FILOSOFIA DEL DIRITTO
CORSO DEL PROF. ALFONSO CATANIA
Introduzione al Diritto
1.
Che cos'è il diritto?
Il diritto è un insieme di regole di condotta che disciplinano i rapporti tra i
componenti della società in funzione della realizzazione di un obbiettivo
comune; è un mezzo per realizzare i ini di una data società. Il diritto è un
fenomeno formato da:
Norme giuridiche: prescrivono i comportamenti da tenere o da non
tenere in quanto ritenuti utili o dannosi alla società.
Sanzioni: che sono delle conseguenza sfavorevoli a carico dei
trasgressori in caso di violazione delle norme giuridiche.
L'organizzazione: che ha la funzione di produrre le norme
giuridiche e di garantirne l'osservanza.
2.
L'Uomo e la Società
Una società è costituita da una pluralità di individui organizzati per un ine di
interesse collettivo. Gli elementi che concorrono a formare una società
dunque sono:
Una pluralità di persone: non vi può essere una comunità umana dove vi è
un solo individuo.
Un'organizzazione: devono esistere delle regole interne e degli organi che
ne garantiscono l'osservanza.
Uno scopo comune: ogni società viene costruita per un ine di varia natura.
3. Le regole sociali e le norme giuridiche
Le regole sociali sono caratterizzate dal fatto che la loro osservanza non si
fonda su una costrizione esterna, ma su una spontanea adesione ai valori
che esprimono.
Le norme giuridiche, invece, sono assistite dalla forza, in quanto la loro
osservanza viene imposta dalla pubblica autorità applicando delle sanzioni a
carico dei trasgressori.
4.
Diritto pubblico e diritto privato
Tradizionalmente il diritto oggettivo si scompone in due grandi sistemi di
norme, il diritto pubblico e il diritto privato. Il diritto pubblico regola i
rapporti nei quali una delle parti è un soggetto pubblico, che esercita un
potere di supremazia per soddisfare un interesse generale.
Il diritto privato disciplina i rapporti nei quali le parti sono in una condizione
di parità.
5. I principali rami del diritto
All'interno del diritto pubblico si distinguono: - il diritto costituzionale - il
diritto amministrativo - il diritto penale - il diritto processuale - il diritto
ecclesiastico.
Il diritto costituzionale comprende le regole fondamentali dell'ordinamento
dello Stato e, in particolare, disciplina gli organi supremi dello Stato e i
rapporti tra lo Stato e i cittadini.
Il diritto amministrativo regola l'attività della pubblica amministrazione,
ovvero l'attività dello Stato e degli altri enti pubblici diretta a soddisfare i
bisogni collettivi.
Il diritto penale è rivolto a prevenire e a reprimere i reati. Il diritto
processuale disciplina l'esercizio della giurisdizione, cioè l'attività dei giudici
diretta ad applicare le norme giuridiche ai casi concreti.
Il diritto ecclesiastico riguarda i rapporti tra lo Stato e le confessioni
religiose. Nell'ambito del diritto privato è classica la distinzione tra diritto
civile e commerciale. Il diritto civile regola genericamente i rapporti tra i
soggetti privati.
Il diritto commerciale riguarda più speciicamente l'attività degli
imprenditori.
Il diritto privato comprende anche il diritto della navigazione, che disciplina i
soggetti, i rapporti e i beni relativi alla navigazione aerea, marittima e
interna.
2. LA NORMA GIURIDICA
1. La struttura della norma giuridica
Di regola una norma giuridica è costituita da due elementi: la fattispecie e la
statuizione. La fattispecie consiste nella descrizione di un fatto, mentre la
statuizione, la conseguenza, positiva o negativa.
3.
Norme derogabili e inderogabili
Le norme giuridiche si distinguono in derogabili e inderogabili.
Le norme derogabili pongono regole di condotta che possono essere derogate
con diversa volontà da parte dei destinatari, mentre le norme inderogabili o
imperative pongono regole di condotta anche contro la volontà dei destinatari.
4.
I caratteri della norma giuridica
La norma giuridica presenta di solito i seguenti caratteri: - positività relatività - coattività - generalità e astrattezza - bilateralità.
Positività
La norma giuridica è positiva in quanto è imposta dallo Stato.
Relatività
La norma giuridica è relativa poiché il suo contenuto può variare nello spazio e
nel tempo.
Coattività
La norma giuridica è coattiva in quanto deve essere osservata
obbligatoriamente e la sua osservanza viene imposta attraverso la minaccia
dell'applicazione di una sanzione.
Generalità e astrattezza
La norma giuridica è generale, perché non è diretta a singoli individui ma a una
serie indeterminata di possibili destinatari, e astratta, in quanto non riguarda
un fatto concreto che si è già realizzato ma una serie di fatti che potranno
veriicarsi in futuro.
Bilateralità
La norma giuridica è bilaterale, inine, perché quando riconosce un diritto a un
soggetto, impone correlativamente un dovere o un obbligo a carico di altre
persone.
3. IL RAPPORTO GIURIDICO
A.
Il rapporto giuridico - Un rapporto può essere giuridicamente
rilevante o irrilevante.
Si deinisce rapporto giuridico, una relazione tra due o più persone
regolata dal diritto oggettivo.
B.
Le situazioni giuridiche soggettive - Si deiniscono parti i soggetti tra
i quali intercorre un determinato rapporto giuridico, mentre si
chiamano terzi tutti coloro che sono estranei a tale rapporto. Le
situazioni giuridiche soggettive consistono nel potere di fare o di non
fare qualcosa per realizzare un interesse proprio o altrui. Le situazioni
soggettive possono essere attive o passive.
C.
Le passive comprendono: Le attive comprendono:
- Il diritto soggettivo
- il dovere
- l'interesse legittimo
- l'obbligo
- le facoltà
- la soggezione
- la potestà
- l'onere.
- il diritto potestativo.
3. Il diritto soggettivo
Il diritto soggettivo consiste nel potere di tenere o di pretendere che altri tenga
un determinato comportamento. Gli elementi che concorrono a formarlo sono:
- l'interesse
- il potere del volere
- la tutela.
4. Classiicazione dei diritti soggettivi privati
Diritti patrimoniali e non patrimoniali
I diritti patrimoniali riguardano degli interessi di natura prevalentemente
economica. Nell'Ambito dei diritti patrimoniali si distinguono i diritti reali e i
diritti di credito.
- I diritti reali attribuiscono al titolare un potere che si esercita immediatamente
su una cosa.
- I diritti di credito consistono nella legittima pretesa da parte del titolare che
un altro soggetto tenga un determinato comportamento. I diritti non
patrimoniali si riferiscono a interessi di carattere prevalentemente ideale o
morale. Comprendono i diritti della personalità e i diritti di famiglia.
- I diritti della personalità riguardano gli attributi fondamentali di una persona.
- I diritti di famiglia spettano ai membri di una famiglia nei confronti degli altri
familiari.
Diritti assoluti e relativi
I diritti assoluti assicurano un potere che può essere fatto valere verso tutti.
I diritti relativi attribuiscono al titolare un potere che si può esercitare
soltanto nei confronti di una o di più persone determinate. Sono relativi i
diritti di famiglia e i diritti di credito.
Diritti trasmissibili e intrasmissibili
I diritti trasmissibili possono essere trasferiti ad altri soggetti e il titolare può
anche rinunciarvi.
I diritti intrasmissibili non possono essere trasferiti ad altri soggetti e il
titolare non può rinunciarvi.
5. Le altre situazioni giuridiche attive
L'interesse legittimo
L'interesse legittimo consiste nella pretesa alla legittima di un'attività
amministrativa.
La potestà
La potestà, o potere-dovere - consiste in un complesso di poteri riconosciuti a
un soggetto per la protezione di un interesse altrui.
Il diritto potestativo
Il diritto potestativo è il potere di operare con la propria volontà la
modiicazione di un rapporto giuridico.
6. Le situazioni giuridiche passive
Le situazioni soggettive passive consistono nell'imposizione di una determinata
condotta e comprendono:
- il dovere, che è la situazione in cui viene a trovarsi chiunque deve astenersi
da qualsiasi atto di impedimento.
- l'obbligo, che consiste nel dover tenere un dato comportamento a vantaggio
del titolare di un diritto relativo.
- la soggezione, che è la situazione di chi è esposto, anche contro la sua
volontà, all'esercizio di un diritto potestativo, di cui deve limitarsi a subire le
conseguenze.
- l'onere, che è un comportamento necessario per ottenere o per conservare un
dato vantaggio.
Il Prof. Alfonso Catania valuta la plausibilità e l’efficacia di determinate categorie teoricogiuridiche, in particolare dei concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato.
Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie
“ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la
crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua
logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e
“sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di
una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”.
L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti
dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto,
riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte,
snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del
modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal
rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi
new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui
attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto
spesso politica e strumentale.
La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli
a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il
complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo
Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte
mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa
sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di
governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di
decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo.
In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la
1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di
decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le
successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione.
significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della
definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la
decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi
dell’amministrazione.
La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di
decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto
stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo
attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso
“psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di
un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per
qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure
tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella
identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di
dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle
agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”).
Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il
problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più
specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo
metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle
prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità
o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che
il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato
dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato
alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una
razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e
procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in
grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione.
Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale,
anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé
verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti
nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente.
Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald
Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky.
Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo,
principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto:
“l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e
la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che
sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento
conoscitivo e pretende di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto
da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare
la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti
neo-costituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza
anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa
sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe
attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale.
Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del
diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza
dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in
luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso,
l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la
comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il
momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in
modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto
spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e
talvolta bellico dei diritti dell’uomo).
In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur
apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da
Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto
vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di
molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa
che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno
ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1.
Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali
giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto
contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo.
La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del
diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il
riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto
dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre
dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione
normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo
e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica
che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del
punto di vista esterno-interno hartiano).
La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la
decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz
kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi
seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di
vista esterno-conoscitivo nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione
nei confronti della norma.
Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il
riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione
interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva,
anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore
tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente
induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la
rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto
culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di
volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno
riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va
ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza
ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di
immaginazione.
Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella
globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere
normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei
comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La
norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato
individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima
ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi
della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono,
piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si
pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei
consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti,
significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui
si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo).
In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a
quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea
l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si
legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring).
Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra
considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da
contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al
paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche
economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un
clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale
contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché
all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo
costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e
valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere
giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel
frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”.
Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla
norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle
norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si
riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del
comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico
dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama
della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà,
dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al
passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza
e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad
azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La
pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della
sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento
più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura
logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di
identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi
atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che
quella implementazione avrà luogo”2.
L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica
del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania
preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo
sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di
effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su
criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”,
all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche
di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a
quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento,
condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla
trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale
sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo,
l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per
attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico
diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata
secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si
presume possa implementarla e farla valere.
Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del
diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al
momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione
ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente
giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche
e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi,
superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto
simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e,
soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale,
data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica.
Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel
diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di
positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine
di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque,
sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti
della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan
Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo
considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è
la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a
livello costituzionale.
In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca
necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che
implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in
generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una
operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di
punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di
mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal
diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati
semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie”
– limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto
sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal
guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione
culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici.
Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart,
specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che
avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia;
anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass
media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica.
Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della
decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del
diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi
contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di
razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno
bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1.
La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione,
mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e
volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come
abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei
comportamenti e dei principi normativi).
L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur
condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una
teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento.
Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il
comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle
scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione
attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto.
Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far
prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la
giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore
riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”,
assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle
trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la
parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del
decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla
composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati.
Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa
del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso.
All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che
tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di
formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove
essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione,
l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si
evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni
disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di
convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o
dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”.
La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di
Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione
sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita
l’incipit della Teologia politica schmittiana).
Senonché, Catania ritiene che il moderno principio Auctoritas non veritas facit legem, come
interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il concetto di diritto, indipendentemente
da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di arbitrio, di decisione indeducibile da
ogni possibile significato normativo, è suscettibile di comprensione solo attraverso la prospettiva
normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che anche e soprattutto il sovrano hobbesianoschmittiano che decide sullo stato di eccezione, innescando il processo del nuovo ordine, assuma la
forma normativa per comunicare la sua volontà, cui quella forma assicura la pretesa di
obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera decisione sovrana, bensì dal
riconoscimento normativo dei consociati.
Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il
circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo
se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli
ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente
dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo
moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di
riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo,
può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in
particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono
normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale:
“sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone
l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento
più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e
“ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il
sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di
“controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto
contemporaneo.
In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo
e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della
prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex
mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel
diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale
nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e
complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi
– riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo
tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating.
Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono
né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione
che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e
nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è
l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un
ben lungo cammino per ristabilire equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma
giuridica del’accordo solidale”1.
Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra
percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei
diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il
discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da
parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti
umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies
internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche
pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di
ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri
termini, una certa efficacia del diritto.
Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno,
pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli
intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla
prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde,
ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e
politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione
meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura
positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva
della società.
Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore
accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di
partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove
tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto
retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle
convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente
vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni
ragionevoli”.
La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di
decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto
stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo
attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso
“psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di
un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per
qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure
tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella
identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di
dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle
agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”).
Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il
problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più
specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo
metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle
prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità
o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che
il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato
dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato
alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una
razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e
procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in
grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione.
Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale,
anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé
verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti
nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente.
Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald
Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky.
Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo,
principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto:
“l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e
la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che
sono dietro le decisioni”. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento
conoscitivo e pretende
di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua
attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del
complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neocostituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza
anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa
sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe
attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale.
Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del
diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza
dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in
luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso,
l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la
comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il
momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in
modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto
spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e
talvolta bellico dei diritti dell’uomo).
In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur
apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da
Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto
vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di
molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa
che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno
ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1.
Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali
giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto
contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo.
La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del
diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il
riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto
dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre
dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione
normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo
e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica
che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del
punto di vista esterno-interno hartiano).
La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la
decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz
kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi
seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di
vista esterno-conoscitivo nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione
nei confronti della norma.
Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il
riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione
interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva,
anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore
tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente
induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la
rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto
culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di
volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno
riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va
ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza
ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di
immaginazione.
Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella
globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere
normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei
comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La
norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato
individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima
ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi
della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono,
piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si
pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei
consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti,
significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui
si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo).
In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a
quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea
l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si
legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring).
Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra
considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da
contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al
paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche
economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un
clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale
contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché
all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo
costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e
valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere
giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel
frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”.
Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla
norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle
norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si
riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del
comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico
dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama
della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà,
dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al
passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza
e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad
azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La
pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della
sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento
più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura
logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di
identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi
atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che
quella implementazione avrà luogo”2.
L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica
del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania
preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo
sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di
effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su
criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”,
all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche
di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a
quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento,
condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla
trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale
sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo,
l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per
attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico
diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata
secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si
presume possa implementarla e farla valere.
Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del
diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al
momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione
ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente
giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche
e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi,
superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto
simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e,
soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale,
data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica.
Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel
diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di
positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine
di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque,
sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti
della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan
Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo
considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è
la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a
livello costituzionale.
In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca
necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che
implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in
generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una
operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di
punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di
mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal
diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati
semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie”
– limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto
sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal
guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione
culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici.
Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart,
specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che
avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia;
anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass
media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica.
Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della
decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del
diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi
contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di
razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno
bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1.
La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione,
mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e
volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come
abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei
comportamenti e dei principi normativi).
L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur
condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una
teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento.
Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il
comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle
scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione
attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto.
Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far
prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la
giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore
riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”,
assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle
trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la
parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del
decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla
composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati.
Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa
del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso.
All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che
tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di
formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove
essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione,
l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si
evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni
disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di
convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o
dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2.
La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di
Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione
sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita
l’incipit della Teologia politica schmittiana). Senonché, Catania ritiene che il moderno principio
Auctoritas non veritas facit legem, come interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il
concetto di diritto, indipendentemente da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di
arbitrio, di decisione indeducibile da ogni possibile significato normativo, è suscettibile di
comprensione solo attraverso la prospettiva normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che
anche e soprattutto il sovrano hobbesiano-schmittiano che decide sullo stato di eccezione,
innescando il processo del nuovo ordine, assuma la forma normativa per comunicare la sua volontà,
cui quella forma assicura la pretesa di obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera
decisione sovrana, bensì dal riconoscimento normativo dei consociati.
Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il
circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo
se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli
ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente
dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo
moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di
riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo,
può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in
particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono
normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale:
“sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone
l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento
più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e
“ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il
sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di
“controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto
contemporaneo.
In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo
e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della
prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex
mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel
diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale
nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e
complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi
– riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo
tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating.
Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono
né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione
che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e
nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è
l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un
ben lungo cammino per ristabilire
1A. Catania, op. cit., p. 145.
2A. Catania, op. cit., p. 156.
equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma giuridica del’accordo solidale”1.
Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra
percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei
diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il
discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da
parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti
umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies
internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche
pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di
ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri
termini, una certa efficacia del diritto.
Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno,
pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli
intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla
prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde,
ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e
politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione
meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura
positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva
della società.
Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore
accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di
partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove
tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto
retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle
convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente
vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni
ragionevoli”2.
Il testo recensito
Alfonso Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Roma-Bari, Laterza,
2008.
1A. Catania, op. cit., p. 161.
2A. Catania, op. cit., pp. 172-173
In Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Alfonso Catania valuta la
plausibilità e l’efficacia euristica di determinate categorie teorico-giuridiche, in particolare dei
concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato1.
Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie
“ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la
crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua
logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e
“sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di
una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”.
L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti
dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto,
riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte,
snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del
modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal
rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi
new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui
attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto
spesso politica e strumentale.
La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli
a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il
complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo
Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte
mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa
sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di
governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di
decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo.
In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la
1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di
decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le
successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione.
significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della
definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la
decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi
dell’amministrazione.
La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di
decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto
stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo
attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso
“psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di
un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per
qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure
tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella
identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di
dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle
agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”).
Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il
problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più
specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo
metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle
prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità
o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che
il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato
dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato
alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una
razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e
procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in
grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione.
Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale,
anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé
verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti
nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente.
Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald
Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky.
Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo,
principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto:
“l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e
la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che
sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento
conoscitivo e pretende
1A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, cit., pp. 24-25.
2A. Catania, op. cit., p. 28.
di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua
attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del
complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neocostituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza
anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa
sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe
attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale.
Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del
diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza
dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in
luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso,
l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la
comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il
momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in
modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto
spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e
talvolta bellico dei diritti dell’uomo).
In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur
apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da
Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto
vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di
molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa
che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno
ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1.
Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali
giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto
contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo.
La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del
diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il
riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto
dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre
dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione
normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo
e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica
che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del
punto di vista esterno-interno hartiano).
La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la
decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz
kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi
seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di
vista esterno-conoscitivo
1A. Catania, op. cit., p. 41.
nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della
norma.
Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il
riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione
interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva,
anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore
tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente
induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la
rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto
culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di
volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno
riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va
ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza
ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di
immaginazione.
Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella
globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere
normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei
comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La
norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato
individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima
ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi
della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono,
piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si
pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei
consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti,
significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui
si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo).
In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a
quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea
l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si
legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring).
Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra
considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da
contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al
paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche
economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un
clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale
contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché
all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos,
1A. Catania, op. cit., p. 50.
presuntivamente integrato nel testo costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso
determina notevoli dispute ideologiche e valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade
nemmeno l’appiattimento sul potere giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi,
l’applicazione del diritto: in realtà, nel frangente applicativo, si intravede un importante momento
politico-decisionale e “legislativo”.
Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla
norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle
norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si
riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del
comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico
dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama
della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà,
dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al
passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza
e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad
azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La
pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della
sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento
più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura
logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di
identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi
atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che
quella implementazione avrà luogo”2.
L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica
del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania
preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo
sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di
effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su
criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”,
all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche
di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a
quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento,
condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla
trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale
sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo,
l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per
attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico
diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata
secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si
presume possa implementarla e farla valere.
1A. Catania, op. cit., p. 99.
2A. Catania, op. cit., p. 101.
Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del
diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al
momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione
ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente
giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche
e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi,
superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto
simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e,
soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale,
data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica.
Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel
diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di
positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine
di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque,
sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti
della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan
Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo
considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è
la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a
livello costituzionale.
In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca
necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che
implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in
generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una
operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di
punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di
mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal
diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati
semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie”
– limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto
sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal
guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione
culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici.
Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart,
specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che
avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia;
anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass
media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica.
Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della
decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del
diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi
contenuto”. Ma, al contempo, l’autore
sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di razionalizzazione” del pur
fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno bisogno di sottostare alla
forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1.
La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione,
mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e
volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come
abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei
comportamenti e dei principi normativi).
L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur
condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una
teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento.
Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il
comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle
scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione
attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto.
Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far
prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la
giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore
riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”,
assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle
trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la
parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del
decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla
composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati.
Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa
del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso.
All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che
tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di
formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove
essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione,
l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si
evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni
disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di
convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o
dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2.
La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di
Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione
sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita
l’incipit della Teologia politica
1A. Catania, op. cit., p. 127.
2A. Catania, op. cit., p. 141.
schmittiana). Senonché, Catania ritiene che il moderno principio Auctoritas non veritas facit legem,
come interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il concetto di diritto,
indipendentemente da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di arbitrio, di decisione
indeducibile da ogni possibile significato normativo, è suscettibile di comprensione solo attraverso
la prospettiva normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che anche e soprattutto il sovrano
hobbesiano-schmittiano che decide sullo stato di eccezione, innescando il processo del nuovo
ordine, assuma la forma normativa per comunicare la sua volontà, cui quella forma assicura la
pretesa di obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera decisione sovrana, bensì dal
riconoscimento normativo dei consociati.
Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il
circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo
se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli
ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente
dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo
moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di
riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo,
può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in
particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono
normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale:
“sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone
l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento
più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e
“ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il
sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di
“controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto
contemporaneo.
In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo
e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della
prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex
mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel
diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale
nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e
complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi
– riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo
tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating.
Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono
né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione
che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e
nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è
l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un
ben lungo cammino per ristabilire
1A. Catania, op. cit., p. 145.
2A. Catania, op. cit., p. 156.
equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma giuridica del’accordo solidale”1.
Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra
percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei
diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il
discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da
parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti
umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies
internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche
pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di
ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri
termini, una certa efficacia del diritto.
Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno,
pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli
intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla
prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde,
ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e
politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione
meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura
positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva
della società.
Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore
accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di
partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove
tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto
retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle
convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente
vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni
ragionevoli”2.
In Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Alfonso Catania valuta la
plausibilità e l’efficacia euristica di determinate categorie teorico-giuridiche, in particolare dei
concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato1.
Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie
“ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la
crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua
logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e
“sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di
una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”.
L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti
dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto,
riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte,
snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del
modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal
rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi
new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui
attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto
spesso politica e strumentale.
La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli
a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il
complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo
Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte
mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa
sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di
governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di
decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo.
In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la
1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di
decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le
successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione.
significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della
definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la
decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi
dell’amministrazione.
La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di
decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto
stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo
attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso
“psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di
un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per
qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure
tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella
identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di
dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle
agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”).
Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il
problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più
specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo
metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle
prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità
o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che
il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato
dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato
alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una
razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e
procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in
grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione.
Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale,
anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé
verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti
nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente.
Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald
Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky.
Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo,
principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto:
“l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e
la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che
sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento
conoscitivo e pretende di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto
da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare
la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti
neo-costituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza
anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa
sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe
attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale.
Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del
diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza
dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in
luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso,
l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la
comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il
momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in
modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto
spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e
talvolta bellico dei diritti dell’uomo).
In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur
apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da
Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto
vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di
molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa
che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno
ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1.
Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali
giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto
contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo.
La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del
diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il
riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto
dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre
dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione
normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo
e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica
che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del
punto di vista esterno-interno hartiano).
La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la
decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz
kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi
seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di
vista esterno-conoscitivo
nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della
norma.
Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il
riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione
interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva,
anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore
tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente
induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la
rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto
culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di
volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno
riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va
ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza
ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di
immaginazione.
Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella
globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere
normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei
comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La
norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato
individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima
ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi
della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono,
piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si
pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei
consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti,
significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui
si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo).
In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a
quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea
l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si
legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring).
Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra
considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da
contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al
paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche
economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un
clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale
contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché
all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo
costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e
valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere
giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel
frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”.
Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla
norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle
norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si
riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del
comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico
dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama
della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà,
dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al
passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza
e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad
azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La
pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della
sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento
più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura
logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di
identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi
atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che
quella implementazione avrà luogo”2.
L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica
del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania
preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo
sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di
effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su
criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”,
all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche
di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a
quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento,
condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla
trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale
sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo,
l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per
attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico
diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata
secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si
presume possa implementarla e farla valere.
Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del
diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al
momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione
ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente
giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche
e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi,
superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto
simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e,
soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale,
data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica.
Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel
diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di
positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine
di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque,
sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti
della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan
Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo
considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è
la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a
livello costituzionale.
In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca
necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che
implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in
generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una
operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di
punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di
mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal
diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati
semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie”
– limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto
sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal
guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione
culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici.
Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart,
specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che
avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia;
anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass
media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica.
Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della
decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del
diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi
contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di
razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno
bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1.
La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione,
mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e
volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come
abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei
comportamenti e dei principi normativi).
L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur
condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una
teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento.
Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il
comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle
scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione
attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto.
Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far
prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la
giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore
riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”,
assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle
trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la
parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del
decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla
composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati.
Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa
del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso.
All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che
tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di
formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove
essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione,
l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si
evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni
disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di
convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o
dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2.
La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di
Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione
sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita
l’incipit della Teologia politica
Introduzione
Non da molto ho scoperto il mondo Wikibooks cola quale ho desiderato subito potermi confrontare.
Dopo poche ma efficaci veloci letture sui regolamenti, ho capito potermi cimentare in via
vagamente introduttiva con la cosiddetta adozione di un libro abbandonato. Forse per
sentimentalismo o per pigrizia di non iniziarne uno da zero, l'immagine onirica di un libro perso nel
suo destino mi ha subito convinto di aver trovato il mio primo percorso in Wikibooks. Essendo un
giurista per lavoro e per passione, ho cercato qualcosa che mi potesse permettere di scrivere con
quel minimo di competenza degna del grande mondo Wikipedia e, dopo pochi minuti di ricerca,
ecco saltato fuori dal niente un titolo relativo alla filosofia del diritto. Il libro era a dir poco
abbozzato ma ne ho apprezzato immediatamente gli intenti. Per quanto mi sarà possibile proseguirò
quel desiderio nella speranza di rispettare chi lo aveva iniziato e di fornire un valido contributo al
mondo Wikipedia, degno di tutta la mia stima. Non ho la pretesa di scrivere una vera e propria
opera di saggistica, quanto forse, realizzare uno stimolo a qualche riflessione da poter condividere
nel mondo infinito della teoria generale del diritto.
Perche abbiamo bisogno del diritto?
L'esigenza di una disciplina della convivenza sociale è stata da sempre percepita ed affrontata in
differenti modalità. Il concetto di ordinamento giuridico affonda per tanto le sue radici nella
esistenza stessa degli esseri viventi. Un ordinamento giuridico infatti altro non è che un ordito di
leggi, di regole; una trama di indicazioni di riferimento, utili a fornire indicazioni deontologiche e
comportamentali. L'ordinamento giuridico per tanto è rinvenibile in una formula collettivamente
accettata e in qualche modo subita, enunciante prescrizioni comportamentali, atte a disciplinare i
rapporti tra fenomeni e soggetti interagenti reciprocamente. Esempi di ordinamenti giuridici sono
tipicamente le leggi che i singoli stati sono di volta in volta ad emanare, ma anche le dottrine
religiose in relazione al proprio tessuto sociale, rinvenibile nei fedeli. L'origine dell'esigenza
esistenziale del diritto è per tutto questo un antico problema affrontato da svariati pensatori e
filosofi che, in differenti momenti storici, hanno affrontato le problematiche di rilievo in questo
senso. Nella cultura giuridica più tipica, facendo riferimento agli attuali esistenti Stati Nazionali,
numerose correnti filosofico giuridiche possono essere citate, a partire forse dai noti contrattualisti,
con particolare riferimento allo Stato Sociale di J. J. Rousseau.
La vita di ogni uomo è per tanto congenitamente legata in maniera necessaria ad un mondo di
norme, facente parte di un ordinamento giuridico e quindi di un diritto. I diversi modi di interpretare
le dinamiche normative e di individuarle e identificarle, rappresentano le differenti dottrine
giuridiche costituenti le scienza del diritto. A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo,
basti citare le teorie normative, per le quali è diritto qualsiasi norma o regola di condotta. Dal
momento che, come già accennato, regole di condotta sono necessariamente insite nella stessa
esistenza, ecco che il bisogno del diritto viene spiegato come una conditio sine qua non della realtà
sociale stessa.
In questo senso possiamo citare il noto brocardo: “ubi societas ibi jus”, per il quale il diritto è
essenziale ad una società e per alcuni autori ne è addirittura predecessore essendo n un certo qual
modo l'elemento costitutivo di un tipo specifico di società.
In aggiunta a quanto già specificato nelle poche righe che precedono, non si deve nemmeno
dimenticare come, in buona sostanza, il diritto sia un insieme di regole di condotta. Questa dinamica
è notoriamente da sempre legata al concetto di esistenza sociale in quanto, le vite degli individui
sono costantemente e spontaneamente regolate da innumerevoli tipologie di norme differenti, di
carattere sociale, religioso, morlae, di costume e quant'altro. Il diritto, nello specifico, altro non è
che una macroscopica tipologia che, in subordine alle società di riferimento, viene ad avere una sua
tipizzazione, disciplina ed organizzazione specifica, caratterizzanti i differenti modelli politici
esistenti.
Nell’antichità non c’era il diritto specializzato ma legato alle consuetudini sociale e alla morale
religiosa. In occidente (grazie ai romani) è diventato una scienza dopo l’incontro-scontro fra civiltà
estranee. Nasce da un’esigenza economica (ius gentium con i Cartaginesi). Insomma, il diritto serve
a legare individui senza legami prepolitici.
Il legame è attivo e atto non solo alla sopravvivenza, ma soprattutto alla realizzazione, tramite la
stabilità e la certezza di un proprio progetto di vita (“non possiamo affidarci alla benevolenza del
birraio” Smith). Quindi, grazie alla tutela delle aspettative, si crea un generale affidamento sociale.
Il diritto mette in ordine le azioni: è coordinazione delle azioni sociali; la materia giuridica è
l’azione sociale. La regolamentazione può consistere in una mera coordinazione, in cui il diritto
indica il percorso per realizzare i propri fini (senza specificarli); questo è un aspetto tipico del diritto
privato. Il diritto può, tuttavia, mettere in atto la cooperazione per raggiungere dei beni che non
raggiungeremo da soli (diritto pubblico). Fra i beni interni possiamo notare la promessa di giustizia
garantita dal principio di legalità (formalmente “trattare casi eguali in modo eguale e casi diseguali
in modi diseguali”).
Ordinamento Giuridico
Definibile forse analiticamente come un insieme di norme giuridiche, un ordinamento giuridico
presenta tuttavia ben più ampie peculiarità che meritano, ad avviso di chi scrive, una più
approfondita disamina.
Norma Giuridica
Lo studio del concetto di norma giuridica presenta senza alcun dubbio numerosi interessantissimi
problemi.
Le diferenti fonti del diritto: atti normativi, giurisprudenza e altro
La giurisprudenza è la scienza del diritto o scienza giuridica. È una scienza non esatta, di tipo
pratico, che studia i processi per agire, ovvero la ragion pratica. Cambiando il diritto cambia anche
il modo di intendere la giurisprudenza. Nell’800, ad opera di studiosi del diritto romano, soprattutto
tedeschi, sono state create ripartizioni e categorie, dando luogo alla disciplina della dogmatica
giuridica, che appunto sistema il diritto con concetti giuridici, schemi vuoti che riguardano il
rapporto fra persone, il contenuto ecc. ovviamente ha carattere nazionale, e vale solo per il civil law.
La scienza giuridica odierna è fondamentalmente dogmatica, poiché si occupa di legiferazione,
ovvero studia i comandi del sovrano, le norme giuridiche. Per la scienza giuridica vale un rapporto
interpretativo – manipolativo col diritto: infatti, trasforma l’oggetto che studia, non limitandosi a
osservarlo come fanno le altre scienze. Infatti, fra le fonti del diritto si hanno:
•
Fonte popolare o sociale (consuetudine)
•
Fonte legislativa (legislatore)
•
Fonte giudiziale (giudici, common law)
•
Fonte giuridica (giuristi, scienziati del diritto)
Oggi siamo in una fase di transizione da una fonte prevalentemente legislativa, a giudiziale.
Fondamentale, quindi, il carattere di storicità del diritto, che ne sancisce la mutevolezza. In un
secondo grado di analisi, troviamo la teoria generale del diritto, scienza che si occupa di
rintracciare aspetti di comunanza nei vari rami del diritto dello stesso Stato. La scienza che si
occupa degli elementi sostanziali comuni a livello sovranazionale è il diritto comparato
(comparazione dei sistemi giuridici). La scienza che si occupa del rapporto fra i vari sistemi
giuridici dal punto di vista formale è la teoria del diritto.
I sistemi giuridici evoluti, specialmente in occidente, hanno in comune la struttura astratta, che
consta di due tipi di norme distinti:
•
norme di condotta, rivolte ai cittadini
•
norme di legiferazione, che speciicano come produrre norme di
condotta, rivolte ai legislatori e gli organi appositi.
Compito della filosofia del diritto è sia la ricostruzione in gradi della conoscenza scientifica del
diritto, ovvero la riflessione critica sulla giurisprudenza, sia la riflessione immediata sul diritto
stesso.
Il diritto è un prodotto culturale, il senso della nostra vita è dato dalla produzione culturale che
forma la precomprensione del mondo. Esistono ovviamente anche precomprensioni giuridiche da
cui dobbiamo partire per la nostra analisi. Infatti, il diritto esiste nella nostra vita nel momento in
cui è applicato come tale, nell’atto stesso dell’esecuzione (o disobbedienza), come la musica.
Le regole giuridiche
Le regole giuridiche hanno carattere normativo, ossia esistono anche se violate; mentre la regola
"regolare" non esiste se è violata: non è vero che tutti usano mezzi di locomozione per spostarsi, se
esiste anche una sola persona che va a piedi. La regola deve essere guida delle azioni umane (non
devo accettarla per timore); ciò presuppone sia la razionalità, responsabilità e libertà del soggetto,
sia la propensione umana a seguire regole giuridiche; nella maggior parte dei casi la ragione
giuridica prevale sulle ragioni personali e di utilità (non disattendo un divieto anche se sono sicuro
che nessuno lo scoprirà mai).
Caratteristiche della regola normativa sono: il criterio di giudizio, il collegamento a una
disposizione, la funzione di guida. secondo l' imperativismo il diritto consiste essenzialmente di
comandi e, dunque, la norma giuridica è essenzialmente un comando, intesa come una
manifestazione di volontà espressa in forma imperativa e sostenuta dalla minaccia di un male
(sanzione); spesso, riducendo la norma a comando, è anche una forma di riduzionismo. La regola
giuridica si configura quindi, come schema di qualificazione del comportamento sociale:la norma è
solamente un dover essere che qualifica un fatto. Tale versione del positivismo giuridico
ottocentesco spiega la normatività del diritto attraverso quello che Hart chiama il “modello del
bandito”: ciò che rende obbligatorio il comportamento prescritto dalle norme giuridiche è, in ultima
istanza, l’esistenza di sanzioni che si applicano nel caso di trasgressioni. Secondo Hart questa
concezione dell’obbligo giuridico appare una distorsione. Il bandito, infatti, attraverso le minacce,
induce un determinato comportamento ma non rende quel comportamento obbligatorio in senso
proprio. Il diritto, al contrario, sembra essere in grado di produrre obblighi genuini. Ciò è
comprovato anche dal fatto che, in relazione alle prescrizioni previste dalle norme giuridiche,
espressioni come “si ha l’obbligo di …” o “si deve …” sono, da un punto di vista semantico,
perfettamente adeguate; questo significa che la normatività del diritto non può fondarsi su ragioni
prudenziali ma deve essere ricondotta a ragioni morali.
Elementi della regola:
•
Descrizione fattuale di un comportamento
•
qualiicazione di un comportamento attraverso le tre modalità deontiche
(comandato, vietato, permesso)
•
Giustiicazione della regola attraverso la ragione.
La regola giuridica si distingue dalle altre regole:
•
per l’origine, ovvero la fonte che la origina, che ne sancisce la validità o
meno
•
per i destinatari; infatti l’impresa del diritto è di far convivere estranei, in
una visione sempre più vasta e cosmopolita.
•
per la struttura formale della legge come regola generale(rivolta a
categorie di persone) e astratta (il comportamento previsto deve essere
la fattispecie astratta, e non un singolo comportamento). Alcuni
adducono motivazioni di tipo pragmatico che oscurano il principio di
difesa del diritto, attraverso l’obbiettività del sovrano che deve legiferare
seguendo il principio di legalità.
La regola giuridica non ha un unico modello; infatti spesso articoli della costituzione esprimono
principi anche senza la fattispecie, ovvero hanno una struttura formale diversa (più che altro sono
indirizzi). Stessa cosa valga per le clausole nel diritto privato. Inoltre, ogni regola giuridica ha un
fattore ineliminabile d’indeterminazione, poiché il legislatore quando opera ha in mente determinati
comportamenti; quando se ne presentano di simili, è compito del giudice interpretare la norma,
avvalendosi di discrezionalità (ciò garantisce una certa flessibilità).
La validità è una qualità essenziale di una norma giuridica; altre qualità sono l’efficacia (obbedita o
comunque applicata) e la giustizia. I normativisti sostengono che la validità è l’unica caratteristica
essenziale e intrinseca della norma. Le teorie realistiche affermano che una norma inefficace non è
valida; del resto una norma decade per desuetudine. Il giusnaturalismo difende la tesi che un diritto
ingiusto non è diritto, ovvero la giustizia deve essere concorrere alla natura della norma
(Agostino:”una norma ingiusta è una degenerazione della norma”); i giuspositivisti al contrario
escludono la giustizia fra i criteri di validità. Se dovessimo decidere la giustizia di ogni norma,
getteremmo il digito nell’incertezza; tuttavia è sbagliato dire che la giustizia è esterna al diritto. In
casi estremi è evidente l’ingiustizia di una norma che ci spinge a non accettarla. Ciò che nella
normalità ci spinge a obbedire a leggi ingiuste è la promessa di giustizia che il diritto racchiude in
sé.
Sanzione giuridica
Norme giuridica = precetto + sanzione, che scatta quando il precetto non è ubbidito. Senza sanzione
la norma non è giuridica, tranne che nell’ambito della soft law, tipico del diritto internazionale
(dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948). Le sanzioni, in generale, possono essere
classificate secondo due criteri: • interno-esterno: la sanzione morale è interna, quelle sociali e
giuridiche esterne • informale-formale: le sanzioni morali e sociali sono informali, quella giuridica
formale. La formalità implica che la sanzione giuridica deve essere definita nel quantum, nel modo
e nei tempi in cui deve essere erogata, nel chi è preposto all’erogazione. La norma, quindi, regola la
sanzione, che quindi non si configura come elemento primitivo. Invece le teorie sanzionatorie
sostengono la centralità della sanzione rispetto alla norma. esse sono: normative(Kelsen): la norma
giuridica può essere descritta come un periodo ipotetico: “se succede questo fatto, il giudice deve
applicare la sanzione”. Il destinatario è il giudice e manca l’obbligo del cittadino, quindi il diritto
non è guida del comportamento, ma l’unica guida è il comportamento del giudice. Per Kelsen le
norme di organizzazione sono le più importanti, da cui si deducono quelle di condotta. Da questa
prima tipologia derivano, capovolgendo la prospettiva, le teorie Predittive (Ross): il diritto è una
predizione di ciò che faranno i giudici. Esse hanno una natura realistica e quindi danno rilievo al
principio di efficacia e a un’analisi sociologica. Hanno il difetto di spogliare il diritto della sua
normatività poiché non configurano l’obbligo come un dover essere oggettivo. Per tutte due le
teorie è più importante il comportamento dei funzionari rispetto a quello dei cittadini, poiché il
diritto è un modo per regolare la forza pubblica. Per Kelsen, infatti, “il diritto è una tecnica sociale
usata da sovrano, che, per ottenere un certo comportamento da parte dei cittadini, minaccia una
pena per il comportamento opposto”. La forza privata non è legittima. Ma è necessario controllare
l’uso della forza pubblica affinché non si sfoci nello stato-leviatano, ma per approdare allo stato di
diritto. Quindi bisogna controllare chi dispone della forza pubblica, ovvero le norme si devono
rivolgere ai funzionari. Ma cosi il diritto si allontana dal cittadino e si perde la funzione di guida, e
al contempo si esalta il modello del bandito. Il diritto, nella possibilità di non essere sanzionati,
diventa un’alternativa, ma secondo Viola, la sanzione ha anche un aspetto etico. Infatti sancire vuol
dire approvare (come faceva il senato romano rispetto alle decisioni del popolo). La sanzione dà il
senso del valore del divieto: più è grave la sanzione, più valore si dà al rispetto del precetto. Sarebbe
efficace ma immorale non commisurare la sanzione alla pena. Attraverso il principio della
proporzionalità, il cittadino è in grado di dedurre l’importanza sociale del rispetto della norma. La
sanzione è giudizio di valore. Ultimo compito della sanzione è proteggere i cittadini onesti(che sono
la maggior parte). Guardare il diritto sotto la prospettiva della sanzione significa guardarlo in una
situazione patologica complessivamente minoritaria.
Diritto come insieme d’istituzioni e procedure
Tutto l’ordinamento giuridico è, nel suo complesso, di tipo sanzionatorio coattivo. Non tutte le
norme prese singolarmente presentano sanzioni, ma fanno parte di un sistema di diritto inteso come
“ordinamento di tipo coattivo” (Bobbio). Le norme giuridiche sono ordinate fra loro, non
presentano antinomie. La scienza del diritto moderna parla di sistema giuridico ordinato in modo
logico e in relazione al diritto moderno. Tutto e solo lo Stato produce diritto, secondo la moderna
teoria dello stato, basata sul Codice civile napoleonico. Prima il diritto era prodotto dal basso
(società, giudici …) ora lo stato ha il monopolio del diritto (Weber). L’idea di codice sottolinea un
progetto di ordinamento sociale (al contrario delle raccolte di leggi) sul piano della famiglia, del
contratto, del testamento … Questa prerogativa, peraltro astratta, sta venendo meno col diritto
comunitario. La scienza giuridica controlla la coerenza logica del diritto. Qual è il rapporto logico
fra le norme? C’è un ordine proprio dei sistemi giuridici? Kelsen sostiene che esiste un criterio di
organizzazione proprio del diritto; quando si parla di un sistema di norme, in generale, esso è di tipo
gerarchico. In un sistema di norme morali, la norma inferiore è dedotta in un rapporto logico con
quella superiore, ovvero è implicitamente contenuta. Il sistema morale è statico, ovvero il contenuto
non si aggiorna mai. Il sistema giuridico è dinamico e funziona attraverso il principio di
delegazione. È un susseguirsi di atti di volontà che generano norme. Un’autorità delega a un’altra
autorità, attraverso norme, il potere normativo. Esiste comunque anche un rapporto di contenuto,
ciò è evidente con la costituzione che non dispone soltanto, ma contiene diritti che devono essere
rispettati anche dai poteri inferiori, pena l’invalidità delle norme emanate. Il potere normativo
deriva dalla Grundnorm e, scendendo la piramide normativa, si restringe. Anche il giudice ha potere
normativo nella scelta interpretativa. Affinché persista la piramide normativa, è fondamentale che
rimanga in ogni livello un minimo di discrezionalità, senno vi sarebbe pura deduzione,. Il diritto
crea obblighi dal nulla. Prima di fondare la Grundnorm c’è o il potere dell’uomo sull’uomo o la
norma stessa, nata da un bisogno etico.
Il diritto è fatto da procedure
È eccessivo parlare di proceduralismo, ma il diritto è fatto anche da procedure, ovvero processi di
azione volti a conseguire il risultato, la norma, la cui validità risiede appunto nella giusta
applicazione della procedura. Dobbiamo avere certezza che l’autorità vuole veramente emanare la
norma. Il diritto è pieno di procedure perche vuol coordinare le azioni sociali. Accanto alle
procedure ci sono le garanzie, procedure volte a garantire principi e valori fondamentali per
l’ordinamento. Cerca di evitare che si verifiche un certo risultato, prevenirlo senza dover poi
rimediare on una sanzione (per esempio garantire l’impossibilità di un arresto ingiustificato prima
che avvenga). Il diritto secondo Habermas si può presentare come medium, neutrale: non dice ai
cittadini come fare, ma fornisce solo dei modi d’uso per agire. Non ha propri fini ma fornisce mezzi
per realizzare i fini dei cittadini. Per alcuni il diritto ha anche radici sociali: dalla società ci vengono
forme giuridiche che si creano da sé. La società fin dall’origine non p composta di individui che si
aggregano , ma da istituzioni sociali; il diritto è già sorto nel momento in cui è creato da queste
istituzioni preesistenti: è il mondo di relazioni che costituisce il diritto (famiglia◊diritto di famiglia).
Una teoria che sostiene che il diritto è l’istituzione, che quindi viene dalla società (al contrario di
quanto si possa immaginari in ambito normativistico) è una teoria istituzionale. Una di queste,
diffusasi in Italia grazie al libro “ordinamento giuridico” di S. Romano, è figlia delle prime forme di
sindacalismo e dei primi partiti dei lavoratori. Infatti afferma che il diritto ha un’origine
involontaria, perche esistono delle forze sociale che per combattere meglio e raggiungere gli
obbiettivi, si aggregano e si autoregolamentano, stilando come primo atto uno statuto per la
divisione dei compiti e dei poteri. Il diritto quindi non ha un’origine naturale (perche Romano non
fa appello a diritto giusto innato), né volontaria perche non è emanata da una volontà superiore, ma
nasce internamente alla società in cui vige (andando contro l’impostazione kantiana di legge morale
interna e legge giuridica esterna). Il diritto quindi è un’organizzazione, ovvero un insieme di organi.
infatti la costituzione nella prima parte esplicita valori, nella seconda organizza l’apparato in organi
[l’uso di un linguaggio anatomico risale all’antico complesso di inferiorità che il giurista soffre sin
dal medioevo rispetto alle scienze naturali]. Esiste una pluralità di ordinamenti, a volte conflittuali.
Per esempio la mafia possiede propri organi e regole, e non è antigiuridica in se, ma se vista dal
punto di vista dell’ordinamento statale. Anche la chiesa ha i suoi fini e regole e può intrattenere
rapporti d’intesa con lo stato che ingloba alcune sue istituzioni (tende a essere l’unico sistema).
Oggi abbiamo l’ordinamento giuridico europeo. Quindi secondo Romano il diritto è in funzione di
obbiettivi sostanziali (eticamente neutri).Ma si perde il lato coordinante, si da eccessivo risalto alla
cooperazione (che appunto necessita di organizzazioni). Teoria cooperativa riduttiva se
assolutizzata. Inoltre, le regole di organizzazione interne sono volte alla tutela delle persone, quindi
hanno una funzione organizzativa e di garanzia. La nuova impostazione istituzionalista vede nel
diritto una forma di pratica sociale. == diritto come pratica sociale ==
è una visione molto più comprensiva delle altre. Una pratica sociale è una forma di attività umana di
tipo cooperativo volta a praticare valore interni (immanenti nella pratica) mediante forma di vita
corrette. Nella pratica sociale l’atto che si compie è la realizzazione stessa della pratica (Cortesia,
moda, etichetta …) Ci sono delle regole che sanciscono la correttezza dei comportamenti, che
variano da epoche storiche a luoghi, a classi … Il diritto quindi non è una mera tecnica sociale
perche ha dei valori interni. Questa concezione è stata precorsa da Hart nel 1965 con “il concetto di
diritto”, in cui si discosta da Kelsen. Possiamo osservare il diritto da un punto di vista esterno, come
fa la storia o la sociologia che descrivono le regole della società, ovvero da un punto di vista
interno, cioè dal punto di coloro che lo usano,che lo considerano una guida e una ragione per il loro
comportamento, non una costrizione. Il diritto non come norme o comando (Austin), ma come uso
di norme (Wittgenstein). Hart propone una gerarchia inversa a quella kelseniana: norme primarie
impongono obblighi nelle tre forme della modalità deontica, le norme secondarie attribuiscono
poteri, necessarie perche le primarie possono avere qualche problema (di mutamento o di creazione,
di applicazione o di giudizio). L’elemento esistenziale del diritto è l’uso. Nel guidare il mio
comportamento io modifico la norma, gli do forma perche la interpreto in modo personale. Il diritto
è azione dei cittadini e dei funzionari, azione sociale e consapevole. Un corso d’azione è conseguito
secondo regole interne. Tipicizzazione delle azioni per individuare cosa si è voluto fare. Se faccio
una compravendita iscrivo le mie azioni in una determinata categoria che implica certe regole. La
promessa è naturale, ma il diritto delimita un iter preciso per compierla cosicché non si può non
mantenerla. Formalizza azioni sociali che quindi rende artificiali. La società è un insieme di azioni
che costituiscono reti di rapporti fra i soggetti. Posso mettere ordine nelle azioni sociali secondo il
criterio della comunanza dei mezzi o dei fini. Il contratto è un’azione sociale comune nel mezzo. Le
azioni collettive, comuni nel fine, rappresentano forme di cooperazione per un fine comune
irraggiungibile singolarmente. Quando il diritto deve tipicizzare un’azione, tiene conto di alcuni
fattori:ruolo dei partecipanti(ruoli eguali - diseguali), struttura gerarchica (direttivo-esecutivo),
fruizione del risultato (singolarmente-in comune). L’azione è sempre individuale (i modelli esistono
per semplificare l’analisi) ed è un fatto concreto quindi il diritto è un fatto per decidere del fatto
singolo. Tra la norma astratta e il caso concreto abbiamo il modello della sussunzione del caso
concreto nel caso tipicizzato, e il metodo della concretizzazione (prima si guarda il caso concreto,
poi si prende la norma più simile e per processo di avvicinamento della norma affinché risponda al
caso concreto). L’idea del DIPU è che gli individui devono cooperare per costruire la società. Il dpr
è stato sempre il più approfondito e messo alla base delle categorie giuridiche fondamentali, ma ,
poiché il diritto svolge funzioni sociali, è altrettanto importante il DIPU. Con lo stato i due diritti si
sono uniti e possiamo parlare di funzioni sociali del diritto che distinguono le varie forme di stato.
Stato liberale funzione di controllo dell’ordine sociale e corretto funzionamento delle istituzioni
fondamentali e risoluzione di liti (guardiano notturno)◊ obiettivo di coordinazione
lo Stato sociale ha non solo controllo sociale, ma anche direzione sociale: lo stato vuole dirigere i
cittadini verso certi obbiettivi, tramite norme promozionali (riguardanti i fini; da ciò discende una
funzione di cooperazione I nostri stati sono mescolanze più o meno eterogenee di questi due
elementi. Il diritto presta particolare attenzione a quelle azioni comuni e a quelle relazioni
intersoggettive in cui sono in gioco valori e beni di rilevante importanza sociale. Sono sempre
riconducibili a relazioni fra persone. • Unione tra le vite (esplicato dal diritto di famiglia, dalla
comunità, dalla politica …) • Unione tra le volontà, più fugace (per esempio il contratto) • Unione
tra la vita e le cose (per esempio la proprietà, importante perche è indirettamente una relazione con
l’altro che non ha diritti sulla res)
Ruolo del diritto nella società
Concezione funzionalista (Luhmann, sociologia del diritto): qual è il ruolo del diritto (in senso
descrittivo, non prescrittivo)? Pensiero conservatore, il diritto ha una funzione di stabilizzatore
sociale che rende armonici i vari segmenti mutevoli della società. Ma non è l’unico ,meccanismo:
sistema politico, culturale … Luhmann ha costruito una teoria dei sistemi sociali in cui il diritto è
uno dei sottosistemi del sistema sociale in generale e la svolge a suo modo attraverso criteri binari
(lecito/illecito). Concezione conflittualista(Marx): il diritto occulta i rapporti di forza tra le classi
anche se vede la società come movimento, la funzione è simile a quella di Luhmann: il diritto ha
sempre l’etichetta di stabilizzare, garantire e non di rivoluzionare (la rivoluzione permanente non è
tollerabile per l’uomo). Gli elementi da coordinare sono i tipi di azione (mezzi o fini), i tipi di beni
che ne sono l’oggetto, le finalità (coordinazione o direzione sociale) e i valori comuni dei
partecipanti (non si coordina l’uomo in astratto, con il pluralismo esasperato è diventato un dramma
trovare dei valori fondamentali comuni). Analisi economica del diritto: il diritto deve essere
sottoposto a criteri economici: ogni diritto costa(per esempio processi lunghi). Monetizzazione del
diritto fino a vendere i propri diritti (disumano) ma ci sono settori come quello commerciale dove
questa analisi è parzialmente pertinente.
Teorie di coordinazione sociale
La teoria della scelta razionale, nata in ambito economico, in seno all’analisi economica del diritto,
è costituita da schemi di logica che riguardano la coordinazione di persone con preferenze diverse;
essa presuppone che l’uomo sia un massimizzatore dell’utilità (homo oeconomicus) .Se ho un
vantaggio compio l’azione, senno no, preferisco un’azione a vantaggio maggiore a una minore. Se
due uomini vogliono negoziare devono rinunciare al massimo raggiungibile e accontentarsi del
maxmin. L’uso della teoria della scelta razionale che ordina le preferenze sociali in modo
economico, si collega al più vasto problema dell’applicazione al diritto teoria dell’interazione
strategica. Chi ha delle preferenze cerca di capire le preferenze altrui in modo da modificare le
proprie per massimizzare il maxmin. La coordinazione sarebbe connaturata nella società come
gioco della previsione delle preferenze. Vi sono impercettibili aggiustamenti interni nei rapporti tra
singoli. Sono varie le critiche a questo modello: • Nash ribatte che anche l’uomo egoista preferisce
cooperare. Dal dilemma del prigioniero emerge che, anche se non possiamo comunicare, conviene
cooperare. È meglio non applicarla comunque al diritto perche nella società reale la comunicazione
è importante (la teoria strategica vuole eliminare qualsiasi distorsione nell’informazione, come gli
imbrogli). • Del resto esiste veramente solamente l’aspetto economico? Il diritto si occupa anche di
aspetti non economicizzabili come la famiglia, la vita che trascendono l’unilateralità dell’uomo
economico. • Il modello dell’homo oeconomicus rende tutti uguali (liberalismo) per poter analizzare
il comportamento, sacrificando, come sostenne Arrow, la diversità dei partecipanti, tutelata dal
diritto, che spesso non pensano in termini di massimizzazione dell’utile. Perche il diritto si occupa
di coordinazione?Il diritto presuppone che ci sia la presenza di un interesse a cooperare in ogni atto
di tipo collettivo. Il diritto è necessario sia nei problemi di coordinazione pura (in cui è sicuramente
presente l’interesse a cooperare) sia di coordinazione non-pura in cui non vi è interesse a cooperare
(il caso dello sfruttatore). Interdipendenza normativa La teoria della scelta razionale è una forma di
interazione strategica di tipo descrittivo, fattualistico e sociologico. Mentre essa si basa su ciò che di
fatto i partecipanti vogliono, la teoria della interdipendenza normativa si basa su ciò che i
partecipanti devono volere(prescrittiva). Il diritto infatti afferma che ci sono problemi di
coordinazione talmente seri da dover intervenire con normatività; il metodo dell’obbligo (artificiale,
positivo) rende l’interazione normativa una teoria della regola e rende necessaria l’autorità che
ponga il dover essere (assente nella teoria della scelta razionale).L’obbligo giuridico (diverso dalla
costrizione) avvicina il diritto alla sfera della morale, cosicché i doveri normativi devono essere
sentiti come obblighi morali e non come mero atto di forza; il diritto quindi si pone fra morale (ma
autorevole) e forza (ma ritenuta legittima). La teoria convenzionalista dell’obbligo afferma che il
diritto si fonda sull’accettazione da parte della società delle autorità giuridiche; quindi il potere è
legittimo perche la società si è auto-obbligata, attraverso un contratto sociale. È evidente
l’accettazione delle regole dal comportamento degli utenti del diritto (visione realistica di pratica
sociale di Hart e seguaci). La concezione dell’obbligo legittimato da accettazione per Viola è
necessaria ma non sufficiente perche non chiarisce il profilo dell’applicazione delle regole. Infatti
alcuni le interpretano correttamente, altri no (per questo sono necessari i giudici). Questo può essere
spiegato solo da una teoria normativa dell’obbligo giuridico che intende il diritto come fatto
dall’uomo, ma che ha anche un significato in se (amorale). La norma non ha il significato che le
attribuiscono gli utenti. Bisogna quindi comporre le due teorie: per giustificare l’autorità ho bisogno
del consenso (fondazione del sistema giuridico) ma poi si basa su quello che le norme dicono
effettivamente (infatti IURISDICO non vuol dire fare il diritto ma dirlo). Quindi il diritto una volta
creato ha una dimensione morale che implica un dover essere. Il diritto nasce con i giudici perche le
liti giuridiche nascono sul modo d’intendere le regole e non si fa un referendum su come la società
le intende, ma è il giudice a stabilire la corretta interpretazione. Il diritto può essere quindi anche
inteso come insieme di schemi normativi di interpretazione delle intenzioni dei partecipanti alla vita
sociale. Per capire le intenzioni dei cittadini bisogna usare il diritto, non il contrario come sostiene il
convenzionalismo. Per questo vengono creati standard d’interpretazione non modificabili, in modo
da poterci veramente coordinare◊aumenta l’affidamento sociale. La teoria convenzionalista cmq
giustamente dice che il diritto richiede l’accettazione attiva, il cum-sensum, implicando
un’accettazione relazionale non propria dell’homo oeconomicus ma socialis. Per Rawls il sistema di
cooperazione deve essere equo, cioè basato sull’uguaglianza. Ma per viola è fondamentale anche
l’interdipendenza delle persone: il diritto esclude l’individualismo assiologico, dove il singolo è
realizzato da sé; e la società è un mezzo per raggiungere certi fini, essa è irrealistica perche l’uomo
è un animale sociale, interdipendente, ci sono relazioni sociali costitutive dell’uomo. Esiste anche
l’homo socialis e il diritto contempla tutte e due gli aspetti perche non ha una competa antropologia:
mira all’ordine sociale senza imporre un tipo di uomo preciso, ma con il vago intento di umanizzare
la società. Per il diritto noi siamo trattati uguali poiché simili (ma non uguali). Ciò implica
l’uguaglianza formale nella diversità sostanziale. Cioè è messo particolarmente in luce dalla
formulazione positiva e negativa della regola aurea, che esplica il principio della reciprocità e
suggerisce che la vita degli altri vale quanto la mia. Questo è a fondamento del metodo della
ragionevolezza: non posso pretendere dagli altri cose che non possono accettare. Quindi la
ragionevolezza è fondata sul principio d’eguaglianza e viene usato nei casi di conflitti fra diritti.
Quindi il diritto è un equo sistema di cooperazione sociale, secondo il principio della
ragionevolezza, che porta alla reciprocità, base della cooperazione.
Il conlitto
Le ragione del conflitto non sono meramente economiche, ma anche la fragilità e l’imperfezione
dell’uomo, la scarsezza delle risorse, l’inconciliabilità dei bisogni … possono essere fra individui,
culture, religioni (spesso incarnate nei conflitti individuali). Conflitto di interessi (spesso di logica
economica) risolvibile con la negoziazione, col metodo dell’autorità, con l’argomentazione
(richiede soggetti disposti alla dimensione della reciprocità), col voto (non dialogico), col sorteggio.
La negoziazione riguarda sia il diritto privato sia quello pubblico (per esempio il parlamento).
Conflitti di riconoscimento della propria identità: è chiesto alla comunità politica e può non essere
dato, ma sempre in una logica binaria, non esiste riconoscimento negoziabile. Ci sono delle identità
che esistono in relazione ad altre (no global/global). Se non viene riconosciuto, si nega l’umanità
del soggetto disconosciuto. Di solito è affrontato dal diritto Cost. che racchiude i principi generali di
tutela dei diritti della personalità. Conflitto ideologico sono in questione concezioni generali sul
mondo e sulla vita, e poiché ognuno è sicuro della propria ricerca del bene e del vero, è meglio
mettere tra parentesi le concezioni omnicomprensive della vita e confinarle nel privato (Rawls).
Quest’idea si accompagna a una concezione dello stato come neutrale rispetto ai valori, che implica
che il conflitto deve essere tollerato nel privato e risolto con la liberta democratica nel pubblico (a
maggioranza). Il diritto si astiene per quanto possibile. Ma lo stato deve coltivare dei valori e cmq
deve prendere sempre più spesso posizione. E ovviamente il metodo democratico deve essere
deliberativo, ovvero accompagnato da argomentazione: l’avere la maggioranza non dà ragione. La
giustizia in generale Ci sono dei valori, beni che solo il diritto può assicurare? La giustizia. Noi
vogliamo un ordine sociale giusto; se è ingiusto è per le imperfezioni umane. I romani definivano il
diritto ius boni et iusti. Per la morale la giustizia è una delle quattro virtù cardinali, per la religione
riguarda dio (teodicea), se ne occupa anche la politica … La giustizia fondamentalmente riguarda
l’azione e indirettamente le persone e le regole. Dobbiamo distinguere la giustizia dalla correttezza
(azione appropriata al fine).Se il fine è giusto, da esso traiamo la giustificazione di un’azione,
ovvero possiamo trovare ragione per agire in un modo concreto.
Giustizia legale o giuridica
Secondo il diritto , una’azione è giusta se conforme ad una regola valida. Chiarisce il profilo della
correttezza, ma non della giustizia del fine (ovvero la giustizia della regola). La giustizia in generale
vuol dire rendere a ciascuno il suo. Si compone di tre elementi:
•
l’alterità (unica virtù che pretende l’altro) comunic-azione-cooperazione
•
Debitum, il dovuto, l’oggetto della giustizia, ciò che devo dare all’altro
dovere
•
Criterio del giusto: uguaglianza, principio formale del “trattare in modo
eguale tutti” siamo di valore eguale anche se di fatto diseguali/trattati
egualmente. L’uguaglianza sostanziale sembra tutelata solo in alcune
politiche di solidarietà, ma nasce proprio dall’eguaglianza formale,
attraverso il principio di ragionevolezza.
La giustizia ha una funzione di misura, criterio di valutazione dell’azione. Commisurazione dei
rapporti intersoggettivi. Nella giustizia si realizza il riconoscimento dell’altro come equivalente ma
diverso, attraverso il p. della ragionevolezza. La giustizia è in sentimento. Kelsen”giustizia ideale
irrazionale”, si è perciò scritto poco sulla giustizia. Ma il sentimento può rivelarci ragioni nelle
nostre azione che l’intelletto non vede. Quindi bisogna coniugare ragione e sentimento. Il concetto
di giustizia legale è imperfetto (anzi può portare ad una moltiplicazione di atti ingiusti) ma è alla
base del principio di legalità. Diritto come tecnica per la giustizia legale (ma è anche fine!). La
giustizia correttiva riguarda rapporti volontari non rispettati, o involontari in cui bisogna riparare il
danno. Questa giustizia presuppone le spettanze, o poteri (in sintesi il diritto). Si riteneva propria del
diritto. Oggi anche nelle società occidentali ai procedimenti di giustizia si sostituiscono elementi di
mediazioni, tipici del mondo orientale, dove obiettivo del diritto è la pacificazione. Nel diritto
penale e minorile le forme di mediazione giuridica si allontanano dai poli di giusto e sbagliato e
mirano alla pace sociale. Società del rischio, in cui abbiamo bisogno di assicurazioni : noi vogliamo
tutelarci dai rischi, creati soprattutto da noi in situazioni non essenziali. Vogliamo trasferire ad altri
le responsabilità dei rischi assunti ma anche miei diritti. Il diritto guarda alla giustizia dell’azione,
senza guardare all’animo. La giustizia come virtù in questo senso forse è immorale, ma necessario.
Per Aristotele un atto è giusto se compiuto da un uomo giusto. Quest’idea è tipica di una società
omogenee. Nella nostra epoca è necessaria una configurazione oggettiva della giustizia come
norma. La giustizia politica è inerente alle istituzioni e non alle singole situazioni. Rawls rompe la
tradizione emotivi sta della giustizia nel 1971 con “una teoria della giustizia”, rianimando il
dibattito sulla possibilità di una giustizia politica. Rawls parla di giustizia come equità,
ragionevolezza (fairness), correttezza. Ci troviamo in una società pluralista (concezioni diverse sui
massimi sistemi): ciò ci obbliga a una mera sopportazione reciproca? Essendo un contrattualista,
compie un esperimento mentale in cui i fondatori della società devono creare delle istituzioni giuste,
nell’ignoranza della posizione che ricopriranno nella società futura. Nella posizione originaria
accetteranno solo regole ragionevoli per qualunque condizione futura (come fecero i padri pellegrini
alla volta di New England), caratterizzate da reciprocità e cooperazione. Gli individui devono essere
trattati da liberi ed eguali, qualsiasi miglioramento dei più ricchi sarà accettato solo se porterà un
miglioramento eguale per i più poveri (criterio della differenza). La giustizia è dare a ciascuno ciò
che gli spetta di diritto. Il diritto soggettivo è un legame di spettanza fra il soggetto e il bene. I
romani non avevano il concetto pieno di diritto soggettivo, perche usavano il termine “iura” per
indicare un insieme di situazioni personali (anche sfavorevoli). Per noi i diritti sono momenti di
affermazione del soggetto, per questo sono in generale umani. Quindi soltanto il concetto di uomo
ci può dire cosa è favorevole. Negli stoici, Socrate, Aristotele, Platone vi era l’idea che i beni della
terra appartenessero a tutti, indipendentemente dal proprio credo. Originaria proprietà comune delle
cose. Come si passa da una spettanza comune dei beni al regime attuale di divisione, in maniera
giuridica, ragionevole? Ugo Grozio (giurista olandese del ‘500, fondatore del diritto internazionale
col “de iure belli ac pacis”) sostiene che all’origine c’è qualcosa che possediamo: il corpo e beni
spirituali che costituiscono un piccolo patrimonio personale sul quale abbiamo un diritto. Il rapporto
che si instaura fra l’io e il mio è di disponibilità: il soggetto ha facultas moralis o potere morale di
disposizione della res, e suscita obblighi negli altri. Il diritto soggettivo quindi è un potere morale
sugli altri in relazione alle cose. Se io ho diritto al mio corpo ho anche diritto a tutto ciò che è
collegato al mio suum. Tutto ciò è fondamentale a mantenere il mio patrimonio personale e oggetto
di mio diritto. Fa sorgere dei titoli validi per poter rivendicare una cosa come mia (Che prima
avevano tutti), che si ottengono partendo dal titolo valido del “suum”. Bisogna ribadire che il
riconoscimento del titolo valido per la spettanza è la questione centrale in questo dibattito. Come
faccio a dire che un’azione è mia? Se compio un’azione utile nei confronti tuoi, è anche tua. Quindi
l’idea del diritto di proprietà è originari e tra proprietà e liberta per Grozio c’era uno stesso rapporto.
Il carattere matrimoniali stico del diritto soggettivo sulle azioni. Allora posso vendere le mie azioni,
il mio potere morale sulla cosa: alienatio particulae nostrae libertatis. Quindi la liberta è alienabile.
Quindi questa concezione non si applica ai diritti umani, oggi (prima si inseriva nel dibattito sulla
schiavitù). Far corrispondere forzatamente il diritto mio al dovere tuo è compito dello Stato, fondato
su un patto sociale tra proprietari◊individualismo possessivo. Il diritto di proprietà è un diritto
perfetto, perche fa corrispondere al diritto un dovere.
Quindi non solo Dio crea obblighi morali, ma anche la società, e sono obblighi immanenti.
Teorie dell’origine del diritto soggettivo
La garanzia del mio diritto e quindi lo stato grazie al diritto perfetto (titolo valido accompagnata da
pena in caso di sanzione). Secondo Grozio, i proprietari fanno un patto sociale creando lo Stato
fondato sul diritto soggettivo. I giusnaturalismi seguono quest’interpretazione. Ma col tempo il
ruolo dello stato è diventato sempre più importante: è la volontà dei governanti a determinare i titoli
validi! Un romanista tedesco, , fornisce una definizione dogmatica:” il diritto soggettivo è potestà
della volontà conferita dall’ordinamento giuridico. “ quindi non esistono diritti per natura e si sfocia
nello statalismo. Locke si pone il problema del passaggio da una comunanza dei beni ad un regime
di proprietà per titoli validi. Sostiene che all’origine ognuno aveva diritto su tutto, ma col lavoro
aggiungo qualcosa alla natura, acquisendo un diritto maggiore rispetto agli altri. Il surplus, il valore
aggiunto, viene ripreso dall’economia classica e da Marx. Non ho il diritto di sprecare il frutto del
mio lavoro: divieto di accumulare cose imperiture (visione cristiana). Pero si passa ad un regime di
mercato grazia all’uso del denaro come merce di scambio. Il pericolo di questa teoria è che si
inneschi una disuguaglianza eccessiva, tipica del regime liberale.
Teorie del diritto soggettivo
I diritti come scelte giuridicamente protette (Hart). La scelta è protetta sia nell’esercizio sia nel
risultato. “l’individuo è come un piccolo sovrano delle sue cose” del resto il codice napoleonico
definisce il diritto di proprietà come “ius utendi ac abutendi”. Pero questa teoria riduce la capacita
della persona alla scelta: e i bambini non hanno diritti soggettivi anche se non sono in grado di
scegliere? diritto come interessi giuridicamente protetti (Jhering). L’interesse, che non è un potere
ma un’utilità, può essere il fondamento del diritto soggettivo. Pero è una visione paternalistica,
perche è lo Stato che decide cosa è nell’interesse di chi. Queste concezioni sono tutte di carattere
patrimonialistico perche i diritti soggettivi sono rapportati a beni materiali e immateriali collegati
all’Io. Lo stesso corpo è visto come bene posseduto, da cui deriva un’idea materialistica della
liberta come proprietà del proprio corpo. Ma questa scissione cartesiana dell’io dal corpo è
rispettosa? Esistono dei diritti che abbiamo per il solo fatto di essere uomini? La categoria del
diritto soggettivo non può essere usata per i diritti della personalità perche troppo segnata da una
visione paternalistica che conduce ad una materializzazione dell’io. Alcuni sostengono che i diritti
siano solo degli individui perche temono che la sopravvivenza di un diritto collettivo subordini
l’esigenza di diritti individuali. D’altra parte non si può negare l’esistenza del diritto
all’autodeterminazione dei popoli, importante per la fine del colonialismo e sancito nei primi atti
dell’ONU.
I caratteri dei diritti umani
I caratteri dei diritti umani sono: universalità: appartengono a tutti gli uomini
indisponibilità :sottratti al potere del titolare inviolabilità : non sono sopprimibili ma solo limitabili
a certe condizioni e non tutti (la tortura è inammissibile) imprescrittibilità: non ci sono prescrizioni
contro la violazione di diritti umani i diritti fondamentali sono quei diritti umani costituzionalizzati,
fondamentali per un dato ordinamento. È una nozione tecnica. I diritti configgono perche sono
applicazione di valori contrastanti. Sorge il problema del bilanciamento di diritti paritari. Il diritto
che effettivamente si ha è sempre una limitazione di quello astrattamente proclamato. I diritti sono
insieme particolari e universali. Devono valere per tutti ma per essere rispettati hanno bisogno di
sanzioni erogate dai regimi politici, dagli stati in concreto. La particolarizzazione è necessaria
perchè esista il diritto; la sfida delle carte regionali è concretizzare e declinare i diritti umani nelle
varie culture interessate. Quale antropologia c’è dietro i d. umani?per quelli soggettivi è l’homo
oeconomicus. Ve n’è una pluralità, alla quale si collegano valori basilari.
L’antropologia individualistica concepisce l’individuo in quanto tale, completo prima di entrare in
società (atomista). Per primo difende il valore dell’autenticità: avere la liberta di esprimere la
propria identità, essere riconosciuto per quello che si è, senza discriminazioni, anche se non lo si è
scelto. È la liberta di esprimere il proprio pensiero. È collegato alla liberta religiosa concepita dai
puritani:” lo stato non deve impedire di espletare la missione che Dio mi ha affidato”. L’art 1 della
Cost. degli USA è il divieto di una chiesa di stato, che sancisce la liberta di compiere il proprio
dovere. Oggi si va riscoprendo, con i diritti culturali, delle donne, delle persone omosessuali … son
tutti diritti identitari. Poi sorge l’autonomia che è il diritto di essere legge a e di se stessi, di poter
scegliere ed essere rispettato nelle proprie scelte. • L’antropologia relazionale sostiene che
scopriamo noi stessi solo nel rapporto con gli altri. Homo socialis che spinge alla solidarietà, al
valore della cooperazione. • L’antropologia situazionale sostiene che l’uomo non è un essere neutro,
non esistono diritti legati ad un uomo astratto: l’uomo è sempre in situazione e i diritti sono di
modelli qualitativi: diritti del bambino, del malato, dell’anziano … pur condividendo tutti la stesa
dignità. Questa è la sfida dell’uguaglianza nella differenza: trattati come uguali anche se diversi.
Tradizione dei diritti naturali I d. naturali devono avere una positività come tutti gli altri, ma esiste
un diritto naturale non prodotto dalla volontà umana? Non parliamo di valori come la dignità e i
moral rights, ma di diritto, norme giuridiche non create né da diritto legislativo né dalla
consuetudine. Nel processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, essi si difendevano dicendo d’aver
ubbidito alla legge dello stato, ma sono stati puniti perche non hanno disobbedito a leggi ingiuste, in
nome di un diritto naturale. L’immagine storica dei d. naturali si fa risalire all’Antigone di Sofocle.
Creonte pone la legge che vieta la sepoltura dei nemici di Tebe, ma la nipote Antigone seppellisce il
fratello nemico dello zio. Viene condannata, ma lei si difende in nome della legge naturale della
pietà religiosa. Creonte deve punirla in nome della legge naturale che impone il rispetto dello Stato.
La legge di Antigone riguarda i fini dell’umanità, quella di Creonte dei mezzi di mantenimento della
convivenza sociale. Il giusnaturalista sostiene l’esistenza di una legge naturale all’interno del diritto
positivo o addirittura in posizione superiore. I giuspositivisti sostengono che i valori morali sono
estranei al diritto, non sono giuridici. Diritto e morale sono connessi o no? La comprensione dei d.
naturali è storica: ogni epoca giuridica, ogni concezione del diritto positivo è accompagnata, come
un’ombra, da una del diritto naturale. Nel corpus giustinianeo è presente il d. naturale in tutta la
compilazione, ma soprattutto nella parte fra ius gentium e ius civilis: nello ius naturalae (anche se
non ben descritto). Tutta la stratificazione sociale per i romani era un ordine naturale. ancora oggi la
famiglia è chiamata società naturale. Normalità dei rapporti sociali, non normatività, non
artificialità, ma naturalità. Perciò la scienza del diritto è lo ius iusti e iniusti. Il diritto positivo è
contingente, quello naturale rispetta la normalità. Per i romani quindi è una legge immanente, non
divina: è la natura delle cose. A questa visione oggettiva riguardante l’ordine sociale, si oppone una
visione soggettiva condotta dal giurista e filosofo stoico Ulpiano che definisce la legge naturale
come “cioè che la natura ha insegnato a tutti gli animali”: è legge istintiva, psicologica, biologica
che preserva l’esistenza (forse il primo protettore dei diritti degli animali!). Ma prima ancora lo
stoico Cicerone parla di una legge della ragione che ci guida nel comportamento; nel De legibus
(prima trattazione di filosofia del diritto) l’inclinazione naturale (diversa dall’istinto animale) è
iscritta nella nostra vita biologica e sociale. Per primo Cicerone individua tre sfere di inclinazione
naturale che individueranno 3 libelli di istituzionalizzazione: • inclinazione alla vita e alla
sopravvivenza (come Ulpiano) che da luogo a istituti giuridici volti alla protezione della vita
(divieto di omicidio …); • desiderio della continuazione della specie che ci distingue dagli altri
animali poiché il piccolo umano ha bisogno di cure: nasce cosi il diritto di famiglia; • esigenza della
socialità e di ordine sociale attraverso la cooperazione, opera della ragione dalla quale scaturisce il
diritto pubblico.
Questo è il pensiero della legge naturale fino al medioevo, influenzato dal cristianesimo. Nel 1140 il
monaco Graziano raccolse le decretali dei papi, alla base del diritto canonico. I commentatori della
raccolta, i decretasti, erano i giuristi che si confrontavano con i glossatori, commentatori del Corpus
giustinianeo nell’università di Bologna. Graziano dice che la legge naturale è ciò che è contenuto
nella bibbia; anche se legato alla rivelazione cristiana, ma non voleva sottolineare il profilo della
fede: in un passo delle lettere di S. Paolo ci si chiedeva se i pagani si possono salvare se non
conoscono la legge mosaica. Risponde di sì, perche con la loro ragione possono capire i precetti
della legge mosaica. La legge è scritta nei loro cuori: fare il bene ed evitare il male. La novità di
Graziano non è l’aspetto della ragione (ripreso dallo stoicismo), ma che la legge viene da Dio. La
legge naturale è divina, per questo ci obbliga. Nel medioevo dio era il legislatore dell’universo,
secondo un piano: sia legge naturale sia legge della natura, entrambe leggi eterne. Avendo gli
uomini la ragione, possono capire una parte di questo piano: a loro attraverso la ragione Dio ha
messo la coscienza del bene e del male. Tommaso:”la legge naturale è la partecipazione della legge
eterna alla creatura razionale”. Poiché questa coscienza è diffusa in tutti gli uomini, si può parlare di
etica naturale, che non richiede fede. Esiste anche l’etica rivelata, esigenze di amore e di dedizione
che trascendono la coscienza naturale.
Il volontarismo di Occam si secolarizza nell’imperativismo giuridico. altri teologi si avvicinarono al
razionalismo: dio poteva creare come voleva il mondo, ma il quel tipo di mondo i rapporti
dovevano essere definiti. Dio intelletto e non volontà. cmq la legge naturale viene quasi
esclusivamente invocata da chi ha una fede religiosa. Con la modernità viene meno l’unita del
cristianesimo il che implica che i vari cristiani hanno un punto di vista comune solo nella legge
naturale, e non sul piano teologico, proprio perche, come paradossalmente afferma Grozio, “la legge
naturale esisterebbe anche senza Dio”. I valori fondamentali sono indipendenti da dio, quindi sono
obbligatori in misura minore. La legge naturale è la legge della ragione, non più divina! È visto più
come mezzo che come fine. Più alla maniera di Creonte che quella di Antigone. Posto un fine
(salvare la città) devi obbedire al mezzo(legge statale). Hobbes: nello stato di natura (prima delle
istituzioni), vige il bellum omnium contra omnes, dove neanche il più forte può farsi valere a lungo.
Io ho per natura diritto a tutto ciò che è necessario alla mia autoconservazione. Si stipula un patto
sociale che segue i teoremi della ragione (legge naturale): cercare la pace attraverso la cessione dei
diritti. Dimensione della pura utilità, homo oeconomicus. È una legge naturale (che va oltre la scelta
di coscienza) ma dei mezzi (utilità) e non dei fini. Come punto di riferimento nella modernità
abbiamo il Codice Napoleonico, che è il coronamento di 300 anni di riflessione. Esso segna anche
la fine per tutto l’800 del giusnaturalismo. È all’origine dell’epoca della codificazione. Il diritto
codificato è diritto positivo che non riguarda alcuni rapporti sociali, ma una concezione, un
paradigma sociale che si riflette in un piano regolatore di tutti gli ambiti del vivere sociale.
Napoleone aveva una convezione giusnaturalista che ha spazzato via lacune e antinomia del diritto
stratificato, ora sostituito da un testo chiaro di riferimento. Napoleone, mentendo, disse che il codice
non imponeva la sua volontà, ,ma esplicava leggi della ragione naturale. È proprio nel 500-600 che
nascono le facoltà di giurisprudenza moderna:iuris naturalis scientia, che si divideva in varie
branche che studiavano il diritto naturale e il modo più razionale di organizzare la società.
Caratteristiche del giusnaturalismo moderno: condizioni empiriche della natura umana, come
insieme di fatti che si verificano empiricamente (emerge il carattere utilitaristico) e non metafisica
dell’umano. Il problema principale sono le scarse risorse, l’incertezza del futuro e l’imperfezione
umana. Teologia: fini della natura umana; nascono sociologia e antropologia che individuano come
carattere comune primario la self-preservation (fine conservatore). Grazie a questi elementi si opera
una costruzione razionale della società, contraria al concetto romano di normalità. Per Pudendorf,
nel “De iure naturale et gentium” del 1672, l’uomo è afflitto da imbecillitas, è debole e ha bisogno
della società. L’uomo non è animale sociale,non affermazione metafisica. Dall’osservazione
empirica si evincono i principi generali del diritto civile, penale e internazionale tuttora seguiti. Ci
sono valori, principi, istanze, elementi fattuali che non sono alla merce della volontà del legislatore:
c’è una legge naturale che pone limiti al diritto positivo. Prima la legge naturale è divina,
emanazione della volontà di dio. Nel pensiero moderno abbiamo una deriva utilitaristica = la
ragione è un mezzo per sopravvivere, quindi la legge della ragione è un mezzo. Il giusnaturalismo
moderno ha una sua autonomia e condiziona anche la concezione di diritto positivo come diritto
politico (epoca della codificazione)= il legislatore è uomo politico e si coltiva l’idea che tutto il
diritto sia politico (ma non valeva prima e neanche tanto oggi). Questa produzione di diritto avviene
attraverso un progetto politico, non estemporaneo e non parziale. Il codice doveva coprire tutto. Ora
è un’epoca costituzionalizzazione e di internazionalizzazione del diritto. conoscere la storia della
legge naturale e positiva aiuta a comprendere il diritto attuale. Il problema della scarsezza di risorse
è stato analizzato da Hart, che, pur giuspositivista, ritiene che esista un contenuto minimo di diritto
naturale proprio perche non abbiamo risorse infinite. Volontà incostante, non siamo decisi nella
società e nell’egoismo … considerazioni empiriche che assomigliano a Pudendorf. Oggi c’è un
elemento nuovo: una legge formalmente valida ha bisogno di essere conforme ai principi
costituzionale, quindi deve corrispondere a certi valori. È una deriva storica dovuta al non rispetto
della dignità umana. C’è giusnaturalismo perché il legislatore non può violare la dignità umana,
quindi la nostra epoca è favorevole al giusnaturalismo. I giuspositivisti formulano la teoria dei
giuspositivismo inclusivo:; nel concetto di diritto positivo devo includere un elemento morale
positivo, ovvero ciò che l’umanità ritiene essere in questo momento morale. Non è morale eterna,
ma positiva e mutevole. Secondo Viola pero gli elementi morali una volta acquisiti sono
irretrattabili. Una critica al concetto moderno di d. naturale (mezzo e non fine) è quello di scambiare
il d. naturali con lo stato di natura, esperimento mentale atto a vedere i vantaggi o gli svantaggi
della società. Rousseau vede solo vincoli nella società e la rivoluzione è fatta un nume dello stato di
natura. Vi sono elementi di d. naturale all’interno del diritto positivo, figli del processo di
secolarizzazione delle istanze cristiane di d. naturale. Oggi noi crediamo al messaggio cristiano
senza i presupposti religiosi. I caratteri presenti nel diritto positivo presi dal diritto naturale: • leggi
come mezzo necessario (e non fine) per stabilire l’ordine e mantenere la pace (sempre pero un senso
riduttivo) • la forma di legge alla base dell’uguaglianza, che si oppone alle leggi ad hominem.
Uguaglianza sfocia nella ragionevolezza. • Legge positiva come sistema di regole: le regole
giuridiche devono riguardare tutti gli aspetti della società (idea politica) e devono essere coerenti. È
sfociata nell’avversione ad ogni discrezionalità e intervento interpretativo: ma il diritto non può
essere matematico, perche è ragion pratica in cui dobbiamo scegliere tra una pluralità di soluzioni
corrette. Il 900 è un’epoca di decodificazione, di costituzionalizzazione e d’internazionalizzazione
del diritto; si vede il ritorno del diritto naturale, diverso da tutti gli altri poiché cambiano i
presupposti del diritto positivo. Che cosa deve rispettare il sovrano d’oggi è indicato nella
Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48 che non è frutto di un’emanazione di un sovrano
né è un trattato internazionale, ma un esempio di soft law. Nuovo concetto giuridico: diritti umani.
Per alcuni sono i vecchi d. naturali,ma per essere tali devono essere positivizzati.D’altro canto il
legislatore non può scegliere quali diritti riconoscere. Il territorio dei diritti umani è intermedio al
giuspositivismo e al giusnaturalismo. Alcuni ritengono sia la morale dell’umanità in cui il
pluralismo dovrebbe convergere. È la lingua comune di un’umanità cosi pluralista. Per Dworkin
esistono: morale del bene (Kant), fine(Aristotele), diritti (contemporanea). La ricerca di una legge
naturale riprendere proprio dal riconoscimento dei diritti umani, perche bisogna definire il quantum,
i limiti dell’esercizio di diritti e la definizione concreta della violazione degli stessi. Quando
applichiamo i diritti umani, abbiamo bisogno di criteri per la giustificazione e l’esercizio dei diritti,
che sono i luoghi in cui risorge la problematica della legge naturale. Giustificazione dei diritti
umani: nella Dichiarazione non era possibile scrivere nessuna giustificazione perche, abbracciando
una concezione, non si sarebbero nessi tutti d’accordo. Si scrisse di non porre il problema della
giustificazione “siamo tutti d’accordo a patto che non ci si chieda perche”. Bobbio, “l’età dei
diritti”:”il problema non è giustificarli ma proteggerli”. Viola: possiamo mettere tra parentesi la
giustificazione, ma non possiamo più farlo nel momento in cui li applichiamo. Dobbiamo esibire
una concezione del genocidio, della tortura, della violazione di diritti che sia legata alla
giustificazione stesa dei diritti. Nell’esercizio si rivelano i diritti che ho (sempre più compressi di
quelli proclamati). Diritti umani: “trattare in modo umano gli esseri umani”. Umanizzazione della
società. Dobbiamo riconoscere valori fondamentali della specie umana, sono comuni nonostante la
varietà delle interpretazioni.
concezione forte di Finnis (giusnaturalista):la legge naturale oggi si esprime in un quadro di valori
fondamentali affinché la nostra vita sia umana; bisogna rispettare i valori come orizzonti del
pensiero umano. Noi differiamo nella loro organizzazione, nella posizione di preferenza che in cui li
mettiamo. Ma è possibile racchiudere in sette i valori fondamentali? Ed è sempre possibile dare
risposta contemporaneamente a tutti questi valori? Concezione debole di Rawls (liberale): non
bisogna stabilire in modo paternalistico i fini, il cittadino non deve essere trattato come un
minorenne. Non esiste una lista di valori fondamentali. I valori sono puramente strumentali,e
l’uomo non si realizza in essi. Si richiede un minimo di liberta, risorse per realizzare la propria
esistenza e una società di self-respect.