Libri e Popone
Rafaella Micheli
“Quando sol est in leone bonum vinum
cum popone et agrestum cum pipione ”1
Durante le mie peregrinazioni biblioile mi sono imbattuta in riferimenti e anche curiosi aneddoti che riguardano il
popone, desidero riportarli in questo articolo dando così un
ulteriore contributo alla “crociata” intrapresa in quel di Spineto nell’estate del 2012 «in difesa del popone».
Si pensa che questo fruto sia originario dell’India o dei
deserti dell’Iran, l’antica Persia, mentre qualcuno vuole che il
luogo di origine sia invece l’Africa; pare comunque che sia stato il popolo egizio nel V secolo a. C. a iniziare l’esportazione,
grazie alla quale si difuse in tuto il bacino del Mediterraneo.
Arrivò in Italia in età cristiana, come documentato da Plinio il
vecchio, nel I secolo d. C., nel suo libro Naturalis historia, che lo
uniformò al cetriolo «a forma di mela cotogna»2.
Tra la metà del XIV secolo e ino al 1450, fu largamente
riprodoto il Tacuinium sanitatis, traduzione latina di un manoscrito arabo conosciuto come: Taqwim al-Sihha bi al-Ashab
al-Sita, il tratato medico di Ibn Butlan di Bagdad, contenente
brevi preceti per uno stile di vita sano, che descriveva come
preparare cibi, conteneva norme igieniche e dietetiche, nonché
proprietà e virtù di piante, erbe, ortaggi e spezie.
Il manoscrito, all’epoca molto difuso in Lombardia tra
le famiglie nobili, zona dove fu maggiormente riprodoto, è
riccamente illustrato: oltre 200 pagine. È una inestra aperta
sulla vita medievale, descrive particolari e detagli della col1) P. Artusi, La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Roma : Ed. Newton
G.T.E., 1989.
2) htp://www.alimentipedia.it/melone.html (cons. 10 genn. 2014).
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tivazione, insieme a una vasta tipologia di erbe aromatiche,
piante medicinali e da fruto tra cui le Cucurbitacee, alle quali
appartiene il popone.
Questo manoscrito, pare sia il primo libro con immagini del popone, in particolare, nella versione molto accurata
dal punto di vista botanico, custodita presso l’Österreichische
Nationalbibliothek di Vienna; considerato il Tacuinum ancora
esistente di maggior pregio.
Esiste una copia del manoscrito lombardo anche a Parigi, Bibliotèque Nationale de France, Liegi, Bibliotèque Universitaire de Liège e Roma Biblioteca Casanatense; quest’ultimo
diferisce dagli altri nel nome: è chiamato, infati, Theatrum
sanitatis3.
Ed eccoli i poponi, come in un teatro: nelle ghirlande e
nei festoni, dipinti negli archi e nelle volte; suntuosi e atraenti; in compagnia dei melograni, dell’uva, delle zucche e degli
agrumi. Simboli d’abbondanza e fecondità: “Sintomi del creato”. Le immagini che documentano i poponi non si trovano
solo nei Tacuina, ma anche nelle decorazioni e negli afreschi,
come nella chiesa benedetina di Santa Croce di Sermide a
Mantova, ediicata nel 1070 per volere di Matilde di Canossa, e
afrescata intorno al XV secolo, i cui decori sono atribuiti alla
scuola di Giulio Romano o come nel Palazzo della Farnesina,
Loggia di Psiche, per mano di Rafaello Sanzio e Giovanni da
Udine e altri dei suoi allievi. In molti festoni che decorano palazzi rinascimentali o dipinti a caratere religioso, troviamo il
popone a buccia liscia oggi chiamato Honey Dew, o popone
“egiziano”.
Uno dei temi dominanti intorno al quale ruota la cultura
del Medioevo, è il giardino, esso ha un alto valore spirituale
e simbolico; l’antico signiicato pagano si trasforma e prende
forma il grande “giardino allegorico”. La ricezione medioevale dell’antico testamento, produce un grande erbario, dove è
catalogata ogni pianta, ciascuna con la propria virtù e il simbolo particolare che rappresenta. Il manoscrito Hortus deliciarum
di Herrada di Landsberg, la badessa di Odiliemberg, che con
3)
htp://www.hort.purdue.edu/newcrop../�anick�papers/chronica�tacuihtp://www.hort.purdue.edu/newcrop../�anick�papers/chronica�tacui�
num.pdf (cons. 10 genn. 2014).
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questo termine non intendeva altri che le scienze, raccoglie il
sapere del tempo in quello che possiamo deinire uno dei primi lavori enciclopedici, o summæ teologiche, tipica produzione
leteraria dell’epoca. Anche Hidelgarda Von Bingen, conosciuta come “La Sibilla del Reno”, per la quale l’intero creato è
un giardino, nel suo tratato scientiico Liber simplicis medicinae, stampato nel 1533 col nome Physica, elenca le qualità fondamentali, il valore medico e le proprietà di circa 230 piante,
insieme a più di duemila rimedi e consigli per mantenersi in
buona salute.
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Nascono dunque nei monasteri, orti e giardini a volte
privati, dove il religioso possa dedicarsi alla coltivazione di
erbe e piante, ai quali sono atribuiti signiicati mistici e spirituali, e dove egli possa trascorrere del tempo in meditazione.
L’hortus dei conventi e delle abbazie spesso è di misura contenuta, solitamente diviso in pomario, erbario e viridirario e rientra nella tipologia dell’Hortus conclusus, uno spazio deinito
proteto da un muro o comunque cinto, dove al centro è posto
un pozzo o una fontana, dal quale gorgogliano acque limpide,
utilizzate per irrigare aiuole e prati. È un giardino che esprime la semplicità, un luogo dell’anima, un ricovero di serena
contemplazione in contrasto con la precarietà dei tempi, dove
nel mito dell’eterna giovinezza, in un rinnovato paradiso, si
professa la fede in armonia con la natura prodiga di valori4.
«Hortus nominatur quod semper ibi aliquid oriatur»
scrive Rabano Mauro copista di Isidoro di Siviglia.
Nel Medioevo sorsero le prime scuole di medicina, furono raccolte e studiate le più famose piante medicinali, ma
negli scriptoria dei monasteri, si era già iniziato a custodire la
cultura botanica e tramandarla nei codici e nelle miniature, e
negli scriti ci imbatiamo sempre più spesso nel conceto di
giardino o orto da coltivare considerato un vero e proprio hortus sanitatis. Nell’opera Hortulus, titolo abbreviato di Liber de
cultura hortorum, prezioso documento del periodo carolingio
composto da Valafrido Strabone abate di Reichenau, il giardino dei Semplici, l’orto, è composto da Semplici: piante aromatiche ed erbe medicinali, e anche il Peponis o popone appare
elencato tra i prodoti della terra utili per curare e preservare
dalle malatie.
I riferimenti di Strabone, autore di opere a caratere teologico e agiograico, ma il cui capolavoro è ritenuto l’Hortulus,
sono riconducibili ai classici copiati e lagamente riprodoti nei
monasteri e nelle abbazie al suo tempo, in particolare a Virgilio, Columella e Dioscoride, e a scriti quali il Medicina Plinii di
Sereno Sammonico e i Dynamidia dello pseudo Apuleio. Il popone è presente anche in altri due importanti herbulari, o giardini dei Semplici a scopo medicinale: nel Capitulare de villis, nel
4) A. Tagliolini, Storia del giardino italiano, Firenze, La casa Usher, 1991.
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manoscrito Helmstädt di Wolfenbütel datato 812 atibuito a
Carlo Magno, che elenca all’articolo setanta una lista di setantatre piante da coltivare nel territorio dell’Impero; e nella Delineatio monasterii Sankt Galli, interessante opera che documenta
la complessa architetura, e organizzazione del monastero, che
fu uno tra i più grandi centri della cultura in occidente5.
Quanto il giardino rappresentasse una moda assai diffusa anche tra i laici, lo dimostra il tratato dello studioso
Pietro de’ Crescenzi, conosciuto anche come Piero Crescenzio, discendente da antica famiglia bolognese e considerato
il maggior agronomo del Medioevo. Nel 1300 scrisse il Ruralium commodorum libri, opera in dodici volumi, colmando un
vuoto di conoscenza sull’argomento, poiché ino all’opera del
Crescenzi, in Occidente, le tecniche agronomiche e gli aspetti fondamentali della coltivazione delle terre, non erano mai
stati raccolti in un testo di riferimento. L’inluenza del testo
del Crescenzi fu notevole, poiché oltre alle norme agrarie, per
le quali il Crescenzi cita trentadue scritori antichi, molti tra i
quali arabi, afronta il problema della progetazione del giardino proponendo una tipologia per ogni ceto sociale: quelli di
piccole erbe per la gente semplice, quelli per grandi e mezzane
persone, e inine quelli per signori e re6.
L’importanza e la difusione del tratato del Crescenzi,
che essendo un giudice ebbe modo di dimorare in molte cità
italiane, fece rinascere nei proprietari terrieri un interesse per
la campagna e un amore per i giardini se pur nel clima insicuro e nonostante il consolidato ateggiamento d’abbandono delle terre; in un momento in cui l’urbanizzazione, era in grande
espansione e fermento. Essendo emiliano, area dove già allora
il popone era largamente coltivato, probabilmente grazie alla
sua familiarità con quest’ortaggio, egli dedica al popone molti
passaggi del suo tratato. Il Crescenzio, nella sua opera in latino usò il termine melones, ripreso poi anche da Linneo nella
sua classiicazione delle piante, mentre nella traduzione del
1805, l’Accademia della Crusca usò il termine popone.
5) Mater Herbarum, a cura di M. Venturi Ferriolo, “Kepos Quaderni”, Milano : Guerini e Associati, 2000.
6) A. Tagliolini, Storia del giardino italiano... cit.
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Tornando all’opera del Crescenzi, ad esempio a pagina
165, egli scrive: «laddove si andranno a piantare porri, cipolle
e cavoli, fagiuoli, miglio, melloni, zucche, cocomeri, cedriuoli
e poponi, si possono del mese di Gennuaio e Febbra�o seminare l’erbe che si consumano ovvero sì innanzi alla piantagione
delle cose sì come sono spinaci, atre, latughe, cavoli, porrine,
cipolline». Mentre a pagina 197, spiega che le cipolle si possono piantare dove si trovano i poponi e raccoglierle quando
son mature. In alternativa, si possono seminare le bietole: «in
campi dove sono i poponi o cedriuoli ovvero zucche quando
incominciano a stendere i rami avvegnaché vi sieno quivi cipolle o no. Quelle che rimarranno, levatine i poponi ovvero
zucche ovvero i cedriuoli, vanno sarchiate spesso».
Il capitolo LXXI è poi interamente dedicato ai poponi:
«De Poponi � I Poponi desiderano terra e aere chonte i cedriuoli e i cocomeri, ma meno grassa e meno letaminata, acciocché più saporosi e sodi divengano, e più tosto si maturino. E
si deano piantare a quel medesimo modo e tempo, e poiché
sono nati non si deono adacquare. De quali alcuni son grossi e
mangiansi maturi, cioé quando cominciano a diventare odoriferi e gialli: de’ quali i greceschi ch’hanno i semi molto piccoli,
son migliori di tute le generation de poponi. E altri sono che
sono sotili, verdi e molto lunghi e quasi tuti torti, i quali si
chiamano melangoli e questi appelliamo noi melloni i quali si
mangiano acerbi, si come li cedriuoli e son d’un medesimo sapore ma sono men freddi e più digestibili, ed imperciò si dice
che son migliori che i cedriuoli. I poponi son freddi e umidi nel
secondo grado e que’che son dolci son temperatamente freddi.
E Avicenna dice che la sua radice in quel medesimo modo é
vomitiva che deto é della radice de cedriuoli e de cocomeri. Conviene adunque che quei che gli vuole usare, alcun cibo
non mangi innanzi a quelli acciocché non facciano abbominazione. Ma Isac dice che, poiché saranno mangiati, si dee dimorare infìno che saranno smaltiti innanzi ch’altro cibo si prenda.
Anche dice Avicenna, che ‘l popone si digestisce tardi, se non
quando si mangia con quel ch’é dentro e il suo nutrimento é
migliore e ‘l suo umore é più convenevole che quello de cedriuoli e de cocomeri. Ma quando il popone si corrompe nello
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stomaco si converte a natura venenosa. Adunque si conviene
che quando grava sene cavi fuori incontanente: e di quelle cose
che dopo ‘l lor mangiar danno a�utorio, sono ne’ collerici l’ossizzacchera, inocchio e la mastice. Ma i lemmatici prendono
ossimele, gengiovo condito o solamente gengiovo o decimino
e beono vin puro, Ma il lor seme provoca l’orina, e mondiica
le reni e la vescica dalla rena e dalla pietra»7.
Ma del popone, parlano tanti altri autori, ad esempio
Bartolomeo Scacchi, deto il Palatina, nel De honesta voluptate,
stampato a Roma nel 1474 scrive: «… per quanto riguarda i
fruti consiglio di aprire il pasto con le qualità dolci e profumate, terminado con quelli aspri e astringenti, si trata di pere,
mele, melograne, questa è la regola da seguire; il popone e le
pesche andranno accompagnate da buon vino per impedire
che imputridiscano nello stomaco». E inoltre: «I nostri antecessori usavano prendere il popone a digiuno, quindi poco prima
di sedersi a tavola, per evitare che ritardasse la digestione»8.
«L’opera, il cui titolo sarebbe: De natura rerum or de obsoniis
or de honesta volupate, et de tuenda valetudine, come suggerisce
una nota biograica sovrascrita nel 1841 sulla copia originale
conservata al Museo Archeologico Nazionale di Cividale del
Friuli, è bellissimo esemplare di incunabolo che si suddivide
in dieci libri, splendidi alcuni fogli compilati da un esperto
amanuense con carateri e abbreviazioni medioevali usando
inchiostro nero e rosso, che sono stati inseriti come risguardi»9.
Il libro descrive la natura degli alimenti, le ricete e contiene indicazioni e suggerimenti per la scelta dei servizi e tempi di somministrazione dei cibi. La maggior parte delle ricete
fanno riferimento al libro di cucina De arte cuquinaria di Mastro
Martino, da lui celebrato negli scriti, ma ciò non sminuisce
certo il pregio e la modernità del suo lavoro che tra le altre cose
ha carateristiche linguistiche moderne. Lo troviamo stampato
7) htp://meloninadalini.wordpress.com/2012/02/10/il�melone�nel�1300�descrito�da�piero�de�crescenzi/#more�121 (cons. 10 genn. 2014 ).
8)
A. Capatti�M. Montanari, La cucina Italiana, Roma�Bari, Editori Laterza, 2010.
9) http://www.abocamuseum.it/bibliothecaantiqua/Book�View.asp?Id�
Book=704 ( cons. 10 genn. 2014 ).
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in Francia con il titolo Platine en francois nel 1509, e a Strasburgo in lingua tedesca nel 1530 come Von allem Speisen und Gerichten. Durch den hochgelehrten und erfahrenen Platinam, Babst
Pii des II Hofmeysfer.
Castor Durante da Gualdo, medico e botanico, nel suo
Herbario nuovo del 1585, cita il popone ammonendo di non
abusarne, perché i poponi «sminuiscono il seme genitale»;
ne sconsiglia l’uso anche a diabetici e a coloro che sofrono di
disturbi dell’apparato digerente, suggerendo invece un largo
consumo chi non sofra di tali alizioni, per le sue virtù rinfrescanti, diuretiche e lassative. Dopo la prima pubblicazione,
furono realizzate ben oto edizioni ino al 1718.
Enrico IV di Navarra (Pau 1553�Parigi 1610) pare lo utilizzasse come rimedio contro la gota mangiandone durante il
periodo estivo in grande quantità.
Restando sul tema della virtù e dannazione del popone negli scriti che lo riguardano, un aspeto non trascurabile è quello che lo lega a opinioni del tuto discordi, tanto che
mentre alcuni lo consigliano caldamente per le sue proprietà
salutari, altri considerano il popone addiritura nocivo: facendo risalire a esso e alla sua presunta tossicità la morte di ben
quatro imperatori e due ponteici.
I riferimenti a questo fruto abbondano negli scriti e tra
gli scritori Domenico di Giovanni, deto il Burchiello, poeta
del quatrocento, nel soneto XXXVII delle sue Rime, recita:
…tre fete di popone e due di seta
E mestole forate bergamasce
E costole di cavoli e di lasche
Si fuggiron nel porto di Gaeta…
E nel Soneto XCIII:
... e fa di comperar un buon popone,
iutal che non sia zucca ne’ mellone
to’ lo dal sacco, che non sia percosso …10
10)http://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/burchiello/sonetti/pdf/
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/burchiello/sonetti/pdf/
sonet�p.pdf (cons. 10 genn. 2014 ).
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Il podestà di Viadana, Felice Fiera, cercando le grazie
del proprio signore, il 3 agosto del 1548, inviando fruti del
popone al duca Francesco Gonzaga, scriveva nella letera di
accompagnamento:
….quatro meloni ch’io credo n sian boni, sono bellissimi
la supplico farne dono a madama illustrissima et tri al cardinale…
«Ad Alexandre Dumas padre, che invitava a «... mangiarlo con pepe e sale, e berci sopra un mezzo bicchiere di Madera, o meglio di Marsala», si deve quella che possiamo considerare come una forma di “promozione pubblicitaria” ante
literam dei meloni di Cavaillon, così chiamati dalla zona di
produzione; essi sono talmente assaporati e gustati dal leterato, che lo spingono ad avanzare alla biblioteca locale una proposta inaspetata e quanto mai originale: lo scambio dei suoi
circa 400 volumi con una rendita vitalizia di 12 meloni l’anno.
L’oferta, si narra, fu accetata e corrisposta ino all’anno
della sua morte, avvenuta nel 1870. Il grande scritore ebbe poi
un ulteriore onore con l’istituzione, a suo nome, della Confraternita dei Cavalieri dei Poponi di Cavaillon11.
Lo scritore Brillat Savarin, il cui nome è rimasto legato
alla Fisiologia del gusto (1825), che non è il classico libro di cucina, ma raccoglie una serie di gustose meditazioni sulla civiltà
e i piaceri della tavola, difende i poponi raccontando che i buoni erano la regola, quelli cativi l’eccezione, e devono essere
consumati nel momento esato, quando hanno raggiunto «la
perfezione che è il loro destino».
Angelo De Gubernatis, autore di Mythologie des plantes
ou les lègendes du règne vègètale (Parigi 1878), ci spiega che il motivo per cui “popone” è stato associato al conceto di sciocco e
gofo sia imputabile all’estrema fecondità di questi fruti, alla
loro capacità generatrice incontrollata, opposta alla ragione di
un’intelligenza che invece sempre è in grado di moderarsi.
Nel testo dei Fratelli Ingegnoli Dove e come s’impianta un
orto del 1912, si parla di popone come sinonimo di melone.
Nel paragrafo di testo ad esso dedicato si precisa: «Le varietà
11) htp://it.wikipedia.org/wiki/Cucumis�melo (cons. 10 genn. 2014 ).
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di poponi si dividono in due sezioni: Retati le varietà a fruti
con buccia verrucosa. Cantalupi o zappe le varietà a buccia
liscia»12.
Dulcis in fundo, come si conviene a una correta sequenza, ricordo i calissons, o claliscioni come sono chiamati nel De
arte coquinaria, di Mastro Martino, i dolci francesi a forma di
losanga tra gli ingredienti principali dei quali igura il popone candito. Si pensa che questo dolce, oggi prodoto più che
altro nel sud della Francia, ma difuso anche nelle pasticcerie
parigine, tragga le proprie origini nell’Italia medievale. Tra i
primi riferimenti conosciuti c’è la Cronaca dei Veneziani del 1275
di Martino Canale, ma l’inizio della difusione in Provenza in
12) Dove e come s’impianta un orto, Milano : Stab. Agrario�Botanico Ingegnoli,
1912.
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particolare ad Aix en Provence, atuale patria di queste delizie,
pare risalga al quindicesimo secolo, in occasione del secondo
matrimonio del re Renato d’Angiò. Si narra che nel giorno di
Natale, durante il Medioevo, le famiglie benestanti di Aix distribuissero ai bisognosi della cità dei dolci con le ostie mentre
il sacerdote benediceva con la formula: «Venite ad calicem»,
che in lingua provenzale suona «Venes toui à calisoum». Da
qui una delle teorie dell’origine del loro nome. Un’altra leggenda invece vuole che all’inizio del XVII secolo durante la
comunione, per evitare la difusione delle epidemie al posto
delle ostie fossero dati ai fedeli i calisson.
Una losanga rivestita di zucchero brunito dal cuore morbido di popone candito e pasta di mandorle, confezionata in
contenitori della stessa forma e sfumatura di colore: così si presentano oggi i calissons che devono la loro fama in particolare
a Stéphanie Bicheron che gli dedicò un negozio di confeteria
a Parigi nel 1854, difondendo la moda di una preparazione
portata avanti dal Medioevo in poi dai calissoniers di Aix en
Provence.
«Composto per lo egregio Maestro Martino Coquo olim
del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et patriarcha de
Aquileia. […] Prenderai simil pieno o compositione quale è la
sopradita del marzapane, et apparichiarai la sua pasta, la quale impastarai con zuccharo et acqua rosata; et distendi la dita
pasta a modo che si volesse fare ravioli, gli metirai di questo
pieno facendoli grandi et mezani o piccioli como ti pare. Et havendo qualche forma de ligno ben lavorata con qualche gentileza et informandoli et premendoli di sopra pariranno più belli a vedere. Poi li farai cocere in la padella como il marzapane
havendo bona diligentia che non s’ardino …»13.
13) M. Martino, Libro de arte coquinaria, in O.Redon�F. Sabban�S. Serventi, A
tavola nel Medioevo. Con 150 ricete dalla Francia e dall’Italia, prefazione di
Georges Duby, Roma�Bari, Editori Laterza, 1994.
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