stato quello della presa in esame di circa 130 edifici con la stesura di una scheda per ciascuno di essi, che intende offrirne un quadro il più possibile esaustivo, senza peraltro avere la presunzione che sia anche definitivo. Del resto, ognuno di essi meriterebbe una monografia. Di ciascun edificio sono forniti l’indicazione della posizione geografica al fine di facilitarne l’individuazione sul territorio, approfondimenti che riguardano le fonti storiografiche, l’illustrazione storica e artistica e la bibliografia specifica. Né si pensi che i risultati siano solo numerici: intendiamo cioè che anche sotto il profilo prettamente estetico e artistico ci troviamo spesso di fronte a capolavori che meriterebbero di essere maggiormente valorizzati e di rientrare anche in un circuito turistico che potrebbe ampliare l’orizzonte culturale del Vicentino oltre il consueto e ampiamente sfruttato momento palladiano. ■ La raccolta dei dati Non tutte le chiese possono essere considerate “medievali” nel loro complesso o possono offrire analoghi reperti d’epoca medievale. Se vogliamo essere più precisi è possibile raggrupparle in almeno tre grandi categorie che ci consentono di chiarire e differenziare la diversa tipologia riscontrata: - oltre la metà conservano parti rilevanti di elementi strutturali e/o decorativi risalenti al medioevo: facciata, pianta e ampie porzioni di muri, abside, campanile, affreschi sui muri originari. Tra gli esempi più significativi vi sono le chiese di S. Giorgio a Bassano, S. Giorgio a Velo d’Astico, S. Vittore a Priabona (Monte di Malo), S. Michele a Caldogno, S. Donato a Cittadella, S. Maria Etiopissa a Polegge (Vicenza), S. Michele di Armedola a San Pietro in Gù, S. Agostino a Vicenza e S. Salvatore a Montecchia di Crosara; - poco più di un terzo presentano tracce strutturali risalenti al medioevo: fondamenta dell’edificio originario, ruderi, arco absidale, singole porte, singole finestre, spessore dei muri. Tra queste possiamo ricordare quelle 4| Imago Ecclesiae di S. Eusebio a Bassano, di S. Pietro a Rosà, dei SS. Fermo e Rustico a Bolzano Vicentino, dei SS. Nicolò e Osvaldo a Pianezze; - infine, una quindicina di altri edifici, completamente ricostruiti in epoca successiva, contengono singoli reperti risalenti al periodo medievale, quali iscrizioni lapidee, fregi usati come materiali di recupero, affreschi staccati dai muri originari, sculture. A titolo di esempio citiamo le chiese di S. Martino a Torri di Quartesolo (Lerino), di S. Andrea a Trissino, di S. Vigilio a Pove, di S. Vincenzo a Spiazzo (Grancona), di S. Spirito a Oliero (Valstagna). ■ Gli apparati introduttivi Una serie di brevi testi introduttivi sono stati redatti per contestualizzare gli edifici sotto il profilo politico e istituzionale: - chiese legate alle vie di comunicazione (a Pressana abbiamo incisioni che si rifanno al ciclo bretone); - chiese inserite nel rilevante tessuto medievale delle reti monastiche (S. Maria Etiopissa in dipendenza da Pomposa, ma anche S. Croce di Campese fondata dall’allora in carica abate di Cluny); - altre collegate al ruolo assistenziale di alcuni ordini, come quello del Battuti (così per il rilevante ciclo di affreschi della chiesa dell’Immacolata di S. Vito di Leguzzano); - e, ancora, la presenza di diversi edifici con doppia abside, tipologia che negli ultimi anni, grazie alle indagini archeologiche, ha evidenziato un’ampia diffusione anche a livello europeo e di cui il Vicentino ha mostrato di far parte pienamente (per esempio S. Pietro di Rosà e SS. Fermo e Rustico di Bolzano Vicentino). Si tratta soltanto di pochi esempi che tuttavia testimoniano visivamente a noi, oggi, della complessità artistica, politica e religiosa del mondo medievale, vicentino nello specifico. ■ Conclusioni I sopralluoghi condotti in ogni località sono serviti a verificare la realtà attuale e la consistenza artistica dei manufatti, l’attendibilità delle varie fonti bibliografiche e lo stato di conservazione. Il primo e più importante risultato è senza dubbio quello che conduce a sottolineare come il cospicuo patrimonio storico-architettonico medievale del territorio versi per gran parte in un pessimo stato per quanto riguarda la sua conservazione, tutela e valorizzazione; la lunga gestazione del lavoro ha inoltre evidenziato impietosamente tale iter, così come ha portato all’attenzione di chi scrive come molti progetti avviati per restituire dignità ad alcuni tra questi edifici siano rimasti per lo più sulla carta, per cui l’area oggetto della ricerca rivela un degrado talvolta malinconicamente evidente. Tutela e valorizzazione sono le parole d’ordine obbligate, che una sensibilità moderna e matura dovrebbe saper trasformare in interventi concreti quando è in gioco la gestione di un importante lascito artistico: non solo salvando con provvidenziali restauri gli edifici più compromessi dal tempo e dall’incuria degli uomini, ma anche portando a termine opportune campagne di scavo alla ricerca di utili testimonianze da aggiungere a quanto già conosciuto attraverso l’analisi dell’alzato – in tal senso alcuni accenni a recenti scoperte compiute grazie all’ausilio delle più moderne tecnologie renderanno chiaro il concetto di possibili futuri sviluppi nel settore – o cercando di sensibilizzare i privati proprietari incentivandone l’opera di restauro. Uno degli obiettivi del presente lavoro è anche quello della fissazione di uno status quo e dello stimolo al recupero di una coscienza storica e artistica di assoluto valore. |5 Imago Ecclesiae Gli Autori Marco Ferrero Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università di Torino con una tesi in Storia Medievale incentrata sul ruolo svolto dalla storiografia subalpina nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo. Il lavoro ha conseguito il 2° premio a un concorso indetto dalla provincia di Cuneo per opere storiche relative al territorio. Dopo aver effettuato un periodo di insegnamento presso istituti della provincia di Torino, ha avviato un’attività autonoma di consulente editoriale e di grafica che si è concretizzata nello studio grafico Scriptorium. È stato membro e consigliere del Mediæ Ætatis Sodalicium di Bologna, al cui interno si è occupato di storia del monachesimo in collaborazione con il Prof. Réginald Grégoire dell’Università di Urbino. In tale contesto ha curato la semestrale Rassegna Stampa, che si proponeva di portare all’attenzione generale una selezione dei migliori articoli di storia medievale comparsi sulla stampa quotidiana e periodica. È stato membro del Centro Studi Abbaziali, inserito all’interno dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, che si occupa dello studio dei contenuti relativi ai grandi movimenti monastici medievali, sia sotto il profilo storico sia artistico-architettonico. Ha collaborato con la L.A.R.T.I. (Libera Associazione Ricercatori Templari Italiani) nell’organizzazione dei Convegni annuali). Svolge inoltre attività di ricerca nel settore della storia medievale e tiene, sullo stesso argomento, conferenze e lezioni presso istituzioni pubbliche e private. A vario titolo ha collaborato con riviste di settore pubblicando saggi a carattere storico e artistico. Collabora con la manifestazione ticinese Cantar di Pietre. Nel 1998 ha fondato il Centro Studi medievali Ponzio di Cluny a Bassano del Grappa (Vicenza) (http://www.ponziodicluny.it). L’associazione opera nel settore della ricerca e della divulgazione in ambito medievistico attraverso l’organizzazione di corsi annuali e la pubblicazione di ricerche scientifiche in collaborazione con i principali centri di insegnamento medievistico in Italia. Alessandro Padoan Musicologo e clavicembalista, diplomatosi al Conservatorio di Bologna e perfezionatosi a Vienna con Gordon Murray, è docente di ruolo al Conservatorio “C. Monteverdi” di Bolzano. È laureato in Discipline della Musica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, con una tesi sulla semiologia del canto gregoriano con Nino Albarosa. Nel 1991 è stato tra i fondatori dell’Associazione Mediæ Ætatis Sodalicium, dedita allo studio e alla diffusione della cultura medievale, con sede a Bologna. Oltre alla sua attività concertistica e didattica nel campo della musica antica e della sua diffusione (è presidente dell’Accademia Berica per la Musica Antica, fondata nel 2012) e della storia musicale della città di Vicenza (è autore del libro Il Teatro della Pusterla, Vicenza, Edizioni Nuovo Progetto, 1993), da molti anni si dedica anche alla ricerca di ambito medievale, legata in particolare alla storia, alla semiologia e alla paleografia del canto gregoriano. Numerose sono le conferenze al suo attivo, tra cui un suo intervento al “5° Congresso dell’Associazione Internazionale Studi di Canto Gregoriano”, tenutosi a Vienna nel 1995, e i suoi saggi pubblicati in «Studi Gregoriani», «Beiträge zur Gregorianik», «I Quaderni del M.AE.S.» e nel volume Gregoriano in Lombardia, LIM Editrice, 2000. Ha collaborato inoltre alle edizioni in facsimile del Graduale Benevento, Biblioteca Capitolare 40 (1991) e del Messale Verdun, Bibliothèque Municipale 759 (1994). È stato Cultore della Paleografia Musicale presso l’Università di Udine dal 1994 al 1997. I suoi interessi per gli approfondimenti di storia dell’arte riguardanti gli edifici di culto medievali lo hanno spinto a dedicarsi, fin dal 1994, in collaborazione con il collega Marco Ferrero, anch’egli all’epoca consigliere del Mediæ Ætatis Sodalicium, all’appassionante e impegnativo progetto d’indagine sulle chiese medievali del Vicentino, che è sfociato nella pubblicazione di Imago Ecclesiae. 6| Indice ■ ■ Presentazione Introduzione metodologica ■ L’area interessata dall’indagine ■ Provincia e diocesi; pre- e post- 1818 ■ Le fonti ■ Da Barbarano e Maccà a Mantese. Utilizzo dell’erudizione ■ Rilevanze artistiche ■ Schede ■ Indice delle cose notevoli: architettura ■ Indice delle cose notevoli: scultura ■ Indice delle cose notevoli: pittura |7 Elenco degli edifici LOCALITÀ Chiesa AGUGLIARO (Finale) Chiesa di S. Bernardino AGUGLIARO (Fogliascheda) Chiesa di S. Marco ALBETTONE (Lovertino) Chiesa di S. Vito ALONTE Chiesa di S. Maria della Rasa ARCOLE (Alzana) Chiesa di S. Maria ARCUGNANO Chiesa di S. Margherita ARCUGNANO (Villa di Fimon) Chiesa di S. Rocco ARZIGNANO Chiesa di S. Matteo ARZIGNANO Chiesa di S. Bortolo ARZIGNANO (Costo) Chiesa di S. Maria in Allo (Madonnetta) BARBARANO S. Maria Assunta BARBARANO Chiesa di S. Martino BARBARANO (S. Giovanni in Monte) Chiesa di S. Giovanni BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Maria delle Grazie BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Maria in Colle BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Francesco BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Antonio Abate BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Donato BASSANO DEL GRAPPA Chiesa di S. Sebastiano BASSANO DEL GRAPPA (Angarano) Chiesa di S. Giorgio “alle acque” BASSANO DEL GRAPPA (Angarano) Eremo di S. Bovo BASSANO DEL GRAPPA (Angarano) Chiesa di S. Eusebio BASSANO DEL GRAPPA (Campese) Chiesa di S. Martino BASSANO DEL GRAPPA (Campese) Chiesa di S. Croce BOLZANO VICENTINO Chiesa dei SS. Fermo e Rustico BREGANZE Chiesa di S. Stefano BROGLIANO Chiesa di S. Martino CALDOGNO Chiesa di S. Michele CALDOGNO Chiesa di S. Giovanni CALTRANO Chiesa di S. Giorgio |9 Imago Ecclesiae CARRÈ Chiesa di S. Lucia CASTEGNERO Chiesa di S. Maria (già parrocchiale di Nanto) CASTEGNERO Chiesa di S. Giorgio CASTELGOMBERTO Chiesa dei SS. Fermo e Rustico CASTELGOMBERTO Chiesa di S. Stefano CHIAMPO Chiesa di S. Biagio in Vignalta CHIAMPO Chiesa di S. Daniele CITTADELLA Chiesa di S. Prosdocimo CITTADELLA Chiesa di S. Donato COGOLLO DEL CENGIO Chiesa di S. Agata COLOGNA VENETA Chiesa di S. Giovanni (Domus di Umiliati) CORNEDO (Cereda) Chiesa di S. Andrea Apostolo COSTABISSARA Chiesa di S. Zeno COSTABISSARA Chiesa di S. Maria in Favrega CREAZZO (Olmo) Chiesa di S. Nicolò GAMBELLARA Chiesa di S. Marco GAMBELLARA (Sorio) Chiesa di S. Giorgio GRANCONA (Acque) Chiesa di S. Antonio Abate 1 GRANCONA 1 Chiesa dei SS. Gaudenzio e Apollonia GRANCONA (Spiazzo) Chiesa di S. Vincenzo GRUMOLO DELLE ABBADESSE (Rasega) Chiesa di S. Zeno ISOLA VICENTINA Chiesa di S. Maria del Cengio ISOLA VICENTINA (Castelnovo) Chiesa di S. Lorenzo LONGARE (Costozza) Chiesa di S. Antonio Abate LONGARE (Costozza) Chiesa di S. Sofia LONGARE (Costozza) Chiesa di S. Mauro LONGARE (Lumignano) Chiesa di S. Maiolo LONGARE (Lumignano) Chiesa di S. Maria in Valle (o “della Neve”) LONIGO Chiesa dei SS. Fermo e Rustico LONIGO Chiesa di S. Marina LUSIANA (Campana) Campanile MALO Chiesa di S. Benedetto MALO Chiesa di S. Francesco MALO Chiesa di S. Bernardino MALO Santuario di S. Libera (Chiesa di S. Maria Assunta) MAROSTICA Chiesa di S. Antonio MAROSTICA Chiesa di S. Maria Assunta 1 1 Manteniamo in questo caso il nome del Comune originale. Dal mese di marzo 2017 il Comune di Grancona e il Comune di Villa del Ferro si sono fusi in una nuova entità istituzionale con il nome di Val Liona 10 | Imago Ecclesiae MAROSTICA Chiesa di S. Vito MAROSTICA (Marsan) Chiesa di S. Agata MASON (Turra) Chiesa di S. Biagio MONTE DI MALO Chiesa di S. Giorgio MONTE DI MALO (Priabona) Chiesa di S. Vittore MONTEBELLO Chiesa di S. Daniele MONTECCHIA DI CROSARA Chiesa di S. Salvatore MONTECCHIO PRECALCINO (Castelvecchio) Chiesa di S. Pietro MONTEFORTE D’ALPONE Chiesa di S. Antonio MONTEFORTE D’ALPONE (Brognoligo) Chiesa di S. Stefano (vecchia) MONTEFORTE D’ALPONE (Sarmazza) Chiesa di S. Croce MONTEGALDA (Castello) Chiesa del SS. Crocifisso MONTORSO V.NO (Ponte Cocco) Chiesa dei SS. Marcello e Anna NOGAROLE V.NO (Castellaro) Chiesa dei SS. Rocco e Sebastiano ORGIANO Chiesa dei SS. Antonio Abate e Lazzaro ORGIANO Chiesa di S. Rocco PIANEZZE Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo PIANEZZE Chiesa dei SS. Nicolò e Osvaldo POVE DEL GRAPPA Chiesa di S. Vigilio POVE DEL GRAPPA Chiesa di S. Pietro POVE DEL GRAPPA Chiesa di S. Bartolomeo PRESSANA Chiesa di S. Maria PRESSANA (Gazzo) Chiesa di S. Giovanni Battista ROMANO D’EZZELINO Chiesa di S. Maria (cimitero vecchio) RONCÀ Chiesa di S. Margherita ROSÀ (San Pietro) Chiesa di S. Pietro SALCEDO Chiesa dei SS. Sigismondo e Valentino SAN BONIFACIO Chiesa di S. Abbondio SAN BONIFACIO (Villanova) Basilica di S. Pietro di Villanova SAN GERMANO DEI BERICI (Villa del Ferro) Chiesa di S. Lorenzo SAN GIOVANNI ILARIONE (Scandolaro) Chiesa di S. Zeno SAN PIETRO IN GU’ (Armedola) Chiesa di S. Michele SAN PIETRO MUSSOLINO Chiesa di S. Pietro (vecchia) SAN VITO DI LEGUZZANO Chiesa di S. Maria Maddalena SAN VITO DI LEGUZZANO Chiesa dell’Immacolata Concezione (Chiesa di Sotto) SANTORSO Chiesa di S. Dionigi SANTORSO Chiesa di S. Orso 2 2 Manteniamo in questo caso il nome del Comune originale. Dal mese di marzo 2017 il Comune di Grancona e il Comune di Villa del Ferro si sono fusi in una nuova entità istituzionale con il nome di Val Liona | 11 Imago Ecclesiae SANTORSO Chiesa di S. Vito SARCEDO (San Giorgio, Ròvere) Chiesa di S. Giorgio SARCEDO Chiesa di S. Pietro in Bodo SAREGO Chiesa di S. Eusebio SCHIO Chiesa di S. Maria SCHIO (Giavenale) Chiesa di S. Giustina SCHIO (Magrè, Val Bova) Chiesa di S. Zeno SCHIO (Magrè) Chiesa dei SS. Leonzio e Carpoforo SCHIO (Poleo) Chiesa di S. Martino SELVAZZANO DENTRO Chiesa di S. Michele SELVAZZANO DENTRO (Quarta) Chiesa di S. Maria SOLAGNA Monastero o chiesa (?), affresco SOLAGNA Chiesa di S. Giorgio SOVIZZO Chiesa di S. Pietro SOVIZZO Chiesa di S. Reparata THIENE Chiesa di S. Vincenzo THIENE (Santo) Chiesa di S. Antonio TOMBOLO (Onara) Chiesa di S. Margherita TORRI DI QUARTESOLO (Lerino) Chiesa di S. Martino TRISSINO Chiesa di S. Andrea VALDAGNO (Maglio di Sopra) Chiesa di S. Maria di Panisacco VALSTAGNA (Oliero) Chiesa di S. Spirito VELO D’ASTICO Chiesa di S. Giorgio VICENZA Abbazia di S. Agostino VICENZA Chiesa di S. Giorgio VICENZA Chiesa di S. Martino al Ponte del Marchese VALDASTICO (Forni) Chiesa di S. Maria Maddalena (Crocifisso, ora a Vicenza, Chiesa di S. Maria in Araceli ora di Cristo Re) VICENZA (Bertesinella) Chiesa di S. Benedetto VICENZA (Longara) Chiesa di S. Giovanni Battista VICENZA (Polegge) Abbazia di S. Maria Etiopissa VILLA DEL CONTE Chiesa di S. Giuliana VILLAVERLA Chiesa di S. Simeone ZUGLIANO Chiesa di S. Maria ZUGLIANO (Grumolo Pedemonte) Chiesa di S. Biagio 12 | Comuni con evidenze medievali Vicenza Padova Verona Cismon del Grappa Valdastico Rotzo Oliero (Valstagna) Solagna Cogollo del Cengio Lusiana Pove Ro ma Velo d’Astico no Caltrano d’E zze nez Cartigliano ze Zugliano Mason V. Schio Sarcedo Breganze o o Pia Santorso it S. V Bassano del Grappa Marostica Carrè lin Salcedo Rosà Thiene . di L Montecchio Precalcino Malo Cittadella Villaverla Monte di Malo Valdagno Fontaniva Tombolo Isola Vicentina Cornedo Caldogno telg Cas Brogliano Costabissara to ber om S. Pietro Muss. San Pietro in Gù Bolzano Vicentino Nogarole Trissino San Giovanni Ilarione Piazzola sul Brenta Vicenza Chiampo Sovizzo Torri di Quartesolo Arzignano Montecchio Maggiore Montecchia di Crosara Grumolo delle Abb. Montorso Roncà Arcugnano Montegalda ra a bell Gam Longare Castegnero Monteforte D’Alpone Sarego Grancona San Bonifacio Nanto Villaga S. Germano dei Berici Lonigo Arcole Alonte Sossano Barbarano Vicentino Albettone Orgiano Agugliaro Cologna Veneta Pressana Selvazzano Dentro VICENZA (Polegge) (VI) Abbazia di S. Maria Etiopissa Posizione geografica Percorrendo la strada statale che conduce da Vicenza a Marostica, superato il semaforo della località di Polegge, si prosegue in direzione nord per circa due chilometri. Raggiunta un’ampia curva che piega verso destra, si trova un largo parcheggio sulla sinistra, di proprietà di un ristorante, e sulla destra di fronte allo spiazzo un grande cortile al termine del quale è facile scorgere la chiesa di S. Maria. Indirizzo: Strada Marosticana, località Polegge Illustrazione storica e artistica L ’edificio di cui qui ci occupiamo costituisce uno dei momenti di maggiore complessità e, nel contempo, di maggiore indeterminatezza nel panorama dell’area geografica racchiusa entro i limiti della presente ricerca, a partire dall’intitolazione stessa. Non è scopo di questo lavoro dilungarsi in considerazioni che non attengono direttamente alla storia dell’edificio e ci limitiamo dunque ad osservare come non poche siano state nel corso degli anni le dispute intorno al reale significato e all’origine di quel termine, “Etiopissa”, che accompagna nei documenti la dedicazione alla madre di Dio. Per lungo tempo si è creduto che la parola facesse riferimento a lontane radici nordafricane, un’interpretazione avvalorata dall’erronea lettura di una delle figure affrescate all’interno della chiesa, che sembrava rivelare un personaggio femminile dalla pelle scura: recentemente, invece, la critica ha ritenuto più corretto credere che quel termine, nelle carte medievali indicato con Teupexe, non fosse altro che il riferimento alla posizione geografica dell’edificio (PELLIZZARI 1997, pp. 281-292). Ben più interessante invece è soffermarsi sulle vicende storiche e artistiche che l’hanno accompagnato sino ai giorni nostri e possiamo già ora osservare come l’alone di mistero che in qualche modo circonda il nome della chiesa, si riflette anche nelle interpretazioni intorno alle sue origini. Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, facciata e campanile Da una parte troviamo infatti quanti sostengono con sicurezza che la fondazione della chiesa debba essere assegnata ai secoli VII-VIII, in altre parole al periodo longobardo, cui rimanderebbe anche la presenza di un reperto lapideo che più avanti prenderemo in esame (per l’interpretazione longobarda v. ZIRONDA 1985, pp. 473-520). Altri hanno fermato la propria attenzione sulla coincidenza fra le prime testimonianze scritte e l’analisi della struttura architettonica (DANI 1997, pp. | 115 Vicenza (VI) 293-302). Al di là della bontà dell’una o dell’altra interpretazione, resta il fatto che già a partire dal XV e XVI secolo la chiesa ha suscitato l’interesse degli eruditi prima e degli storici poi. Il primo a occuparsene è stato Giambattista Pagliarino, il quale tuttavia fece riferimento non alla chiesa, ma al monastero di S. Maria di Teupese (PAGLIARINO 1663, p. 169), anche se la conoscenza che l’autore vicentino mostrava delle vicende dell’edificio era assolutamente irrilevante (DANI 1997, p. 294). Si doveva giungere alla seconda metà del XVIII secolo per ritrovare l’atto che ancora oggi è il primo in ordine cronologico ad essere conosciuto: il padre Barbarano avviava comunque una prima seria indagine suscettibile di ulteriori e importanti sviluppi (BARBARANO 1762, pp. 208-209). La lunga tradizione di storici che si sarebbero occupati della chiesa fino agli anni ‘40 del XX secolo avrebbe tuttavia operato con un’evidente monotonia interpretativa, che non si allontanava dalle generiche osservazioni del Pagliarino e del Barbarano, i quali si erano limitati a etichettare con un generico “antichissima” l’oggetto del nostro interesse. Nel 1942 sarebbe stato monsignor Lorenzon a tentare di definire con maggiore precisione gli sfocati contorni entro i quali fino ad allora la chiesa era stata racchiusa, definendola uno dei più importanti momenti dell’arte paleocristiana vicentina e collocandone di fatto la fondazione negli anni che precedono la fine del X secolo (DANI 1997, p. 296). Quale ulteriore testimonianza della sua importanza, nel primo dopoguerra anche Bognetti vi avrebbe dedicato pagine importanti, inserendola in maniera netta e definita nel contesto di una tradizione interpretativa che faceva dei Longobardi il principale punto di riferimento per la storia politica e artistica del Vicentino. L’edificio si viene dunque a trovare per buona parte della critica in pieno ambito longobardo al pari delle vicine chiese di S. Martino di Vicenza, di S. Michele di Caldogno, di S. Giorgio in Gogna ancora a Vicenza, parte integrante di quel potente nucleo longobardo destinato a caratterizzare gran parte dell’interpretazione storica del Vicentino: per contro, è interessante la lettura offerta da Dani, il quale chiarisce come il principale motivo per il quale la chiesa è stata assegnata al pieno periodo longobardo, il reperto marmoreo, appartenga invece con grande probabilità ad un altro edificio (DANI 1997, p. 299). Forte doveva dunque rimanere lo iato tra i due differenti filoni di indagine e di interpretazione. Per quanto riguarda la datazione dell’attuale edificio, l’analisi compiuta è, ancor prima che architettonica, 116 | storica e si basa essenzialmente sulle testimonianze relative all’invasione degli Ungari che, tra l’899 e il 947, compirono nel territorio vicentino undici scorrerie, accanendosi particolarmente sugli edifici ecclesiastici, almeno secondo tale interpretazione. La metà del X secolo appare dunque come un momento discriminante di grande importanza per stabilire, secondo la critica, il periodo di (ri)fondazione di numerosi edifici del territorio (DANI 1997, p. 305): l’osservazione di Dani ci sembra significativa, soprattutto se consideriamo quanto a livello generale l’idea dell’origine longobarda di numerosi edifici ecclesiastici vicentini abbia pesato fino ad oggi. Se infatti accettiamo tale ipotesi, dobbiamo anche assumere che del periodo longobardo ben poco è rimasto nel nostro ambito territoriale. Sulla scorta di queste affermazioni, Dani osserva come proprio soltanto dopo la sconfitta degli Ungari nel 955 a Lechfeld da parte di Ottone III si sarebbe potuta avviare un’opera ricostruttiva degna di nota: in tal senso in questo periodo si dovrebbe collocare anche la costruzione o ricostruzione della chiesa di S. Maria, di cui avremo testimonianza definitiva documentaria nel 1107 con la donazione effettuata dai signori di Vivaro all’abbazia di Pomposa della “capella edificata in honore Sanctae Mariae que est posita in villa nomine Teupese” (DANI 1997, p. 306). Se riteniamo di poter sostanzialmente concordare in linea generale con le osservazioni dello storico vicentino, non possiamo fare a meno di aggiungere che le scorrerie degli Ungari potrebbero in effetti non aver portato alla distruzione totale o parziale di una chiesa presente sul sito oggi occupato da quella di S. Maria e che dunque alcune sue parti potrebbero appartenere all’edificio primitivo, in particolar modo la base dell’abside e i muri di fondazione indagati nel corso degli interventi degli anni Novanta del XX secolo (NAPIONE 200, p. 269): per contro, è altrettanto vero che non pochi sono stati gli interventi successivi, che hanno in buona parte stravolto l’impianto originale. Abbazia di S. Maria Etiopissa L’edificio La chiesa attuale si presenta con un’aula unica delle dimensioni di m. 12,5 x 5,15, al cui estremo orientale vi è un’abside semicircolare del diametro di m. 3,15: ogni lato della chiesa riveste un particolare interesse. Partendo dalla facciata osserviamo che ha subito interventi e modifiche rilevanti nel corso dei secoli: inizialmente si presentava in maniera non dissimile da altri edifici contemporanei, di semplice e modesta fattura, caratterizzati da un tetto spiovente a capanna e priva dunque del campanile che oggi si mostra in maniera evidente e prepotente al visitatore e che contraddistingue l’edificio come pochi altri dell’area vicentina (il riferimento va alla chiesa di S. Martino di Brogliano; v. la scheda relativa). Tale intervento sarebbe avvenuto intorno alla metà del XII secolo, anche se non riteniamo possa costituire elemento probante della tardiva costruzione della struttura il fatto che nessuna chiesa vicentina medievale avrebbe attualmente un campanile costruito contemporaneamente all’edificio (DANI 1997, p. 313). In effetti Dani osserva ancora che la sua costruzione sarebbe di poco successiva al terremoto del 1117 che avrebbe praticamente distrutto (evidentemente per la seconda volta dopo le scorrerie ungare) la chiesa e pressoché contemporanea alla sua trasformazione in monastero, rendendo automaticamente indispensabile la presenza di un campanile e di una campana per una più precisa e definita celebrazione della liturgia e scansione del tempo (DANI 1997, p. 313). Se crediamo di poter accettare la suddivisione dei momenti costruttivi tra i primi anni del XII secolo e il XV, ci pare che le motivazioni debbano essere cercate altrove. Quasi al centro della facciata si apre un piccolo occhio, anche questo ritenuto erroneamente testimonianza puntuale dell’antichità dell’edificio (CANOVA DAL ZIO 1986, p. 139). Un secondo momento per cercare di dipanare il complesso groviglio delle vicende costruttive e per la funzione della chiesa è quello relativo al muro meridionale, del quale quasi nulla esiste più, probabilmente, nelle sua composizione originale. Notiamo infatti chiaramente come vi siano, tamponati, due grandi archi ogivali che dovevano rappresentare il punto di comunicazione tra la navata della chiesa come oggi la vediamo – e probabilmente nella sua facies originaria – e una seconda navata, aggiunta al fine di rendere disponibile uno spazio maggiore per la celebrazione della liturgia, nel momento in cui il monastero vide accrescere il numero delle presenze. La chiesa venne dunque a configurarsi come un edificio binavato e probabilmente dotato di una seconda Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, facciata e muro meridionale Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, muro meridionale e abside | 117 Vicenza (VI) Resta, di fatto, la pregevole fattura di quest’opera, il portale appunto, finemente cesellato nella pietra con motivi floreali e racchiudente al suo interno il monogramma di S. Bernardino come pure, sul lato opposto, il nome del committente (DANI 1997, pp. 316-321): MARCUS VITR IANUS ABAS HO C OPUS FI FECIT Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, il portale lungo il muro meridionale abside, aggiungendosi, per quanto spurio, ai numerosi altri casi presenti sul territorio (v. la scheda di S. Pietro di Rosà per ulteriori approfondimenti sulla tipologia; v. anche PRANDINA 2016, pp. 241-243, in cui l’autore avanza la medesima ipotesi, anche se ascrive al X-XII l’apertura dei due arconi e la conseguente aggiunta della seconda abside, datazione che non ci trova d’accordo osservando le caratteristiche degli archi tamponati; v. sotto). Non nascondiamo, però, alcune perplessità di natura storica in quanto, sempre lungo il lato meridionale, notiamo una porta d’accesso all’attuale navata in calcare giallo dei Colli Berici, che reca la data del 1474: le arcate che oggi appaiono tamponate sono rese peculiari da archi ogivali di chiara ispirazione gotica e dunque collocabili tra la fine del XIII e i primi decenni del XIV secolo (ipotesi che ci pare più plausibile considerato il sostanziale “ritardo” tipico di gran parte dell’edilizia sacra vicentina), arco cronologico cui appartiene evidentemente anche l’erezione della seconda navata, abbattuta poi in coincidenza della costruzione del portale. Perché allora la seconda navata avrebbe avuto una vita così breve? Si tratta di una domanda alla quale si potrà dare una risposta precisa soltanto nel momento di auspicabili indagini archeologiche. 118 | Anche la parte absidale dell’edificio, perfettamente orientato come già abbiamo avuto modo di osservare, porta in sé i segni dei numerosi interventi operati nel corso dei secoli. La fascia inferiore è costituita da pietre di rilevanti dimensioni, ben squadrate, che lasciano il posto, a mano a mano che si sale, a pietre frammiste a mattoni, che definiscono a loro volta uno spazio centrale che, verso l’alto, diventa una struttura mista nella quale è evidente la prevalenza del mattone: il cambiamento di tessitura cui si assiste al di sopra dell’abside potrebbe in qualche modo essere testimone del punto in cui l’edificio fu rialzato, a partire circa da un terzo della sua altezza. Osserva Dani che la tecnica impiegata, ovvero l’utilizzo contemporaneo di ciottoli di fiume e alcuni pezzi di mattoni, potrebbe essere fatta risalire all’età longobarda o franca, ma ci sembra che tale interpretazione, oltre ad apparire un’evidente forzatura, contrasti in maniera chiara con la datazione presunta, a meno che non si voglia ritenere che una parte dell’edificio precedente e databile ai secoli VIII-IX sia rimasta intatta anche dopo le incursioni degli Ungari e che sia stata la base di partenza non di una totale riedificazione, ma di un restauro. Al di sopra di questa fascia si osserva quella che riteniamo essere la seconda fase costruttiva o ricostruttiva, da riferirsi probabilmente al periodo relativo alla presenza dei signori di Vivaro e dunque alla prima metà del XII secolo, cui apparterrebbe peraltro anche la terza fase, da individuarsi con il tratto di muro che fa da cornice alla monofora centrale. Il terremoto del 1117 avrebbe poi imposto ulteriori interventi, conclusi con la quinta e ultima fase costruttiva, che possiamo leggere nella parte sommitale della struttura absidale: è sicuramente a quest’ultimo momento che dobbiamo la cornice a denti di sega, poggiante su una fila di mattoni, che fa da corona all’abside intera. La datazione proposta da Dani per questa cornice è quella della seconda metà del XV secolo in quanto, egli osserva, nel 1455 una visita pastorale aveva denunciato lo stato di trascuratezza della chiesa (DANI 1997, p. 331): lo storico sostanzialmente fa risalire l’incastonamento della cornice Abbazia di S. Maria Etiopissa Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, abside Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, abside e muro settentrionale ad un periodo vicino a quello in cui fu realizzato il portale laterale sul muro meridionale, considerazione che non condividiamo, apparentandola piuttosto alle analoghe decorazioni che troviamo nelle chiese di S. Sofia a Costozza di Longare (vedi la scheda relativa) e di S. Martino a Barbarano (vedi la scheda relativa), dunque tra XIII e XIV secolo. Né del resto il fatto che la chiesa si trovasse in pessime condizioni implica che sia stata edificata ex-novo. Qualche nota merita anche il muro settentrionale, privo di aperture, caratterizzato da filari di ciottoli e malta, che in alcuni settori della critica ha stimolato pensieri di una datazione paleocristiana e alto medievale (ARSLAN 1956, p. 221). La tessitura muraria appare sostanzialmente divisa in due parti in senso orizzontale: quella inferiore, composta da frammenti di maggiori dimensioni, anteriore al secolo XIII; quella superiore frutto di rifacimenti, tuttavia precedenti l’intervento decisivo cui abbiamo già fatto riferimento e databile all’ultimo quarto del secolo XV (DANI 1997, p. 335). Tale datazione troverebbe conferma all’interno dell’edificio, particolarmente negli affreschi che si trovano sulla parete settentrionale. Ci soffermeremo più avanti sul complesso insieme di figure e di scene affrescate, ma è opportuno porre l’accento sulla diversa datazione tra la figura che si trova circa a metà della navata, che collocheremmo intorno alla prima metà del XIII secolo, e i due riquadri posti invece nella parte prossima al presbiterio, questi della fine del XV o dei primi anni del succssivo. Se alcuni hanno creduto che gli affreschi più tardi giustificassero una datazione di quella parte del muro al XV secolo (Dani 1997, p. 335), noi propendiamo per una coerenza di tutta la muratura settentrionale.. Passiamo dunque a considerare l’interno dell’edificio, rilevante per una serie diversa di motivi riconducibili sostanzialmente alla presenza di un campanile inglobato nella navata e di una teoria di affreschi, la cui componente più antica mostra caratteri qualitativamente assai elevati: neppure dobbiamo trascurare un ultimo momento artistico, quello del reperto lapideo, che se non è appartenuto sin dall’inizio alla chiesa in oggetto, pure rientra in un contesto artistico di non banale fattura. Internamente, dunque, leggiamo come in negativo quanto già osservato per la struttura esterna: si tratta di una navata unica, che termina a oriente con il catino absidale e sullo spigolo sud-occidentale ha subìto | 119 Vicenza (VI) Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, bifora della cella campanaria Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, navata l’innesto di una colonna con funzione portante nei confronti della torre campanaria. È stato osservato che l’accesso all’ambito presbiteriale è simile a quello della chiesa di S. Giorgio in Gogna a Vicenza (Dani 1997, p. 336) ovvero attraverso un arco a doppia ghiera: simile sarebbe l’accesso anche nelle chiese cittadine di S. Silvestro e dei SS. Felice e Fortunato. Se questo è vero a livello di impostazione generale, ci pare che le differenze non siano poche e che il confronto stesso, a causa dei ripetuti interventi che sulla chiesa di Polegge – così come su quella di S. Giorgio – sono stati compiuti nel corso dei secoli sia particolarmente difficoltoso. Lo stesso Dani, nel corso della sua analisi, definisce la propria interpretazione basandosi su un presupposto che ritiene di fondamentale importanza, ovvero il fatto che la chiesa in questione, dopo il terremoto del 1117, fu ricostruita in un contesto culturale di derivazione monastica: tale fattore avrebbe influito in maniera evidente sulle caratteristiche principali dell’edificio, consentendo l’inserimento di alcuni momenti tecnologici e artistici che l’avrebbero allontanato dagli stereotipi sostanzialmente poveri della maggior parte degli edifici rurali coevi, tipici dell’architettura romanica, e tra questi proprio l’arco a doppia ghiera. Tuttavia egli poco dopo rileva come questo elemento non appartenga al XII secolo, ma sia il frutto dei lavori compiuti alla fine del XV secolo, in parte dunque contraddicendo le precedenti affermazioni (DANI 1997, pp. 336-338). Per quanto si possa concordare con una persistenza di caratteristiche tipologiche in ambiente rurale ben superiore a ciò che avvenne nei contesti cittadini – e questo per il Vicentino vale in modo particolare –, ci sembra assai difficile ritenere che un elemento tipologico, come appunto quello dell’arco a doppia ghiera, caratteristico del periodo romanico, sia stato realizzato nel nostro caso specifico addirittura al termine del periodo gotico e comunque contemporaneamente alla realizzazione sia delle arcate di cui abbiamo detto, sia delle ogive che caratterizzano spiccatamente le bifore del campanile. Riteniamo dunque che, per quanto modificato, questo momento dell’edificio debba essere collocato poco dopo i rifacimenti realizzati a seguito del terremoto. Del resto, lo stesso Dani, riferendosi poco oltre alla nicchia aperta all’interno del catino absidale, osservando la sua sommità “a schiena d’asino“ e osservando che essa non può appartenere al periodo 120 | Abbazia di S. Maria Etiopissa nale e a quello occidentale per mezzo di due archi a tutto sesto in pietra: pure da blocchi di pietra bianca sono composti i due tratti di muro che chiudono la cella sino all’altezza della copertura dell’edificio. Interessante il capitello posto al di sopra della colonna, decorato con motivi geometrici che costituiscono un unicum nel territorio (una certa assonanza si potrebbe ravvisare nei confronti della decorazione di un copricapo di un personaggio affrescato nella fascia superiore della parete settentrionale della chiesa di S. Giorgio di Velo d’Astico – v. scheda relativa) e per la cui difficile datazione lasciamo aperto il quesito. Si noti infine come il tratto di muro meridionale occupato sostanzialmente dall’incavo posto alla base della cella campanaria e pronunciato in direzione est di pochi centimetri, sia l’unico di questa sezione dell’edificio probabilmente riconducibile alle origini della costruzione, come permette di interpretare anche la presenza di un affresco cui più avanti faremo riferimento. Gli affreschi Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, cella campanaria Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, capitello a decorazioni geometriche di costruzione dell’abside del XII secolo, la colloca in maniera sicura nel pieno periodo gotico (DANI 1997, p. 338). L’ultimo elemento cui dobbiamo fare riferimento all’interno dell’edificio è rappresentato dalla base del campanile che, al pari di pochi altri esempi del territorio vicentino, è inglobata nel corpo della chiesa. Essa poggia su una colonna, legata al muro meridio- Non possiamo nascondere che i numerosi affreschi, in parte mutili, che ci è dato leggere all’interno della chiesa di S. Maria costituiscono forse l’elemento di maggiore interesse di tutto l’edificio, grazie anche al fatto che essi non appartengono a uno stesso periodo, ma accompagnano lungo i secoli le vicende complesse di cui esso è stato attore. Fermeremo la nostra attenzione esclusivamente su quelli riconducibili ai secoli XII e XIII, situati sulla parete settentrionale, su quella meridionale e in controfacciata e trascureremo invece le rappresentazioni che cronologicamente si situano in pieno XV secolo e ricoprono in maniera quasi totale la parete del catino absidale oltre a comporre, con una fascia floreale, una cornice decorativa tutto intorno all’aula. Un piccolo riquadro, più tardo, raffigurante la Vergine Maria con il Bambino si trova inoltre sul muro nord. Gli affreschi sono noti soltanto dal 1933, anno in cui si eseguirono alcuni lavori di restauro sull’edificio (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 345), durante i quali vennero alla luce anche frammenti oggi perduti, come il resto di una crocifissione collocata esternamente nell’area del campanile (FRANCESCHINI 1934, p. 118). Si tratta di tre gruppi, frutto di interventi diversi e diversi anche nell’iconografia rappresentata, elemento che esclude la possibilità di parlare di un progetto organico. Partendo dalla controfacciata, in alto a destra vediamo “due figure maschili stanti [...], entro una superficie rettangolare definita da larghe strisce a colori alternati | 121 Vicenza (VI) Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, controfacciata rosso e bianco”; la loro qualità e il loro significato sono stati oggetto di attenzione da parte della critica in due momenti diversi. Il primo nel 1939, quando Arslan vi lesse la presenza di Abramo e di tre fedeli con accanto una seconda figura, situandoli cronologicamente nella seconda metà del XIII secolo (ARSLAN 1965, p. 188). Più avanti, all’inizio degli anni ‘60, Dani ha invece interpretato il gruppo di personaggi, basandosi sull’ipotetica quanto probabile presenza di una terza figura, leggendo la scena come una simbologia di chiara derivazione trinitaria (DANI 1964, p. 214). Per circa quarant’anni non vi sono stati più tentativi di rilettura, agevolati ultimamente dai restauri che hanno indicato nuove vie e stimolato nuove proposte, soprattutto da parte della storica dell’arte Giovanna Dalla Pozza Peruffo: l’autrice rifiuta l’interpretazione trinitaria in considerazione del fatto che, a pochi decenni di distanza dallo scisma tra la chiesa occidentale e quella orientale del 1054, una rappresentazione iconografica della Trinità che si basasse su tre figure antropomorfe avrebbe avuto pochi motivi per esistere. Piuttosto si tratterebbe di una delle “più antiche raffigurazioni nell’Italia del Nord dei tre Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco in controfacciata, i patriarchi e le animule 122 | Abbazia di S. Maria Etiopissa patriarchi dell’antico testamento: Abramo, Isacco e Giacobbe che accolgono tra le loro braccia i beati o le loro animulae secondo la convenzione medievale” (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 350). La lettura offerta dalla storica vicentina è a nostro avviso quella più calzante e trova riscontri evidenti in numerosi esempi distributi in Italia e in Oriente, anche se non nascondiamo un velo di perplessità su alcuni degli elementi portati quali prove dell’attribuzione in considerazione del fatto che numerosi tra essi appartengono, come quelli fiorentini o pugliesi, a una cultura lontana sotto il profilo geografico ma, ancora più, sotto quello qualitativo, in particolar modo per quanto attiene al caso dei mosaici della cupola del battistero di S. Giovanni a Firenze, da cui le figure vicentine avrebbero ripreso anche la tonalità dei colori (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 350). Nessun dubbio sul tema raffigurato invece, in quanto si legge ancora tra le due figure parte del nome [A]BRA[HA?M]. Le evidenze di questo soggetto sono come detto numerose e con molteplici varianti, in particolar modo per quanto attiene al numero delle animule – da una soltanto, come nella chiesa di S. Maria del Casale a Brinidisi, a una presenza molteplice, così negli affreschi dell’abbazia di Pomposa – e alla presenza o meno di tre corone pendenti sul capo dei patriarchi, che possono comparire tutti e tre, come nel caso della chiesa di S. Michele a Oleggio (NO), oppure essere rappresentati da uno soltanto di loro, così nella pieve di S. Andrea a Sommacampagna (Vr). Nel nostro caso ci troviamo di fronte a un modello che riteniamo il più ortodosso, ovvero dove i tre patriarchi recano in grembo tre anime ciascuno. Nell’iconografia cristiana le figure nel grembo dei saggi sono simbolo secondo alcuni delle anime salvate e in attesa di essere condotte in paradiso (Dizionario di iconografia romanica 1997, p. 22), secondo altri sono invece i risorti che già godono del corpo spirituale (BASCHET 1991, p. 809); così crediamo potrebbe per esempio essere interpretato il riquadro della già citata chiesa di S. Maria del Casale a Brindisi, dove una santa aureolata – e dunque defunta e già santificata – si trova da sola tra le braccia di Abramo. Altrettanto vero tuttavia è che nel grembo di Isacco e di Giacobbe si trovano più anime che, timorose, sembrano quasi nascondersi in un contesto di sostanziale riverenza ovvero potrebbero essere ancora in uno stadio precedente di attesa. Tornando al nostro caso, crediamo che la posizione frontale delle anime in atteggiamento orante possa rimandare piuttosto al loro stato di transeunti verso il paradiso. Sommacampagna, chiesa di S. Andrea, il Seno di Abramo con un solo Patriarca, le corone e le animule La difficoltà di assegnare il soggetto a un contesto preciso trova la sua ragion d’essere soprattutto nella composizione iconografica del quadro e del contesto entro il quale si trova inserito, laddove le tre (o solo una di esse) figure si trovano non isolate ma facenti parte della più complessa raffigurazione del Giudizio Universale che possiamo vedere in controfacciata, nella chiesa dedicata a s. Andrea a Sommacampagna. È questo il più completo quadro raffigurante il tema giudiziale in territorio veronese e se da un lato esso può venire in aiuto per comprendere meglio il nostro esempio, per contro sembra complicare le possibilità di interpretazione. Notiamo infatti come sul capo di Abramo (?), il quale, come nel caso di Polegge, accoglie tra le sue braccia tre personaggi, vi sia una corona e altre due siano collocate a destra e a sinistra, senza tuttavia che vi siano altre figure affrescate: dunque forse una sorta di simbolica sintesi tra rappresentazione dei patriarchi con le anime e raffigurazione della Trinità? Non possiamo infatti trascurare l’importante episodio biblico con al centro l’incontro tra il patriarca e le tre misteriose figure: “Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso | 123 Vicenza (VI) della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo” (Genesi 18, 1-5). Sia pure in modi diversi questo importante passo, interpretato dai Padri come una sorta di anticipazione della Trinità – il cui concetto di base non è ancora presente nell’Antico Testamento –, è stato ripreso anche dal mondo dell’arte: prima a Ravenna, nei preziosi mosaici di S. Vitale, poi e più compiutamente nel mondo orientale, precisamente russo: indimenticabile la celebre Trinità o Ospitalità di Abramo di Andrej Rublëv. In Oriente, poco alla volta – anche se per molti secoli ci si astenne dal rappresentare il Padre in figura umana –, imitando l’arte occidentale, s’introdusse la rappresentazione del Padre in forma umana insieme con il Figlio, il Cristo, e lo Spirito in forma di colomba (come nel Battesimo di Gesù), ma si continuò a considerare l’episodio dei tre Angeli come anticipazione della raffigurazione della Trinità traendola dall’Antico Testamento (GALBIATI 1994, p. 65). Sotto il profilo stilistico a Polegge l’aspetto ieratico del patriarca rimanda a una cultura artistica di matrice bizantina, che in effetti sarebbe potuta giungere senza difficoltà per il tramite della donazione della chiesa di S. Maria all’abbazia di Pomposa. Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco sulla parete nord, cavaliere disarcionato 124 | Senza volere peraltro aggiungere nulla di particolare alla erudita interpretazione della studiosa vicentina, ci pare che anche gli abiti delle figure nel grembo possano in qualche modo essere ricondotti a una cultura romano-bizantina: resta di fatto l’interesse per figure che non trovano alcun riscontro nell’area interessata dalla nostra ricerca, sia che si voglia accettare l’interpretazione trinitaria di Dani, sia che si propenda per la più coerente lettura di Giovanna Dalla Pozza Peruffo. Piuttosto il tema ha trovato nuove recenti testimonianze in area veneta: a Teglio Veneto infatti, in località Cintello, sono stati scoperti nel corso di restauri all’interno della locale chiesa dedicata a s. Giovanni, alcuni affreschi che direttamente si collegano a quelli del nostro edificio (COZZI 1998). La lacunosità di quell’esempio e del nostro non consente di esporsi in maniera decisa, ma in qualche modo permette di collocare gli affreschi di S. Maria Etiopissa in un panorama di ampio respiro e di interessanti collegamenti culturali e artistici tra le diverse aree della Pianura Padana. Concentriamo ora la nostra attenzione sulla parete settentrionale, che mostra due riquadri, diversi per il contenuto e per la mano che li ha tratteggiati. Il primo racchiude una scena a carattere cavalleresco, più vicina secondo noi al momento di una battaglia piuttosto che allo svolgimento di un torneo, in considerazione anche della presenza delle mura – di una città più ancora che di un castello – e di asperità naturali che sembrano volere ricondurre la Abbazia di S. Maria Etiopissa mente alla scena di un assedio e ai relativi scontri. Un frammento di scudo sulla destra potrebbe fare ipotizzare la presenza di armati dotati di frecce o giavellotti; ma ci rendiamo conto che si tratta di semplici ipotesi. Il raffronto compiuto con gli affreschi ancora oggi visibili nella casa delle guardie del castello di Avio, circa a metà percorso tra Verona e Trento, ci pare poco pertinente e non ci sembra sufficiente il legame di parentela tra i signori di Vivaro e i Castelbarco per giustificare un’assonanza stilistica – al di là dunque del contesto storico –, che ci pare molto difficile da sostenere, in considerazione delle numerose differenze di gusto e di qualità tra gli affreschi stessi (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 353); l’unico elemento in comune potrebbe essere quello relativo a una cultura militare e cavalleresca che appare nel nostro caso e per il nostro territorio un unicum a livello assoluto Circa allo stesso periodo degli affreschi trentini risale anche il ciclo di affreschi a Frugarolo, nei pressi di Alessandria, di relativamente recente scoperta (1971; l’iter per portarli in salvo è stato lungo e complesso e il ciclo è stato portato all’attenzione del pubblico soltanto grazie a una esposizione a cavallo tra il 1999 e il 2000), raffigurante le gesta di Artù: in una delle cornici che compongono il ciclo si può osservare un cavaliere colpito a morte, che si avvicina, per la posizione tenuta, a quello raffigurato sulla parete settentrionale di Polegge. È vero tuttavia che l’apparato iconografico complessivo è nel nostro caso cronologicamente antecedente ad entrambi gli esempi che abbiamo portato e non trova di fatto alcun momento comparativo nel territorio vicentino, se si eccettua forse l’uso di uno stile di disegno ad intreccio che notiamo sull’abito del cavaliere morente e in alcune figure di armati nella chiesa di S. Giorgio di Velo d’Astico (v. la scheda relativa). Quale possa essere il significato profondo di questo affresco, di cui rimane purtroppo una porzione esigua per consentire un’interpretazione serena, è difficile dire: l’unico punto sul quale crediamo di dover dissentire è quello che vedrebbe il cavaliere in una posizione irrigidita dal rigor mortis. Piuttosto ci pare che l’autore dell’affresco abbia voluto cogliere – e in un certo senso fotografare – un momento particolare, quello in cui il cavaliere è colpito e disarcionato: potrebbe trarre in inganno la rigidità della figura, ma oggettivamente non dobbiamo dimenticare che la mancanza di tutto ciò che avrebbe dovuto comporre la scena non viene certamente in aiuto. Rimane, in basso a destra rispetto al cavaliere, un lacerto raffigurante probabilmente la parte inferiore di uno stemma o di uno scudo, forse appartenente allo stesso quadro affrescato. Sempre sulla stessa parete osserviamo poi un secondo lacerto che ritrae questa volta una scena caratterizzata da una maggiore serenità: pure nella lacunosità dell’insieme ci pare di non andare troppo lontani dal vero osservando che si tratta di una scena campestre, forse un contadino che accudisce gli animali, certamente dei volatili in considerazione delle piume che emergono dal poco rimastoci. È caratteristica evidente l’uso di larghe pennellate che finisco- Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, affresco sulla parete nord, scena di vita agreste (?) | 125 Vicenza (VI) no per conferire all’insieme l’aspetto di una sorta di panneggio composto da fasce colorate giustapposte (un campo con spighe di cereali?). Non ci sembra invece sia sufficiente la calzatura appuntita per caratterizzare in senso sociale ciò che è dato di vedere dell’unica figura umana presente (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 352). Veniamo infine all’ultimo affresco di cui ci occupiamo, quello più enigmatico, avendo oltretutto contribuito a conferire l’appellativo “Etiopissa” alla dedicazione della chiesa. Si tratta di “una figura sul lato sud, nella zona che fa da base al campanile, seduta in trono e avvolta in una ampia veste”; è una figura con ogni probabilità femminile, come permette di intuire la ricchezza della veste nella sua qualità (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 354, appunta la propria attenzione proprio sull’abito e sulla sua foggia per individuare le peculiarità femminili del personaggio). La staticità, la ieraticità, la nobiltà del portamento riconducono sicuramente alle caratteristiche più evidenti della pittura di matrice bizantina e non pochi sono gli elementi che portano alla mente esempi tipici di quella cultura come gli affreschi della basilica di S. Angelo in Formis (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 356, similitudine che porterebbe a datare la chiesa agli ultimi decenni dell’XI secolo). Anche se certo da approfondire, non possiamo non sottolineare come nella sua interezza richiami stilisticamente alcuni momenti degli affreschi della chiesa di S. Giorgio di Velo d’Astico e di quella di S. Bartolomeo a Romeno, in Val di Non. È stato del resto giustamente osservato che la posizione occupata da questo affresco, apparentemente defilata, secondaria, non corrisponde a quella ben più importante che doveva ricoprire nel momento in cui fu dipinta, se consideriamo che la chiesa non disponeva di un ingresso sul lato meridionale, ma che l’unica entrata era quella occidentale e che neppure, all’inizio, era presente il campanile che oggi disturba in parte e rende difficile la visione del riquadro. Lasciamo al visitatore il gusto di ipotizzare una possibile decifrazione dell’identità del personaggio, che alcuni hanno voluto assimilare a quella S. Maria “Etiopissa” che ha dato alla chiesa la sua intitolazione (DALLA POZZA PERUFFO 1997, p. 356). Fino ai primi decenni del XIX secolo la chiesa avrebbe anche ospitato una “tavola di legno, fatta all’antica, con cinque nicchie nelle quali sono dipinte cinque figure. Quella di mezzo rappresenta la Bea- Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, parete sud, donna in trono (?) 126 | Abbazia di S. Maria Etiopissa ta Vergine col Bambino sopra le ginocchia sotto la quale sta scritto «opus Tadei» in S. Maria Etiopissa presso Povolaro” (DE ZUANI s.d., p. 37). Il pluteo Eccoci infine giunti all’ultimo pezzo pregiato di questo straordinario e prezioso contenitore di altrettanto unici esempi dell’arte medievale vicentina. All’interno dell’aula si trovava fino a poco tempo fa una lastra in marmo bianco-grigio di pregevole fattura, ora invece facente parte del patrimonio del Museo Diocesano di Arte Sacra. La sintetica ed efficace descrizione riassuntiva proposta da Previtali rileva che “il pluteo, in marmo greco, misura cm. 75 di altezza, cm. 195 di lunghezza e cm. 9 di spessore, ed è munito nei lati corti di due incompleti listelli d’incastro (altezza cm. 60 x larghezza cm. 3) originariamente inseriti in elementi verticali. [...] è il più importante pezzo della persistente cultura “classica” a Vicenza in periodo alto-medievale. Va notato il fatto della contemporaneità dell’opera con la produzione di arte longobarda” (PREVITALI 1983, p. 153). Il pregevolissimo manufatto, di cui non conosciamo la provenienza, ma di cui potremmo accettare la derivazione locale (NAPIONE 1997, p. 368), raffigura due pavoni che si abbeverano – a una fonte? – inseriti entro una cornice composta da cerchi affiancati a formare una teoria senza soluzione di continuità e ciascuno solcato da due grosse linee incrociate a formare un’ulteriore decorazione a losanghe: se è vero che sotto i pavoni compaiono due coppie di fiori o piante, più difficile ci sembra poter pensare che i due eleganti volatili siano per questo all’interno dell’Eden (PREVITALI 1983, p. 153). Accanto a ciascuno dei pavoni due coppie del cosidetto “fiore” o “sole” delle Alpi, presente nel Vicentino soltanto in due altri casi: S. Martino a Barbarano e S. Vittore a Monte di Malo (v. le schede relative). La datazione del manufatto è stata ed è tuttora controversa a causa del complesso insieme di elementi che lo contraddistinguono. Così, alcuni hanno visto al suo interno emergere “elementi paleocristiani di derivazione tipicamente romana” (PREVITALI 1983, p. 153), altri hanno ritenuto che la cornice “ampia e attraversata da un motivo ad intreccio, ha un’importanza accentuata, secondo modalità più tipiche delle sculture su lastra del secolo VIII”, per poi rilevare che “la larga e appiattita fettuccia di matrice bizantina, diffusa soprattutto nel VI secolo”, ben si unisce al “nastro solcato imperante negli interlace dall’epoca di Liutprando in poi” (NAPIONE 1997, p. 365). Diversa l’interpretazione di Previtali, il quale rileva che “l’orientamento più sicuro viene da considerazioni di carattere formale e da comparazioni con opere già datate. Dal punto di vista formale l’appiattimento dei volumi, l’accentuarsi del linearismo portano ad interpretare la naturalezza e l’eleganza della composizione in modo differente da valutazioni ancora paleocristiane. Ci si trova di fronte ad un’opera di grande pregio, certamente, in cui però bisogna tener conto che l’a- Vicenza (Polegge), abbazia di S. Maria, parete nord, pluteo marmoreo (ora conservato presso il Museo Diocesano di Vicenza) | 127 Vicenza (VI) strattismo è fortemente sentito: qui in forme ancora classiche, mentre altrove e per altre vie sta per prevalere definitivamente nella scultura longobarda dei secoli VIII e IX. [...] Per queste ragioni, diversamente da quanto da altri ritenuto, viene proposta per la scultura vicentina una collocazione storica che si volga alla prima metà del secolo VIII, rispondente – oltre tutto – al momento storico cui la dedicazione della badia si richiama” (PREVITALI 1983, p. 153). Più recentemente un’ultima interpretazione ha mediato tra le diverse posizioni, collocando il frammento in un periodo compreso tra VI e VII secolo, frutto genericamente di un gusto ravennate (LUSUARDI SIENA 1989, p. 216). Non mancano del resto indizi di influssi ravennati e bizantini nel nostro territorio e stupisce un poco che tale ipotesi non sia stata allargata anche a parte degli affreschi, almeno quello raffigurante il personaggio femminile. Appare evidente come la critica non sia univoca nel definire i confini cronologici di questo oggetto e neppure la sua reale collocazione e funzione – una lastra tombale o un pluteo? -, proprio a causa di quella che sembra la sua principale caratteristica ovvero il sincretismo tra momenti artistici diversi. In merito alla sua reale funzione è forse possibile avanzare una terza ipotesi, facendo riferimento a un esempio interessante, ovvero un sarcofago conservato nel pesarese; S. Gervasio è situato in una valle fluviale contraddistinta da una forte continuità di insediamenti, lungo una strada valliva, diverticolo della Flaminia ed entro l’attuale territorio di Mon- dolfo (PS). L’imponente sarcofago di marmo, datato al primo quarto del VI secolo, costituisce per S. Gervasio l’unica testimonianza materiale oggetto di studi approfonditi e perciò anche la più nota. Conservato nella cripta della chiesa, esso è venerato come l’antica tomba di S. Gervasio, il cui corpo però è custodito nella basilica di S. Ambrogio a Milano. Più verosimilmente l’arca dovrebbe essere servita in origine per la sepoltura di un personaggio importante e posta presso le reliquie di un martire. Quanti lo hanno esaminato lo ritengono probabilmente lavorato sul luogo e si tratta del più antico e più grande sarcofago di stile ravennate nelle Marche: ha il coperchio a doppio spiovente, asimmetrico, e presenta nel pannello anteriore una croce monogrammatica a otto raggi con ai lati due pavoni dal ricco piumaggio. Interessante anche il chrismon del pannello anteriore, a causa delle aste che fuoriescono dal disco e addirittura dalla riquadratura: la lastra contenente appunto il chrismon costituisce il particolare sul quale appuntiamo la nostra attenzione per due diversi motivi. In primo luogo perché proprio il prezioso simbolo anche a Vicenza avrebbe potuto occupare la parte centrale del pannello e nella sua originaria funzione la lastra sarebbe potuta essere non un pluteo o una lastra tombale, ma uno dei lati di un sarcofago; solo in un secondo momento, forse, sarebbe stato utilizzato quale copertura di una sepoltura, lasciando sostanzialmente immutata la sua collocazione. Rationes decimarum Rationes decimarum 1297: Monasterium S. Marie de Theupese (2805) Rationes decimarum 1303: Monasterium S. Marie de Theupese (3049) 128 | Abbazia di S. Maria Etiopissa Bibliografia Monografie ARSLAN Edoardo, Le chiese, in Catalogo delle cose d’arte e di antichità d’Italia. Vicenza, Roma, De Luca, 1956, p. 188. BARBARANO Francesco, Historia Ecclesiastica della Città, Territorio e Diocesi di Vicenza, VI, 1762, pp. 208-209. BASCHET J., Le sein du père. Abraham et la paternité dans l’Occident médiéval, París, 2000. BERDIN Serena, Santa Maria Etiopissa presso Polegge, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 2001/2012. BOCCIA Lionello G., I guerrieri di Avio, Milano, Electa, 1991. BOGNETTI Gian Piero, CHIERICI Gino e DE CAPITANI D’ARRAGO Alberto, S. Maria di Castelseprio, Milano, 1948. BORDIGNON FAVERO Elia, Aspetti artistici, in Dueville 1985, pp. 179-192. 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Molteplici sono i dubbi legati alla sua edificazione, ai committenti, all’evoluzione storica di cui mancano documentazione e certezze, a fronte della ricchezza di reperti ritrovati sull’area sulla quale la chiesa insiste. Più facile per contro indagare le vicende recenti, documentate nel corso degli ultimi decenni da scavi, immagini fotografiche e straordinari ritrovamenti. L’intitolazione stessa al santo, vescovo di Verona nel IV secolo, costituisce un interessante oggetto di indagine, tenuto conto soprattutto della larga diffusione del culto e delle dedicazioni anche nella diocesi vicentina: si ricordino a questo proposito le chiese di S. Zeno di Rasega (Grumolo delle Abbadesse), di Magrè e di S. Giovanni Ilarione (v. le schede relative). A tal proposito varrà la pena accennare rapidamente alla diffusione e al ruolo del culto zenoniano, elemento che potrebbe tornare utile anche per la datazione dell’edificio, tuttora incerta. Accettando quanto proposto unanimente dalla critica intorno al periodo in cui Zeno resse la diocesi di Verona, assai interessante e importante è comprendere il contesto ecclesiologico in cui egli si trovò ad operare (ARNOLD 1896-1913). Verona, unitamente ad Aquileia, apparteneva – fra il 360 e il 380 – alla provincia della Venetia et Histria, ma l’organizzazione religiosa, proprio al tempo di Zeno, cominciò a prendere la fisionomia della circoscrizione imperiale; se Roma restò sede primaziale per tutta l’Italia almeno per la prima metà del Costabissara, chiesa di S. Zeno, facciata e muro meridionale IV secolo, successivamente al 374, anno dell’insediamento di Ambrogio – che riuscì a catalizzare attorno alla sua figura tutti i vescovi dell’Italia settentrionale (MENIS 1973, pp. 271-294 e CATTANEO 1972, pp. 467484) -, fu via via sostituita da Milano, capitale dell’impero d’Occidente. Due concili spiegano meglio di qualsiasi argomentazione la situazione teologica del periodo zenoniano: il concilio di Rimini del 359, con la negazione della fede nicena e l’accettazione dell’arianesimo, e il concilio di Aquileia del 381, con la vittoria della fede nicena; Zeno opera proprio in questo periodo e almeno fino al 373 con la presenza a Milano di un vescovo ariano, Aussenzio (SIMONETTI 1975). Non si hanno notizie per poter affermare se direttamente il vescovo veronese partecipò ad alcun dibattito o sinodo; probabilmente, si trovò sostanzialmente isolato, ma il rifles- | 75 Costabissara (VI) so di questa polemica e la fermezza delle posizioni teologiche nicene contro gli eretici sono presenti nei suoi sermoni e vivono nella tradizione cultuale che presenta il santo continuamente impegnato nell’opera di conversione (SGREVA 1989, pp. 34-39). A tal riguardo Vitacchio, nel suo studio sui vescovi pre-zenoniani, compie una serie di osservazioni che puntualizzano la tipologia delle conversioni ottenute da Zeno (VITACCHIO 1955, pp. 15-21); egli sostiene che tali conversioni non si compirono dal paganesimo al cristianesimo – vedremo oltre invece in qual senso – e sottolinea come ben sette vescovi precedettero Zeno, per tre dei quali si hanno testimonianze di una notevole attività. Procolo, il quarto vescovo, è chiamato confessor pastor et egregius e la tradizione lo ricorda come santo; i Veronesi eressero in suo onore una chiesa e una leggenda più tarda lo collegherà al martirio dei ss. Fermo e Rustico, presentandolo come un uomo che a rischio della vita professò la sua fede. Lucillo fu pastore tanto zelante da recarsi al concilio di Sardica nel 343-344 e avrebbe potuto farlo solo se sostenuto da un clero in grado di reggere la diocesi in sua assenza, perché la presenza del clero è garante della vita religiosa dei fedeli. Il settimo vescovo, l’immediato antecessore di Zeno, è definito doctor, con chiaro riferimento a quella che fu la sua illuminazione in campo teologico. Con vescovi di questo spessore istituzionale e carismatico, Zeno non poteva certo trovarsi di fronte una Verona da evangelizzare in toto e dunque, probabilmente, le conversioni ottenute dal vescovo furono altre; la crisi spirituale del IV secolo e l’eresia ariana avevano fatto molti proseliti anche a Verona e Zeno si sarebbe assunto il compito di far rientrare i fedeli nel campo dell’ortodossia. Il Versus de Verona con l’espressione reduxit intenderebbe allora proprio questo ritorno alla fede. Con ciò non si vuole affermare che al tempo di Zeno non esistesse il problema di un paganesimo diffuso, ma piuttosto sottolineare che tale fenomeno, profondamente radicato nelle campagne (Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica 1982), era decisamente meno presente nell’area cittadina esposta piuttosto a tentazioni eretiche. Zeno non è un martire e non si hanno attestazioni agiografiche di un’avvenuta morte violenta per la difesa della fede; inoltre il periodo in cui resse la diocesi di Verona non fu quello delle persecuzioni imperiali o delle invasioni barbariche e forse il termine attribuitogli è indice di un modo di recepire la santità che lega necessariamente al martirio la persona da venerare: sono gli stessi vescovi tardo antichi a incentivare il culto nei riguardi del santo come mar- 76 | tire. Infatti, la tendenza a trasformare i vescovi santi in martiri è proprio la manifestazione della priorità data al culto martiriale che va a rafforzare il potere vescovile e amplifica il suo essere testimone del Cristo anche senza l’effusione del proprio sangue, tanto che nel IV secolo le persecuzioni degli ariani, pur non giungendo alla pena capitale, sono considerate creatrici di martiri (PICARD 1988, pp. 714 e sgg). Zeno lottò indiscutibilmente contro gli ariani e confessò in tutti i suoi sermoni l’ortodossia cristiana; in questo senso lo si vide martire e sicuramente la sua forza di confessore fu immediatamente recepita, anche se è per noi assai più difficile comprendere da chi lo fu e ancor più chi lo venerò come santo e ne proclamò il culto. In questo periodo non abbiamo fonti scritte che ci possano indicare come si trasformò il culto di s. Zeno e soprattutto se ne era rimasta viva la devozione, ma è difficile credere che in un’epoca di guerre e di continui cambi al vertice, la popolazione veronese non avesse continuato a rivolgersi al santo confessore per invocarne la protezione e mantenere salda la propria identità. Sarebbe infatti paradossale che non fosse vivo a Verona un culto che in altre diocesi si era invece assai diffuso, come dimostrano il caso di Ravenna – che nel 553 annovera tra le sue chiese quella intitolata al beato Zenone vescovo di Verona – e quello di Pistoia, che a partire dal VI secolo dedica allo stesso la sua cattedrale. Verona, del resto, era rimasta profondamente legata all’ortodossia, pur nella sua adesione allo scisma tricapitolino, e la gerarchia ecclesiastica rimase sostanzialmente intatta almeno fino al 568, data che “cambiò radicalmente il quadro dell’Italia religiosa” (CRACCO 1993, p. 113). L’invasione longobarda portò con sé forme di intolleranza più o meno distruttive e, nonostante la debolezza delle chiese ariane, la situazione si fece carica di tensioni: “da una parte, gli invasori con le loro robuste credenze pagane e con la loro ufficialità ariana; e dall’altra i cattolici, per giunta divisi tra loro a causa dello scisma tricapitolino e lasciati in balia di se stessi, senza difese, dal declinare del potere bizantino” (CRACCO 1993, p. 114). Fu il periodo delle “eclissi”; non più una classe dirigente locale fatta di nobili, ma la scomparsa dei proprietari, la pretesa dei conquistatori su tutte le risorse disponibili, l’insediamento progressivo dei gruppi guerrieri che diventarono il ceto dominante dei nuovi possessores (CASTAGNETTI 1989, pp. 12-13), ma soprattutto non più vescovi capaci di surrogare il potere centrale e di catalizzare attorno alla propria figura la città e il contado nel loro ruolo di defensor civis. Proprio in questo momento Verona trovò il pro- Chiesa di S. Zeno prio patrono, che si fece sentire con l’unica voce che poteva essere ascoltata in una comunità così provata nelle gerarchie, e cioè la voce del miracolo. La fonte di questo episodio è quella dei Dialogi di Gregorio Magno, protagonista principe e insieme testimone pressoché unico di quegli anni (GREGORII MAGNI 1924, pp. 90-92): egli contribuì in modo decisivo al passaggio dei Longobardi da un’ufficialità ariana all’adesione al cattolicesimo, ma da parte dei re longobardi non si innescò un processo di consapevolezza del ruolo e della figura del papa, i cui poteri andavano ben al di sopra di quello spirituale; la gerarchia ecclesiastica inoltre non poteva ridursi ad agire nell’ambito della coscienza dei fedeli dopo aver rappresentato l’unica garanzia per le istituzioni, comprese quelle civili, e quindi per l’esistenza stessa delle città. Se Liutprando, Rachi e Astolfo, avevano attribuito al cattolicesimo il valore di religione ufficiale del regnum Langobardorum, nei “rapporti dei sudditi fra loro, dei sudditi con l’autorità pubblica e del potere sovrano con i suoi ufficiali, non riconobbero mai un posto particolare alle gerarchie ecclesiastiche e monastiche” (BERTOLINI 1964, pp. 1-26. In questo saggio l’autore dimostra attraverso l’indagine degli editti longobardi e dei capitolari franchi il mutamento della posizione del sacerdotium di fronte al Regnum, dalla dominazione longobarda a quella carolingia: se i vescovi del periodo longobardo erano rimasti estranei al potere temporale, con i Carolingi essi ripresero potere e iniziò a costituirsi il ceto dei grandi ecclesiastici che governava a fianco del ceto dei grandi laici). I vescovi non erano visti come organi del potere sovrano e la loro autorità era riconosciuta solo in ambito strettamente ecclesiastico, non sancita dalla legge, ma legata al ministero di guida spirituale della diocesi; in sostanza erano più deboli, avevano perso quella forza, che nei secoli della tarda antichità li aveva visti a guida delle città e patroni delle stesse. Gli anni compresi fra il 750-51 e il 780, ovvero quelli dell’episcopato veronese di Annone, rivestono particolare importanza; Verona assisteva alla fine del dominio longobardo e mentre il papato opponeva Carlo Magno a Desiderio, Annone cercava di potenziare il ruolo del vescovo dando impulso ad un nuovo culto, quello per i martiri Fermo e Rustico. Ad Annone infatti si deve il trasporto delle loro reliquie dall’Istria a Verona intorno al 765 (TONIOLLI 19611970, col. 1314). In questo modo il vescovo assicurava alla città la presenza di un culto martiriale, “paragonabile a quello di Felice e Fortunato a Vicenza o di santa Giustina a Padova” (GOLINELLI 1989, p. 280), ma soprattutto legava quel martirio al vescovado, inserendo nella narrazione la figura del vescovo veronese Procolo. Se i Longobardi avevano svuotato la funzione politica del vescovo, essa veniva però recuperata attraverso l’egida della santità; il vescovo diventava l’intermediario dell’intervento in favore dei cittadini da parte dei martiri Fermo e Rustico. L’avvento dei Carolingi avrebbe però radicalmente cambiato la situazione esistente, rapidamente sostituendo al culto dei ss. Fermo e Rustico quello di Zeno. Le motivazioni più profonde ci sembra di poter cogliere in due motivi tra loro strettamente correlati: da un lato la precisa volontà di far dimenticare tutto ciò che poteva in qualche modo richiamare la dominazione longobarda e, dall’altro, il voler sostituire quei patroni con una figura altrettanto autorevole ma che, in più, si era sempre battuta contro l’arianesimo longobardo. Le considerazioni che abbiamo inteso riportare ci sembrano importanti nella prospettiva non tanto delle vicende dell’edificio di Costabissara, cui peraltro ben poco possono aggiungere, quanto in vista di alcune precisazioni in merito alla datazione dell’edificio che, come abbiamo osservato, è piuttosto dubbia, oscillando tra i secoli VI-VII (CANOVA-MANTESE, p. 219) e il IX-X (PREVITALI 1983, p. 190; più recentemente lo stesso autore sembra tuttavia avere accettato tale indeterminatezza: PREVITALI 2001, p. 130). Tra gli storici locali più attivi, Attilio Previtali non ha ritenuto accettabile la datazione dell’edificio sacro in un contesto politico ancora longobardo per due diverse ragioni. In primo luogo la consueta volontà di prolungare la periodizzazione longobarda facendola arrivare a IX secolo inoltrato, quando ormai da circa 70/80 anni i Franchi avevano di fatto preso possesso del territorio vicentino. Inoltre vogliamo aggiungere analisi più profonde relative all’uso fatto dai sovrani longobardi e franchi del nome dei santi. Tralasciamo per brevità le vicende legate ai ss. Fermo e Rustico (v. la scheda della chiesa omonima di Bolzano Vicentino) e puntiamo l’attenzione sulla volontà dei nuovi dominatori di sostituire a questi ultimi un vescovo campione dell’ortodossia e, ancor più importante, fortemente avverso all’arianesimo longobardo. Che i Longobardi nel corso degli ultimi anni avessero mutato le prospettive di natura religiosa non è significativo a tal fine. Inoltre, riteniamo che non sarebbe stato possibile erigere un edificio con tale intitolazione in un territorio che, come vuole la storiografia locale e come certo in buona parte fu, ebbe accentuate caratteristiche longobarde. | 77 Costabissara (VI) Costabissara, chiesa di S. Zeno, area absidale e muro nord con gli edifici abitativi addossati prima dei restauri Ecco quindi che la datazione del IX-X parrebbe plausibile e rapportata alla dominazione franca piuttosto che longobarda: semmai, in accordo con i numerosi inserti di decorazioni che è dato osservare sui muri esterni e scartando la possibilità che essi siano appartenuti a un precedente edificio di cui non è dato di ritrovare traccia, ci sembra possibile retrodare la costruzione della chiesa fino alla metà del IX secolo. Per dovere di completezza dobbiamo riportare anche la datazione proposta da Canova Dal Zio, la quale, basandosi sulla tipologia delle due finestre che permettono l’ingresso della luce nella chiesa dal lato meridionale, ritiene che “non si può andare con la datazione molto al di là del Mille” (CANOVA DAL ZIO 1987, p. 145). Più recentemente, nel corso del IV Congresso di Archeologia Medievale, Annalisa Colecchia ha affrontato il tema della datazione partendo dalle funzioni dell’edificio religioso, funerarie o liturgiche, di fatto 78 | retrodatandone l’origine – anche se non è chiaro se dell’edificio attuale o di uno preesistente – a un periodo compreso tra VII e VIII. Pure partendo dall’analisi delle sepolture in esso contenute (e di cui ci occuperemo più avanti) è evidente la difficoltà della datazione, tanto più che in esordio di analisi l’autrice non esita ad affermare che la chiesa ancora “conserva l’impronta romanica”, in contrasto evidente con le cosiderazioni di cui sopra (COLECCHIA 2006, p. 317). Gli anni che corrono tra la nascita della chiesa e il periodo contemporaneo sono totalmente privi di notizie relative alle vicende storiche e le prime di cui siamo in possesso datano la chiesa al XV secolo, per la precisione al 1457 (v. Storiografia), una conclusione evidentemente inaccettabile: le più recenti, infine, ci ricordano che fino ai primi anni ‘60 del Novecento la chiesa era adibita ad abitazione e dunque questi sono i decenni durante i quali essa ha subito gran parte delle manomissioni che ci è dato di accertare (CANOVA DAL ZIO 1987, p. 143). Chiesa di S. Zeno L’edificio La chiesa è perfettamente orientata, ad aula unica delle dimensioni di m. 12,7 x 5,20; internamente, lungo il muro settentrionale e meridionale, corre quello che doveva essere un sedile in pietra, la subsellia. Nel fornire una descrizione particolareggiata dobbiamo evidentemente fare riferimento a quanto precedentemente osservato in merito alle sue vicende recenti, sicché ciò che oggi noi possiamo osservare è il frutto di reiterati interventi, testimoniati accuratamente dalle diverse immagini relative allo stato dell’edificio poco prima e dopo il crollo del 1977. La ricerca che qui proponiamo si è protratta per oltre un decennio e accanto alle difficoltà per condurla a termine vi sono anche aspetti positivi. Su tutti quello di avere fotografato alcuni edifici prima e dopo i restauri, consentendo così, sia pure parzialmente, di operare confronti che, dopo alcuni interventi di certo pesanti, sarebbero stati di difficile realizzazione. Così è per la chiesa di S. Zeno, oggetto di un intervento che potremmo definire di ricostruzione più ancora che di salvaguardia, come mostrano i raffronti tra il prima e il dopo. Non concordiamo pertanto con chi afferma che l’intervento “si è concretizzato in operazioni di pulizia e nella messa in evidenza delle strutture interne ”(COLECCHIA 2006, p. 317). Se questa affermazione è valida nella sua seconda parte, ben diverso è il concetto di “pulizia” laddove si è assistito a una vera e propria ricostruzione, sia pure attenta ai particolari. Costabissara, chiesa di S. Zeno, facciata prima degli interventi di recupero Costabissara, chiesa di S. Zeno, rilievo planimetrico [da Corpus Architecturae Religiosae Europeae (saec. IV-X), p. 284] | 79 Costabissara (VI) Costabissara, chiesa di S. Zeno, finestrella dell’abside prima dei restauri (a sinistra) e a restauri effettuati (a destra) Due soltanto sono i muri che possiamo attribuire al periodo in cui la chiesa fu presumibilmente costruita: quello meridionale e quello orientale (La chiesetta protocristiana s.d., p. 1), mentre gli altri due sono purtroppo crollati e dunque quasi interamente ricostruiti, sia pure con i materiali originali e basandosi sulle numerose immagini disponibili. La copertura, anche se non siamo in grado di affermarlo con certezza, doveva essere a capriate (La chiesetta protocristiana s.d., p. 1). Poiché la chiesa è stata eretta sulla sommità di un promontorio, le fondamenta poggiano direttamente Costabissara, chiesa di S. Zeno, arco della porta d’ingresso prima dei restauri (a sinistra) e a restauri effettuati (a destra) 80 | sul forte strato di roccia sottostante, elemento che ha reso possibile ricavare anche le tre tombe che sono state scoperte nel corso dei lavori di scavo. Due di esse sono vicine all’area occupata dal presbiterio e una si trova a destra dell’ingresso e, pur potendo essere coeva, non presenta le stesse caratteristiche formali. La collocazione nell’angolo sud-ovest di una delle tre tombe farebbe pensare che essa sia stata la sepoltura del fondatore della chiesa o comunque del principale attore della trasformazione dell’edificio da struttura meramente funeraria a chiesa adibita al culto come più avanti vedremo (LUSUARDI SIENA 1989, p. 217). Chiesa di S. Zeno Costabissara, chiesa di S. Zeno, finestrelle sul muro meridionale Costabissara, chiesa di S. Zeno, muro meridionale durante i restauri (in alto) e a restauri conclusi (in basso) A causa di interventi operati in maniera non sempre ortodossa le sepolture non risultano di agevole datazione e l’unico elemento utile è il raffronto con simili tipologie e, in parte, la relazione con “gli elementi strutturali superstiti” (COLECCHIA 2006, p. 318). Qui però la critica si divide tra chi ritiene che le due tombe appartengano a un’ipotetica prima fase, nella quale più che di una chiesa si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un mausoleo (COLECCHIA 2006, p. 319 e poi, ancora Colecchi con BROGIOLO e NAPIONE in Corpus Architecturae Religiosae Europeae, p. 284) e chi invece ritiene che le due tombe siano da inserire nel contesto dell’edificio absidato che vediamo oggi (lo stesso BROGIOLO 2013, p. 74). Frutto comunque di fasi costruttive che si sono succedute nel tempo, l’edificio attuale dovrebbe essere il risultato – restauri recenti a parte naturalmente – della terza importante modificazione della struttura originaria: il primo momento dovette essere quello dell’edificazione di un sacello quadrangolare, che contiene le due tombe scavate, cui seguì un secondo edificio che rappresenta in qualche modo la base su cui insiste l’attuale chiesa, che della precedente tutta- | 81 Costabissara (VI) Costabissara, chiesa di S. Zeno, (in alto) l’interno dell’edificio durante i restauri; (sopra) due delle tre sepolture rinvenute, prima dei restauri; (a sinistra) la navata e le due tombe dopo i restauri (foto gentilmente fornite da Stefano Torresan) 82 | Chiesa di S. Zeno via abbassò il piano di calpestio (Storia dell’architettura nel Veneto 2009, p. 74). Come osservato, la facciata ha subito interventi mirati a ricostruire l’originario profilo, anche se l’arco che sovrasta l’ingresso è rimasto inalterato: ci sembra tuttavia di non dover concordare con quanti hanno inteso datarlo al periodo romano, sia pure secondo considerazioni di carattere tecnico-artistico (La chiesetta protocristiana s.d., p. 2). Più facile che alcuni mattoni provenienti da edifici di epoca romana siano stati utilizzati anche nella presente costruzione; del resto i rinvenimenti di oggetti appartenenti al periodo imperiale sono stati numerosi nell’area intorno alla chiesa. Le immagini che riportiamo nel volume permettono di osservare che la chiesa è stata adibita per un lungo arco di tempo ad abitazione. Le murature, del resto, per quanto frutto di interventi successivi e di restauri che ne hanno in parte complicato la lettura, appaiono secondo alcuni quelle originali (MICHIELIN – BOSCATO – VENZATO 2005, p. 76). Nella parte absidale – larga m. 3,30 e profonda m. 2,15 – spicca poi una finestrella con arco a tutto sesto che può essere ritenuta originale. Composta da materiali diversi per tipo e colorazione, spicca per la sua bellezza e la sua posizione, quasi gli autori avessero inteso assegnare una particolare importanza alla facciata e all’abside, arricchendole con particolari preziosi pur nel contesto di una generale semplicità costruttiva. In tale ambito si collocano anche diversi reperti di natura scultorea incastonati nelle pareti e analizzati da Previtali in una interessante chiave compositiva di cui riportiamo i momenti più significativi. “Per quanto riguarda i reperti di Costabissara, vanno notati i quattro notevoli frammenti di architrave di pergula, in pietra tenera di Vicenza, decorati da una serie di cani correnti in alto e da una treccia biviminea nella parte inferiore. Sono sculture che mostrano il notevole interesse dei costruttori nei confronti della chiesetta di S. Zeno, dalla quale esse provengono. Il lavoro di queste sculture è così bene ordinato, che denuncia un influsso bizantino [...]” (PREVITALI 1983, p. 191). La vicinanza di questi reperti con opere conservate presso i lapidari di Grado e di Vicenza ha spinto a datarli al IX secolo (così anche Napione in La Diocesi di Vicenza 2001, pp. 139-143). Accanto a questi, “va considerato l’insieme di reperti riconducibili ad un pluteo, sempre della stessa epoca. [...] Il pluteo di Costabissara va pensato come appartenente alla chiusura dello spazio attorno all’altare. [...] È ricomponibile accostando i frammenti, che permettono di individuare una decorazione con occhielli ad ogiva, Costabissara, chiesa di S. Zeno, le decorazioni lapidee (resti di pergula?) spostati durante i lavori del 1971 annodati tra loro e combinati con diagonali incrociate” (PREVITALI 1983, p. 191). All’opposto appaiono spogli i muri settentrionale – che prima dei restauri era interamente crollato (v. la fotografia a p. 144 di CANOVA DAL ZIO 1987) – e meridionale: entro quest’ultimo sono state aperte due porte, sicuramente però in un periodo successivo. Sempre nel muro meridionale appaiono inoltre due finestre a strombatura contrapposta che ci sembrano coeve alla fondazione (Kozlovich, autore del più volte citato saggio La chiesetta protocristiana, prima sostiene la tarda apertura delle due finestre – p. 3 –, poi – p. 6 – osserva che è “da stabilire la contemporaneità alla costruzione […], ma nei bordi del muro ai loro lati non esistono tracce di manomissione, e ciò potrebbe convalidare la certezza della loro autenticità”). Diversamente sostiene Previtali, secondo il quale le due finestrelle non sono originali (PREVITALI 1983, p. 190). Gli ultimi importanti interventi si sono avviati nel 2009. L’affresco Nel periodo di pieno utilizzo della chiesa, gli affreschi dovevano ricoprire i muri interni della chiesa con una certa continuità: ancora alla fine degli anni ‘70 del Novecento si potevano intravvedere alcuni panneggi lungo il muro meridionale, oggi totalmente scomparsi (La chiesetta protocristiana s.d., p. 3). Di ben diverso rilievo invece un altro casuale ritrovamento effettuato nel corso dei lavori di recupero, un volto di angelo o di santo che fu staccato da quel muro | 83 Costabissara (VI) Costabissara, chiesa di S. Zeno, l’affresco con figura di santo, staccato e conservato negli spazi del Comune di Costabissara 84 | Chiesa di S. Zeno per salvarlo dal degrado. Non siamo in possesso di molti elementi per la sua datazione e ci basiamo sulle considerazioni, purtroppo soltanto verbali, di Carlo Guido Mor che, visitando l’edificio su espressa richiesta del locale Gruppo Archeologico – il vero promotore del recupero – non ebbe dubbi nel collocarlo in un arco di tempo compreso tra l’VIII e il IX secolo e a questa seconda opzione crediamo di poter aderire (dissentiamo invece dalla sommaria datazione al XIII secolo proposta in Corpus Architecturae Religiosae Europeae, p. 284). Attualmente questo frammento di affresco (cm. 40x50 circa), insieme con molto altro materiale recuperato nella chiesa e nel terreno circostante, restaurato nel 2011, si trova nei locali del Comune di Costabissara: come in molti altri casi non resta che auspicare una ben più degna collocazione, anche e soprattutto in considerazione del fatto che comunque si tratta di una delle testimonianze più antiche in assoluto del territorio. Storiografia Maccà: «Già romitorio, è senza oficiatura. [...] Di questa chiesa trovai memoria del 1427 13 maggio, nel qual anno un testatore lasciole soldi cinque di piccioli.» Bibliografia Monografie ARNOLD F. C., Zeno Bischof von Verona, in Realencyclopädie für protestantische Theologie und Kirche, Leipzig, 1896-1913, 21 (1908), coll. 657-667. BARBARANO Francesco, Historia Ecclesiastica della Città, Territorio e Diocesi di Vicenza, VI, Vicenza, 1762, p. 135. BERNARDOTTO Silvia, La chiesa di S. 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Vito Illustrazione storica e artistica L ’area, per quanto oggi apparentemente isolata e priva di attarttive particolari, è stata abitata sin dall’età romana (ROSSIGNOLI et Al. 2014, pp. 26, 48-49). Nell’alto medioevo il monastero benedettino di Nonantola era proprietario di un gran numero di terre nel Vicentino. A Lovertino esisteva una cella che una bolla del 1168 di Papa Alessandro III riconobbe come proprietà della potente abbazia. Probabilmente il documento si riferisce al monastero benedettino di S. Silvestro, che sorgeva sul colle di Lovertino, e non alla chiesa di S. Vito, ma è possibile che questa esistesse già - anzi, come vedremo, gli studiosi concordano su questa ipotesi - e che vi fosse uno stretto legame con il più grande monastero posto sul colle e dunque anche con quello nonantolano. Colpisce il fatto che l’abate Maccà, ineludibile punto di riferimento per questo lavoro, solitamente prodigo di annotazioni, abbia dedicato all’edifico poche scarne righe di testo. Di per sé, l’intitolazione a s. Vito (in realtà la dedicazione precisa era ai ss. Vito, Modesto e Crescenzia), che potrebbe riportare al periodo in cui maggiormente si diffusero i benedettini nel nostro territorio, ossia ai secoli VIII e IX, non è prova sufficiente a far risalire la nostra chiesa a quell’epoca, in mancanza di documenti che ne attestino l’antichità; in tutta l’area presa in esame dall’indagine sono Albettone, chiesa di S. Vito ancora superstiti due chiese con la stessa intitolazione: a Marostica e a Santorso (v. le schede relative). Nonostante non si disponga di alcun documento di epoca medievale che menzioni l’edificio, è possibile ipotizzare una datazione sulla base dell’osservazione del manufatto, anche sulla scorta delle conoscenze relative alle condizioni in cui versava prima dei restauri, compiuti fra il 1992 e il 1994. Se osserviamo le fotografie scattate alcuni decenni fa nell’imminenza dell’inizio dei lavori e quelle realizzate per la presente pubblicazione, ci rendiamo conto che l’intervento compiuto per iniziativa della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali di Verona e | 179 Albettone (VI) Albettone, chiesa di S. Vito, facciata e muro nord prima (in alto) e dopo i restauri (in basso) del Comune di Albettone ha avuto carattere di integrazione - del resto necessaria considerato lo stato in cui la chiesa versava - e non solo di conservazione. Ciò sta a significare che numerose e ampie porzioni dell’edificio, crollate da tempo, furono ricostruite a integrazione di quanto rimasto in piedi. È importante 180 | partire da questa osservazione per poter distinguere, all’interno della struttura attuale, tra parti originali e parti ricostruite. Come si può notare, la chiesa risultava completamente priva di copertura e poco prima dell’inizio dei restauri la situazione si era ulteriormente aggravata, tanto che la parte sommitale della facciata aveva già ceduto e ampie crepe erano evidenti su tutta la struttura. Inoltre, anche la piccola abside semicircolare era crollata in ampie porzioni, sicché quella che noi oggi vediamo è il frutto di una ricostruzione, che non ne altera tuttavia le dimensioni e le proporzioni. La chiesa risulta perfettamente orientata e la dimensione dell’abside fa supporre che proprio questa parte dell’edificio - sebbene, come abbiamo detto, ampiamente ricostruita - sia la parte che risale ad epoca più remota; a questa conclusione giungono tutti gli studiosi - e noi concordiamo - sulla base delle dimensioni e in particolare della profondità del catino, riscontrabili in molte altre chiese del nostro territorio: m. 3,5 di diametro, m. 4 circa di altezza, m. 1,5 di profondità. Potrebbe essere databile all’XI o al XII secolo (di XII-XIII scrive invece DIANO 2005, p. 27, anche se altri pretendono che si tratti di manufatto dell’VIII o del IX; questo più sulla scorta di quanto detto circa la diffusione dell’ordine benedettino nelle campagne vicentine piuttosto che su puntuali considerazioni di carattere archeologico e architettonico (CANOVA DAL ZIO 1986, p. 160; Relazione storico-artistica 1992; GAMBIN 1994, p. 19; PIROCCA 1974). La composizione muraria dell’abside comprende conci di pietra calcarea frammisti a laterizi di epoca romana. In ogni caso sia Canova Dal Zio sia Pirocca mettono in risalto il fatto che soltanto l’abside può considerarsi elemento antico e (forse) originario, mentre “il corpo della chiesa fu nei secoli posteriori completamente modificato” (PIROCCA 1974). Prima di prendere in considerazione la rimanente struttura, proponiamo di osservare con una certa attenzione un frammento di pietra gialla con motivi di decorazione “ad intreccio” a cinque nastri (NAPIONE 2001, tav. XIII, foto n. 35), incorporato nel muro meridionale e probabilmente risalente ai secoli VIII-IX. Questo tipo di fregio si ritrova in molte chiese comprese nella nostra indagine e in una vasta regione corrispondente all’intera Italia settentrionale e oltre, fino alla Dalmazia. Se riteniamo di non dover utilizzare, perché priva di fondamenti di documentazione storica e di chiare delimitazioni temporali e geografiche, la definizione di “arte longobarda”, nondimeno crediamo opportuno considerare tali testimonianze come reperti artistici la cui datazione oscilla tra il periodo longobardo e quello carolingio-ottoniano. Chiesa di S. Vito È indubbio che la presenza di un elemento scultoreo con tali caratteristiche induce a ritenere che l’edificio attuale, sia pure rimaneggiato, affondi le proprie radici in un periodo anteriore al X secolo oppure che l’intreccio sia il frutto di un riutilizzo derivante da una chiesa comunque presente in loco. Dunque, il corpo dell’edificio - se si esclude il catino absidale - potrebbe essere il frutto di una totale o parziale ricostruzione, avvenuta in epoca successiva al XII secolo. Osservando la facciata si può ipotizzare che l’intera costruzione risalga al XIV o addirittura al XV secolo: campaniletto a vela, due grandi finestre ad arco in posizione simmetrica, un piccolo occhio e un portale d’ingresso costituito da due pilastri e da un architrave quattrocentesco sul quale si legge il monogramma di Cristo; difficile tuttavia poter af- Albettone, chiesa di S. Vito, abside Albettone, chiesa di S. Vito, muro sud e abside prima (in alto) e dopo i restauri (in basso) fermare che tutta l’attuale muratura (ovviamente il riferimento non è a quella reintegrata con i recenti restauri) sia così recente. Sopra l’architrave, ad esempio, si nota la curva di un’apertura ad arco precedente, peraltro di difficile datazione. Altre tracce di apertura con arco in mattoncini si distinguono lungo la parete settentrionale, all’esterno. In ogni caso non riteniamo che la struttura muraria coeva all’abside sia sorta su una pianta diversa dall’attuale, che disegna un’aula di m. 11 x 6. Soltanto l’altezza dell’edificio è stata aumentata in concomitanza con i rifacimenti della copertura, come è possibile costatare confrontando le immagini pre e post restauri. Della stessa epoca delle aperture della facciata è anche la finestra ad arco che si apre nel muro meridionale. Albettone, chiesa di S. Vito, frammento con treccia a cinque nastri murato nella parete meridionale | 181 Albettone (VI) Albettone, chiesa di S. Vito, muro settentrionale in cui si nota un’apertura ora tamponata Albettone, chiesa di S. Vito, aula 182 | Chiesa di S. Vito L’interno è caratterizzato da un’aula unica al termine della quale è ancor oggi ben visibile l’originario arco absidale e l’intero catino ben restaurato. Interessante è notare che la mensa d’altare monolitica è sorretta da una sezione di fusto di colonna marmorea di epoca tardo-romana (così Verlato in GAMBIN 1994, p. 19) di considerevoli dimensioni. Storiografia Maccà: «Lontana dalla parrocchiale circa mezzo miglio, ed è pure anch’essa de’ suddetti signori Consorti.» Bibliografia Monografie BARBARANO Francesco, Historia Ecclesiastica della Città, Territorio e Diocesi di Vicenza, VI, 1762, cap. L, p. 154. CANOVA DAL ZIO Regina, Le chiese delle Tre Venezie anteriori al mille, Padova, Libreria Gregoriana Editrice, 1986 (rist. 1987), p. 159-60. 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