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FILOSOFIA DEL DIRITTO CORSO DEL PROF. ALFONSO CATANIA Introduzione al Diritto 1. Che cos'è il diritto? Il diritto è un insieme di regole di condotta che disciplinano i rapporti tra i componenti della società in funzione della realizzazione di un obbiettivo comune; è un mezzo per realizzare i ini di una data società. Il diritto è un fenomeno formato da: Norme giuridiche: prescrivono i comportamenti da tenere o da non tenere in quanto ritenuti utili o dannosi alla società. Sanzioni: che sono delle conseguenza sfavorevoli a carico dei trasgressori in caso di violazione delle norme giuridiche. L'organizzazione: che ha la funzione di produrre le norme giuridiche e di garantirne l'osservanza. 2. L'Uomo e la Società Una società è costituita da una pluralità di individui organizzati per un ine di interesse collettivo. Gli elementi che concorrono a formare una società dunque sono: Una pluralità di persone: non vi può essere una comunità umana dove vi è un solo individuo. Un'organizzazione: devono esistere delle regole interne e degli organi che ne garantiscono l'osservanza. Uno scopo comune: ogni società viene costruita per un ine di varia natura. 3. Le regole sociali e le norme giuridiche Le regole sociali sono caratterizzate dal fatto che la loro osservanza non si fonda su una costrizione esterna, ma su una spontanea adesione ai valori che esprimono. Le norme giuridiche, invece, sono assistite dalla forza, in quanto la loro osservanza viene imposta dalla pubblica autorità applicando delle sanzioni a carico dei trasgressori. 4. Diritto pubblico e diritto privato Tradizionalmente il diritto oggettivo si scompone in due grandi sistemi di norme, il diritto pubblico e il diritto privato. Il diritto pubblico regola i rapporti nei quali una delle parti è un soggetto pubblico, che esercita un potere di supremazia per soddisfare un interesse generale. Il diritto privato disciplina i rapporti nei quali le parti sono in una condizione di parità. 5. I principali rami del diritto All'interno del diritto pubblico si distinguono: - il diritto costituzionale - il diritto amministrativo - il diritto penale - il diritto processuale - il diritto ecclesiastico. Il diritto costituzionale comprende le regole fondamentali dell'ordinamento dello Stato e, in particolare, disciplina gli organi supremi dello Stato e i rapporti tra lo Stato e i cittadini. Il diritto amministrativo regola l'attività della pubblica amministrazione, ovvero l'attività dello Stato e degli altri enti pubblici diretta a soddisfare i bisogni collettivi. Il diritto penale è rivolto a prevenire e a reprimere i reati. Il diritto processuale disciplina l'esercizio della giurisdizione, cioè l'attività dei giudici diretta ad applicare le norme giuridiche ai casi concreti. Il diritto ecclesiastico riguarda i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Nell'ambito del diritto privato è classica la distinzione tra diritto civile e commerciale. Il diritto civile regola genericamente i rapporti tra i soggetti privati. Il diritto commerciale riguarda più speciicamente l'attività degli imprenditori. Il diritto privato comprende anche il diritto della navigazione, che disciplina i soggetti, i rapporti e i beni relativi alla navigazione aerea, marittima e interna. 2. LA NORMA GIURIDICA 1. La struttura della norma giuridica Di regola una norma giuridica è costituita da due elementi: la fattispecie e la statuizione. La fattispecie consiste nella descrizione di un fatto, mentre la statuizione, la conseguenza, positiva o negativa. 3. Norme derogabili e inderogabili Le norme giuridiche si distinguono in derogabili e inderogabili. Le norme derogabili pongono regole di condotta che possono essere derogate con diversa volontà da parte dei destinatari, mentre le norme inderogabili o imperative pongono regole di condotta anche contro la volontà dei destinatari. 4. I caratteri della norma giuridica La norma giuridica presenta di solito i seguenti caratteri: - positività relatività - coattività - generalità e astrattezza - bilateralità. Positività La norma giuridica è positiva in quanto è imposta dallo Stato. Relatività La norma giuridica è relativa poiché il suo contenuto può variare nello spazio e nel tempo. Coattività La norma giuridica è coattiva in quanto deve essere osservata obbligatoriamente e la sua osservanza viene imposta attraverso la minaccia dell'applicazione di una sanzione. Generalità e astrattezza La norma giuridica è generale, perché non è diretta a singoli individui ma a una serie indeterminata di possibili destinatari, e astratta, in quanto non riguarda un fatto concreto che si è già realizzato ma una serie di fatti che potranno veriicarsi in futuro. Bilateralità La norma giuridica è bilaterale, inine, perché quando riconosce un diritto a un soggetto, impone correlativamente un dovere o un obbligo a carico di altre persone. 3. IL RAPPORTO GIURIDICO A. Il rapporto giuridico - Un rapporto può essere giuridicamente rilevante o irrilevante. Si deinisce rapporto giuridico, una relazione tra due o più persone regolata dal diritto oggettivo. B. Le situazioni giuridiche soggettive - Si deiniscono parti i soggetti tra i quali intercorre un determinato rapporto giuridico, mentre si chiamano terzi tutti coloro che sono estranei a tale rapporto. Le situazioni giuridiche soggettive consistono nel potere di fare o di non fare qualcosa per realizzare un interesse proprio o altrui. Le situazioni soggettive possono essere attive o passive. C. Le passive comprendono: Le attive comprendono: - Il diritto soggettivo - il dovere - l'interesse legittimo - l'obbligo - le facoltà - la soggezione - la potestà - l'onere. - il diritto potestativo. 3. Il diritto soggettivo Il diritto soggettivo consiste nel potere di tenere o di pretendere che altri tenga un determinato comportamento. Gli elementi che concorrono a formarlo sono: - l'interesse - il potere del volere - la tutela. 4. Classiicazione dei diritti soggettivi privati Diritti patrimoniali e non patrimoniali I diritti patrimoniali riguardano degli interessi di natura prevalentemente economica. Nell'Ambito dei diritti patrimoniali si distinguono i diritti reali e i diritti di credito. - I diritti reali attribuiscono al titolare un potere che si esercita immediatamente su una cosa. - I diritti di credito consistono nella legittima pretesa da parte del titolare che un altro soggetto tenga un determinato comportamento. I diritti non patrimoniali si riferiscono a interessi di carattere prevalentemente ideale o morale. Comprendono i diritti della personalità e i diritti di famiglia. - I diritti della personalità riguardano gli attributi fondamentali di una persona. - I diritti di famiglia spettano ai membri di una famiglia nei confronti degli altri familiari. Diritti assoluti e relativi I diritti assoluti assicurano un potere che può essere fatto valere verso tutti. I diritti relativi attribuiscono al titolare un potere che si può esercitare soltanto nei confronti di una o di più persone determinate. Sono relativi i diritti di famiglia e i diritti di credito. Diritti trasmissibili e intrasmissibili I diritti trasmissibili possono essere trasferiti ad altri soggetti e il titolare può anche rinunciarvi. I diritti intrasmissibili non possono essere trasferiti ad altri soggetti e il titolare non può rinunciarvi. 5. Le altre situazioni giuridiche attive L'interesse legittimo L'interesse legittimo consiste nella pretesa alla legittima di un'attività amministrativa. La potestà La potestà, o potere-dovere - consiste in un complesso di poteri riconosciuti a un soggetto per la protezione di un interesse altrui. Il diritto potestativo Il diritto potestativo è il potere di operare con la propria volontà la modiicazione di un rapporto giuridico. 6. Le situazioni giuridiche passive Le situazioni soggettive passive consistono nell'imposizione di una determinata condotta e comprendono: - il dovere, che è la situazione in cui viene a trovarsi chiunque deve astenersi da qualsiasi atto di impedimento. - l'obbligo, che consiste nel dover tenere un dato comportamento a vantaggio del titolare di un diritto relativo. - la soggezione, che è la situazione di chi è esposto, anche contro la sua volontà, all'esercizio di un diritto potestativo, di cui deve limitarsi a subire le conseguenze. - l'onere, che è un comportamento necessario per ottenere o per conservare un dato vantaggio. Il Prof. Alfonso Catania valuta la plausibilità e l’efficacia di determinate categorie teoricogiuridiche, in particolare dei concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato. Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie “ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e “sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”. L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto, riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte, snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto spesso politica e strumentale. La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo. In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la 1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione. significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi dell’amministrazione. La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso “psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”). Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione. Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale, anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente. Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky. Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo, principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto: “l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento conoscitivo e pretende di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neo-costituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale. Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso, l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e talvolta bellico dei diritti dell’uomo). In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1. Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo. La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del punto di vista esterno-interno hartiano). La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di vista esterno-conoscitivo nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della norma. Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva, anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di immaginazione. Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono, piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti, significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo). In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring). Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”. Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà, dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che quella implementazione avrà luogo”2. L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”, all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento, condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo, l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si presume possa implementarla e farla valere. Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi, superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e, soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale, data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica. Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque, sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a livello costituzionale. In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie” – limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici. Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart, specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia; anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica. Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1. La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione, mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei comportamenti e dei principi normativi). L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento. Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto. Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”, assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati. Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso. All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione, l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”. La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita l’incipit della Teologia politica schmittiana). Senonché, Catania ritiene che il moderno principio Auctoritas non veritas facit legem, come interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il concetto di diritto, indipendentemente da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di arbitrio, di decisione indeducibile da ogni possibile significato normativo, è suscettibile di comprensione solo attraverso la prospettiva normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che anche e soprattutto il sovrano hobbesianoschmittiano che decide sullo stato di eccezione, innescando il processo del nuovo ordine, assuma la forma normativa per comunicare la sua volontà, cui quella forma assicura la pretesa di obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera decisione sovrana, bensì dal riconoscimento normativo dei consociati. Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo, può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale: “sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e “ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di “controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto contemporaneo. In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi – riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating. Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un ben lungo cammino per ristabilire equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma giuridica del’accordo solidale”1. Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri termini, una certa efficacia del diritto. Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno, pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde, ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva della società. Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni ragionevoli”. La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso “psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”). Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione. Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale, anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente. Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky. Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo, principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto: “l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che sono dietro le decisioni”. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento conoscitivo e pretende di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neocostituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale. Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso, l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e talvolta bellico dei diritti dell’uomo). In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1. Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo. La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del punto di vista esterno-interno hartiano). La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di vista esterno-conoscitivo nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della norma. Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva, anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di immaginazione. Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono, piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti, significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo). In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring). Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”. Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà, dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che quella implementazione avrà luogo”2. L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”, all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento, condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo, l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si presume possa implementarla e farla valere. Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi, superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e, soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale, data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica. Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque, sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a livello costituzionale. In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie” – limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici. Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart, specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia; anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica. Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1. La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione, mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei comportamenti e dei principi normativi). L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento. Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto. Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”, assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati. Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso. All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione, l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2. La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita l’incipit della Teologia politica schmittiana). Senonché, Catania ritiene che il moderno principio Auctoritas non veritas facit legem, come interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il concetto di diritto, indipendentemente da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di arbitrio, di decisione indeducibile da ogni possibile significato normativo, è suscettibile di comprensione solo attraverso la prospettiva normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che anche e soprattutto il sovrano hobbesiano-schmittiano che decide sullo stato di eccezione, innescando il processo del nuovo ordine, assuma la forma normativa per comunicare la sua volontà, cui quella forma assicura la pretesa di obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera decisione sovrana, bensì dal riconoscimento normativo dei consociati. Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo, può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale: “sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e “ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di “controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto contemporaneo. In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi – riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating. Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un ben lungo cammino per ristabilire 1A. Catania, op. cit., p. 145. 2A. Catania, op. cit., p. 156. equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma giuridica del’accordo solidale”1. Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri termini, una certa efficacia del diritto. Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno, pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde, ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva della società. Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni ragionevoli”2. Il testo recensito Alfonso Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2008. 1A. Catania, op. cit., p. 161. 2A. Catania, op. cit., pp. 172-173 In Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Alfonso Catania valuta la plausibilità e l’efficacia euristica di determinate categorie teorico-giuridiche, in particolare dei concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato1. Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie “ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e “sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”. L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto, riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte, snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto spesso politica e strumentale. La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo. In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la 1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione. significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi dell’amministrazione. La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso “psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”). Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione. Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale, anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente. Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky. Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo, principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto: “l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento conoscitivo e pretende 1A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, cit., pp. 24-25. 2A. Catania, op. cit., p. 28. di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neocostituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale. Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso, l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e talvolta bellico dei diritti dell’uomo). In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1. Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo. La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del punto di vista esterno-interno hartiano). La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di vista esterno-conoscitivo 1A. Catania, op. cit., p. 41. nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della norma. Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva, anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di immaginazione. Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono, piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti, significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo). In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring). Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, 1A. Catania, op. cit., p. 50. presuntivamente integrato nel testo costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”. Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà, dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che quella implementazione avrà luogo”2. L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”, all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento, condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo, l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si presume possa implementarla e farla valere. 1A. Catania, op. cit., p. 99. 2A. Catania, op. cit., p. 101. Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi, superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e, soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale, data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica. Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque, sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a livello costituzionale. In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie” – limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici. Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart, specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia; anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica. Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1. La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione, mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei comportamenti e dei principi normativi). L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento. Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto. Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”, assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati. Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso. All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione, l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2. La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita l’incipit della Teologia politica 1A. Catania, op. cit., p. 127. 2A. Catania, op. cit., p. 141. schmittiana). Senonché, Catania ritiene che il moderno principio Auctoritas non veritas facit legem, come interpretato anche da Schmitt, non può significare in toto il concetto di diritto, indipendentemente da una metodologia normativa. Infatti, lo stesso concetto di arbitrio, di decisione indeducibile da ogni possibile significato normativo, è suscettibile di comprensione solo attraverso la prospettiva normativa. In altri termini, “dobbiamo supporre che anche e soprattutto il sovrano hobbesiano-schmittiano che decide sullo stato di eccezione, innescando il processo del nuovo ordine, assuma la forma normativa per comunicare la sua volontà, cui quella forma assicura la pretesa di obbligatorietà”1. L’ordine nasce dal caos, ma non dalla mera decisione sovrana, bensì dal riconoscimento normativo dei consociati. Infine, Catania affronta il nodo dell’effettività del diritto post-sovrano della globalizzazione. Il circuito decisione-riconoscimento-decisione, che costituisce la normatività giuridica, ha senso solo se è effettivo. Orbene, la crisi della sovranità statuale e della prospettiva ordinamentale ha notevoli ricadute sull’effettività del diritto, la quale non può più derivare esclusivamente o prevalentemente dal monopolio della forza dello stato. Scontato un certo deficit di effettività rispetto al “mondo moderno”, oggi l’efficacia del diritto dipende soprattutto dalle relazioni orizzontali di riconoscimento normativo, data anche la pluralità degli attori istituzionali in gioco. Il diritto, certo, può ancora essere considerato, con qualche cautela, come “organizzazione della forza” (si pensi, in particolare, a Kelsen). Ma la forza normativa del diritto vigente – in un contesto dove convivono normalità ed eccezione – va individuata soprattutto nei processi orizzontali di fiducia sociale: “sembra (...) che la forza, che influisce sui corpi dei consociati e sulle condotte restringendone l’ampiezza e la spontaneità di scelte, si manifesti oggi risalendo dalla sanzione al disciplinamento più o meno consensuale dei comportamenti”2. Anche senza assumere l’idea pacificata e “ideologica”, tipica delle correnti neocostituzionaliste, di un ethos capace di integrare tutto il sociale, per Catania occorre comunque riflettere su nuove forme di effettività giuridica, di “controllo sociale senza forza esplicita”, di prassi regolata, che costituiscono il complesso diritto contemporaneo. In ogni modo, secondo l’autore, sembrano prevalere, come criteri di effettività del diritto, il calcolo e la convenienza economica, secondo il rapporto costi-benefici: in fondo, è il portato della prevalenza dell’economia, la quale, nella globalizzazione capitalistica, assume poi la veste della lex mercatoria. Impera la logica contrattuale e pattizia, tanto, ovviamente, nel diritto civile che nel diritto penale; e il rispetto delle norme dipende specialmente dall’esigenza di convivenza sociale nonché da veri e propri processi di normalizzazione ideologica. In un contesto così articolato e complesso, dove agli stati si aggiungono potenti attori economici e legali, i nuovi accordi normativi – riguardanti soprattutto la regolamentazione dei mercati – riposano su di una effettività di nuovo tipo: si pensi al credito di fiducia politico-economico fornito dalle agenzie internazionali di rating. Ma questi processi apparentemente orizzontali delle relazioni economico-giuridiche non appaiono né simmetrici né democratici; come sottolinea Catania, “il presupposto di questa destatalizzazione che mette in campo formazioni di potere e decisioni eterogenee, nonostante la forma giuridica e nonostante il riconoscimento di normatività e la successiva volontaria decisione di conformità, è l’esplosione delle diseguaglianze di posizione e di forza, cui corrisponderà – se corrisponderà – un ben lungo cammino per ristabilire 1A. Catania, op. cit., p. 145. 2A. Catania, op. cit., p. 156. equiparazioni e potenziamenti, magari attraverso la forma giuridica del’accordo solidale”1. Lo scenario internazionale è quello più pericoloso per il diritto della “tarda modernità”: non sembra percorribile né la strada del diritto cosmopolitico né il ritorno al passato statalista. L’effettività dei diritti umani – nonostante una certa istituzionalizzazione dell’ONU – è molto scarsa; al contempo, il discorso dei diritti dell’uomo si presta a un pericoloso utilizzo bellico e “ideologico”, soprattutto da parte degli stati più forti. Si può però ritenere che nella prospettiva “organizzazionale” i diritti umani possano acquisire maggiore efficacia normativa: le ONG, le molteplici agencies internazionali, che operano per i diritti su scala mondiale, potrebbero, infatti, secondo logiche pattizie e concordatarie, favorire lo sviluppo degli stessi diritti dell’uomo. La compresenza di ordinamento e organizzazione, anche nella prospettiva internazionalista, può favorire, in altri termini, una certa efficacia del diritto. Nelle considerazioni conclusive, Catania ribadisce che il significato “tecnico” del diritto moderno, pur da lui condiviso, non può esaurire il concetto di diritto; contro derive “nichilistiche”, egli intende far giocare i concetti di decisione e di riconoscimento, facendo riferimento sia alla prospettiva ordinamentale che a quella “istituzionalista”. L’autore, inoltre, assieme a Böckenförde, ritiene che il diritto non è, essenzialmente, “una sostanza a parte”, bensì “una mediazione tra etica e politica”. Il filosofo tedesco – ci ricorda Catania – corregge, in modo condivisibile, una visione meramente positivistica e strumentale del diritto, ritenendo che “il diritto non si esaurisce nella pura positività”, bensì riceve la sua determinazione dalle grandezze della politica e dell’etica effettiva della società. Infine, sia pure nel difficile contesto della globalizzazione e del diritto “post-sovrano”, l’autore accenna ad una significativa speranza: “forse, se si sviluppa positivamente la nuova matrice di partecipazione attiva dei consociati, di co-regolamentazione orizzontale e mobile, che nelle nuove tipologie normative si adombra; se si fa leva sul riconoscimento dei diritti umani – che, per quanto retorico, è non discusso e globale – e se lo si coniuga ad una realistica ed empirica presa d’atto delle convenienze, allora forse è possibile pensare a una rete di accordi multipli ed efficacemente vincolanti che rinnovino la vocazione del diritto ad essere strumento, se non di pace, di transazioni ragionevoli”2. In Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Alfonso Catania valuta la plausibilità e l’efficacia euristica di determinate categorie teorico-giuridiche, in particolare dei concetti di “norma” e “decisione”, alla luce del mondo globalizzato1. Già nell’introduzione, l’autore chiarisce il contesto nel quale traslare quelle categorie “ermeneutiche” della teoria del diritto: si tratta della globalizzazione, la quale induce non solo la crisi della moderna sovranità statuale ma altresì il prevalere dell’economia, del mercato e della sua logica sulle istanze tipicamente politico-giuridiche. Si sgretola in gran parte il modello hobbesiano e “sovranista” dello Stato – giunto in forme aggiornate nella Stufenbau di Hans Kelsen –, in favore di una parcellizzazione del potere politico e di un forte pluralismo istituzionale e “valoriale”. L’indebolimento del politico moderno è prodromico a un modello di diritto più poroso nei confronti dell’etica e della stessa religione, di pretese normative che pretendono, anche nel conflitto, riconoscimento ed efficacia normativa, utilizzando strumentalmente il medium giuridico e, in parte, snaturando il moderno paradigma positivista. Si consuma, inoltre, anche una sorta di “rivincita” del modello giuridico anglo-americano rispetto a quello europeo e continentale, come mostrato dal rinvigorirsi del “potere giudiziario”. In questo quadro, convivono un pluralismo istituzionale quasi new medievalist, il potere di nuove agencies economiche e legali, una governance globale i cui attori spesso sfuggono al controllo dei vari stati nazionali; unitamente, però, alla pretesa neocosmopolitica di usare il discorso dei diritti umani in chiave etica e “globale”, ma, in realtà, molto spesso politica e strumentale. La filosofia e la teoria generale del diritto devono tener dietro alle trasformazioni epocali, pur fedeli a un metodo il più possibile scientifico, per riuscire ancora capaci di descrivere ed illuminare il complesso diritto vigente. L’indebolimento dello stato sovrano deve indurre innanzitutto, secondo Catania, ad affiancare al “modello ordinamentale” un modello di tipo “organizzazionale”, in parte mutuato dalla prospettiva istituzionalista di Santi Romano: opportunamente aggiornata, infatti, essa sembra più in grado di cogliere la complessità sociale del mondo globale e delle reti “relazionali” di governance. Nello stesso tempo, l’autore ritiene ancora centrali le categorie metodologiche di decisione e norma, per afferrare il significato del diritto contemporaneo. In sostanza, la decisione è l’insieme dei comportamenti sociali che, tramite la 1Alfonso Catania aveva già riflettuto, dal lato della filosofia del diritto, intorno ai concetti di decisione e norma; vedasi, al proposito, A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1987. Le successive citazioni si riferiscono, ovviamente, al libro di Catania oggetto di questa recensione. significazione ed il riconoscimento normativo, diventano “diritto”. L’apparente genericità della definizione, in realtà, la rende idonea a comprendere la complessità del giuridico attuale: la decisione è anche la condotta morale ed etico-politica che può assurgere a modello giuridiconormativo; inoltre, essa non si riduce alle scelte delle corti giudiziarie né ai comandi autoritativi dell’amministrazione. La norma, invece, è uno schema conoscitivo a carattere ipotetico, possibilmente in grado di decifrare il senso del “mondo delle decisioni”. Il nesso tra decisione e norma è, comunque, molto stretto ed è reso possibile dal concetto di riconoscimento: invero, il riconoscimento postula un ruolo attivo da parte dei consociati nella costruzione del diritto. Qualora non inteso in senso “psicologistico” o necessariamente consensualistico, il riconoscimento della doverosità giuridica di un certo comportamento (decisione) rappresenta uno strumento logico-conoscitivo ineludibile per qualificare il diritto di oggi. Tuttavia, rispetto ad autori come Herbert Hart ed Alf Ross, i quali pure tributavano, tramite il riconoscimento, un ruolo attivo a determinati gruppi sociali nella identificazione del diritto – rispettivamente, ai funzionari e alle corti giudiziarie –, Catania ritiene di dover ampliare la sfera del riconoscimento al ruolo di tutti i consociati (e, particolarmente, di quelle agenzie socio-istituzionali che così dinamicamente popolano la “scena globale”). Nel primo capitolo, dedicato alla positività e [alla] politicità del diritto, Catania affronta il problema del metodo e della razionalità richiesta dal diritto oggi. Sulla scia di Kelsen e, più specificatamente, di Norberto Bobbio, l’autore assume la prospettiva del giuspositivismo metodologico. “Scegliere quel metodo significa che l’indagine vuole rispettare la concretezza delle prassi giuridiche così come sono attuate, poste, interpretate, senza presupporre o sovrapporre entità o presumere significati ultimativi e complessivi”1. Dunque, l’oggetto dell’indagine è nient’altro che il diritto positivo, pur nell’estrema complessità con cui si presenta il diritto vigente, caratterizzato dalla forte valenza normativa dei principi morali e dei diritti costituzionalizzati e spesso subordinato alle logiche economiche della lex mercatoria. Conseguentemente, per l’autore, va privilegiata una razionalità di tipo pratico-ermeneutico, a danno, almeno in parte, della logica puramente formale e procedurale del vecchio positivismo: una razionalità di questo tipo, infatti, sembra maggiormente in grado di cogliere lo spirito del diritto attuale, così fluido, poco definito ed in continua espansione. Non che l’autore dispregi la razionalità conoscitiva tipica del classico approccio analitico, la quale, anzi, può rivelarsi utile come metodo d’indagine esterna all’ethos di un diritto che pretende per sé verità e consenso; ma, senza dubbio, la razionalità pratica degli ermeneuti, operanti nell’ordinamento, coglie meglio l’importanza dei principi e dei valori intrinseci al diritto vigente. Qui l’autore si riferisce alle filosofie giuridiche neo-costituzionaliste, come quella di Ronald Dworkin, ma anche al concetto di “diritto mite” proposto da un giurista come Gustavo Zagrebelsky. Purtuttavia, Catania invita a diffidare della presunzione di verità etica del neo-costituzionalismo, principalmente perché essa tenderebbe ad occultare il momento politico-ideologico del diritto: “l’estrema duttilità del paradigma ermeneutico-pratico (...) mentre asseconda l’instabilità formale e la indefinitezza della galassia giuridica, oscura, più o meno volontariamente, i vettori di potere che sono dietro le decisioni”2. In tal senso, l’autore depreca l’abdicazione totale del momento conoscitivo e pretende di separare, per quanto è possibile, il momento della conoscenza del diritto da quello della sua attuazione ed implementazione; viceversa, diventerebbe impossibile sottolineare la politicità del complesso diritto di oggi. Nella visione pragmatica ed immanentistica delle correnti neo-costituzionaliste, che celebrano la razionalità pratico-ermeneutica, la quale in parte caratterizza anche i nuovi positivismi (come quello inclusivo), non manca di certo la politicità; al contrario, essa sussiste e coincide proprio con quell’ethos integrato nel diritto costituzionale che si vorrebbe attribuire all’intero ordinamento se non, addirittura, all’intero contesto sociale. Circa il rapporto con la morale, Catania sottolinea, da un lato, la maggiore porosità dei confini del diritto rispetto alle altre dimensioni normative (l’etica, la religione), anche come conseguenza dell’erosione della sovranità e del paradigma artificialista del diritto moderno; dall’altro, mette in luce i pericoli insiti in una morale che si vuole direttamente ed efficacemente normativa. In tal caso, l’inconveniente sarebbe duplice: per un verso, si tende a ritenere, in modo ideologico, che la comunità giuridica sia pacificamente integrata dalla morale costituzionale, quasi occultando il momento conflittuale e politico del discorso dei diritti; per l’altro verso, si strumentalizza, a volte in modo drammatico, la validità presuntivamente universale della morale dei diritti umani, molto spesso in chiave fortemente polemogena (si pensi alla partigianeria occidentale nell’uso globalista e talvolta bellico dei diritti dell’uomo). In effetti, l’autore ribadisce con decisione il carattere politico del diritto contemporaneo, pur apprezzandone il suo valore modernamente tecnico e strumentale – così come fu individuato già da Kelsen. La moderna neutralizzazione dei conflitti vacilla a fronte del valore etico-politico del diritto vigente; “in questo quadro, ciò che non va dimenticato (...) è il fatto che nel diritto, come tecnica di molti vettori di potere e per molti scopi potenzialmente conflittuali, c’è politica. E questo significa che la politica – cioè il conflitto dei molti – sta ormai dentro il diritto e non fuori, secondo il sogno ordinativo della pacificazione e della neutralizzazione spoliticizzante del diritto moderno”1. Peraltro, il mondo delle decisioni, plurime e di varia natura, dei comportamenti sociali giuridicamente rilevanti nel mondo globale, significa proprio la parzialità, la politicità del diritto contemporaneo, nonostante le pretese etiche ed integrazioniste del neo-costituzionalismo. La norma – in particolare nel secondo capitolo del libro –, intesa come schema di qualificazione del diritto, va applicata alle decisioni e ai comportamenti sociali, quando questi assurgano, tramite il riconoscimento, a significazione giuridica. Catania invita a distinguere la norma in senso stretto dalla norma come proposizione normativa; richiamandosi alla Reine Rechtslehre di Kelsen, occorre dunque differenziare la norma in senso proprio (Soll-Norm o Rechts-Norm) dalla proposizione normativa (Soll-Satz o Rechts-Satz). Così, secondo l’autore, è recuperabile il momento conoscitivo e riflessivo del diritto rispetto a quello funzionale e deontico; e tanto vale sia per la scienza giuridica che per tutti i consociati, nella loro attività di riconoscimento del diritto (e qui rileva il discorso del punto di vista esterno-interno hartiano). La norma che simbolicamente riconosce il “dispositivo”, il comportamento sociale, comunicando la decisione, è parte innanzitutto del momento conoscitivo del diritto (come nel caso della Soll-Satz kelseniana), un momento cui partecipano di fatto tutti i consociati; a tale momento, può quindi seguire o meno quello deontico e obbligatorio. In tal modo, si salvaguarda hartianamente il punto di vista esterno-conoscitivo nell’interpretazione del diritto, evitando la necessaria consensualizzazione nei confronti della norma. Lo schema normativo, per rendere oggettivo il senso della decisione giuridica, richiede dunque il riconoscimento; ma, si chiede Catania, quale logica è richiesta da una tale operazione interpretativa? Certamente, è favorita la logica ermeneutica a fronte di quella logico-deduttiva, anche perché indotta dalla stessa natura etico-politica del diritto contemporaneo. Senonché, l’autore tiene a precisare che la ragion pratica dell’ermeneutica giuridica non ha carattere meramente induttivo; per Catania, infatti, “se è vero che l’operazione non è riconducibile, come vorrebbe la rigida assiomatica giuridica, al logicismo deduttivo, essa, però, non si limita ad indurre dal contesto culturale ed etico principi generali che vi sarebbero immersi; contiene invece potenti iniezioni di volontà creativa che, infatti, i più avveduti rappresentanti di quel tipo di razionalità pratica sanno riconoscere. E creatività significa politicità”1. Per questo, accanto alla razionalità pratica, va ribadita l’importanza del momento logico-deduttivo, ai fini della conoscenza del giuridico, senza ritenere tuttavia l’operazione interpretativa come meccanica, ma semmai densa di creatività e di immaginazione. Successivamente, Catania sottolinea le ambiguità del diritto e del significato di norma nella globalizzazione. Si tende, infatti, a ritenere che l’egemonia del mercato e l’erosione del potere normativo degli stati consentano una omologazione de facto, e quindi de iure, delle decisioni e dei comportamenti sociali. Ma, in tal modo, si sottovaluta il potenziale conflittuale dei rapporti socioeconomici, una volta che si siano liberati dal prevalente controllo statuale ed ordinamentale. La norma perde il suo carattere sanzionatorio e orientativo, mentre sembra vincere il suo significato individualista e strumentale. Il diritto viene usato dai consociati per i fini più diversi e, in un clima ideologico quasi post-moderno, cambia la cultura giuridica novecentesca, ancora affezionata ai temi della sanzione e del disciplinamento giuridico-amministrativo (si pensi a Kelsen). Prevalgono, piuttosto, le norme di organizzazione e, in particolar modo, le norme che conferiscono poteri (si pensi ad Hart). Paradossalmente, comunque, a un apparente maggior grado di libertà e potere dei consociati, segue una notevole normalizzazione politica: l’uso regolare delle norme, infatti, significa anche tendenziale stabilizzazione di un certo sistema politico ed economico-sociale (e qui si avverte il passaggio foucaultiano dalla società disciplinare alla società del controllo). In sostanza, dunque, l’autore considera il concetto di “organizzazione” più in grado, rispetto a quello di “ordinamento”, di rendere la complessità del diritto vigente; e, soprattutto, sottolinea l’importanza progressiva della coppia norma-potere a danno di quella norma-dovere: ciò che si legge specialmente nell’idea hartiana delle norme che conferiscono poteri (power conferring). Il contesto generale in cui prendono forma queste trasformazioni, in ogni caso, non sembra considerabile new medievalist: in quel periodo storico al forte pluralismo istituzionale faceva da contrappeso l’alveo ideologico-religioso della pre-modernità; viceversa, oggi si delinea un ritorno al paleo-capitalismo, ossia a un mercato tendenzialmente selvaggio ove si scontrano logiche economiche di tipo fortemente egoistico, appena mitigato da diritti soggettivi “naturali”, e in un clima di diffidenza nei confronti del potere pubblico. Proprio la conflittualità etico-politica d’un tale contesto, secondo Catania, sconsiglia di aderire toto corde alle analisi neo-costituzionaliste nonché all’idea del “diritto mite”, proposta da Zagrebelsky. L’ethos, presuntivamente integrato nel testo costituzionale, non appiana sempre i contrasti, ma spesso determina notevoli dispute ideologiche e valoriali di tipo interpretativo; peraltro, non persuade nemmeno l’appiattimento sul potere giudiziario che dovrebbe illuminare, attraverso i principi, l’applicazione del diritto: in realtà, nel frangente applicativo, si intravede un importante momento politico-decisionale e “legislativo”. Il riconoscimento – cui è dedicato il terzo capitolo – è un concetto chiave e corrisponde sia alla norma che alla decisione giuridica. L’autore propone il classico quesito “perché si obbedisce alle norme giuridiche?”, tenendo conto delle trasformazioni del diritto contemporaneo, le quali si riverberano sul concetto di riconoscimento della norma. Il riconoscimento della doverosità del comportamento sociale, alla luce della norma, non richiede quel senso di obbligatorietà tipico dell’approccio ordinamentale (o, almeno, non nella stessa misura). Secondo Catania, nel panorama della globalizzazione, occorre disancorare, anche se parzialmente, la normatività, l’obbligatoritetà, dall’effettività dell’ordinamento, per delineare un concetto di riconoscimento più duttile rispetto al passato: “al riconoscimento si attribuisce qui il significato di un atto di ricognizione, di conoscenza e di identificazione che i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad azioni a valenza relazionale in una società che quelle relazioni organizza giuridicamente”1. La pluralità delle fonti normative, la complessità del diritto nella globalizzazione, l’indebolimento della sovranità e dell’effettività dell’ordinamento statuale richiedono, dunque, un’idea del riconoscimento più “orizzontale”, più fluida e quindi più adatta al giuridico vigente. In tale quadro, “la natura logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di identificazione della normatività degli atti: questa normatività è da intendersi come pretesa di questi atti di valere effettivamente (...) e, da parte dei soggetti coinvolti, di credenza o aspettativa che quella implementazione avrà luogo”2. L’uso della coppia pretesa e credenza non indirizza, però, l’indagine sulla “dimensione psicologica del sentimento di obbligatorietà”, come ebbe a fare Alf Ross, col suo realismo giuridico. Catania preferisce – anche per motivi “disciplinari” – fermarsi sulla soglia dell’inchiesta mentale, ritenendo sufficiente, per comprendere il funzionamento del diritto, prendere atto della “credenza di effettività”, senza indagare sul quia dell’obbedienza. In generale, oggi la normatività fa leva su criteri diversi da quelli del passato “statalista”: si pensi, in particolare, alla “sanzione positiva”, all’incentivazione, ai premi e vantaggi che deriverebbero dal rispetto degli accordi giuridici (anche di quelli imposti dalla lex mercatoria). Di nuovo, si avverte il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo: l’obbligatorietà oggi deriva soprattutto da processi di coinvolgimento, condivisione e quindi di interiorizzazione dei dispositivi “normativi”. Da un lato, si assiste alla trasversalità dei vettori normativi, tra diritto, etica ed economia; dall’altro, ogni sistema sociale sembra appellarsi alla forma giuridica per far valere le proprie direttive e prerogative. In tal modo, l’atto di riconoscimento sottolinea il carattere relazionale e comunicativo delle norme e serve per attribuire alle varie decisioni la loro forma di obbligatorietà. La forma e il linguaggio giuridico diventano oggetto dell’identificazione normativa: la decisione che rivesta quella forma, comunicata secondo quel linguaggio, viene riconosciuta come obbligatoria e rimanda a un qualche potere che si presume possa implementarla e farla valere. Successivamente l’autore discute il tema del riconoscimento a fronte delle norme etico-politiche del diritto costituzionale, ritenendo anche in questo caso utile una nozione di riconoscimento limitata al momento schiettamente conoscitivo (che può essere seguito o meno da una piena accettazione ideologica della norma). Non convincono Catania né gli approcci alla John M. Finnis, decisamente giusnaturalista, né i vari neo-costituzionalismi alla Dworkin, né, ancora, le correnti neoaristoteliche e comunitaristiche americane. Si tratta di posizioni filosofico-giuridiche che, in vari modi, superando la separazione humeana di essere e dover essere, finiscono col far coincidere il diritto simpliciter con la prassi etica d’una società. Si occulta, così, il carattere politico del diritto; e, soprattutto, si sottovaluta che la sussistenza di valori e principi “forti” entro il diritto costituzionale, data la loro natura “indisponibile”, determina una notevole conflittualità morale e quindi politica. Proprio l’incertezza del diritto sembra essere la conseguenza del potente ingresso della morale nel diritto; non a caso, ricorda Catania, autori come Joseph Raz hanno sviluppato una concezione di positivismo esclusivo, argomentando in favore della specifica autorità del diritto, esattamente al fine di dirimere autoritativamente il conflitto tra le ragioni morali in lotta tra loro. L’autore, comunque, sembra incline, sul piano scientifico, ad un positivismo tendenzialmente “inclusivo” nei confronti della morale, sia pure in modo moderato, come avviene nella filosofia giuridica di José Juan Moreso. Questi, anche difendendo un positivismo giuridico che include il ragionamento morale, lo considera compatibile con un sufficiente livello di autorità giuridica; il discrimine, in questo caso, è la corretta positivizzazione di quei principi morali che innervano il diritto contemporaneo, specie a livello costituzionale. In definitiva, Catania non ritiene che il carattere etico-politico del diritto vigente induca necessariamente un concetto di riconoscimento che vada al di là del momento conoscitivo, cioè che implichi adesione ideologica alla norma data. Sia nel caso dei funzionari che dei consociati in generale, l’uso della norma, significativa dal punto di vista del valore, implica necessariamente una operazione di riconoscimento normativo; ma non anche di valorazione e di condivisione eticopolitica. Richiamandosi ad Herbert Hart, Catania utilizza i concetti di punto di vista interno e di punto di vista esterno, rispetto al diritto, rispettivamente secondo un approccio di condivisione e di mera ricognizione normativa. Per il filosofo inglese, è plausibile che in una società, disciplinata dal diritto, adottino il punto di vista interno soltanto i magistrati e i fuzionari; mentre i consociati semplicemente riconoscano come obbligatorie le norme giuridiche senza assumerle come “proprie” – limitandosi ad adottare il punto di vista esterno. Certo, per Hart sarebbe auspicabile un contesto sociale in cui sia diffuso il più possibile il punto di vista interno tra i consociati giuridici: in tal guisa, si avrebbe, almeno in linea di principio, un processo di condivisione e di partecipazione culturale dei cittadini a fronte della produzione normativa, alla stregua di principi democratici. Sarebbe dunque auspicabile, ma non indispensabile: e Catania si mostra d’accordo con Hart, specialmente alla luce delle caratteristiche del diritto nell’età globale. Infatti, il consensualismo che avanza nelle società tardo-capitalistiche non necessariamente è un segno di libertà e di democrazia; anzi, spesso si atteggia come una omologazione dei comportamenti sociali, favorita anche dai mass media, che non promette nulla di buono in termini di civiltà giuridica. Alla decisione è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro. Apprezzare l’importanza della decisione, entro il diritto, significa per Catania innanzitutto valorizzare il carattere tecnico del diritto, il quale, come per Kelsen, può “riempirsi” di qualunque decisione, “avere qualsiasi contenuto”. Ma, al contempo, l’autore sottolinea la mediazione normativa come “potente agente di razionalizzazione” del pur fondamentale momento decisionale. In altri termini, “le decisioni hanno bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute”1. La teoria giuridica proposta da Catania, che sottolinea la “dimensione sociale” della decisione, mediata tuttavia dalla norma, consente nello stesso tempo di render conto della realtà contingente e volontaristica e di rimanere ancorati al contesto pubblico e sociale (il che però non significa, come abbiamo visto, aderire alle tesi neo-costituzionaliste circa l’omogeneità etico-culturale dei comportamenti e dei principi normativi). L’autore, dunque, pur assai attento, kelsenianamente, all’aspetto tecnico del diritto e pur condividendo, in tal senso, le analisi di Natalino Irti sul moderno “nichilismo giuridico”, avanza una teoria più complessa: al concetto di decisione, invero, va affiancato quello di comportamento. Laddove la decisione si presenta come eccedente e indeducibile da un ordine pregresso, il comportamento si riconduce a metodi probabilistici ed evidenzia il continuum normativo delle scelte dei consociati giuridici. In questo modo, diventa possibile leggere i processi di partecipazione attiva dei comportamenti sociali nella realizzazione del diritto. Circa il tipo di decisioni, Catania discute criticamente le tendenze neo-costituzionaliste volte a far prevalere, a rendere determinanti le decisioni giudiziarie, ossia a valorizzare fortemente la giurisprudenza, attraverso il medium della razionalità pratico-ermeneutica. Da un lato, l’autore riconosce il ruolo sempre maggiore rivestito dalle Corti in merito a scelte giudiziarie “autoritative”, assai rilevanti in tema di problemi morali, etici e politici – il che è anche un portato delle trasformazioni dei nostri ordinamenti giuridici. Dall’altro lato, però – oltre a sottolineare la parzialità di tale momento decisionale –, Catania depreca altresì l’irrazionalità tendenziale del decisionismo giudiziario, il suo carattere arbitrario e “quasi legislativo”, favorevole non tanto alla composizione equa dei conflitti, quanto ad una continua battaglia sui diritti da parte dei consociati. Su tale scorta epistemologica, Catania affronta il nodo della decisione come moderna prerogativa del sovrano. Invero, la crisi della sovranità deve far intendere la decisione in modo diverso. All’approccio ordinamentale, deve affiancarsi necessariamente un approccio “istituzionalista”, che tenga conto dello “spessore storico” dei comportamenti sociali come importante momento di formazione del giuridico. E questo vale anche in merito al concetto di effettività del diritto: laddove essa non sia garantita meramente da un “sovrano in crisi”, nell’epoca della globalizzazione, l’effettività si spiega soprattutto a partire dalla fenomenologia del comportamenti sociali: “qui si evidenzia un genere di comportamento conforme che, a partire da un intreccio di motivazioni disparate che possiamo esimerci dall’indagare (abitudine, fiducia nell’autorità, calcolo di convenienza, consenso convinto e condivisione dei fini, indifferenza, senso soggettivo del dovere o dei diritti, educazione, qualche volta paura) rende effettiva la norma giuridica”2. La metodologia dell’autore consente altresì di affrontare criticamente il pensiero decisionistico di Carl Schmitt, il quale – specie nella sua interpretazione degli scritti di Hobbes – esalta la decisione sovrana come fondativa dell’ordine giuridico (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, recita l’incipit della Teologia politica Introduzione Non da molto ho scoperto il mondo Wikibooks cola quale ho desiderato subito potermi confrontare. Dopo poche ma efficaci veloci letture sui regolamenti, ho capito potermi cimentare in via vagamente introduttiva con la cosiddetta adozione di un libro abbandonato. Forse per sentimentalismo o per pigrizia di non iniziarne uno da zero, l'immagine onirica di un libro perso nel suo destino mi ha subito convinto di aver trovato il mio primo percorso in Wikibooks. Essendo un giurista per lavoro e per passione, ho cercato qualcosa che mi potesse permettere di scrivere con quel minimo di competenza degna del grande mondo Wikipedia e, dopo pochi minuti di ricerca, ecco saltato fuori dal niente un titolo relativo alla filosofia del diritto. Il libro era a dir poco abbozzato ma ne ho apprezzato immediatamente gli intenti. Per quanto mi sarà possibile proseguirò quel desiderio nella speranza di rispettare chi lo aveva iniziato e di fornire un valido contributo al mondo Wikipedia, degno di tutta la mia stima. Non ho la pretesa di scrivere una vera e propria opera di saggistica, quanto forse, realizzare uno stimolo a qualche riflessione da poter condividere nel mondo infinito della teoria generale del diritto. Perche abbiamo bisogno del diritto? L'esigenza di una disciplina della convivenza sociale è stata da sempre percepita ed affrontata in differenti modalità. Il concetto di ordinamento giuridico affonda per tanto le sue radici nella esistenza stessa degli esseri viventi. Un ordinamento giuridico infatti altro non è che un ordito di leggi, di regole; una trama di indicazioni di riferimento, utili a fornire indicazioni deontologiche e comportamentali. L'ordinamento giuridico per tanto è rinvenibile in una formula collettivamente accettata e in qualche modo subita, enunciante prescrizioni comportamentali, atte a disciplinare i rapporti tra fenomeni e soggetti interagenti reciprocamente. Esempi di ordinamenti giuridici sono tipicamente le leggi che i singoli stati sono di volta in volta ad emanare, ma anche le dottrine religiose in relazione al proprio tessuto sociale, rinvenibile nei fedeli. L'origine dell'esigenza esistenziale del diritto è per tutto questo un antico problema affrontato da svariati pensatori e filosofi che, in differenti momenti storici, hanno affrontato le problematiche di rilievo in questo senso. Nella cultura giuridica più tipica, facendo riferimento agli attuali esistenti Stati Nazionali, numerose correnti filosofico giuridiche possono essere citate, a partire forse dai noti contrattualisti, con particolare riferimento allo Stato Sociale di J. J. Rousseau. La vita di ogni uomo è per tanto congenitamente legata in maniera necessaria ad un mondo di norme, facente parte di un ordinamento giuridico e quindi di un diritto. I diversi modi di interpretare le dinamiche normative e di individuarle e identificarle, rappresentano le differenti dottrine giuridiche costituenti le scienza del diritto. A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, basti citare le teorie normative, per le quali è diritto qualsiasi norma o regola di condotta. Dal momento che, come già accennato, regole di condotta sono necessariamente insite nella stessa esistenza, ecco che il bisogno del diritto viene spiegato come una conditio sine qua non della realtà sociale stessa. In questo senso possiamo citare il noto brocardo: “ubi societas ibi jus”, per il quale il diritto è essenziale ad una società e per alcuni autori ne è addirittura predecessore essendo n un certo qual modo l'elemento costitutivo di un tipo specifico di società. In aggiunta a quanto già specificato nelle poche righe che precedono, non si deve nemmeno dimenticare come, in buona sostanza, il diritto sia un insieme di regole di condotta. Questa dinamica è notoriamente da sempre legata al concetto di esistenza sociale in quanto, le vite degli individui sono costantemente e spontaneamente regolate da innumerevoli tipologie di norme differenti, di carattere sociale, religioso, morlae, di costume e quant'altro. Il diritto, nello specifico, altro non è che una macroscopica tipologia che, in subordine alle società di riferimento, viene ad avere una sua tipizzazione, disciplina ed organizzazione specifica, caratterizzanti i differenti modelli politici esistenti. Nell’antichità non c’era il diritto specializzato ma legato alle consuetudini sociale e alla morale religiosa. In occidente (grazie ai romani) è diventato una scienza dopo l’incontro-scontro fra civiltà estranee. Nasce da un’esigenza economica (ius gentium con i Cartaginesi). Insomma, il diritto serve a legare individui senza legami prepolitici. Il legame è attivo e atto non solo alla sopravvivenza, ma soprattutto alla realizzazione, tramite la stabilità e la certezza di un proprio progetto di vita (“non possiamo affidarci alla benevolenza del birraio” Smith). Quindi, grazie alla tutela delle aspettative, si crea un generale affidamento sociale. Il diritto mette in ordine le azioni: è coordinazione delle azioni sociali; la materia giuridica è l’azione sociale. La regolamentazione può consistere in una mera coordinazione, in cui il diritto indica il percorso per realizzare i propri fini (senza specificarli); questo è un aspetto tipico del diritto privato. Il diritto può, tuttavia, mettere in atto la cooperazione per raggiungere dei beni che non raggiungeremo da soli (diritto pubblico). Fra i beni interni possiamo notare la promessa di giustizia garantita dal principio di legalità (formalmente “trattare casi eguali in modo eguale e casi diseguali in modi diseguali”). Ordinamento Giuridico Definibile forse analiticamente come un insieme di norme giuridiche, un ordinamento giuridico presenta tuttavia ben più ampie peculiarità che meritano, ad avviso di chi scrive, una più approfondita disamina. Norma Giuridica Lo studio del concetto di norma giuridica presenta senza alcun dubbio numerosi interessantissimi problemi. Le diferenti fonti del diritto: atti normativi, giurisprudenza e altro La giurisprudenza è la scienza del diritto o scienza giuridica. È una scienza non esatta, di tipo pratico, che studia i processi per agire, ovvero la ragion pratica. Cambiando il diritto cambia anche il modo di intendere la giurisprudenza. Nell’800, ad opera di studiosi del diritto romano, soprattutto tedeschi, sono state create ripartizioni e categorie, dando luogo alla disciplina della dogmatica giuridica, che appunto sistema il diritto con concetti giuridici, schemi vuoti che riguardano il rapporto fra persone, il contenuto ecc. ovviamente ha carattere nazionale, e vale solo per il civil law. La scienza giuridica odierna è fondamentalmente dogmatica, poiché si occupa di legiferazione, ovvero studia i comandi del sovrano, le norme giuridiche. Per la scienza giuridica vale un rapporto interpretativo – manipolativo col diritto: infatti, trasforma l’oggetto che studia, non limitandosi a osservarlo come fanno le altre scienze. Infatti, fra le fonti del diritto si hanno: • Fonte popolare o sociale (consuetudine) • Fonte legislativa (legislatore) • Fonte giudiziale (giudici, common law) • Fonte giuridica (giuristi, scienziati del diritto) Oggi siamo in una fase di transizione da una fonte prevalentemente legislativa, a giudiziale. Fondamentale, quindi, il carattere di storicità del diritto, che ne sancisce la mutevolezza. In un secondo grado di analisi, troviamo la teoria generale del diritto, scienza che si occupa di rintracciare aspetti di comunanza nei vari rami del diritto dello stesso Stato. La scienza che si occupa degli elementi sostanziali comuni a livello sovranazionale è il diritto comparato (comparazione dei sistemi giuridici). La scienza che si occupa del rapporto fra i vari sistemi giuridici dal punto di vista formale è la teoria del diritto. I sistemi giuridici evoluti, specialmente in occidente, hanno in comune la struttura astratta, che consta di due tipi di norme distinti: • norme di condotta, rivolte ai cittadini • norme di legiferazione, che speciicano come produrre norme di condotta, rivolte ai legislatori e gli organi appositi. Compito della filosofia del diritto è sia la ricostruzione in gradi della conoscenza scientifica del diritto, ovvero la riflessione critica sulla giurisprudenza, sia la riflessione immediata sul diritto stesso. Il diritto è un prodotto culturale, il senso della nostra vita è dato dalla produzione culturale che forma la precomprensione del mondo. Esistono ovviamente anche precomprensioni giuridiche da cui dobbiamo partire per la nostra analisi. Infatti, il diritto esiste nella nostra vita nel momento in cui è applicato come tale, nell’atto stesso dell’esecuzione (o disobbedienza), come la musica. Le regole giuridiche Le regole giuridiche hanno carattere normativo, ossia esistono anche se violate; mentre la regola "regolare" non esiste se è violata: non è vero che tutti usano mezzi di locomozione per spostarsi, se esiste anche una sola persona che va a piedi. La regola deve essere guida delle azioni umane (non devo accettarla per timore); ciò presuppone sia la razionalità, responsabilità e libertà del soggetto, sia la propensione umana a seguire regole giuridiche; nella maggior parte dei casi la ragione giuridica prevale sulle ragioni personali e di utilità (non disattendo un divieto anche se sono sicuro che nessuno lo scoprirà mai). Caratteristiche della regola normativa sono: il criterio di giudizio, il collegamento a una disposizione, la funzione di guida. secondo l' imperativismo il diritto consiste essenzialmente di comandi e, dunque, la norma giuridica è essenzialmente un comando, intesa come una manifestazione di volontà espressa in forma imperativa e sostenuta dalla minaccia di un male (sanzione); spesso, riducendo la norma a comando, è anche una forma di riduzionismo. La regola giuridica si configura quindi, come schema di qualificazione del comportamento sociale:la norma è solamente un dover essere che qualifica un fatto. Tale versione del positivismo giuridico ottocentesco spiega la normatività del diritto attraverso quello che Hart chiama il “modello del bandito”: ciò che rende obbligatorio il comportamento prescritto dalle norme giuridiche è, in ultima istanza, l’esistenza di sanzioni che si applicano nel caso di trasgressioni. Secondo Hart questa concezione dell’obbligo giuridico appare una distorsione. Il bandito, infatti, attraverso le minacce, induce un determinato comportamento ma non rende quel comportamento obbligatorio in senso proprio. Il diritto, al contrario, sembra essere in grado di produrre obblighi genuini. Ciò è comprovato anche dal fatto che, in relazione alle prescrizioni previste dalle norme giuridiche, espressioni come “si ha l’obbligo di …” o “si deve …” sono, da un punto di vista semantico, perfettamente adeguate; questo significa che la normatività del diritto non può fondarsi su ragioni prudenziali ma deve essere ricondotta a ragioni morali. Elementi della regola: • Descrizione fattuale di un comportamento • qualiicazione di un comportamento attraverso le tre modalità deontiche (comandato, vietato, permesso) • Giustiicazione della regola attraverso la ragione. La regola giuridica si distingue dalle altre regole: • per l’origine, ovvero la fonte che la origina, che ne sancisce la validità o meno • per i destinatari; infatti l’impresa del diritto è di far convivere estranei, in una visione sempre più vasta e cosmopolita. • per la struttura formale della legge come regola generale(rivolta a categorie di persone) e astratta (il comportamento previsto deve essere la fattispecie astratta, e non un singolo comportamento). Alcuni adducono motivazioni di tipo pragmatico che oscurano il principio di difesa del diritto, attraverso l’obbiettività del sovrano che deve legiferare seguendo il principio di legalità. La regola giuridica non ha un unico modello; infatti spesso articoli della costituzione esprimono principi anche senza la fattispecie, ovvero hanno una struttura formale diversa (più che altro sono indirizzi). Stessa cosa valga per le clausole nel diritto privato. Inoltre, ogni regola giuridica ha un fattore ineliminabile d’indeterminazione, poiché il legislatore quando opera ha in mente determinati comportamenti; quando se ne presentano di simili, è compito del giudice interpretare la norma, avvalendosi di discrezionalità (ciò garantisce una certa flessibilità). La validità è una qualità essenziale di una norma giuridica; altre qualità sono l’efficacia (obbedita o comunque applicata) e la giustizia. I normativisti sostengono che la validità è l’unica caratteristica essenziale e intrinseca della norma. Le teorie realistiche affermano che una norma inefficace non è valida; del resto una norma decade per desuetudine. Il giusnaturalismo difende la tesi che un diritto ingiusto non è diritto, ovvero la giustizia deve essere concorrere alla natura della norma (Agostino:”una norma ingiusta è una degenerazione della norma”); i giuspositivisti al contrario escludono la giustizia fra i criteri di validità. Se dovessimo decidere la giustizia di ogni norma, getteremmo il digito nell’incertezza; tuttavia è sbagliato dire che la giustizia è esterna al diritto. In casi estremi è evidente l’ingiustizia di una norma che ci spinge a non accettarla. Ciò che nella normalità ci spinge a obbedire a leggi ingiuste è la promessa di giustizia che il diritto racchiude in sé. Sanzione giuridica Norme giuridica = precetto + sanzione, che scatta quando il precetto non è ubbidito. Senza sanzione la norma non è giuridica, tranne che nell’ambito della soft law, tipico del diritto internazionale (dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948). Le sanzioni, in generale, possono essere classificate secondo due criteri: • interno-esterno: la sanzione morale è interna, quelle sociali e giuridiche esterne • informale-formale: le sanzioni morali e sociali sono informali, quella giuridica formale. La formalità implica che la sanzione giuridica deve essere definita nel quantum, nel modo e nei tempi in cui deve essere erogata, nel chi è preposto all’erogazione. La norma, quindi, regola la sanzione, che quindi non si configura come elemento primitivo. Invece le teorie sanzionatorie sostengono la centralità della sanzione rispetto alla norma. esse sono: normative(Kelsen): la norma giuridica può essere descritta come un periodo ipotetico: “se succede questo fatto, il giudice deve applicare la sanzione”. Il destinatario è il giudice e manca l’obbligo del cittadino, quindi il diritto non è guida del comportamento, ma l’unica guida è il comportamento del giudice. Per Kelsen le norme di organizzazione sono le più importanti, da cui si deducono quelle di condotta. Da questa prima tipologia derivano, capovolgendo la prospettiva, le teorie Predittive (Ross): il diritto è una predizione di ciò che faranno i giudici. Esse hanno una natura realistica e quindi danno rilievo al principio di efficacia e a un’analisi sociologica. Hanno il difetto di spogliare il diritto della sua normatività poiché non configurano l’obbligo come un dover essere oggettivo. Per tutte due le teorie è più importante il comportamento dei funzionari rispetto a quello dei cittadini, poiché il diritto è un modo per regolare la forza pubblica. Per Kelsen, infatti, “il diritto è una tecnica sociale usata da sovrano, che, per ottenere un certo comportamento da parte dei cittadini, minaccia una pena per il comportamento opposto”. La forza privata non è legittima. Ma è necessario controllare l’uso della forza pubblica affinché non si sfoci nello stato-leviatano, ma per approdare allo stato di diritto. Quindi bisogna controllare chi dispone della forza pubblica, ovvero le norme si devono rivolgere ai funzionari. Ma cosi il diritto si allontana dal cittadino e si perde la funzione di guida, e al contempo si esalta il modello del bandito. Il diritto, nella possibilità di non essere sanzionati, diventa un’alternativa, ma secondo Viola, la sanzione ha anche un aspetto etico. Infatti sancire vuol dire approvare (come faceva il senato romano rispetto alle decisioni del popolo). La sanzione dà il senso del valore del divieto: più è grave la sanzione, più valore si dà al rispetto del precetto. Sarebbe efficace ma immorale non commisurare la sanzione alla pena. Attraverso il principio della proporzionalità, il cittadino è in grado di dedurre l’importanza sociale del rispetto della norma. La sanzione è giudizio di valore. Ultimo compito della sanzione è proteggere i cittadini onesti(che sono la maggior parte). Guardare il diritto sotto la prospettiva della sanzione significa guardarlo in una situazione patologica complessivamente minoritaria. Diritto come insieme d’istituzioni e procedure Tutto l’ordinamento giuridico è, nel suo complesso, di tipo sanzionatorio coattivo. Non tutte le norme prese singolarmente presentano sanzioni, ma fanno parte di un sistema di diritto inteso come “ordinamento di tipo coattivo” (Bobbio). Le norme giuridiche sono ordinate fra loro, non presentano antinomie. La scienza del diritto moderna parla di sistema giuridico ordinato in modo logico e in relazione al diritto moderno. Tutto e solo lo Stato produce diritto, secondo la moderna teoria dello stato, basata sul Codice civile napoleonico. Prima il diritto era prodotto dal basso (società, giudici …) ora lo stato ha il monopolio del diritto (Weber). L’idea di codice sottolinea un progetto di ordinamento sociale (al contrario delle raccolte di leggi) sul piano della famiglia, del contratto, del testamento … Questa prerogativa, peraltro astratta, sta venendo meno col diritto comunitario. La scienza giuridica controlla la coerenza logica del diritto. Qual è il rapporto logico fra le norme? C’è un ordine proprio dei sistemi giuridici? Kelsen sostiene che esiste un criterio di organizzazione proprio del diritto; quando si parla di un sistema di norme, in generale, esso è di tipo gerarchico. In un sistema di norme morali, la norma inferiore è dedotta in un rapporto logico con quella superiore, ovvero è implicitamente contenuta. Il sistema morale è statico, ovvero il contenuto non si aggiorna mai. Il sistema giuridico è dinamico e funziona attraverso il principio di delegazione. È un susseguirsi di atti di volontà che generano norme. Un’autorità delega a un’altra autorità, attraverso norme, il potere normativo. Esiste comunque anche un rapporto di contenuto, ciò è evidente con la costituzione che non dispone soltanto, ma contiene diritti che devono essere rispettati anche dai poteri inferiori, pena l’invalidità delle norme emanate. Il potere normativo deriva dalla Grundnorm e, scendendo la piramide normativa, si restringe. Anche il giudice ha potere normativo nella scelta interpretativa. Affinché persista la piramide normativa, è fondamentale che rimanga in ogni livello un minimo di discrezionalità, senno vi sarebbe pura deduzione,. Il diritto crea obblighi dal nulla. Prima di fondare la Grundnorm c’è o il potere dell’uomo sull’uomo o la norma stessa, nata da un bisogno etico. Il diritto è fatto da procedure È eccessivo parlare di proceduralismo, ma il diritto è fatto anche da procedure, ovvero processi di azione volti a conseguire il risultato, la norma, la cui validità risiede appunto nella giusta applicazione della procedura. Dobbiamo avere certezza che l’autorità vuole veramente emanare la norma. Il diritto è pieno di procedure perche vuol coordinare le azioni sociali. Accanto alle procedure ci sono le garanzie, procedure volte a garantire principi e valori fondamentali per l’ordinamento. Cerca di evitare che si verifiche un certo risultato, prevenirlo senza dover poi rimediare on una sanzione (per esempio garantire l’impossibilità di un arresto ingiustificato prima che avvenga). Il diritto secondo Habermas si può presentare come medium, neutrale: non dice ai cittadini come fare, ma fornisce solo dei modi d’uso per agire. Non ha propri fini ma fornisce mezzi per realizzare i fini dei cittadini. Per alcuni il diritto ha anche radici sociali: dalla società ci vengono forme giuridiche che si creano da sé. La società fin dall’origine non p composta di individui che si aggregano , ma da istituzioni sociali; il diritto è già sorto nel momento in cui è creato da queste istituzioni preesistenti: è il mondo di relazioni che costituisce il diritto (famiglia◊diritto di famiglia). Una teoria che sostiene che il diritto è l’istituzione, che quindi viene dalla società (al contrario di quanto si possa immaginari in ambito normativistico) è una teoria istituzionale. Una di queste, diffusasi in Italia grazie al libro “ordinamento giuridico” di S. Romano, è figlia delle prime forme di sindacalismo e dei primi partiti dei lavoratori. Infatti afferma che il diritto ha un’origine involontaria, perche esistono delle forze sociale che per combattere meglio e raggiungere gli obbiettivi, si aggregano e si autoregolamentano, stilando come primo atto uno statuto per la divisione dei compiti e dei poteri. Il diritto quindi non ha un’origine naturale (perche Romano non fa appello a diritto giusto innato), né volontaria perche non è emanata da una volontà superiore, ma nasce internamente alla società in cui vige (andando contro l’impostazione kantiana di legge morale interna e legge giuridica esterna). Il diritto quindi è un’organizzazione, ovvero un insieme di organi. infatti la costituzione nella prima parte esplicita valori, nella seconda organizza l’apparato in organi [l’uso di un linguaggio anatomico risale all’antico complesso di inferiorità che il giurista soffre sin dal medioevo rispetto alle scienze naturali]. Esiste una pluralità di ordinamenti, a volte conflittuali. Per esempio la mafia possiede propri organi e regole, e non è antigiuridica in se, ma se vista dal punto di vista dell’ordinamento statale. Anche la chiesa ha i suoi fini e regole e può intrattenere rapporti d’intesa con lo stato che ingloba alcune sue istituzioni (tende a essere l’unico sistema). Oggi abbiamo l’ordinamento giuridico europeo. Quindi secondo Romano il diritto è in funzione di obbiettivi sostanziali (eticamente neutri).Ma si perde il lato coordinante, si da eccessivo risalto alla cooperazione (che appunto necessita di organizzazioni). Teoria cooperativa riduttiva se assolutizzata. Inoltre, le regole di organizzazione interne sono volte alla tutela delle persone, quindi hanno una funzione organizzativa e di garanzia. La nuova impostazione istituzionalista vede nel diritto una forma di pratica sociale. == diritto come pratica sociale == è una visione molto più comprensiva delle altre. Una pratica sociale è una forma di attività umana di tipo cooperativo volta a praticare valore interni (immanenti nella pratica) mediante forma di vita corrette. Nella pratica sociale l’atto che si compie è la realizzazione stessa della pratica (Cortesia, moda, etichetta …) Ci sono delle regole che sanciscono la correttezza dei comportamenti, che variano da epoche storiche a luoghi, a classi … Il diritto quindi non è una mera tecnica sociale perche ha dei valori interni. Questa concezione è stata precorsa da Hart nel 1965 con “il concetto di diritto”, in cui si discosta da Kelsen. Possiamo osservare il diritto da un punto di vista esterno, come fa la storia o la sociologia che descrivono le regole della società, ovvero da un punto di vista interno, cioè dal punto di coloro che lo usano,che lo considerano una guida e una ragione per il loro comportamento, non una costrizione. Il diritto non come norme o comando (Austin), ma come uso di norme (Wittgenstein). Hart propone una gerarchia inversa a quella kelseniana: norme primarie impongono obblighi nelle tre forme della modalità deontica, le norme secondarie attribuiscono poteri, necessarie perche le primarie possono avere qualche problema (di mutamento o di creazione, di applicazione o di giudizio). L’elemento esistenziale del diritto è l’uso. Nel guidare il mio comportamento io modifico la norma, gli do forma perche la interpreto in modo personale. Il diritto è azione dei cittadini e dei funzionari, azione sociale e consapevole. Un corso d’azione è conseguito secondo regole interne. Tipicizzazione delle azioni per individuare cosa si è voluto fare. Se faccio una compravendita iscrivo le mie azioni in una determinata categoria che implica certe regole. La promessa è naturale, ma il diritto delimita un iter preciso per compierla cosicché non si può non mantenerla. Formalizza azioni sociali che quindi rende artificiali. La società è un insieme di azioni che costituiscono reti di rapporti fra i soggetti. Posso mettere ordine nelle azioni sociali secondo il criterio della comunanza dei mezzi o dei fini. Il contratto è un’azione sociale comune nel mezzo. Le azioni collettive, comuni nel fine, rappresentano forme di cooperazione per un fine comune irraggiungibile singolarmente. Quando il diritto deve tipicizzare un’azione, tiene conto di alcuni fattori:ruolo dei partecipanti(ruoli eguali - diseguali), struttura gerarchica (direttivo-esecutivo), fruizione del risultato (singolarmente-in comune). L’azione è sempre individuale (i modelli esistono per semplificare l’analisi) ed è un fatto concreto quindi il diritto è un fatto per decidere del fatto singolo. Tra la norma astratta e il caso concreto abbiamo il modello della sussunzione del caso concreto nel caso tipicizzato, e il metodo della concretizzazione (prima si guarda il caso concreto, poi si prende la norma più simile e per processo di avvicinamento della norma affinché risponda al caso concreto). L’idea del DIPU è che gli individui devono cooperare per costruire la società. Il dpr è stato sempre il più approfondito e messo alla base delle categorie giuridiche fondamentali, ma , poiché il diritto svolge funzioni sociali, è altrettanto importante il DIPU. Con lo stato i due diritti si sono uniti e possiamo parlare di funzioni sociali del diritto che distinguono le varie forme di stato. Stato liberale funzione di controllo dell’ordine sociale e corretto funzionamento delle istituzioni fondamentali e risoluzione di liti (guardiano notturno)◊ obiettivo di coordinazione lo Stato sociale ha non solo controllo sociale, ma anche direzione sociale: lo stato vuole dirigere i cittadini verso certi obbiettivi, tramite norme promozionali (riguardanti i fini; da ciò discende una funzione di cooperazione I nostri stati sono mescolanze più o meno eterogenee di questi due elementi. Il diritto presta particolare attenzione a quelle azioni comuni e a quelle relazioni intersoggettive in cui sono in gioco valori e beni di rilevante importanza sociale. Sono sempre riconducibili a relazioni fra persone. • Unione tra le vite (esplicato dal diritto di famiglia, dalla comunità, dalla politica …) • Unione tra le volontà, più fugace (per esempio il contratto) • Unione tra la vita e le cose (per esempio la proprietà, importante perche è indirettamente una relazione con l’altro che non ha diritti sulla res) Ruolo del diritto nella società Concezione funzionalista (Luhmann, sociologia del diritto): qual è il ruolo del diritto (in senso descrittivo, non prescrittivo)? Pensiero conservatore, il diritto ha una funzione di stabilizzatore sociale che rende armonici i vari segmenti mutevoli della società. Ma non è l’unico ,meccanismo: sistema politico, culturale … Luhmann ha costruito una teoria dei sistemi sociali in cui il diritto è uno dei sottosistemi del sistema sociale in generale e la svolge a suo modo attraverso criteri binari (lecito/illecito). Concezione conflittualista(Marx): il diritto occulta i rapporti di forza tra le classi anche se vede la società come movimento, la funzione è simile a quella di Luhmann: il diritto ha sempre l’etichetta di stabilizzare, garantire e non di rivoluzionare (la rivoluzione permanente non è tollerabile per l’uomo). Gli elementi da coordinare sono i tipi di azione (mezzi o fini), i tipi di beni che ne sono l’oggetto, le finalità (coordinazione o direzione sociale) e i valori comuni dei partecipanti (non si coordina l’uomo in astratto, con il pluralismo esasperato è diventato un dramma trovare dei valori fondamentali comuni). Analisi economica del diritto: il diritto deve essere sottoposto a criteri economici: ogni diritto costa(per esempio processi lunghi). Monetizzazione del diritto fino a vendere i propri diritti (disumano) ma ci sono settori come quello commerciale dove questa analisi è parzialmente pertinente. Teorie di coordinazione sociale La teoria della scelta razionale, nata in ambito economico, in seno all’analisi economica del diritto, è costituita da schemi di logica che riguardano la coordinazione di persone con preferenze diverse; essa presuppone che l’uomo sia un massimizzatore dell’utilità (homo oeconomicus) .Se ho un vantaggio compio l’azione, senno no, preferisco un’azione a vantaggio maggiore a una minore. Se due uomini vogliono negoziare devono rinunciare al massimo raggiungibile e accontentarsi del maxmin. L’uso della teoria della scelta razionale che ordina le preferenze sociali in modo economico, si collega al più vasto problema dell’applicazione al diritto teoria dell’interazione strategica. Chi ha delle preferenze cerca di capire le preferenze altrui in modo da modificare le proprie per massimizzare il maxmin. La coordinazione sarebbe connaturata nella società come gioco della previsione delle preferenze. Vi sono impercettibili aggiustamenti interni nei rapporti tra singoli. Sono varie le critiche a questo modello: • Nash ribatte che anche l’uomo egoista preferisce cooperare. Dal dilemma del prigioniero emerge che, anche se non possiamo comunicare, conviene cooperare. È meglio non applicarla comunque al diritto perche nella società reale la comunicazione è importante (la teoria strategica vuole eliminare qualsiasi distorsione nell’informazione, come gli imbrogli). • Del resto esiste veramente solamente l’aspetto economico? Il diritto si occupa anche di aspetti non economicizzabili come la famiglia, la vita che trascendono l’unilateralità dell’uomo economico. • Il modello dell’homo oeconomicus rende tutti uguali (liberalismo) per poter analizzare il comportamento, sacrificando, come sostenne Arrow, la diversità dei partecipanti, tutelata dal diritto, che spesso non pensano in termini di massimizzazione dell’utile. Perche il diritto si occupa di coordinazione?Il diritto presuppone che ci sia la presenza di un interesse a cooperare in ogni atto di tipo collettivo. Il diritto è necessario sia nei problemi di coordinazione pura (in cui è sicuramente presente l’interesse a cooperare) sia di coordinazione non-pura in cui non vi è interesse a cooperare (il caso dello sfruttatore). Interdipendenza normativa La teoria della scelta razionale è una forma di interazione strategica di tipo descrittivo, fattualistico e sociologico. Mentre essa si basa su ciò che di fatto i partecipanti vogliono, la teoria della interdipendenza normativa si basa su ciò che i partecipanti devono volere(prescrittiva). Il diritto infatti afferma che ci sono problemi di coordinazione talmente seri da dover intervenire con normatività; il metodo dell’obbligo (artificiale, positivo) rende l’interazione normativa una teoria della regola e rende necessaria l’autorità che ponga il dover essere (assente nella teoria della scelta razionale).L’obbligo giuridico (diverso dalla costrizione) avvicina il diritto alla sfera della morale, cosicché i doveri normativi devono essere sentiti come obblighi morali e non come mero atto di forza; il diritto quindi si pone fra morale (ma autorevole) e forza (ma ritenuta legittima). La teoria convenzionalista dell’obbligo afferma che il diritto si fonda sull’accettazione da parte della società delle autorità giuridiche; quindi il potere è legittimo perche la società si è auto-obbligata, attraverso un contratto sociale. È evidente l’accettazione delle regole dal comportamento degli utenti del diritto (visione realistica di pratica sociale di Hart e seguaci). La concezione dell’obbligo legittimato da accettazione per Viola è necessaria ma non sufficiente perche non chiarisce il profilo dell’applicazione delle regole. Infatti alcuni le interpretano correttamente, altri no (per questo sono necessari i giudici). Questo può essere spiegato solo da una teoria normativa dell’obbligo giuridico che intende il diritto come fatto dall’uomo, ma che ha anche un significato in se (amorale). La norma non ha il significato che le attribuiscono gli utenti. Bisogna quindi comporre le due teorie: per giustificare l’autorità ho bisogno del consenso (fondazione del sistema giuridico) ma poi si basa su quello che le norme dicono effettivamente (infatti IURISDICO non vuol dire fare il diritto ma dirlo). Quindi il diritto una volta creato ha una dimensione morale che implica un dover essere. Il diritto nasce con i giudici perche le liti giuridiche nascono sul modo d’intendere le regole e non si fa un referendum su come la società le intende, ma è il giudice a stabilire la corretta interpretazione. Il diritto può essere quindi anche inteso come insieme di schemi normativi di interpretazione delle intenzioni dei partecipanti alla vita sociale. Per capire le intenzioni dei cittadini bisogna usare il diritto, non il contrario come sostiene il convenzionalismo. Per questo vengono creati standard d’interpretazione non modificabili, in modo da poterci veramente coordinare◊aumenta l’affidamento sociale. La teoria convenzionalista cmq giustamente dice che il diritto richiede l’accettazione attiva, il cum-sensum, implicando un’accettazione relazionale non propria dell’homo oeconomicus ma socialis. Per Rawls il sistema di cooperazione deve essere equo, cioè basato sull’uguaglianza. Ma per viola è fondamentale anche l’interdipendenza delle persone: il diritto esclude l’individualismo assiologico, dove il singolo è realizzato da sé; e la società è un mezzo per raggiungere certi fini, essa è irrealistica perche l’uomo è un animale sociale, interdipendente, ci sono relazioni sociali costitutive dell’uomo. Esiste anche l’homo socialis e il diritto contempla tutte e due gli aspetti perche non ha una competa antropologia: mira all’ordine sociale senza imporre un tipo di uomo preciso, ma con il vago intento di umanizzare la società. Per il diritto noi siamo trattati uguali poiché simili (ma non uguali). Ciò implica l’uguaglianza formale nella diversità sostanziale. Cioè è messo particolarmente in luce dalla formulazione positiva e negativa della regola aurea, che esplica il principio della reciprocità e suggerisce che la vita degli altri vale quanto la mia. Questo è a fondamento del metodo della ragionevolezza: non posso pretendere dagli altri cose che non possono accettare. Quindi la ragionevolezza è fondata sul principio d’eguaglianza e viene usato nei casi di conflitti fra diritti. Quindi il diritto è un equo sistema di cooperazione sociale, secondo il principio della ragionevolezza, che porta alla reciprocità, base della cooperazione. Il conlitto Le ragione del conflitto non sono meramente economiche, ma anche la fragilità e l’imperfezione dell’uomo, la scarsezza delle risorse, l’inconciliabilità dei bisogni … possono essere fra individui, culture, religioni (spesso incarnate nei conflitti individuali). Conflitto di interessi (spesso di logica economica) risolvibile con la negoziazione, col metodo dell’autorità, con l’argomentazione (richiede soggetti disposti alla dimensione della reciprocità), col voto (non dialogico), col sorteggio. La negoziazione riguarda sia il diritto privato sia quello pubblico (per esempio il parlamento). Conflitti di riconoscimento della propria identità: è chiesto alla comunità politica e può non essere dato, ma sempre in una logica binaria, non esiste riconoscimento negoziabile. Ci sono delle identità che esistono in relazione ad altre (no global/global). Se non viene riconosciuto, si nega l’umanità del soggetto disconosciuto. Di solito è affrontato dal diritto Cost. che racchiude i principi generali di tutela dei diritti della personalità. Conflitto ideologico sono in questione concezioni generali sul mondo e sulla vita, e poiché ognuno è sicuro della propria ricerca del bene e del vero, è meglio mettere tra parentesi le concezioni omnicomprensive della vita e confinarle nel privato (Rawls). Quest’idea si accompagna a una concezione dello stato come neutrale rispetto ai valori, che implica che il conflitto deve essere tollerato nel privato e risolto con la liberta democratica nel pubblico (a maggioranza). Il diritto si astiene per quanto possibile. Ma lo stato deve coltivare dei valori e cmq deve prendere sempre più spesso posizione. E ovviamente il metodo democratico deve essere deliberativo, ovvero accompagnato da argomentazione: l’avere la maggioranza non dà ragione. La giustizia in generale Ci sono dei valori, beni che solo il diritto può assicurare? La giustizia. Noi vogliamo un ordine sociale giusto; se è ingiusto è per le imperfezioni umane. I romani definivano il diritto ius boni et iusti. Per la morale la giustizia è una delle quattro virtù cardinali, per la religione riguarda dio (teodicea), se ne occupa anche la politica … La giustizia fondamentalmente riguarda l’azione e indirettamente le persone e le regole. Dobbiamo distinguere la giustizia dalla correttezza (azione appropriata al fine).Se il fine è giusto, da esso traiamo la giustificazione di un’azione, ovvero possiamo trovare ragione per agire in un modo concreto. Giustizia legale o giuridica Secondo il diritto , una’azione è giusta se conforme ad una regola valida. Chiarisce il profilo della correttezza, ma non della giustizia del fine (ovvero la giustizia della regola). La giustizia in generale vuol dire rendere a ciascuno il suo. Si compone di tre elementi: • l’alterità (unica virtù che pretende l’altro) comunic-azione-cooperazione • Debitum, il dovuto, l’oggetto della giustizia, ciò che devo dare all’altro dovere • Criterio del giusto: uguaglianza, principio formale del “trattare in modo eguale tutti” siamo di valore eguale anche se di fatto diseguali/trattati egualmente. L’uguaglianza sostanziale sembra tutelata solo in alcune politiche di solidarietà, ma nasce proprio dall’eguaglianza formale, attraverso il principio di ragionevolezza. La giustizia ha una funzione di misura, criterio di valutazione dell’azione. Commisurazione dei rapporti intersoggettivi. Nella giustizia si realizza il riconoscimento dell’altro come equivalente ma diverso, attraverso il p. della ragionevolezza. La giustizia è in sentimento. Kelsen”giustizia ideale irrazionale”, si è perciò scritto poco sulla giustizia. Ma il sentimento può rivelarci ragioni nelle nostre azione che l’intelletto non vede. Quindi bisogna coniugare ragione e sentimento. Il concetto di giustizia legale è imperfetto (anzi può portare ad una moltiplicazione di atti ingiusti) ma è alla base del principio di legalità. Diritto come tecnica per la giustizia legale (ma è anche fine!). La giustizia correttiva riguarda rapporti volontari non rispettati, o involontari in cui bisogna riparare il danno. Questa giustizia presuppone le spettanze, o poteri (in sintesi il diritto). Si riteneva propria del diritto. Oggi anche nelle società occidentali ai procedimenti di giustizia si sostituiscono elementi di mediazioni, tipici del mondo orientale, dove obiettivo del diritto è la pacificazione. Nel diritto penale e minorile le forme di mediazione giuridica si allontanano dai poli di giusto e sbagliato e mirano alla pace sociale. Società del rischio, in cui abbiamo bisogno di assicurazioni : noi vogliamo tutelarci dai rischi, creati soprattutto da noi in situazioni non essenziali. Vogliamo trasferire ad altri le responsabilità dei rischi assunti ma anche miei diritti. Il diritto guarda alla giustizia dell’azione, senza guardare all’animo. La giustizia come virtù in questo senso forse è immorale, ma necessario. Per Aristotele un atto è giusto se compiuto da un uomo giusto. Quest’idea è tipica di una società omogenee. Nella nostra epoca è necessaria una configurazione oggettiva della giustizia come norma. La giustizia politica è inerente alle istituzioni e non alle singole situazioni. Rawls rompe la tradizione emotivi sta della giustizia nel 1971 con “una teoria della giustizia”, rianimando il dibattito sulla possibilità di una giustizia politica. Rawls parla di giustizia come equità, ragionevolezza (fairness), correttezza. Ci troviamo in una società pluralista (concezioni diverse sui massimi sistemi): ciò ci obbliga a una mera sopportazione reciproca? Essendo un contrattualista, compie un esperimento mentale in cui i fondatori della società devono creare delle istituzioni giuste, nell’ignoranza della posizione che ricopriranno nella società futura. Nella posizione originaria accetteranno solo regole ragionevoli per qualunque condizione futura (come fecero i padri pellegrini alla volta di New England), caratterizzate da reciprocità e cooperazione. Gli individui devono essere trattati da liberi ed eguali, qualsiasi miglioramento dei più ricchi sarà accettato solo se porterà un miglioramento eguale per i più poveri (criterio della differenza). La giustizia è dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto. Il diritto soggettivo è un legame di spettanza fra il soggetto e il bene. I romani non avevano il concetto pieno di diritto soggettivo, perche usavano il termine “iura” per indicare un insieme di situazioni personali (anche sfavorevoli). Per noi i diritti sono momenti di affermazione del soggetto, per questo sono in generale umani. Quindi soltanto il concetto di uomo ci può dire cosa è favorevole. Negli stoici, Socrate, Aristotele, Platone vi era l’idea che i beni della terra appartenessero a tutti, indipendentemente dal proprio credo. Originaria proprietà comune delle cose. Come si passa da una spettanza comune dei beni al regime attuale di divisione, in maniera giuridica, ragionevole? Ugo Grozio (giurista olandese del ‘500, fondatore del diritto internazionale col “de iure belli ac pacis”) sostiene che all’origine c’è qualcosa che possediamo: il corpo e beni spirituali che costituiscono un piccolo patrimonio personale sul quale abbiamo un diritto. Il rapporto che si instaura fra l’io e il mio è di disponibilità: il soggetto ha facultas moralis o potere morale di disposizione della res, e suscita obblighi negli altri. Il diritto soggettivo quindi è un potere morale sugli altri in relazione alle cose. Se io ho diritto al mio corpo ho anche diritto a tutto ciò che è collegato al mio suum. Tutto ciò è fondamentale a mantenere il mio patrimonio personale e oggetto di mio diritto. Fa sorgere dei titoli validi per poter rivendicare una cosa come mia (Che prima avevano tutti), che si ottengono partendo dal titolo valido del “suum”. Bisogna ribadire che il riconoscimento del titolo valido per la spettanza è la questione centrale in questo dibattito. Come faccio a dire che un’azione è mia? Se compio un’azione utile nei confronti tuoi, è anche tua. Quindi l’idea del diritto di proprietà è originari e tra proprietà e liberta per Grozio c’era uno stesso rapporto. Il carattere matrimoniali stico del diritto soggettivo sulle azioni. Allora posso vendere le mie azioni, il mio potere morale sulla cosa: alienatio particulae nostrae libertatis. Quindi la liberta è alienabile. Quindi questa concezione non si applica ai diritti umani, oggi (prima si inseriva nel dibattito sulla schiavitù). Far corrispondere forzatamente il diritto mio al dovere tuo è compito dello Stato, fondato su un patto sociale tra proprietari◊individualismo possessivo. Il diritto di proprietà è un diritto perfetto, perche fa corrispondere al diritto un dovere. Quindi non solo Dio crea obblighi morali, ma anche la società, e sono obblighi immanenti. Teorie dell’origine del diritto soggettivo La garanzia del mio diritto e quindi lo stato grazie al diritto perfetto (titolo valido accompagnata da pena in caso di sanzione). Secondo Grozio, i proprietari fanno un patto sociale creando lo Stato fondato sul diritto soggettivo. I giusnaturalismi seguono quest’interpretazione. Ma col tempo il ruolo dello stato è diventato sempre più importante: è la volontà dei governanti a determinare i titoli validi! Un romanista tedesco, , fornisce una definizione dogmatica:” il diritto soggettivo è potestà della volontà conferita dall’ordinamento giuridico. “ quindi non esistono diritti per natura e si sfocia nello statalismo. Locke si pone il problema del passaggio da una comunanza dei beni ad un regime di proprietà per titoli validi. Sostiene che all’origine ognuno aveva diritto su tutto, ma col lavoro aggiungo qualcosa alla natura, acquisendo un diritto maggiore rispetto agli altri. Il surplus, il valore aggiunto, viene ripreso dall’economia classica e da Marx. Non ho il diritto di sprecare il frutto del mio lavoro: divieto di accumulare cose imperiture (visione cristiana). Pero si passa ad un regime di mercato grazia all’uso del denaro come merce di scambio. Il pericolo di questa teoria è che si inneschi una disuguaglianza eccessiva, tipica del regime liberale. Teorie del diritto soggettivo I diritti come scelte giuridicamente protette (Hart). La scelta è protetta sia nell’esercizio sia nel risultato. “l’individuo è come un piccolo sovrano delle sue cose” del resto il codice napoleonico definisce il diritto di proprietà come “ius utendi ac abutendi”. Pero questa teoria riduce la capacita della persona alla scelta: e i bambini non hanno diritti soggettivi anche se non sono in grado di scegliere? diritto come interessi giuridicamente protetti (Jhering). L’interesse, che non è un potere ma un’utilità, può essere il fondamento del diritto soggettivo. Pero è una visione paternalistica, perche è lo Stato che decide cosa è nell’interesse di chi. Queste concezioni sono tutte di carattere patrimonialistico perche i diritti soggettivi sono rapportati a beni materiali e immateriali collegati all’Io. Lo stesso corpo è visto come bene posseduto, da cui deriva un’idea materialistica della liberta come proprietà del proprio corpo. Ma questa scissione cartesiana dell’io dal corpo è rispettosa? Esistono dei diritti che abbiamo per il solo fatto di essere uomini? La categoria del diritto soggettivo non può essere usata per i diritti della personalità perche troppo segnata da una visione paternalistica che conduce ad una materializzazione dell’io. Alcuni sostengono che i diritti siano solo degli individui perche temono che la sopravvivenza di un diritto collettivo subordini l’esigenza di diritti individuali. D’altra parte non si può negare l’esistenza del diritto all’autodeterminazione dei popoli, importante per la fine del colonialismo e sancito nei primi atti dell’ONU. I caratteri dei diritti umani I caratteri dei diritti umani sono: universalità: appartengono a tutti gli uomini indisponibilità :sottratti al potere del titolare inviolabilità : non sono sopprimibili ma solo limitabili a certe condizioni e non tutti (la tortura è inammissibile) imprescrittibilità: non ci sono prescrizioni contro la violazione di diritti umani i diritti fondamentali sono quei diritti umani costituzionalizzati, fondamentali per un dato ordinamento. È una nozione tecnica. I diritti configgono perche sono applicazione di valori contrastanti. Sorge il problema del bilanciamento di diritti paritari. Il diritto che effettivamente si ha è sempre una limitazione di quello astrattamente proclamato. I diritti sono insieme particolari e universali. Devono valere per tutti ma per essere rispettati hanno bisogno di sanzioni erogate dai regimi politici, dagli stati in concreto. La particolarizzazione è necessaria perchè esista il diritto; la sfida delle carte regionali è concretizzare e declinare i diritti umani nelle varie culture interessate. Quale antropologia c’è dietro i d. umani?per quelli soggettivi è l’homo oeconomicus. Ve n’è una pluralità, alla quale si collegano valori basilari. L’antropologia individualistica concepisce l’individuo in quanto tale, completo prima di entrare in società (atomista). Per primo difende il valore dell’autenticità: avere la liberta di esprimere la propria identità, essere riconosciuto per quello che si è, senza discriminazioni, anche se non lo si è scelto. È la liberta di esprimere il proprio pensiero. È collegato alla liberta religiosa concepita dai puritani:” lo stato non deve impedire di espletare la missione che Dio mi ha affidato”. L’art 1 della Cost. degli USA è il divieto di una chiesa di stato, che sancisce la liberta di compiere il proprio dovere. Oggi si va riscoprendo, con i diritti culturali, delle donne, delle persone omosessuali … son tutti diritti identitari. Poi sorge l’autonomia che è il diritto di essere legge a e di se stessi, di poter scegliere ed essere rispettato nelle proprie scelte. • L’antropologia relazionale sostiene che scopriamo noi stessi solo nel rapporto con gli altri. Homo socialis che spinge alla solidarietà, al valore della cooperazione. • L’antropologia situazionale sostiene che l’uomo non è un essere neutro, non esistono diritti legati ad un uomo astratto: l’uomo è sempre in situazione e i diritti sono di modelli qualitativi: diritti del bambino, del malato, dell’anziano … pur condividendo tutti la stesa dignità. Questa è la sfida dell’uguaglianza nella differenza: trattati come uguali anche se diversi. Tradizione dei diritti naturali I d. naturali devono avere una positività come tutti gli altri, ma esiste un diritto naturale non prodotto dalla volontà umana? Non parliamo di valori come la dignità e i moral rights, ma di diritto, norme giuridiche non create né da diritto legislativo né dalla consuetudine. Nel processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, essi si difendevano dicendo d’aver ubbidito alla legge dello stato, ma sono stati puniti perche non hanno disobbedito a leggi ingiuste, in nome di un diritto naturale. L’immagine storica dei d. naturali si fa risalire all’Antigone di Sofocle. Creonte pone la legge che vieta la sepoltura dei nemici di Tebe, ma la nipote Antigone seppellisce il fratello nemico dello zio. Viene condannata, ma lei si difende in nome della legge naturale della pietà religiosa. Creonte deve punirla in nome della legge naturale che impone il rispetto dello Stato. La legge di Antigone riguarda i fini dell’umanità, quella di Creonte dei mezzi di mantenimento della convivenza sociale. Il giusnaturalista sostiene l’esistenza di una legge naturale all’interno del diritto positivo o addirittura in posizione superiore. I giuspositivisti sostengono che i valori morali sono estranei al diritto, non sono giuridici. Diritto e morale sono connessi o no? La comprensione dei d. naturali è storica: ogni epoca giuridica, ogni concezione del diritto positivo è accompagnata, come un’ombra, da una del diritto naturale. Nel corpus giustinianeo è presente il d. naturale in tutta la compilazione, ma soprattutto nella parte fra ius gentium e ius civilis: nello ius naturalae (anche se non ben descritto). Tutta la stratificazione sociale per i romani era un ordine naturale. ancora oggi la famiglia è chiamata società naturale. Normalità dei rapporti sociali, non normatività, non artificialità, ma naturalità. Perciò la scienza del diritto è lo ius iusti e iniusti. Il diritto positivo è contingente, quello naturale rispetta la normalità. Per i romani quindi è una legge immanente, non divina: è la natura delle cose. A questa visione oggettiva riguardante l’ordine sociale, si oppone una visione soggettiva condotta dal giurista e filosofo stoico Ulpiano che definisce la legge naturale come “cioè che la natura ha insegnato a tutti gli animali”: è legge istintiva, psicologica, biologica che preserva l’esistenza (forse il primo protettore dei diritti degli animali!). Ma prima ancora lo stoico Cicerone parla di una legge della ragione che ci guida nel comportamento; nel De legibus (prima trattazione di filosofia del diritto) l’inclinazione naturale (diversa dall’istinto animale) è iscritta nella nostra vita biologica e sociale. Per primo Cicerone individua tre sfere di inclinazione naturale che individueranno 3 libelli di istituzionalizzazione: • inclinazione alla vita e alla sopravvivenza (come Ulpiano) che da luogo a istituti giuridici volti alla protezione della vita (divieto di omicidio …); • desiderio della continuazione della specie che ci distingue dagli altri animali poiché il piccolo umano ha bisogno di cure: nasce cosi il diritto di famiglia; • esigenza della socialità e di ordine sociale attraverso la cooperazione, opera della ragione dalla quale scaturisce il diritto pubblico. Questo è il pensiero della legge naturale fino al medioevo, influenzato dal cristianesimo. Nel 1140 il monaco Graziano raccolse le decretali dei papi, alla base del diritto canonico. I commentatori della raccolta, i decretasti, erano i giuristi che si confrontavano con i glossatori, commentatori del Corpus giustinianeo nell’università di Bologna. Graziano dice che la legge naturale è ciò che è contenuto nella bibbia; anche se legato alla rivelazione cristiana, ma non voleva sottolineare il profilo della fede: in un passo delle lettere di S. Paolo ci si chiedeva se i pagani si possono salvare se non conoscono la legge mosaica. Risponde di sì, perche con la loro ragione possono capire i precetti della legge mosaica. La legge è scritta nei loro cuori: fare il bene ed evitare il male. La novità di Graziano non è l’aspetto della ragione (ripreso dallo stoicismo), ma che la legge viene da Dio. La legge naturale è divina, per questo ci obbliga. Nel medioevo dio era il legislatore dell’universo, secondo un piano: sia legge naturale sia legge della natura, entrambe leggi eterne. Avendo gli uomini la ragione, possono capire una parte di questo piano: a loro attraverso la ragione Dio ha messo la coscienza del bene e del male. Tommaso:”la legge naturale è la partecipazione della legge eterna alla creatura razionale”. Poiché questa coscienza è diffusa in tutti gli uomini, si può parlare di etica naturale, che non richiede fede. Esiste anche l’etica rivelata, esigenze di amore e di dedizione che trascendono la coscienza naturale. Il volontarismo di Occam si secolarizza nell’imperativismo giuridico. altri teologi si avvicinarono al razionalismo: dio poteva creare come voleva il mondo, ma il quel tipo di mondo i rapporti dovevano essere definiti. Dio intelletto e non volontà. cmq la legge naturale viene quasi esclusivamente invocata da chi ha una fede religiosa. Con la modernità viene meno l’unita del cristianesimo il che implica che i vari cristiani hanno un punto di vista comune solo nella legge naturale, e non sul piano teologico, proprio perche, come paradossalmente afferma Grozio, “la legge naturale esisterebbe anche senza Dio”. I valori fondamentali sono indipendenti da dio, quindi sono obbligatori in misura minore. La legge naturale è la legge della ragione, non più divina! È visto più come mezzo che come fine. Più alla maniera di Creonte che quella di Antigone. Posto un fine (salvare la città) devi obbedire al mezzo(legge statale). Hobbes: nello stato di natura (prima delle istituzioni), vige il bellum omnium contra omnes, dove neanche il più forte può farsi valere a lungo. Io ho per natura diritto a tutto ciò che è necessario alla mia autoconservazione. Si stipula un patto sociale che segue i teoremi della ragione (legge naturale): cercare la pace attraverso la cessione dei diritti. Dimensione della pura utilità, homo oeconomicus. È una legge naturale (che va oltre la scelta di coscienza) ma dei mezzi (utilità) e non dei fini. Come punto di riferimento nella modernità abbiamo il Codice Napoleonico, che è il coronamento di 300 anni di riflessione. Esso segna anche la fine per tutto l’800 del giusnaturalismo. È all’origine dell’epoca della codificazione. Il diritto codificato è diritto positivo che non riguarda alcuni rapporti sociali, ma una concezione, un paradigma sociale che si riflette in un piano regolatore di tutti gli ambiti del vivere sociale. Napoleone aveva una convezione giusnaturalista che ha spazzato via lacune e antinomia del diritto stratificato, ora sostituito da un testo chiaro di riferimento. Napoleone, mentendo, disse che il codice non imponeva la sua volontà, ,ma esplicava leggi della ragione naturale. È proprio nel 500-600 che nascono le facoltà di giurisprudenza moderna:iuris naturalis scientia, che si divideva in varie branche che studiavano il diritto naturale e il modo più razionale di organizzare la società. Caratteristiche del giusnaturalismo moderno: condizioni empiriche della natura umana, come insieme di fatti che si verificano empiricamente (emerge il carattere utilitaristico) e non metafisica dell’umano. Il problema principale sono le scarse risorse, l’incertezza del futuro e l’imperfezione umana. Teologia: fini della natura umana; nascono sociologia e antropologia che individuano come carattere comune primario la self-preservation (fine conservatore). Grazie a questi elementi si opera una costruzione razionale della società, contraria al concetto romano di normalità. Per Pudendorf, nel “De iure naturale et gentium” del 1672, l’uomo è afflitto da imbecillitas, è debole e ha bisogno della società. L’uomo non è animale sociale,non affermazione metafisica. Dall’osservazione empirica si evincono i principi generali del diritto civile, penale e internazionale tuttora seguiti. Ci sono valori, principi, istanze, elementi fattuali che non sono alla merce della volontà del legislatore: c’è una legge naturale che pone limiti al diritto positivo. Prima la legge naturale è divina, emanazione della volontà di dio. Nel pensiero moderno abbiamo una deriva utilitaristica = la ragione è un mezzo per sopravvivere, quindi la legge della ragione è un mezzo. Il giusnaturalismo moderno ha una sua autonomia e condiziona anche la concezione di diritto positivo come diritto politico (epoca della codificazione)= il legislatore è uomo politico e si coltiva l’idea che tutto il diritto sia politico (ma non valeva prima e neanche tanto oggi). Questa produzione di diritto avviene attraverso un progetto politico, non estemporaneo e non parziale. Il codice doveva coprire tutto. Ora è un’epoca costituzionalizzazione e di internazionalizzazione del diritto. conoscere la storia della legge naturale e positiva aiuta a comprendere il diritto attuale. Il problema della scarsezza di risorse è stato analizzato da Hart, che, pur giuspositivista, ritiene che esista un contenuto minimo di diritto naturale proprio perche non abbiamo risorse infinite. Volontà incostante, non siamo decisi nella società e nell’egoismo … considerazioni empiriche che assomigliano a Pudendorf. Oggi c’è un elemento nuovo: una legge formalmente valida ha bisogno di essere conforme ai principi costituzionale, quindi deve corrispondere a certi valori. È una deriva storica dovuta al non rispetto della dignità umana. C’è giusnaturalismo perché il legislatore non può violare la dignità umana, quindi la nostra epoca è favorevole al giusnaturalismo. I giuspositivisti formulano la teoria dei giuspositivismo inclusivo:; nel concetto di diritto positivo devo includere un elemento morale positivo, ovvero ciò che l’umanità ritiene essere in questo momento morale. Non è morale eterna, ma positiva e mutevole. Secondo Viola pero gli elementi morali una volta acquisiti sono irretrattabili. Una critica al concetto moderno di d. naturale (mezzo e non fine) è quello di scambiare il d. naturali con lo stato di natura, esperimento mentale atto a vedere i vantaggi o gli svantaggi della società. Rousseau vede solo vincoli nella società e la rivoluzione è fatta un nume dello stato di natura. Vi sono elementi di d. naturale all’interno del diritto positivo, figli del processo di secolarizzazione delle istanze cristiane di d. naturale. Oggi noi crediamo al messaggio cristiano senza i presupposti religiosi. I caratteri presenti nel diritto positivo presi dal diritto naturale: • leggi come mezzo necessario (e non fine) per stabilire l’ordine e mantenere la pace (sempre pero un senso riduttivo) • la forma di legge alla base dell’uguaglianza, che si oppone alle leggi ad hominem. Uguaglianza sfocia nella ragionevolezza. • Legge positiva come sistema di regole: le regole giuridiche devono riguardare tutti gli aspetti della società (idea politica) e devono essere coerenti. È sfociata nell’avversione ad ogni discrezionalità e intervento interpretativo: ma il diritto non può essere matematico, perche è ragion pratica in cui dobbiamo scegliere tra una pluralità di soluzioni corrette. Il 900 è un’epoca di decodificazione, di costituzionalizzazione e d’internazionalizzazione del diritto; si vede il ritorno del diritto naturale, diverso da tutti gli altri poiché cambiano i presupposti del diritto positivo. Che cosa deve rispettare il sovrano d’oggi è indicato nella Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48 che non è frutto di un’emanazione di un sovrano né è un trattato internazionale, ma un esempio di soft law. Nuovo concetto giuridico: diritti umani. Per alcuni sono i vecchi d. naturali,ma per essere tali devono essere positivizzati.D’altro canto il legislatore non può scegliere quali diritti riconoscere. Il territorio dei diritti umani è intermedio al giuspositivismo e al giusnaturalismo. Alcuni ritengono sia la morale dell’umanità in cui il pluralismo dovrebbe convergere. È la lingua comune di un’umanità cosi pluralista. Per Dworkin esistono: morale del bene (Kant), fine(Aristotele), diritti (contemporanea). La ricerca di una legge naturale riprendere proprio dal riconoscimento dei diritti umani, perche bisogna definire il quantum, i limiti dell’esercizio di diritti e la definizione concreta della violazione degli stessi. Quando applichiamo i diritti umani, abbiamo bisogno di criteri per la giustificazione e l’esercizio dei diritti, che sono i luoghi in cui risorge la problematica della legge naturale. Giustificazione dei diritti umani: nella Dichiarazione non era possibile scrivere nessuna giustificazione perche, abbracciando una concezione, non si sarebbero nessi tutti d’accordo. Si scrisse di non porre il problema della giustificazione “siamo tutti d’accordo a patto che non ci si chieda perche”. Bobbio, “l’età dei diritti”:”il problema non è giustificarli ma proteggerli”. Viola: possiamo mettere tra parentesi la giustificazione, ma non possiamo più farlo nel momento in cui li applichiamo. Dobbiamo esibire una concezione del genocidio, della tortura, della violazione di diritti che sia legata alla giustificazione stesa dei diritti. Nell’esercizio si rivelano i diritti che ho (sempre più compressi di quelli proclamati). Diritti umani: “trattare in modo umano gli esseri umani”. Umanizzazione della società. Dobbiamo riconoscere valori fondamentali della specie umana, sono comuni nonostante la varietà delle interpretazioni. concezione forte di Finnis (giusnaturalista):la legge naturale oggi si esprime in un quadro di valori fondamentali affinché la nostra vita sia umana; bisogna rispettare i valori come orizzonti del pensiero umano. Noi differiamo nella loro organizzazione, nella posizione di preferenza che in cui li mettiamo. Ma è possibile racchiudere in sette i valori fondamentali? Ed è sempre possibile dare risposta contemporaneamente a tutti questi valori? Concezione debole di Rawls (liberale): non bisogna stabilire in modo paternalistico i fini, il cittadino non deve essere trattato come un minorenne. Non esiste una lista di valori fondamentali. I valori sono puramente strumentali,e l’uomo non si realizza in essi. Si richiede un minimo di liberta, risorse per realizzare la propria esistenza e una società di self-respect.