Luca Alfieri, laureato in Lettere nel 2004, ha conseguito il Dottorato di ricerca nel 2008. Dopo due borse di
perfezionamento all’estero, è stato docente a contratto, assegnista di ricerca e membro di vari progetti di ricerca,
italiani ed europei. Ha collaborato con diverse case editrici e con Groenlandia Film per la traduzione “proto-latina”
del film Il primo re (2019). Attualmente è Professore associato in glottologia e linguistica presso l’Università Telematica Guglielmo Marconi e segretario di redazione dell’Archivio Glottologico Italiano.
26,00 euro
LUCA ALFIERI
LA MORFOLOGIA DERIVAZIONALE
E IL PROBLEMA DEL TEMPO
DALL’ANTICHITÀ GRECO-ROMANA A FRANZ BOPP
ISBN 978-88-5759-878-9
MIMESIS
Mimesis Edizioni
Epéktasis
Collana di scienze umane e sociali
www.mimesisedizioni.it
LUCA ALFIERI LA MORFOLOGIA DERIVAZIONALE E IL PROBLEMA DEL TEMPO
Il volume tratta la storia della morfologia derivazionale e, in particolare, la relazione tra quest’ultima e il problema del tempo tra la linguistica greco-romana e gli anni ’30 del XIX secolo. Oltre a
un’introduzione dedicata a questioni di carattere generale e alle conclusioni dedicate alla storia
della morfologia derivazionale nella linguistica indoeuropea del primo ’800, il corpo principale
del lavoro consiste di tre capitoli che si occupano, rispettivamente: dell’antichità greco-romana,
delle grammatiche delle lingue classiche ed europee nel periodo compreso tra Medioevo ed Età
dei Lumi, infine delle grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra il Barocco e i primi anni
del XIX secolo. Scopo principale del lavoro è quello di ricostruire come si sia formato in origine, e
come si sia evoluto nel corso del tempo, quel particolare legame tra la morfologia derivazionale
e la diacronia (o l’ontogenesi del linguaggio) che è ha caratterizzato, con alterne vicende, tutta
la storia linguistica passata fin quasi ai nostri giorni.
9 788857 598789
MIMESIS / EPÉKTASIS
MIMESIS / EPÉKTASIS – COLLANA DI SCIENZE UMANE E SOCIALI
N. 2
Collana diretta da
Direzione scientifica:
Sara Fortuna (Professore associato di “Filosofia del linguaggio” - Università degli
Studi “Guglielmo Marconi”), Andrea Gentile (Professore ordinario di “Filosofia teoretica” - Università degli Studi “Guglielmo Marconi”), Tommaso Valentini (Professore associato di “Filosofia politica” - Università degli Studi “Guglielmo Marconi”)
comitato scientifico:
Dario Antiseri (Università Luiss – Roma), Adriano Ardovino (Università degli Studi “G.D’Annunzio” – Chieti – Pescara), Paolo Armellini (Università di Roma “La Sapienza”), Grazia Basile (Università degli Studi di Salerno),
Reinhard Brandt (Philipps-Universität Marburg), Barbara Cassin (CNRS, Paris), Camilla Croce (Institut für Philosophie – Freie Universität Berlin), Luca
Di Blasi (Università di Berna), Bernd Dörflinger (Universität Trier), Andreas Eckl (Goethe-Universität – Frankfurt am Main), Flavio Felice (Università degli studi del Molise), Maurizio Ferraris (Università degli Studi di Torino)
Günter Gebauer (Freie Universität – Berlin), Manuele Gragnolati (Université de Paris 4 – Sorbonne), Alessandro Grilli (Università di Pisa), Luca Illetterati (Università
degli Studi di Padova), Marco Ivaldo (Università degli Studi di Napoli “Federico
II”), Heiner F. Klemme (Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg), Davide Luglio (Université de Paris 4 – Sorbonne), Giancarlo Marchetti (Università degli Studi
di Perugia), Pietro Montani (Università di Roma “La Sapienza”), Rocco Pezzimenti (Università Lumsa – Roma), Claude Piché (Université de Montréal), Simone
Pisano (Università per Stranieri di Siena), Riccardo Pozzo (Università degli Studi
di Roma “Tor Vergata”), Rossella Saetta-Cottone (CNRS – Centre National de la
Recherche Scientifique – Paris), Laura Scuriatti (Bard College – Berlin), Jürgen Trabant (Freie Universität, Humboldt Universität – Berlin), Paolo Valore (Università
degli Studi di Milano “La Statale”)
Sono membri del comitato scientifico anche i seguenti docenti afferenti al Dipartimento di Scienze umane presso l’Università degli Studi “Guglielmo Marconi”:
Luca Alfieri, Chiara Baglioni, Anna Baldazzi, Paloma Brook, Ida Caiazza, Arnaldo
Colasanti, Paola De Bartolo, Massimo Fioranelli, Giuseppe Gatti, Francesca Gelfo,
Aniello Iacomino, Giuliana Lucci, Francesco Mancini, Roberta Melazzo, Stefania
Montebelli, Domenico Morreale, Valdemaro Pavacci, Manuel Petrucci, Alberto
Ricciardi, Maria Grazia Roccia, Viviana Rubichi, Giovanna Scatena, Emanuele
Toscano, Renée Uccellini, Francesco Claudio Ugolini, Alessia Veglia, Alessandro
Emiliano Vento, Maria Volpicelli, Vittoria Zaccari.
Luca aLfieri
LA MORFOLOGIA
DERIVAZIONALE
E IL PROBLEMA
DEL TEMPO
Dall’antichità greco-romana
a Franz Bopp
MIMESIS
Stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane
dell'Università degli Studi Guglielmo Marconi.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
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Collana: Epéktasis, n. 2
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INDICE
capitoLo i: introDuzione
1. La genesi di questo lavoro
2. Gli studi attuali sulla storia della morfologia
derivazionale
3. L’architettura del sapere, la morfologia derivazionale
e il problema del tempo nella linguistica attuale
3.1 L’idea storiografica alla base di questo lavoro
4. Il problema dell’anacronismo
5. Un’avvertenza prima di cominciare
capitoLo ii: L’antichità greco-romana
1. Introduzione
2. Le prime riflessioni sul linguaggio nella Grecia arcaica
3. Etimologia, pathologia e derivazione nel Cratilo
Platone
4. Retorica e derivazione tra i sofisti e Aristotele
4.1 Le opere poetico-retoriche di Aristotele
5. Etimologia, grammatica e derivazione in età
alessandrina
6. Il De lingua latina di Varrone
6.1 Termini tecnici e procedure di analisi
7. Retorica e derivazione tra Cicerone e Quintiliano
8. Etimologia e derivazione nelle Noctes Atticae di Gellio
9. I grammatici
9.1 La classificazione degli accidenti
9.1.1. La divisio graeca
9.1.2. La divisio latina
9.2 Termini tecnici e procedure di analisi
9.3 La posizione particolare dell’Ars Prisciani
10. I lessicografi
11. La storia della morfologia derivazionale,
l’architettura del sapere e il problema del tempo
nell’antichità greco-romana
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11.1 Due approcci all’analisi dei nomi derivati
12. Il lascito della tradizione antica
12.1 La confusione tra lingua e linguaggio
12.2 L’inquadramento dei dati empirici sui nomi
derivati
capitoLo iii: DaL meDioevo aLL’età Dei Lumi
1. Introduzione
2. Lessicografia, etimologia, ontologia e derivazione
nel Medioevo
3. Grammatica e derivazione nel Medioevo
4. Origine del linguaggio, etimologia e derivazione
tra il Medioevo e il Rinascimento
5. La grammatica speculativa dei Modisti
5.1 Il trattamento dei nomi derivati
6. Le grammatiche “delle causae”
6.1 Il trattamento dei nomi derivati
7. Le grammatiche pratiche tra il Rinascimento e l’Età
dei Lumi
7.1 Il trattamento dei nomi derivati
7.2 Alcune piccole eccezioni
8. Le grammatiche generali (soprattutto) francesi
8.1 Il trattamento dei nomi derivati
9. Le grammatiche “pancroniche” tedesche
9.1 Il trattamento dei nomi derivati
9.2 I termini tecnici e le procedure di analisi
10. Le opere sull’origine del linguaggio tra il Rinascimento
e l’Età dei Lumi
10.1 La lessicologia tedesca
10.2 La filosofia francese
11. La storia della morfologia derivazionale,
l’architettura del sapere e il problema del tempo
tra il Medioevo e l’Età dei Lumi
11.1 Due tipi di grammatiche “filosofiche”
12. Il lascito della linguistica “premoderna”
capitoLo iv: Le grammatiche sanscrite tra iL Barocco e Bopp
1. Introduzione
2. La teoria grammaticale indiana
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3. Le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa
tra Roth (1660-1668) e Bopp (1827, 1832, 1834)
3.1 La grammatica di Roth (1660-1668)
3.2 Le grammatiche di Hanxleden (1712-1732) e
Pons (1739-1771)
3.3 La grammatica di Paolino da San Bartolomeo
(1790)
3.4 La grammatica di Carey (1804)
3.5 La grammatica di Colebrooke (1805)
3.6 La grammatica di Wikins (1808)
3.7 La grammatica di Forster (1810)
3.8 La grammatica di Yates (1820)
3.9 La grammatica di Frank (1823)
3.10 Le grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834)
3.10.1 La teoria dei livelli di analisi
3.10.2 La teoria delle unità minime
3.10.3 L’inquadramento della grammatica sull’asse
del tempo
4. La storia della morfologia derivazionale
nelle grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
5. Il lascito delle grammatiche sanscrite pubblicate
tra il Barocco e Bopp
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capitoLo v: concLusione
1. Friedrich Schlegel e la storia della morfologia
derivazionale
2. Franz Bopp e la storia della morfologia derivazionale
3. Lo studio della formazione delle parole dopo Bopp
3.1 La terminologia tecnica e le procedure di analisi
4. Dalla concezione proto-diacronica alla concezione
diacronica della derivazione
5. Il lascito dell’originaria concezione “(proto-)diacronica”
della derivazione
6. Conclusione
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BiBLiografia
237
inDice DeLLe figure
301
215
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231
CAPITOLO I:
INTRODUZIONE
1. La genesi di questo lavoro
Questo lavoro nasce, come praticamente tutte le “cose linguistiche” che mi è capitato di pensare, a margine delle lezioni che
Walter Belardi teneva sull’etimologia (cfr. Belardi 2002). Era
all’incirca il 2003 e io non ero ancora laureato: una volta, prima
di una lezione, superai il timore reverenziale che mi incuteva il
Maestro e gli chiesi: “Professore, ma perché Saussure decide di
definire sincronia e diacronia nel Cours? Voglio dire, se Saussure
decide di chiarire la differenza tra questi due concetti vuol dire che
qualcuno prima di lui li confondeva. Ma io non so vedere bene
chi, come e perché confondeva queste due nozioni prima di lui”.
Belardi mi rispose un po’ stupito della mia domanda: “Oh bella,
ma è la derivazione il problema! Gli antichi erano convinti che
tutta la formazione delle parole riguardasse l’etimologia e l’origine del linguaggio; prendi, ad esempio, la grammatica di Adelung:
vedrai che la confusione lì è costante”.
Tornato a casa dopo la lezione, andai subito a cercare la grammatica tedesca di Adelung (1781), che chiaramente non conoscevo, e verificai che Belardi aveva perfettamente ragione. Però, più sfogliavo
quel lavoro, più mi pareva che mi mancassero ancora diversi tasselli.
Possibile che Saussure stesse parlando solo con Adelung o, comunque, solo con i grammatici tedeschi del XVIII-XIX secolo quando
distingueva sincronia e diacronia? Leggendo il Cours mi sembrava
che Saussure parlasse più in generale, come se stessa criticando una
confusione diffusa da sempre e un po’ tra tutti i suoi predecessori.
Però, io non riuscivo a identificare quella confusione nelle grammatiche romane di Donato e di Prisciano, nelle grammatiche pratiche del
XVI-XVII secolo o nella Grammaire di Port Royal (1660) con cui
all’epoca avevo un po’ di dimestichezza. Certo, quella confusione effettivamente c’era nelle opere sull’origo linguae scritte tra il Rinasci-
10
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
mento e l’Età dei Lumi, ma i proto-comparativisti non si occupavano
della formazione delle parole in modo particolare e, in molti casi,
non se ne occupavano affatto. Insomma, nonostante la spiegazione
di Belardi, c’era ancora qualcosa che mi sfuggiva: la confusione tra
derivazione e origine del linguaggio c’era solo nelle grammatiche
tedesche precedenti a Bopp o era un tratto pervasivo di tutta la linguistica “prescientifica”? E se era un tratto pervasivo, che riguardava
tutte le opere scritte prima della dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea da parte di Rask e Bopp, come effettivamente sembrava potersi
desumere da Saussure, dove si nascondeva quella confusione al di
fuori della grammatica di Adelung? E quali erano gli aspetti pratici
dell’analisi linguistica che erano davvero viziati da quella confusione
nel lavoro di Adelung e negli altri lavori della sua epoca? Soprattutto,
se la derivazione era confusa con l’origine del linguaggio in tutta la
linguistica premoderna, come diceva Belardi, come, dove e perché si
era creata questa confusione in origine? E poi, come si era strutturata
questa confusione nelle diverse epoche? Era cambiata nel tempo o
era rimasta sempre uguale a sé stessa? È da queste domande e da
molte altre di questo tipo che nasce questo lavoro.
Purtroppo, Belardi ci ha lasciato nel 2008, prima che io riuscissi a
trovare delle risposte alle domande da cui sono partito. Non so, quindi,
se il Maestro – venerando e terribile – avrebbe approvato ciò che ho
scritto. So, però, che gli sono infinitamente grato per aver fatto nascere
in me quelle domande e per avermi dato gli strumenti per provare a
dar loro una risposta. È alla sua memoria che dedico questo lavoro.
Un’ultima nota: oltre a Belardi, vorrei ringraziare alcuni amici e
colleghi che mi hanno aiutato, direttamente o indirettamente, nella
stesura di questo libro. In primo luogo gli amici del Sodalizio Glottologico Milanese (i.e. Patrizia Bologna, Laura Biondi, Francesco
Dedè, Andrea Scala e Massimo Vai) che hanno discusso con me praticamente tutti i capitoli di questo lavoro durante le sedute del Sodalizio che si sono susseguite negli anni. Inoltre, sono molto grato ad Albio Cesare Cassio e Laura Biondi per i loro ricchissimi suggerimenti
sul cap. II; a Giuliano Bernini, Paolo Ramat per i loro commenti sulle
precedenti pubblicazioni da cui è poi nato il cap. III; a Marco Mancini
e Paolo di Giovine per avermi invitato a discutere il cap. III in un bel
convegno romano (Benvenuto et al. 2020), e a Paola Cotticelli per i
suoi commenti a margine di quel convegno e per il dialogo che ne è
nato; a Claudia Ciancaglini, Artemio Keidan, Alessandro del Tomba
Introduzione
11
e Francesco Pirozzi per il loro supporto, umano e scientifico, durante
tutto l’arco della mia ricerca; a Beatrice Grieco per avermi aiutato a
rileggere tutto il lavoro e averne discusso con me moltissime sue parti; e a Edoardo Nardi, Daniela Baldassarre e Stefano Santacroce per
avermi aiutato a riguardare le bozze. Infine, ringrazio tutti gli studenti
e i dottorandi a cui ho inflitto le mie lezioni sulla storia della morfologia derivazionale: i loro commenti e la loro prossemica facciale (ora
attonita, ora annoiata, ora incuriosita) mi hanno aiutato molto più di
quanto non sappia dire. Tutto ciò che c’è di sbagliato, impreciso o
non condivisibile nel lavoro, ovviamente, dipende unicamente da me.
2. Gli studi attuali sulla storia della morfologia derivazionale
Nel 2004, circa un anno dopo la mia domanda a Belardi, KjellÅke Forsgren e Barbara Kaltz curano un numero monografico di
Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft 14(1) interamente
dedicato alla storia della morfologia derivazionale. Nel suo contributo al volume, la Kaltz, con buone ragioni, lamenta un certo
ritardo nello studio della storia della nozione di morfologia derivazionale (Kaltz 2004, p. 23).
Le cause del ritardo, nel complesso, sono note o, comunque, oggi
sono abbastanza semplici da identificare. Indirettamente, le hanno
già spiegate Kastovsky (2006) e Lindner (2015a) qualche anno fa.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso, la derivazione appariva alla
maggioranza degli studiosi come un problema prevalentemente diacronico: in sostanza, un tema per etimologisti e studiosi di linguistica indoeuropea, più che un tema per linguisti generali o per studiosi
interessati, a qualsiasi titolo, alla sincronia (per una conferma di
questa tesi, si vedano anche i materiali discussi da Kaltz & Leclercq 2015). Questa idea, pur se errata, ha inevitabilmente prodotto
un certo ritardo nello studio della morfologia derivazionale come
campo di ricerca autonomo, sincronico e distinto sia dalla flessione,
sia dal lessico. A sua volta, il ritardo nello studio della morfologia
derivazionale come campo di ricerca sincronico, autonomo e distinto sia dalla flessione sia dal lessico ha determinato un ritardo
parallelo nella storiografia della linguistica: per farla breve, fino a
una cinquantina di anni fa, la storia della morfologia derivazionale
era assorbita – quasi dissolta – nella storia dell’etimologia e del
12
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
proto-comparativismo, più o meno nello stesso modo in cui la teoria
della formazione delle parole era confusa con l’etimologia.
Certo, tra gli anni ’70 e gli anni ’80 dello scorso secolo, l’avanzamento degli studi di linguistica generale e, soprattutto, l’identificazione della nozione di produttività hanno imposto la morfologia
derivazionale all’attenzione di tutti gli studiosi interessati alla descrizione grammaticale sincronica e alla linguistica teorica1: oggi
(quasi) nessuno direbbe più che la formazione delle parole è un
problema soltanto o principalmente diacronico. Così, a partire dagli
anni ’90 del secolo scorso, anche la ricerca storiografica ha fatto
la sua parte e la storia della morfologia derivazionale ha iniziato a
muovere i suoi primi passi, se non proprio come campo di ricerca
autonomo, almeno come sotto-dominio perfettamente accettabile
nell’ambito della storia della morfologia e, più in generale, della
storia delle idee linguistiche.
In altre parole, tra il 2004 e oggi, il ritardo lamentato da Kaltz è
stato, almeno in parte, colmato, e sono apparsi diversi lavori importanti dedicati specificamente alla storia della morfologia derivazionale. I filoni di ricerca più battuti sono stati soprattutto due. Il primo
riguarda l’antichità greco-romana ed è stato aperto da due monografie importanti per chi si occupa di questo tema: la prima, scritta da Amsler (1989), riguarda la nozione di etimologia tra la tarda
antichità e il Medioevo e, quindi, almeno indirettamente, si occupa
anche della storia della nozione di derivazione che, per gli antichi, è
uno degli aspetti dell’etimologia (cfr. infra); la seconda monografia,
scritta da Vaahtera (1998), è dedicata più specificamente al modo in
cui gli studiosi greci e romani descrivevano i nomi derivati. A que1
Per una storia della nozione di produttività morfologica, si veda Bauer (2001,
pp. 11-32, 2005): se si escludono alcuni antecedenti minori, la nozione di
produttività è entrata nel mainstream della linguistica sincronica dopo i lavori di Aronoff (1976; 1980), Mayerthaler (1981), Bybee (1985), Dressler et
al. (1987) ed è stata accolta come nozione indispensabile nell’ambito della
morfologia solo dopo la monografia di Bauer (2001). Tra l’altro, oggi in inglese e tedesco si distingue spesso tra derivazione diacronica e derivazione
sincronica anche a livello lessicale: ingl. derivation vs. word-formation, ted.
Ableitung vs. Wortbildung. L’uso, però, è recente, dato che per tutto il XIX
secolo, la Wortbildung era considerata un problema sostanzialmente diacronico (cfr. Lindner 2015a). Tra l’altro, questa differenza tra derivazione-etymologia e derivazione-Wortbildung era già stata identificata, almeno in parte,
da Klinck (1970, pp. 22-30 e, soprattutto, pp. 23-25).
Introduzione
13
ste due monografie, si sono poi aggiunti diversi articoli più recenti
che si occupano della classificazione dei nomi derivati nell’antichità classica, come i lavori di Matthaios (2004; 2008), Lallot (1993;
2008) e Novokatko (2020) dedicati ai grammatici alessandrini, il
lavoro di Fögen (2008) sui retori romani, i lavori di Flobert (1989),
Kircher (1988; 1999) e Alfieri (2022; in stampa a, b) sui grammatici romani. Per chiudere la rassegna, si può citare un recente libro
di Matthews dedicato alla grammatica greco-romana (2019, p. 189
ss.), che include anche un capitolo sulla formazione dei nomi.
Il secondo filone di ricerca riguarda, invece, il periodo compreso
tra il Medioevo e la dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea da parte
di Bopp (1816) e Rask (1818), ovvero quella parte della storia degli
studi linguistici che viene spesso identificata attraverso l’etichetta
di “linguistica premoderna”. Alla fase iniziale di questo ampio lasso di tempo si riferiscono i lavori di Biondi (2014, 2018) dedicati
alla storia della derivazione e, più in particolare, alle metafore utilizzate per descrivere la formazione delle parole nel Medioevo; il
numero monografico 14.1 (2004) di Beiträge zur Geschichte der
Sprachwissenschaft (edito da Forsgren & Kaltz 2004), che è interamente dedicato alla storia della morfologia derivazionale tra il XVII
e il XIX secolo; diversi articoli dedicati ad aspetti specifici della
storia della morfologia derivazionale, come i lavori di Schmitter
(2004), Kaltz (2004; 2005), Kaltz & Leclerq (2015); un paio di articoli di Alfieri (2018; 2019), che trattano della formazione dei nomi
nelle grammatiche “filosofiche” tedesche pubblicate tra il XVII e
il XVIII secolo; e le note sparse, ma per nulla secondarie, contenute nel bel lavoro di Delesalle & Mazière (2002). Un ulteriore,
importante contributo in questo campo, si può trovare nei lavori di
Gützlaff (1989a, pp. 23-40; 1989b) e McLelland (2010; 2011): anche se entrambi i lavori si concentrano prevalentemente sulla figura
di Scottelio, si tratta comunque di opere molto importanti per chi
si occupa di storia della derivazione, dato che Scottelio è, in ultima
analisi, lo studioso che più di tutti si è occupato di formazione delle
parole tra il Rinascimento e Bopp.
Insomma, negli ultimi vent’anni il ritardo lamentato da Kaltz
è stato colmato, almeno in parte. Eppure ci sono diversi aspetti della storia della morfologia derivazionale che restano ancora
oggi poco noti, poco chiari o, comunque, che sono meritevoli di
un qualche approfondimento. Proprio ad uno di questi aspetti è
14
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
dedicato il lavoro presente. Nel seguito dell’opera, infatti, vorrei
occuparmi di quello che, a mio avviso, rappresenta il limite principale che accomuna tutti gli studi sulla derivazione apparsi fino
ad oggi: la mancata identificazione del legame cruciale che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e quello che, con
una formula un po’ semplicistica ma – spero – utile, chiamerei il
“problema del tempo”.
3. L’architettura del sapere, la morfologia derivazionale e il problema del tempo nella linguistica attuale
Per spiegare cosa intenda con l’etichetta “il problema del tempo”
e perché io creda che la relazione tra il problema del tempo e lo studio della storia morfologia derivazionale sia un aspetto a dir poco
fondamentale di questo problema, è utile fare un passo indietro: in
altre parole, vorrei cominciare dal presente e descrivere quali sono
i rapporti che legano la nozione di morfologia derivazionale e il
problema del tempo all’interno di quella che, con Foucault (1966),
chiamerei l’architettura del sapere linguistico contemporaneo2.
Partiamo da alcune notazioni di carattere molto generale. Oggi, di
norma, distinguiamo in modo abbastanza netto la linguistica, che è
una disciplina empirica, e la filosofia, che è una disciplina prevalentemente speculativa. All’interno della linguistica, pur sempre intesa
come disciplina empirica, si possono poi distinguere quattro campi
o quattro domini principali del sapere, che possono essere organizzati all’interno di una matrice definita da due variabili correlate tra
loro. La prima variabile riguarda l’oggetto di indagine, che può es2
In generale, con “architettura del sapere” si intende l’organizzazione della
conoscenza all’interno di un dato campo disciplinare. Per Foucault, essa è il
prodotto diretto delle “tassonomie inconsapevoli sottese all’organizzazione
della conoscenza”, ossia di tutte le “condizioni di possibilità” e degli “a priori
logici” – insomma, dei postulati – che non sono discussi in modo esplicito
dagli studiosi, ma che sono alla base di tutta la loro ricerca (Foucault 1988,
pp. 7-11). Al di là di alcune imprecisioni di Foucault nell’analisi delle teorie
linguistiche (già discusse da Melandri 1967, Rosiello 1967: 168, Aarsleff
1984 [19821], pp. 38, 59 e Chiss 1984, p. 73), la nozione di “architettura del
sapere” ha una sua utilità e, infatti, è stata utilizzata spesso nei lavori dedicati
alla storia della linguistica “premoderna” (per qualche esempio tra i vari possibili, si vedano Dubois 1970, Tavoni 1990 e Simone 1990).
Introduzione
15
sere rappresentato da una singola lingua, particolare e storicamente
determinata, oppure dal linguaggio, inteso come facoltà umana generale, specie-specifica e innatizzata nel corso dell’evoluzione (o,
se si preferisce, innata)3. La seconda variabile, invece, riguarda lo
scopo dell’indagine, che può concentrarsi sul funzionamento di una
lingua o del linguaggio, oppure sul mutamento nel tempo di una
lingua o del linguaggio (o, al massimo, come si usava dire prima del
XX secolo, sull’origine di una lingua o del linguaggio).
Se incrociamo l’oggetto dell’indagine e lo scopo dell’indagine
otteniamo una matrice a quattro caselle, ciascuna delle quali descrive uno dei campi principali del sapere linguistico contemporaneo.
La linguistica descrittiva o linguistica particolare studia il funzionamento di una singola lingua; la linguistica generale si occupa del
funzionamento di tutte le lingue, dunque in pratica studia la facoltà umana del linguaggio in assoluto; la linguistica storica studia il
mutamento o l’origine di una lingua particolare o di una famiglia
specifica di lingue imparentate tra loro; e la linguistica “evoluzio3
Si noti che il lat. lingua vale sia ‘lingua’, sia ‘linguaggio’, mentre le lingue
romanze dividono le due nozioni anche a livello lessicale (Coseriu 1988,
Rochette 2009): fr. langue, sp. lengua vs. fr. langage, sp. lenguaje. In qualche
caso, inoltre, l’it. linguaggio (ma lo stesso vale per i corradicali romanzi)
può essere un equivalente non tecnico di ‘forma di comunicazione’ (cfr. il
linguaggio dei fiori). Più complessa la situazione nelle lingue germaniche:
in origine, ingl. tongue e ted. Zunge (corradicali del lat. lingua) avevano lo
stesso significato di lingua: Lutero, ad esempio, scriveva in teutcher zunge
e in inglese ancora si dice mother tongue. Oggi, però, in tedesco Zunge è
stato sostituito da Sprache nel senso di ‘lingua, linguaggio’ e l’ingl. tongue
ha lasciato il posto all’opposizione tra speech ‘lingua (parlata)’, language
‘lingua, linguaggio’ e utterance ‘espressione linguistica singola’. Una situazione simile si trova nelle lingue slave, dove, il russo jazyk indica sia la
singola lingua, sia la facoltà del linguaggio in generale. Chiaramente, anche
nelle lingue in cui la distinzione tra lingua e linguaggio non è lessicalizzata,
è possibile distinguere le due nozioni: si veda, a riprova, la distinzione tra
Sprachfähigkeit e Sprachmaterial proposta da Gabelentz e discussa da Graffi
(2001, p. 43). Sulla differenza tra lo studio delle singole lingue e lo studio
della facoltà del linguaggio in generale, si veda Bossong (1992). Il problema
della natura innata del linguaggio è noto: il contrasto tra l’innatismo “puro”
e l’“innatizzazione” del linguaggio durante l’evoluzione oggi è, in buona sostanza, una opposizione tra generativisti che accolgono l’idea chomskiana
del linguaggio innato e non-generativisti, che tendono a guardare quell’idea
con sospetto. Per una discussione sul tema, si vedano, anche se da prospettive
molto diverse tra loro, Belardi (1990a), Tomasello (1995; 1999; 2003) ed
Evans (2013).
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
16
nista” (nel senso di Hurford 2007; 2012 e Botha 2016) si occupa
dell’origine ultima del linguaggio, ovvero della sua evoluzione (nel
senso biologico del termine). In schema (fig. 1):
Funzionamento
Mutamento
Lingua
Linguaggio
Linguistica descrittiva
Linguistica generale
Linguistica storica
Linguistica evoluzionista
Fig. 1, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo
Ciascuno dei quattro quadranti definiti nella fig. 1 è definito
dall’incrocio di un dato oggetto di ricerca e di un proprio obbiettivo
di ricerca, ma è caratterizzato anche da uno specifico inquadramento
sull’asse del tempo. La linguistica descrittiva, da Saussure in poi, è
chiaramente sin-cronica; ed è sincronica, sia quando la lingua oggetto
di descrizione è una lingua parlata nel nostro presente (i.e. una lingua
“viva”), come l’italiano o l’inglese, sia quando la lingua descritta è
una lingua che era parlata nel passato ma non è più parlata oggi (i.e.
una lingua “morta”), come il sanscrito, il greco antico o il latino (ove
necessario, i due casi si possono distinguere separando, con Janda
& Joseph (2003, p. 21), una sincronia in senso stretto e una old-time
synchrony ‘descrizione sincronica degli stadi di lingua passati’). La
linguistica storica, dal canto suo, è notoriamente dia-cronica perché
studia i mutamenti linguistici che avvengono nel tempo. La linguistica generale, invece, è a-cronica, perché aspira a raggiungere delle
verità generali svincolate dallo spazio e dal tempo, che siano valide
sempre e per tutte le lingue (presenti, passate e future), dunque a fortiori per la facoltà universale del linguaggio (si noti che in un campione tipologico l’ultimo pidgin formatosi in Africa nel XXI secolo
e l’ittito, che si è estinto nell’XI secolo a.C. circa, possono convivere senza contrasti, perché entrambi ci dicono qualcosa sulla facoltà umana del linguaggio). Infine, la linguistica evoluzionista si può
considerare pan-cronica, perché studia tutto ciò che va dalla genesi
ultima della facoltà del linguaggio fino al funzionamento delle lingue
parlate ai nostri giorni. Se riassumiamo in una tabella questi quattro
Introduzione
17
comparti del sapere linguistico, ciascuno con il suo inquadramento
sull’asse del tempo, otteniamo lo schema seguente (fig. 2):
Lingua
Linguistica descrittiva
Funzionamento
inquadramento: sincronia
Linguistica storica
Mutamento
inquadramento: diacronia
Linguaggio
Linguistica generale
inquadramento: acronia
Linguistica evoluzionista
inquadramento: pancronia
Fig. 2, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo e il problema del tempo
La terminologia proposta nella fig. 2 è la più diffusa nella critica moderna, ma non è l’unica possibile4. Saussure, ad esempio,
distingue tra la sincronia e la diacronia, e cita di sfuggita anche
la pancronia (1922, pp. 134-5), ma non identifica l’acronia come
una dimensione a sé dell’analisi linguistica, perché per lui la linguistica generale, in ultima analisi, coincide o con la somma delle
categorie e dei costrutti teorici impiegati nelle diverse linguistiche
particolari, oppure con il campo di attuazione delle leggi evolutive universali, ossia pancroniche. Pertanto, in Europa, e soprattutto
nei dipartimenti di linguistica storica dove il magistero di Saus4
In un post recente (LINGTYP 28.2.2018), Haspelmath ha proposto di
usare l’etichetta di comparative linguistics per indicare la “tipologia
(possibilmente includendo anche la linguistica storica)” e evolutionary
linguistics per indicare la linguistica storica. Non è questa la sede per
una discussione dettagliata sul tema, ma è ben noto che comparative
linguistics e comparative philology sono i calchi inglesi più comuni del
ted. vergleichende Sprachwissenschaft, che è l’etichetta tradizionalmente
utilizzata per la linguistica storica nel campo indoeuropeo fin dai primi
anni del XIX secolo. È vero che, nel comparativismo prescientifico del
XVIII secolo, il ted. vergleichende Sprachwissenschaft e il fr. grammaire
comparatif indicavano sia la linguistica storica sia la tipologia (cfr. n. 3
§ V.2). Però, se distinguiamo l’ontogenesi del linguaggio e la filogenesi
di una lingua (o di una famiglia di lingue), come si fa abitualmente oggi,
l’idea di utilizzare la stessa etichetta di evolutionary linguistics sia per
la tipologia che per la linguistica storica rischia di confondere le acque
(sul tema, si vedano Janda & Jospeh 2003, pp. 59 ss., 79 ss., 86 ss. e la
discussione in Alfieri, Arcodia & Ramat 2020, pp. 21 ss.).
18
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sure è ancora ben vivo, l’etichetta “linguistica sincronica” si usa
spesso per indicare sia lo studio del funzionamento delle singole
lingue, ovvero la grammatica descrittiva, che è effettivamente sincronico, sia la teoria generale di tutte le lingue, ovvero la linguistica generale, anche se a rigore la linguistica generale è acronica,
più che sincronica in senso stretto5.
La nozione di derivazione riguarda tutti e quattro i domini del
sapere definiti sulla tab. 2, ma assume un significato diverso in
ciascuno di essi. In senso sincronico, la derivazione è un’operazione produttiva di formazione di una parola in una lingua specifica: it. mangia-re + -ata → it. mangia-ta. In senso diacronico,
la derivazione indica l’etimologia, ovvero la formazione di una
parola specifica o di una famiglia di parole particolare a partire
dal suo antecedente genealogico: l’it. padre < lat. patrem. In senso acronico, la derivazione indica l’insieme di tutte le regole di
formazione delle parole attestate a livello interlinguistico, le loro
funzioni e i mezzi tecnico-formali con cui sono codificate queste funzioni nelle diverse lingue del mondo. In senso pancronico,
infine, la derivazione indica tutto il processo di evoluzione della
facoltà umana del linguaggio, ossia la formazione del linguaggio
articolato umano a partire dai gesti o dalle urla inarticolate degli
ominidi. Se aggiungiamo la nozione di derivazione allo schema
che abbiamo elaborato nelle fig. 1-2, otteniamo la tabella seguente
(fig. 3):
5
In altre parole, la dimensione tipologica, in Saussure, è assorbita – quasi
dissolta – ora nella sincronia, ora nella pancronia. La critica, infatti, ha
notato da tempo che la pancronia di Saussure include l’acronia, perché
riguarda tutto ciò che è universale, ma non è distinta dalla sincronia
(Hjelmslev 1968, pp. 101-11; Sommerfelt 1971, pp. 59-65). Anche la
sinonimia saussuriana tra statico e sincronico, spesso criticata da Belardi (1990b), offre una conferma indiretta del fatto che Saussure tendeva
davvero a sovrapporre la linguistica descrittiva, che è sincronica, e la
linguistica generale, che invece è acronica, dunque in un certo senso davvero “statica”, perché sempre uguale a sé stessa. Sulla natura acronica
o pancronica degli universali tipologici, si vedano recentemente Plank
(2007), Cristofaro (2014) e Haspelmath (2019). Sulla diversità tra linguistica particolare e generale, si veda il recente dibattito sui comparative
concepts (cfr. Alfieri, Arcodia & Ramat 2020), ovvero quei concetti che
si impiegano per comparare le lingue, ma che non hanno un equivalente
nella grammatica sincronica di nessuna delle lingue comparate.
Introduzione
19
Lingua
Linguistica descrittiva
Funzionamento
inquadramento: sincronia
inquadramento: acronia
derivatio: formazione
delle parole in una lingua
derivatio: formazione delle
parole in tutte le lingue
Linguistica storica
Mutamento
Linguaggio
Linguistica generale
Linguistica evoluzionista
inquadramento: diacronia
inquadramento: pancronia
derivatio: filogenesi delle
lingue/parole (etimologia)
derivatio: ontogenesi del
linguaggio
Fig. 3, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, il problema del tempo
e il trattamento della derivazione
La fig. 3 ci consente di visualizzare in modo semplice la collocazione della nozione di derivazione rispetto all’architettura del
sapere linguistico contemporaneo e le sue relazioni con il problema del tempo. Oggi è possibile identificare quattro diversi domini
del sapere linguistico e ciascuno di questi domini è caratterizzato
da un suo specifico inquadramento sull’asse del tempo e dalla presenza di una diversa nozione di derivazione. Nel passato, però,
non solo era molto diversa la nozione di derivazione, ma era molto
diversa anche tutta l’architettura del sapere linguistico al cui interno si collocava la nozione di derivazione. Inoltre, tra Platone e
Bopp, l’architettura generale del sapere linguistico è cambiata diverse volte e ciascun cambiamento ha determinato un riposizionamento o una ridefinizione della nozione di derivazione e dei suoi
rapporti con il problema del tempo. Proprio per questo, è difficile
– per non dire impossibile –, ricostruire la storia della nozione di
morfologia derivazionale senza concentrarsi sui diversi rapporti
che, di secolo in secolo, legavano l’architettura generale del sapere linguistico, il problema del tempo e la nozione di derivazione.
20
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
3.1 L’idea storiografica alla base di questo lavoro
Per spiegare più concretamente l’idea che è alla base di questo
lavoro possiamo partire dal confronto seguente. Per gli studiosi greci e romani, la nozione di derivazione (lat. derivatio, gr. παραγωγή)
non indica quattro concetti diversi, uno per ciascun campo del sapere linguistico, ma indica un’unica nozione che coincide, in buona
sostanza, con l’etimologia. Per gli antichi, in altre parole, la derivazione indica tutto il processo di formazione-creazione-evoluzione
di tutte le lingue del mondo a partire dalla lingua originaria dell’umanità imposta sugli oggetti del mondo dal primo Nomoteta. Più
precisamente, nella concezione antica, la derivazione indica solo
la parte evolutivamente più recente di questo processo generale
di creazione-formazione-evoluzione delle lingue (e, quindi, delle
parole che le componevano), quella parte che inizia subito dopo
la prima impositio dei nomi sugli oggetti del mondo da parte del
Nomoteta e che coincide grossomodo con l’evoluzione di tutte le
lingue umane a partire dalla lingua originalis. In altri termini, per
gli antichi il processo di formazione-creazione delle lingue, il processo di formazione-creazione delle parole all’interno delle lingue
umane e la formazione delle nuove parole da parte dei poeti o dei
retori che condividono la stessa capacità onomaturgica del Nomoteta originario, rappresentano solo tre aspetti di un unico processo
“creativo” di derivatio, un processo che, appunto, comprende senza soluzione di continuità tutto ciò che va dall’origo linguae più
remota fino al neologismo.
All’interno di questo processo di derivazione-formazione-creazione delle parole, delle lingue e del linguaggio che agli antichi
sembrava unico, però, noi moderni distinguiamo quattro diversi processi di derivazione (i.e. la derivazione in senso sincronico,
acronico, diacronico e pancronico), ma anche quattro diversi “pacchetti” di dati, uno per ciascun processo di derivazione: i dati sincronici descritti dalle grammatiche nel capitolo sulla formazione delle
parole riguardano la derivazione in senso sincronico; i dati etimologici descritti nelle grammatiche storiche o, in parte, nel capitolo
sul lessico delle grammatiche sincroniche riguardano la derivazione
in senso diacronico; i dati tipologico-interlinguistici riguardano la
derivazione in senso acronico (se mai qualcuno dovesse provare a
fare una ricerca di questo tipo) e i dati evoluzionistici sullo sviluppo
Introduzione
21
del linguaggio articolato umano riguardano la derivazione in senso
pancronico. La storia della nozione di morfologia derivazionale, in
questo quadro, è anche o, forse, soprattutto la storia del modo in
cui il processo di derivazione, che per gli antichi era un processo
unico e unitario, è stato diviso, segmentato – vorrei quasi dire quasi
“analizzato” (in senso etimologico) – in quattro processi distinti,
ciascuno dei quali è definito, oggi, da uno specifico inquadramento
sull’asse del tempo e da un suo specifico “pacchetto” di dati.
Inoltre, poiché per gli antichi l’origine del linguaggio e l’etimologia rappresentano dei problemi primariamente filosofici, la storia
della nozione di morfologia derivazionale è anche la storia del modo
in cui, attraverso le varie riorganizzazioni dell’architettura del sapere linguistico, siamo arrivati a distinguere linguistica e filosofia; più
concretamente, è la storia del modo in cui siamo arrivati a distinguere le teorie filosofiche e gli “pseudo-dati” su cui si fonda tutta l’etimologia “selvaggia” precedente a Bopp, e i dati linguistici empirici
sulla “derivazione”: ovvero, da una parte i dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole (che noi, di norma, trattiamo nel
capitolo sulla derivazione delle attuali grammatiche sincroniche), e
dall’altra i dati empirici e diacronici sull’etimologia (che noi trattiamo nelle grammatiche storiche o, al massimo, nel capitolo sul
lessico delle grammatiche sincroniche). Tuttavia, come si diceva, se
escludiamo il lavoro di Lindner (2015a) e, in parte, quello di Kastovsky (2006), nessuno dei lavori dedicati alla storia della derivatio
apparsi fino ad ora si interessa minimamente al problema del tempo,
né tanto meno si interessa al modo in cui, nel corso della storia delle
idee linguistiche, il “pacchetto” di dati sulla formazione delle parole
sia stato distinto dal “pacchetto” dei dati sull’etimologia e sul neologismo o come, i “pacchetti” di dati sulla formazione delle parole e
sui neologismi si siano aggregati insieme all’interno di quel capitolo
sulla morfologia derivazionale che compare oggi in tutte le grammatiche sincroniche, separandosi progressivamente dal “pacchetto” di
dati diacronici sull’etimologia. Di qui, la necessità di questo lavoro,
che non si propone di ricostruire la storia della nozione di derivazione nella sua completezza, ma solo di richiamare l’attenzione degli
studiosi sui legami che intercorrono tra la storia della derivazione e
il problema del tempo tra l’antichità greco-romana e Bopp.
Per raggiungere questo scopo, infatti, vorrei concentrarmi su
tre aspetti molto specifici della storia della derivazione, ovvero: la
22
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
storia della derivazione e il problema del tempo nell’età classica
(cap. 2); la storia della derivazione e il problema del tempo tra il
Medioevo e l’Età dei Lumi (cap. 3); la storia della derivazione e il
problema del tempo nelle grammatiche sanscrite pubblicate tra il
Barocco e Bopp (cap. 4). Chiaramente, la scelta di questi tre aspetti
non è casuale. In parte, dipende dal fatto che (soprattutto nei primi
due casi, assai meno nel terzo) si tratta dei temi e dei periodi storici
che più di tutti hanno riscosso l’interesse degli studiosi negli ultimi anni. In parte, dipende dal fatto che si tratta degli aspetti della
storia della derivazione e, in generale, della storia della linguistica che avrebbero più da guadagnare da un riesame di quello che
ho chiamato “il problema del tempo”. In parte dipende dal fatto
che non tutti gli aspetti della storia della morfologia derivazionale,
anche se si accetta il quadro teorico che ho proposto sopra, sono
ignoti: sappiamo, ad esempio, che la distinzione tra ontogenesi
del linguaggio e filogenesi delle lingue era sufficientemente salda a partire dall’inizio del XIX secolo, grazie alla dimostrazione
dell’ipotesi indoeuropea di Bopp e Rask, o al massimo, dal 1866,
quando la Société de Linguistique de Paris mise al bando qualsiasi
comunicazione sull’origine del linguaggio6; sappiamo anche che
la differenza tra acronia e sincronia è, in un certo senso, implicita
nel lavoro di Sapir (1921); infine, sappiamo da Kastovsky (2006)
e Lindner (2015a) che la morfologia derivazionale è stata trattata
come una nozione prevalentemente diacronica tra Bopp (1833) e
gli anni ’60 o ’70 del XX secolo. Quindi, la parte della storia della
morfologia derivazionale che è meno nota e, proprio per questo
più interessante – sempre che si accetti l’impostazione storiografica proposta sopra – è quella compresa tra l’antichità e l’ipotesi
indoeuropea di Bopp (1816). Nel seguito del lavoro, infatti, vorrei
provare a mostrare che, se si tiene nella giusta considerazione il
nesso che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e
il problema del tempo è possibile proporre una interpretazione storiografica almeno in parte originale per la storia della derivazione
nell’età classica, nella linguistica “prescientifica” e nelle grammatiche sanscrite precedenti a Bopp.
6
L’articolo 2 dello statuto della Société de Linguistique di Parigi, infatti, recitava: La Société n’admet aucune communication concernant, soit l’origine
du langage, soit la création d’une langue universelle (Leroy 1969, p. 44).
Introduzione
23
4. Il problema dell’anacronismo
Chiaramente, utilizzare l’architettura del sapere comunemente
accettata ai nostri giorni come quadro teorico generale al cui interno studiare la storia della derivazione nell’antichità è un’operazione anacronistica. L’anacronismo, però, non è necessariamente un
difetto in sede di analisi storiografica. Anzi. Lo studio del passato,
infatti, può seguire due approcci, entrambi legittimi dal punto di
vista teorico7.
La storiografia “cronica” si occupa di ricostruire il valore che
una data nozione aveva per gli studiosi che utilizzavano quella
nozione, a prescindere dai rapporti che legano quella nozione e
le nozioni dominanti nel presente. Questo tipo di indagine storiografica utilizza un punto di vista interno alla teoria oggetto della
descrizione e produce i migliori risultati nel mettere in risalto le
differenze tra le nozioni dominanti nel presente e le nozioni passate, anche quando queste nozioni sono veicolate dagli stessi termini
tecnici. Un buon esempio di questo tipo di storiografia è il lavoro di Aarsleff (1974) su Condillac o quello di Borst (1957-1959)
sull’origine del linguaggio.
Al contrario, la storiografia “anacronica” cerca di dimostrare il
valore che le nozioni del passato hanno rispetto alla teoria linguistica del presente (evito volutamente il termine anacronistico, che
nel linguaggio comune ha un’accezione negativa). Questo tipo di
indagine ha un punto di vista esterno alla teoria oggetto di studio
e serve soprattutto a far emergere le analogie tra le nozioni dominanti nel presente e i loro antecedenti passati, anche quando
queste nozioni sono identificate attraverso termini tecnici diversi.
Un esempio di questo tipo di storiografia è costituito dai lavori
di Belardi dedicati alla nozione di radice in Saussure, alla sua tipologia morfologica e alla controversia sulle nozioni di radice e
di parola nella linguistica indoeuropea del XIX secolo (Belardi
1990b; 1993; 2002: I, pp. 256 ss.; 2008).
Una storia rigorosamente “cronica” della nozione di morfologia
derivazionale nella linguistica premoderna è chiaramente impos7
Alcune riflessioni sulla teoria della storiografia simili a quelle esposte sopra
si trovano in Aarsleff (1982), Koerner (1976; 1993; 2004) e, in misura minore, in Simone (1995) e Swiggers (2012).
24
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sibile, perché la nozione stessa di formazione delle parole, intesa
come campo di ricerca sincronico e distinto tanto dal lessico quanto
dalla flessione, non esiste prima degli anni ’70 del XX secolo. Se
si segue un approccio “cronico”, insomma, l’unica reale possibilità
è quella di produrre una storia delle nozioni di etimologia (come
quella di Amsler 1989) o di origine del linguaggio (come quella
di Borst 1957-1959), includendo al suo interno anche il problema
della formazione delle parole, dato che la formazione delle parole, l’etimologia e l’origine del linguaggio, di fatto, sono temi di
ricerca ampiamente confusi nell’antichità. Una storia “anacronica”
della nozione di derivazione, invece, può ricostruire in che modo,
e secondo quale logica, sono stati descritti i dati empirici che noi,
oggi, riuniamo insieme nei capitoli sulla formazione delle parole
che compaiono in tutte le grammatiche delle lingue europee moderne, dato che la specificità di questi dati rispetto ai dati etimologici è
un’acquisizione soltanto moderna. Solamente una storia “anacronica” della nozione di derivazione, insomma, può avere come scopo
quello di ricostruire in che modo si sia formata la nozione moderna
di derivazione, dato che questa nozione, per l’appunto, è solo moderna. Insomma, anche se entrambi gli approcci storiografici che
abbiamo delineato sopra sono perfettamente legittimi e plausibili in
assoluto, in questo caso, è stato scelto un approccio rigorosamente
“anacronico”, seguendo ciò che avviene in quasi tutti i lavori dedicati a questo tema, a partire dalla bella monografia di Vaahtera
(1998)8.
Selezionare un approccio “anacronico” ha chiaramente dei
vantaggi, ma comporta anche dei rischi. I vantaggi sono chiari.
Ricostruire la storia di una nozione non è una operazione neutra dal punto di vista teorico: come sapeva già Kuhn, lo studio
del passato è fondamentale per stabilizzare le nozioni dominanti
nel presente. Ricostruire la storia della morfologia derivazionale,
8
Non è un caso, che Vaahtera intitoli il suo lavoro Greek and Roman views on
word-formation, invece di scegliere un titolo come Greek and Roman theories on word-formation: i Greci e i Romani, infatti, non hanno una teoria
compiuta sulla formazione delle parole, ma hanno comunque delle opinioni
sulla formazione di questo o di quel tipo di nome, anche se per loro la formazione di questo o di quel tipo di nome sconfina (ossia, si confonde) ora
con la formazione delle lingue, ora con la retorica e il neologismo, ora con
l’etimologia remota e l’origine del linguaggio.
Introduzione
25
quindi, è un modo – speriamo – efficace, ancorché indiretto, per
stabilizzare la nozione di morfologia derivazionale in sede di teoria linguistica. Tuttavia, un quadro teorico eccessivamente “anacronico” corre il rischio di nascondere le differenze tra le nozioni
passate e quelle presenti al di sotto dell’identità dei termini tecnici
che indicano quelle nozioni. Un po’ come se, nella furia di cercare gli antecedenti passati della nozione moderna di derivazione,
finissimo per convincerci che la nozione di derivazione per noi
e per Prisciano indichino sostanzialmente la stessa cosa, perché
hanno lo stesso nome, oppure perché in certi casi (ma solo in certi!) si riferiscono a dati linguistici simili; seguendo questa linea, si
potrebbe addirittura arrivare a credere (o, almeno, ad agire come
se si credesse) che la nostra nozione di derivazione e quella di Prisciano grossomodo coincidano, ovvero che la nozione di derivatio
in Prisciano sia solo una pallida anticipazione della nostra nozione
di derivazione – il che è chiaramente un’assurdità dal punto di
vista storiografico, dato che Prisciano non pensava affatto a noi
mentre compiva i suoi studi9.
Insomma, selezionare un approccio “anacronico” è utile e, forse,
inevitabile in questo caso, ma comporta certamente il rischio di vedere il passato solo come una anticipazione un po’ pallida e imprecisa del presente. Proprio per evitare questo rischio e, più nel concreto, per evitare di appiattire le differenze tra la nozione presente di
derivazione e la nozione passata di derivazione al di sotto dell’identità del termine derivatio, quindi, il presente lavoro si muoverà alla
ricerca di una “anacronia mediata”: con questa etichetta mi riferisco
ad un’impostazione storiografica che eviti di proiettare la nozione
presente di derivazione nel passato in modo diretto e irriflesso, ma
utilizzi il quadro teorico comunemente accettato nel nostro presente
(e descritto in modo esplicito nel § I.3) come mappa concettuale al
cui interno descrivere i vari modi in cui è stata concepita la nozione di derivazione nel corso del tempo: in questo modo speriamo
di rispettare la visione passata delle nozioni passate e, nello stesso
tempo, di mostrare il valore presente delle nozioni passate.
9
Un problema di questo tipo, ad esempio, mi pare si possa trovare in quei lavori che hanno cercato di riportare la nozione di struttura profonda a Cartesio
(Chomsky 1966, cfr. Graffi 2001c), il concetto di morfema a Varrone (Pisani
1976) o la nozione di trasformazione a Pāṇini (Chomsky 1965, p. iii).
26
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
5. Un’avvertenza prima di cominciare
Prima di iniziare, vorrei dichiarare non tanto cosa c’è in questo
libro, ma cosa certamente non c’è. Ciò che questo libro non offre ai
lettori è una storia della nozione di radice che scorra in parallelo alla
storia della nozione di derivazione.
La ragione di questa mancanza è semplice e si evince dai lavori
che, in questi anni, ho dedicato alla definizione della nozione di
radice (Alfieri 2009; 2016; 2017; 2018b; 2019b; 2020; 2021; Alfieri & Gasbarra 2021). In breve, tutti (o quasi tutti) gli studiosi
contemporanei sono d’accordo su cosa sia la morfologia derivazionale e quale sia la sua collocazione all’interno dell’architettura del
sapere linguistico contemporaneo, ma lo stesso non si può dire per
la nozione di radice (per una rassegna delle varie ipotesi, spesso
molto diverse e in contrasto netto tra loro, si veda Alfieri 2016, pp.
129-136). Secondo alcuni, la radice indica solo una nozione diacronica, mentre secondo altri indica sia una nozione diacronica, sia
una nozione sincronica; coloro che accettano la definizione anche
sincronica della nozione di radice, inoltre, si dividono ulteriormente
tra coloro che credono che la radice in senso sincronico coincida
necessariamente con un tema verbale semplice e coloro che, invece,
credono che la radice possa essere un’unità di analisi diversa da un
tema verbale semplice sia dal punto di vista formale, sia dal punto
di vista tipologico-funzionale.
Chiaramente, non è questa la sede per discutere le varie definizioni della nozione di radice. Però, è chiaro che se la radice sanscrita rappresenta un’unità di analisi diversa da un tema verbale latino,
allora la storia della nozione di radice ha una dimensione tipologica
fondamentale, che non compare affatto nella storia della nozione di
derivazione. La stessa dimensione tipologica, però, è completamente assente se le radici verbali sanscrite e i temi verbali primari del
latino rappresentano lo stesso tipo di unità di analisi. Ora, in assoluto, io credo che la storia della nozione di radice abbia effettivamente
una dimensione tipologica importante. Tuttavia, questa idea non è
quella oggi dominante. Per evitare di entrare in questioni teoriche
controverse che avrebbero finito per rendere il lavoro troppo lungo
(dunque, poco leggibile) o troppo partigiano (dunque, poco condivisibile), quindi, in questo caso mi sono limitato a ricostruire la
storia della nozione di derivazione, lasciando da parte la storia della
Introduzione
27
nozione di radice. Resta il fatto che il lettore interessato a questo
tema, si può rivolgere ai miei lavori dedicati all’ingresso della nozione di radice nella teoria grammaticale europea per farsi un’idea
del problema (Alfieri 2017; 2014a; 2013).
Come si vedrà tra breve, il corpo principale di questo libro è costituito da tre capitoli. Ciascuno di questi capitoli si appoggia a delle precedenti pubblicazioni. In particolare, il cap. 2, che è dedicato
all’antichità greco-romana prende le mosse dagli stessi materiali
che ho utilizzato in Alfieri (2022; in stampa a; in stampa b); il cap.
3, che è dedicato alle grammatiche filosofiche si basa sugli stessi
materiali che ho utilizzato in Alfieri (2018a; 2019a); mentre il cap.
4 dedicato alle grammatiche indiane parte dagli stessi materiali che
ho utilizzato in Alfieri (2013, 2014a). Tutti i materiali, però, stati
profondamente rivisti, aggiornati e rimodulati per l’occasione, così
da offrire al lettore un quadro – spero – coerente e, per quanto possibile, originale della storia della nozione di derivazione tra l’antichità e Bopp.
CAPITOLO II:
L’ETÀ CLASSICA
1. Introduzione
Partiamo dall’inizio di questa storia. Nel suo fondamentale lavoro dedicato a Greek and Roman views on word-formation, Vaahtera
(1998) ha mostrato che il processo di derivazione in quanto tale
non è l’oggetto principale di nessuno dei domini del sapere più comuni nell’antichità. Eppure, alcuni degli aspetti più importanti del
processo di formazione delle parole vengono descritti all’interno di
opere che afferiscono a tre diverse branche del sapere linguistico
antico: le opere etimologiche, le opere retoriche e le grammatiche.
Aver identificato in modo chiaro la presenza di tre approcci strutturalmente diversi allo studio della morfologia derivazionale nell’antichità classica è uno dei meriti principali del lavoro di Vaahtera,
insieme a quello – di per sé non secondario – di aver raccolto con
attenzione e acribia filologica la grande maggioranza dei passi dedicati all’analisi della formazione delle parole nella letteratura greca
e romana.
Certo, rispetto agli anni ’90, alcuni aspetti filologici del lavoro di
Vaahtera si possono aggiornare: la monografia di Luhtala (2005),
ad esempio, ci permette di identificare con più chiarezza due diversi
modelli tassonomici nel pensiero grammaticale romano, soprattutto
per ciò che riguarda la classificazione degli accidentia nominum.
Alcuni passi di Aristofane permettono di anticipare l’approccio retorico allo studio dei nomi derivati di una o due generazioni; alcuni
passaggi del Cratilo di Platone ci lasciano intravedere degli aspetti
secondo me piuttosto interessanti di quella relazione tra derivazione, patologia ed etimologia che, in anni recenti, è stata studiata da
Lallot (1995; 2008); e la recente pubblicazione dei frammenti di
Aristofane di Bisanzio (Slater 1986 = SGLG 6, Schironi 2004), Aristarco di Samotracia (Matthaios 1999) e Cratete di Mallo (Broggiato 2001; 2014) consente di precisare qualche caratteristica delle pri-
30
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
missime fasi del pensiero grammaticale greco che era rimasta un po’
in ombra nella monografia di Vaahtera. Ma non sono questi i punti
più rilevanti: è l’interpretazione storiografica generale proposta da
Vaahtera che, a mio avviso, richiede un qualche ripensamento.
Nonostante la divisione per “generi letterari” proposta da Vaahtera, alla fine della sua monografia, l’Autrice dice in modo esplicito
che, secondo lei (1998, p. 115): “it is clear that we cannot keep
the etymological and the grammatical approach to derivatives separate”. Ora, questa tesi in parte è vera, ma in parte è fuorviante.
È vero che gli strumenti tecnico-pratici con cui i grammatici e gli
etimologisti analizzano i nomi derivati sono molto simili tra loro
(anche se non del tutto uguali); quindi, da un certo punto di vista,
è davvero difficile tenere distinti l’approccio etimologico e quello
grammaticale rispetto all’analisi pratica dei nomi derivati. Ciò nonostante, secondo me, fin dall’età classica e, ancor di più, dall’età
ellenistica in poi si sono andati delineando due approcci all’analisi
della derivazione strutturalmente diversi dal punto di vista teorico
e terminologico: un approccio di tipo “grammaticale” o, per così
dire, “proto-sincronico”, e un approccio di tipo “etimologico” o,
per così dire, “proto-diacronico”. In altre parole, Vaahtera crede che
non sia possibile distinguere un approccio grammaticale e un approccio etimologico alla derivazione, perché gli strumenti tecnici
impiegati nell’analisi empirica dei nomi derivati sono praticamente
gli stessi nei due casi. Io, invece, vorrei dimostrare che, se si tiene
in considerazione il problema del tempo, non è solo possibile, ma è
anche necessario tenere ben distinti un approccio grammaticale e un
approccio etimologico rispetto all’analisi dei nomi derivati, anche
se la differenza, in buona parte (ma non del tutto), si neutralizza
nell’analisi pratica dei nomi derivati.
Per dimostrare questa tesi mi propongo di rivedere la storia della
derivazione nell’età greco-romana, con due differenze sostanziali
rispetto al lavoro di Vaahtera (1998). La prima, come ho già detto,
è di ordine teorico e consiste in un’attenzione nuova al problema
del tempo. La seconda, di ordine più pratico, consiste in un diverso
ordinamento del lavoro: invece di seguire la divisione “per generi
letterari” utilizzata da Vaahtera, ordinerò i passi, per quanto possibile e al netto delle lacune effettivamente presenti nella documentazione, nella loro sequenza cronologica. Certo, anche se ordinati
in questa forma, i passi analizzati nel seguito del lavoro presenta-
L’età classica
31
no delle sovrapposizioni con quelli discussi da Vaahtera. Più nello
specifico, i paragrafi dedicati all’approccio retorico allo studio dei
nomi derivati (i.e. §§ II.4 e II.7), a Gellio (i.e. § II.8) e ai lessicografi
(i.e. § II.10) sono inquadrati in una prospettiva storiografica molto diversa rispetto a quella di Vaahtera ma analizzano grossomodo
gli stessi passi già discussi dalla studiosa (al netto, ovviamente, di
qualche differenza, come i passi di Aristofane discussi nel § II.4);
le sezioni dedicate ai rapporti tra derivazione ed etimologia (i.e. §§
II.2, II.3, II.5 e II.6) e quelle su derivazione e grammatica (i.e. §§
II.9, II.9.1, II.9.1.1, II.9.1.2, II.9.2 e II.9.3), invece, pur trattando in
sostanza gli stessi temi già discussi da Vaahtera, sono decisamente
più innovative, sia nella teoria storiografica utilizzata, sia soprattutto nei passi valorizzati di volta in volta.
2. Le prime riflessioni sul linguaggio nella Grecia arcaica
I primi esempi di un interesse dei Greci per il linguaggio compaiono nell’età arcaica. Omero, ad esempio, racconta che la dea
Errore (gr. Ἄτη), figlia di Zeus, si chiama così perché tutti fa errare
(Ἄτη, ἣ πάντας ἀᾶται, Il. 19.91). Le paretimologie di questo tipo
sono comuni in Omero, in Esiodo, nei tragici e negli inni orfici e ci
lasciano vedere i primi segni di un’idea che avrebbe avuto grande
fortuna nei secoli successivi1. Il linguaggio, che per gli antichi non
era poi molto diverso da un insieme di parole, nasce nel momento in cui qualcuno, forse un vero e proprio ‘impositore di nomi’
(gr. νομοθέτης, lat. impositor nominum), come quello descritto da
Platone nel Cratilo (429a1), per la prima volta impone i nomi alle
cose, all’incirca nello stesso modo in cui un padre impone il nome
ai suoi figli2. Inoltre, se il Nomoteta in questione era Zeus stesso,
o comunque un essere divino, la prima imposizione dei nomi (gr.
θέσις ὀνομάτων, lat. impositio nominum) non poteva che riflettere
1
2
Sulle etimologie dei poeti arcaici e classici, si vedano Gambarara (1984, pp.
109 ss., 113 ss.) e Belardi (2002: I, pp. 11 ss.).
Il sintagma θέσις ὀνομάτων si trova per la prima volta in Platone (Crat.
390d10), mentre il nome νομοθεσία è attestato solo a partire da Plutarco. La
nozione di Nomoteta compare negli inni orfici e, da qui, passa nella filosofia
pitagorica prima di essere integrata nello stoicismo (Gambarara 1984, pp.
161 ss. e 191 ss.).
32
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
la natura profonda degli oggetti nominati, la loro “verità” ontologica, quella stessa verità ontologica che restava inscritta, appunto,
nei loro etimi (si ricordi che il gr. τὸ ἔτυμον vale letteralmente ‘il
vero’, ed è da qui che si forma il gr. ἐτυμολογία, termine che Cicerone, non a caso, tradusse con veriloquium in Top. 35 e Quintiliano
tradusse direttamente con veritas in Inst. or. I.7.8)3.
Oggi siamo abituati a riassumere questo tipo di teorie sul linguaggio con l’etichetta di etimologia. Il termine greco τὸ ἔτυμον nel significato di ‘valore vero di una parola’, però, risale all’età aristotelica e
il composto ἐτυμολογία, stando a Galeno (SVF II, fr. 884), compare
per la prima volta nel Τὰ ἐτυμολογικά di Crisippo (Pfeiffer 1973,
p. 395, n. 48; Belardi 2002: I, p. 21 e 28). Nell’età arcaica, quindi,
i Greci cominciano a percepire il linguaggio come qualcosa di distinto dal mondo e dal pensiero, ma non sono ancora arrivati ad una
distinzione netta tra pensiero e linguaggio, né tanto meno tra lingua e
linguaggio, e la grammatica è ancora lontana dall’essere identificata
come una scienza a sé4. In questa primissima fase degli studi linguistici, esiste solo l’etimologia che, almeno dal punto di vista cronologico, rappresenta il punto di partenza di tutte le riflessioni greche
sul linguaggio. Soprattutto nell’età arcaica, quindi, la prospettiva dei
Greci per lo studio del linguaggio è “pancronica” e “olistica” o, se
si preferisce, anche solo “filosofica”, perché abbraccia in un solo
sguardo tutto ciò che va dalla prima imposizione delle πρῶται φωναί
della lingua originaria fino alla ratio e al funzionamento in atto delle
parole greche, senza alcuna soluzione di continuità5.
3
4
5
Oltre a veriloquium e veritas, gli studiosi romani rendono ἐτυμολογία con il
prestito non adattato ἐτυμολογία (Varr., Ling. lat. V.2), con il prestito adattato etymologia (Varr., Ling. lat. VIII.102), oppure con i termini origo (Varr.,
Ling. lat. V.3 e 6), explicatio o interpretatio (Cic., De or. I.87), ratio con il
senso di ‘significato dell’etimo’ (Varr., Ling. lat. VI.36; Quint., Inst. or. I.6.1),
causa (Varr., Ling. lat. V.9 e 94) e (ad)notatio (Cic., Top. 10 e 35), che è un
calco semantico del gr. σύμβολον attraverso il lat. nota. Sulle rese latine di
ἐτυμολογία, si veda Cavazza (1981, pp. 20-1, n. 13).
La confusione tra il pensiero e il linguaggio è la norma in Grecia (Belardi
2002: I, pp. 17 ss.; II, pp. 221 ss.), anche se esistono delle eccezioni, forse,
in Parmenide (Belardi 2002: II, pp. 228-9, n. 684 e pp. 236 ss.) e, di certo, in
Aristotele (Belardi 1975, pp. 38-61) e Crisippo (Belardi 1990-91, pp. 5 ss.).
Anche se entrambe le Autrici descrivono perfettamente la Denkform su cui
si fonda l’etimologia antica, Sluiter (2015, p. 898) crede che “ancient etymology […] is all about synchrony” e Desbordes (2007 [19981], p. 142)
ritiene che sia sostanzialmente “achronique”. Il contrasto tra le due defini-
L’età classica
33
In questo quadro filosofico e pancronico si innestano le prime riflessioni dei filosofi presocratici (Belardi 2002: I, pp. 24 ss. e II, pp.
213 ss. e 220-253). Se il linguaggio nasceva davvero da una imposizione dei nomi sulle cose del mondo, questa imposizione poteva
essersi realizzata per natura (φύσει), in modo che i nomi imitassero la natura delle cose stesse, come credevano Eraclito e Pitagora;
oppure poteva essersi realizzata attraverso una sorta di pattuizione
(νόμῳ, θέσει) tra i membri della società umana, come credevano
Democrito e Parmenide6. La differenza tra queste due prospettive
sarà fondamentale per tutto il seguito degli studi linguistici. Se i
nomi imitano le cose del mondo, come credevano i più, allora il
linguaggio è uno strumento conoscitivo efficace e l’etimologia è
una scienza fondamentale, perché ha il compito di recuperare il legame mitico, quasi magico, che unisce fin dall’origine le parole e le
cose, mostrando l’adeguatezza ontologica dei nomi (l’ὀρθότης τῶν
ὀνομάτων di cui parla Platone nel Cratilo, 421c-d) e, dunque, l’effettiva funzionalità del linguaggio nel significare le cose del mondo.
Se, invece, i nomi nascono da una pattuizione tutta umana (quindi
fallibile), come credevano i filosofi convenzionalisti, seguiti dai sofisti, allora il linguaggio non è necessariamente uno strumento affidabile per conoscere la natura delle cose e l’etimologia non ha una
particolare rilevanza, ma si apre uno spazio autonomo per lo studio
dei meccanismi di funzionamento del linguaggio, al di là della sua
origine e della natura delle cose nominate7.
6
7
zioni mi pare una conferma indiretta dell’approccio pancronico dell’etimologia antica, che ingloba elementi sincronici, diacronici e acronici, ma non
può essere ridotto a nessuno di questi.
Chiaramente, il legame tra origine naturale del linguaggio ed etimologia è più
forte nelle fasi iniziali del pensiero linguistico antico. Varrone, ad esempio,
pur occupandosi di etimologia e accettando l’origine naturale del linguaggio
(cfr. ea [i.e. natura] enim dux fuit ad vocabula imponenda homini, Ling. lat.
VI.3 e similmente in IX.33) cerca una mediazione con l’importanza della humana consuetudo. È, però, vero che, nelle fasi iniziali del pensiero linguistico
greco, i sostenitori di un’origine naturale del linguaggio sono ovviamente
molto più inclini alle speculazioni etimologiche dei convenzionalisti.
Una eco di questa idea si trova, oltre che ne Cratilo di Platone (cfr. infra),
negli autori che rifiutano l’etimologia come strumento euristico affidabile,
come Sesto Empirico (Adv. math. I.241-7), in parte Quintiliano (Inst. or.
I.6.32) e lo scettico Cotta, citato da Cicerone (De nat. deo. II.24-28). Sull’etimologia greca in generale, si vedano da ultimi Nifadopulos (2003) e Zucker
& Le Feuvre (2021).
34
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Insomma, le prime riflessioni linguistiche dei Greci precedono la
distinzione netta tra pensiero e linguaggio, quindi precedono anche
la distinzione tecnica tra le nozioni di lingua e linguaggio che è alla
base di tutta la speculazione linguistica moderna. Tra la fine dell’età
arcaica e l’inizio dell’età classica, però, cominciano a delinearsi due
approcci distinti agli studi linguistici. Coloro che credono in un’origine naturale del linguaggio sono interessati principalmente a studiarne l’origine, mentre coloro che credono nell’origine convenzionale
del linguaggio, si interessano di più a studiarne il funzionamento in
atto. Tra l’età classica e l’età ellenistica, entrambe queste prospettive
produrranno uno specifico approccio allo studio dei fatti di lingua e,
con esso, uno specifico approccio all’analisi dei nomi derivati.
3. Etimologia, pathologia e derivazione nel Cratilo di Platone
All’interno della diatriba sull’origine del linguaggio e sulla sua
affidabilità come strumento euristico si inserisce il Cratilo di Platone. Come ha mostrato Belardi (2002: II, pp. 246 ss.), Platone crede
che sia possibile, se non addirittura preferibile, conoscere le cose
senza passare attraverso le parole che le designano (δυνατόν μαθεῖν
ἄνευ ὀνομάτων τὰ ὄντα, Crat. 438e2). La varietà poliedrica delle etimologie proposte da Cratilo e da Socrate, in altre parole, è il
mezzo scelto da Platone per la reductio ad absurdum delle pretese
conoscitive del linguaggio: se tutte le etimologie sono possibili in
assoluto ma nessuna è dimostrabile, allora è necessaria una teoria
della conoscenza che sia sostanzialmente indipendente dalle parole.
Proprio per arrivare a questa reductio, però, Platone descrive tutto il
bagaglio sapienziale sul linguaggio e la sua genesi che si era andato
accumulando a partire dall’età arcaica e dal quale avrebbero attinto,
in varie forme, tutte le scuole filosofiche dell’età classica ed ellenistica, a cominciare dagli Stoici8.
8
La teoria etimologica fondata sull’isomorfia tra nomi e cose si è legata in
particolare alla filosofia stoica, ma non è una teoria solo stoica (Belardi 199091, pp. 92 ss.). La nozione di Nomoteta, infatti, nasce negli inni orfici e passa
nella filosofia pitagorica prima che nello stoicismo (cfr. n. 2 § II.2). Cratilo,
inoltre, era eracliteo e le etimologie basate sull’isomorfia nomi-cose erano
comuni nei testi arcaici. Per il tramite di Agostino e Isidoro, infine, la teoria
etimologica “stoica” sopravvive alla fine della Stoà e giunge fino a Dante. È,
L’età classica
35
Dal punto di vista retrospettivo, questo bagaglio sapienziale si
fonda in sostanza su due elementi. Il primo, come abbiamo detto,
consiste nell’idea “pancronica” secondo cui il funzionamento del
linguaggio dipende, in sostanza, dalla sua origine, ovvero dal modo
in cui i nomi sono stati imposti ab origine sulle cose nominate. Il
secondo elemento, altrettanto fondamentale, ma in genere meno
considerato, è un abbozzo di una teoria del mutamento delle parole
nel tempo. In altre parole, anche se si tratta di una “semantic ontology” (Fresina 1990: 110), più che di una teoria sulla diacronia delle
lingue, l’etimologia antica produce fin da subito una teoria del mutamento o, più precisamente, una teoria dell’evoluzione del linguaggio e della lingua greca a partire dalla sua origine mitica. Questa teoria che, fin da Wackernagel (1876), è conosciuta come teoria delle
“affezioni” dei nomi (gr. πάθη τῆς λέξεως, lat. accidentia nominum),
non è mai descritta nelle fonti in modo esplicito, ma è citata in modo
cursorio da Aristotele, Platone, Varrone, Quintiliano e da molti dei
grammatici greci e latini (almeno nell’analisi dei composti) ed è effettivamente alla base di tutte le ipotesi etimologiche antiche9.
9
però, vero che questa teoria ebbe un particolare successo presso gli Stoici:
Origene dice esplicitamente che per gli Stoici le prime voci imitavano le cose
(μιμουμένων τῶν πρώτων φωνῶν τὰ πράγματα, καθ’ὧν τὰ ὀνόματα, καθὸ
καὶ στοιχεῖά τινα τῆς ἐτυμολογίας εἰσάγουσιν, Contra Celsum I, 24 = SVF
II, fr. 146 e Belardi 2002: I, p. 29). Inoltre, Crisippo lamentava che le parole
con alpha privativo non indicavano sempre στήρεσις, mentre molte altre parole che indicavano στήρεσις non contenevano l’alpha privativo (SVF II, fr.
177-179). Sul tema, si vedano anche Belardi (1985; 2002: I, pp. 213-376),
Belardi & Cipriano (1990) e Blank & Atherton (2003). Chiaramente, l’idea
della nomotesia non era l’unica teoria possibile sull’origine del linguaggio in
Grecia: nel libro 12 del De natura, purtroppo perduto, è probabile che Epicuro proponesse l’origine naturale del linguaggio, senza far intervenire alcun
Nomoteta (cfr. Lett. Er. 75-6, e Baratin & Desbordes 1981, pp. 25 e 111) e,
di certo, questa stessa tesi torna nel libro V del De rerum natura di Lucrezio
(cfr. vv. 1028-90, cfr. Deneker 2017, pp. 25 ss.). È vero, però, che questa
teoria “naturalistica” nelle fonti antiche non ha avuto successo.
Il sintagma πάθη τῆς λέξεως compare già in Aristotele (Poet. 1460b12);
Platone usa il perfetto πέπονθεν da πάσχω (Crat. 399b7) per indicare il
mutare delle parole nel tempo (in relazione alla parola ἄνθρωπος) e l’idea
della corruzione dei nomi è abituale in Varrone (Ling. lat. V.7 e VII.12), oltre
che in Quintiliano (Inst. or. I.5.68-9) e nei grammatici, almeno per ciò che
riguarda l’analisi dei composti (cfr. § II.9.1). Inoltre, Apollonio e il figlio
Erodiano, probabilmente seguendo le orme di Trifone e il Περὶ παθῶν di
Didimo, usavano la stessa teoria per spiegare le differenze tra le diverse voci
36
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Dopo la fase mitica della prima positio, le πρῶται φωναί non
rimanevano immutabili per sempre, ma potevano cambiare incorrendo in un processo di progressiva ‘corruzione’ (gr. παραφθορά)
dovuto ora all’usura ora anche soltanto al tempo, che poteva nascondere la loro motivazione originaria. Questo processo di corruzione – o, per noi, semplicemente di cambiamento – poteva produrre nelle parole una serie di mutamenti o di “affezioni” (gr. πάθη,
lat. accidentia), che modificavano la loro forma o il loro significato,
fino a oscurarne la motivazione originaria. In certi casi, le modificazioni dei πρῶτα ὀνόματα riguardavano singoli termini, che erano
“scivolati” da un oggetto all’altro, cambiando forma o significato.
Ad esempio, Socrate dice che i termini greci φορά ‘movimento’,
ῥείν ‘scorrere’, ῥοή ‘corrente’ e τρέχειν ‘correre’ erano tutti derivati
da diverse modificazioni della lettera ῥῶ, perché la lettera ῥῶ veicolava per natura l’idea dello scorrere e del moto (Crat. 426c1 ss.).
In altri casi, i πρῶτα ὀνόματα non si erano evoluti in isolamento;
piuttosto si erano scontrati tra loro nelle varie frasi in cui comparivano e si erano fusi l’uno con l’altro formando dei proto-composti,
i cui membri si erano poi corrotti fino a rendere irriconoscibile la
motivazione originale del composto stesso. Ad esempio, per Socrate, il nome Ποσειδῶν poteva derivare dal composto ποσίδεσμων
‘catena dei piedi’ con l’aggiunta di una -ε- “per bellezza”, perché il
Nomoteta sentiva come una catena tra i piedi camminando nell’acqua, dato che l’acqua oppone resistenza al moto; ma poteva anche
derivare da πολλὰ εἰδότος ‘che sa molte cose’ con il mutamento
-λλ- > -σ-, perché Poseidone è effettivamente molto saggio; oppure
poteva derivare da ὁ σείων ‘colui che scuote’, con l’aggiunta di π- e
-δ-, perché Poseidone, come sua prerogativa divina, può davvero
causare i terremoti (Crat. 402d11 ss.).
In altre parole, la teoria delle affezioni dei nomi è la teoria del
mutamento linguistico che è implicita nella teoria etimologica antica. E non si tratta solo di una teoria “filosofica” priva di correlati
dialettali greche (Wackernagel 1979 [1876], pp. 1428 ss., 1432 ss. e 1448
ss.). Chiaramente, la teoria delle affezioni dei nomi e, ancora di più, quella
della “corruzione” dei nomi è la base dell’idea stoica espressa da Cleante di
Asso (cit. in Ateneo, SVF I, fr. 991), secondo cui i nomi non sempre sono
veridici e, anzi, alle volte possono ingannare (Belardi 2002: I, p. 23 e n. 14).
Sul tema della “patologia” dei nomi, si vedano anche Holtz (1981, pp. 171
ss.), Blank (1982, p. 83), Lallot (1995) e Vaahtera (1998, p. 101, n. 411).
L’età classica
37
pratici. Platone, ad esempio, usa il verbo παράγω per riferirsi alle
trasformazioni che i nomi subiscono nel corso della loro evoluzione e propone il sintagma ὀνόματα συμπλακέντα ‘nomi composti’ per indicare i nomi formati da più elementi (Theaet. 202b)10.
Inoltre, sempre Platone (Crat. 394b1, 418a5 e 431e9), presenta
anche una prima classificazione dei vari tipi di mutamenti che si
possono produrre durante il processo di creazione-evoluzione-corruzione dei nomi: gr. πρόστεσις (lat. adiectio), gr. ἀφαίρεσις (lat.
detractio), gr. ἀλλοίωσις (lat. immutatio) e gr. μετάθεσις (lat. traspositio)11. In effetti, questi quattro tipi di mutamento, che sono
i correlati tecnici della teoria delle affezioni dei nomi, possono
davvero dare ragione di tutte le ipotesi etimologiche antiche. È,
però, vero che la teoria delle affezioni dei nomi, così come i suoi
correlati pratici, non sono teorie falsificabili empiricamente: le nozioni di aggiunta di lettere, sottrazione di lettere, modificazione di
lettere e spostamento delle lettere sono strumenti così potenti da
consentire di derivare qualsiasi parola da qualsiasi altra, dato che
non esiste un criterio empirico di verificazione per stabilire quando
è possibile utilizzare l’uno o l’altro di questi processi o quale sia
la prova empirica necessaria per dire, ad esempio, che τρέχειν deriva dalla lettera ῥῶ ‘correre’, ma ῥυθμός ‘ritmo’ non deriva dalla
stessa “lettera”; oppure quale sia la prova empirica necessaria per
dire che l’etimologia secondo la quale il nome di Poseidone deriva
da ὁ σείων ‘colui che scuote’ sia migliore o peggiore di quella che
lo connette al composto ποσίδεσμων ‘catena dei piedi’, e perché12.
10
11
12
Il contesto del passo di Platone è ancora incentrato sulla corrispondenza tra
nomi e cose: Platone, infatti, ci dice che le nozioni formate da più elementi
sono συμπλακέντα ‘composte’ (o, forse, anche solo ‘complesse’) e, quindi,
alle volte possono essere identificate da ὀνόματα συμπλακέντα ‘nomi composti’ (o, forse, anche solo ‘complessi’).
La classificazione dei mutamenti fonetici torna in Aristotele (Phys. 224a21226b17) e Varrone (Ling. lat. V.6, V.1). Sul, tema, oltre al lavoro fondamentale di Barwick (1957), si vedano Desbordes (1983) e Ax (1986a). Le quattro
“affezioni” descritte sopra sono quelle canoniche della tradizione stoica, ma
nei grammatici la lista dei “metaplasmi” può arrivare a includere fino a 14
diversi tipi di mutamenti (Holtz 1981, pp. 173 ss.).
In pratica: derivationes firmas non habent regulas, sed exeunt prout auctoribus placet (Plinio, cit. da Servio, GL IX.703 Aen. e GRF M, p. 306, fr.
95, cfr. Vaahtera 1998, p. 105). La stessa idea torna in Carisio (GL I.93.28):
derivationis vero tanta est inaequalitas ut comprehendit non possit.
38
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Inoltre, nella gran parte dei casi, l’etimologia antica si occupa
dell’origine dei nomi primari e, soprattutto, di teonimi ed epiteti divini, ma non si occupa dei nomi derivati (così, ad esempio, avviene
sia nel Cratilo sia negli SVF)13. Sappiamo, però, da Aristofane che
nell’Atene del V secolo a.C. e soprattutto nelle scuole di sofistica
era nato un certo interesse per la formazione dei nomi (cfr. infra §
II.4), ed è probabile che questo interesse per i nomi derivati avesse
incentivato una applicazione della teoria delle affezioni dei nomi anche all’analisi dei nomi derivati. Già nel Cratilo, infatti, si vede bene
come l’etimologia antica poteva arrivare, senza difficoltà, all’analisi
dei nomi derivati. Socrate, ad esempio, identifica indirettamente il
suffisso -μα, -ματος quando dice che il σῶμα ‘corpo’ si chiama cosi
perché ‘salva’ (σῴζεται), ossia protegge, l’anima (Crat. 400c7): chiaramente Socrate si interessa più al legame semantico tra il corpo e il
salvataggio dell’anima, che al rapporto tra la radice σω- e il suffisso
-μα, ma il risultato dell’accettazione del legame filosofico tra il corpo
e il salvataggio dell’anima è anche l’identificazione del suffisso -μα.
In altri passi, Platone va ancora più a fondo nell’analisi linguistica e, sempre per bocca di Socrate, etimologizza due suffissi comuni
e molto produttivi nel linguaggio filosofico dell’epoca: ad esempio,
Socrate dice che il gr. -σύνη che si trova nel termine δικαιοσύνη
‘giustizia’ è una forma corrotta di σύνεσις ‘comprensione’, poiché
la giustizia indica, in ultima analisi, la comprensione del giusto
(Crat. 412c6). Nello stesso modo, il suffisso -ία che si vede nel greco κακία ‘vizio’ potrebbe essere la forma abbreviata del verbo ἰέναι
‘andare’, perché il vizio, in ultima analisi, indica tutto ciò che va
male (Crat. 415a9). Anche in questi casi, Socrate è chiaramente interessato a cercare la verità profonda nascosta nelle parole σύνεσις
e κακία, più di quanto non desideri discutere la loro struttura morfemica interna. È, però, evidente che, in questa ricerca primariamente
filosofica, era effettivamente possibile, almeno in modo indiretto,
arrivare ad identificare i suffissi di derivazione; certo, questi “suffissi”, nell’età classica, non erano visti come dei veri e propri suffissi,
13
Per ciò che riguarda gli SVF, si vedano i casi dei nomi Δῆλος, Κύκλοψ,
Ἀπόλλων, Φερσεφόνη, Ζεύς, Ἀθηνᾶ e Ἥρα (SVF I, fr. 106, 118, 540, 547 e
SVF II, fr. 1021 e 1062); l’epiteto δωδωναῖος (SVF I, fr. 535 e 537); i nomi
comuni χάος, ἥλιος e ὀρθαγορίσκοι ‘maialini da latte’ (SVF I, fr. 103, 121 e
455). Per un commento, si veda Belardi (2002: I, pp. 30-31).
L’età classica
39
ma apparivano come la forma “corrotta” di antiche parole che si
erano unite in un “proto-composto” dopo la fase mitica dalla prima
imposizione, per poi fondersi tra loro e trasformarsi in quello che
noi oggi noi chiamiamo suffisso e che i grammatici greci e romani
chiamavano gr. παραγωγή, lat. terminatio (per le prime attestazioni
di questi termini e il loro esatto significato nelle fonti greche e romane, cfr. infra § II.6.1, II.8 e, soprattutto, la n. 74 § II.9.2)14.
Insomma, l’etimologia antica si occupa, in generale, dell’adeguatezza ontologica dei nomi più che della loro forma esterna; e si
occupa soprattutto dell’adeguatezza ontologica dei nomi degli dei
e dei loro epiteti e, comunque, dei nomi primari. Attraverso la teoria dei πάθη τῆς λέξεως, però, già in Platone l’etimologia antica
arriva ad occuparsi della genesi di alcuni suffissi che risalirebbero
alla forma “corrotta” del secondo membro di un antico composto
formatosi dopo la fase della prima positio dei nomi. Questo tipo di
spiegazione per la genesi dei suffissi, in Platone, riguarda soltanto
un paio di casi, ma rappresenta la base su cui si sarebbe sviluppato
tutto l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati nei secoli
successivi.
4. Retorica e derivazione tra i sofisti e Aristotele
Come tutti i sostenitori dell’origine convenzionale del linguaggio, i
sofisti erano poco interessati all’origine del linguaggio, ma si interessavano del suo funzionamento: in questo ambito, gli studiosi iniziano
a interrogarsi sulle diverse tipologie di parole che possono far parte
di un λόγος e sulla possibilità di formare delle nuove parole (ossia,
i neologismi), che potevano rappresentare un mezzo importante per
movere l’uditorio nel caso delle assemblee pubbliche o dei processi15.
14
15
Secondo Holtz (1981, p. 173), la genesi della nozione di παραγωγή va collocata all’interno della teoria dei πάθη, tra le diverse alterazioni fonetiche che
le parole possono subire nel corso del tempo; παραγωγή, infatti, letteralmente
indica il ‘prolungamento’ di una qualsiasi parola, come la -ι di οὑτοσί citata
da Apollonio Discolo (GG II/2.137.2). Si vedano, ad esempio, Donato (GL
IV.661.3) paragoge est appositio ad finem dictionis litterae aut syllabae, e Consenzio (GL V.4.10) paragoge est adiectio litterae syllabaeue ad finem dictionis.
Vaahtera (1994, pp. 19-51) ricostruisce questa linea di ricerca citando, in primo luogo, i lavori poetico-retorici di Aristotele (cfr. § II.4.1) e, in epoca ro-
40
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Ad esempio, sappiamo da Aristofane che, già una generazione
prima di Platone, i sofisti insegnavano a formare parole nuove, e
i giovani ateniesi alla moda amavano infarcire i loro discorsi con
delle neoformazioni, forse un po’ ridicole, in -ικός (Cavalieri 1374
ss.)16. Protagora, inoltre, aveva elaborato delle regole per stabilire il genere dei nomi derivati (fr. A28 DK e Nuvole 658 ss.). Una
qualche attenzione alla formazione dei nomi derivati e, più specificamente, alla formazione dei neologismi doveva, quindi, essere
presente nelle scuole di retorica dell’ultimo quarto del V secolo a.C.
ad Atene. È, quindi, possibile che sia stato questo interesse sofistico per i nomi derivati a spronare Platone a riflettere sugli ὀνόματα
συμπλακέντα nel Teeteto, o a etimologizzare i suffissi -ία e -σύνη
nel Cratilo. Certo è che, nella generazione successiva a quella di
Platone, l’interesse retorico per l’analisi dei nomi derivati e, più in
generale, per la definizione dei diversi tipi di parole che ci sono nel
λόγος, a prescindere dalla loro origine, trova una nuova linfa nelle
opere di Aristotele.
4.1 Le opere poetico-retoriche di Aristotele
Per Aristotele, il termine πτῶσις indicava qualsiasi modificazione di una forma di base: in primo luogo, quindi, le diverse categorie
dell’essere, che sono i predicabili che si possono attribuire a un dato
ente all’interno di un λόγος (Meth. 1089a27); ma anche qualsiasi
modificazione formale di un nome a partire dalla sua forma di base,
16
mana, i lavori retorici di Cicerone e Quintiliano (cfr. § II.7). Le testimonianze
di Aristofane, però, dimostrano che questo tipo di approccio all’analisi della
derivazione risale ad almeno una, se non due, generazioni prima di Aristotele. Inoltre, la stessa attitudine dei sofisti a discutere i tipi di parole presenti
nel λόγος sembra potersi inferire da Platone: non è un caso che la prima
definizione, ancora non del tutto tecnica, delle partes orationis, si trovi nel
Sofista (262a1 ss., cfr. anche Crat. 425a1). Sul ruolo dei sofisti nella genesi
del pensiero grammaticale, si veda anche Holtz (1981, p. 7).
Si veda Neil (1909, pp. 180-1): τὰ μειράκια ταυτὶ λέγω, τἀν τῷ μύρῳ, ἃ στωμυλεῖται τοιαδὶ καθήμενα· σοφός γ᾽ ὁ Φαίαξ δεξιῶς τ᾽οὐκ ἀπέθανεν. Συνερτικός γάρ ἐστι καὶ περαντικός, καὶ γνωμοτυπικός καὶ σαφὴς καὶ κρουστικός,
καταληπτικός τ᾽ἄριστα τοῦ θορυβητικοῦ. Una presa in giro simile si ritrova
anche nelle Nuvole (vv. 317 ss., cfr. Dover 1968 ad loc.) e nei Banchettanti
(fr. 1 e 28, Cassio 1977, pp. 32-6). Sono molto grato ad Albio C. Cassio per
aver portato questi passi alla mia attenzione.
L’età classica
41
sia essa una modifica di tipo (per noi) flessionale, come ὑγιαίνειν
‘era in salute’ rispetto a ὑγιαίνει ‘è in salute’ e Φίλωνος ‘Filone
(nom.)’ rispetto a Φίλωνι ‘Filone (dat.)’ (De int. 16b16 e a33), o
una modifica di tipo (per noi) derivazionale, come ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ da ἀνδρεία ‘coraggio’ (Cat. 1a12) e χαλκοῦς ‘bronzeo’ in
rapporto al nome χαλκός ‘bronzo’ (Rhet. 1410a34-5)17.
Sempre nelle opere poetico-retoriche, Aristotele, riprende la
distinzione platonica tra nomi semplici e composti (cfr. § II.3), e
distingue due diverse tipologie (εἶδη) di nomi in senso tecnico: il
nome ἀπλοῦν ‘semplice’ e il nome διπλοῦν ‘doppio’ o, più in generale, il nome πεπλεγμένος o συμπεπλεγμένος, che indica il nome
‘composto’ o, più precisamente, il nome formato con qualsiasi elemento privo di autonomia semantica nella frase, sia esso un altro
nome, una preposizione o uno dei prefissi ἀ(ν)-, ἁ-, δυσ-, etc. (Poet.
1457a31 ss., De int. 16a19 ss.)18. A queste due tipologie di nome,
Aristotele ne aggiunge una terza, la cui interpretazione è particolarmente complessa, ovvero il nome παρώνυμος. Aristotele ci dice
che sono paronimi tutti i nomi che presentano la stessa radice ma
differiscono nelle loro πτώσεις; in pratica, quindi, questo terzo tipo
17
18
In Poet. 1457a18-23, la nozione di πτῶσις è esemplificata solo con casi di
flessione (sia nominale sia verbale), ma in Rhet. 1410a34-5 e Cat. 1a12 si
trovano anche casi di derivazione. Sulla nozione di πτῶσις in Aristotele,
cfr. Belardi (1975, p. 43, 62; 1985, pp. 121-3), Vaahtera (1998, pp. 117-8) e
Lallot (2008, pp. 55 ss.). Sulla nozione di πτῶσις in generale, si vedano De
Mauro (2005 [19651]: III, pp. 34 ss.), con le precisazioni contenute in Belardi
(1985, pp. 167 ss.), Belardi & Cipriano (1990), e Ronzitti (2014, pp. 149 ss.,
in particolare pp. 172 ss.).
Il passo della Poetica, filologicamente assai tormentato, è il seguente
(nell’ed. di Lucas 1968): ὀνόματος δὲ εἴδη τὸ μὲν ἀπλοῦν, ἀπλοῦν δὲ λέγω
ὃ μὴ ἐκ σημαινόντων σύγκειται, οἷον γῆ, τὸ δὲ διπλοῦν· τούτου δὲ τὸ μὲν ἐκ
σημαίνοντος καὶ ἀσήμου, πλὴν οὐκ ἐν τῷ ὀνόματι σημαίνοντος καὶ ἀσήμου,
τὸ δὲ ἐκ σημαινόντων σύγκειται. In passato, l’autenticità dei capp. 20-21
della Poetica è stata messa in dubbio, ma oggi la critica è concorde nell’accoglierli (Vaahtera 1998, p. 20). Per Gallavotti (1974, p. 180) il nome διπλοῦν
comprende anche i nomi derivati, ma Belardi (1985, pp. 110 ss.) ha mostrato
che διπλοῦν, indica una specie particolare di πεπλεγμένος ‘composto’, ovvero il nome composto da due elementi (non da tre o quattro, come avviene nei
nomi τριπλᾶ, τετραπλᾶ o πολλαπλᾶ citati poco dopo da Aristotele). Infatti,
Aristotele esemplifica il nome διπλοῦν solo attraverso nomi composti (Rhet.
1405b35, 1406a30, 1406a35; Poet. 1459a4-6, 1459a9, etc.) e lo stesso nome
ἐπακτροκέλης ‘nave da corsa’ che è chiamato πεπλεγμένος in De int. 16a23
è chiamato διπλοῦν in De int. 16b32.
42
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
di nome indica il nome ‘derivato’ o il nome ‘denominativo’, ossia qualsiasi nome che sia derivato, da un altro nome (o al massimo, da un’altra parola), come γραμματικός ‘grammatico’ rispetto a γραμματική ‘grammatica’ e ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ rispetto ad
ἀνδρεία ‘coraggio’ (Cat. 1a12 ss.)19.
Insomma, come gli etimologisti, anche i retori propongono un
loro approccio allo studio del linguaggio. In questo caso, l’idea
di partenza, già abbastanza chiara in Aristotele, è quella di identificare e di distinguere le diverse tipologie di parole che possono
comparire in un λόγος. In questo modo, Aristotele arriva a identificare il nome ἀπλοῦν, πεπλεγμένος e παρώνυμος. Lo studio dei
nomi derivati, però, non è il fulcro dell’analisi: conoscere i vari
tipi di nome che compaiono nel λόγος serve innanzitutto per usare
al meglio il linguaggio nei discorsi pubblici o nelle opere poetiche.
Tuttavia, dopo Aristotele, la distinzione tra i nomi semplici, i nomi
composti e i nomi derivati, viene assorbita nel patrimonio sapienziale condiviso da tutti i Greci, come molti altri aspetti della filosofia peripatetica; nello stesso tempo, l’idea generale di classificare i
diversi tipi di parole presenti nel λόγος viene ripresa, sviluppata e
19
Cfr. παρώνυμα δὲ λέγεται ὅσα ἀπό τινος διαφέροντα τῇ πτώσει τὴν κατὰ
τοὔνομα προσηγορίαν ἔχει, οἷον ἀπὸ τῆς γραμματικῆς ὁ γραμματικός καὶ
ἀπὸ τῆς ἀνδρείας ἀνδρεῖος (Cat. 1a12). Il termine παρώνυμος risale a Xenocrate o a Speusippo (cfr. fr. 45 Isnardi Parente e Ebbesen 1981, p. 5; 2009).
L’interpretazione esatta del termine è complessa, perché παρώνυμος nel
corso del tempo ha indicato: il nome denominativo, i.e. il nome formato da
un altro nome (così, ad esempio, in Dionisio Trace GG I/1.29.1; Apollonio
Discolo, fr. ζ, GG II/3.46.11; ed Erodiano, ad Π 123c, che usa il termine per
descrivere la formazione del femminile ἀσβέστη dal maschile dell’aggettivo
ἄσβεστος ‘inestinguibile’); il nome derivato, sia denominale sia deverbale
(così, ad esempio, nel libro IV de denominativiis dell’Ars di Prisciano, dove
sono trattati anche i deverbali); qualsiasi tipo di nome di significato “specifico” che sia derivato “semanticamente” da un nome di carattere più generale, a prescindere da ogni riferimento alla forma linguistica dei due nomi in
questione (come bonus da bonitas o velox da velocitas), come ritenevano i
filosofi del Medio Evo, da Marziano Capella a Boezio fino ad Abelardo e ai
Modisti (Rosier-Catach 1992; 2008; Ebbesen 2009). Tra l’altro, questo tipo
di esempi di derivazione “semantica” può rappresentare il punto in cui nasce
quella differenza tra derivatio sensu e derivatio litteratura o sono (in greco
κατὰ φωνήν e κατὰ σημασία) di cui parlano Biondi (2014, p. 144 e fn. 31;
2018), Klinck (1970, p. 26) e, qui di seguito, la n. 41 § II.6; la n. 81 § II.9.2;
il § III.2 e le nn. 23-24 § III.5.1.
L’età classica
43
rivista, da una parte nei trattati di retorica e poetica greci e romani
(cfr. § II.7), dall’altra nelle opere dei grammatici (cfr. § II.9).
5. Grammatica, etimologia e derivazione in età alessandrina
Se l’analisi poetica e retorica, proprio grazie ad Aristotele, poteva giovarsi di una prima classificazione delle parole in semplici,
composte e derivate/denominali, non c’era ragione perché questa
stessa distinzione non fosse accolta, raffinata e valorizzata nell’ambito della filologia alessandrina. Tra il III e il II secolo a.C., infatti,
si apre quella particolare fase del pensiero linguistico antico che Ax
(1982), con una formula efficace, ha definito la fase della Grammatik in Kopf: non ancora una vera e propria grammatica già completa
e formata come scienza indipendente, ma l’utilizzo di concetti e
strumenti elaborati nell’ambito della teoria grammaticale per affrontare i problemi connessi con l’esegesi dei testi letterari del passato (διόρθωσις). Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia,
ad esempio, discutono spesso problemi di tipo strettamente linguistico (di accentazione, flessione o etimologia) con il solo scopo di
stabilire la corretta lettura di un verso dell’Iliade. In questo quadro,
cominciano a comparire alcuni dati di un certo interesse per l’analisi dei nomi derivati, da cui emerge bene la contiguità che, ancora in
questa fase, avevano l’etimologia e la grammatica.
Da una parte, in Aristofane di Bisazio e, soprattutto, in Aristarco
comincia a comparire la terminologia sulla derivazione dei nomi
che si ritroverà nei grammatici più tardi. Aristofane di Bisanzio,
infatti, usa il verbo παράγω ‘derivare’ e il nome παράγωγον ‘derivato’ per indicare il rapporto che c’è tra μαγίς ‘massa impastata’ e
μάγειρος ‘cuoco’ (cfr. infra), o tra μολοβρός ‘maiale selvatico’ (da
cui il significato usuale di ‘compagno ingordo, avido’) e μολοβρίτης
‘cucciolo del maiale’20. Nei suoi frammenti, però, i termini πτῶσις,
κλίσις e σύνθεσις non compaiono mai, anche se è possibile che Ari20
Cfr. SGLG 6, fr. 197 AE, 65: ἰστέον δὲ ὅτι μολοβρόν καὶ παράγωγον αὐτοῦ
μολοβρίτης δοκεῖ ἐπὶ συὸς λέγεσθαι e si veda Callanan (1987, pp. 42 ss.)
per un commento. Aristofane usa anche il termine παρώνυμος in relazione alla coppia νύμφη ‘sposa’/νύμφιος ‘sposo’ (SGLG 6, p. 93, fr. 281: ὄτι
παρώνυμος τῇ νύμφῃ ὁ νύμφιος), ma Slater (1989) ha mostrato che il termine
non è utilizzato in senso tecnico in questo passo.
44
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
stofane abbia effettivamente utilizzato il termine κλίσις, dato che
la forma ἄκλιτα è utilizzata per indicare le parole indeclinabili (cfr.
Callanan 1987, p. 61).
Aristarco di Samotracia, dal canto suo, usa il termine aristotelico πτῶσις per indicare la flessione (nominale), ma usa παραγωγή
e παράγωγον per riferirsi alla derivazione, e utilizza σύνθεσις per
indicare la composizione e σύνθετος σχηματισμός per indicare il
composto, seguendo Teofrasto e la tradizione peripatetica21. Inoltre,
sempre in Aristarco si trova il termine συζυγία per indicare qualsiasi tipo di relazione tra due forme linguistiche, il cui caso prototipico
è rappresentato, appunto, dalla flessione verbale (lat. coniugatio) 22.
Tuttavia, i termini εἶδος e σχῆμα non si trovano mai in Aristarco nel
significato tecnico-grammaticale che sarebbe divenuto abituale nei
grammatici più tardi, mentre si trova al loro posto l’etichetta generale di σχηματισμός (Matthaios 1999, pp. 257-8).
Dall’altra parte, sappiamo che etimologie simili a quelle proposte
nel Cratilo, in cui l’etimologia antica era utilizzata per “spiegare”
l’origine di un suffisso, erano comuni nell’età alessandrina23. Ce lo
dimostra, ad esempio, il seguente passo di Aristofane di Bisanzio, riportato da Eustazio 1761, 34 ad ξ 350 (SGLG 6, fr. 24 AB, pp. 18-9):
21
22
23
Si veda Mattahios (1999, pp. 78-80, fr. 21-22 per la composizione e lo σχηματισμός; p. 80, fr. 23 per la derivazione; p. 93, fr. 48-9 per la flessione; p.
126, fr. 103 per la coniugazione; e il commento alle pp. 254-9, 261, 293,
354-4, 451).
La specializzazione del termine πτῶσις in riferimento alla declinazione dipende, probabilmente, dal lavoro perduto di Crisippo Περὶ πέντε πτώσεων
(SVF II, fr. 14, p. 183), anche se nella tradizione stoica in genere le πτώσεις
si riferiscono al significato delle parole, piuttosto che alla loro forma, come
invece avveniva nella tradizione peripatetica (Brandenburg 2020). È possibile (ma non certo), inoltre, che Aristarco abbia utilizzato il termine κλίσις per
indicare la flessione, se si dà credito alla testimonianza di Erodiano (Herbse,
ad Δ 235) e alle parole di Carisio, secondo cui Aristarco, per primo, aveva
distinto la composizione e la derivazione (sempre che la classe aristarchea
dei nomina simplicia includesse effettivamente anche i nomi derivati, come
si dice in genere): Aristarchus discipulus eius [sc. di Aristofane] illud addidit,
ne umquam simplicia compostis aptemus (GL I.117.4-5).
In generale, l’utilizzo degli argumenta ab etymologia per l’esegesi omerica è
documentato fin dal V secolo a.C.: Stesimbroto di Taso, famoso interprete di
Omero (cfr. Platone, Ion. 330d1 ss.), già utilizzava l’etimologia per risolvere
i problemi di esegesi omerica, e lo stesso faceva Ferecide (Pfeiffer 1968, p.
12). I primi frammenti in cui l’etimologia è utilizzata per spiegare l’origine
di un suffisso, però, si trovano in Platone e Aristofane di Bisanzio.
L’età classica
45
ἔφη δὲ καὶ ὅτι ἡ μαγίς ἀπό τῆς μάζης ἤ τοῦ μαστεύειν [μάττειν,
conj. Nauck 1848: 205, LII] ῥηθεῖσα παράγει τὸν μάγειρον, ὅς οὕτω,
φησί, λέγεται παρὰ τὸ μαγίδας αἴρειν ἤγουν προσφέρειν. (“dice [sc.
Aristofane] che μαγίς ‘massa impastata’ è derivato da μᾶζα ‘focaccia’ o
da μάττειν ‘impastare’, mentre μάγειρος ‘cuoco’ è derivato da μαγίδας
‘focaccia’ e αἴρειν nel senso di ‘servire a tavola’”).
Secondo Aristofane il termine μαγίς ‘massa impastata’ prende il
nome dal sostantivo μᾶζα ‘focaccia’ o dal verbo μάττειν ‘impastare’, mentre il termine μάγειρος ‘cuoco’ prende il suo nome dal fatto
che serve le focacce impastate (παρὰ τὸ μαγίδας αἴρειν, con αἴρειν
nel senso inusuale ma non impossibile di ‘servire a tavola’). In altre
parole, mentre noi linguisti del XXI secolo tendiamo a considerare
il termine μάγειρος come un sostantivo dall’etimologia incerta, ma
comunque formato con il suffisso -ρο-, Aristofane lo considera il
risultato della corruzione di un proto-composto formato dal nome
μαγίς e dal verbo αἴρειν, proprio perché di fatto il cuoco è ‘colui che serve le focacce impastate’ (**μαγίς + αἴρειν (nel senso di
προσφέρειν) > **μάγ-αιρ-ος > μάγειρος, con la “trasformazione” di
-α- in -ε- e la “sottrazione” di -ίς e -ιν)24.
Non sappiamo quanto la pratica di “etimologizzare” i suffissi
fosse effettivamente diffusa in ambito stoico durante l’età classica.
Certo è che passi di questo tipo, in cui un suffisso derivazionale veniva interpretato come il risultato della “corruzione” – oggi diremmo grammaticalizzazione – di un sintagma nominale che descrive
la natura profonda dell’oggetto nominato non sono affatto rari in
età alessandrina. Per Aristarco, ad esempio, l’epiteto di Poseidone
ἑλικώνιος non deriva dai toponimi Ἑλίκη ‘Elice’ (con il suffisso
24
Frisk, seguendo Schwyzer (1939, p. 275) e Wakernagel (1909, pp. 326 ss.),
considera μάγειρος un prestito dal dor. μάγῑρος con una scriptio irregolare
<ει> per /i:/ (GEW: s.v.). La connessione con la radice *μαγ- ‘impastare’
che si trova in μάττειν < *μαγ-jo- e μαγίς < *μαγ-ίδ-ς è formalmente possibile, ma un po’ strana dal punto di vista semantico (DELG: s.v.), dato che,
nelle fonti greche, il μάγειρος è un ‘macellaio’, piuttosto che un ‘panettiere’. Schwyzer (1939, p. 471, n. 12), quindi, riporta il gr. μάγειρος alla
radice *mak- che si trova nel lat. mactare e Pisani (1934) la considera un
prestito dal macedone in cui si rivedrebbe la radice *makh- che si trova nel
gr. μάχαιρα ‘coltello da macellaio’, con l’esito “macedone” -g- per l’indoeuropeo *-kh-. Ad ogni modo, non si può escludere che, come dice Beekes,
μάγειρος sia un termine non-indoeuropeo, forse pre-greco, derivato da una
radice *mak-ary- (EDG: s.v.).
46
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
eol. -νιο-ς), né da Ἑλικών ‘Elicona’ (con il suffisso ion. -ιο-ς), ma
ha questa forma perché i gorghi del mare di cui Poseidone è dio
sono effettivamente vorticosi e ricurvi (διὰ τὸ ἑλικὰς καὶ περιφερεῖς
εἷναι τὰς δίνας τῆς θαλάσσης, cfr. Schironi 2004: fr. 53, p. 413). Seguendo la stessa logica, Cratete di Mallo identifica indirettamente il
suffisso -ευς quando dice che il nome dell’eroe Ἀφαρεύς deriva da
Ἀφάρης e Ἀφάρης deriva da ἄφαρ ‘presto’ (Broggiato 2004: fr. 8,
p. 18)25. Passi di questo tipo, insomma, mostrano con chiarezza la
contiguità tra etimologia e derivazione che doveva esserci ancora in
età alessandrina, sia in ambito grammaticale, sia in ambito etimologico. Non c’è motivo, quindi, di escludere che casi analoghi comparissero negli 11 libri Περὶ τῶν ἐτυμολογικῶν di Crisippo. Anzi,
è di certo possibile, e forse anche probabile, che proprio in ambito
stoico e pergameno il legame tra derivazione ed etimologia avesse
trovato un nuovo spazio26.
I dati sui nomi derivati, infatti, sono certamente più adatti dei
dati sulla flessione a mostrare le ragioni dell’anomalia, che stavano
a cuore in particolare agli Stoici, mentre se si parla dei casi, ossia di flessione, effettivamente Aristarchei suos contendunt nervos,
come dice Varrone (Ling. lat. VIII.63)27. Sarebbe, quindi, strano se i
dati sulla derivazione non fossero stati utilizzati anche nel Περὶ τῆς
25
26
27
Altri passi in cui un suffisso è interpretato come l’esito corrotto di un membro di un proto-composto, si possono trovare in Aristarco (Schironi 2004, p.
120, fr. 11; p. 399, fr. 51; p. 413, fr. 53), Apollonio Discolo (GG II/2.254.5
ss. e 260.1 ss.) e Gellio (cfr. § II.8). In altri casi, Aristarco diceva l’opposto
e trovava un suffisso là dove altri vedevano un composto: ad esempio, uno
scolio erodianeo ci dice che, per Aristarco, ταλαύρινος ‘pugnace’ non era un
composto formato con ῥινός ‘scudo’ (lett. ‘portatore di scudo’), ma un derivato della radice τλα- (Sch. A ad E 289 b1, Hrd. II.50.32, cfr. Schironi 2004,
p. 510 e n. 30-1).
L’etimologia, insomma, era praticata ad Alessandria come a Pergamo con
poche differenze (Dahlmann 1997 [19321], p. 25 e, più recentemente, Broggiato 2001, p. xxxv e lxiii, e Schironi 2003): non a caso, Apollodoro di Atene,
allievo di Aristofane, scrive un Περὶ θεῶν dedicato ai nomi e agli epiteti delle
divinità in cui abbondano i frammenti etimologici (BNJ 244 F 88, fr. 90-4,
96, 100-102a, 103a, 104-107a, 108-109a, 110a e 111-116).
Oggi non gode di grande successo l’idea di Fehling (1956-7), secondo cui la
disputa tra analogisti e anomalisti sarebbe un’invenzione di Varrone del tutto assente dall’orizzonte culturale dell’età alessandrina (Broggiato 2001, pp.
xxxiii-xxxvi; 2014, pp. 3 ss., Calboli 2011 e Matthaios 2020). Sull’origine dei
termini greci ἀναλογία e ἀνωμαλία e sulle loro rese latine, si veda Schironi
(2007; 2018); su Cesare analogista, si vedano Garcea (2007) e Mancini (2021).
L’età classica
47
κατὰ λέξεις ἀνωμαλίας di Crisippo o nei lavori di Cratete di Mallo,
che Varrone cita come campione dell’anomalia (Ling. lat. VIII.63,
VIII.68, IX.1). La maggior parte delle informazioni sui nomi derivati che compaiono in ambito etimologico, non a caso, si trovano
proprio nel libro VIII del De lingua latina di Varrone, lo stesso libro
dedicato agli argomenti in favore dell’anomalia che, secondo i giudizi tradizionali di Collart (1954, p. 156, n. 4), Siebenborn (1976,
pp. 100-104) e Dahlmann (1997 [1932], pp. 58 ss. e 68 ss.), dipende
in modo sostanziale dai lavori di Cratete di Mallo e quindi, almeno
indirettamente, dalla teoria stoica di Crisippo28.
Insomma, nel complesso, una certa attenzione per i nomi derivati
probabilmente rientrava nella Grammatik in Kopf degli alessandrini, e vi rientrava seguendo due prospettive complementari: da una
parte quella tradizionalmente etimologica, che spiegava la genesi
dei suffissi come il risultato della “corruzione” degli antichi composti formatisi dopo la fase mitica della prima impositio nominum;
dall’altro una prospettiva già in parte nuova, secondo la quale, a
prescindere da qualsiasi etimologia, poteva essere utile descrivere
o classificare i diversi tipi di parole presenti nel λόγος anche attraverso i diversi tipi di processi attraverso cui queste parole erano “elaborate”. Certo, la frammentarietà delle testimonianze rende
difficile stabilire l’esatta referenza e il quadro teorico complessivo
al cui interno erano utilizzati i termini πτῶσις, κλίσις, παραγωγή e
παράγωγον, σύνθεσις, συζυγία, εἶδος e σχῆμα che diverranno fondamentali nei grammatici più tardi, a partire da Dionisio Trace29.
28
29
Per Dahlmann e Collart, la somiglianza tra i contenuti del libro VIII di
Varrone e Sesto Empirico (Adv. gram. II.44) si spiega solo supponendo che
Cratete sia la fonte di entrambi. Ora, anche se non tutto ciò che c’è in Sesto
può essere attribuito a Cratete (Blank 1982, pp. 3-5), ci sono delle concordanze oggettive tra Cratete e delle rilevanti dottrine stoiche (Broggiato
2001, p. lxi, pace Porter 1992) ed è probabile che tra queste ci fosse anche
una certa attenzione per i nomi derivati, come credeva anche Siebenborn
(1976, pp. 100-4).
La datazione della Τέχνη γραμματική attribuita a Dionisio Trace è notoriamente questione problematica e sono molti gli studiosi che, in seguito alle
critiche di Di Benedetto (1958; 1959; 1973; 1990; 2000), rifiutano l’autenticità della Τέχνη, al di là dei primi 3 o dei primi 5 capitoli, e credono che
grammatica che ci è giunta sotto il nome di Dionisio Trace sia una compilazione tarda, risalente ai primi secoli dell’impero romano, probabilmente tra
il III e il IV secolo d.C. (per una discussione del problema, che a tutt’oggi
registra opinioni molto discordi tra gli studiosi, si vedano Erbse 1980; Ax
48
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Però è chiaro che, è proprio in questo contesto in cui si intrecciano etimologia, derivazione, patologia, anomalia e grammatica che
vanno inquadrati i dati sui nomi derivati contenuti del De lingua
latina di Varrone.
6. Il De lingua latina di Varrone
Si è detto spesso che il De lingua latina è una “archeologia romana” (Cavazza 1981, p. 13). Non si tratta, però, di un’archeologia
di cose: piuttosto un’archeologia di parole o, come si dice oggi,
un’archeologia di beni immateriali; un’indagine archeologica che,
attraverso lo studio di quei termini giuridici, religiosi e poetici su
cui si fondava la cultura di Roma, restituisse alla res publica quella
dignitas che Cesare cercava di oscurare e che Pompeo, forse per
calcolo più che per credo, diceva di voler difendere. È proprio per
ottenere questo scopo che, nel De lingua latina, Varrone si propone
di ricostruire tutto il percorso che va dalla prima impositio nominum
fino al funzionamento delle parole latine in atto.
In pratica, il piano originale del De lingua latina – lo dice San
Girolamo – comprendeva 25 libri, divisi in quattro esadi, più un’introduzione30. Ogni esade includeva due triadi, una teorica e una
pratica, ma le prime due trattavano lo stesso tema (quemadmodum
vocabula esse imposita rebus in lingua latina, sex libris exponere
institui, Ling. lat. V.1). L’opera era, quindi, divisa in tre parti (quocirca quoniam omnis operis de Lingua Latina tris feci partis, Ling.
lat. VII.110), una per ciascuna tappa di sviluppo del linguaggio:
l’impositio indica il modo in cui le parole sono state imposte ab origine sulle cose, ossia l’etimologia più remota; la declinatio indica il
modo in cui si sono formate le parole complesse (derivate, composte, flesse); la coniunctio indica il modo in cui le parole si unisco-
30
1986b, pp. 223 ss.; Lallot 1989, pp. 19-26; Robins 1995; i lavori antologizzati da Law & Sluiter 1995; Wouters 1999; 2000 e Pagani 2010). Chiaramente,
l’accettazione o il rifiuto dell’autenticità della Τέχνη cambia in modo sostanziale la nostra ricostruzione della grammatica alessandrina e, in particolare,
l’analisi dei nomi derivati durante l’età ellenistica e la prima età romana (per
una discussione, cfr. §§ II.9.1.1 e II.11).
Sulla struttura dell’opera, cfr. Cavazza (1981, p. 55) e Piras (1997, pp. 17 ss.,
41 ss.). Sui principi descrittivi ed esplicativi dell’opera, si veda Viti (2016).
L’età classica
49
no tra loro nelle frasi31. Dei 25 libri originali restano i libri 5-10 e
alcuni frammenti (la triade pratica sull’etimologia, libri V-VII, e la
triade teorica su analogia e anomalia, libri VIII-X).
In questo percorso ideale di sviluppo del linguaggio e della lingua
latina tracciato da Varrone, la nozione cruciale è quella di declinatio, che si riferisce alla parte più recente del processo di formazione
del linguaggio, successiva alla sua prima positio (Taylor 1974, p.
65). La declinatio indica la proprietà generale di tutte le lingue di
formare un gran numero di nuovi lessemi a partire da pochi elementi e include qualsiasi modifica realizzabile a partire da una stessa
radice, sia essa una modifica flessionale di tipo “analogico”, come
lego, legis, legit (Ling. lat. VI.37), o una modifica derivazionale
di tipo “anomalo”, come processit et recessit, accessit et abscessit
(Ling. lat. VI.38)32. È forte la tentazione di vedere una κλίσις stoica
dietro alla nozione varroniana di declinatio (già Barwick 1957, p.
34), tanto più che Nigidio Figulo (Gellio, Noct. IV.9.2) usa il termine inclinamentum, anch’esso un probabile calco del gr. κλίσις o
ἔγκλισις, per riferirsi al suffisso -osus, e la tripartizione della materia che si nota nel De lingua latina potrebbe derivare da un Etymologikon greco perduto tradotto in latino da Elio Stilone (Dahlmann
1997, pp. 22 e 55-6). Un antecedente per l’uso varroniano, però,
non è effettivamente attestato (già Schenkeveld 1990).
Ad ogni modo, la declinatio di Varrone comprende due aspetti.
La declinatio voluntaria riguarda la creazione delle nuove parole
sotto forma di rectum ‘nominativo’ (p.es. Roma da Romulus, cfr.
Ling. lat. X.15) e ricorda la nostra morfologia derivazionale33: si
31
32
33
All’interno di ogni libro, le voces discusse sono ordinate secondo la divisione stoica o pitagorica: corpus, locus, tempus, actio (cfr. Ling. lat. V.11-12,
Taylor 1974, p. 68; Cavazza 1981, p. 55 e Piras 1998, pp. 41 ss.).
Si noti che, per Varrone, la declinatio include tanto la nostra derivazione
quanto la nostra flessione (così già Taylor 1974: 12): verba declinata sunt
quae ab aliquo oriuntur (Ling. lat. V.37); verba primigenia aut declinata
(Ling. lat. VI.37); armarium et armamentarium ab eadem origine, sed declinata aliter (Ling. lat. V.128). Sulla presenza della declinatio in tutte le lingue,
si veda Varrone: declinatio inducta in sermone non solum latino sed omnium
hominum et necessaria de causa (Ling. lat. VIII.2).
L’idea del nominativo come caso generale o non-caso risale ad Aristotele
(An. pr. 48b14), che distingue una κλῆσις τῶν ὀνομάτων ‘nominativo’ e una
πτῶσις τῶν ὀνομάτων ‘caso obliquo’; per la nozione di rectum ‘nominativo’,
si veda il passo seguente: rectum homo, obliquum hominis, quod declinantur
50
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
tratta, infatti, di un processo “anomalo” di ispirazione stoica che
dipende dalla voluntas impositoris e si può descrivere solo con
una historia, ovvero una ricerca antiquaria e una lista asistematica
di casi singoli. La derivatio naturalis, invece, indica la flessione
del rectum negli altri casi (p.es. Roma, Romam, Romae, cfr. Ling.
lat. X.15) e coincide con la nostra flessione: si tratta, infatti, di un
processo “analogico” di ispirazione soprattutto alessandrina, che
dipende dalla natura o dalla communis consuetudo, ma prescinde
dalla volontà del singolo, e può essere trattata in modo sistematico
in un’ars34.
In altre parole, diversamente dall’etimologia stoica, che si interessava soprattutto alla prima positio, l’etimologia di Varrone
comprende tutto ciò che va dalla prima positio alla declinatio, nella
doppia forma di declinatio voluntaria e di declinatio naturalis. Infatti, i primi due gradi dell’etimologia (quo populus etiam venit e
quo grammatica descendit antiqua, Ling. lat. V.7) riguardano le parole complesse ma trasparenti, la cui origine è chiara anche al volgo, e i neologismi poetici (le cosiddette γῶσσαι) studiati dai grammatici alessandrini. Il terzo e il quarto grado, invece, riguardano
le parole opache la cui ratio, in parte si spiega grazie alla filosofia
34
a recto (Ling. lat. VIII.1); e la discussione in Belardi & Cipriano (1990, pp.
77 ss.). La stessa funzione, per il verbo, è svolta dalla prima persona singolare del presente indicativo (cfr. nam ut illic externi<s> caput rectus casus, sic
hic in forma est persona eius qui loquitur et tempus praesens, ut scribo lego,
Ling. lat. IX.102, ma anche VIII.4, 7, 20 e Taylor 1974, pp. 33 ss.). Per una
discussione più completa, si vedano anche la n. 17 § II.4.1 e la n. 22 § II.5.
Sulla differenza tra declinatio naturalis e voluntaria, si vedano Ling. lat.
VIII.21-3, IX.34-5, X.14-5 e X.51-3 e in particolare: in voluntaria declinatione animadvertitur natura, et in naturali voluntas […] quod in declinatione
voluntaria sit anomalia, in naturali magis analogia (Ling. lat. VIII.23); itaque in voluntariis declinationibus inconstantia est, in naturalibus constantia
(Ling. lat. IX.35); alia [sc. verba] sunt a voluntate, alia a natura (Ling. lat.
X.15); itaque in hoc genere [sc. declinatio volutaria], magis anomalia quam
analogia (Ling. lat. X.16); voluntatem dico impositionem vocabulorum, naturam declinationem vocabulorum (Ling. lat. X.51); impositio est in nostro
dominatu, nos in natura: quemadmodum enim quisque volt, imponit nomen,
at declinat, quemadmodum volt natura (Ling. lat. X.53). Per un commento a
questi passi, si vedano Taylor (1974, pp. viii, 21 ss. e 65), Cavazza (1981, pp.
69-72) e Piras (1998, p. 20 e 132). Sull’opposizione historia vs. ars, si veda:
ad illum genus, quod prius [sc. impositio] historia opus est; […] ad reliquum
genus, quod posterius [sc. declinatio] ars (Ling. lat. VIII.6, Taylor 1974, pp.
66 ss. e Flobert 1989, p. 747).
L’età classica
51
(quo philosophia ascendens pervenit), in parte resta sempre preclusa agli uomini (ubi est adytum et initia regis), perché la vetustas
o anche l’errore possono nascondere la voluntas impositoris35. Tra
questi quattro gradi, l’ultimo è di certo il più affascinante, ma i primi sono i più importanti: dato che le parole derivate sono molto più
numerose delle parole semplici (impositicia nomina esse voluerunt
quam paucissima […] declinata quam plurima, Ling. lat. VIII.5; si
veda anche VI.36-9), chi spiega le declinationes e riporta equitatus ‘equitazione’ a equites ‘cavalieri’, equites a eques ‘cavaliere’, e
eques a equus ‘cavallo’, docet plura et satisficit grato, anche se non
dice da dove viene equus (Ling. lat. VII.4 ma anche VI.36 e 39)36.
In questo quadro certamente etimologico, ma a suo modo vicino alla concretezza del funzionamento linguistico in atto,Varrone
propone una sua classificazione dei nomi derivati. Per impostare il
discorso, Varrone, per prima cosa, separa il genus fecundum, ossia le
parole soggette a declinatio, come lego, legis e legam, e il genus sterile, ossia le parole non soggette a declinatio, come vix, cras, magis
e cur (Ling. lat. VIII.9). Nel genus fecundum, poi, identifica due parti del discorso principali, il nomen e il verbum, che possono essere
entrambe primarie, come homo e scribit, o declinata, come doctus e
docte (Ling. lat. VIII.12). I verba declinata ‘parole derivate’, infine,
sono ordinati secondo due tassonomie molto diverse tra loro.
Da una parte, Varrone definisce due gruppi di nomi declinati in
base della loro referenza (Ling. lat. VIII.14-18, cfr. Barwick 1957,
p. 40)37. Nel gruppo intrinsecus, il derivato mantiene la stessa re35
36
37
Sui problemi testuali del passo che, però, non ne impediscono la comprensione, si vedano Piras (1998, pp. 57 ss. e n. 3; pp. 72 ss.) e Belardi (2002:
II, pp. 314 ss.).
L’attenzione di Varrone per il lato “grammaticale” dell’etimologia conferma i
suoi legami con la scuola di Alessandria e il suo eclettismo filosofico (cfr. non
solum ad Aristophanis lucerna, sed etiam Cleant<h>is lucubravi, Ling. lat.
V.9). Sul tema, cfr. Traglia (1962), Taylor (1974, p. 68), Pisani (1976, con le
precisazioni in Belardi 2002: II, pp. 316, 325 e 329), Cavazza (1981, pp. 31,
38, 52, 55, 71), Amsler (1989, pp. 22 ss.), Vaahtera (1998, pp. 28-52, 94 ss.)
e Piras (1998, p. 72).
Cfr., ad esempio, nomina declinantur aut in earum rerum discrimina, quarum nomina sunt, ut ab Terentius Terenti<a>, aut in ea<s> res extrinsecus,
quarum ea nomina non sunt, ut ab equo equiso (Ling. lat. V.14). La terminologia è in parte di Varrone, che usa extrinsecus, in parte di Barwick (1957,
p. 40), che propone intrinsecus per indicare il primo gruppo di nomi (cfr.
Vaahtera 1998, pp. 126 ss.).
52
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ferenza del nome di base da cui è formato: homo → homunculus
o homo → homines. Nel gruppo extrinsecus, invece, il derivato
indica un referente diverso da quello del nome di base: equus ‘cavallo’ → equiso ‘mozzo di stalla’. L’identità di referenza, però, è
intesa in senso lato e il gruppo intrinsecus include sia forme flessionali (come i diversi casi, i comparativi, i femminili), sia delle
forme derivazionali che hanno un legame di “contiguità” con il
nome di base, come manubria ‘manubri’ da manus ‘mano’ o ingeniosus ‘ingegnoso’ da ingenium ‘ingegno’. Il gruppo extrinsecus,
invece, include soltanto forme derivazionali: pecuniosus ‘ricco’
da pecunia ‘denaro’; ab Romulo Roma et a Roma Romanus ‘da
Romolo, Roma e da Roma romano’ o pugiles a pugnando ‘pugili
dal combattere’.
Dall’altra parte, Varrone distingue quattro tipi di nomi “declinati” in base al significato e, in parte, in base alla loro forma (Ling. lat.
VII.52-57 e Vaahtera 1998, pp. 134 ss.)38. Il genus nominandi indica
i nomi denominali (i.e. formati da altri nomi) o semplicemente derivati, come ab equo equile ‘stalla’; il genus casuale indica i nomi
flessi, come ab equo equum; il genus augendi indica i comparativi,
come ab albus albius; il genus minuendi indica i diminutivi, come a
cista cistula. Le radices a partire da cui sono formati tutti i nomi del
genus nominandi sono tre: il nome comune (venabulum ‘spiedo da
caccia’ da venator ‘cacciatore’), il nome proprio (Tiburs ‘tiburtino’
da Tibur ‘Tivoli’) e il verbo (cursor ‘corridore’ da currendum ‘il
correre’, Ling. lat. VIII.53), anche se tra queste tre possibilità, è in
genere il nome ad essere primario (Ling. lat. VIII.13).
Nel complesso, tutta la sezione ha lo scopo di mostrare che il genus nominandi è il regno dell’anomalia, perché non è possibile formare una parola in base all’esistenza di una parola “analoga”, senza
considerare la communis consuetudo: poiché da vinum si ha vinaria ‘taverna’, da creta cretaria ‘bottega della creta’ e da unguentum
unguentaria ‘bottega degli unguenti’, se le parole fossero davvero
ἀνὰ λόγιον, le botteghe della carne (caro), delle pelli (pelles) e delle
scarpe (calcei) si dovrebbero chiamare carnaria, pelliaria e calcearia; invece si chiamano laniena, pellesuina e sutrina, il che rappre38
Cfr. eorum declinationum genera sunt quattruor, unum nominandi, ut ab
equo equile, alterum casuale, ut ab equo equum, tertium augendi, ut ab albo
albius, quartum minuendi, ut a cista cistula (Ling. lat. V.52).
L’età classica
53
senta chiaramente un’anomalia (Ling. lat. VIII.55)39. Nello stesso
modo, da ovis si forma ovile, ma da avis e bovis non si formano
*avile e *bovile; da amare e salutare si formano amator e salutator,
ma da cantare e ferre non si formano *cantator e *fertor, bensì cantor e lator. Lo stesso metodo d’analisi, infine, è applicato anche ai
composti (Ling. lat. VIII.61-2): da tibiis e cano si forma tibicen, ma
da cithara e cano non si forma *citharicen; e ab avibus capiendis
si forma auceps, ma a piscibus capiendis non si forma *pisciceps.
In questo modo, Varrone discute un grande numero di nomi derivati, di fatto molti di più di quelli che si trovano in tutte le altre
fonti dell’antichità, con la sola esclusione, forse, di Prisciano (cfr.
§ II.9.3): alcuni nomina agentis in -tor e alcuni nomina loci in -ile
(cfr. sopra); diversi aggettivi in -osus (Ling. lat. VIII.15); molti aggettivi in -alia da cui si formano i nomi delle festività (Ling. lat.
VI.15-6); alcuni etnonimi in -ensis e -anus (Ling. lat. VIII.18, 56,
83 e X.15-6); i comparativi (Ling. lat. VIII.17, 78); qualche nome
astratto in -tas (Ling. lat. X.39); un buon numero di diminutivi in
-ellus, -illus e -(c)ulus (Ling. lat. V.110, 139 e X.74); alcuni nomi
o verbi prefissati (Ling. lat. VI.38, VI.82); diversi nomi composti,
come aedificium (Ling. lat. V.141), argentifondinae (Ling. lat. V.7
e VIII.62), artifex (Ling. lat. V.93), solstitium (Ling. lat. VI.8), insulsus (Ling. lat. VIII.61); alcune di famiglie di parole nella loro
interezza, come lectio, lector, legens, lecturus e lectissime da lego
(Ling. lat. VI.36), oppure sedes, sedile, solium, sellae e subsellim da
sedere (Ling. lat. V.128); e un buon numero di voci singole, come le
parole territorium da terra (Ling. lat. V.21), pecuniosus da pecunia
e pecunia da pecu (Ling. lat. V.92), panarium da panis, granarium
da granum (Ling. lat. V.105), barbatus da barba (Ling. lat. V.119),
vehiculum da vehitur (Ling. lat. V.140), impluvium e compluvium
da pluvia (Ling. lat. V.161), curare da cura (Ling. lat. VI.46), etc.40.
Varrone, in genere, predilige il lato formale della derivazione
sul lato semantico e, come facciamo anche noi, deriva parole “più
lunghe” da parole “più brevi”. In certi casi, però, il lato semanti39
40
Cfr. quoniam taberna ubi venit vinum, a vino vinaria, a creta cretaria, ab
unguento unguentaria dicitur, ἀνὰ λόγ[ι]ον si essent vocabula, ubi caro venit
carnaria, ubi pelles pelliaria, ubi calcei calcearia diceretur, non laniena, ac
pellesuina et sutrina (Ling. lat. VIII.55).
Si noti che, secondo Gellio, Varrone usava lo stesso schema di ragionamento
anche per gli avverbi derivati (Noct., II.25.8 ss., cfr. GRF F 191-2, fr. 11 F).
54
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
co-concettuale della declinatio prende il sopravvento e Varrone si
trova a derivare nozioni più specifiche da nozioni più generali, indipendentemente dalla forma dei nomi che indicano quelle nozioni:
ad esempio, strenui, nobiles e prudens sono derivati da strenuitas,
nobilitas e prudentia; cursores e pugilies da currendo e pugnando,
invece che da currere e da pugnare (Ling. lat. VIII.15); venabulum
è derivato da venator (Ling. lat. VIII.54), invece che da venare; inpos è derivato da potentia (Ling. lat. V.4), il nome Roma è derivato
da Romolo (Ling. lat. VIII.18), perché così vuole il mito; e i termini
medicus e sutor sono derivati da medicina e sutrina, perché i nomi
di coloro che coltivano un’ars presuppongono il nome di quell’ars
e non viceversa (Ling. lat. V.93)41. In Varrone, in altre parole, si trovano derivazioni “creative”, simili alle etimologie “creative” (del
tipo di canes perché signa canunt oppure volpes quia volat pedibus,
cfr. Ling. lat. VII.32 e V.20). I casi di questo tipo sono però pochi,
certamente meno delle etimologie che, ad oggi, ci appaiono insostenibili: tanto per fare un esempio tra i molti possibili, accano ‘cantare per qualcuno’, succano ‘accompagnare col canto’ e cantatio
‘canto’ sono correttamente riportati a cano, ma cano è poi riportato
“creativamente” a Camena (Ling. lat. VI.75).
6.1 Termini tecnici e procedure di analisi
Varrone, come i grammatici, crede che la parola sia un elemento minimo e indivisibile: verbum dico orationis vocalem partem,
quae sit minima et indivisa (Ling. lat. X.77), dunque non separa le
desinenze dai temi a cui si affiggono, ma si limita a confrontare tra
loro parole intere simili per il tema o la desinenza. La sua termino41
Cfr. artificibus maxima causa ars, id est, ab arte medicina ut sit medicus dicto,
a sutrina sutor, non a medendo ac suendo, quae omnino ultima huic rei: <hae
enim> earum rerum radices, ut in proxumo libro aperietur (Ling. lat. V.93).
Questo tipo di derivazioni, fondate sulla precedenza ontologica dei referenti
(ovvero, sul significato), piuttosto che sulla forma linguistica, con ogni probabilità nasce a margine del problema filosofico dei paronimi (cfr. le nn. 19 §
II.4.1 e 81 § II.9.2; il § III.2 e le nn. 23-24 § III.5.1); oltre che in Varrone, le
derivazioni “semantiche” sono testimoniate in Quintiliano (cfr. velox da velocitas in Inst. or. I.6.38) ed ebbero grande fortuna nel Medioevo (Rosier-Catach
1992; Biondi 2018): come esempio di derivazione, infatti, Isidoro di Siviglia
cita diversi casi di questo tipo, come a bonitate bonus et a malitia malus, o
anche homo ab humanitate e sapiens a sapientia (Or. II.26.4 e X.1).
L’età classica
55
logia tecnica, però, è meno sviluppata di quella dei grammatici (per
un confronto più dettagliato, cfr. § II.11.1): come ha scritto Collart
(1954, p. 330) “bref, le vocabulaire grammatical de Varron est plein
d’incertitudes, de flottements, de lacune”.
Varrone, infatti, utilizza regolarmente i termini simplex ‘semplice’ e compositum ‘composto’ (o genus compositicium, cfr. Ling. lat.
VIII.33, o anche compositio in De ser. lat. 37), dato che le nozioni corrispondenti erano divenuti abituali in Grecia fin da Aristotele
(cfr. § II.4.1). Nonostante questo, però, non sembra che Varrone
abbia già sviluppato una terminologia tecnica univoca, fissa e costante per nessun altro elemento di quella che oggi chiamiamo analisi morfologica. Il processo di sviluppo del linguaggio, ad esempio, è chiamato solitamente declinatio, ma si trovano anche, seppur
più raramente, i termini inclinatio (Ling. lat. IX.1 e 114), transitus
(Ling. lat. VIII.39, IX.70 e X.51), incrementum (Ling. lat. VIII.17 e
IX.66), o delle perifrasi basate sul verbo propago (Ling. lat. IX.74,
cfr. Flobert 1989, pp. 744-5).
Con la stessa logica, la nozione di terminatio, che sarà abituale
per i grammatici (cfr. n. 74 § II.9.2), non compare mai in Varrone e
negli unici tre casi in cui la parte finale della parola è identificata in
modo esplicito, la si chiama forma, figura o extrema syllaba42. Tra
l’altro, l’uso di forma o figura per indicare la parte finale della parola
sembra essere esclusivo di Varrone, ma si spiega perfettamente come
estensione metonimica: due parole simili formā o figurā, di fatto,
sono simili per le desinenze, se hanno temi diversi, come nel caso
dei nomi Vatinus, Manilius, denarius discussi in Ling. lat. VIII.71.
Diversamente dai grammatici più tardi, inoltre, Varrone non usa
positio, se non una volta, come prima positio (GRF M, fr. 280), né
42
Cfr. et similitudo figura<e> verbi ut sit ea quae ex se declinatu genus prodere certum possi[n]t (Ling. lat. IX.37); sic dici virum Perpennam ut Alfienam
muliebri forma[m], sed et contra parietem ut abietem esse forma[m] similem, quo<m> alterum vocabulum dicatur virile, alterum muliebre et utrumque natura neutrum sit (Ling. lat. IX.41); utrum in secunda <persona>
forma verborum temporali<um> habeat in extrema syllaba AS <an ES> an
ĬS <au>t ĪS (Ling. lat. IX.103). In Ling. lat. VI.39, figura indica tutto il nome
derivato o, specificamente, “a word’s phonological configuration” (Taylor
1977, p. 315). Non mi pare che le litterae di Ling. lat. VI.2 (ut verba litteras
alia assumant, alia mittant, alia commutent, ut fit in turdo, in turdaro et turdelice) siano davvero equiparabili ai suffissi e alle desinenze, come credeva
Pisani (1976, p. 210, contra già Vaahtera 1998, p. 132).
56
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
usa thema (gr. θέμα). Se vuole indicare il nome imposto su un oggetto nella sua forma di base, Varrone lo chiama solo rectus poiché,
per tutti gli studiosi antichi, i nomi sono imposti sugli oggetti al
nominativo (i.e. rectus) e poi “si inclinano” negli altri casi (cfr. n.
17 § II.4.1 e n. 22 § II.5), così come i così i verbi sono stati imposti
sulle azioni che indicano alla prima persona singolare del presente
indicativo, per poi essere inclinati in tutti gli altri tempi, modi e persone (per i passi pertinenti, si veda sopra la n. 33 § II.6).
Varrone, però, è il primo ad utilizzare le nozioni di “radice” e di
“famiglia di parole” (societas o cognatio verborum, cfr. rispettivamente Ling. lat. V.13 e VI.1), che sono ignote ai grammatici. È possibile che, in questo uso, sia stato influenzato Filosseno, che aveva
raccolto le ἀρχαί della lingua greca (cfr. SGLG 2 e Lallot 1993), o
da qualche altra fonte (ad esempio, il grammatico Cosconio, che
è citato in Ling. lat. VI.36), ma non ci sono prove definitive in tal
senso. Tra l’altro, in diversi passi l’originario valore metaforico del
termine radix è ancora perfettamente evidente, il che lascerebbe
supporre una certa originalità nell’uso varroniano o, almeno, una
certa fluidità nella sua terminologia: ad esempio, in Ling. lat. V.13
si passa senza soluzione di continuità, come per libera associazione,
dalle radici di un albero all’analisi di una catena derivazionale43. In
altri casi, però, la nozione di “radice” ha già sviluppato un significato più tecnico, sia nel senso (per noi) diacronico di “origine di una
parola”, sia nel senso (per noi) sincronico di “forma di input da cui
deriva una parola o una famiglia di parole”44.
43
44
Cfr. sed qua cognatio erit verbi quae radices egerit extra fines suas persequemur. S<a>epe enim ad limitem arboris radices sub vicini prodierunt
segetem. Quare non, cum de locis dicam, si ab agro ad agrarium hominem,
ad agricolam pervenero, aberraro. Multa societas verborum, nec Vinalia
sine vino expediri, nec Curia Calabra sine calatione potest aperiri (Ling. lat.
V.16). Per la stessa posizione intermedia tra metafora e tecnicismo si vedano
anche: …e quis nonnulla nomina in utraque lingua [sc. latina et sabellica]
habent radices, ut arbores quae in confinio natae in utroque agro serpunt
(Ling. lat. V.74); neque si non norim radices arboris, non posse me dicere
pirum esse ex ramo, ramum ex arbore, eam ex radicibus quas non video
(Ling. lat. VII.4). Tra l’altro, è interessante notare come la maggior parte
delle metafore connesse con l’analisi morfologica, a partire dai termini radix,
fons, rivus, propago, etc. derivino dal mondo agricolo (Taylor 1974, p. 102).
Per il senso diacronico del termine radice si veda: primum cascum significat vetus; secundum eius origo Sabina, quae usque radices in Oscam
linguam egit (Ling. lat. VII.28); item dictae lepestae [….]; apud antiquos
L’età classica
57
Inoltre, la metafora della radix è la più frequente con cui Varrone indica la forma di base di una famiglia di parole, ma non è
l’unica: i termini fons, rivus e caput sono più rari, ma possono
avere la stessa funzione (cfr. Ling. lat. VIII.5 e IX.102-3). Né
mancano indecisioni rispetto alla natura della radix: di regola, tra
il nome e il verbo è primario il nome (Ling. lat. VIII.13), ma cursor è derivato ora da cursus (Ling. lat. V.94) ora da curro (Ling.
lat. VIII.53), e ductor, amator e salutator sono tratti da ducere,
amare e salutare (Ling. lat. VI.62 e VIII.57), mentre orator e
imperator sono tratti da oratio e imperium (Ling. lat. VII.41 e
V.87). È assolutamente possibile, quindi, che Varrone sia stato il
primo a sviluppare qualche sentore del concetto moderno di radice, ma di certo non abbastanza da fondare su di esso la sua teoria
della declinatio (così già, con buone ragioni, Cavazza 1981, p.
76, n. 105).
Insomma, Varrone, come tutti gli etimologisti, si occupa in primo luogo dell’origine dei nomi, quindi della loro etimologia. Proprio per la sua vicinanza agli aspetti grammaticali dell’etimologia,
però, consente a Varrone di concentrarsi sull’origine di quei termini poetici, giuridici e religiosi che erano culturalmente fondamentali per le antiquitates romane, ma non erano necessariamente
primari. In questo modo, Varrone riesce a studiare la formazione
dei nomi derivati molto di più e molto più precisamente di quanto
non avevano mai fatto Platone e tutti gli altri etimologisti.
scriptores Graecos inveni appellari poculi genus δεπέσταν: quare vel
inde radices in agrum Sabinum at Romanum sunt profectae (Ling. lat.
V.123); subulo dictus, quod ita dicunt Tibicines Tusci: quocirca radices
eius Etr<ur>ia, non Latio qu<a>erundae (Ling. lat. VII.35). Per il significato sincronico del termine radice, invece, si veda: primigenia dicuntur
verba ut lego, scribo, sedeo et cetera quae non sunt ab aliquo verbo, sed
suas habent radices. Contra verba declinata sunt quae, quo ab alio quo
oriuntur, ut ab lego, legis, legit, legam et sic indidem hinc permulta (Ling.
lat. VI.37); Hoc [sc. genus nominandi] fere triplices habet radices, quod
et a vocabulo oriuntur, ut a venatore venabulum et a nomine, ut a Tibure
Tiburs, et a verbo, ut a currendo cursor (Ling. lat. VIII.53 ma anche V.93,
citato nella n. 41 § II.6). Secondo Vaahtera (1998, p. 171), la radix “cannot function as the starting point of the derivation”; in Ling. lat. VI.36,
però, leges e lege, lectio e lector, legens e lecturus, lecte e lectissime sono
tutti derivati da lego.
58
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
7. Retorica e derivazione tra Cicerone e Quintiliano
I trattati di retorica greci di età alessandrina sono in massima parte perduti. Possiamo, però, essere ragionevolmente certi che questi
trattati includessero anche una qualche attenzione alla derivazione
perché questo aspetto compariva nelle opere dei sofisti, nelle opere
poetico-retoriche di Aristotele e ritorna in epoca romana nelle opere retoriche di Cicerone e di Quintiliano. Il quadro teorico in cui
si muovono tutti questi autori, infatti, è simile, se si escludono le
profonde differenze cronologiche che li separano: i retori si occupano delle diverse tipologie di parole che sono presenti in un λόγος,
perché conoscere questi diversi tipi di parole può aiutare a rendere
più efficaci i discorsi pubblici. Anche in questo caso, quindi, l’identificazione dei diversi tipi di parole presenti nel λόγος è la chiave
d’accesso all’analisi empirica dei nomi derivati. Diversamente da
ciò che avveniva in Aristotele, però, in Cicerone e in Quintiliano il
focus principale del discorso non sta nella distinzione, che doveva
ormai essere abituale, tra parole semplici, derivate e composte, ma
nell’analisi del neologismo e della formazione delle nuove parole.
Cicerone, ad esempio, ci dice che i poeti, come gli oratori, possono avere il desiderio di abbellire il loro stile aggiungendo ai verba
inusitata ‘parole inusuali’, anche dei verba translata ‘metafore’ o
novata ‘neologismi’45. Inoltre, sempre Cicerone, che si era spesso
confrontato con il problema della traduzione dei composti e dei
nomi astratti greci, divide in modo chiaro i verba nativa, ovvero
le parole presenti in latino fin dalle origini del linguaggio (paene
una nata cum rebus ipsis, De or. III.149), e i verba reperta, ovvero
le parole che sono il frutto di invenzione o di innovazione. I verba
reperta, a loro volta, possono essere ‘formati’ o ‘innovati’ (facta,
novata) a partire da altre parole già esistenti in latino per analogia
(similitudo), per imitazione dei modelli greci (imitatio), per derivazione (inflexio, probabile calco del gr. κλίσις o ἔγκλισις) o per composizione (adiunctio verborum, forse un calco del gr. σύνθεσις)46.
45
46
Cfr. tria sunt igitur in verbo simplici, quae orator adferat ad inlustrandam atque
exornandam orationem: aut inusitatum verbum, aut translatum aut novatum (De
or. III.152). Su questi passi e, più in generale, sulla continuità tra derivatio e
creazione poetica nell’antichità, si veda Vaahtera (1998, pp. 34 ss. e 37 ss.).
Cfr. unum genus est eloquendi sua sponte fusum; alterum versum atque mutatum. prima vis est in simplicibus verbis, in coniunctis secunda. simplicia
L’età classica
59
Un quadro teorico molto simile si ritrova in Quintiliano, pur se
con una terminologia lievemente diversa. Sappiamo che Plinio aveva utilizzato derivativus e derivatio come calchi dei termini greci
παράγωγον e παραγωγή (GRF M fr. 94 e 95 = Pompeo, GL V.144.14
ss.), piuttosto che riprendere l’inclinamentum di Nigidio, la declinatio di Varrone oppure l’inflexio di Cicerone, e Quintiliano segue
questa scelta, che sarebbe poi diventata quella abituale nei grammatici. L’ornamento dello stile, nella visione di Quintiliano, può
riguardare i gruppi di parole o le parole singole (Inst. or. VIII.3.15).
Nel caso in cui riguardi le parole singole, è possibile dividere le
parole in verba propria, ovvero parole che hanno ricevuto il loro
significato una volta per tutte nell’antiquitas più remota, verba ficta, ovvero parole ‘coniate’ ex novo da un poeta o da un oratore,
e verba translata ‘metaforiche’ (Inst. or. I.5.71 e VIII.3.30-8). La
coniazione delle nuove parole, a sua volta, può avvenire per derivazione (derivatio) o per composizione (compositio), ma in entrambi
i casi si tratta di una risorsa ben più adatta al greco che al latino o,
comunque, più adatta ai rudes primique homines dei primordi, che
ai romani del II secolo d.C. (Inst. or. III.3.30 e 36)47.
Insomma, le opere di Cicerone e di Quintiliano seguono lo stesso
approccio “retorico” all’analisi dei nomi derivati che si era delineato già in Aristotele; e Quintiliano attesta la stessa terminologia tecnica sulla derivazione basata sulla differenza tra inflexio, derivatio
47
invenienda sunt, coniunctio conlocanda est. et simplicia verba partim nativa
sunt, partim reperta. nativa ea quae significata sunt sensu; reperta, quae
ex eis facta sunt et novata aut similitudine aut imitatione aut inflexione aut
adiunctione verborum (Part. or. 16). Per il significato di nativus, si veda la
coppia naturale-derivativum in Pompeo (GL V.202.1 ss.).
Cfr. fingere, ut primo libro dixi, Graecis magis concessum est, qui sonis
etiam quibusdam et adfectibus non dubitaverunt nomina aptare, non alia
libertate quam <qua> illi primi homines rebus appellationes dederunt. nostri aut in iungendo aut in derivando paulum aliquid ausi vix in hoc satis
recipiuntur (Inst. or. III.3.30); nam, cum sint eorum alia (ut dicit Cicero)
nativa, id est quae significata sunt primo sensu, alia reperta quae ex iis
facta sunt, ut iam nobis ponere alia, quam quae illi rudes homines primique
facerunt, fas non sit, at derivare, flectere, coniungere, quod natis postea
concessum est, quando desiit licere? (Inst. or. III.3.36). Si noti, però, che in
qualche passo, Quintiliano usa anche declinare con lo stesso significato di
derivare (p.es. in tractu et declinatione talia sunt, qualia apud Ciceronem
beatitas et beatitudo, cfr. Inst. or. III.3.32). Sulla derivazione in Quintiliano, si veda Fögen (2008, pp. 66 ss.).
60
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
e compositio che diverrà del tutto abituale nei grammatici più tardi.
Dal punto di vista concettuale, però, la sovrapponibilità tra le nozioni moderne di nome semplice o derivato e quelle quintilianee di
verba propria o ficta è ampia, ma non totale: aerumnosus ‘afflitto’
(da aerumna ‘afflizione’), ad esempio, è considerato un proprium
da Quintiliano (Inst. or. VIII.3.26), perché si tratta di un nome uscito dall’uso, quindi di un nome che, in apparenza, è molto antico, ma
per noi moderni resta un nome derivato, quale che sia la data della
sua formazione.
8. Etimologia e derivazione nelle Noctes Atticae di Gellio
L’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati proposto da Varrone torna anche nell’opera di Gellio, pur se nella forma desultoria tipica delle Noctes Atticae. L’arcaismo, in effetti,
fu un movimento con molte sfaccettature e l’arcaismo di Gellio
– come quello del suo maestro Frontone – non era teso soltanto
alla preservazione delle parole antiche. Si trattava, piuttosto, di
trovare una nuova norma che permettesse il rinnovamento della
lingua, mentre le scholae e i grammatici cercavano di fossilizzare
la lingua della letteratura aurea in una Latinitas tanto più immutabile, quanto più lontana dalla lingua parlata (Cavazza 1984, p.
30). Gellio, insomma, non rifiuta la creazione delle nuove parole
(cfr. Noct. XVIII.11.2), ma ritiene che qualsiasi neologismo debba
rispettare i modelli utilizzati dagli antichi48. In questo percorso
ideale che parte dal passato per fornire una norma linguistica al
presente, Gellio finisce spesso per interrogarsi sull’origine delle
parole e sulla loro etimologia che, secondo lui, è il mezzo principale per stabilirne la correttezza formale e semantica (così già
Vaahtera 1998, pp. 149 ss.).
48
Marache (1957, p. 263) ha elencato i neologismi di Gellio e di Frontone.
La sua lista ha diversi limiti (Gamberale 1969, p. 168, n. 240; Vessey
1994, p. 1875, n. 55 e Vaahtera 1998, p. 151, n. 618), ma è sufficiente per
dimostrare che Gellio non rifiuta il neologismo. Tra l’altro, in Noct. I.10.1
(simile a XI.7.1-9) Gellio riporta la reprimenda di Favorino a un giovane che usa parole nimis priscas et ignotas in cotidianis communibusque
sermonis. Su Gellio “grammatico”, si vedano Springer (1958), Cavazza
(1987) e Mancini (2015).
L’età classica
61
In vari casi, Gellio contesta delle etimologie tradizionali fondate
sull’idea di una composizione tra due nomi “corrotti”, preferendo
un’analisi di tipo derivazionale. Nigidio Figulo, ad esempio, riteneva che avarus fosse formato da avidus aeris, mentre Gellio (Noct.
X.5.1-3) ritiene più probabile che si tratti di un nome “inclinato”
dal verbo aveo con la medesima fictura che si trova in amarus49.
Analoghi sono anche i casi di testamentum, che, per Gellio, non
deriva a mentis contestatione, come diceva il giureconsulto Servio
Sulpicio, perché il suffisso -mentum compare in molti altri nomi che
nessuno crede siano dei composti; e di sacellum, che non deriva da
sacra et cella, come diceva Trebazio, seguendo Varrone (sacellum
sacra cella est, cfr. GRF F 369, fr. 453), ma dal diminutivo di sacrum (Noct. VII.12.1-6)50.
Chiaramente, la presenza di questi passi non implica che Gellio
rifiutasse il metodo etimologico tradizionale in assoluto. I grammatici, ad esempio, credevano che -triones in septentriones fosse un
supplementum privo di significato; secondo Gellio, invece, -triones
è la versione corrotta del nome “rustico” terriones ‘buoi’, come di49
50
Cfr. ‘avarus’ non simplex vocabulum, sed iunctum copulatumque esse P. Nigidius dicit in commentariorum undetricesimo. “avarus enim” inquit “appellatur qui avidus aeris est, sed in ea copula ‘e’ littera” inquit “detrita est”.
(2) item ‘locupletem’ dictum ait ex conpositis vocibus, qui pleraque loca,
hoc est, qui mulae possessiones teneret. (3) sed probabilius id firmiusque
est, quod de locuplete dixi. nam de ‘avaro’ ambigitur: cur enim non videri
possit ab uno solo verbo inclinato, quod est ‘aveo’, eademque esse fictura,
qua est ‘amarus’, de quo nihil dici potest quin duplex non sit? L’etimologia
di Nigidio, tra l’altro, torna in Isidoro di Siviglia (Or. X.9).
Cfr. Servius Sulpicius iureconsultus, vir aetatis suae doctissimus, in libro
de sacris detestandis secundo qua ratione adductus “testamentum” verbum
esse duplex scripserit, non reperio. (2) nam composito esse dixit a mente
contestatione. (3) quid igitur “calciamentum”, quid “paludamentum”, quid
“pavimentum”, quid “vestimentum”, quid alia mille per huiuscemodi formam producta? etiamne ista composita dicemus? (4) obrepisse autem videtur Servio, vel si quis est qui id prior dixit, falsa quidem sed non abhorrens
neque inconcinna quasi mentis quaedam in hoc vocabulo significatio, sicut
hercle C. quoque Trebatio eadem concinnitas obrepsit. (5) nam in libro de
religionibus secundo: “‘sacellum’ est – inquit – locus parvo deo sacratus
cum ara”. deinde addit verba haec: “‘sacellum’ ex duobus verbis arbitror
compositum ‘sacri’ et ‘cellae’, quasi ‘sacra cella’. (6) hoc quidem scripsit
Trebatio sed quis ignorat ‘sacellum’ et simplex verbum esse et non ex ‘sacro’
et ‘cella’ copulatum, sed de ‘sacro’ deminutum? (Noct. VII.12.1-6). Simili,
anche i casi di parcus (Noct. III.19.1-5) e aeditimus (Noct. XII.10.1).
62
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ceva Varrone (Noct. II.21.6-8)51. Il metodo etimologico tradizionale, però, in Gellio convive con una nuova attitudine per l’analisi
empirica della forma delle parole e delle loro parti componenti (Cavazza 1984, pp. 24-5; 1987, p. 410, n. 6; Vaahtera 1998, pp. 1545). Ad esempio, Laberio, che aveva l’abitudine di proporre neologismi infelici (Noct. III.12), aveva coniato la parola amorabundus
per indicare una donna in amore, secondo lo schema (lat. figura) di
ludibundus, ridibundus, errabundus (Noct. XI.15.1-8). Il grammatico Terenzio Scauro, però, aveva rifiutato il neologismo, perché,
diversamente da ciò che dicevano Laberio e Cesellio Vindice, ludens e ludibunda non avevano avuto lo stesso significato, perché
ludibundus e ridibundus indicavano in realtà una persona che imita
l’atto di giocare o ridere (così anche Prisciano, cfr. § II.9.3), e non
una persona che gioca o ride, che erano identificate solo dai termini
ridens e ludens. Gellio, invece, accetta il neologismo di Laberio,
perché le parole in -bundus ‘hanno lo stesso significato delle parole
che dimostrano le parole da cui sono derivate’ (eadem significent,
quod ea demonstrant, a quibus producunt, Noct. XI.15.4). Dunque,
Gellio si chiede se la extrema particula -bundus vada considerata
un ampliamento (lat. productio) gratuito, come quelli che i Greci
definiscono παραγωγαί, oppure se si tratti di una particula dotata di
significato, e conclude, seguendo il grammatico Sulpicio Apollinare, che -bundus sia una particula che si affigge ai verbi e significa
vim et copiam et quasi abundantiam rei, cuius id verbum est, dato
che ‘leatabunds’ is dicatur, qui abunde laetus est, et ‘errabundus’,
qui longo et abundanti errore sit (Noct. XI.15.8)52.
51
52
Cfr. vulgus, inquit, grammaticorum ‘septentriones’ a solo numero stellarum
dictum putat. (7) ‘triones’ enim per se nihil significare aiunt, sed vocabuli esse supplementum; sicut in eo quod ‘quinquatrus’ dicamus, quinque ab
Idibus dieum numerus sit, ‘atrus’ nihil. (8) sed ego quidem cum L. Aelio et
M. Varrone sentio, qui ‘triones’ rustico vocabulo boves appellatos scribunt
quasi quosdam ‘terriones’, hoc est arandae colendaeque terrae idoneos.
Cfr. Laberius in Lacu Averno mulierem amantem verbo inusitatius ficto ‘amorabundam’ dixit. (2) id verbum Caesellius Vindex in commentario lectionum
antiquarum ea figura scriptum dixit, qua ‘ludibunda’ et ‘ridibunda’ et ‘errabunda’ dicitur ludens et ridens et errans. (3) Terentianus autem Scaurus,
divi Hadriani temporibus grammaticus vel nobilissimus, inter alia, quae de
Caeselli erroribus conposui, in hoc quoque verbo errasse cum scripsit, quod
idem esse putaverit ‘ludens’ et ‘ludibunda’, ‘ridens’ et ‘ridibunda’, ‘errans’
et ‘errabunda’. “nam ‘ludibunda’” inquit “et ‘ridibunda’ et ‘errabunda’ ea
L’età classica
63
In questo modo, Gellio si occupa, pur se nel suo modo asistematico, di diversi tipi di nomi derivati: ad esempio, dei nomi astratti
in -tudo e -tas (necessitas e necessitudo, suavitudo e suavitas), che
hanno lo stesso significato, anche se sono formati in modo diverso
(Noct. XIII.3.1-2)53; degli aggettivi in -oso, che per Nigidio Figulo
indicavano copiam quidam immodicam rei, mentre per Gellio indicano solamente l’abbondanza di qualcosa, ma non necessariamente
un’abbondanza negativa (Noct. IV.9.12-14 e IX.12.1-2); di alcuni nomina loci in -arius (Noct. II.20.1-8); di alcuni avverbi in -im
(Noct. XII.15.1-2), ma anche alcuni casi singoli, come il sintagma
putus purus (Noct. VII.5.1-4). In almeno un paio di casi, inoltre,
Gellio non si limita ad analizzare il significato dei suffissi, ma si
interroga anche sulla natura delle basi a cui si affiggono: il neologismo di Laberio bibosus, ad esempio, è rifiutato da Gellio, perché
i nomi in -osus non si formano da verbi, ma da altri nomi (Noct.
III.12.1-3, ma anche XI.15.8)54.
53
54
dicitur, quae ludentem vel ridentem vel errantem agit aut simulat. (4) sed qua
ratione Scaurus adductus sit, ut Caesellium in eo reprehenderet, non hercle
reperiebamus. Non est enim dubium, quin haec genere ipso dumtaxat idem
significent, non intellegere videri, aluimus quam insimulare eum tamquam
ipsum minu intellegentem. (5) quin magis Scaurum oportuit commentaria
Caeselli criminantem hoc ab eo preterito requirere quod non dixerit, an quid
et quantulum differret a ‘ludibundo’ ‘ludens’ et ‘ridibundo’ ‘ridens’ et ‘errabundo’ ‘errans’ ceteraque horum similia, an a principalibus verbi paulum
aliquid distarent et quam omnino vim haberent particula eiusmodi vcabulis
addita. (6) hoc enim fuit potius requirendum in istiusmodi figurae tractatu, sicuti requiri solet in ‘vinulento’ et ‘lutulento’ et ‘turbolento’ vacuane et
inanis sit istaec productio, cuiusmodi sint quae παραγωγάς Graeci dicunt,
an extrema illa particula habeat aliquid suae propriae significationis. Tra
l’altro, Festo sembra concordare con Gellio: negibundum antiqui pro negante
dixerunt (Linsday 1913, p. 162).
In questo caso, Gellio potrebbe avere torto (Bernardi-Perini 2017 [19881],
p. 934): le attestazioni mostrano che necessitas sit vis quaepiam premens
et cogens, mentre necessitudo dicatur ius quodam et vinculum religiosae
coniunctionis. La questione, tra l’altro, è complicata dal fatto che in Noct.
XVII.2.19, Gellio dice che sanctitudo ha una sfumatura di maggiore dignità
rispetto a sanctitas (Vaahtera 1998, p. 159). Inoltre, i due suffissi non avevano la stessa produttività all’epoca di Gellio: mentre -tas compare spesso nei
neologismi di Gellio, -tudo non compare mai (Marache 1957, pp. 165-9).
Cfr. bibendi avidum P. Nigidius in commentariis grammaticis ‘bibacem’ et
‘bibosum’ dicit. (2) ‘bibacem’ ego, ut ‘edacem’ a plerisque aliis dictum lego;
‘bibosum dictum’ nondum etiam usquam repperi nisi apud Laberium, neque
aliud est, quod simili inclinatu dicatur. (3) non enim silmile est ut ‘vinosus’
64
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Certo, i mezzi tecnici che Gellio impiega per analizzare gli schemi di formazione dei nomi derivati sono diversi da quelli attuali e
sono diversi anche da quelle che si trovano nei grammatici (cfr. §
II.9). In genere, Gellio utilizza il participio passato come base di
formazione per i derivati e tratta le nominalizzazioni un po’ come
se fossero una parte della coniugazione verbale (così, ad esempio,
avviene per i nomi in -tio, -tor e -bilis, cfr. Marache 1957, pp. 152,
156, 177, 180-1 e 256). Inoltre, Gellio, come già avveniva nel caso
di Varrone, non sembra aver ancora elaborato una terminologia tecnica stabile per riferirsi alla derivazione o alle terminazioni, che
sono indicate con un gran numero di termini formati a partire dai
verbi inclino, fingo e produco o, in qualche caso più raro, da declino: si vedano, ad esempio, inclinatus (Noct. III.12.3; IV.9.2 e 12;
VII.5.4; X.5.3); inclinatūs (Noct. III.12.2); inclinamentum (Noct.
IV.9.12); fictura, che compare solo in Gellio (Noct. X.5.3); fictum
e figura (Noct. XI.15.1-8); affigurare (Noct. IV.9.12); productum
(Noct. VII.12.3); produco (Noct. XI.15.4), productio (Noct. XI.15.6
e 8); παραγωγή (Noct. XI.15.6); incrementum (Noct. IV.9.12); extremitas (Noct. XI.15.8); e particula extrema o postrema (Noct.
XI.15.5, 6 e 8)55. Tuttavia è innegabile che Gellio dimostri un’attitudine assolutamente particolare per lo studio dei nomi derivati,
un’attitudine che lo avvicina a Varrone e a Prisciano, ma di certo
non lo avvicina a Isidoro di Siviglia che, diversi secoli dopo, nel VI
d.C., avrebbe escluso tutti gli aspetti più propriamente “grammaticali” dall’etimologia dalle sue Origines seu etymologiae, a partire
proprio dall’analisi formale dei nomi derivati (cfr. § III.2).
Insomma, Gellio presenta alcune delle riflessioni più acute e
più penetranti sui nomi derivati e sul significato dei suffissi che si
trovano in tutta la letteratura antica. Certo, queste riflessioni hanno il carattere asistematico e desultorio tipico di tutte le riflessioni
55
aut ‘vitiosus’ ceteraque, quae hoc modo dicuntur, quoniam a vocabulis non
a verbo inclinata sunt.
Quest’ultimo termine è probabilmente un calco del termine stoico μόριον
utilizzato da Dionisio Trace (per il -n efelcistico), ed è utilizzato da Gellio
anche per i preverbi (Noct. II.19.3; VI.7.6; XV.3.8; XVI.5.6), che altrimenti
sono detti praepositiones, o per le preposizioni, le congiunzioni e gli avverbi (Noct. II.17.6; X.29.1 e 4; XVII.13.1; XII.14.1). Si noti che, secondo
Vaahtera (1998, p. 163 e n. 670) il termine declinatio in Gellio indica solo la
flessione, ma in Noct. VI.17.5 è utilizzato per la coppia obnoxius vs. obnoxie.
L’età classica
65
gelliane. Il quadro teorico e la terminologia al cui interno nascono
queste riflessioni sono certamente più vicine al quadro teorico e alla
terminologia di Varrone, di quanto non si avvicinino al quadro teorico e alla terminologia dei grammatici, anche se, dal punto di vista
strettamente cronologico, Gellio è molto più vicino ad Apollonio
Discolo e ai grammatici di quanto non lo sia a Varrone.
9. I grammatici
Tra Varrone, Plinio e Cicerone – probabilmente grazie anche
all’attività di Trifone56 – la terminologia tecnica dei grammatici
greci entra anche a Roma. Varrone, ad esempio, usa già derivare,
in qualche passo, e usa anche compositum e compositio. Gli stessi
termini tornano in Cicerone, Plinio e Quintiliano e, con maggiore regolarità, nei grammatici. La distinzione tra i termini derivare,
flectere e coniungere, infatti, si ritrova in Apollonio Discolo, Dionisio Trace, Probo, Donato, Carisio, Diomede e Prisciano.
Di regola, i grammatici usano casus (gr. πτῶσις) o declinatio (gr.
κλίσις) per indicare la flessione nominale, coniugatio (gr. συζυγία)
o, più raramente, declinatio per la flessione verbale, e compositio
(gr. σύνθεσις) per la composizione57. In qualche caso, il termine
56
57
I frammenti di Tirannione non presentano riferimenti alla derivazione (cfr.
SLGL 3), mentre Trifone discute i nomi derivati in alcuni passi (Velsen 1853,
pp. 58-62, fr. 83-93): i frammenti, però, sono troppi brevi e il contesto è troppo lacunoso per farsi un’idea compiuta del loro contenuto. Inoltre, è noto che
Trifone scrisse un Περὶ τῆς ἐν κλίσεσιν ἀναλογίας e un Περὶ τῶν παρωνύμων
(Velsen 1853, pp. 3 e 58), ma il termine παράγωγον non è attestato in nessuno
dei suoi frammenti rimasti.
Per il contrasto tra coniugatio/declinatio, si vedano Dionisio Trace, che
definisce συζυγία come ἀκόλουθος ῥημάτων κλίσις ‘flessione regolare dei
verbi’ (GG I/3.53.6), e Probo, che dice, ad esempio, quidam sic esse nominum declinationes numero quinque voluerunt, sicut verborum coniugationes tres (GL IV.3.3-5). Una distinzione lessicale simile si trova in Carisio
(GL I.18.10. vs. 164.15), Donato (GL IV.373.7 vs. 381.26), Diomede (GL I.
301.32 vs. 359.10) e anche Prisciano (GL II.183.20 vs. II.369.16). Per l’utilizzo di declinatio/κλίσις in riferimento alla flessione verbale, si vedano
Quintiliano (Inst. or. I.4.22), Apollonio Discolo (GG II/2.397.7), Dionisio
Trace (GG I/1.53.6), Probo (GL IV.174.23), Carisio (GL I.169.11), Diomede
(GL I.359.10) e Prisciano (GL II.442.18). Per altri esempi, si può consultare
il lessico della Schad (2007, s.v.).
66
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
declinatio si riferisce all’insieme della derivazione e della flessione,
seguendo quello che sembra essere un uso stoico, e il termine derivatio può funzionare come una etichetta-ombrello per indicare in
generale qualsiasi tipo di alterazione dei nomi, a prescindere dalla
differenza tra flessione, composizione e derivazione; i casi di questo
tipo, però, nel complesso, sono pochi58. Nello stesso modo, i verbi
orior, nascor e (de)duco (in genere al passivo), e tutti i loro derivati,
possono essere utilizzati per indicare la formazione delle parole, sia
nel campo della flessione, sia in quello della derivazione; anche in
questo caso, però, il loro utilizzo non è particolarmente frequente
(per una conferma, si veda Schad 2007, s.v.).
9.1 La classificazione degli accidenti
Al di là della terminologia, che non è poi molto diversa da quella corrente anche oggi, il modo in cui i grammatici antichi guardano alla formazione delle parole è molto diverso da quello oggi
abituale e rimanda alla stessa teoria dei πάθη τῆς λέξεως su cui si
poggia l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati: durante la loro evoluzione, dopo la prima positio, le parole hanno
subito delle affezioni che restano inscritte nella loro forma esterna, dopo che le parole stesse si sono ormai “concretate” e sono
state immagazzinate nel lessico greco o latino una volta per tutte.
Diversamente dagli etimologisti, però, i grammatici non cercano
di ricostruire le modifiche che le parole hanno subito nel tempo
a partire dalla loro prima positio, ma classificano le differenze
formali prodotte da quelle modifiche nelle parole greche o latine
“in sincronia”.
Tutti gli studiosi antichi, in altre parole, ritengono che la parola sia
non solo l’unità più importante dell’analisi grammaticale, ma anche
58
Per l’utilizzo di declinatio nel senso di ‘derivazione’, si veda Pompeo (invenimus enim varias declinationes, fons fontius fontanus, mons montius montanus, GL V.144.12). Per l’uso di derivatus nel senso di ‘flesso’, si vedano
Carisio (sunt quaedam perfecta a diversis instantibus derivata, GL I.371.27),
Diomede (GL I.377.21) e Prisciano (GL II.510.23 e 522.19). Per derivatio
nel senso di ‘composizione’, si veda Probo (‘lucifer’…‘frugifer’… ‘signifer’
et siqua a ‘ferendo’ fuerint derivata, GL IV.14.13). In qualche caso, συζυγία
si può riferire anche alla derivazione (pro)nominale (ad esempio, in Apollonio Discolo, GG II/2.137.1).
L’età classica
67
la sua unità minima, indivisibile59. Proprio per questo, la grammatica greco-latina si può definire una “grammatica delle parole intere”,
ovvero una grammatica che non descrive la formazione delle parole
in quanto tale, dato che questo tema che riguarda l’etimologia e l’origine del linguaggio, ma descrive la forma delle parole immagazzinate nel lessico, che rappresentano il prodotto sincronico e lessicalizzato del processo diacronico-ontogenetico di derivazione (così
già Vaahtera 1998, p. 170). Anche per i grammatici, quindi, tutte le
parole presentano delle specifiche particolarità formali o semantiche che si sono prodotte durante la loro formazione-creazione ab
origine linguae, e la descrizione di queste caratteristiche accidentali
delle parole, che in greco si chiamano παρεπόμενα o συμβεβηκότα
e in latino accidentia, rappresenta effettivamente il compito principale della grammatica nel suo insieme60.
Gli accidenti delle parole sono principalmente di tre tipi. Nessuno dei grammatici descrive in astratto questi tre tipi di accidenti e
le ragioni per cui è utile distinguerli, ma di fatto tutta l’architettura
delle grammatiche antiche si poggia proprio sull’identificazione di
questa differenza. Infatti, alcuni accidenti sono del tutto particolari,
ovvero riguardano soltanto delle parole singole: si tratta, insomma,
degli accidenti specifici che hanno colpito o, meglio, “corrotto” una
parola specifica o un dato composto nel corso della sua creazio59
60
Si veda, ad esempio, la famosa frase di Varrone citata all’inizio del § II.6.1.
La stessa idea è presente in Dionisio Trace (λέξις ἐστι μέρος ἐλάχιστον τοῦ
κατὰ σύνταξιν λόγου, GG I/1.22.4) negli scoli alla grammatica di Dionisio
Trace (GG I/3.212.8) e in Prisciano (GL II.53.8-10): dictio est pars minima
orationis constructae. Per una conferma della concezione unitaria della parola nella grammatica antica, si vedano Robins (1970 [19671], p. 70), Taylor
(1974, pp. 9 ss.) e Auroux (1994, p. 174), Lallot (2019) e Colombat (2019).
Tra l’altro, i grammatici latini notoriamente interpretano l’integrità e l’indivisibilità della parola in modo più rigido di quanto non facevano i loro colleghi
greci (Matthaios 1999, p. 264 n. 289 e p. 267; Dickey 2007, p. 122).
Per la genesi filosofica, quindi, in sostanza, anche etimologica, di tutti gli studi linguistici, inclusi gli studi grammaticali, si vedano, con argomenti diversi,
i lavori di Cavazza (1981, pp. 14 e 39), Gambarara (1984), Taylor (1987) e
Desbordes (1990). Su rapporti tra retorica, analisi letteraria, grammatica e
filosofia, si veda Swiggers (1997, pp. 10-31). Per la storia del termine accidens, dei suoi modelli greci παρεπόμενον o συμβεβηκός, e delle diverse
accezioni con cui sono intesi questi termini nella grammatica antica, si vedano Barwick (1957, pp. 47-51), Holtz (1981, pp. 68-69), Vitale (1982), Lallot
(2019b) e Colombat (2019b; 2019c).
68
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ne-formazione a partire dalla lingua originale. Donato, ad esempio,
dice che i nomi composti possono essere formati da nomi ‘integri’ o
‘intatti’, come si vede nel caso di respublica ‘repubblica’, oppure da
nomi ‘corrotti’, come si vede nel caso di municeps ‘cittadino’, che
è formato da munus ‘dovere’ e capio ‘prendere’ (GL IV.377.6)61. Se
si esclude qualche eccezione (che in genere riguarda i composti, cfr.
sopra), però, questo tipo di accidenti particolari che riguardano solo
parole singole, non rientrano nel campo di interesse della grammatica, ma rientrano piuttosto nel dominio dell’etimologia.
Altri accidenti sono più generali e la loro descrizione rientra
effettivamente all’interno della grammatica a pieno titolo. Tuttavia, non tutti gli accidenti generali riguardano davvero tutte le
parole, nessuna esclusa. Alcuni accidenti, che potremmo definire
semi-generali, riguardano soltanto uno specifico gruppo di parole, come il nome che è definito dal caso o il verbo che è definito dalla persona. Questo tipo di accidenti semi-generali è il più
importante, perché effettivamente serve per dividere le parole in
classi (le partes orationis) e, come è noto, la descrizione delle
classi di parole e della loro flessione rappresenta la parte più
importante di tutta la descrizione grammaticale per gli studiosi
greci e romani.
Oltre agli accidenti particolari che riguardano parole singole e
agli accidenti semi-generali che riguardano un gruppo di parole
ad esclusione di tutti gli altri, esistono anche accidenti generalissimi, che sono davvero comuni a tutte le parole (o, almeno, ad
entrambe le classi principali di parole, il nome e il verbo). Come
ha mostrato in parte Luhtala (2008, pp. 38 ss.), la descrizione di
quest’ultimo tipo di accidenti può seguire nei grammatici due diverse tassonomie, la cui differenza era ben nota già agli antichi. In
un passaggio importante, ma non molto citato (GL V.338.20 ss.),
infatti, Consenzio distingue una divisio graeca ‘tassonomia greca’
e una seconda classificazione, che noi potremmo chiamare divisio
latina ‘tassonomia latina’, rispetto al trattamento dei nomi derivati
e alla definizione del nome (in particolare, in base alla differenza
61
Esempi simili sono comuni tra i grammatici. Per qualche esempio, si vedano
Dionisio Trace (GG I/1.30.1-4), Apollonio Discolo (GG II/1.164.14), Carisio
(GL I.16.29 ss.), Prisciano (GL II.177.20 ss.), Probo (IV.54.1 ss.), Servio (GL
IV.408.22 ss.) e Cledonio (GL V.11.9 ss.).
L’età classica
69
tra il nome proprio, il nome comune e l’epiteto) 62. Luhtala ha già
esaminato l’importanza del contrasto tra le due divisiones per la
definizione del nome, per il trattamento degli omonimi e dei sinonimi e, in generale, per il diverso influsso delle teorie filosofiche,
soprattutto stoiche e neo-platoniche, che sono poco considerate
nella divisio latina, ma sono accolte con una certa generosità nella
divisio graeca. Nei prossimi paragrafi, quindi, ci concentreremo
solo sulla diversa classificazione dei nomi derivati che è presente
nelle due tassonomie63.
9.1.1 La divisio graeca
La divisio graeca si trova nella Τέχνη γραμματική usualmente
attribuita a Dionisio Trace e nelle Institutiones di Prisciano, e si può
attribuire con ragionevole certezza anche ad Apollonio Discolo e al
figlio Erodiano64. Possiamo escludere che questa classificazione si
fosse già stabilizzata nella sua forma definitiva all’epoca di Aristarco, perché Aristarco stesso conosceva le εἴδη dei nomi patronimici,
denominativi (gr. παρώνυμα) e comparativi, ma non conosceva gli
altri tipi di nome che compaiono regolarmente nella divisio graeca
tra Dionisio Trace e Prisciano (Matthaios 1999, pp. 293-4). Tra le
due divisiones, quindi, la divisio graeca è la tassonomia attestata
per prima (dunque, probabilmente la più antica) e risale al II-I seco62
63
64
Cfr. Consenzio (GL V.338.20): (divisio graeca magis sequenda est, quae
fit in primam positionem et derivationem. prima positio dividitur in nomen
proprium et appellativum et epitheton. derivativorum species sunt novem
et specie manant), propria ab individuis. La differenza tra le due divisiones
è confermata da Pompeo (GL V.139.33-5): in proprio nomine quattuor sunt
species, in appellativo habemus vigιnti et semptem. has Graeci rettulerunt
ad semptem speciem. habetis diligentissime in Apollonio tractatus de speciebus istis.
Il contrasto tra la divisio graeca e la divisio latina nel trattamento dei nomi
derivati è menzionato da Vaahtera (1994, pp. 60 n. 226, e 92-3) e Luhtala
(2005, pp. 42-3), ma nessuno dei due autori lo analizza in modo specifico.
È questa la visione tradizionale fin da Schneider (GG II/3.39.11 ss.), seguito
da Lallot (1989, pp. 31-4) e Vaahtera (1998, pp. 76 ss.). Infatti, Apollonio
identifica εἶδος e σχῆμα come accidenti del nome (come dice Cherobosco,
GG IV/1.107.2) e anche del verbo (GG II/3.72.14 ss.); e trattava le species
prima del genere dei nomi secondo gli scoli a Dionisio Trace (GG I/3.524.21),
come effettivamente fa anche Prisciano (GL II.57.8); inoltre, Pompeo conferma che Apollonio trattava le specie in modo eccellente e le trattava secondo
la tassonomia greca (cfr. n. 62 § II.9.1).
70
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
lo a.C., se si accetta l’autenticità della Τέχνη dionisiana, oppure al
II secolo d.C., se si rifiuta l’autenticità della Τέχνη, al di là dei primissimi paragrafi, come fanno Di Benedetto (1958-59; 1973, 1999,
2000) e Luhtala (2002, 2005), e si accetta l’idea vulgata secondo
cui Prisciano riproponeva effettivamente la stessa tassonomia che si
leggeva in Apollonio Discolo (cfr. § II.9.3).
Quale che sia la soluzione più corretta per la datazione della
Τέχνη dionisiana, gli accidenti generalissimi comuni al nome e al
verbo nella divisio graeca sono di due tipi: species (gr. εἶδος) e
figura (gr. σχῆμα)65.
Le species si possono dividere in due gruppi: i verba primitiva
o primae positiones (gr. πρωτότυπα), come mons ‘monte’, e i verba derivata (gr. παράγωγα), come montanus ‘montano’66. I nomi
derivati, in questo caso, formano una categoria sovraordinata di
carattere generale che si oppone ai nomi semplici e include sette
sotto-specie di nomi derivati in Dionisio Trace (GG I/1.24.6 ss.)
e nove in Prisciano (GL II.60.5 ss.), ossia: il patronymicum (gr.
πατρωνυμικόν), il possessivum (gr. κτητικόν), il comparativum
(gr. συγκριτικόν), il superlativum (gr. ὑπερθετικόν), il deminutivum (gr. ὑποκοριστικόν), il denominativum (gr. παρώνυμον) e il
verbale (gr. ῥηματικόν), a cui Prisciano aggiunge il nomen participiale e il nomen adverbiale67. Queste sette o nove specie dei
nomi sono principalmente di natura semantica, ma possono anche
essere definite dal punto di vista formale, almeno in parte. Oltre
a queste specie, che sono le principali, se ne possono aggiungere anche altre, in numero variabile;le specî di quest’ultimo tipo,
65
66
67
L’uso grammaticale del termine σχῆμα con ogni probabilità risale a Teofrasto
(Novokatko 2020).
Le species verborum sono parallele alle species nominum, quindi anche
queste includono i verba primitiva, come lego, e i verba derivativa, come
lecturio (cfr. Prisciano GL II.427.10).
La terminologia di Prisciano è problematica. Nel libro IV de denominativiis,
Prisciano definisce denominativum come ‘denominale’ (denominativum appellatur a voce primitivi sic nominatum, non ab aliqua speciali significatione,
sicut suprae dictae species. habent igitur generalem nominationem omnium
formam, quae a nomine derivatur, cfr. GL II.117.20). Durante l’esposizione,
però, include nel libro IV tutti i tipi di derivati, sia denominali che deverbali, come se denominativum e derivatum fossero effettivamente dei sinonimi
(Kircher 1988, p. 202 e 199, che riporta le critiche a Prisciano degli scoliasti
di Dionisio Trace, cfr. GG I/3.228.4 ss.).
L’età classica
71
di norma, riguardano solo il nome, sono definite solo dal punto
di vista semantico e possono includere nello stesso modo parole
semplici o derivate: tra queste si possono ricordare, per fare alcuni
esempi tra i molti possibili, i nomina corporalia, incorporalia,
homonyma e synonyma per ciò che riguarda i nomina adpellativa;
ma anche le classi del nomen gentile, patrium, interrogativum,
infinitum, demonstrativum e molte altre per ciò che riguarda i nomina adiectiva.
Le formae dei nomi, invece, comprendono tre classi: verba
simplicia (gr. ἀπλᾶ), come mons ‘monte’; i verba composita (gr.
σύνθετα), come magnanimus ‘magnanimo’ o inimicus ‘nemico’ (si
noti che le preposizioni e i preverbi sono considerati alla stregua
delle parole piene in tutta la grammatica antica, perché le preposizioni possono essere pronunciate in isolamento nelle frasi, come
dice Apollonio Discolo, GG II/2.476.2 ss.); e i decomposita (gr.
παρασύνθετα), ovvero i nomi derivati dai composti che, di conseguenza, sono nomi sia derivati che composti, come magnanimitas
‘magnanimità’68.
Dato che i decomposita nomina rappresentano la somma di
nomi derivati e composti, mentre i simplicia sono necessariamente anche primitiva (e viceversa), l’architettura logica della
divisio graeca si fonda su una divisione a tre membri distribuita
su due classi (species e figurae): nomi semplici, nomi derivati e
nomi composti. Nella divisio graeca, quindi, le nozioni di derivazione e di composizione sono centrali, perché rappresentano le
proprietà di primo livello utilizzate per classificare tutti gli accidenti delle parole e le nozioni di base su cui è imperniata tutta la
classificazione delle parole in tipi. In schema, l’architettura logica della divisio graeca si può rappresentare all’incirca nel modo
che segue (fig. 4):
68
La categoria dei nomi decomposti dipende, con ogni probabilità, da Teofrasto
(Matthaios 1999, p. 262). La confusione tra parole derivate tramite preverbi e
composti si trova già ad Aristarco (Schironi 2004, p. 115, fr. 10).
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
72
primitiva
species
derivata
Accidenti
generali
figurae
patronymicum
possessivum
comparativum
superlativum
deminutivum
denominativum
verbale
participiale
adverbiale
simplicia
composita
decomposita
Fig. 4, la struttura logica della divisio graeca (nella versione di Prisciano)
9.1.2 La divisio latina
La seconda tassonomia presente nei grammatici può essere identificata come divisio latina in opposizione alla precedente, anche
se Consenzio non utilizza mai questa etichetta, dato che, di fatto,
è la tassonomia utilizzata in tutti i grammatici romani, con la sola
esclusione di Prisciano. Più specificamente, la tassonomia “latina”
si trova in Carisio (GL I.153.6), Donato (GL IV.373.11), Servio
(GL IV.429.15), Cledonio (GL V.35.5) e Pompeo (GL V.139.33). A
meno che non la si voglia attribuire a qualche lavoro perduto, quindi, questa tassonomia sembra stabilizzata a partire dal III secolo
d.C., all’incirca un secolo dopo la divisio graeca69.
In questa tassonomia latina, gli accidenti generalissimi che riguardano sia il nome sia il verbo sono tre, e non due, come avviene
nella divisio graeca: genus, qualitas e forma. Il genus (gr. γένος) indica il genere nel caso del nome, ma la differenza tra forme verbali
69
I frammenti superstiti dell’ars di Remnio Palemone, pubblicati da Barwick
(1922), non consentono di stabilire quale delle due divisiones fosse utilizzata
nell’opera.
L’età classica
73
finite e forme non finite nel caso del verbo70. La qualitas (calco del
gr. ποιότης) riguarda la distinzione tra il nome proprio e il nome comune nel caso del nome, ma la diatesi nel caso del verbo. La figura
(calco del gr. σχῆμα), infine, indica la differenza tra verba simplicia
e verba composita, mentre la classe dei nomina decomposita, in
questo caso, non rientra nella classificazione71.
In questo secondo modello tassonomico, la differenza tra i nomi
semplici e i nomi derivati è meno rilevante di quanto non fosse nella divisio graeca, dato che non rientra tra gli accidenti generali del
nome. Tuttavia, i grammatici elencano comunque un numero ampio
di diverse species del nome (in genere ventisette) tra le qualitates
del nome comune. Queste species sono di natura prevalentemente
semantica, ma possono anche essere formali, almeno in parte. Ad
esempio, Donato cita le species seguenti (GL IV.373.11 ss.): nomina corporalia, incorporalia, primae positionis, derivata, deminutiva, graecae declinationis, nomi greci con flessione latina, nomi
greci con flessione mista, in parte greca e in parte latina, homonyma,
synonyma, possessiva, qualitatem significantia, quantitatem significatia, gentis, patriae, numeri, ordinis, nomi di relazione (ad aliquid), nomi di quasi-relazione (quasi ad aliquid), generalia, specialia, verbalia, nomi simili ai participi e nomi simili a verbi. Poiché
la maggior parte di queste specie sono definite su base puramente
semantica, al loro interno si possono elencare tanto dei nomi semplici, quanto dei nomi derivati senza alcuna particolare differenza72.
70
71
72
Si vedano Carisio (GL I.164.22), Donato (GL IV.359.6 e IV.381.14), Servio
(GL IV.411.26), Sergio (GL IV.503.5), Cledonio (GL V.16.9), Pompeo (GL
V.231.36) e Consenzio (GL V.367.8). Nella divisio graeca, invece, di norma
il termine genus si riferisce solo al genere nominale.
Diomede (GL I.344.27) e Servio (GL IV.411.26) usano forma come calco del
gr. σχῆμα al posto di figura, seguendo la divisio graeca. Inoltre, Macrobio
usa forma come sinonimo di species, invece che di figura (cfr. de formis sive
specibus verborum in GL V.625.24).
Per un trattamento simile delle species si vedano Servio (GL IV.429.15 ss.),
Cledonio (GL V.35.5) e Pompeo (GL V.139.33). La definizione semantica
dei nomina derivata chiaramente determina una certa ambiguità nella definizione dei diminutivi, che non si trova nella divisio graeca: Cledonio, ad
esempio, dice che i verbi come sugillo ‘rimproverare, ammaccare’ e sorbillo
‘bere a piccoli sorsi’ (da sugo ‘succhiare’ e sorbeo ‘bere, sorbire’) possono
apparire come dei diminutivi ma, nei fatti, sono dei derivati (GL V.54.33), e
un problema simile è discusso, all’incirca nella stessa forma, da Pompeo (GL
V.143.19-25).
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
74
In questa tassonomia, quindi, il contrasto tra nomi semplici e
nomi derivati non è del tutto ignorato, ma è depotenziato attraverso la sua collocazione nel secondo ordine delle proprietà del nome
(invece che nel primo, come nella divisio graeca). In questo modo,
i nomi semplici e derivati appaiono come due delle moltissime tipologie possibili dei nomi e non come le due classi principali attorno
alle quali ruota tutta la classificazione dei diversi tipi di nome. In
schema, l’architettura logica della divisio latina si può rappresentare come segue (fig. 5):
genus
genere
diatesi
nomina propria
Accidenti
generali
qualitas
nomina communia
figura
simplicia
composita
nomina corporalia
nomina incorporalia
nomina primae positionis
nomina derivata
nomina deminutiva
nomina graecae declinationis
…
…
…
Fig. 5, la struttura logica della divisio latina
Chiaramente, la presenza di interferenze tra i due modelli è perfettamente possibile. Probo, ad esempio, segue la divisio graeca
per la maggior parte, ma usa ordo al posto di species come calco
del gr. εἶδος, e aggiunge i nomina deminutiva ai nomina primitiva
e derivativa tra le species del nome, come fa anche Donato (GL
IV.73.34, si veda anche la n. 71 § II.9.1.2 per un caso simile). Nello
stesso modo, Diomede segue la divisio latina e inquadra i nomina
L’età classica
75
derivata tra le qualitates dei nomi, ma poi elenca gli stessi sette
tipi di nomi derivati che si trovano nella grammatica di Dionisio
Trace (GL I.323.19 ss.). E gli scoliasti, in qualche caso, mescolano
le due tassonomie, dato che gli Scholia Marciana a Dionisio Trace
elencano ventiquattro specî del nome che sono quasi identiche alle
ventisette specî che si trovano abitualmente nella divisio latina (GG
I/3.384.22 ss.)73. Ciò nonostante, il contrasto strutturale tra le due
divisiones è evidente: la divisio graeca è fondata sulla distinzione
tra derivatio e compositio; nella divisio latina, la compositio gioca
lo stesso ruolo, ma la derivatio rappresenta solo un accidente di
livello inferiore, che non è ben distinto dalla semantica.
9.2 Termini tecnici e procedure di analisi
Nonostante la differenza tra le due tassonomie, il modo in cui i
grammatici guardano alla struttura interna delle parole è abbastanza uniforme. Come abbiamo detto, i grammatici non descrivono
la formazione delle parole complesse (composte e derivate), come
invece fanno gli etimologisti; ma descrivono la forma delle parole
formate e immagazzinate nel lessico greco o latino una volta per
tutte. Chiaramente, con ciò non si vuol dire che i Greci o i Romani
ignorassero le stesse regolarità formali o semantiche che noi, oggi,
utilizziamo per descrivere la formazione delle parole: però è vero
che gli studiosi antichi descrivevano queste regolarità in un modo
diverso da quello attuale.
In entrambe le tassonomie, le parole complesse possono presentare una παραγωγή ‘derivazione’, una κατάληξις ‘terminazione’ o
un τέλος ‘fine’, e questi termini ritornano nella tradizione latina grazie ai calchi terminatio o, più raramente, extremitas e finis74. Però, i
73
74
La sequenza con cui vengono elencati gli accidenti del nome è specifica di
ciascuna grammatica. Prisciano, ad esempio, descrive le species e le figurae
nominum prima del caso, ma le species e le figurae del verbo dopo la coniugazione verbale, mentre Donato e Carisio descrivono le specie del nome e del
verbo sempre dopo la flessione (GL IV.373.7 e 381.16; GL I.153.6 e 164.13).
Dionisio Trace, invece, descrive le le species e le figurae sia del nome che del
verbo prima della flessione (GG I/1.25.3 e I/1.50.1), mentre Probo e Diomede descrivono le figurae nominum prima del caso, ma le figurae verborum tra
la persona e il tempo (GL I.301.24 e 359.10; GL IV.51.21 e 155.21).
Ciascuno di questi termini compare in Apollonio Discolo, ma non nei suoi
predecessori. Per quanto riguarda τέλος, si vedano GG II/2.218.1 e 217.10
76
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
grammatici usano terminatio come sostantivo solo raramente. Il più
delle volte, preferiscono dire che quel dato nome desinit o terminat
in un certo modo, oppure usano desinentia come un participio (si
vedano, ad esempio, i nomina in ‘us’ desinentia di Prisciano, GL
II.119.5)75. Inoltre, anche se l’esistenza delle terminationes è accettata senza problemi dai grammatici, dal punto di vista concettuale
la terminatio non si riferisce alla desinenza nel senso moderno del
termine, ovvero non indica una unità autonoma e indipendente dalla
parola in cui essa appare: piuttosto rappresenta la parte finale della
parola, intesa pur sempre come unità indivisibile; quella parte della
parola che deriva da una parola primitiva che si era unita con un’altra parola dopo la fase della prima positio e si era “corrotta” nel
corso del tempo fino a diventare, appunto, una terminatio. In pratica
questa parte finale della parola può coincidere con una desinenza
nel senso moderno del termine, come nel caso della -a che si trova
in rosa ‘rosa (nom.)’ o nel caso della -is che si vede in consulis
‘del console (gen.)’, ma può anche indicare l’insieme di un suffisso e di una desinenza, come nel caso di -tus in amatus (Prisciano,
GL II.569.12, 77.9, 284.12 e 106.19-20). In qualche caso, inoltre, la
terminatio può anche indicare semplicemente la parte destra di una
parola, anche se questa parte non coincide esattamente con nessu-
75
in riferimento alla desinenza nominale -ος del caso retto; per κατάληξις, si
veda GG II/2.387.2 con riferimento alla desinenza -ω della 1sg.pres.ind.; per
παραγωγή, si vedano, tra i vari, GG II/2.259.1 ss. e 261.2 ss., con riferimento
a casi come -νος in ὀψινός ‘tardivo’ da ὀψέ ‘tardi’ e -της in ποιητής ‘poeta’ da
ποιέω ‘fare’ e la n. 14 § II.3. Per terminatio, si vedano Carisio (GL I 235.29),
Prisciano (GL II.117.20, 122.17, 184.5) ed Eutiche, che usa anche finalitas
(GL V.455.21, 460.24); per extremitas, si vedano Prisciano (GL II.3.16), Diomede (GL I.492.28), Carisio (GL I.50.7), Terenziano Scauro (GL VII.13.6),
etc. Per finis, si vedano Prisciano (GL II.453.19), Servio (GL IV.409.1) e
Pompeo (GL V.222.19).
Si vedano anche i seguenti passi: in ‘es’ vero desinentibus, quorum genetivus
Graecus in ‘ου’ desinit; e in ‘do’ desinentia derivativa tam a verbis quam a
nominibus vel a participiis veniunt (Prisciano, GL II.66.6 e 122.10); quamvis
forma sit possessivae haec, quae in ‘rius’ desinit, tamen diversae significationis nomina in hac quoque inveniuntur; e alia vero in ‘mentum’ desinunt (Prisciano, GL II.75.2 e 125.12); id est in ‘us’ masculinum, in ‘a’ femininum, in
‘um’ neutrum terminat (Prisciano, GL II.556.26). Il termine desinentia come
sostantivo, infatti, non è mai attestato prima del Medioevo (Lindner 2012, p.
140) e il trattino che indica l’analisi morfemica quasi del tutto sconosciuto
prima di Bopp (1816).
L’età classica
77
na delle unità di analisi morfologica che oggi riteniamo accettabili,
come si vede nel caso di -ar in lacunar ‘lacustre’ da lacus ‘lago’ e
-as in civitas ‘città’ da civis ‘cittadino’ (Prisciano, GL IV.118.1 ss.)76.
Nello stesso modo, i grammatici conoscono la nozione di thema
(un prestito dal gr. θέμα) e di prima positio (un calco dal gr. πρώτη
θέσις che si trova, ad esempio, in Dionisio Trace GG I/3.25.4). Neppure questo termine, però, indica esattamente la stessa nozione a cui
ci riferiamo noi oggi con l’it. tema o l’ingl. stem: anche in questo
caso, il tema non indica una unità indipendente dalla parola flessa in
cui compare, ma indica solo la parola primaria imposta ab origine
sull’oggetto in questione dal primo impositor nominum77. Questa
parola primaria può essere la fonte ultima da cui discendono tutte
le parole derivate e flesse comprese in una stessa famiglia di parole,
ma in pratica rappresenta una parola intera flessa al nominativo,
nel caso del nome, e una parola intera, flessa alla prima persona
singolare del presente indicativo, nel caso del verbo, come dicono
in modo molto chiaro sia Donato (GL IV.553.3), sia Prisciano (GL
II.421.20)78.
76
77
78
La relazione tra una terminazione e una ex-parola è chiara in Apollonio,
secondo il quale ciascun derivato (gr. παρηγμένον) sia esso nominale o verbale, può essere analizzato in un nome πρωτότυπον ‘primario’ unito a una
parola che si riferisce allo stesso significato a cui si riferisce anche la sua
terminazione (καθόλου πᾶν παρηγμένον ἀπό τινος ἀνάλυσιν ἔχει τὴν πρὸς
τὸ πρωτότυπον μετὰ λέξεως τῆς σημαινούσης ταὐτὸν τῇ παραγωγῇ, GG
II/3.326.11 ss.; per un commento a questo passo, si veda Householder 1981,
pp. 38 e 163).
Si veda, ad esempio, Prisciano (ipsius positio nominationis, GL III.119.18),
che riprende un passaggio simile in Apollonio Discolo (ἡ…θέσις τοῦ ὀνόματος, GG II/2.24.2).
L’idea del nominativo come caso generale parte da Aristotele e torna in Varrone (cfr. la n. 17 § II.4.1, la n. 22 § II.5 e, soprattutto, la n. 33 § II.6).
Inoltre, la stessa idea si ritrova anche negli scoli a Dionisio Trace, che la
attribuiscono anche a Apollonio Discolo e a Erodiano (GG I/3.546.6, 548.4),
in Carisio (GL I.195.13), Probo (GL IV.56.35) e Prisciano, secondo il quale,
il nominativo abusive casus nominatur, perché esso indica il casus generalis
che facit alios casus, cadendo nelle varie positiones che si trovano in ciascun
paradigma (GL II.172.6, 185.13). Per una discussione di queste teorie, si vedano Belardi & Cipriano (1990, pp. 117 ss. e 120 ss.) e Brandenburg (2020).
Tra l’altro, l’uso di positio per indicare una parola intera è tradizionale: è
utilizzato nello stesso modo da Apollonio Discolo (GG II/2.65.1, cfr. Lallot
1997: II, p. 45, ma anche GG II/2.137.9) e anche da Erodiano (cfr. Herbse, ad
Ξ 171 e Σ 76, e Wackernagel 1979 [1876], p. 1438).
78
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
In qualche caso, specialmente (ma non solo), quando si discutono i diversi temi di un pronome, si può incorrere in un uso più
tecnico della nozione di θέμα o positio, che tutto sommato è già
abbastanza simile a quello attuale. Ad esempio, Prisciano ci dice
che i temi del pronome di terza persona sono diversi (diversae sunt
pronominis positiones in tertia persona, GL III.144.15) e Apollonio
dice che la παραγωγή può cambiare la categoria del nome a cui
si affigge, dal momento che il nome ποιετής è derivato dal verbo
ποιέω (GG II/2.259.1)79. I passi di questo tipo, però, non sono per
nulla frequenti, soprattutto prima di Prisciano (cfr. § II.9.3).
D’altro canto, i passi in cui i grammatici analizzano più da vicino la struttura interna delle parole, in cui si legge qualcosa di davvero simile a ciò che noi oggi chiameremmo analisi morfologica
o in cui si propone una regola di formazione di una parola non
sono del tutto esclusi nei grammatici ma, certamente, rappresentano delle eccezioni. Inoltre, anche quando ci si imbatte davvero in
passi di questo tipo, la forma di input per una regola di formazione
di una parola è sempre una parola flessa, già provvista della sua
desinenza, invece che un tema nel senso moderno del termine. Ad
esempio, Diomede dice che i nomi in -a formano il diminutivo
aggiungendo -ol-: galea → galeola (GL I.325.25). Nello stesso
modo, Servio pensa che i nomi in -tor siano formati sostituendo il
-tor all’ultima sillaba del supino, ut amatu amator (GL IV.430.279)80. E, discutendo i nomina agentis, Pompeo propone una regola
generale secondo la quale i nomi derivati presentano un numero
maggiore di sillabe rispetto ai nomi semplici da cui sono formati,
come si vede nei diminutivi come in fons → fonticulus, dove il numero delle sillabe del derivato aumenta anche se il significato del
derivato implica una “diminuzione” (quando sensus minuitur sa79
80
Passi simili comparivano già in Apollonio: αἱ δὲ προκείμεναι πρωτότυποι
ἀντωνυμίαι θεματικώτερον ἐκλίθησαν (GG II/2.140.9-10, ma anche GG
II/2.139.2, 229.14). Secondo la stessa logica, inoltre, Apollonio dice che la
παραγωγή nei nomi è chiamata εἶδος, e che il nome acquisisce qualcosa di
simile a una εἶδος nella modificazione della desinenza (ἡ μὲν ἐν τοῖς ὀνόμασι
παραγωγὴ εἶδος καλεῖται. εἴδει γὰρ παραπλήσιόν τι παραδέχεται κατὰ τὴν
ἑτεροίωσιν τοῦ τέλος, δι’οὗ γνωρίζεται, GG II/1.18.14).
Una regola simile si trova anche in Cledonio (GL V.37.7-16) e Pompeo (GL
V.149.1; V.148.8-18), secondo il quale, però, questo tipo di nomi si forma con
l’aggiunta di -or al supino provvisto della -t-, non di -tor.
L’età classica
79
epe crescit numerus syllabarum, GL I.325.25)81. Delle regole così
dettagliate, però, sono piuttosto rare prima di Prisciano e sono utilizzate per stabilire la corretta forma dei nomi immagazzinati nel
lessico ed evitare il barbarismo, più di quanto non siano utilizzate
per descrivere il modo in cui i parlanti formano nuove parole (così
già Vaahtera 1998, p. 92).
Insomma, i grammatici descrivono molti dei dati che noi oggi
esemplifichiamo nei capitoli dedicati alla formazione delle parole
nelle nostre grammatiche sincroniche, ma usano le nozioni di positio e terminatio solo in modo molto limitato e le considerano solo
delle parti di una parola o delle ex-parole, ma non le considerano
delle unità significative autonome e indipendenti dalle parole intere
in cui compaiono. In altre parole, i grammatici non ignorano affatto
la formazione delle parole, ma la considerano soltanto un capitolo periferico all’interno della descrizione grammaticale sincronica,
che riguarda soprattutto la flessione. La descrizione dei derivativa
nomina, quindi, è quasi del tutto assente dalle regulae più semplici,
è descritta in modo cursorio nelle Schulgrammatiken come la Τέχνη
dionisiana, l’Ars minor di Donato e gli Instituta artium di Probo,
dove i vari tipi di nomi derivati sono esemplificati, ma non sono
discussi, ed è liquidata in circa 20 righe di testo in tutta l’Ars maior
di Donato82. Solo Prisciano sembra, insomma, attribuire un’importanza particolare a questo tema.
81
82
I grammatici lamentano spesso questa discrasia tra forma e significato nei
diminutivi, che come regola generale “diminuiscono” nel significato ma “aumentano” nella forma. Nello stesso modo, anche alcuni nomi come fabula,
tabula, etc. sono definiti diminutivi sono, ma non sensu. Sul contrasto tra
derivazione formale e derivazione semantica (o tra derivazione κατὰ φωνήν
e κατὰ σημασία) si vedano la n. 19 § II.4.1, la n. 41 § II.6, il § III.2, le nn. 2324 § III.5.1 e i seguenti passi di Apollonio Discolo (GG II/3.39.31 ss.); degli
scoliasti a Dionisio Trace (GG I/3.527.27 ss.); di Diomede (GL I.325.27 ss.);
di Sergio (GL IV.429.22 ss.); di Servio (GL IV.429.23 ss.); di Pompeo (GL
V.143.21 e 145.2 ss.) e di Consenzio (GL V.340.25 ss.). Per una discussione
critica su questi passi, si vedano anche Biondi (2014, p. 144 e n. 31; 2018)
e, in parte, Klink (1970, p. 26). Per la loro fortuna nel Medioevo, si veda
Rosier-Catach (1992; 2008).
Sulla classificazione delle diverse tipologie di grammatiche, si veda Law
(1987, pp. 191 ss.). Per una interessante pratica di traduzione concernente
il suffisso latino -īvus e il greco -ικός nella grammatica latina (ma scritta in
greco) di Dositeo, si veda Benedetti (2018).
80
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
9.3 La posizione particolare dell’Ars Prisciani83
Prisciano, come tutti gli altri grammatici, descrive la forma delle
parole immagazzinate nel lessico, piuttosto che la loro formazione.
Tuttavia, si concentra sulla descrizione dei derivativa nomina molto
più degli altri grammatici.
Secondo Prisciano, infatti, tra gli scopi della grammatica c’è anche quello di spiegare […] quomodo derivantur, ex quibus primitivis i nomi patronimici e le terminationes dei nomi possessivi, ex
qua ratione formantur, ex quibus positivis i comparativi e le loro
extremitates, e quomodo nascuntur, ex qua primitivis i nomi denominativi (GL II.3.14 ss.). Inoltre, tutto il libro IV della sua ars, chiamato de denominativis, è dedicato allo studio delle parole derivate;
e anche nei suoi lavori più piccoli, come le Partitiones, Prisciano si
concentra sulla struttura interna delle parole più di quanto non sia
abituale in tutte le altre artes.
Nello stesso modo, Prisciano valorizza la nozione di terminatio
più dei suoi predecessori, sia per identificare le classi flessionali dei
nomi e dei verbi latini nei libri VI e VII, sia per descrivere la forma
dei nomi e dei verbi derivati. Inoltre, elenca le terminationes più comuni dei nomi possessivi e dei diminutivi (GL II.69.20 ss. e II.102.5
ss.)84; discute le regole di formazione di alcuni tipi di nomi derivati,
come i comparativi e gli avverbi in -ra, che cambiano -ra in -er prima di aggiungere -ior (cfr. extra → exterior, GL II.90.7)85; descrive
in modo dettagliato il significato dei nomi derivati, come i nomi in
bundus vero desinentia, che similitudinem habere significant (GL
II.137.16 ss., che sembra quasi una replica a Gellio, Noct. XI.15.1-8,
cfr. § II.8); analizza abbastanza di frequente i contrasti che si verificano tra la forma e il significato dei nomi derivati e non solo in riferimento ai diminutivi (si veda, ad esempio, il caso del nome Euripides
83
84
85
Il titolo tradizionale di Institutiones grammaticae trae la sua origine dal frontespizio dell’edizione di Keil, ma non è originale (De Nonno 1988, p. 279;
2009, p. 251).
Lo stesso tipo di attenzione si trova anche in Dionisio Trace (GG I/1.25.3 ss.),
che elenca i noi patronimici in -δης, -ων e -αδιος (cfr. Ἀτρείδης, Ἀτρείων e
῾Υρράδιος), i comparativi in -τερος, -ων e -σσων (cfr. ὀξύτερος, βελτίων e
κρείσσων) e i superlativi in -τατος e -τος (cfr. ὀξύτατος e ἄριστος).
Cfr. ab adverbiis vero derivata in ‘ra’ desinentibus mutant ‘ra’ in ‘er’, et
accepta ‘ior’, faciunt comparativum, ut extra exterior… (GL II.90.7).
L’età classica
81
che è un nome patronimico dal punto di vista formale, ma non lo è
dal punto di vista semantico, o i nomi in -rius che non presentano un
significato comune a tutti i membri della classe, dato che mensarium
‘tovaglia’ indica ciò che sta sul tavolo (quod in mensa est), mentre
frumentaria è una legge che riguarda il grano (frumentum, cfr. GL
II.63.4 e 75.1)86; si interroga sulla regolarità delle relazioni formali
che legano i derivati dalle basi da cui sono formati, come, ad esempio, il contrasto tra la ā lunga in stāre ‘stare’ e la ă breve nel derivato
stăbulum ‘stalla’ o la lunghezza variabile della vocale prima della
terminazione -nus, cfr. Sullă ma sullānus, GL II.124.9 e 77.9)87.
Chiaramente, le concezioni teoriche di Prisciano sono diverse delle nostre. Come ogni altro grammatico antico (ma anche come qualsiasi sostenitore moderno del lessicalismo à la Aronoff 1974 e Halle
197388), anche Prisciano pensa che la forma di input per costruire
una parola derivata debba necessariamente essere un’altra parola
già formata e provvista di una desinenza e che questa parola debba
essere quella che formalmente è più simile alla parola derivata in
questione, senza considerare la vocale tematica o gli aggiustamenti
morfo-fonotattici del caso. Per Prisciano, ad esempio, i nomi possessivi in -cus come Cypricus o i nomi astratti in -tas come bonitas sono
formati a partire dal genitivo singolare dato che, prima del suffisso,
c’è effettivamente una -i- che, in apparenza, è identica alla -i del genitivo singolare; e i verbi iterativi come lecturio da lego si formano
dal participio passato o dal supino, in modo che si possa giustificare
la presenza della sequenza -tu- (GL II.69.25, 127.26 e 429.10).
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Cfr. inveniuntur quaedam nomina formae patronymicorum significatione denominativa, ut Euripides, non Euripi filius sed a Euripo sic nominatus (GL
II.63.2); et, quod iam supra diximus, sciendum, quod, quamvis forma sit possessiva haec, quae in ‘rius’ desinit, tamen diversae significationis nomina in
hac quoque inveniuntur (GL II.75.1).
Cfr. in a desinentia antecedente aliqua consonante seu vocali producta
eadem a et accepta ‘nus’ faciunt derivativum supra dictae formae […], ut
Sulla Sullānus (GL II.77.9); alia enim in ‘bulum’, quae forma assimilis est
deminutivis, et veniunt a nominibus vel a verbis, ut ‘cuna cunabulum’ […]. et
attendendo quod paenultima in omnibus corripitur, antepaenultima vero si i
habeat, corripitur: vestĭbŭlum […], sin vero a, producitur: cunābŭlum […];
excipitur stăbŭlum, quod corripit a (GL II.124.9 ss.).
Ovviamente, il lessicalismo antico non coincide con il lessicalismo generativista. Matthews (1993, pp. 92 e 106), però, ha mostrato che il postulato
dell’unità della parola proviene in modo diretto dalla grammatica antica.
82
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
In qualche caso, dei ragionamenti filosofici di sapore stoico intralciano ancora il rigore dell’argomentazione linguistica. Nelle
Partitiones, ad esempio, Prisciano si domanda se il verbo pre-esista
al nome, o se non sia invece il contrario e il nome sia precedente
al verbo, e si risponde che la questione dipende, in ultima analisi,
da ipsa significatione et natura rerum. Coerentemente con questo
approccio, quindi, Prisciano dice che il verbo armo ‘armare’ nasce
dopo il nome arma ‘armi’, perché è impossibile armare qualcuno
senza avere già un’arma a disposizione (GL III.462.35)89, ma altrove dice che i nomi cursus, cogitatio, cura e lector devono essere formati dai verbi currere, cogitare, curare e legere, perché una
corsa, un pensiero o una cura o un lettore non possono esistere se
prima non si accetta l’esistenza degli atti di correre, pensare, prendersi cura o leggere (GL III.480.5 e 463.4)90. In qualche caso, anche
Prisciano indulge nelle derivazioni “creative”, come può essere la
derivazione di fere ‘quasi’ da ferus ‘feroce’ (GL III.71.6-8, che segue un’idea tradizionale di Varrone, Ling. lat. VII.92), ma i passi di
questo tipo sono eccezionali. Nel complesso, insomma, l’attenzione di Prisciano per i nomi derivati è effettivamente di gran lunga
superiore a quella di tutti gli altri grammatici, e la sua analisi più
dettagliata e più efficace.
È possibile chiedersi se questa attenzione per la derivazione fosse
una caratteristica specifica del lavoro di Prisciano o, piuttosto, fosse
una caratteristica tipica di tutta la divisio graeca. In generale, Prisciano non è l’inventore della teoria linguistica che utilizza; piuttosto,
Prisciano adatta al latino un corpus di dottrine e di teorie grammaticali che erano state già sviluppate da Apollonio Discolo e che, con
89
90
Cfr. unde certum est, quando verbum a nomine et quando nomen a verbo
nascitur? ex ipsa significatione et natura rerum. nam non possumus dicere
armo nisi prius sint arma, quibus armemus aliquem (GL III.462.35).
Cfr. et quaeritur verbum ex re an res ex verbo nascitur? et potius antecedit
verbi actus, in hoc quo sine res esse non potest. nec enim cursus intellegi potest sine currente, nec cogitatio sine cogitante: sic ergo nec cura sine curante
(GL III.480.5); contra autem a verbo nascitur nomen, quod non potest esse
in aliquo, nisi prius actus verbi in eo intellegatur, ut, si dicas lector, intellego
eum prius legere et sic ei id nomen do (GL III.463.4). Per questo tipo di derivazioni sensu, si vedano le nn. 17 § II.4.1, 41 § II.6, 81 § II.9.2; il § III.2 e le
nn. 22-23 § III.5.1. Si noti che, in linea generale, per tutta la tradizione antica
il nome è ontologicamente precedente rispetto al verbo (così già Apollonio
Discolo, GG II/2.18.5).
L’età classica
83
ogni probabilità, circolavano con una certa ampiezza, soprattutto tra
i grammatici greci (così già Uhling GG II/3.iiii.1-3). L’attenzione
alla derivazione, quindi, è probabilmente una caratteristica della divisio graeca in generale, una caratteristica che, con ogni probabilità,
restava nascosta nella Τέχνη attribuita a Dionisio Trace per semplici
ragioni di spazio (la Τέχνη, infondo, è un manualetto di poche pagine). Ciò detto, al di là dell’apprezzamento che Prisciano tributa
ad Apollonio, maximus auctor artis grammaticae (GL II.548.6), e
al figlio Erodiano (GL II.1.3 ss.), e al di là anche della oggettiva
convenienza che Prisciano poteva trovare nell’utilizzare un modello
descrittivo di tipo “greco” nei suoi insegnamenti di latino impartiti
nella grecofona Bisanzio, poteva esserci anche un’altra ragione che
suggeriva a Prisciano di privilegiare la divisio graeca91: nella tarda
antichità si registra un interesse crescente per tutti gli aspetti etimologici, e la formazione delle parole era vista come la parte più recente dell’etimologia: Prisciano, che era il grammatico più attento alla
formazione delle parole, forse non a caso è anche il grammatico che
utilizza più frequentemente gli argumenta ab etymologia (si veda,
tra i vari esempi possibili, il caso di coniugatio propter coniugatas
consonantes, GL II.442.24)92. Prisciano, quindi, potrebbe aver adottato e, magari, rielaborato la divisio graeca anche per avvicinare la
grammatica agli interessi etimologici tipici di quegli anni.
91
92
Si ricordi che Prisciano era nato in una famiglia latinofona della Mauritania; a causa dell’invasione vandala, si trasferì a Bisanzio con la famiglia
e qui studiò e lavorò come docente di latino nell’università fondata da Teodosio II. Per quanto il bilinguismo greco-latino sia noto (si vedano, tra i
vari, Adams 2003 e Mullen & James 2012), resta notevole che il testimone
principale della divisio graeca sia il maggiore dei grammatici latini. Sulla
vita di Prisciano, si veda Ballaira (1989, pp. 19, 29, 36). Sul suo ambiente
linguistico, si veda Fortes (2009). Sulla sua relazione con i modelli greci,
si vedano Holtz (1981, pp. 239 ss.), Lallot (2009) e Schmidhauser (2009).
Sull’utilizzo del greco da parte dei grammatici romani, si vedano Desbordes (1988) e Basset et al. (2007).
Il successo dell’etimologia nella tarda antichità è noto (Klink 1970; Amsler
1989, pp. 123 ss., 141 ss. e la n. 3 § III.2). Sulle etimologie dei grammatici
in generale e, soprattutto, sulle etimologie di Prisciano, si vedano Amsler
(1989, pp. 59 ss., 63 ss., 71 ss., 120 ss.) e Maltby (2009). Sullo “stoicismo” di
Prisciano, si vedano Ebbesen (2009) e Luhtala (2009). Si noti che Prisciano,
nella sua ars cita 49 volte Varrone, l’etimologista romano per eccellenza,
mentre Donato cita Varrone solo 19 volte, Carisio lo cita 18 volte e Probo
solo 3 volte (Collart 1954, pp. 343-4).
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
84
Insomma, è difficile immaginare come fosse percepita la differenza tra divisio latina e divisio graeca nel VI secolo d.C. o come venisse vista la particolare attenzione che Prisciano tributa all’analisi
dei nomi derivati all’interno di questo contrasto. È probabile che, in
questi secoli, Prisciano apparisse innanzitutto come un seguace della divisio graeca e che tutta la differenza tra divisio graeca e divisio
latina apparisse, in primo luogo, come una differenza “geografica”
(grammatica greca vs. latina), poi come una differenza filosofica
(maggiore vs. minore attitudine filosofica), poi come una differenza
cronologica (la divisio graeca è attestata più anticamente) e infine
come una differenza pratica riguardante alcuni aspetti specifici della descrizione grammaticale (i.e. la divisione tra il nome comune, il
nome proprio e l’epiteto; la classificazione degli accidenti comuni
al nome e al verbo, etc.). Le grammatiche che adottavano la divisio
graeca, in altre parole, potevano apparire come più in stile greco,
più filosofiche, più antiche o anche solo più dettagliate nell’analisi
dei nomi derivati; ma potevano anche apparire come grammatiche
che includevano alcuni aspetti “etimologici” tipici di tutta la grammatica delle origini e, proprio grazie ad essi, potevano descrivere
con maggiore precisione e maggiore generosità di informazione i
dati sui nomi derivati.
10. I lessicografi
Gli Alessandrini, per primi, si dedicarono all’esegesi delle parole
che, per qualche ragione, richiedevano delle spiegazioni (λέξεις e
γλῶσσαι), e organizzarono queste parole in λεξικά ordinati prima su
base tematica, poi alfabetica93. Il loro scopo, in ultima analisi, era
quello di registrare la forma corretta delle parole e, come accadeva
anche in Gellio, l’etimologia era il principale criterio di scelta (Vaahtera 1998, pp. 101-3 e 108-115).
93
I primi lessici si limitavano alle parole omeriche, dialettali o gergali, ma a
partire da Aristofane di Bisanzio si cominciarono a redigere anche i lessici
degli oratori attici (Pfeiffer 1968, pp. 197 ss., Alpers 1990, pp. 20 ss.). Sia
in Grecia che a Roma, inoltre, la pratica scolastica della διόρθωσις dei testi
poetici incentivava la nascita della lessicografia (Degani 1998, pp. 1169 e
1185). Sulla lessicografia greca in genere, si veda Tosi (2015).
L’età classica
85
Certo, in qualche caso, i lessicografi stabilivano la corretta forma
di una parola anche solo ricorrendo all’analogia: atramentarium,
non atramentale, ut lingnarium et armarium dice Flavio Capro nel
De verbiis dubiis (II d.C., cfr. GL VII.108.3-4)94. Il più delle volte, però, i lessicografi seguono la pratica etimologica tradizionale
e riportano le terminazioni alla forma “corrotta” di antiche parole.
Per Paolo Diacono (VIII-IX d.C.), epitomatore di Festo (II d.C.),
ad esempio, l’epiteto di Romolo Altellus era nato perché Romolo
era altus in tellure, o perché tellurem sua aleret, o perché, chiamato
da Tazio, re dei Sabini, alternis vicibus audierit locutusque fuerit;
Altellus, quindi, doveva essere un diminutivo di alternus, come macellus lo era di macer e vafellus di vafer95.
Questo tipo di spiegazione etimologica dei nomi derivati è la più
frequente. Raramente i lessicografi si concentrano sulle terminazioni, se non nel caso di suffissi particolarmente frequenti o trasparenti
(come i diminutivi, possessivi, comparativi, etc.). Paolo ex Festo,
ad esempio, deriva avunculus dal nome avus, e dice: arca deminutivum facit arculam et arcellam, ut a porco porculum et porcellum,
a mamma, mammula et mamilla (Linsday 1913, pp. 13 e 23). Solo
in qualche caso si isolano dei veri e propri suffissi. In un frammento
di Oro contenuto negli Ἐθνικά di Stefano di Bisanzio, ad esempio,
si citano τὰ εἰς νος ἐθνικά, (Ἀσιανός, Ὀλβιανός etc.) e si discute la
possibilità che i nomi in -νος si formino a partire dal genitivo singolare del nome corrispondente96.
In qualche altro caso, ancor più raro del precedente, i lessicografi esaminano anche intere famiglie di parole, invece che parole
94
95
96
Lo stesso trattamento dei derivati si trova nei lessicografi greci. Oro (V d.C.
ca.) dice che in ionico δημότης indica ‘una persona che viene dal popolo’,
che in attico si chiama, invece, δημοτικός, mentre δημότης indica ‘una persona che viene dallo stesso demo’, così come φυλέτης indica ‘uno della stessa
tribù’ da φυλή ‘tribù’ e λοχίτης ‘uno della stessa truppa’ da λόχος ‘truppa
armata’ (SGLG 4, pp. 163-4, fr. 27).
Cfr. Altellus Romulus dicebatur quasi altus in tellure, vel quod tellurem suam
alaret; vel quod a Tatio Sabinorum rege postulatus sit in conloquio, et alternis vicibus audierit locutusque fuerit. Sicut enim fit diminutive a macro
macellus, a vafro vafellus, ita a alterno altellus (Linsday 1913, pp. 6-7).
Fr. 15.9 Meineke = α 33 Billerbeck, su cui anche Billerbeck (2011, pp. 4356): Ἄγκυρα […] τὸ ἐθνικὸν Ἀγκυρανός. Τὰ εἰς νος ἐθνικά, ἐαν ἀπὸ τῆς γενικῆς τοῦ πρωτοτύπου καθαρευούσης, τῷ α παραλήγει μακρῷ καὶ μιᾷ συλλαβῇ τῆς γενικῆς περιττεύει, οὐκ ἀναστρέφοντος τοῦ λόγου.
86
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
singole. Paolo ex Festo, ad esempio, riporta faculter, facile, facultas, difficultas e facilitas a facul; oppure riporta modicus, modestus,
moderatio, commodus, commoditas, commodo, accommodo e modificatio a modus97. Non sempre, però, le parole riunite in una stessa famiglia sono davvero corradicali. Paolo ex Festo, ad esempio,
riporta manis, mane e Matuta da mater, insieme con matrimonium,
matertera, matrices, etc.98. Quindi, anche se in qualche caso i lessici
discutono le terminationes o l’esistenza di famiglie di parole, non è
in questo gruppo di opere che si trovano le notizie più rilevanti per
la storia della derivazione, quanto meno per il periodo precedente al
Medioevo (già Vaahtera 1998, p. 109).
11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del
sapere e il problema del tempo nell’antichità greco-romana
Cerchiamo di tirare le somme di quello che abbiamo detto fin
ora. Le prime riflessioni linguistiche dei Greci precedono la distinzione tra linguistica e filosofia, quindi precedono anche la distinzione tecnica tra le nozioni di lingua e di linguaggio che è alla base di
tutta la speculazione linguistica moderna. Omero, Esidio e gli Inni
Orfici riflettono nello stesso tempo sull’origine delle parole greche,
del linguaggio, del pensiero, e delle cose mondane, senza distinguere i tre piani in modo netto.
Tra la fine dell’età arcaica e l’inizio dell’età classica cominciano a delinearsi due approcci distinti agli studi linguistici. In questa
fase si tratta ancora di distinzioni minute e di sapore filosofico,
ma coloro che accettano l’origine naturale del linguaggio e della
lingua greca sono più interessati a studiarne l’origine, che viene
percepita anche come la chiave per capirne il funzionamento in
97
98
Cfr. facul antiqui dicebant et faculter pro facile; unde facultas et difficultas
videntur dicta. sed postea facilitas morum facta est, facultas rerum (Linsday
1913, p. 77); modo quodam id est ratione, dicuntur omnia ista: a modo fit
commoditas, comodus, commodat, accommodat; modice, modeste, moderatio, modificatio (Linsday 1913, p. 155).
Cfr. Mater Matuta, manis, mane, matrimonium, materfamilias, matertera,
matrices, materiae dictae videntur, ut ait Verrius, quia sint bona, qualia scilicet sint, quae sunt matura, vel potius a matre, quae est originis Graecae
(Linsday 1913, p. 155).
L’età classica
87
atto, e considerano l’etimologia come lo strumento principale per
tutta l’analisi linguistica. Coloro che credono nell’origine convenzionale del linguaggio, invece, si interessano di più a studiarne il
funzionamento in atto, a prescindere dalle sue origini, ma si interessano poco all’etimologia.
Nell’Atene del V secolo a.C. entrambi gli approcci vengono “fecondati” dal contatto con i dati linguistici empirici, ed entrambi gli
approcci incrociano i dati empirici sui nomi derivati; ciascuno dei
due approcci, però, descrive questi dati seguendo una prospettiva
diversa. L’approccio etimologico offre, fin da subito, un quadro coerente per descrivere la genesi dei suffissi, un quadro che, in ultima
analisi, è implicito nella teoria dei πάθη τῆς λέξεως (lat. accidentia
nominum). Dopo la fase mitica della πρώτη θέσις (lat. prima (im)
positio), le prime parole imposte dal Nomoteta sugli oggetti del
mondo si sono unite tra loro in dei “proto-composti”; con il tempo, uno dei due membri di questi “proto-composti” – in genere il
secondo – si è corrotto fino a formare quello che i grammatici più
tardi chiamano “terminazione” (lat. terminatio, finis; gr. κατάληξις,
τέλος o παραγωγή). Questo tipo di approccio “etimologico” all’analisi dei nomi derivati si vede già nel Cratilo di Platone e si ritrova, in termini tutto sommato simili, nei grammatici alessandrini,
in Varrone, in Gellio e nei lessicografi. Se si esclude il De lingua
latina di Varrone, però, nessuna di queste opere presenta un’analisi
dettagliata dei nomi derivati, nessuna sembra aver sviluppato una
specifica terminologia tecnica (che, in effetti, non è particolarmente
sviluppata neppure in Varrone), e nessuna presenta una vera e propria classificazione dei nomi derivati simile a quella che compare
nei grammatici.
L’approccio “proto-sincronico” presenta un quadro più complesso. Tra la fine dell’età classica e l’età alessandrina, nelle sue
opere poetico-retoriche, Aristotele inizia a identificare i diversi εἶδη
‘tipi’ di parole presenti nel λόγος, a prescindere dalla loro origine:
in questo contesto, vengono identificati non solo il nome, il verbo,
l’epiteto, la congiunzione e l’articolo, ma anche il nome ἀπλοῦν
‘semplice’, διπλοῦν o (συμ)πεπλεγμένος ‘composto’ e παρώνυμος
‘denominativo’ o solo ‘derivato’99. Questo approccio “retorico”
99
Per la congiunzione, si veda Rhet. 1407a21-26; per l’articolo, si veda Poet.
1456a6-10; per il nome e il verbo De int. 16a19; per l’epiteto Rhet. 1405a10
88
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
all’analisi dei nomi derivati doveva probabilmente comparire nei
trattati greci di retorica e, di certo, si ritrova a Roma, con una terminologia già sostanzialmente vicina a quella dei grammatici, ma
con pochi aspetti originali, nelle opere oratorie di Cicerone e Quintiliano; nel seguito della letteratura latina, però, l’analisi dei nomi
derivati sembra uscire dagli interessi dei retori.
Nella generazione successiva a quella di Aristotele, tutto l’insieme delle acquisizioni pratiche sulla lingua greca maturate a partire
dall’antichità viene rielaborato in una nuova forma da Aristofane di
Bisanzio e da Aristarco di Samotracia per “interpretare” al meglio i
poemi omerici e, più in generale, il corpus letterario dell’età arcaica. In questo contesto, iniziano a comparire i termini che diverranno canonici per l’analisi dei nomi derivati: non solo εἶδος ‘specie’
e σύνθεσις ‘composizione’, che erano già in Aristotele, ma anche
σχῆμα ‘forma’, παραγωγή ‘derivazione’ e συζυγία ‘coniugazione’.
La scarsità delle testimonianze, però, non consente di stabilire se il
sistema di classificazione dei nomi che si registra nei grammatici
successivi si fosse già definito in questa fase; di certo, si può dire
che l’approccio etimologico e l’approccio grammaticale all’analisi
dei nomi derivati, in questa fase, avevano ancora diversi elementi
di contiguità.
Tra Dionisio Trace e la prima età imperiale, la grammatica, da
scienza ausiliaria della filologia, si trasforma in scienza autonoma. Difficile dire quale fosse lo stato di avanzamento dell’analisi dei nomi derivati in questa fase, anche per l’enorme problema
connesso con la datazione della Τέχνη generalmente attribuita a
Dionisio Trace (cfr. n. 29 § II.5). Se si accetta l’autenticità della
Τέχνη (come fa, anche se soltanto per ragioni pratico-espositive,
Vaahtera 1998, p. 52) o, comunque, si ritiene che l’analisi dei nomi
derivati della Τέχνη a noi pervenuta fosse simile a quella proposta
da Dionisio Trace, allievo di Aristarco (come fa Matthaios 2004;
2008), già nel I-II secolo a.C. la classificazione dei nomi derivati
doveva aver assunto un assetto abbastanza vicino a quello della
divisio graeca; se invece, si rifiuta l’autenticità della Τέχνη, al di
là dei suoi primissimi capitoli, non ci sono tracce di un ordinamento specifico dei nomi derivati fino ad Apollonio Discolo, nel
II secolo d.C. Quale che sia la datazione più corretta della Τέχνη,
e 1405b21-23. Per una analisi di questi passi, si veda Alfieri (2014).
L’età classica
89
però, a partire almeno dal II d.C. è certo che i grammatici propongono un quadro teorico specifico al cui interno viene inquadrata
tutta l’analisi dei nomi derivati.
Innanzitutto, i grammatici distinguono, in modo abbastanza regolare, la derivazione (gr. παραγωγή, lat. derivatio) e la flessione
(gr. κλίσις, lat. declinatio o inflexio), che può essere ulteriormente
divisa in una flessione nominale (gr. πτῶσις, lat. declinatio, inflexio
o casus) e una flessione verbale (gr. συζυγία, lat. declinatio, inflexio,
coniugatio). Inoltre, i dati sui nomi derivati sono sempre descritti
all’interno delle sezioni delle grammatiche dedicate alle partes orationis, nelle rubriche che si occupano di species (gr. εἶδος) o qualitas
(gr. ποιότης) e figura (gr. σχῆμα) nominum. La classificazione dei
nomi in queste rubriche, però, può seguire due tassonomie diverse.
Nella divisio latina, che è meno aperta agli influssi filosofici e trova
il suo massimo esponente nell’Ars maior di Donato, la derivazione
è un argomento poco rilevante e poco considerato: in questo caso,
si elencano diversi “tipi” di nomi, che sono definiti soprattutto (ma
non solo) in chiave semantica, ma i derivativa nomina rappresentano solo una delle tante qualitates del nome, e le nozioni di terminatio e di positio vengono utilizzate poco e quasi soltanto in rapporto
alla flessione. Nella divisio graeca, che è più aperta agli influssi
filosofici, soprattutto di origine stoica e neo-platonica, e trova il
suo modello principale nell’Ars di Prisciano, invece, tutta l’analisi
dei “tipi” di nomi è incentrata sulla differenza tra parole semplici,
derivate e composte; in questo caso, i dati sui nomi derivati sono
descritti con più abbondanza di dettagli, le nozioni di terminatio e
positio vengono impiegate con frequenza maggiore, sia nell’analisi
della flessione, sia nell’ambito della derivazione, e alle categorie
classiche dei nomina derivativa e dei nomina composita, si aggiunge anche la classe dei nomina decomposita (gr. παρασύνθετα).
11.1 Due approcci diversi all’analisi dei nomi derivati
Alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo riesaminare il giudizio di Vaahtera citato all’inizio di questo capitolo (cfr. § II.1). Come
abbiamo visto, secondo la studiosa, non è il caso di distinguere un
approccio grammaticale e un approccio etimologico all’analisi dei
nomi derivati, perché le concrete pratiche di analisi di quei nomi
sono all’incirca uguali nei due campi.
90
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Ora, in parte Vaahtera ha ragione. La divisione tra grammatica ed
etimologia è un processo che muove i primi passi tra l’Atene del V
secolo a.C. e l’età alessandrina, ma non è ancora concluso all’epoca
di Varrone (così già Cavazza 1981, pp. 14 e 39) e, anche in seguito, i due campi hanno mantenuto molti punti di contatto: Aristofane e Aristarco, ad esempio, usano ampiamente gli argumenta ab
etymologia nell’interpretazione omerica (cfr. § II.5); Varrone, nella
sua opera etimologica, si occupa anche di argomenti tipicamente
“grammaticali” come la definizione delle partes orationis (Ling.
lat. VIII.11), la classificazione dei nomi derivati (cfr. § II.6) e la
sintassi (che era discussa nell’ultima esade del lavoro, purtroppo
perduta); e Dionisio Trace elenca l’etimologia tra i compiti della
grammatica (cfr. GG I/1.5.4 ss.)100. Inoltre, il postulato dell’unità
della parola e l’approccio “lessicalista” sono due assunti condivisi
da tutti gli studiosi antichi, e questi due assunti informano tutte le
concrete pratiche di analisi linguistica degli studiosi greci e romani,
siano essi grammatici o etimologisti: quando si arriva all’analisi
empirica di questo o di quel nome derivato, quindi, sia i grammatici
sia gli etimologisti trattano le parole come unità sostanzialmente
indivisibili, pur se dotate di una struttura interna.
Inoltre, le attestazioni grazie a cui conosciamo l’approccio etimologico e l’approccio grammaticale all’analisi dei nomi derivati sono
diverse tra loro per tipologia e cronologia, il che non facilita il confronto. L’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati affonda
le sue radici in tutto il patrimonio sapienziale condiviso dai Greci fin
dall’età arcaica e forma una linea di sviluppo sostanzialmente continua che percorre tutto l’arco dell’antichità, dal Cratilo di Platone alle
Origines di Isidoro di Siviglia. Una linea di sviluppo continua, quindi,
che, però, si è conservata in modo molto frammentario: se si escludono le note del Cratilo, le testimonianze indirette dei grammatici alessandrini, le riflessioni brillanti, ma asistematiche di Gellio e qualche
nota, in genere di seconda mano, nei lessicografi, l’approccio etimologico allo studio dei nomi derivati ci è noto quasi solo grazie al De
100 La definizione della grammatica rientra nei primissimi capitoli della Tέχνη
attribuita a Dionisio Trace; si tratta, quindi, della parte dell’opera più probabilmente autentica. Pur se originariamente databile tra il I e il II secolo a.C.,
però, questa definizione della grammatica doveva apparire attuale anche più
tardi, visto che è l’unica parte dell’opera citata da Sesto Empirico tra il II e il
III secolo d.C. (Adv. math. 57, 250).
L’età classica
91
lingua latina, un’opera la cui reale originalità è notoriamente difficile
da giudicare. L’approccio grammaticale all’analisi dei nomi derivati,
invece, ci è nota grazie a un corpus di testi sostanzialmente uniformi
(al netto della differenza tra la divisio latina e la divisio graeca) che è
compreso tra la metà del II secolo a.C. e il VI secolo d.C., se si accetta
l’autenticità della Τέχνη, o tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C. se la
si rifiuta al di là dei primissimi capitoli (cfr. n. 29 § II.5).
Tuttavia, ci sono delle buone ragioni per distinguere due approcci
diversi all’analisi dei nomi derivati. La prima ragione è concettuale.
Tanto i grammatici che gli etimologisti si occupano dei nomi derivati, ma arrivano a questo tema da due prospettive opposte. Mentre
i grammatici classificano le parole registrate nel lessico in base alle
loro “terminazioni”, gli etimologisti ricostruiscono l’origine delle
parole e delle loro “terminazioni” a partire dalla loro prima positio101. La derivazione, insomma, per i grammatici, rappresenta la
parte della grammatica più vicina all’origine del linguaggio e, per
gli etimologisti, rappresenta la parte dell’etimologia più recente dal
punto di vista ontogenetico-evolutivo (ossia, la parte più lontana
dall’origine del linguaggio). Nel complesso, quindi, si tratta di due
approcci che si confondono in un punto (l’analisi empirica dei nomi
derivati), molto più di quanto non si tratti di un unico approccio.
La seconda ragione per cui è utile distinguere l’approccio grammaticale e l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati
riguarda la terminologia tecnica. La diversità delle testimonianze
grazie a cui ricostruiamo i due approcci, ovviamente, impone una
buona dose di cautela sul tema. Ed è vero che, da Aristotele in poi,
l’identificazione dei nomi composti è un patrimonio condiviso in
entrambi gli approcci. La terminologia dei grammatici, però, ha
già la stabilità tipica delle terminologie tecniche e si fonda su una
distinzione abbastanza netta tra la derivazione (gr. παραγωγή, lat.
derivatio) e la flessione (gr. κλίσις, lat. declinatio o inflexio). La
101 Anche la connessione tra derivazione e anomalia, così come le due classificazioni dei nomi derivati proposte da Varrone, non si trovano mai nei
grammatici, neppure come semplici riferimenti. È vero, però, che queste due
differenze possono dipendere dalla cronologia, più che dalla tipologia delle
opere: la polemica tra analogisti e anomalisti si era ormai affievolita al tempo
dei grammatici; ed è possibile che nel I secolo a.C., anche in ambito grammaticale, circolassero un numero maggiore di classificazioni dei nomi rispetto a
quelle attestate nella divisio graeca e nella divisio latina.
92
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
terminologia degli etimologisti è meno stabile, e si basa su un’unica nozione di derivazione-flessione, che Varrone chiama declinatio,
anche se poi divide la declinatio naturalis, simile alla nostra flessione, e la declinatio voluntaria, simile alla nostra derivazione. Inoltre,
i termini positio e terminatio, pur senza essere frequenti, si trovano
tra i grammatici, ma sono praticamente assenti nel De lingua latina,
dove, invece, si trovano per la prima volta le nozioni di ‘radice’ (lat.
radix, fons) e di ‘famiglia di parole’ (lat. societas, cognatio verborum), che sono ignote ai grammatici. Insomma, è possibile che queste differenze riguardino più la cronologia delle attestazioni che la
tipologia dei testi. Però, mi pare improbabile che qualche diversità
terminologica non fosse visibile, almeno in nuce, già all’epoca di
Varrone, visto che i termini παραγωγή e παράγωγον sono attestati
in Aristarco, derivatum si trova in Plinio il Vecchio, prima che nei
grammatici, e la terminologia oscillante di Gellio ricorda quella di
Varrone più che quella dei grammatici, anche se Gellio vive nel II
secolo d.C., all’incirca nella stessa epoca di Apollonio Discolo.
Con ciò non voglio dire che l’approccio grammaticale e quello
etimologico allo studio dei nomi derivati siano diversi in tutto e per
tutto. Al contrario. La riflessione grammaticale prende le mosse dalla
stessa teoria dei πάθη τῆς λέξεως che è implicita nella teoria antica
sull’etimologia ed è alla base di tutta la classificazione delle parole in
tipi che si trova nei grammatici: per gli antichi, le parole sono formalmente simili, se hanno subito accidenti simili nel corso della loro evoluzione. Uno degli sforzi principali dei grammatici, quindi, è sempre
stato quello di separare gli aspetti filosofico-etimologici della teoria
dei πάθη dalle sue applicazioni empirico-descrittive. E questo sforzo
è arrivato a risultati eccellenti in molti campi dell’analisi linguistica, a
partire dalla flessione, fin dalla fine dell’età ellenistica o, al massimo,
all’inizio dell’età imperiale. Lo studio dei nomi derivati e i termini
tecnici utilizzati per questo studio, a partire dalle nozioni di positio
e terminatio, però, rappresentano il campo del sapere linguistico in
cui questa distinzione è stata più difficoltosa. Nell’analisi empirica
dei nomi derivati, in altre parole, la distinzione tra grammatica ed
etimologia effettivamente si perde un po’, come ha notato Vaahtera.
Però, tenere distinti i due approcci dal punto di vista teorico e terminologico è, a mio avviso, cruciale sia per capire la teoria linguistica
di tutta l’antichità classica, sia per spiegare il modo in cui sono stati
trattati i nomi derivati tra il Medioevo e l’Età dei Lumi (cfr. cap. III).
L’età classica
93
12. Il lascito della tradizione antica
Se utilizziamo la mappa concettuale proposta nel § I.3 per descrivere la situazione in cui versava la storia della morfologia derivazionale tra la tarda età ellenistica e il VI secolo d.C. e, soprattutto,
nell’ultima fase di questo arco temporale, all’incirca tra il II secolo
d.C. e il VI secolo d.C., e, nello stesso tempo, accettiamo di distinguere un approccio “etimologico” e un approccio “grammaticale”
nell’analisi dei nomi derivati, contro il giudizio tradizionale di Vaahtera, possiamo proporre una ricostruzione almeno in parte nuova
della storia della morfologia derivazionale.
In questi secoli, l’architettura del sapere linguistico si organizza
attorno a due domini di ricerca principali: le opere etimologiche, che
hanno un inquadramento di tipo “proto-diacronico” sull’asse del tempo, e le grammatiche, che hanno un inquadramento di tipo “proto-sincronico” sull’asse del tempo (per l’utilizzo del prefisso proto-, cfr. §
II.12.1); i dati empirici sui nomi derivati sono descritti in entrambi
i campi del sapere, ma sono descritti in modo diverso in ciascuno
di essi. Gli etimologisti studiano l’origine delle parole e delle loro
“terminazioni”; i grammatici (e, prima di loro, i retori) classificano i
diversi tipi di parole che trovano nel lessico greco e latino anche sulla
base delle loro “terminazioni”, ma a prescindere dalla loro origine.
Se, quindi, riportiamo questi due gruppi di opere in una tabella analoga a quelle già proposte nel § I.3, otteniamo la figura seguente (fig. 6):
Lingua-linguaggio
Grammatiche
Funzionamento
Mutamento
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: classificazione dei tipi di parole e delle loro
terminazioni
Opere etimologiche
inquadramento: proto-diacronia
derivatio: studio dell’origine delle parole e delle loro
terminazioni
Fig. 6, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e la derivazione
tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C.
94
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Se confrontiamo questa architettura del sapere linguistico con
quella vigente oggi, si vede chiaramente che tutte le riflessioni
antiche sulle lingue e sul linguaggio nascondono due problemi teorici fondamentali e poco considerati che, pur se in modi diversi,
ruotano entrambi attorno al “problema del tempo”: da una parte,
la confusione (o, più precisamente, la mancata distinzione) tra le
nozioni di lingua e di linguaggio (cfr. § II.12.1); dall’altra, l’inquadramento dei dati sui nomi derivati rispetto all’asse del tempo (cfr. § II.12.2). Poiché entrambi i problemi saranno centrali in
tutto il seguito della storia della derivazione, è utile discuterli sin
d’ora in modo esplicito.
12.1 La confusione tra lingua e linguaggio
Ad un primo sguardo la confusione tra la lingua e il linguaggio ha poco a che fare con il problema del tempo. Eppure, questa
confusione emerge con chiarezza se si considera l’inquadramento
sull’asse del tempo tanto delle grammatiche, quanto delle opere etimologiche. Dal punto di vista moderno, infatti, le opere etimologiche si possono considerare “proto-diacroniche”, perché si occupano
effettivamente dell’origine del linguaggio e della lingua greca o latina, come le grammatiche storiche attuali; tutta la teoria etimologica antica, però, confonde strutturalmente la dimensione pancronica,
che oggi utilizziamo per studiare l’ontogenesi del linguaggio, e la
dimensione propriamente diacronica, che oggi consideriamo necessaria per studiare la filogenesi delle famiglie di lingue o la storia
delle singole lingue102.
102 La scarsa sensibilità degli antichi per la storicità delle lingue (i.e. per la
diacronia distinta dall’ontogenesi) è nota. Già Muller diceva (1910, p. 226)
che hinc igitur colligere possumus Varronem sensu historico maximopere ac
saepissime caruisse; la stessa idea torna, più recentemente (e non solo in
riferimento a Varrone) in Lallot (2011, pp. 249-50). Ovviamente, è possibile
citare dei casi in cui gli studiosi antichi già si interessano alla storia, distinta dall’ontogenesi: Varrone, ad esempio, dice che consuetudo loquendi est
in motu (Ling. lat. IX.17, cfr. Cavazza 1981, p. 158; Belardi 2002: II, pp.
322-3), e delle notazioni più o meno brillanti sulla diacronia del greco e del
latino si trovano in alcuni passi di Platone (Lallot 2011); Cicerone (Adams
2007, p. 123 e Marotta 2018a; 2018b, pp. 407-9), Nigidio Figulo (Belardi &
Cipriano 1990, Adams 2007, p. 174 e Mancini 2019a; 2019b), Quintiliano
(Adams 2007, p. 194); Agostino e Consenzio (Löfstedt 1975; Adams 2007,
L’età classica
95
Una confusione speculare si rileva in tutte le opere “proto-sincroniche”, pur se in modo meno evidente. In primo luogo, le speculazioni filosofiche di carattere più funzionalista, da cui nasce, in
ultima analisi, l’interesse per la grammatica, si concentrano effettivamente sul problema del funzionamento, come le grammatiche
sincroniche attuali, ma confondono la sincronia che serve per studiare una lingua con l’acronia che serve per studiare il linguaggio e
il pensiero umano in assoluto (cfr. n. 4 § II.2).
Questo tipo di confusione viene ereditato dalle grammatiche. È
vero che, ad un primo sguardo, le grammatiche antiche si occupano del funzionamento di una lingua particolare (il greco o il latino), come le grammatiche sincroniche attuali. Però è anche vero
che la grammatica antica si muove in una dimensione sostanzialmente monoglottica, e il monolinguismo non aiuta a distinguere
le lingue e il linguaggio. È noto, infatti, che, per noi moderni, una
delle prove più evidenti della differenza tra lingua e linguaggio è
la diversità delle lingue: se le lingue sono molte e diverse tra loro,
la facoltà del linguaggio rappresenta ciò che c’è di comune tra
tutte, ma non coincide con nessuna. È altrettanto noto, però, che
gli studiosi greci e romani trascurano proprio questa diversità103.
Chiaramente, ciò non vuol dire che i Greci o i Romani negassero
del tutto l’esistenza di lingue diverse dal greco o dal latino: già
Omero, ad esempio, dice esplicitamente che le lingue sono diverse come le razze104. Se, però, tutto l’insieme dei non-grecofoni
è visto come una massa amorfa di parlanti incomprensibili e un
po’ ridicoli (βάρβαροι ‘balbuzienti’), come l’arciere scita delle
pp. 192, 200; e Mancini 2001; 2002; 2005), Gellio (Mancini 2015) e Sergio
(Loporcaro 2015, p. 20); più in generale, su questo tema, si vedano Fögen
(2000) e Müller (2001). Le eccezioni, però, non mutano un panorama in cui,
nel complesso, la confusione tra diacronia e ontogenesi era la norma.
103 Un giudizio di questo tipo sul monolinguismo antico si trova già in Pedersen
(1962, p. 2) e Momigliano (1975), recentemente ripresi più recentemente da
Werner (1989), Rochette (1995; 1997; 2007), Lambert (2009) e Gera (2003,
p. 182), secondo cui “language and speech are virtually interchangeable concepts [sc. negli autori Greci]”: la stessa idea è ribadita per gli autori latini
cristiani da Deneker (2017, p. 27).
104 Cfr. ἄλλη δ ἀλλῶν γλῶσσα πολυπερέων ἀνθρώπων (β 802); per un commento, si veda Gambarara (1984, pp. 39-73). Anche Varrone conferma l’esistenza
di lingue “altre” dal latino quando dice che declinatio inducta in sermone non
solum Latino, sed omnium hominum (Ling. lat. VIII.3).
96
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Tesmoforiazuse di Aristofane (vv. 1001 ss.), la diversità delle lingue è percepita a livello intuitivo, ma la sua importanza teorica di
fatto è negata. Anche se riconoscono l’esistenza di lingue “altre”
rispetto al greco e al latino, quindi, gli studiosi antichi si muovono
in un orizzonte così inconsapevolmente – e, proprio per questo,
così rigidamente – monolingue da avere sviluppato la tendenza a
“universalizzare” qualsiasi affermazione sul greco o sul latino, intese come lingue particolari, per trasformarla in una affermazione
sulla facoltà del linguaggio in generale, se non sul pensiero umano
in assoluto105.
La confusione tra lingua e linguaggio che è implicita nel monolinguismo che caratterizza tutta la cultura classica, a sua volta,
determina o, almeno, contribuisce ad una certa confusione rispetto
all’inquadramento delle grammatiche sull’asse del tempo. In altre
parole, la sincronia, per noi moderni, è una nozione strutturalmente
limitata nello spazio e nel tempo. Lo scopo dei grammatici, però,
non è tanto quello di descrivere il funzionamento del greco o del
latino in uno specifico luogo o in un dato momento storico, diverso
dai precedenti e dai successivi, ma piuttosto quello di preservare
l’ἑλληνισμός o la latinitas, per “proteggere” la lingua della tradizione aurea dal solecismo e dal barbarismo e, quindi, di fatto, per
sottrarla dal suo divenire storico; lo stesso divenire storico che, per
noi, rappresenta la dimensione più propriamente e più irriducibilmente “cronica” della lingua ma, per tutti gli antichi, rappresenta
105 Il modo in cui viene concettualizzato il rapporto tra latino e greco nell’antichità porta un’ulteriore conferma della sostanziale negazione della diversità
delle lingue tipica della cultura classica. Per noi moderni, il greco e il latino
sono lingue diverse. Se, però, la diversità delle lingue non è riconosciuta a
pieno, allora è necessario ricondurre a unità la differenza tra le lingue classiche e, per farlo, si possono seguire due strade. Il latino e il greco possono
formare un’unità genealogica, come dice Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom.
I.90.1 e I.33.4,) seguito da molti intellettuali greci attivi a Roma (più che
dagli eruditi romani, cfr. De Paolis 2015), secondo il quale il latino discendeva dal greco eolico o dall’arcadico. Oppure le due lingue possono formare un’unità tipologico-culturale, come dice Macrobio quando parla di una
coniunctissimam cognationem e un similem cultum che unisce il greco e il
latino e li distingue, come unità, da tutte le altre lingue, che si esprimono solo
per aneliti o sibili (aut anhelitu aut sibilo), non hanno le partes orationis, né
le stesse componendi figurae, né le altre proprietà che definiscono le lingue
classiche (GL V.631.5 ss.; per un commento su questo passo, si veda Desbordes 2007 [19951], pp. 220-21).
L’età classica
97
solamente una progressiva “corruzione” nel tempo106. Le grammatiche dell’antichità, insomma, sembrano sincroniche, ma in realtà sono solo “proto-sincroniche”, perché confondono la sincronia
necessaria per studiare il funzionamento delle lingue particolari e
l’acronia necessaria per studiare il funzionamento del linguaggio
in generale.
12.2 L’inquadramento dei dati sui nomi derivati
Il secondo problema implicito nell’architettura del sapere ritratta nella fig. 6 riguarda l’inquadramento sull’asse del tempo dei
dati sulla formazione delle parole. Per noi moderni, questi dati
riguardano la sincronia, anche se la nozione di derivazione in
quanto tale può essere intesa tanto in chiave sincronica, quanto
in chiave diacronica, pancronica o acronica (cfr. § I.3). Per gli
antichi, invece, la derivazione in quanto tale è primariamente una
nozione proto-diacronica (i.e. pancronica, ontogenetica o etimologica), così come sono pancronico-ontogenetiche le nozioni di
terminatio e positio grazie alle quali si analizza la struttura interna
delle parole; i dati empirici sulla formazione delle parole, però,
sono descritti, in modo tutto sommato simile, tanto nelle opere
etimologiche, quanto nelle grammatiche.
Inoltre, in nessuno dei due campi questi dati hanno un trattamento univoco: Varrone e Gellio descrivono i dati sui nomi derivati
con una qualche abbondanza, ma lo stesso non si può dire degli
altri etimologisti. Ugualmente, Prisciano descrive i dati sui nomi
derivati con una certa generosità, ma lo stesso non si può dire di
Donato, Carisio e, in generale, delle grammatiche che utilizzano la
divisio latina. I dati sui nomi derivati, quindi, sono descritti sia nelle
grammatiche, sia nelle opere etimologiche, ma non sono centrali in
nessuno dei due campi del sapere; inoltre, in tutti e due i campi si
registra una forte variabilità nel trattamento di questi dati, e certi
autori se ne occupano assai più di quanto non facciano altri.
106 Le nozioni di ἑλληνισμός e latinitas indicano “ce qu’il y a de proprement grec
dans le grec, de proprement latin dans le latin, indépendamment des temps,
lieux, personnes qui les emploient” (Baratin & Desbordes 2000 [19861], pp.
77; sul tema, si vedano anche Holtz 1981, pp. 137 ss., Baratin 1989, pp. 350360, e Pagani 2014). Si tratta, quindi, di nozioni strutturalmente “acroniche”.
98
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Questa distribuzione dei dati sulla formazione delle parole è
chiaramente problematica, e lo è per almeno due ragioni. La prima
riguarda la divisione tra le opere etimologiche e le grammatiche. È
chiaro che, se uno stesso “pacchetto” di dati viene descritto, all’incirca nella stessa forma o, comunque, in una forma simile, tanto
nelle grammatiche proto-sincroniche, quanto nelle opere etimologiche proto-diacroniche, la distinzione tra proto-sincronia e proto-diacronia, si perde un po’, almeno per quanto riguarda l’analisi
dei dati empirici sui nomi derivati. In altre parole, se la distinzione
tra grammatica ed etimologia in generale è complessivamente stabile fin dalla prima età imperiale (o prima, se si accetta l’autenticità
della Τέχνη dionisiana), l’inquadramento dei dati sui nomi derivati
nell’uno o nell’altro campo del sapere, ancora nel VI secolo d.C.,
non si può dire che sia altrettanto chiaro: i dati sulla morfologia
derivazionale, insomma, si trovano nel punto esatto in cui la proto-sincronia e la proto-diacronia si toccano, confondendosi tra loro.
Un problema simile si verifica all’interno delle grammatiche,
nel contrasto tra la divisio graeca e la divisio latina: se la derivazione in quanto tale è una nozione primariamente proto-diacronica, come credevano tutti gli antichi, più una grammatica descrive
i dati sui nomi derivati, più questa grammatica inevitabilmente
finisce per includere degli aspetti proto-diacronici nella descrizione grammaticale proto-sincronica. In altre parole, al di là dei suoi
aspetti più semplicemente “geografici”, filosofici e pratici, la differenza tra le due divisiones nasconde due modalità opposte di gestire il contrasto tra la natura primariamente proto-diacronica della
nozione di derivazione e l’inquadramento proto-sincronico della
grammatica: la divisio latina propone un modello di grammatica
meno informativo, perché esclude il più possibile i dati sulla formazione delle parole che per noi moderni riguardano la sincronia,
ma anche più coerente, perché rispetta di più l’inquadramento proto-sincronico dell’analisi grammaticale sull’asse del tempo; la divisio graeca, al contrario, propone un modello di grammatica più
informativo, perché descrive anche i dati sulla formazione delle
parole, ma anche meno coerente nel suo inquadramento sull’asse
del tempo, perché finisce per riunire all’interno di una sola opera
sia dei dati schiettamente proto-sincronici, come quelli sulla flessione, sia i dati sulla derivazione che, almeno per gli antichi, sono
primariamente proto-diacronici.
L’età classica
99
Insomma, l’antichità lascia in eredità agli studi linguistici successivi due problemi teorici molto complessi da identificare, ma piuttosto rilevanti. Da una parte, la confusione tra lingua e linguaggio;
dall’altra una sorta di “contesa” tra le grammatiche e le opere etimologiche e, all’interno delle grammatiche, tra la divisio latina e la
divisio graeca sui principi di pertinenza che legano i dati sui nomi
derivati ai diversi campi del sapere e, quindi, sul loro inquadramento rispetto all’asse del tempo. Apparentemente, entrambi i problemi
sono anacronistici, perché nessuno dei due viene mai discusso in
forma esplicita in questi secoli. Eppure, la percezione di questi problemi non è solamente moderna. Anzi, nei termini di Foucault (cfr.
n. 2 § I.3), si può dire che le diverse risposte che gli studiosi attivi
tra il Medioevo e l’Età dei Lumi daranno, ora alla confusione tra la
lingua e il linguaggio, ora all’inquadramento dei dati sui nomi derivati rappresentano l’“a priori logico” e le “condizioni di possibilità”
che determinano non solo tutta la storia successiva della nozione di
morfologia derivazionale, ma più in generale, tutti i mutamenti che
ha subito l’architettura del sapere linguistico tra l’antichità e Bopp.
CAPITOLO III:
DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ DEI LUMI
1. Introduzione
La seconda questione storiografica di cui vorrei occuparmi per
mostrare la relazione che intercorre tra la storia della morfologia
derivazionale e il problema del tempo riguarda il periodo compreso tra il Medioevo e l’Età dei Lumi o, più precisamente, il periodo
compreso tra il Medioevo e Adelung (1781; 1782; 1783). Anche
in questo caso, la scelta di un lasso di tempo così ampio dipende
da una questione di carattere generale che riguarda l’architettura
del sapere linguistico comunemente accettata in questi secoli, ma
che emerge in modo particolare se ci si concentra sulle grammatiche “filosofiche” prodotte tra la seconda parte del Medioevo e il
XVIII secolo.
Di norma, si ritiene che l’architettura del sapere linguistico vigente in questi secoli si articoli attorno a tre filoni di ricerca principali1: le grammatiche practicae; le grammatiche rationales; e gli
studi sull’origo linguae. Secondo questa ricostruzione, che risale
almeno a Jellinek (1913) e Padley (1976-1988), ma è accolta in
modo più o meno esplicito, ma tutto sommato concorde, da tutti i
manuali contemporanei di storia delle idee linguistiche, le grammatiche rationales formerebbero una linea di sviluppo sostanzialmente continua che comincia con le grammaticae speculativae dei
Modisti pubblicate tra il XII e il XV secolo, prosegue nel XVI secolo con le grammatiche razionali di Ramo, Scaligero e Sanzio, e si
conclude tra il XVII e il XVIII secolo, con le grammatiche generali
francesi da una parte, e le grammatiche “razionalistiche” tedesche
di Scottelio e di Adelung dall’altra.
1
Per la nozione di architettura del sapere in generale, si veda la n. 2 § I.1. Per l’analisi concreta dell’architettura del sapere linguistico tra la fine del Medioevo e
l’Età dei Lumi, si vedano Dubois (1970), Tavoni (1990) e Simone (1990).
102
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
È facile trovare le tracce di questa idea vulgata nei manuali contemporanei. Padley (1976, pp. 58 ss.), ad esempio, riunisce in un
unico capitolo Ramo, Scaligero e Sanzio, trascurando le differenze
di approccio, anche profonde, che separano Ramo da una parte e
Scaligero o Sanzio dall’altra. Nello stesso modo, Robins (1997, pp.
131 e 146) tratta Scaligero come un continuatore dei Modisti; Seuren (1998, pp. 46-7), seguendo Padley (1988, pp. 269 ss.), vede Arnauld e Lancelot come dei semplici eredi di Sanzio; Jellinek (1913,
p. 66) e Padley (1985, pp. 224-231; 1988, pp. 267, 306 ss.) fanno
rientrare i lavori di Scottelio e, in buona parte, anche di Adelung nel
filone delle grammatiche “filosofiche”, “universalistiche” o “razionalistiche”, e così fa anche McLelland (2011), al netto di qualche
precisazione. E Itkonen (1991, pp. 259 ss. e 271 ss.) semplicemente ignora le grammatiche di Scottelio e Adelung, circoscrivendo la
grammatica “filosofica” a quel filone di studi che unisce i Modisti a
Port Royal, passando per Scaligero e Sanzio.
In certi casi, questa vulgata viene temperata distinguendo una
tradizione latina e delle vernacular grammars che possono essere
parzialmente diverse da paese a paese, come fa, ad esempio, Padley
(1988). E non c’è dubbio che, tra le varie tradizioni “vernacolari”,
spicca in modo particolare la grammatica tedesca, che sembra essere dotata di alcuni tratti specifici che non si lasciano facilmente
ingabbiare nell’etichetta canonica di “grammatica pratica” né in
quella di “grammatica razionale”2: alcuni studiosi, infatti, hanno
proposto di vedere nell’opera di Scottelio e soprattutto nella sua
teoria sui Wurzelwörter i tratti più salienti delle grammatiche “razionali” tedesche, anche se la “razionalità” della nozione di parola-radice e di queste grammatiche tedesche ha ben poco in comune
con la “razionalità” della grammatica francese del XVII-XVIII secolo, al di là del termine “razionale” (così, ad esempio, Faust 1981
e Güzlaff 1989a; 1989b, la cui tesi è stata ripresa recentemente da
McLelland 2010; 2011).
2
Qualsiasi storia delle grammatiche tedesche, come quelle di Jellinek (1913),
Moulin-Frankhänel (2000) e, in parte, Gardt (1994; 1999), implica de facto
la presenza di una qualche specificità della grammatica tedesca che non è
riducibile alle categorie tradizionali di “grammatica generale” e di “grammatica pratica”. Ed è vero che il termine “generale”, se riferito alle grammatiche
“generali” di Vater (1801; 1805) ha un senso molto diverso di quello che lo
stesso termine ha se si parla di Arnauld e Lancelot (Spitzl-Dupic 2003).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
103
Nel seguito di questo capitolo, però, vorrei cercare di mostrare
che non è tanto il caso di temperare una vulgata storiografica in
sé sostanzialmente corretta, ma piuttosto di mostrare che tutta la
vulgata opinio secondo cui l’architettura del sapere linguistico tra
la fine del Medioevo e l’Età dei Lumi sarebbe composta da tre comparti di ricerca principali (i.e. grammatiche pratiche, grammatiche
“filosofiche” o “razionali”, e opere sull’origine del linguaggio), ovvero che le grammatiche “filosofiche” esprimerebbero una linea di
ricerca sostanzialmente continua e che le grammatiche vernacolari
sarebbero divisibili su base primariamente geografica (i.e. Francia
vs. Germania), dipende da un malinteso storiografico o, quanto
meno, da una certa superficialità nell’analisi delle grammatiche “filosofiche”, del loro inquadramento sull’asse del tempo e, soprattutto, del modo in cui interpretano la nozione di derivatio.
2. Lessicografia, etimologia, ontologia e derivazione nel Medioevo
Come abbiamo visto, quanto meno a partire dall’età imperiale
tutta l’architettura del sapere linguistico si fonda su due domini di
ricerca principali, le opere etimologiche e le grammatiche, e ciascuno di questi due gruppi di opere propone un diverso approccio allo
studio dei nomi derivati: i grammatici classificano la forma delle
parole presenti nel lessico sulla base delle loro terminationes, ma a
prescindere dalla loro origine, e gli etimologisti si occupano dell’origine delle parole e delle loro terminationes. Questo tipo di organizzazione del sapere si continua senza grandi modifiche strutturali
nell’alto Medioevo. Gli interessi etimologici che erano finiti un po’
in secondo piano durante l’età imperiale, però, nella tarda antichità
trovano un nuovo vigore.
Probabilmente, il nuovo interesse etimologico nasce in parte dalle
pratiche etimologiche tipiche dell’onomastica sacra che circolavano
nelle opere degli ebrei ellenizzati come Filone d’Alessandria o Giuseppe Flavio (Mancini 2018, p. 444), in parte dalla confusione tra
pensiero e linguaggio tipica della teoresi medievale3. In un passo mol3
Il rinnovato interesse per l’etimologia che si verifica nel primo Medioevo è
noto: si vedano, tra i vari, Klinck (1970) e Amsler (1989, pp. 59 ss., 63 ss.,
71 ss.). Grazie agli argumenta ab etymologia, infatti, i Padri della Chiesa
104
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
to famoso del De interpretatione (De int. 16a3 ss.), Aristotele dice
che le forme scritte (τὰ γραφόμενα) sono i simboli delle forme vocali
(τὰ ἐν τῇ φωνῇ), e che a loro volta, le forme vocali sono i simboli delle passioni dell’anima (παθήματα τῆς ψυχῆς); però, se le forme scritte
e quelle vocali sono diverse nei diversi luoghi del mondo, le passioni
dell’anima sono all’incirca le stesse per tutti gli uomini. I commentatori medievali, che leggevano le opere di Aristotele in latino, alla
luce dell’ontologia neoplatonica e della metafisica cristiana, intesero
questo e simili passi come se Aristotele stesse sostenendo che la variabilità delle espressioni foniche e grafiche rappresentasse l’aspetto
superficiale di una sostanziale identità tra il linguaggio, il pensiero
e l’essere nell’anima dell’uomo, anche se, in realtà, Aristotele non
aveva mai detto, né probabilmente mai pensato una cosa del genere4.
Anche se filologicamente scorretta, l’identità tra pensiero, linguaggio
ed essere che i commentatori attribuivano ad Aristotele, però, incentivava l’interesse per l’etimologia. Se, come diceva Ammonio, nomina
quidam existentiam significant rerum (Comm. in Ar. de int. § 2, nella
traduzione di Guglielmo di Moerbka, cfr. Verbeke 1961: 57), allora
determinare l’origine di un nome poteva davvero svelare l’adeguatezza ontologica dell’oggetto nominato: dum videris unde ortus est
nomen, citius vim eius intellegis (Isidoro, Or. I.29.4) e, specularmente, nisi enim nomen scieris cognitio rerum perit (Isidoro, Or. I.7.1).
4
riuscivano a trovare nei testi pagani quelle verità cristiane che gli antichi
potevano esprimere soltanto in forma allegorica (Amsler 1989, pp. 87-93,
123 ss., 141 ss.).
Il passo è il seguente: ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ. Καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα
πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φοναὶ αἱ αὐταί. Ὧν μέντοι πρῶτον, ταὐτά πᾶσι παθήματα
τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα, πρᾶγμα ἤδε ταὐτά. Sulla distinzione tra
categorie dell’essere e categorie del linguaggio in Aristotele, si vedano Belardi (1975, pp. 38-61) e Itkonen (1991, pp. 175 ss.); per la loro confusione nei
commentatori di Aristotele, si vedano Isaac (1956), Bursill-Hall (1971, pp. 133
ss.), Di Cesare (1980, pp. 160 ss.), de Rijk (1981), Arens (1984, pp. 71 ss., 171
ss.), l’antologia curata da Braakuis, Kneepkens et al. (2003) e Alfieri (2014). In
particolare, l’idea secondo cui il discorso vocale sarebbe una copia imperfetta
di un discorso perfetto che ciascuno agisce nella sua anima universale (il cosiddetto gr. ἐνδιάθετος λόγος, lat. verbum cordis) risale a Plotino (ὅ ἐν τῇ φωνῇ
λόγος μίμημα τοῦ ἐν τῇ ψυχῇ, En. I.2.3), e torna in Ammonio e Agostino (Busse
1897, p. 57, Arens 1980 e Rosier-Catach 2009) e in Boezio di Dacia (Pinborg
& Roos 1969, pp. 3-6). Sulla scarsa conoscenza del greco da parte degli autori
latini medievali, da ultimo si veda la ricca analisi di Deneker (2017, pp. 13 ss.).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
105
Nonostante il rinnovato interesse per l’etimologia, però, l’analisi empirica dei nomi derivati non riscuote un particolare successo
in questi secoli. Isidoro di Siviglia, ad esempio, tramanda al Medioevo tutto il patrimonio sapienziale di tipo “stoicheggiante” che
faceva da sfondo all’etimologia antica, ma non include in questo
patrimonio l’analisi empirica dei nomi derivati che, per Varrone,
rappresentava un tassello irrinunciabile dell’etimologia. In altre
parole, Isidoro cita l’opposizione tra nomina derivativa (o paragoga) vs. principalia (o prototypa) in tre o quattro passi delle sue
Origines, ma si limita a citare le categorie classiche di species e
figurae, senza darne alcuna analisi (i.e. Or. XVII.5.9 e XX.9.7).
Tra l’altro, gli esempi di derivazione scelti da Isidoro per esemplificare species e figurae sono indicativi dello stesso cambiamento
di prospettiva che si nota nei commenti ad Aristotele: oltre al caso
tipico di montanus ‘montano’ da mons ‘monte’ (Or. I.7.8), che era
uno degli esempi più tipici di derivazione già nei grammatici romani, Isidoro cita soprattutto dei casi di derivazione “semantica” (i.e.
sensu e non litteratura, per dirla con Biondi 2014; 2018), ovvero
dei casi in cui un nome “più specifico” viene derivato da un nome
“più generale” per ragioni di adeguatezza ontologica dei rispettivi
significati, anche se il nome primitivo, dal punto di vista formale,
è “più lungo” del nome derivato corrispondente, come nei casi di a
bonitate bonus et a malitia malus, ma anche di homo ab humanitate
e di sapiens a sapientia (Or. II.26.4 e X.1, cfr. n. 19 § II.4.1, n. 41
§ II.6 e n. 81 § II.9.2).
Lo stesso tipo di approccio, più filosofico che grammaticale o, al
massimo, più interessato all’adeguatezza ontologica dei referenti
e all’etimologia remota, che all’analisi tecnica dei nomi derivati,
si ritrova in quasi tutti gli studiosi del Medioevo. Nelle Categorie
(1a12 ss.), Aristotele aveva definito il nome παρώνυμον, ossia il
nome ‘derivato’ o ‘denominativo’, come γραμματικός ‘grammatico’
rispetto a γραμματική ‘grammatica’ e ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ rispetto ad ἀνδρεία ‘coraggio’ (cfr. § II.4.1). Boezio, nel suo commento
alle Categorie, traduce παρώνυμον con denominativum e dice che,
perché ci sia effettivamente “partecipazione” del nome di base in
un suo derivato, sono necessarie tre condizioni: partecipazione del
nome derivato nella cosa significata, partecipazione del nome derivato nel nome (i.e. partecipazione alla stessa “radice”), e la presen-
106
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
za di un qualche tipo di cambiamento tra il nome e il suo derivato5.
Anselmo d’Aosta traduce il denominativum di Boezio con sumptum
e aggiunge che i nomina sumpta condividono la significatio con
il loro nome di base ma non la loro appellatio: albus e albedo, in
questo quadro, “significherebbero” la stessa cosa, ma la “appellerebbero” secondo un diverso modus (il termine come vedremo sarà
fondamentale per lo sviluppo della successiva grammatica modistica, cfr. § III.5); inoltre, aggiunge Anselmo, poiché albedo ‘biancore’ indica una nozione più generale di albus ‘bianco’, è albus che è
derivato da albedo e non viceversa (De gram. 14-5 = Schmitt 1946:
155-6). All’interno della disputa sugli universali, Abelardo riprende
la questione sollevata da Anselmo e aggiunge che albedo indica la
nozione di ‘biancore’ secondo la categoria della sostanza, mentre
albus indica la stessa nozione di ‘biancore’ ma de forma adiacente
(GSCat = Geyer 1919, p. 116.3 ss.), ovvero secondo la categoria
della qualità accidentale, e conclude che i nomina sumpta, come
grammaticus e albus sono derivati dalle qualità accidentali degli
enti (GSPer IIII.1.3 = Geyer 1919, p. 311.14 ss.)6.
L’idea di derivare nozioni “semanticamente” più specifiche da
nozioni “semanticamente” più generali, anche a prescindere dalla forma effettiva dei significanti che veicolano queste nozioni, è
perfettamente coerente con la nuova filosofia sostanzialista del Medioevo, ma è chiaramente diversa dall’idea che era alla base della
definizione del nome παρώνυμον in Aristotele. Le Notae Dunelmenses, quindi, cercano di ricomporre il contrasto tra i due approcci, spiegando che Aristotele e i filosofi avrebbero derivato albus da
albedo, respiciens ad causas rerum, ovvero tenedo presente la verità ontologica degli enti nominati, mentre Prisciano e i grammatici
avrebbero derivato albedo da albus, respiciens quasi ad origines
5
6
Cfr. prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam nominis
transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim quaedam
fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis participationem,
fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio, fortis enim et fortitudo
non eisdem syllabis terminantur (PL 64, 168A). Per un commento al passo, si
vedano Henry (1964, pp. 80-82), Maierù (1972, pp. 54 ss.), Ebbesen (1988),
Rosier-Catach (1992, pp. 78 ss.) e Kelly (2002: 82-3).
GSPer III.1.3 (= Geyer 1919, p. 311.14): sumpta sunt a quibusdam proprietatibus non substantialibus ita nec eorum definitiones non secundum substantia
facta sunt, sed secundum quasdam proprietates accidentales. Un’idea simile si
ritrova in Guglielmo di Conches (Fredborg 1973, pp. 7-11; 1977, p. 36 n.).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
107
et informationes vocabulorum, ovvero considerando l’origine delle
parole e la loro forma esterna (ad lii. 15, mss. Durham, Cathedral
Library C.IV 29, cfr. Ebbesen 1988 e Rosier-Catach 1992, p. 85)7.
La stessa idea torna, ancor più chiaramente, in Pietro Helia, che
distingue in modo netto nomina derivata e nomina sumpta (aliud
est derivari, aliud sumi): i nomina derivata riguardano i grammatici e dipendono dalla forma esterna dei nomi, mentre i nomina sumpta dipendono dal significato e, quindi, riguardano i filosofi; in
altre parole, dal punto di vista grammaticale prudentia è derivato
da prudens, perché ha più sillabe, ma dal punto di vista filosofico
è prudens che deriva da prudentia, perché la qualità generale della
prudenza necessariamente pre-esiste la presenza di un particolare
uomo prudente (Summa super Priscianum = Reilly 1972, ad Il, 28,
mss. Ars 711 f. 23rb, cfr. Rosier-Catach 1992, p. 85)8.
L’eco di questo tipo di discussioni sulla differenza tra nomi derivati e nomi sunti, ovvero tra derivazione semantico-ontologica
e derivazione linguistico-formale, emerge bene nella lessicografia
medievale, dove però il problema acronico-metafisico della derivazione semantica si mescola con la prospettiva pancronico-ontogenetica tipica dell’antichità.
Nell’Elementarium di Papia (XI d.C.), nel Liber derivationum
di Osberno di Gloucester (XII d.C.), nelle Derivationes di Uguccione da Pisa (XII d.C.) e nel Catholicon di Balbi (XIII d.C.) tutta
la lingua latina sembra essersi effettivamente costituita a partire da
un certo numero di primae voces, che Uguccione da Pisa chiama,
appunto, magnae derivationes. In questo quadro, la disciplina deri7
8
Cfr. Aristoteles enim dicit album denominari ab albedine, respiciens
ad causas rerum, Priscianus vero albedinem ab albo, respiciens quasi ad origines et informationes vocabulorum.
La tesi di Pietro Elia torna anche in Alain de Lille (Summa quoniam
homines = Glorieux 1954, p. 150): Eorum vero quae per causam de
Deo dicuntur, alia sunt principalia, alia sumpta. Principalia, ut misericordia, pietas, iustilia; sumpta ut pius, iustus, fortis. Principalia
autem quia magis spectant ad simplicitatem quam sumpta, minus improprie dicuntur de Deo quam sumpta; unde minus improprie dicitur
esse pietas quam pius. Quare in theologia sumpta exponenda sunt per
principalia, ut pius id est pietas non pietas id est pius. In naturalibus
vero, quia naturalia ad compositionem spectant, principale exponitur
per sumptum, ut daunus est ipsum scelus, id est maxime sceleratus.
Per un commento, si veda Rosier-Catach (1992, p. 82).
108
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
vationis rappresenta la scienza che consente di riportare ogni parola
alla sua origine, riscoprendo le relazioni profonde che legano tra
loro le primae voces e i loro derivati, ovvero i nomi e le cose di cui
quegli stessi nomi sono rappresentazione9. Papia (Elem., s.v. derivatio), ad esempio, ci racconta che queste relazioni possono essere
di tre tipi: sia formali che semantico-concettuali (i.e. litteratura et
sensu), ut ab aur[e]o aureus; solo formali (i.e. littera e non sensu,
ut a fero fere); oppure solo semantico-concettuali (i.e. sensu et non
littera, ut ab uno semel).
Chiaramente, il terzo tipo di derivazione apre un problema filosofico di un certo rilievo. Se è davvero possibile derivare sensu et
non litteratura, allora è possibile trascurare la forma esterna delle
parole per discutere la loro derivazione e sostenere, come facevano alcuni, che albus derivi da albedo, anche se albus ha una sillaba in meno di albedo o, addirittura, che mons derivi ab alto, come
dice dubitativamente Balbi (1490 [12861], col. 68). Sia Papia che
Balbi, in effetti, non si fidano completamente di queste derivationes, perché, secondo loro, qualsiasi tipo di derivatio, per essere
legittima, deve tener presente sia la significatio, sia l’imago vocis,
come dicevano già i grammatici latini10. Anche quando prende in
considerazione l’imago vocis, però, tutta la disciplina derivationis
9
10
Il Catholicon unisce il lessico e una breve grammatica, mentre le altre opere
citate sono dei lessici ordinati per parole primarie. Questa linea di studi fu
condannata aspramente dagli Umanisti, a partire dal Valla, ma fornì i primi
modelli per i vocabolari del ‘500. Sul tema, si vedano Sharpe (1996), Holtz (1996), Codoñer (1996; 1998), Senekovic (2006) e Loporcaro & Stoltz
(2006). Per la definizione della disciplina derivationis, si veda ad esempio
il grammatico irlandese Scottus (IX d.C., In Eut., 101, 86-90, cfr. Löftstedt
1977): sed hanc ob causam disciplina derivationis reperta est, propter scilicet cognitionem rerum. La stessa tesi torna in Balbi (1490 [12861], col. 1),
secondo cui l’etimologia indica, come dice il nome stesso, il verus sermo
nascosto in ogni termine.
Papia dice esplicitamente che pars quae in numero syllabarum crescit ipsa
deriuetur (Elem., s.v. derivatio) e la stessa tesi compare in Balbi (1490
[12861], col. 68) e nel grammatico irlandese Muretach (IX d.C., In Don. II,
61.43-59, cfr. Holtz 1977): omne diriuatiuum nomen plures habere debet
syllabas quam primitiuum illius in modum riuuli decurrentis et crescentis a
fonte. Papia, ripreso da Balbi, quindi, cerca di rimettere d’accordo derivazione sensu e litteratura dicendo che albedo derivava da albus, non perché
albus è “più breve”, ma perché albus può applicarsi a più referenti (oggi diremmo: ha un significato più generale o una maggiore estensione semantica
rispetto ad albedo).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
109
di questi secoli sovrappone derivatio ed etymologia, e identifica
l’etimologia con l’etimologia remota, ossia con quella parte della
teoria etimologica antica che, fin dalle origini, era più adatta a
rappresentare una vera e propria “ontologia semantica”. In questo
quadro, il termine derivatio può essere rubricato nei lessici sotto
il nome rivus ‘torrente’ (per il tramite del verbo derivo) come fanno Osberno di Gloucester e Balbi, ma può essere rubricato anche
sotto ruo ‘slanciarsi, correre verso’ come fa Uguccione, perché,
in effetti, la derivatio rappresenta la formazione di una serie di
parole-fiume che “si slanciano” da una parola-fonte.
Se poi si volesse andare in cerca di una qualche differenza concettuale tra derivazione ed etimologia in questi secoli, si potrebbe
dire, seguendo Balbi (1460 [12861], col. 67) – che, a sua volta,
riprende Varrone – che tutti i nomi possono essere etimologizzati,
ma non tutti possono essere derivati, perché le magnae derivationes non derivano da nessuna fonte, ma sono loro le fonti di
tutte le parole latine11. I due tipi di derivazione-etimologia, però,
non sono molto diversi nella pratica, dato che nei lessici di questi secoli compaiono fianco a fianco sia esempi di ciò che oggi
chiamiamo derivazione, come derivatio da rivus, sia vere e proprie etimologie, come economus da eco ‘eco’ o da ycon ‘icona’ in
Uguccione (Cecchini et al. 2006: II, pp. 26.2-4) o acetum ‘aceto’
da acidum o acquidum, perché l’aceto ha un sapore acido e si
ottiene facendo fermentare una mescola di acqua e vino (Cath.,
s.v. acetum).
Insomma, la teoria etimologica antica resta immutata nella sua
architettura generale nei primi secoli del Medioevo. L’attenzione
all’adeguatezza ontologica dei nomi e il problema delle derivazioni
“semantico-ontologiche” , però, determinano un interesse rinnovato per l’etimologia “profonda” e una parallela riduzione di interesse
per tutti gli aspetti ontogeneticamente più recenti dell’etimologia
che coinvolgevano l’analisi empirica dei nomi derivati e che erano
così centrali nell’opera di Varrone.
11
Sulla metafora fons/rivus per descrivere la derivatio nei grammatici medievali, oltre che sulla differenza tra derivare (da *de-rivo) ‘rivum de fonte ducere’ e dirivare (da *dis-rivo) ‘fontem in diversos rivos ducere’ in questi secoli,
si veda Biondi (2014; 2018, pp. 50-3).
110
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
3. Grammatica e derivazione nel Medioevo
Mentre i commentatori di Aristotele e i primi Padri della Chiesa
recuperano gli interessi etimologici antichi all’interno di un nuovo quadro filosofico basato sulla sostanziale isomorfia tra nomi e
cose, la frammentazione linguistica della Romània e l’affermazione dei regni romano-barbarici avrebbero potuto aprire uno spiraglio nel rigido monolinguismo dell’età classica. La forte somiglianza tipologica tra le lingue romanze e le lingue germaniche e
l’idea della grammatica latina come “norma immutabile”, però,
consentono agli studiosi di continuare ad utilizzare lo schema descrittivo messo a punto da Donato e da Prisciano senza apportarvi
modifiche sostanziali.
In generale, in questi secoli, l’autorità dei grammatici non è
messa in discussione e gli studiosi si limitano a compilare glosse e
commenti soprattutto sull’Ars maior di Donato, fino al VII secolo
d.C., e soprattutto sulle Institutiones di Prisciano tra il VIII e il XII
secolo d.C.12. L’analisi di species et figurae, quindi, resta un tema
sostanzialmente marginale, in particolare se si guarda alle regulae
più semplici e alle elementary grammars (nel senso di Law 1982, p.
52), che si limitano a insegnare quei primi rudimenti del latino che
sono necessari per la lettura autonoma della Scritture. L’Ars breviata di Sant’Agostino (VI d.C., cfr. Weber 1861), ad esempio, liquida le figurae in 7 righe e omette completamente le species, mentre
Isidoro, come abbiamo già ricordato, accenna appena a species e
figurae nelle Origines (cfr. § III.2).
Anche nell’alto Medioevo, quando Prisciano è più letto (ossia,
più copiato) di Donato, l’analisi dei nomi derivati, fatta salva qualche eccezione, resta più vicina a quella donatiana, almeno rispetto
alla quantità di informazioni fornite dai grammatici. Le Excerptiones de Prisciano (Porter 2002, pp. 88 ss.), ad esempio, descrivono
con una certa cura i diversi tipi di nomi derivati, anche se non si
12
Se fino al VII secolo l’Ars maior di Donato è più copiata delle Institutiones
di Prisciano e, anzi, di Prisciano si conosce quasi solo l’Institutio de nomine,
tra il VII e il XII secolo il rapporto si inverte (Law 1982, pp. 53 ss.; 1997,
pp. 60 ss., 136-140; Amsler 1989, p. 233). Anche nel Rinascimento, inoltre,
si sono conservati assai più manoscritti delle Institutiones che dell’Ars (GL
II.xxiii-xxiv; Padley 1976, pp. 16-39). Sulla fortuna di Donato nel primo
Medioevo, si veda Holtz (1981, pp. 219 ss.).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
111
interrogano sui rapporti formali che legano i nomi primari e i loro
derivati. E Balbi, nel Catholicon (1286), isola quasi tutte le terminationes del latino, descrive i tipi principali di nomi derivati e
si interroga su quali siano, in pratica, le forme di base da cui si
traggono i nomi derivati (p.es. il participio futuro in -rus dal supino, cfr. Balbi 1490 [12861], col. 67). Gli stessi dati, però, sono
quasi del tutto assenti dalla grammatica anglosassone di Ælfric, che
pure si fonda sulle Excerptiones de Prisciano (Zupitza 1880, pp.
11 e 211), e sono completamente esclusi da tutte le artes tedesche
del XV-XVI secolo riportate nell’antologia di Müller (1882), come
l’Exercitium puerorum grammaticale (1491) o il Tractatulus dans
modum teutonisandi casus et tempus (1541, cfr. Müller 1882, pp.
19 ss. e 239 ss.).
Insomma, l’analisi empirica dei nomi derivati è un argomento
ormai tradizionale dato che compariva, pur se con una ampiezza
diversa, sia nell’opera di Donato che in quella di Prisciano. Però,
certamente non si tratta di un tema che attira l’attenzione degli studiosi del Medioevo in modo particolare; anzi, in qualche caso sembra che questo tema si possa escludere completamente dall’analisi
grammaticale, come se si trattasse di un tema che non riguarda o
che riguarda poco la descrizione linguistica sincronica.
4. Origine del linguaggio, etimologia e derivazione tra il Medioevo e il Rinascimento
L’etimologia antica era una teoria “pancronica”, perché confondeva totalmente la genesi di una lingua e la genesi del linguaggio,
ma era pur sempre una teoria “particolare”, nel senso che cercava
di arrivare alla genesi del linguaggio attraverso l’analisi di questa
o di quella parola specifica di questa o di quella lingua particolare.
A partire già dal I secolo d.C. e, con frequenza maggiore, tra il III
e il VI secolo d.C., però, anche il problema dell’origo linguae comincia a presentarsi agli studiosi del Medioevo sotto una luce “più
generale”, che è molto diversa da quella antica, ma è perfettamente
coerente con l’interesse medievale per tutti gli aspetti “profondi”
dell’etimologia.
Secondo il Genesi (II.1-9), Dio avrebbe dato un linguaggio perfetto ad Adamo, nomoteta e primo parlante della lingua originaria,
112
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ma avrebbe poi diviso le lingue in seguito alla rivolta scoppiata durante la costruzione della Torre di Babele13. Per i Padri della Chiesa,
come Filone di Alessandria, Origene, San Girolamo, Agostino ed
Eusebio, quindi, è perfettamente plausibile, se non quasi certo, che
l’ebraico, che è la lingua della Bibbia, o anche qualche altra lingua
semitica, come l’arabo o il siriaco, sia la lingua umana originaria
dell’Eden da cui sono nate tutte le lingue umane, ed è possibile
utilizzare la genealogia di Noè (Gen. X.1-32) come base per la classificazione di tutte le lingue parlate in Europa14.
In questo quadro alcuni studiosi, invece di dedicarsi all’etimologia delle singole voces di una lingua particolare, iniziano a interrogarsi sull’origine del linguaggio in generale, quindi cercano
di stabilire quale sia la lingua umana più antica, ovvero quella che
conserva al suo interno la maggiore quantità di radices primigenie
della lingua adamitica originaria. Due sono le ipotesi principali. Secondo Postel (1538a; 1538b, f. B1r, D5v-E1r, E5r ss.), Bibliander
(1548, pp. 2-4, 36 ss., 142) e Gessner (1555, f. 2v, 3r), che seguono
la tradizione dei Padri della Chiesa, è l’ebraico la lingua originale,
sia perché l’ebraico è la lingua della Bibbia, sia perché si sa che
le lingue semitiche hanno delle radici comuni, che probabilmente
sono ciò che resta delle primae voces adamitiche.
Già alla fine del ‘500, però, un’altra ipotesi si affianca alla “teoria
semitica”: Goropio Becano (1569), Stevin (1586, pp. 67-79) e Scriechio (1614), cercano di dimostrare che non è l’ebraico la lingua
13
14
Sul Genesi si vedano Belardi (2002: I, pp. 470 ss.; II, pp. 213 ss.), Aarsleff
(1984 [19821], pp. 132 ss.), Rosier-Catach (2016) e Deneker (2017, pp. 25
ss. e pp. 57 ss.). I primi riferimenti al mito babelico compaiono in Filone di
Alessandria (I d.C.) e Origene (II-III d.C., cfr. Amsler 1989, p. 95), in San
Girolamo (IV-V d.C., Lindner 2016a, p. 26), Agostino ed Eusebio (VI d.C.),
ma gli autori latini cristiani sono ancora poco studiati (Deneker et al. 2012;
Deneker 2017). Proprio grazie ad essi, però, il mito babelico arriva a Dante
(Belardi 1985, pp. 261 ss.; 2002: I, pp. 392 ss.).
Le Scritture non identificano mai l’ebraico con la lingua edenica. Tra i Padri
della Chiesa, quindi, si verifica un dibattito tra chi identifica la lingua edenica
con l’ebraico e chi la identifica con il siriaco o l’arabo (Droixhe 1978, pp. 3536 e Deneker 2017, pp. 57 ss.). L’utilizzo linguistico della genealogia di Noè
compare in Flavio Giuseppe (Droixhe 1978, pp. 69 ss.), Cassiodoro (Amsler
1989, pp. 95 ss.), Bibliander (1548, p. 42) e Scaligero G.G. (1610, Bonfante
1953-4, p. 687). Si noti, però, che gli aggettivi semitico, camitico e giapetico
per indicare delle famiglie linguistiche non sono attestati prima del XVIII
secolo (Lindner 2016b).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
113
originale, ma una qualche lingue germanica, come il Flemisch, il
Duytsch o addirittura una lingua belgica o “indo-scitica”, perché le
lingue germaniche conservano più radici monosillabiche (grondwoorden) dell’ebraico, del greco e del latino, o anche perché queste
lingue risalgono tutte alla mitica lingua gotico-cimbrica parlata da
Gomer, figlio di Aschenaz e nipote di Noè15.
All’interno di queste opere, che, nel loro complesso, rappresentano il primo nucleo della teoria “celtica” o “indo-scitica” sull’origine del linguaggio, compaiono alcune etimologie “remote” che
concettualmente sono analoghe a quelle che si trovavano in Varrone ed Isidoro. Secondo Goropio Becano, ad esempio, il nome dei
Sassoni sarebbe composto da due parole-radici fiamminghe, Sac e
Gun, che si sarebbero ritrovate nei nomi germanici Sack ‘causa’ e
Gunst ‘favore’ e, in origine, avrebbero significato ‘favorito dalla
causa prima, favorito da Dio’, dato che i popoli germanici, in realtà, sono i più favoriti da Dio16. L’analisi empirica dei nomi derivati,
però, almeno in questi primi secoli, non trova spazio nei lavori
dedicati all’origo linguae.
15
16
Sulla genesi della teoria “celtica” o “(indo)scitica” si vedano Borst (195759, pp. 123 ss.), Metcalf (1974; 2013, pp. 34 ss.) e Droixhe (1978, pp. 69,
79 e 87 ss.). Il confine tra le etichette di “celtico”, “(indo)scitico”, “gotico”,
etc., in questi secoli, è labile, come mostra il De lingua vetustissima Europae
scythoceltica et gothica (1686), che viene tradizionalmente attribuito a Jäger
(Metcalf 1966; 1974, pp. 252), anche se è un lavoro a quattro mani di Jäger
e Kirchmejer (Considine 2008). In ogni caso, il lavoro riprende un’ipotesi di
Boxhorn (1648) e Vossio (1666), secondo cui i termini scitico, celtico e gotico
indicavano la stessa lingua originaria (Droixhe 1978, pp. 92, 97, 30). È impossibile trovare un esatto equivalente del termine Duytsch, che indica l’olandese
insieme almeno al tedesco e, a volte, anche ad altre lingue germaniche. Le
prime ipotesi sull’esistenza di parole-radice nelle lingue germaniche risale
a Irenico (Germaniae exegesis, 1518), Batus Rhenanus (Rerum Germanicarum Libri Tres, 1531; cfr. McLelland 2010, p. 7) e Laurenzio Petri Gothus
(Strategema Gothici exercitus adversus Darium, 1559; cfr. Swiggers 1984,
p. 17). Per le teorie sull’origo linguae tra il 1480 e il 1580 in particolare, si
veda Demonet (1992). Sul termine grondwoord in Stevin e sui suoi rapporti
con la scuola di Leida, si veda McLelland (2011, pp. 49, 68, 107 ss.). Nelle
opere successive, Stevin arriverà fino a elencare 2170 radici monosillabiche
del Duytsch, 163 per il latino e 265 per il greco (McLelland 2010, pp. 10).
Le etimologie di Goropio erano aspramente criticate da Leibnitz, che conia il
verbo gropisieren ‘inventare strane etimologie’ (Droixhe 1978, p. 57 e Lindner 2016a, p. 28).
114
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
5. La grammatica speculativa dei Modisti
Inizialmente l’idea di un’isomorfia tra l’essere, il pensiero e il
linguaggio compare nei commenti ad Aristotele, negli argumenta
ab etymologia delle grammatiche e nelle omelie dei Padri della
Chiesa (cfr. n. 92, § II.9.3 e n. 3 § III.2). Nell’arco di alcuni secoli, però, la nuova metafisica pseudo-aristotelica e il complessivo
isomorfismo tra essere, pensiero e linguaggio che era implicito in
quella metafisica si diffonde anche nel campo dell’analisi grammaticale, dando vita a quella che Bursill-Hall (1971, p. 31) ha definito
la grammatical revolution dei secoli XII-XIV.
In quest’epoca, si definisce per la prima volta un nuovo filone
di studi linguistici al cui interno “the only method of research was
to derive and justify rules of grammar from systems of logic and
metaphysical theories on the nature of reality” (Robins 1957, p.
57). Per Sigier de Courtrai (XIV d.C.), ad esempio, Dio ha stabilito le partes orationis in base alle proprietà ontologiche delle cose
del mondo: rerum proprietatum partes orationis invicem distinguuntur (Wallerand 1913, p. 93)17. Altri studiosi, come Tommaso
di Erfurt (XIV d.C.), Pietro Elia (XI-XII d.C.) o Robert di Kilwardby (XIII d.C.) credono che la corrispondenza tra le partes orationis e le cose del mondo non sia diretta, ma sia mediata dai modi
significandi, ovvero dai modi con cui l’intelletto umano imperfetto significa le cose: non distinguuntur partes orationis secundum
distinctione rerum, sed secundum modi significandi18. In entrambi
i casi, il rapporto tra le parole e le cose, tra l’essere e il linguaggio
viene percepito, se non come un’identità diretta, almeno come una
17
18
La stessa teoria torna nelle Notae Dunelmenses (XIII d.C., cfr. Hunt 1980, p.
19, n. 4). Sui legami tra la grammatica speculativa, la logica scolastica e la
lessicografia medievale, si veda Bartòla (1996). Sulle Notae Dunelmenses si
vedano, Grondeux & Rosier-Catach (2017). Sull’isomorfia tra nomi e cose
che è alla base della grammatica speculativa del Medio Evo, si veda Itkonen
(1991, pp. 232 ss.).
La citazione proviene da In minore Prisciani di Robert di Kilwardby (Pinborg
1967, p. 48). Sulla teoria dei modi significandi, da cui viene il nome “Modisti”, si vedano Pinborg (1967, pp. 19 ss.), Rosier-Catach (1984, pp. 45 ss.) e
Maierù (1990, pp. 117 ss.). Sulla grammatica speculativa in generale, si vedano Bursill-Hall (1971), Rosier-Catach (1983, 2010), Ambrosini (1984), l’antologia curata da Buzzetti & Ferriani (1987), Marmo (1994) e Kelly (2002).
Sulla terminologia logica della tarda scolastica, si veda Maierù (1972).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
115
sostanziale isomorfia, e le tre partes orationis principali (nome,
verbo e aggettivo) appaiono come la trasposizione linguistica (più
o meno diretta) delle tre categorie ontologiche universali di sostanza, azione e qualità19.
In questo quadro, che sembra puramente “aristotelico” ma in
realtà è profondamente innovativo dal punto di vista filosofico, si
sperimenta anche un nuovo tipo di opera grammaticale. Le grammaticae speculativae (o regulares) di questi secoli in apparenza
descrivono il latino, come facevano le grammaticae practicae di
Donato e Prisciano, ma in realtà si propongono di studiare tutto
il meccanismo di funzionamento del linguaggio come facoltà universale, attraverso l’analisi empirica dei dati linguistici del latino.
In altre parole, le grammaticae speculativae pubblicate tra il XII e
il XV secolo, diversamente da tutte le grammaticae practicae (o
particulares o (im)positivae) dell’età antica e tardo-antica, non mirano tanto a descrivere una lingua particolare, pur nella convinzione
ingenua che tutte le lingue siano uguali secundum substantiam (cfr.
§ II.12.1), ma si propongono direttamente di identificare e di descrivere le proprietà universali di tutte le lingue – ovvero, la substantia
universale del linguaggio – attraverso la descrizione di una lingua
particolare (in questo caso, del latino)20.
Le due prospettive, ad uno sguardo superficiale, possono sembrare simili, così come sono simili i dati empirici descritti dalle
grammatiche pratiche latine dell’antichità e dalle grammatiche
speculative. Ad uno sguardo più attento, però, i due tipi di opere
19
20
Questa tesi compare in Tommaso di Erfurt (Bursill-Hall 1972, p. 206), Pietro
Elia (Thurot 1868, p. 124), nelle Glosule super Priscianum Maiorem (Hunt
1980, p. 126), Sigier de Courtrai (Wallerand 1913, p. 108), Michel de Marbais (Thurot 1868, p. 181) e Pietro Ispano (Hunt 1980, pp. 25, 27, 110);
per un commento, si vedano Auroux (1988; 1989) e Alfieri (2014: 161 ss.).
Questa tesi incontrò anche delle resistenze (come quelle di Abelardo, di Aurifaber e Rodolfo il Bretone, su cui cfr. rispettivamente Pinborg 1967, pp.
215 ss.; Maierù 1986, pp. 159 ss. e Alfieri 2006, pp. 88-91), ma rappresentò
comunque la visione dominante per tutto il medioevo.
La denominazione grammatica speculativa dipende dal titolo dell’opera di
Tommaso di Erfurt, Grammatica speculativa seu de modiis significandi (Bursill-Hall 1972). Sulle denominazioni grammatica regularis e (im)positiva, si
vedano Pinborg (1967, p. 105), Thurot (1869, p. 214) e Simone (1992, pp.
98-99). Sulla differenza tra grammatica speculativa e regularis si vedano
i manoscritti editi da Thurot (1869, pp. 122, 125) e Simone di Dacia (Rosier-Catach 1983, p. 24).
116
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
presentano delle differenze, a dir poco, qualificanti. Innanzitutto, i modisti credono che omnia idiomata sunt una grammatica,
come dice esplicitamente Boezio di Dacia (Mod. Sig. q. 92, p.
10.3-4), ripreso da Pietro Helia (Thurot 1868, pp. 124-5 e 127),
proprio perché sanno che il loro scopo non è soltanto l’analisi del
latino, ma lo studio della facoltà del linguaggio. Inoltre, rispetto
alle grammaticae practicae dell’età antica, le grammaticae speculativae presentano un inquadramento sull’asse del tempo più
nettamente e più consapevolmente acronico che fa da pendant al
loro evidente universalismo. Come ricorda Nicola da Parigi, per
descrivere il sermo ut quoddam abstractus a quodlibet sermone
secundum generales virtutes, la grammatica deve essere universale, ovvero identica per tutte le lingue e immutabile nel tempo:
quedam differentie et conditiones sunt impermutabiles et eedem
apud omnes […]; et in hiis impermutabilibus consistit grammatica regularis21.
Insomma, la differenza tra la grammatica practica e speculativa non riguarda tanto il tipo di dati empirici descritti, che sono i
dati del latino in entrambi i casi, ma la prospettiva di ricerca, ora
più generale, ora più particolare, attraverso la quale si affronta
l’analisi dei dati. Dal punto di vista meramente pratico, quindi,
le grammatiche speculative non mostrano delle differenze sostanziali rispetto alle grammatiche particolari dell’età romana. Tuttavia, al di sotto dell’apparente continuità, queste grammatiche
presentano alcune innovazioni importanti nell’analisi delle partes
orationis, nell’analisi sintattica e, soprattutto, nell’analisi della
derivazione e del suo inquadramento sull’asse del tempo22.
21
22
La prima citazione proviene da un manoscritto anonimo del 1240 edito da
Pinborg (1967, p. 26), la seconda è di Nicola da Parigi (1255 ca., cfr. Pinborg
1967, p. 27). Per un commento sul passo di Boezio di Dacia citato sopra, si
vedano Pinborg & Roos (1969, pp. 65 ss.), Rosier-Catach (1983, pp. 317 ss.)
e Marmo (1994, pp. 141). Sull’acronia della grammatica speculativa, si veda
Simone (1992, pp. 98 ss.).
Sulle innovazioni dei Modisti nella sintassi, cfr. Pinborg (1967, pp. 51 ss.),
Bursill-Hall (1971, pp. 57 ss.), Rosier-Catach (1983, pp. 139-198), Benedini (1995), Grondeux (2000), Kneepkens (2000) e Cotticelli-Kurras (2014,
2016, 2021). Sulle innovazioni presenti nella teoria modistica delle partes
orationis, si veda Alfieri (2014) e la bibliografia ivi citata.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
117
5.1 Il trattamento dei nomi derivati
All’interno di questa nuovo tipo di grammatica, più nettamente e
più consapevolmente acronica delle grammatiche dell’antichità, la
nozione di derivatio non indica più il processo pancronico di formazione del linguaggio a partire dalla lingua umana originaria, ma
viene completamente ridefinita in una chiave più compatibile con
l’inquadramento acronico della grammatica nel suo insieme.
Per i Modisti, infatti, il processo di derivazione non indica più
la formazione delle parole nel corso del tempo, ma indica piuttosto
la creazione dei concetti nella mente perfetta e immutabile di Dio,
ovvero nell’anima individuale degli uomini che partecipa della stessa eternità di Dio. Per Pietro Elia che riprende la discussione sui
paronimi vista in precedenza (cfr. § III.2), i lessemi albus ‘bianco’,
albet ‘è bianco’ e albedo ‘biancore’ indicano un unico concetto nella
mente di Dio e nella lingua incorrotta dell’Eden, dove i nomi e le
cose coincidono. Dopo la rivolta babelica, però, Dio ha punito il genere umano dividendo le diverse modalità con cui si può significare
il concetto unico ed eterno di ‘biancore’ nelle lingue imperfette degli
uomini. Così sono nati i paronyma (cfr. le nn. 19 § II.4.1; 41 § II.6;
81 § II.9.2; il § III.2): i nomi che condividono la stessa appellatio
del loro nome di base ma la significano secondo diverse modalità,
come albus, albet e albedo che derivano tutti dall’unico concetto
universale di ‘biancore’, ma si distinguono in base al loro modus significandi perché albet significa il biancore secondo il modo dell’essere, albedo significa il biancore secondo il modo della sostanza, e
albus significa il biancore secondo la modalità dell’accidente o della
qualità accidentale (Pietro Elia, Reilly 1975, pp. 121-2).
In questo modo, la nozione antica di derivatio, che riguardava
innanzitutto l’origine del linguaggio e l’etimologia, si trasforma in
una nozione semantico-metafisica che riguarda la formazione-creazione dei concetti e la natura delle cose rappresentate da quei concetti, data la sostanziale isomorfia tra i nomi e le cose su cui si
poggia tutta la metafisica medievale. Per Tommaso di Erfurt, ad
esempio, i nomina primae positionis non indicano i nomi semplici,
come mons, ma indicano i nomi che si riferiscono ai concetti primariae existentiae, ovvero ai concetti generali la cui esistenza non
è vincolata a quella di altri enti, come mons ma anche come albedo,
dato che il concetto “biancore” è il concetto generale, sovraordinato
118
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
rispetto ai concetti specifici significati da albus e albet. Sono, invece, secundae positionis, i nomi che indicano i concetti secudariae
existentiae, i.e. i concetti la cui esistenza è condizionata a quella di
altri enti di ordine più generale, come montanus ma anche come
albus (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 176)23.
All’interno di questa teoria semantico-ontologica si ritrovano le
nozioni tradizionali di species e di figurae, ma queste nozioni sono
ridefinite in accordo con il nuovo inquadramento acronico della derivatio. Species e figurae, insomma, non indicano più gli accidentia
che le parole hanno subito nel corso della loro evoluzione, ma indicano le proprietà ontologiche degli oggetti significati da quelle parole: species non a voce sumitur […sed…] a proprietate rei (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 176). Le species nominum, quindi,
sono cinque come le principali tipologie dei referenti dei nomi: la
prima è la species del nome comune, i.e. dei nomi che si possono riferire a più oggetti; la seconda è quella del plurale, i.e. dei nomi che
possono indicare più oggetti; la terza è quella del modus de altero
discendentis, i.e. del patronimico, come Priamides; la quarta è quella del modus diminuti ab alio, i.e. del diminutivo, come lapillus; e
la quinta, infine, è quella del nome che indica una collettività, come
populus (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 160)24.
Chiaramente, all’interno della grammatica modistica, esistono
anche posizioni più tradizionali sull’analisi dei nomi derivati. Ma
anche quelle posizioni, in ultima analisi, confermano il quadro teorico delineato sin qui. Siger de Courtrai, ad esempio, condivide con
Tommaso di Erfurt l’idea che il tratto qualificante dei nomi derivati
sia quello di essere ontologicamente più specifici dei nomi da cui
sono derivati, perché dipendono dalla proprietas determinandi vel a
nullo (se sono primitivi) vel ab aliquo (se sono derivati), ma liquida
23
24
La confusione tra etymologia nominum e etymologia rerum, in parte, si trova
già in Prisciano (GL II.2.462-3, cfr. § II.9.3), mentre la concezione semantico-ontologica dei nomi di prima e secunda positio risale a Porfirio (Pinborg
1967, pp. 37 ss. e 45 ss.). Per un commento su questa concezione semantico-ontologica della derivatio, si vedano Matthaios (1999, p. 259; 2004, p. 7),
Kaltz (2004, pp. 24 e 34), le nn. 19 § II.4.1; 41 § II.6; 81 § II.9.2; e il § III.2.
La stessa argomentazione è utilizzata per le figurae, che sono semplici o composte a seconda della natura della cosa nominata: figura sumitur a proprietate
rei non vocis (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, pp. 182-4). Lo stesso tipo
di interpretazione ontologica della species nominum, inoltre, viene riproposta
per le species degli aggettivi e dei verbi (Bursill-Hall 1972, pp. 216 e 226).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
119
tutto il problema delle species nominum in poco più di una decina
di righe e pochi esempi (Pinborg 1977, p. 4), perché come ha scritto
giustamente Marmo (1994, p. 259) “un’analisi meramente morfologica dei modi di significare non rientra nell’ambito di interesse dei
grammatici modisti”.
6. Le grammatiche “delle causae”
I Modisti si proponevano di produrre una grammatica filosofica,
ma in buona sostanza acronica. L’acronia, però, non è l’unico approccio possibile per una grammatica che tenga in considerazione
istanze di tipo filosofico. Nella seconda metà del XVI secolo, infatti, Scaligero (1540) e Sanzio (1587) riprendono alcune istanze
già presenti nella lessicografia medievale e nelle opere sull’origine
del linguaggio e propongono quello che, retrospettivamente, si può
considerare come il primo tentativo di produrre una grammatica
contemporaneamente filosofica, ma pancronica.
Ad un primo sguardo, il De causis di Scaligero (1540) e la Minerva di Sanzio (1587) non appaiono come opere particolarmente
innovative. Se si esclude qualche aspetto minimo, la struttura di
questi lavori coincide con quella delle grammatiche pratiche coeve
(cfr. § III.7). Scaligero (1540), ad esempio, identifica la sintassi e
lo studio delle figure retoriche (libro XII), dedica il libro III alla
teoria della conoscenza e il libro XIII all’etimologia, mentre Sanzio
(1587) esclude l’analisi delle lettere-suoni e dedica il libro IV allo
studio di tutte le figurae, sia retoricae sia etymologicae. In entrambi
i casi, però, la parte principale del lavoro riguarda le tre sezioni
canoniche di ogni grammatica edita tra il Rinascimento e l’Età dei
Lumi: le lettere-suoni (libri I e II nel De causis), le partes orationis
(libri IV-XI nel De causis, libro I nella Minerva) e la sintassi (libri
II e III nella Minerva). Anche dal punto di vista contenutistico, inoltre, le grammatiche delle causae non brillano per originalità, ma si
presentano come una summa di tutto il sapere linguistico accumulato tra l’antichità e il Medioevo. I dati linguistici analizzati coincidono con quelli descritti nelle grammatiche particolari; il quadro teorico di riferimento rimanda soprattutto all’aristotelismo medievale
e alla sovrapposizione tra l’essere, il pensiero e il linguaggio sui
120
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
cui si basava tutto il pensiero dei Modisti25. Le teorie etimologiche
riprendono la lezione dei filosofi Stoici, filtrata attraverso Origene,
Isidoro e il racconto biblico sull’ebraico come lingua originalis. Infine, è anche vero che la teoria linguistica di Scaligero, come quella
di Sanzio, è spesso “inclassable, et contradictoire” rispetto al gusto
moderno (Colombat 2007, p. 395).
Tuttavia, la concezione della grammatica che emerge da queste
opere – il loro a priori logico, per dirla con Foucault – è più originale
(e anche più coerente) delle singole teorie in esse contenute. Invece
di concentrare la loro attenzione sul funzionamento del latino o del
linguaggio, come fanno tutte le grammatiche precedenti, sia pratiche
sia speculative, Scaligero e Sanzio si occupano di studiarne le causae: ovvero, da una parte l’origo delle forme linguistiche latine (che,
in termini filosofici, rappresenta la loro causa originalis), dall’altra
la ratio che ha portato quelle forme ad essere così come sono (che,
negli stessi termini filosofici, rappresenta la loro causa finalis)26. Sia
i Modisti, sia gli studiosi delle causae, quindi, guardano i dati linguistici da una prospettiva sostanzialmente filosofica e razionalistica;
però, mentre i Modisti declinano la filosofia verso l’acronia della
metafisica scolastica, Scaligero e Sanzio la dirigono verso la pancronia tipica degli studi (antichi, ma anche medievali) sull’etymologia27.
25
26
27
Le relazioni tra Sanzio e i Modisti sono note (Breva-Claramonte 1983, p.
4). Quelle tra Scaligero e i Modisti sono discusse da Jensen (1990, pp. 160
ss.), e si possono facilmente verificare sulla base dei passi seguenti: vox est
nota, quae in anima sunt; nomen nota rei permanentis […] nomen est imago quaedam, qua quid noscitur […] quasi notamen; nomen est nota rerum
(1540, pp. 2, 134, 137). Ciò non toglie che ci siano anche delle differenze:
Scaligero crede nell’origine convenzionale del linguaggio (1540, p. 122) e
nella funzione conoscitiva dei sensi (1540, pp. 114-5); Sanzio, invece, crede
che il linguaggio abbia un’origine naturale (1587, p. 3) e i Modisti credono
che il linguaggio sia stato creato da Dio e la conoscenza non provenga dai
sensi. Sulla teoria linguistica di Scaligero, si veda Lardet (1990; 2003).
Sul significato tecnico-filosofico dei termini ratio, causa e origo, si vedano
Sanzio (1733 [1587], pp. 1-8) e Amsler (1989, pp. 141-6). Sul taglio filosofico implicito dello studio delle causae, si vedano Aarsleff (1974, pp. 105-9
ss.; 1984 [19821], pp. 198 ss.) e Breva-Claramonte (1983, p. 63 ss.).
Sanzio nasce a Salamanca, dove c’era una fiorente comunità ebraica, traduce
vari testi dall’ebraico (Breva-Claramonte 1983, pp. 18 ss.) e conosce discretamente la grammatica ebraica (1733 [1587], pp. 15-6). Poiché le prime opere
dedicate interamente allo studio dell’origo linguae in generale sono opera di
semitisti (si veda, ad esempio, Postel 1538b), è possibile che l’interesse di Sanzio per questo tema sia dipeso anche dai suoi legami con la cultura semitica.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
121
6.1 Il trattamento dei nomi derivati
A sua volta, l’inquadramento pancronico di queste opere porta
una nuova modalità di analisi per la derivatio.
Come dice la Bibbia, Dio ha creato il linguaggio perfetto dell’Eden, le cui ultime tracce restano nell’ebraico; dopo la dispersione
babelica, però, gli uomini hanno rinominato le cose del mondo in
base alla loro intima natura, come crede Sanzio (nomina & etymologias rerum ab ipsa natura fuisse depromptas, 1733 [1587], p. 3),
o in base alla volontà del primo inventore dei nomi, che è stata poi
ratificata da una successiva pattuizione, come crede Scaligero (arte
[…] non natura; cum nomina a rerum natura non fluxerint, recte
definimus, notam esse rerum Dictionem, ut libuit inventori, 1540, p.
122). In entrambi i casi, il processo di creazione-formazione del linguaggio post-babelico, che è chiamato, appunto, derivatio, comincia con la giustapposizione-composizione di due primitiva nomina,
prosegue con la corruzione di uno dei due membri di questi proto-composti e la sua trasformazione in una terminatio, e si conclude
con la definitiva concrezione della parola semplice, derivata o flessa
e la sua registrazione nel lessico come un blocco unico indivisibile
(compositionem […] quae pracedit ipsam concretionem, Scaligero
1540, p. 58)28.
La concezione filosofico-pancronica della derivatio proposta da
Scaligero e Sanzio non impedisce lo studio dei nomi derivati, ma
determina alcune differenze notevoli rispetto alla sua analisi nelle
grammatiche. Come avveniva già nelle grammaticae speculativae,
anche in questo caso la nozione di derivatio si riferisce al processo
di formazione dei nomi e rientra tra i compiti del filosofo, più che
tra quelli del grammatico (Scaligero 1540, p. 2)29. Anche in questo
caso, quindi, la derivatio nominum, i.e. la descrizione formale dei
nomi derivati, appare secondaria rispetto alla derivatio rerum, ovvero alla derivazione di un concetto particolare a partire da un concetto più generale, e dunque più primitivo, a prescindere dai legami
28
29
Scaligero non descrive tutta la teoria della derivatio, ma vi si riferisce di
scorcio in diversi passi (1540, pp. 58, 121, 146, 163, etc.).
A rigore, le affectiones vocum generali sono tre: formatio, compositio e veritas. La formatio e la compositio riguardano il grammatico, ma la veritas
riguarda solo il dialettico, ovvero il filosofo (Scaligero 1540, p. 2).
122
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
formali tra le parole che indicano i rispettivi concetti. Scaligero,
infatti, deriva senza difficoltà a Iustitia: Iustus; ab albedine: album;
a quantitate: quantum; e omnia verba a Deo, perché Deus è l’essere
potissimus (1540, pp. 146, 168, 121)30.
Diversamente da ciò che avveniva nelle grammatiche dei Modisti, però, il processo di derivatio a cui si riferiscono Scaligero
e Sanzio non indica il processo acronico di creazione dei concetti
nella mente di Dio, ma indica il processo pancronico di creazione
del linguaggio a partire dai primitiva nomina31. Se ci si concentra
sull’analisi di questo processo, e non sulle tracce che questo processo lascia nella forma esterna delle parole registrate nel lessico, la
composizione, la derivazione, la flessione e l’etimologia appaiono
solo come le diverse fasi logiche di un unico percorso evolutivo,
ed è possibile passare dall’etimologia all’analisi della derivazione
senza soluzione di continuità (Scaligero 1540, p. 121): Amaritudo
duceretur ab Amaro; Amarum a Mari: Mare unde derivabitur? ab
Hebraeo Marath32.
Anche in questo caso è possibile riprendere le nozioni tradizionali di species e figurae nominum e discutere il ruolo delle terminationes (species est per declinationem nominis, hoc modo per ter30
31
32
Una conferma della confusione tra derivatio nominum e derivatio rerum proviene dalla sezione sui nomina decomposita (1540, p. 162): Scaligero si chiede se i nomi composti devono sempre essere nomi di oggetti doppi o possono
anche indicare oggetti semplici, e conclude che, di norma, i composti indicano
gli oggetti doppi, ma ci possono essere eccezioni, perché la compositio può
sia essere vera (se è anche composizione di cose), sia non vera (se è una
composizione solo di parole). Ugualmente, Sanzio dice che figura dicta est a
fingendo, & fingere est exprimere imitatione rem veram (1733 [1587], p. 26).
Sanzio e Scaligero non descrivono interamente la teoria della grammaticalizzazione-giustapposizione dei nomi, ma vi si riferiscono di scorcio in vari
passi (p.es. Scaligero 1540, pp. 58, 121, 146, 163, etc.).
Si tratta di un doppio gioco etimologico: Marath è il nome della Mara (ebr.
< מרהmrh>, che all’accusativo di direzione è < מרתהmrth>, i.e. Marat-a), la
località della Giudea che era stata raggiunta dagli Ebrei dopo la traversata del
Mar Rosso ed era famosa per l’amarezza delle sue acque (ebr. < מרmr>, i.e.
mar, cfr. Es. 15, 23). Un altro passo da cui emerge la contiguità tra derivazione ed etimologia è il seguente: derivativum, quoniam ab nomen alterum
a priore per eius vim derivaretur: ut ab Ilus, Iulus […]; ab Iulus, Iulius &
Iulianus (Scaligero 1540, p. 160). La confusione tra derivazione e flessione
(quindi, l’impossibilità di dividere la desinenza e il suffisso), invece, emerge
da passi come: species est per declinationem nominis, hoc modo per terminationes (Scaligero 1540, p. 146).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
123
minationes, Scaligero 1540, p. 146); anche in questo caso, però,
l’attenzione che viene dedicata a queste nozioni è, nel complesso,
molto limitata: le sezioni su species & figurae occupano 2 pagine
su 350 circa nel De causis (1540, pp. 160-2) e 2 pagine su 850 circa
nella Minerva (1733 [1587], pp. 22-30)33. L’interpretazione delle
nozioni di species e di figurae, inoltre, tiene conto del nuovo inquadramento proto-diacronico di queste grammatiche. Se l’inquadramento della grammatica è proto-diacronico, in altre parole, il
fulcro dell’analisi è il processo di derivatio, non la forma dei nomi
derivati registrati nel lessico; e, se il fulcro dell’analisi è il processo
di derivatio, le sezioni su species e figuarae nominum, che erano
divise nelle grammatiche latine, si possono unire, come fa Sanzio
(e come avviene nelle grammatiche moderne), sia perché species &
figurae, nel loro insieme, riassumono tutto il processo di formazione-creazione del linguaggio che precede la nascita della flessione,
sia perché i nomina primitiva possono solo essere simplicia, ma non
presentano altre figurae, dato che non possono essere composti né
decomposti (Sanzio 1733 [1587], pp. 28).
In questo caso, inoltre, la sezione su species & figurae si può
semplificare, sia rispetto alla divisio latina sia rispetto alla divisio
graeca, e può limitarsi a descrivere anche solo il contrasto tra i
nomi semplici, i nomi derivati e i nomi composti, tralasciando tutte
le altre species che comparivano nelle grammatiche latine (nomina patronymica, synonyma, omonyma, etc.), il cui ruolo effettivo
nell’evoluzione del linguaggio, d’altra parte, non è chiaro. Infine,
la sezione dedicata a species & figurae può anche restare di dimensioni limitate, come avveniva già nella divisio latina, ma deve
comunque precedere, non seguire, l’analisi della flessione, come
avviene nel lavoro di Sanzio (1733 [1587], pp. 22-30). E ciò sia
perché le parole flesse sono più recenti delle parole derivate e composte dal punto di vista ontogenetico, sia perché species & figurae
sono accidenti generalissimi che riguardano tutte le partes orationis, a dispetto delle loro differenze flessionali (Sanzio 1733 [1587],
p. 22), sia perché tutti i processi di formazione del linguaggio, dalla
derivazione (edurus : durus), alla flessione (rosă : rosā, sĕro : sēvi,
etc.) fino all’etimologia (pratum, quia fuit paratum), avvengono pur
33
A rigore, le pagine in cui si tratta di derivazione sono 8, ma 6 di queste 8
pagine contengono il commento di Scoppius.
124
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sempre per mutationes literarum e il luogo deputato a descrivere
le mutationes literarum che hanno portato le parole ad essere ciò
che sono oggi è sempre la sezione sulle lettere-suoni che, appunto,
precede l’analisi della flessione (Scaligero 1540, pp. 42, 45, 37)34.
7. Le grammatiche pratiche tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi
Le grammatiche pratiche, che già nel Medioevo seguivano piuttosto da vicino lo schema organizzativo di Prisciano, ma descrivevano la derivazione con la stessa scarsa attenzione di Donato,
non subiscono cambiamenti profondi nel periodo compreso tra il
Rinascimento e l’Età dei Lumi.
Certo, la scoperta delle lingue “altre” delle Americhe e dell’Asia
avrebbe potuto mettere in discussione la confusione tra lingua e
linguaggio che era implicita nel monolinguismo della cultura classica (cfr. § II.12.1). È noto, però, che le grammatiche “missionarie”
di norma si limitano a imporre lo schema descrittivo elaborato da
Donato e da Prisciano sulle lingue “altre”, a prescindere dalla loro
similarità o differenza tipologica rispetto al latino35. In altre parole,
34
35
Si noti che anche Ramo tratta species & figurae nominum prima della sezione partes orationis (1590, p. A1 intr.), e anche Melantone (1558) unisce le
sezioni su species & figurae.
Così già Jellinek (1913, p. 66), Padley (1988, p. 267), Simone (1990, p. 290),
Zwartjes (2011, pp. 3, 11-2, 14 ss., 33 ss.) e, in forma più sfumata, Bossong
(2009). L’imposizione dello schema descrittivo latino si vede in primo luogo
nell’analisi delle partes orationis. Ad esempio, noi sappiamo che le lingue
maya, come molte lingue del mondo, non hanno aggettivi, ma codificano le
funzioni aggettivali attraverso una frase relativa formata a partire da un verbo che indica qualità. Nella sua Grammatica de la lengua çapoteca (1578),
quindi, Padre Juan de Cordova si accorge che gli “aggettivi” zapotechi sono
diversi dagli aggettivi latini, perché gli aggettivi zapotechi “siempre salen de
los verbos o son verbos corrompidos” (Rojas Torres 2009, p. 260), ma crede
comunque che lo zapoteco e il latino abbiano lo stesso sistema delle partes
orationis, perché l’aggettivo, il nome e il verbo sono le categorie universali
del linguaggio e del pensiero, quindi si trovano sempre e in tutte le lingue.
L’universalità delle partes orationis in questi secoli è asserita esplicitamente
dalle fonti primarie (Perotto & Guarino 1490, p. a4; Manunzio 1523, p. b3;
Ceporino 1522, f. 8r; Nebrija 1492, p. 4; Melantone 1534, pp. 21-25; 1558,
pp. 6-9; Ramo 1576, p. 88; Sanzio 1587, app. f. 1v; e Adelung 1781, p. 78), ed
è discussa da Auroux (1988; 1989) e Plank (2001, p. 1404). Un altro aspetto
da cui emerge l’idea di una “universalità” della grammatica è rappresentato
Dal Medioevo all’età dei Lumi
125
come diceva Roger Bacon nella sua grammatica greca (1270 ca.),
per tutti gli studiosi di questi secoli, sia che si occupino di grammatica speculativa, sia che si occupino di grammatica pratica, grammatica una et eadem est secundum substantiam in omnibus linguis,
licet accidentaliter varietur (Nolan & Hirsch 1902, p. 27)36.
Anche l’approccio “lessicalista” tipico di tutta l’analisi grammaticale greca e soprattutto latina non muta in modo sostanziale tra
il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Anzi, il principio di unità-indivisibilità della parola viene applicato con più rigore rispetto a ciò
che avveniva, in particolare, nella divisio graeca. Per tutti questi
secoli la parola non rappresenta soltanto l’unità più importante del
linguaggio in assoluto – der eigentlichste und wichtigste Theil der
Sprache, come diceva Adelung ancora alla fine del XVIII secolo
(1782, p. 121) – ma rappresenta anche un’unità minima e indivisibile: une totalité de sons o le signe d’une idée totale, secondo
la famosa definizione che ne dava Du Marsais, ripreso da Beauzée nell’Encyclopédie Méthodique (1786: III, s.v. mot). Non è un
caso, ad esempio, che in tutte le grammatiche di questi secoli i
paradigmi sono trattati costantemente come un insieme di parole
flesse, non come un tema invariabile che si affigge ad una serie di
desinenze. Nello stesso modo, prima del XIX secolo, tutti i verbi
che si utilizzano oggi per indicare la scomposizione delle parole
in morfemi, come ted. zerteilen, indicano solamente la divisione
36
dai casi in cui le grammatiche francesi o inglesi attribuiscono i casi o i generi
a queste lingue; per una disamina di questi casi, si vedano Gautier, Andrieu
& Lahaussois (2019, pp. 149 ss. e 154 ss.).
L’interpretazione della frase di Bacone non è scontata. Nel XII secolo si
assiste a un dibattito sulla conciliabilità tra l’universalità della grammatica
e la diversità delle lingue (Fredborg 1980, pp. 71-3) e Bacone rifiuta l’isomorfia tra i due piani proposta dai Modisti e da Boezio di Dacia (cfr. § III.5)
(Rosier-Catach 1984; 1997; 2012). Hovdhaugen (1990) crede che la frase
di Bacone serva a giustificare la sua scelta di descrivere la grammatica del
greco in generale, invece di quella di un singolo dialetto greco, dunque che
non si riferisca all’identità sostanziale della grammatica in tutte le lingue.
Nel passo, però, Bacone parla dei rapporti tra il greco classico, i dialetti greci e il latino, come dice Hovdhaugen, ma solo per dire che lo studio della
grammatica greca è utile quanto e forse più dello studio del latino, anche
se linguam grecam nescit vulgus loqui, proprio perché grammatica una et
eadem in omnibus linguis. Proprio perché fu inteso in questo senso, inoltre, il
passo è spesso citato nelle grammatiche generali del XVII-XVIII secolo (cfr.
Robins 1988, p. 472; Lépinette 2008, p. 307).
126
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
grafica delle parole nell’andare a capo (Jellinek 1913, pp. 108-9),
mentre i termini affixum, suffixum e praefixum si trovano spesso
nelle grammatiche delle lingue semitiche (dove, però, in genere,
indicano i pronomi-suffisso), ma non compaiono praticamente mai
nelle grammatiche pratiche delle lingue europee37.
Se una tendenza specifica nelle grammatiche di questi secoli si
può identificare, essa consiste proprio in un irrigidimento di quello
schema di organizzazione dei contenuti che si era andato definendo
tra Donato e Prisciano, ma che, come ha mostrato Jellinek (1913, p.
228), a partire dal Rinascimento, si trasforma in un vero e proprio
Protokoll. In pratica, tutte (o quasi) le grammatiche pratiche di questi secoli sono divise in tre comparti tematici principali38. Un primo
comparto, intitolato generalmente de voce, de litteris, de alphabeto
o de sonis, è dedicato ai suoni della lingua o l’alfabeto. Un secondo
comparto, intitolato de partibus orationis, de etymologia o de analogia, si occupa delle parole in isolamento, ovvero della flessione
delle partes orationis (al cui interno si trattano anche species e figurae), e rappresenta la parte principale di ogni grammatica39. E un terzo comparto, in genere assai più breve del precedente e intitolato de
37
38
39
L’unità della parola tra il XVI e il XVIII secolo è un fatto noto fin da Hockett
(1954), ed è discusso da Auroux (1994, p. 174), Law (1997, pp. 262 ss.) e
Colombat (2019d). Il termine affixum, ad esempio, si trova nella grammatica
ebraica di Reuchlin per indicare pronomi suffisso (1506, pp. 587, 787, 613).
Più spesso, però, i pronomi suffisso delle lingue semitiche sono detti suffixa,
come fa Junius (1580, pp. 32-33 = 1569, p. 64), seguito da Bustorfio (1609,
pp. 91 ss.) e Crinesio (1611, f. C2r, cfr. Lindner 2012, p. 146).
La divisione della grammatica in questi comparti è discussa da Melantone
(1558, f. aa2), Arnauld & Lancelot (1660, p. 1-2), Bödiker (1746, p. 1) e Bel
(1755, p. 1). Chiaramente, questo schema descrittivo è una continuazione
di quello messo a punto da Donato e Prisciano, se si esclude il fatto che la
sintassi, nelle grammatiche latine, non è ancora ben sviluppata e, spesso, è
confusa con la stilistica o con lo studio delle figure retoriche. Sulla struttura
delle grammatiche classiche, si vedano Blank (2000, pp. 412 ss.), Codoñer
(2000, pp. 478 ss.) e Desbordes (2000, p. 469). Sulla sintassi nelle grammatiche romane, si vedano Baratin & Desbordes (1986) e Baratin (1989).
L’utilizzo del termine etymologia per indicare l’analisi delle partes orationis dipende dal senso etimologico del gr. ἔτυμον ‘il vero’: poiché nel
Medioevo, il “vero” di un oggetto indica ciò che esso è in sé, Tommaso di
Erfurt usa etymologia per indicare la parte della grammatica che studiava
le parole in sé, ossia in isolamento (i.e. la sezione sulle partes orationis), e
la oppone alla diasynthetica, che sarebbe poi divenuta la moderna syntaxis
(cfr. Cotticelli-Kurras 2016). Il termine analogia dipende dal fatto che la
Dal Medioevo all’età dei Lumi
127
syntaxi, constructio o ordo verborum, descrive l’uso delle parole in
combinazione, ovvero, da una parte il modo in cui le parole si combinano nelle frasi, che rientra a pieno nella moderna nozione moderna di sintassi, dall’altra lo stile, l’ornatus e le figurae retoriche, che
noi oggi trattiamo nell’ambito della stilistica o della poetica.
Chiaramente, è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto a questo schema. In qualche caso la sintassi può essere esclusa,
perché, come dice Sanzio (1587, p. 13), syntaxis finis grammaticae;
ergo non pars illius, oppure perché, come dice Manuzio (1493, pp.
Gviii e Bi), la sintassi riguarda l’uso delle parole e l’uso si impara in
pratica40. In qualche altro caso, ai tre comparti canonici descritti sopra si possono aggiungere delle sezioni de prosodia e de ortografia,
anche se come dice esplicitamente Ludovico Dolce (1653, p. 23),
queste sezioni sono delle aggiunte alla descrizione grammaticale in
senso proprio, ma non rientrano nei temi canonici per ogni grammatica. Né si esclude qualche scelta più originale: la grammatica
francese di Chiflet (1680 [16591]), ad esempio, tratta nel libro I le
partes orationis (pp. 8-154) e la sintassi (pp. 154-197), e nel libro II
l’ortografia (pp. 199-278), il genere dei nomi (pp. 278-288) e l’ordine sostantivo-aggettivo (pp. 288 ss.). Le eccezioni, però, sono tutto
sommato infrequenti e, nel complesso, si presentano come semplici
variationes rispetto a un Protokoll ampiamente condiviso, piuttosto
che come delle ipotesi alternative di organizzazione dei contenuti
all’interno delle grammatiche.
7.1 Il trattamento dei nomi derivati
Come l’approccio lessicalista e l’organizzazione complessiva
della grammatica, anche il trattamento della derivazione segue da
vicino quello che si trovava già nei grammatici romani. Più precisamente, lo schema descrittivo generalmente adottato dai gram-
40
regolarità della declinazione è il migliore esempio di analogia già per i
grammatici greci (Belardi 2002: II, pp. 15-41; Dickey 2007, p. 109).
La sintassi non compare nelle grammatiche di Alberti (1438-41), Trissino
(1529), Dubois (1531) e Régnier-Desmarais (1706), è trattata solo in breve
in quelle di Perotto & Guarino (1490), Manuzio (1493), Ceporino (1520),
Linacri (1550), Ramo (1559) e Berhardi (1797), e include anche lo studio
delle figurae retoriche in quelle di Giambullari (1552), Melantone (1558, f.
uu1) e Beauzée (1784: II, p. 570, s.v. méthode).
128
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
matici segue la divisio graeca nella sua architettura logica (i.e. si
incentra sulla differenza tra parole semplici, derivate e complesse),
ma segue la divisio latina nella scarsa attenzione che i grammatici
attribuiscono a questo tema. Se si escludono due o tre eccezioni, insomma, le grammatiche pratiche di questi secoli si occupano poco
dei nomi derivati e non mettono in discussione il principio dell’unità della parola41.
Ad esempio, Manuzio, che pure era un ammiratore di Prisciano
e accoglie la categoria priscianea dei nomina decomposita, non si
occupa mai dei rapporti formali che legano le basi e i loro derivati e liquida tutta l’analisi delle species e delle figurae in cinque
pagine su circa duecento (1493: II, pp. Ivii ss.), tre delle quali tra
l’altro riguardano i patronimici, ossia quegli epiteti che, come dice
lo stesso Manuzio, si trovano più in greco che in latino e riguardano più lo stile poetico che l’analisi grammaticale in senso pieno.
Altri grammatici, come Linacri (1550), Bödiker (1746), Bel (1755)
e Fränklins (1778) escludono completamente l’analisi di species
e figurae dalle loro opere. Altri ancora accennano a questi temi
in poche righe, ma nessuno dedica ai nomi derivati un’attenzione maggiore o anche solo uguale a quella che aveva dedicato a
questo tema il Prisciano delle Institutiones. L’analisi di species e
figurae, ad esempio, occupa cinque righe su centoquaranta pagine
circa nella grammatica di Ludovico Dolce (1563, pp. 40 e 73);
mezza pagina nella grammatica latino-francica di Ramo (1590,
p. 32), nella grammatica castigliana Nebrija (1492: dv) e anche
nella grammatica greca di Melantone (1534, p. bviii); una pagina
su trecentoquaranta circa nella grammatica latina di Ramo (1559,
p. 337); una pagina e mezza su poco più di centocinquanta nella
grammatica greca di Ceporino (1522, p. ci ss.); quattro pagine su
centocinquanta circa nella grammatica tedesca di Öllinger (1897
[15731], pp. 54-55 e 96-98), e così via.
Poi, certo, a volte è possibile trovare delle informazioni più specifiche sulla formazione di questo o quel derivato. In qualche caso
raro, ad esempio, i nomi derivati sono riportati ai nomi semplici da
41
Oltre alle Excerptiones e al Catholicon citati nel § III.2, le eccezioni riguardano solo tre casi che io sappia: la grammatica latina di Melantone (1558), la
grammatica francese di Meigret (1550, cfr. Kaltz & Leclercque 2015, p. 28)
e la grammatica inglese di Wallis (1668). Su queste opere cfr. § III.7.2.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
129
cui si sono formati (p.es. crinitus a crinis o Iulius a Iulus, oppure i
participi al verbo, Manuzio 1493, pp. Avi, Bi, Iiii). In qualche altro caso, ancora più raro del precedente, si analizzano alcune delle
diversità formali che distinguono i nomi semplici e i loro derivati.
Ludovico Dolce, ad esempio, dice che i participi si formano dalla
terza persona singolare del modo “dimostrativo” (i.e. l’indicativo),
a cui si aggiunge la fine NTE, come in ama : amante; Ramo (1576,
p. 23) discute la diversa lunghezza vocalica tra i nomi semplici e i
nomi derivati corrispondenti; e Fortunio (1545, pp. 31 e 22) dice
esplicitamente che i verbi della prima coniugazione “a mutano in e
nel futuro tempo [i.e. ama → amerà]” e che “gli infiniti si formano
regolarmente dalla terza persona singulare giongendogli questa sillaba re […] come ama, amare”. Questo tipo di informazioni, però,
come si diceva, non è affatto abituale.
La stessa fedeltà al modello latino si riscontra nell’utilizzo della
nozione di terminatio, che non è di uso frequente in questi secoli e,
anche quando viene utilizzata, non indica mai la desinenza distinta
dal tema, ma indica soltanto la parte finale della parola, quella parte
che serve per determinare il genere del nome o la classe flessionale
del verbo, e non coincide esattamente con un morfema o una sequenza di morfemi. Secondo Manuzio (1493: I, p. Fvi; II, pp. Bii-iii), ad
esempio, sono terminationes: -as, -avi e -atum rispetto al verbo amo
ma anche -ras, -ravi e -ratum rispetto al verbo spero; -gis, -gi e -ctum
rispetto a frango, ma anche -bis, -psi e -ptum rispetto a scribo42.
7.2 Alcune piccole eccezioni
Anche in questo caso, ovviamente, è possibile trovare delle piccole eccezioni. Ad esempio, nel 1558, in Germania, dove il problema dell’origine del linguaggio è sentito con particolare forza (cfr.
42
Il concetto di terminatio compare in Ceporino (1522, p. bii), Melantone
(1534, p. bvii), Fortunio (1545, p. 17), che lo chiama finimento, Dolce (1563,
p. 41), che lo chiama fine, e Alvari (1598, p. 122), ma non si trova, ad esempio, in Perotto & Guarino (1490). Pastrana (1485 [?]) è probabilmente l’autore che ne fa più uso, perché isola le desinenze del genitivo e le utilizza come
criterio diagnostico per identificare la classe flessionale del nome (Codoñer
2000, p. 64). Si noti che il termine desinentia risale al medio latino (Lindner
2012, p. 140), e si trova, ad esempio, in Balbi (1286), ma non è affatto comune tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi.
130
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
§ III.10), Melantone pubblica una grammatica latina che include
un’analisi delle species nominum più originale della norma (lo
stesso, però, non avviene nella sua grammatica greca, che praticamente non descrive la derivazione, cfr. Melantone 1534). Come
i suoi colleghi, anche Melantone descrive i nomi derivati, e non
descrive i processi di derivazione; però, unisce anche le sezioni
su species e figurae nominum in un unico paragrafo che chiude la
sezione sulle partes orationis (1558, pp. kk5-ll6), come facevano
Scaligero e Sanzio; elenca tutte le terminationes presenti in latino
e descrive spesso i rapporti formali che legano i derivati e i nomi
semplici da cui sono formati. La nozione di terminatio, in questo
caso, prende più spazio, ma indica comunque la parte finale della
parola, quella parte che, se si esclude qualche errore formale nella
divisione in morfemi, equivale alla somma del suffisso e della desinenza, come IA in audacia da audax ‘audace’, TIA in pudicitia
da pudicus ‘pudico’, NA in officina da officium ‘dovere’, LE in
ovile da ovis ‘pecora’, NIA precedente MO in castimonia da castus
‘casto’, STUS in honestus da honor ‘onore’, AS in bonitas da bonus
‘buono’, etc. Certo, la scelta per le forme di base per la derivazione
è spesso fantasiosa: i nomi in NIA precedente MO, p.es., derivano
dal genitivo maschile (i.e. dalla forma che finisce in -i: casti-monia), mentre i nomi in UM si formano dal verbo con l’espulsione
della vocale del presente (regnum da regno ‘governo’, 1558: ll23). Un’analisi così dettagliata dei nomi derivati, però, è una scelta
innovativa nel ‘500, e Melantone sente il bisogno di spiegarla in
modo esplicito (1558, p. kk5):
Ad etymologiam pertinet non solum discrimina et casus partium
[sc. orationis] cognoscere, sed etiam a qua origine unumquidquid nascantur, videre. Diligenter autem adsuefacendi sunt pueri, ut origines
et themata partium requirant atque inspiciant. Conducit enim haec res,
et ad parandam copiam, et ad significationem ac vim verborum proprie ac recte intelligendam (“L’etimologia [sc. la parte della grammatica che discute le partes orationis] non si occupa solo di indagare le
differenze e i casi delle parti [sc. del discorso], ma si occupa anche di
vedere da dove nasca ogni parola. I giovani, quindi, vanno diligentemente istruiti a chiedersi e a studiare quali siano le origini e i temi delle
parti [del discorso]. Questo argomento, infatti, porta all’abbondanza
[sc. delle parole] e alla comprensione corretta e giusta del significato e
della natura intrinseca delle parole”).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
131
Le dichiarazioni di Melantone lasciano trasparire, già a metà del
XVI secolo, la presenza di una certa querelle sulla natura della derivatio, sulla sua posizione all’interno del Protokoll canonico delle
grammatiche e sull’inquadramento della grammatica sull’asse del
tempo. Per Melantone, la sezione delle grammatiche denominata
etymologia tratta “i casi delle parti [sc. del discorso]” ma, come
dice il nome stesso (cfr. infra n. 37 § III.7) e come diceva anche
Isidoro (Or. I.29.1), serve anche per mostrare l’origine delle parole.
Lo studio dell’origo nominum, infatti, non è solo un tema per filosofi e studiosi dell’origine del linguaggio, ma serve per conoscere
la natura profonda delle parole e la loro verità intima, dunque il
loro significato più esatto. Melantone, insomma, sembra dire che,
anche se lo studio della derivatio è un tema filosofico, questo tema
ha comunque delle ricadute fondamentali per i grammatici e deve,
pertanto, essere incluso nella sezione delle grammatiche che si
chiama etymologia proprio perché l’etymologia, come dice il nome
stesso, indica l’origine di ogni parola. La proposta di Melantone,
però, non raccoglie un grande successo e, se si escludono un paio di
casi analoghi (i.e. Meigret 1550 e Wallis 1668), non è seguita dalle
grammatiche pratiche più tarde43.
Insomma, in apparenza l’analisi della derivatio all’interno delle grammatiche pratiche è simile a quella che si vedeva già nei
grammatici romani: lo schema descrittivo utilizzato, almeno a
partire dalla fine del Medioevo, segue il magistero di Prisciano,
ma la quantità e il tipo di informazioni che vengono offerte ai
lettori segue più da vicino l’esempio di Donato. In breve, la differenza tra nomi semplici, composti e derivati (a cui si aggiungono,
qualche volta, i nomi decomposti) è citata da molti grammatici
(seppur non da tutti) ma, al netto di qualche eccezione, questo
tema non viene percepito come un argomento particolarmente rilevante per l’analisi grammaticale e, di norma, viene liquidato in
pochi accenni.
43
La grammatica francese di Meigret (1550, Kaltz & Leclercque 2015, p. 28),
ad esempio, descrive i nomi derivati nei cap. VIII-XIII; la grammatica inglese di Wallis (1668) descrive, anche con una certa precisione, le formazioni in
-full, -some, -less, -th, -ly, -ship, dis-, mis-, etc. Nel complesso, però, si tratta
di casi eccezionali.
132
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
8. Le grammatiche generali (soprattutto) francesi
Gli anni che vanno dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII
sono fondamentali per la storia della derivazione. Anche se gli studiosi attivi in questi secoli non discutono mai questo tema in modo
esplicito, tutta la grammatica filosofica del XVII-XVIII secolo si
può vedere come un grande dibattito sul problema del tempo.
Il dibattito prende le mosse da una contraddizione (cfr. §
II.12.2). Se i nomi derivati sono i prodotti lessicalizzati dei processi diacronico-ontogenetici di derivatio, l’analisi delle species
e delle figurae nominum che è abitualmente inclusa nelle grammatiche particolari, può essere utile in pratica, perché rende le
grammatiche più informative, ma è incoerente rispetto al loro inquadramento sull’asse del tempo, perché introduce un frammento
di “proto-diacronia” all’interno di opere che, nel complesso, sono
“proto-sincroniche”. L’incoerenza teorica, ovviamente, non rappresenta un problema drammatico per le grammaticae practicae,
che, come dice il nome, hanno una funzione prevalentemente pratico-didattica, ma intralcia le grammatiche filosofiche, che mirano
ad essere non soltanto utili, ma anche secundum rationem. Per
essere davvero “razionali”, in altre parole, le grammatiche filosofiche non possono esimersi dal cercare di comporre in qualche
modo il contrasto tra la natura “proto-diacronica” della derivatio
e l’inquadramento generalmente “proto-sincronico” della descrizione grammaticale.
Due sono le strade possibili per raggiungere questo fine. In Germania, dove l’interesse per l’origo linguae è più forte e il magistero di Scaligero più presente, l’inquadramento pancronico proposto da Scaligero e da Sanzio riscuote un certo successo e lo studio
della derivatio si ripropone all’attenzione degli studiosi (cfr. §
III.9). D’altra parte, sia in Francia che in Germania, a partire dai
primi anni del XVII secolo iniziano a comparire delle grammatiche dotate di una prospettiva acronica non molto diversa da quella
proposta dai Modisti. A questi anni risalgono le prime opere che
mostrano una certa attenzione per la ricerca di spiegazioni filosofiche universalistiche o “generali” per fatti linguistici particolari,
come l’Allgemeine Sprachlehr di Ratke (1630), o per un metodo
didattico universale adatto a far apprendere tutte le lingue, come
la Didactica universalis di Hellvicus (1619), il Méthode Abregée
Dal Medioevo all’età dei Lumi
133
di Jean Macé (1651 [ma 16351]) o il Methodo grammatical para
todas as linguas di A. da Roboredo (1619)44.
8.1 Il trattamento dei nomi derivati
In tutti i casi, più una grammatica aspira ad essere generale, più
tende inevitabilmente verso un inquadramento sull’asse del tempo
consapevolmente e rigorosamente acronico; e, più tende verso un
inquadramento consapevolmente acronico sull’asse del tempo, più
è il caso che armonizzi il suo inquadramento acronico con l’interpretazione dei dati sui nomi derivati. In altre parole, se la grammatica generale è acronica, ma la derivatio indica un processo pancronico, o si riformula la derivatio in chiave acronica, come facevano
i Modisti, o si accetta l’inquadramento tradizionalmente diacronico-ontogenetico della derivatio che era abituale già nella grammatica antica, ma si esclude l’analisi di species e figurae dall’analisi
grammaticale proto-sincronica.
La prima soluzione (i.e. interpretazione della derivazione in chiave acronica) è quella seguita da Ratke (1630). Per lui la derivatio è
un dono di Dio (1630: 176), perché assicura il legame tra le lingue
umane e la lingua edenica, e la capacità degli uomini di manipolare i
concetti presenti in mente Dei (1630, pp. 273, 276 ss.). Lo studio degli accidentia verborum (Wortbedeütungslehr), quindi, rappresenta
innanzitutto uno studio semantico-ontologico e filosofico, che svela
la “verità” delle parole, che è stabilita da Dio, e serve ad accrescere la
copia verborum di ogni lingua, ma soprattutto del tedesco che supera
per questo aspetto tutte le altre lingue europee (1630, pp. 276-7)45.
44
45
Sulle grammatiche “generali” che precedono la Grammaire, si vedano Jellinek (1916, pp. 95 ss.), Auroux & Mazière (2007) e McLelland (2010, p. 3).
In particolare, il sintagma grammaire générale et raisonnée compare, per
la prima volta, nel Méthode Abregée pour apprandre facilement la Langue
Latine, pour parler puremant et escrire nettemant en François [sic] di Jean
Macé (16512), alias S. Du Tertre, la cui prima edizione risale al 1635. Sulla
sinonimia tra “generale” e “universale” nelle grammatiche di questo periodo,
si vedano Auroux & Mazière (2007, pp. 136-7).
Su Ratke (1612-15, 1619 e 1630), si vedano Paddley (1985, p. 112) e Kaltz
(2004; 2005). La teoria semantico-metafisica di Ratke, tra il XVII e il XIX
secolo, si ritrova nei lavori di alcuni studiosi tedeschi, come Gueinz (1641,
cfr. Hundt 2000), Longolius (1715, cfr. Spitzl-Dupic 2004), Vater (1801;
1805, cfr. Spitzl-Dupic 2008) Reisig (1839, cfr. Schmitter 2004), ma non
134
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
La seconda soluzione (i.e. esclusione della derivazione dalla grammatica), invece, è quella perseguita da Irson che, nel suo Nouvelle
Méthode (16561), esclude qualsiasi riferimento a species e figurae
verborum, ma descrive le famiglie derivazionali francesi nel vocabolario che è stampato alla fine dalla grammatica (16622, pp. 212280). Il vocabolario, che si intitola Les Etymologie ou les origines
& les derivez, è lemmatizzato per parole primarie: le parole primarie
sono registrate nell’ordine alfabetico consueto, ma i derivati sono registrati al di sotto delle parole semplici da cui derivano (i.e. arçson,
arçonner, desarçonner, arcade, archet sono tutti registrati solo sotto
la voce arc ‘arco’). Secondo Irson, in altre parole, la derivatio non
riguarda la descrizione grammaticale in senso proprio, neppure nella
forma minima e ormai canonica delle species e delle figurae nominum, ma riguarda la lessicografia, perché è la lessicografia che ha il
compito di studiare l’origine delle parole, sia che si tratti dell’origine
prochaine, ovvero della formazione delle parole all’interno di quella
lingua, sia che si tratti dell’origine éloignée, ovvero dell’etimologia,
che si può cercare anche in altre lingue (1656, pp. 164-5)46.
La soluzione di Irson è accolta, senza modifiche particolari, nella
Grammaire di Arnauld e Lancelot (1660). In questo caso, la sostanziale isomorfia tra l’essere, il pensiero e il linguaggio proposta dai
Modisti viene sostituita da un’isomorfia tra pensiero (i.e. logica) e
linguaggio, a prescindere dall’essere47. Come le grammatiche dei
Modisti, però, anche la Grammaire non si propone solo di descri-
46
47
ebbe gran seguito, perché contrasta con la teoria diacronico-ontogenetica della derivatio di Scottelio, che fu la teoria dominante in Germania.
La soluzione di Irson era stata anticipata da Ramo (1590), che tratta pochissimo species e figurae, e da Hellvicus, che esclude l’analisi dei nomi
derivati dalla grammatica greca e siriaca (non da quella latina) incluse nella
Didactica (1619). Su Irson (1662), si vedano Delesalle & Mazière (2002).
Sulle grammatiche francesi del XVII secolo, si vedano Auroux (1982, 2000)
e Colombat (1999).
A rigore, la Logique (Arnauld & Nicole 1661) e la Grammaire (Arnauld &
Lancelot 1660) sono opere diverse, dunque la logica non coincide con la
grammatica. Poiché, però, le partes orationis sono lo specchio linguistico
delle categorie logiche universali di sostanza, azione e qualità (cfr. Arnauld & Lancelot 1660, pp. 30-4, ma anche Beauzée 1767, pp. vii e ix; 1786:
II, pp. 402 e 411-3, s.v. language, cfr. Auroux 1988; 1989), si può dire che
la grammatica e la logica siano isomorfe, ma non del tutto identiche, come
credevano i Modisti (così già Serrus 1933) o, al massimo, che l’isomorfia si
limita agli aspetti principali della grammatica, come le partes orationis.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
135
vere una lingua particolare, ma descrive le caratteristiche comuni a
tutte le lingue – dunque, le caratteristiche del linguaggio in generale
– attraverso l’analisi di una lingua particolare (in questo caso del
francese, invece che del latino)48.
Questa nuova grammatica filosofica e acronica segue lo stesso
Protokoll che caratterizzava già in passato tutte le grammatiche
particolari. La Grammaire, ad esempio, comprende le tre sezioni
canoniche che formano ogni grammatica: le lettere e i caratteri
della scrittura (1660, pp. 5-25), le classi di parole e delle loro forme (1660, pp. 26-140), la sintassi (1660, pp. 140-147). E lo stesso Protokoll torna nelle grammatiche generali del ‘700. Beauzée
(1767) e de Sacy (1849 [17991]), infatti, riducono la differenza tra
la sezione dedicata alla forma delle parole (1767: I, pp. 232-621;
1849, pp. 19-156) e la sezione dedicata alla sintassi (1767: II, pp.
3-620; 1849: pp. 157-223), ma non modificano l’architettura tripartita della Grammaire49. Nessuna di queste grammatiche, però,
si occupa neppure di sfuggita delle species e delle figurae nominum, perché come dicono esplicitamente Arnauld & Lancelot si
tratta di un tema più adatto a un dizionario che a una grammatica
(1660, p. 105):
On n’a point parlé, dans cette Grammaire, des mots dérivés ni des
composés, dont il y aurait encore beaucoup de choses très-curieuses
à dire, parce que cela regarde plutôt l’ouvrage d’un Dictionnaire
général, que de la Grammaire Générale. (“In questa Grammatica non
si è affatto parlato dei nomi derivati e dei composti, dove ci sarebbero
48
49
Nel sottotitolo della Grammaire, Arnauld e Lancelot dicono chiaramente che
il loro scopo è descrivere les raiſons de ce qui eſt commune à tutes les langues, i.e. descrivere il linguaggio in assoluto, e la stessa tesi è ripetuta da du
Marsais (Rosiello 1967, p. 274). Proprio per questo la Grammaire descrive
di norma il francese, ma può descrivere altre lingue, se il francese non rispecchia la struttura universale del linguaggio (ad esempio, l’ebraico nella sezione
sulle lettere o il latino nella sezione sul caso). Sull’approccio universalistico
della grammaire si vedano Rosiello (1967, pp. 48, 106, 132, 167), Simone
(1969, pp. xv-xix; 1992, pp. 95, 110 ss., 119 ss.; 1996) e Lépinette (2008).
La riduzione della sezione sulla sintassi, inoltre, ha una ragione specifica:
se la sintassi indica l’uso delle parole, e l’uso cambia da popolo a popolo, la
sintassi rappresenta la parte meno “generale” della grammatica. Sul tema,
si vedano Rosiello (1967, p. 140; 1987), Grondeux (2000) e, in parte, Auroux (2000).
136
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ancora da dire molte cose curiose, perché essa riguarda più il lavoro di
un Dizionario generale, che di una Grammatica Generale”).
L’idiosincrasia tra la grammatica generale e la descrizione della
derivatio è confermata da tutte le grammatiche generali del XVIII
secolo: l’analisi dei nomi derivati è completamente esclusa dalle
opere di Buffier (1714), Beauzée (1767) e de Sacy (1799), e non
compare neppure nelle grammatiche generali prodotte in Germania
tra il XVIII e il XIX secolo, come quelle di Meiner (1781) e di Roth
(1795, 1815). Nessun accenno a questo tema, inoltre, compare nella
voce Grammaire curata da Beauzée per l’Encyclopédie di Diderot
e D’Alembert (1751-65) e nelle voci grammaire e formation curate
da Beauzée e Douchet per l’Encyclopédie Méthodique (1784: II, pp.
119 e 198), dove si dice in modo inequivocabile che la formation indica il processo di formazione del linguaggio a partire dalla lingua
“naturale” originaria (cfr. infra § III.10.2) e che la dérivation è solo
un aspetto dell’étymologie, la quale rientra, a sua vota, nella lexicologie. Una ulteriore conferma di questa visione si ricava, inoltre,
dal Dictionnaire de l’Académie Française (1694), che ripropone
lo stesso criterio di lemmatizzazione per parole primarie (racines)
proposto da Irson50.
Ovviamente, anche in questo caso è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto alla sostanziale idiosincrasia delle grammatiche generali per l’analisi della derivazione. Régnier-Desmarais, ad esempio, non esclude del tutto l’analisi dei nomi derivati
dalla sua opera: infatti, dice che i nomi semplici sono quelli che
ne tirent point leur origine d’un autre nom de la mesme Langue, mais qui doivent leur signification à la première institution
de cette Langue (1706, pp. 179-181), e si accorge che spesso gli
ipocoristici francesi presentano le terminaisons -ard (vieillard
‘vegliardo’), -aud (lourdaud ‘pesantone’), -u (barbou ‘barbuto’,
1706, p. 183). Anche in questo caso, però, le eccezioni sono rare e
di poco momento: la sezione sui nomi derivati inclusa nell’opera
di Régnier-Desmarais (1706, pp. 175 ss.), ad esempio, è comunque molto breve (solo due pagine su circa settecentocinquanta)
ed è incentrata sulla definizione delle differenze semantiche che
50
Per un’analisi più approfondita del dizionario dell’Accademia di Francia, si
veda Leclercq (2002).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
137
oppongono le diverse species nominum (i.e. i nomi appellativi,
astratti, collettivi, diminutivi, accrescitivi, etc.), piuttosto che sulla descrizione formale dei vari tipi di nomi derivati che sono presenti in francese51.
9. Le grammatiche “pancroniche” tedesche
Se i Modisti e i Signori di Port Royal cercano di superare il contrasto tra l’inquadramento “proto-sincronico” della grammatica
sull’asse del tempo e la nozione “proto-diacronica” di derivatio ridefinendo la derivatio in chiave acronica o escludendola dall’analisi
grammaticale “proto-sincronica”, in Germania, dove l’interesse per
l’origine del linguaggio è più vivo e il magistero di Scaligero più
presente, il problema della derivatio si impone all’attenzione degli
studiosi con una forza certamente maggiore: in questo contesto, infatti, le grammatiche cercano di preservare il tradizionale inquadramento “proto-diacronico” della nozione di derivatio, ma finiscono
per proiettare tutta l’analisi grammaticale nella “proto-diacronia”,
ovvero nella pancronia dell’origo linguae, che da sempre rappresenta l’oggetto di studio della filosofia.
Per comprendere la genesi di questa nuova idea di grammatica è
utile fare un passo indietro. La lettura autonoma delle Scritture è uno
dei capisaldi della dottrina luterana e Lutero pubblica una traduzione tedesca della Bibbia in 6 volumi tra il 1522 e il 153452. In que51
52
Su Régnier-Desmarais (1706) si vedano Kaltz & Leclerque (2015, pp. 2831). Tra le eccezioni parziali, è possibile ricordare un altro caso (Spitzl-Dupic 2008): la grammatica generale di Anton (1799) include una sezione
sull’origine del linguaggio, come avviene nelle grammatiche “pancroniche”
tedesche (cfr. § III.9), ma invece di descrivere la derivazione, come fanno
Scottelio e Adelung, si concentra sulla formazione delle radici originarie del
tedesco, ovvero sulla corrispondenza “naturale” tra i suoni che compongono
queste radici e il loro significato, seguendo in sostanza la stessa strada tracciata da Fulda (cfr. III.10.1).
Lutero pubblica il primo volume con il Nuovo Testamento nel 1522 e l’edizione completa in sei volumi nel 1534: l’invenzione della stampa da parte di
Gutemberg (ultimata tra il 1449 e il 1455) dà alla Bibbia luterana la diffusione necessaria per il suo successo. Sull’importanza della traduzione della Bibbia in tedesco per la storia della grammatica tedesca, si veda Padley (1985,
pp. 86 ss.; 1988, pp. 244 ss. e 250 ss.). Tra l’altro, Lutero era un discreto
138
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sto quadro, gli studi grammaticali si caricano di una nuova funzione
patriottica, perché sono chiamati a fornire gli argomenti scientifici
utili per confermare il prestigio del tedesco come lingua e dunque,
indirettamente, anche per legittimare l’unità del popolo tedesco e la
sua aspirazione a uno stato nazionale. Se la Bibbia può essere scritta in (alto) tedesco, però, il tedesco deve essere prestigioso, ovvero
antico, quanto le tres linguae sacrae della cristianità: l’ebraico, il
greco e il latino. Per un pregiudizio tipico di questi secoli, tuttavia,
l’antichità di una lingua non si misura in base alla data delle sue prime attestazioni, ma dipende innanzitutto dalla quantità di radices e
nomi derivati che si trovano in quella lingua, perché l’abbondanza di
nomi derivati (copia verborum) mostra il legame tra quella lingua e
la lingua originalis, ovvero la sua capacità di produrre parole nuove
utilizzando gli stessi meccanismi formativi che hanno portato alla
genesi di tutte le lingue53. Grazie al circolo vizioso logico secondo
cui la legittimazione del tedesco come lingua di prestigio dipende
dalla sua antichità e l’antichità di una lingua dipende dalla presenza
di radici e nomi derivati, fiorisce tra Olanda e Germania, soprattutto
attorno all’università di Leida e alla figura di Giulio Cesare Scaligero
(il nipote di Giuseppe Giusto Scaligero citato in precedenza), un nuovo interesse per l’origine del linguaggio e delle lingue germaniche54.
53
54
conoscitore dell’ebraico e cita spesso la grammatica di Reuchlin (1506) nella
sua versione annotata della Bibbia.
I grammatici, in altre parole, sono chiamati a fornire i Legitimationsargumente (nei termini di Hundt 2000) necessari per giustificare la traduzione
tedesca della Bibbia (Faust 1981, p. 366), svolgendo così un importante ruolo
di positive heritage building e di legittimazione del tedesco anche in assenza
di uno stato nazionale che potesse stare al pari con quello francese (Considine 2008). Si veda anche McLelland (2011, pp. 47 e 110) sul ruolo del
nazionalismo negli studi grammaticali tedeschi tra il XVI e il XVII secolo.
Per una conferma di questo quadro, si veda Albrecht (1573, pp. a3-a6) che,
nella prefazione alla sua grammatica, dice esplicitamente che le grammatiche
delle lingue antiche sono più utili delle grammatiche delle lingue moderne
e, proprio per questo, è utile dimostrare l’antichità del tedesco e la presenza
delle radici (1573, pp. C2-3).
Nel 1593 insegnava a Leida G.G. Scaligero, autore della Diatriba (1599) e
nipote di G.C. Scaligero; a Leida si erano formati Goropio e Stevin, ma anche
Scottelio (McLelland 2011, pp. 68 ss.), e sempre a Leida si riuniscono nel
XVII secolo i maggiori sostenitori dell’ipotesi “scitica”, come Mylio (1612,
cfr. Metcalf 1953) e Scriechio (1614), Vossio (1666), Boxhorn (1648) e Jäger
(1686). Il primo a sostenere esplicitamente l’idea del tedesco come lingua
originale, in opposizione all’ipotesi “neerlandese” di Goropio è Albrecht
Dal Medioevo all’età dei Lumi
139
Questo interesse si manifesta soprattutto in due forme. Inizialmente, già nella seconda metà del XVI secolo, Goropio Becano (1569) e Stevin (1586) avevano criticato la teoria tradizionale
sull’origo linguae sostituendo il Flemisch o il Duytsch all’ebraico
nel ruolo di lingua edenica originaria. Pochi anni dopo, studiosi
come Scottelio (1641; 1663) e Adelung (1781; 1782; 1783) o, in
misura minore, Albrecht (1573), Clajus (1578), Ritter (1616) e Aichinger (1741), riprendono l’impostazione pancronica delle opere
di Scaligero e Sanzio, e propongono un nuovo tipo di grammatica,
filosofica ma pancronica e particolare, che si occupi della derivatio
in tedesco per dimostrare il rapporto privilegiato tra questa lingua e
la lingua originalis del genere umano55.
In una prima fase, la specificità di questa linea di studi grammaticali non è ancora ben delineata, ma si assiste alla creazione di una
terminologia tecnica specificamente tedesca e, da Ratke (1619) in
poi, alla sostituzione del latino con il tedesco come lingua veicolare
della grammatica. Albrecht (1573) e Ritter (1616) usano ancora il
prestito Grammatik, ma Ratke (1612-15) calca ars grammatica con
Sprachkunst. Sempre Ratke (1619) traduce studium grammaticae
con Sprachlehre e sostituisce i prestiti latini species, figura, accidentia ed etymologia che compaiono nella Sprachkunst (1612-15),
con i calchi Art, Gestalt, Zufälle e Wortforschung. Infine, nella WortbedeutungsLehr (1630), Ratke sostituisce i nomi latini delle partes
orationis con i calchi Nennwort ‘nome’, Vornennwort ‘pronome’,
Sprechwort (Haubtwort in Scottelio) ‘verbo’, Theilwort ‘partici-
55
(1573), poi ripreso da Clajus (1587) e Ritter (1616), secondo cui il termine Deutsch sarebbe derivato con qualche permutationes literarum da de +
Aškenaz, il nipote di Noè progenitore dei Goti (Padley 1985, p. 87). La stessa
tesi torna anche in Zesen (1641, pp. iv-v), prima che in Scottelio (1641, pp.
75 ss.; 1663, pp. 16 ss. e 30 ss.).
L’analisi delle fonti e delle citazioni contenute nella Ausführliche Arbeit
(1663) compiuta da McLelland (2011, pp. 69 ss. e 298-348) mostra che
Scottelio conosceva bene i lavori di Goropio, di Stevin e, in generale, degli
studiosi della scuola di Leida, come pure la grammatica di Melantone. Anche
la grammatica di Scottelio, quindi, si può considerare “razionalistica”, come
fa McLelland (2010; 2011), perché anche Scottelio crede che ci sia una ratio universale nella lingua e che questa consista nell’analogia, come diceva
Vossio (1635). Il “razionalismo” di Scottelio, però, è completamente diverso
da quello di Port Royal, perché va di pari passo con l’approccio pancronico e
con lo studio filologico della derivazione.
140
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
pio’, Vorwort ‘preposizione’, Fügwort ‘congiunzione’, Beywort
‘avverbio’ e Bewegwort ‘interiezione’.
Da Scottelio in poi, però, la specificità di questo filone di ricerca emerge in modo evidente fin dall’indice delle grammatiche,
che presenta un Protokoll molto diverso da quello usuale sia nelle grammatiche pratiche, sia in quelle generali. Infatti, la Teutsche
Sprachkunst (1641) di Scottelio comprende tre libri: il libro I (Von
der Uhralten der Teutschen Sprache, pp. 1-172) studia l’origine del
linguaggio e della lingua tedesca; il libro II (Etymologia, pp. 174552) analizza i suoni della lingua e le partes orationis; e il libro III
(Syntaxis, pp. 553-653) studia la sintassi. I dati sulla derivatio sono
descritti due volte: i processi di derivazione e di composizione sono
descritti nel libro I, insieme alle teorie sull’origo linguae (pp. 95104, 105-138); i prodotti della derivazione, ossia le diverse tipologie di nomi derivati e composti, sono descritti alla fine del libro II,
dopo l’analisi della flessione (pp. 303-344, 345-395)56.
L’utilizzo di un Protokoll diverso da quello delle grammatiche
pratiche ha un’importanza particolare. Come tutti coloro che coltivano scienze empiriche, i grammatici non discutono in astratto gli
assunti su cui poggia la teoria che utilizzano, ma applicano la teoria
prescelta alla soluzione di un problema pratico, come la descrizione
di una lingua, e lasciano che i lettori giudichino in modo indiretto
la bontà della teoria proposta attraverso la sua capacità di descrivere la lingua prescelta nel modo migliore possibile. L’indice di una
grammatica, in questo quadro, non è solo un comodo riassunto del
lavoro, ma riunisce tutto l’insieme delle unità di analisi che sono
utilizzate nel lavoro, pur senza essere discusse in modo esplicito57.
Modificare il Protokoll di una grammatica, in altre parole, non vuol
dire solo aggiungere o togliere dei dati, ma vuol dire modificare la
ratio che è alla base dell’opera: in questo caso, vuol dire passare da
un criterio ordinatore di tipo “proto-sincronico”, che si basa sulla
nozione di parola formata e descrive prima le parti che compongono le parole (de litteris), poi la forma delle parole in isolamento
56
57
Lo stesso Protokoll compare in Adelung (1781), in Albrecht (1573), che però
tratta la teoria sull’origo linguae nell’introduzione, e in Ritter (1616), che
però descrive i nomi derivati prima della flessione e tratta solo di sfuggita
l’origo linguae.
Questa funzione dell’indice è stata identificata da Foucault (1988, pp. 9-13).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
141
(de partibus orationis) e infine l’uso delle parole in combinazione
(de syntaxi), ad un criterio ordinatore di tipo sostanzialmente “proto-diacronico”, ossia pancronico, che descrive tutta l’evoluzione
del linguaggio e del tedesco, dalla creazione-formazione delle parole, fino alla loro forma presente e al loro utilizzo in combinazione.
9.1 Il trattamento dei nomi derivati
All’interno del nuovo Protokoll viene descritta, più diffusamente che in passato, la stessa teoria della derivatio che era implicita
nelle grammatiche antiche ed era citata soltanto di sfuggita nelle
grammatiche delle causae. Per Scottelio, le radici sono gli elementi formativi del linguaggio (die Fundament und die Grundsteine
der Sprache, 1663, p. 1276), sono più antiche delle normali parole
(1641, pp. 105) e contengono solo le lettere che sono rimaste immutate dopo che Dio ha confuso le lingue a Babele (1663, pp. 33).
Queste lettere nascondono l’essenza ultima delle parole e, quindi,
sono chiamate lettere sostanziali (Wesentlichstammbuchstaben,
1641, p. 89) o radicali (Stammletteren)58. Proprio per la loro antichità ontogenetica, le radici di norma sono monosillabiche (Die Stammwörter oder radices […] ensylbig sind, 1663, p. 1273), ma a volte
possono essere bisillabiche (1663, p. 61) e si conservano soltanto
nelle forme più semplici e antiche delle parole, come l’imperativo
dei verbi (1663, p. 1274). Le parole flesse, derivate e composte si
58
I grammatici semitici dividevano le consonanti in ‘radicali’ (ar. ’aṣlīyya, da
’aṣl ‘radice’), se facevano parte della radice, e ‘servili’ (ar. zā’idīyya), se
facevano parte degli schemi formativi dei nomi derivati: nel nome ar. madrasa ‘scuola’ (da d.r.s. ‘studiare’) è servile la m-, ma sono radicali d, r e s.
La stessa distinzione è ripresa nelle grammatiche ebraiche e arabe stampate
in Europa (Reuchlin 1506, pp. 7-8 e Postel 1539, p. Eiiir), da Adelung (1781,
p. 57; 1782, pp. 198-9) e Albrecht che, però, preferisce parlare di syllabae
radicales e adiectae (1573, p. E5, E9, C4). Si noti, però, che nelle grammatiche semitiche questa distinzione è una distinzione tecnica tra le “lettere”
che fanno parte della radice e le “lettere” che si uniscono ad essa per formare i derivati. L’interpretazione “ontogenetica” di questa differenza, ad ogni
modo, è evidente già in Ravio (1648), su cui si veda Alfieri (2017). L’idea
che le radici possano anche essere bisillabiche, inoltre, è ripresa da Mäkze
(1778: xxxix) in polemica con Fulda (1778, p. 31), secondo cui le radici erano necessariamente monosillabiche. La coincidenza tra radice e imperativo,
infine, è un’idea che risale alla Germaniae exegesis di Irenicus (1518) ripresa
da Scottelio (cfr. McLelland 2010, p. 7; 2011, p. 260).
142
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sono formate dalle radici a cui si sono unite nel tempo altre lettere,
chiamate accidentali o servili, che sono diverse da lingua a lingua
per via della maledizione babelica (1641, pp. 89-90)59.
All’interno di questa teoria, si iniziano a descrivere gli stessi dati
empirici che noi oggi utilizziamo per illustrare i processi sincronici di formazione delle parole. Come Sanzio, gli studiosi tedeschi
progressivamente riducono l’analisi di species e figurae alla sola
descrizione dei nomi semplici, derivati e composti, escludendo
le species semantiche che si trovavano ancora ampiamente nelle
grammatiche latine e, seguendo Scaligero e Sanzio, riuniscono tutti
questi argomenti in un unico paragrafo dedicato a species & figurae
nel loro insieme, come fa Albrecht (1573, pp. E3 ss.), oppure in due
paragrafi contigui dedicati alla derivazione e alla composizione,
come fa Scottelio (1641, pp. 95 ss. e 303 ss.)60. In entrambi i casi,
come dice chiaramente Albrecht (1573, p. E6):
species, figuris non incommode subiunguntur, cum sint coniugata
accidentia. Indicant autem species, quanam origines quodlibet nomen
nascatur (“le species e le figurae si possono unire utilmente, dato che
rappresentano accidenti collegati. Infatti le species indicano da quali
origini nasce ogni nome”).
Anche solo dal punto di vista quantitativo, l’analisi della derivazione nelle grammatiche proto-diacroniche tedesche è molto più dettagliata di quanto non sia nelle grammatiche pratiche coeve: in Scottelio
(1641), ad esempio, occupa cento pagine circa su seicentocinquanta, e
lo stesso tema occupa uno spazio percentualmente solo di poco inferiore nelle grammatiche di Albrecht (1573) e Adelung (1781).
59
60
La stessa teoria sull’origo linguae è citata da Albrecht (1573, p.es. alle pp.
C2-3 e E5) e da Ritter (1616, p. 47), ma è descritta più dettagliatamente da
Adelung (1781, pp. 1 ss.; 1782, pp. xii ss.; 1783, pp. 27 ss.), dai lessicografi
tedeschi che cercano delle radices della lingua originalis (cfr. § III.10.1) e
dai filosofi francesi che studiano l’origo linguae (cfr. § III.10.2). Sulle analogie tra la linguistica francese e quella tedesca nel XVII-XVIII secolo, si veda
Aarsleff (1984 [19821], pp. 19 e 227).
Ritter e Adelung, invece, trattano la derivazione (i.e. le species o l’origo)
prima della flessione (1616, pp. 47-52 e 101; 1781, pp. 55-71), ma la composizione (i.e. le figurae) dopo la flessione (1616, p. 151; 1781, pp. 376-400).
Aichinger tratta species e figurae nei capitoli sul nome e sul verbo, come si
usa nelle grammatiche pratiche, ma le tratta in due paragrafi continui (1754,
pp. 136-168 e 268-272), come Scottelio.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
143
Rispetto alle grammatiche pratiche, inoltre, cambia il modo con
cui gli studiosi trattano i dati sulla derivazione. Albrecht, Clajus,
Scottelio e Aichinger elencano sistematicamente le terminationes
che formano i nomi derivati tedeschi, come -heit, -keit, -er, -ig,
-isch, -haft, -ung, -en, etc. e descrivono le tipologie morfo-semantiche dei nomi derivati che si formano con i diversi suffissi: -heit
converte gli aggettivi in nomi astratti, -ig forma aggettivi di qualità
a partire da nomi, etc. (Adelung 1783, p. 79)61. In molti casi, inoltre,
gli studiosi non si limitano a descrivere i prodotti dei processi di
derivazione (i.e. i nomi derivati), ma descrivono anche i processi di formazione dei nomi ex prima radice […] primum reperta a
inventoribus linguis (Albrecht 1573, pp. E5 e E8): in tedesco, ad
esempio, gli aggettivi toponimici si formano senza alcuna terminatio (Johannes Würzburg), con la terminatio -er (Johannes Römer),
o con la terminatio -isch (Johannes Sächsich).
9.2 I termini tecnici e le procedure di analisi
In questo quadro, si propongono le prime operazioni di scomposizione morfemica e le prime indagini sulla struttura interna delle
parole. Albrecht nota che nel participio media syllaba sempre est
radicalis, & thematis originem indicat (sag-en ‘dire’ → ge-sag-t
‘detto’, 1573, p. I5). Clajus indaga sistematicamente il rapporto tra
il genere dei nomi e le terminationes con cui sono formati e descrive le modifiche che subisce il tema verbale (chiamato Wurzel)
nella formazione della seconda persona singolare del presente, del
passato e del participio (cfr. presente: ich schlaffe, du schleffest;
imperativo: schlieff; participio: geschlaffen, 1587, p. 148). Scottelio
nota che in tedesco il tema si trova nella seconda persona singolare dell’imperativo, e non nella terza persona singolare del presente
indicativo, come dicevano prima Prisciano e poi i Signori di Port
Royal (Die Gebietungsweise (modus imperativus) ist in Teutscher
Sprache die Wurzel oder die Stammwort, 1663, p. 1274) e divi61
L’elenco sistematico delle terminationes è modellato su quello presente negli
Excerpta e in Melantone (1558), e compare in Albrecht (1573, pp. E8 ss.),
Clajus (1616, pp. 77 ss. e 78 ss.), Scottelio (1641, pp. 303-344; 1663, pp.
317-395), Aichinger (1754, pp. 136 ss.) e Adelung (1781, pp. 103 ss., 257 ss.;
1783, pp. 55 ss.).
144
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
de regolarmente le Haubtendungen der Abgeleiteten ‘suffissi (lett.
le terminazioni dei derivati)’ dai temi a cui si affiggono (1641, p.
100). Adelung identifica l’Ablaut nella formazione dei plurali e dei
preteriti (p.es. Vogel ‘uccello’ → pl. Vögel o bind ‘legare’ → pret.
band, 1781, pp. 60 ss.) e inizia ad utilizzare con una certa frequenza
il trattino (o i due trattini) di divisione morfemica che sarebbe divenuto comune nell’‘800 (ich lieb=e ‘io amo’, ich lebt=e ‘io amai’ e
ge=wes=en ‘stato’, 1782, p. 204).
Contemporaneamente nasce la terminologia tecnica sulla formazione delle parole a cui siamo tutti abituati. Nell’incipit della
Sprachkunst (1641, pp. 22-3), Scottelio presenta una tavola di equivalenza tra i termini tecnici latini e tedeschi: radix e thema sono
tradotti con Wurzel e Stammwort; terminatio con Endung, compositio con Doppelung, declinatio con Abwandelung e derivatio con
Ableitung62. Il termine Wortbildung, a rigore, non compare prima di
Fulda (1776), ma Scottelio (1641 e 1663) e Adelung (1781; 1782)
usano già il sintagma Bildung der Wörter per indicare la formazione delle parole (per le prime attestazioni del termine Wortbildung,
cfr. infra n. 76 § III.10.1). È vero che, in certi casi, la linea di confine tra la flessione, la derivazione e la composizione non è ancora
del tutto univoca. Albrecht, ad esempio, definisce verba derivata
aut coniugata tutte le parole non-semplici, siano esse dei nomi derivati o dei composti (1573, p. F5), quindi classifica il termine belligeratio come un derivato di bellum (1573, p. F5), e tratta le parole
formate con preverbi come verstehen ‘capire’, ausgehen ‘uscire’ e
aufstehen ‘alzarsi’ come dei composti, anche quando i preverbi non
sono separabili (come verstehen, 1573, p. E4). E lo stesso fanno
Ritter e Scottelio. Il primo divide le parole in due classi, simplex seu
composita (‘semplici e complesse [i.e. derivate e composte]’, Ritter
1616, p. 1); il secondo, invece, dice che demonstrieren è un derivatum oder compositum; oppure che Mannshaft ‘umanità’ e Willigkeit
‘volontà’ sono dei composti di Mann e Willig, perché i suffissi -haft
62
La sezione sui termini tecnici torna senza modifiche nella Ausführliche Arbeit
(1663, pp. 52-3). Per l’analisi della terminologia tecnica di Scottelio, si vedano
Jellinek (1913, p. 137), Barbarić (1981) e McLelland (2011, pp. 49-50 e 70
ss.). È possibile che Scottelio abbia mutuato il termine Stammwort da Gueniz,
che lo usa una volta (Barbarić 1981, pp. 1208-9); i termini Wurzel e Grundwort
invece, risalgono l’uno al Teutsches Syllabierbüchlein di Sebastian Helber
(1593), l’altro al termine grondwoord di Stevin (McLelland 2011, p. 49 n. 20).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
145
e -keit sono trasparenti quasi quanto delle parole autonome; o anche
che il sintagma im Reiche ‘nel regno’, la forma flessionale Reiches
‘del regno’ e i derivati reich ‘ricco’ e reichsten ‘ricchissimo’ sono
tutti Abgeleitete ‘derivati’ dello Stammwort Reich ‘regno’, perché
tutti risalgono a questa radice (pur se in modi diversi); e sostiene
che i verbi formati con i preverbi sono comunque dei composti,
perché i preverbi hanno un’indipendenza fonetica simile a quella
delle parole autonome (Scottelio 1641, p. 79; 1663, pp. 51 e 68)63.
Nonostante qualche incertezza, però, da Scottelio in poi gli studiosi
cominciano a distinguere, in modo tutto sommato regolare, le desinenze flessionali (zufällige Endungen) e i suffissi derivazionali (Hauptendungen); trattano sempre i temi derivati e i composti in sezioni diverse
delle grammatiche; segmentano le parole nei morfemi che li compongono; riportano con facilità un certo numero di derivati e composti
ai temi semplici da cui sono formati, soprattutto nel caso di suffissi
evidenti formalmente e produttivi dal punto di vista funzionale (unverantwortlich ‘cui non si può dare risposta’ a Wort ‘parola’; Eigenthätlichkeit ‘attività’ a Thät ‘fatto’; Mannlich ‘umano’, Mannbar ‘nubile’ e
Mannschaft ‘umanità’ a Mann, etc., Scottelio 1641, p. 103)64. In diversi
casi, inoltre, gli studiosi colgono anche la relazione che lega la formazione delle parole e la dimensione che noi oggi chiameremmo “sincronica”: Aichinger, ad esempio, distingue derivazione e composizione in
base alla loro produttività (1754, pp. 136 ss., 146 ss., 157 ss.): niemand
[darff] leicht sich selber derivativa schmeiden ausser den Dichtern
(‘nessuno può creare derivati, esclusi i poeti’), ma i normali parlanti
hanno die Freyheit, alle Tage neue zusammen gesetze Wörter zu ma63
64
Sulla confusione di derivazione, composizione e flessione nel XVI secolo,
si veda Jellinek (1913, pp. 90 ss.); su questa confusione in Scottelio, si veda
McLelland (2011, pp. 49 ss.). Ancora nel XIX secolo, il termine Wortbildung indica spesso la flessione, e la derivazione si chiama, Wort- ma anche
Stamm-bildung (così, ad esempio, in Miklosich 1876, p. 1, e Brugmann 1886,
p. 15). Anche Paul è contrario a una divisione netta tra flessione, derivazione
e composizione (1880, p. 348): la distinzione odierna tra Wortbildung ‘derivazione’ e flessione (Biegung, Inflexion, etc.) si stabilizza solo con Debrunner (1917, p. ix, cfr. Lindner 2012, pp. 94 e 140; 2015b, p. 41; 2016a, p. 93),
dato che per tutto il XIX secolo, i termini Abstammung, Biegung, Ableitung
e Wortbildung sono dei sinonimi.
Un caso analogo si trova in Ritter (1616, p. 47), che dice vox prima, quae
graeci thema, hebraei radicem appellant est quod non aliunde descendit, ut
Liebe amor. Orta est quae aliunde originem ducit, ut lieblich amabilis.
146
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
chen (‘la libertà di creare nuovi composti ogni giorno’). E Adelung si
accorge che è possibile formare parole nuove anche oggi: es lassen
sich noch täglich neue Zusammensetzungen machen (1781, p. 395).
Grazie alla loro analisi della derivazione profondamente innovativa, le grammatiche pancroniche tedesche di questi secoli sono più
informative di tutte le altre grammatiche, generali e particolari, perché riescono a riportare all’interno della descrizione grammaticale i
dati sincronici sulla formazione delle parole che, tra il Rinascimento
e l’Età dei Lumi, erano stati ingiustamente esclusi dalla descrizione
grammaticale proto-sincronica, sia generale che particolare. La stessa descrizione della derivatio, però, rende queste grammatiche meno
coerenti di tutte le altre. Dal punto di vista teorico, la mancanza di
coerenza emerge nella profonda commistione tra proto-sincronia e
proto-diacronia che caratterizza tutte queste grammatiche. Più in pratica, la commistione emerge in modo molto evidente nella profonda
confusione tra i dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole e degli pseudo-dati, ovvero delle teorie filosofiche e pancroniche
sull’origine del linguaggio scambiate per dati empirici e sincronici.
Ritter, ad esempio, si accorge che in tedesco i nomi in -ung o in -keit
sono femminili, perché – dal suo punto di vista – erano femminili le
ex parole della lingua originale da cui sono nate le terminationes -ung
e -keit; dunque immagina che tutte le parole tedesche, senza distinzione, siano divisibili in una radix e una terminatio, che è responsabile del genere di quella parola. Con questo criterio, Ritter ipotizza
una serie di scomposizioni morfemiche arbitrarie e di pseudo-morfemi che servono per giustificare il genere delle parole, come -ab in
Buchstab(e) ‘lettera’, -ad in Rad ‘consiglio’, -ld in Bild ‘immagine’,
o -eib in das Weib ‘donna’, der Leib ‘corpo’, e die Scheib(e) ‘tipo di
puleggi’ (1616, pp. 27 ss.)65. Nello stesso modo, per Scottelio il termine Wurzel indica sempre la parola della lingua originaria che si conserva in tedesco. In pratica, però, questa parola originaria può essere
istanziata, di volta in volta: da un tema primario tedesco, come Welt
‘mondo’ o Fleisch ‘carne’ (1641, p. 89), che è un’unità empirica e
65
Questo tipo di analisi compare già in Clajus (1587, pp. 33 ss.). Il fatto che
-eib sia compatibile con più generi è, per Ritter (1616, p. 23), l’inevitabile
eccezione alla regola. Divisioni morfemiche arbitrarie ricorrono spesso in
Mäkze (ad esempio Lan-d, f-lieg-en e sch-lag-en, 1779, pp. xl e xlvi), ma non
in Scottelio.
Dal Medioevo all’età dei Lumi
147
sincronica; da un tema primario comune a diverse lingue germaniche,
come Tag: Dies, Thur: Porta, Stern: Stella, etc. (1641, p. 167), che è
un’unità empirica ma diacronica; da un costrutto filosofico preconcetto sull’origo linguae scambiato per un’unità di analisi linguistica
empirica, come le ipotetiche radici della lingua primigenia del tipo
lett/litt ‘membrum’, che si conserva ancora nell’ingl. letter, nel ted.
Letter (che ovviamente sono dei prestiti dal latino) e nel lat. littera, e
che forse deriva dal celtico o dall’ebraico LID/LED (1641, pp. 77-8).
Proprio questa confusione tra dati linguistici e teorie filosofiche,
infine, determina una serie di mutamenti molto profondi nella struttura stessa del genere “grammatica”. Tra la Sprachkunst (1641) e la
Ausführliche Arbeit (1663) non ci sono differenze teoriche particolari, soprattutto per ciò che riguarda la teoria della derivazione66. Ciò
che cambia, e cambia in modo molto profondo, è la struttura delle
due opere: la Sprachkunst è una grammatica, la Ausführliche Arbeit
è un’enciclopedia che abbraccia tutto lo scibile sulla lingua tedesca,
dalla sua origine al suo funzionamento in atto, fino al suo valore patriottico-politico o alla sua importanza antiquaria. Come ha scritto
McLelland (2011, p. 170), il fil rouge che collega, pur labilmente,
le diverse sezioni di questa enciclopedia sul tedesco è proprio la
nozione di Wurzelwort, ovvero quella di derivazione, dato che le
radici rappresentano la base per ogni tipo di processo di formazione
delle parole67. In altri termini, è proprio la necessità di descrivere
quei dati empirici sulla derivazione che sono esclusi dalle grammatiche generali e particolari che porta Scottelio prima a modificare
il Protokoll canonico delle grammatiche pratiche; e poi, dato che i
dati grammaticali proto-sincronici sono comunque in contrasto con
i dati proto-diacronici sulla derivazione, lo porta anche a trasformare la grammatica in un’enciclopedia, che è un’opera strutturalmente onnicomprensiva e antiselettiva. In altre parole, la Ausführliche
Arbeit riesce ad accogliere la totalità dei dati sulla lingua tedesca,
inclusi i dati sulla derivazione, proprio perché rifiuta un criterio ri66
67
La seconda edizione dei libri I-III della Sparachkunst forma la prima parte
della Ausführliche Arbeit (Scottelio 1663, p. 1 e Jellinek 1913, p. 130).
Per McLelland (2011, p. 170) il concetto di Wurzelwort fornisce a Scottelio
“the framework for discussing morphology”. Sembrerebbe opportuno, però,
sostituire “morphology” con derivazione, visto che il concetto di morfologia
come insieme di derivazione e flessione sarà definito solo da Schleicher (cfr.
n. 75 § III.10.1).
148
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
gido di selezione dei dati, così come rifiuta quel criterio univoco di
divisione tra i dati linguistici empirici e le teorie filosofiche che, fin
dall’età alessandrina, caratterizzava il genere “grammatica”.
10. Le opere sull’origine del linguaggio tra il Rinascimento e
l’Età dei Lumi
A partire dalla metà del XVII secolo, mentre l’ipotesi babelica
rappresenta ancora la teoria dominante per quanto riguarda l’origine ultima del linguaggio, una nuova prospettiva di ricerca inizia ad
affacciarsi nel panorama degli studi sull’origo linguae. Alcuni filosofi italiani, come Campanella (1638) e Vico (1744, §§ 431 e 434),
e un certo numero di studiosi tedeschi, come Scottelio (1641, p. 89)
e Zesen (1643, pp. iii-v, xxxiii), si oppongono alla teoria creazionista in nome di un’origine naturale del linguaggio68. In un primo
momento, la teoria naturalista non riscuote un particolare successo.
A partire dal XVIII secolo, però, questa teoria si diffonde tanto in
Germania, grazie a Wachter (1737, § 4 e 10), Herder (1772, pp. 25,
42 ss.), Fulda (1776, pp. 368 e 386) e Adelung (1782, pp. 194 ss.),
quanto in Francia, grazie a Condillac (1746, pp. 207 ss.), de Brosses (1765: II, pp. 175 e 481-88) e de Gébelin (1776: I, pp. 542),
fino diventare una vulgata opinio che è accolta nell’Encyclopédie
Méthodique (Beauzée 1784: II, pp. 403 ss. s.v. langage)69. Diversamente da ciò che sembrerebbe naturale pensare, per gli studiosi di
questi secoli, la teoria creazionista e quella naturalista non si esclu68
69
Su Vico e Campanella si vedano Bossong (1992, pp. 10 ss.) e Plank (2001;
2007). Sulle radici filosofiche della teoria naturalista, si veda Eco (1993, pp.
98 ss.). Sui precursori antichi di questa teoria, si veda la n. 8, § II.3.
Tra i fautori della tesi naturalista si possono ricordare anche Wilkins (Droixhe
1993), Leibniz e Rousseau (Aarsleff 1984 [19821], p. 134); per un elenco dei
sostenitori di questa tesi nella Francia tra il XVI e il XVII secolo, si veda
Demonet-Launey (1993, pp. 22-23). La teoria naturalista di Condillac arriva
in Germania con Herder (Aarsleff 1974), a meno che Herder non mutuasse
la stessa teoria da Scottelio (McLelland 2010, p. 12), da Zesen (1641) o dalle
Réflexions philosophiques sur l’origine des langues et la signification des
mots di Maupertuis (1740), che era emigrato da Parigi a Berlino nel 1748
(Aarsleff 1984 [19821], pp. 178-9). Si noti, infine, che la teoria creazionista,
anche se minoritaria nel XVIII secolo, non è mai stata del tutto abbandonata:
la si trova, ad esempio, in Bergier (1764) e Süssmilch (cfr. Aarsleff 1982).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
149
dono a vicenda (Eco 1993, pp. 56 ss.): per Scottelio (1641, pp. 75-8;
1663, pp. 30-34), Zesen (1643, pp. iii-iv), Fulda (1776, pp. 364-368
e 386) e Adelung (1781, p. 5; 1782, pp. 5-11; 1783, p. 37), gli uomini hanno sviluppato una lingua naturale nell’Eden per volere di
Dio, ma questa lingua si è corrotta dopo la rivolta di Babele, dando
origine all’ebraico; Wahl (1789, p. 88) crede che le radici semitiche siano composte da Naturlaute stabiliti da Dio o dalla Natura;
e Scottelio (1663, p. 1003) dice che Dio e la Natura si sono uniti a
Babele per dare origine al tedesco; e Beauzée crede che la Bibbia
sia compatibile con l’origine naturale del linguaggio (1784: II, pp.
411-2 s.v. langage).
Ad ogni modo, pur senza arrivare a una dottrina totalmente unitaria, tutti gli studiosi citati credono che il linguaggio si sia evoluto
a partire dai versi inarticolati degli animali e dai gesti dei primi
uomini, che si sarebbero trasformati prima in onomatopee e interiezioni, poi in monosillabi fonomimetici dal valore olofrastico dotati
di una connessione naturale con i loro significati. Con l’evoluzione del pensiero, questi monosillabi avrebbero iniziato a fondersi
tra loro in un generale processo di evoluzione del linguaggio che
avrebbe portato a un aumento della complessità, dell’arbitrarietà e
anche delle potenzialità espressive del linguaggio stesso e, infine,
alla genesi della flessione, che, per tutti gli studiosi di questi secoli,
rappresenta l’apice dell’evoluzione umana e delle capacità astrattive della Ragione. Per Beauzée (1784: II, p. 411 s.v. langage), ad
esempio, le lingue prive di flessione come il cinese mancherebbero
ipso facto di grammatica, dunque anche di logica, e, proprio per
questo rappresenterebbero il tipo linguistico più vicino alla lingua
originaria e il gradino più basso dell’evoluzione, se non proprio la
lingua originaria dell’umanità, come dicevano, infatti, Webb (1669)
e Vossio (1666)70.
All’interno della teoria sull’origine del linguaggio compaiono
tanto le prime ipotesi di classificazione genealogica delle lingue,
quanto le prime ipotesi di classificazione tipologica delle lingue.
70
Sulla fortuna di questa teoria della “grammaticalizzazione” nel XVIII secolo,
tra Condillac, Tooke e Humboldt, si veda Mancini (1995). Si noti, a margine,
che in tempi recenti, Heine, Kaltenböck & Kuteva (2013) hanno proposto
una teoria della “grammaticalizzazione” molto simile a quella descritta sopra
per spiegare la genesi della grammatica.
150
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
In linea di massima, le prime ipotesi proto-genealogiche nascono
all’interno della teoria “indo-scitica” (sia che questa ipotesi venga
declinata in senso creazionista, sia che venga declinata in chiave
naturalista)71; le prime ipotesi proto-tipologiche, invece, nascono
all’interno della teoria naturalista, e non trovano accoglienza all’interno delle opere che accolgono la teoria creazionista72. In questi
secoli, però, né le opere che si interessano della parentela genealogica tra lingue, né quelle che si interessano della diversità tipologica
delle lingue si occupano dei dati empirici sulla formazione delle
parole. Tuttavia, alcune notazioni interessanti sulla derivazione e sui
nomi derivati compaiono nelle opere che si interessano più direttamente dell’origine ultima del linguaggio. In particolare, le notazioni
sulla formazione dei nomi si ritrovano all’interno di due tipi principali di opere sull’origine del linguaggio: le opere lessicografiche
tedesche che cercano le radici della lingua originaria rimaste sparse
nelle lingue d’Europa (cfr. § III.10.1) e le opere filosofiche francesi
71
72
Sui precursori dell’ipotesi indoeuropea, si veda Metcalf (2013, pp. 33-57).
Nel 1610, ad esempio, all’interno della teoria creazionista, Giuseppe Giusto Scaligero propone di riunire tutte le lingue d’Europa in quattro matrices
principali (greco, romanzo, germanico e slavo). L’ipotesi di una parentela
tra tedesco e greco, invece, compare, per la prima volta, in Bonaventura di
Smets alla fine del XVI secolo (Bonfante 1953-4, p. 690 e Droixhe 1978,
pp. 56-8), da cui passa a Méric (1650), per essere poi ripresa nell’Etymologicon Britannicum di Bernard, pubblicato in coda alla grammatica di Hickes (1689, cfr. Droixhe 1978, p. 83), e torna, infine, nelle opere di Kanne
(1804, cfr. Koerner 1990), che estende la parentela anche al latino. Mylius
(1612), Jäger (1686) e Wachter (1737), invece, collegano alcune voci tedesche con i loro equivalenti persiani; Stiernhielm (1671, p. 77, s.v. haba)
riconosce le affinità nella flessione verbale tra il latino e il tedesco (Lindner
2016a, p. 39); Saumaise (1643: II, pp. 2-3), poi seguito da Leibniz, parla
di una comune origine “scitica” per il tedesco, il persiano, il latino e il
greco, anche grazie ad alcune somiglianze nella flessione verbale (Aarsleff
1982, p. 127, Droixhe 1978, pp. 72 e 90, Morpurgo Davies 1996, pp. 87 ss.
e Gensini 1990, p. 41). A titolo di curiosità, si può ricordare che la prima
ricostruzione di una radice “scitica” risale al De Hellenistica commentarius
(1643) di Saumaise (Lindner 2016a, p. 34).
All’interno della teoria naturalista nasce l’idea di usare i vari stadi attraverso
cui era passata l’evoluzione del linguaggio per classificare la diversità delle
lingue. Questa idea compare, ad esempio, in Adam Smith (cfr. Coseriu 1968;
Plank 1987a; 1992; e Noordergraaf 1990), e torna in Lord Monoboldo (i.e.
Burnett 1773-74) e in Schlegel (1808), ma è assente dai lavori di Mesgnien
(1680) ed è rifiutata da Girard (1747, cfr. Plank 2001; 2007).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
151
che cercano di ricostruire un quadro teorico coerente per spiegare
l’origine e la successiva evoluzione del linguaggio (cfr. § III.10.2)73.
10.1 La lessicografia tedesca
Tra la seconda metà del XVII secolo e l’inizio del XVIII, dopo
l’uscita del lessico di Irson (1656) e del vocabolario dell’Accademia di Francia, anche in Germania appaiono i primi vocabolari di
una qualche ampiezza (Becher 1699, Kramer 1676-78 e, in modo
particolare, Stieler 1691). Queste opere ripropongono lo stesso criterio di lemmatizzazione per parole primarie che si usava in Francia
e che era perfettamente coerente anche con la teoria della derivazione di Scottelio. Stieler, ad esempio, lemmatizza kampieren ‘posizionare l’accampamento’ sotto la voce Kamp ‘campo’ e prima di
Kampf ‘battaglia’74.
Al di là del criterio di lemmatizzazione per Wurzelwörter, però, i
lessici di questo periodo non presentano un trattamento innovativo
della derivazione e non mostrano un particolare interesse per la genesi del linguaggio. Se un legame con l’origo linguae si può trovare
in queste opere, esso consiste nel fatto che, in qualche caso, Becher
(1669) e Stieler (1691) non elencano le parole tedesche primarie,
ma elencano le parole semitiche da cui sono “derivate” le parole
tedesche: ad esempio, i termini abbas ‘abbate’, abatissa ‘abatessa’
e abbatia ‘abbazia’ sono lemmatizzati sotto il sir. abba ‘padre’. È
difficile stabilire, però, se questa scelta dipenda dal fatto che il ted.
abbas sia interpretato come un prestito o se, per Stieler e Becher, il
siriaco abba è una di quelle primae voces di origine semitica da cui
sono nate tutte le parole di tutte lingue.
73
74
Come ha mostrato Aarsleff (1984 [19821], pp. 19 e 227), le opere francesi
e tedesche sull’origine del linguaggio, anche se utilizzano approcci diversi,
condividono lo stesso sostrato culturale. Non è un caso che Fulda (1776, p.
368) citi spesso Curt de Gébelin nel suo dizionario.
Un criterio di lemmatizzazione intermedio tra quello alfabetico classico
e quello per parole primarie compare in Kramer (1676-1678), che elenca
separatamente le voci Binde ‘fascia’ e Binden ‘legare’, ma poi riporta Bindung ‘legame’ sotto la voce Binden (1676-1678, pp. 278-9). Sull’amicizia,
anche personale, tra Stieler e Scottelio, si vedano Ising (1968, p. ix) e Padley (1985, p. 138).
152
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Certo è che a partire dal XVIII secolo, la lessicografia vira verso
una dimensione filosofica molto più marcata. I lessici etimologici
(Stamm-bücher) di Wachter (1727), Fulda (1776; 1778) e Mäkze
(1779) non lemmatizzano le parole primarie del lessico tedesco, ma
elencano tutte le ipotetiche radici della lingua originaria conservate
in tedesco. Le pretese glottogoniche di questi lavori, però, indirizzano la speculazione verso l’analisi filosofica del legame naturale
che unisce i suoni, la forma delle lettere e i significati delle radici,
piuttosto che verso l’analisi linguistica dei dati sulla derivazione in
tedesco. Fulda, ad esempio, distingue la Urwurzel originaria costituita da una sola vocale, che conserva il legame naturale e necessario con il suo significato, e il Wurzelwort monosillabico, che è la
parola di uno stadio evolutivo seriore, e si conserva nell’accusativo dei nomi (acc. Weg ‘via’, nom. Weg-es; acc. Brenn ‘fonte’, obl.
Brennen), più che nell’imperativo dei verbi, come diceva, invece,
Scottelio (Wurzel sind Name und keine Zeitwörtern, 1778, p. 31)75.
E Wachter deriva le parole tedesche da radici germaniche, greche,
latine, celtiche o ebraiche senza differenza (1737, s.v. ABEND,
ACH, ALL, RACH, RAD).
Anche all’interno di queste opere, però, compaiono alcune note di
un certo interesse per la storia della derivazione. Wachter, ad esempio,
presenta un elenco dei suffissi più comuni in tedesco simile a quello
di Scottelio (1737, Proleg. VI) e si accorge che in tedesco ci sono delle litterae & particulae praepositivae & postpositivae, che lui chiama
praefixa e suffixa (1737, Proleg. V e VI), anche se gli sembra che i
suffixa si utilizzino solo in derivando e i prefixa solo in componendo.
Fulda introduce per la prima volta il termine Wortbildung (1778, p.
44) in linguistica, anche se parla di etymologische Wortbildung per
intendere tutto il processo di formazione-creazione del linguaggio
umano a partire dalle primae voces originarie76. Inoltre, sempre Fulda
75
76
La teoria di Fulda risale a Wachter (1737, § 5), mentre Mäkze (1779) fonde
le nozioni di Urwurzel e Wurzelwort nell’etichetta di Stammwort. La teoria
della connessione naturale tra suoni e significati è una communis opinio in
questi secoli che compare in Scottelio (1641, pp. 88 e 91), Zesen (1643, pp.
iii e xxxiii), Wallis (1668, p. 134), Adam Smith (1761, §§ 16 e 25), de Brosses (1765: II, p. 175), de Gébelin (1781: I, p. 481), Wachter (1737: §§ 4 e 10),
Fulda (1776, pp. 53 ss.) e Adelung (1872, pp. 193 e 213).
Scottelio e Adelung utilizzano Bildung der Wörter, ma non Wortbildung
(Kaltz 2004, p. 36). Si noti, inoltre, che, la nascita del termine Wortbildung
Dal Medioevo all’età dei Lumi
153
sostiene che le radici della lingua umana originaria aumentano progressivamente la loro complessità formale e semantica aggiungendo
dei Nebenbegriffe ‘concetti accessori’ alla Grundbedeutung ‘significato di base’ (1776, pp. 52-8), come dirà qualche anno dopo Schlegel
(1808), e comincia a citare le radici con un trattino alle fine, come si
usa oggi (lieb-/lieb, 1776, p. 38). Mäkze, invece, ha il merito di aver
generalizzato l’uso del trattino di divisione per separare, ad esempio,
il tema verbale e la desinenza dell’infinito tedesco in -en o dell’infinito greco in -ein (1778, p. 89), anche se le divisioni morfemiche
che propone sono spesso “fantasiose”, al pari delle sue etimologie:
Land ‘terra’, fliegen ‘volare’ e schlagen ‘colpire’, ad esempio, sono
segmentati come Lan-d, f-lieg-en e sch-lag-en (1778, pp. xl e xlvi).
10.2 La filosofia francese
La stessa teoria sull’origo linguae che è implicita nei lessici tedeschi viene descritta in modo più esteso nelle opere filosofiche
francesi sull’origine del linguaggio pubblicate negli stessi anni.
Per Condillac (1746, p. 207) e de Brosses (1765: II, pp. 178 e 1845), le radici naturali della lingua umana originaria si sarebbero trasformate inizialmente in delle radici lessicali semi-opache e semi-arbitrarie, poi in delle terminaisons totalmente opache e arbitrarie che
si sarebbero poi unite ad altre radici: è questo il caso, ad esempio,
delle terminazioni -issime del superlativo, -ment degli avverbi e -tor
dei nomi d’agente77. Ad oggi, però, le radici originarie da cui sono
nate le parole e le terminazioni resterebbero visibili in alcune lingue
più che in altre e in alcune forme linguistiche, come l’imperativo,
più che in altre (de Brosses 1765: II, pp. 481-488 e 398).
77
precede la nascita del termine Morphologie di circa un secolo, visto che il
termine Morphologie è stato introdotto in linguistica da Schleicher nella
seconda edizione della vergleichende Grammatik (1876). Sul tema, si veda
Salmon (1974, 2000).
Secondo de Brosses (1765: II, p. 408), le terminazioni sono di tre tipi: quelle
la cui origine è chiara (fr. -ment < lat. mente); quelle troppo opache per essere
ricondotte a una radice (che, però, sono rare); e quelle che possono essere
ricondotte solo a radici di lingue più antiche (fr. -er < lat. -are; fr. -oir < lat.
-ēre). Su de Brosses, si vedano Benfey (1869, pp. 281-293), Droixhe (1978,
pp. 23 e 201) e Rosiello (1987). Si noti che ancora Regner nell’introduzione
al Jardin des racines grecque di Lancelot (ed. 1844, p. 1) chiama i suffissi les
petit mots, proprio in riferimento a questa teoria.
154
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
In questo quadro, non compaiono notazioni di particolare rilievo
per l’analisi empirica dei nomi derivati, ma si chiariscono alcuni
aspetti concettuali importanti per la nozione di derivazione. Secondo de Brosses (1765: II, p. 461), ad esempio, la dérivation indica
due processi distinti. Da una parte, c’è la dérivation philosophique,
ossia il processo – noi diremmo acronico – di costruzione delle famiglie di parole o, più precisamente, di concetti (chant, chanter,
chantant, chanson, etc.), che riguarda la filosofia e ci spiega come
facciano gli uomini a manipolare i concetti astratti e universali.
Dall’altra c’è la dérivation grammaticale, ossia il processo – noi
diremmo diacronico/pancronico – di formazione delle parole, ossia
la filiason d’un mot depius sa racine (de Brosses 1765: II, p. 461),
o anche, come dice Beauzée (1784: II, p. 119)78:
La manière de faire prendre à un mot toutes les formes dont il est
susceptible, pour lui faire exprimer toutes les idées accessoires que
l’on peut joindre à l’idée fondamentale qu’il renferme dans sa significations (“la maniera di far prendere a una parola tutte le forme di cui è
suscettibile, per fargli esprimere le diverse idee accessorie che si possono unire all’idea fondamentale racchiusa nella sua significazione”).
Se la derivazione indica la genesi di una parola, la radice non
può che indicare quel mot primitif da cui si è formata un’altra parola, anche se le radici-parola della lingua originaria, in genere, sono
delle unità monosillabiche e, quindi, sono più piccole delle normali
parole (de Brosses 1765: II, p. 372)79. Come dice Beauzée (1786:
III, p. 275, s.v. racine):
78
79
La teoria di Beauzée risale a de Brosses (1765: II, pp. 117 e 178), che oppone
dérivation idéal e dérivation matérielle. Altrove Beauzée definisce la derivazione come: la liaison généalogique d’un mot avec un autre soit de la même
langue soit d’un autre langue (1782: I, p. 591, s.v. dérivation). L’utilizzo del
termine genealogia non deve trarre in inganno: per Beauzée (e i suoi contemporanei) genealogia e ontogenesi sono concetti affini.
La coincidenza tra radice e parola è un’idea comune in questi anni, come
mostrano la voce mot curata da Du Marsais per il X libro dell’Enciclopedia
(Rosiello 1967, p. 97), la voce etymologie curata da Trugot (1784: II, p. 21)
per l’Encyclopédie Méthodique edita da Beauzée e Marmontel, oppure la
definizione di root come original primitive word che si legge nell’Oxford
English Dictionary (nell’edizione del 1740). Sulla coincidenza radice-parola,
si vedano Auroux (1990), Seuren (1998, p. 83) e Rosiello (1987, p. 260). Non
mi pare che de Brosses usi la radice come “elemento formale e funzionale del
Dal Medioevo all’età dei Lumi
155
On donne en générale le nom Racine à tout le mot dont un autre
est formée, soit par dérivation ou par composition, soit dans la même
langue, soit d’une autre langue (“In generale, si definisce Radice ogni
parola da cui un’altra è formata, sia per derivazione, sia per composizione, sia nella stessa lingua sia da un’altra”).
Insomma, sia che si ricostruisca l’origine del tedesco come fanno
Scottelio e Adelung, sia che si raccolgano le radici della lingua originaria, come fanno Wachter, Fulda e Mäkze, sia che si ricostruisca
l’origine del linguaggio dal punto di vista filosofico, come fanno
Condillac, de Brosses e de Gébelin, la nozione di derivazione, in
questi secoli, rimanda all’origine del linguaggio, e lo studio dell’origine del linguaggio, quale che sia il metodo scelto per indagare
questo tema, comporta una certa confusione tra i dati linguistici empirici (e per noi sincronici) sulla formazione dei nomi derivati e gli
pseudo-dati pancronici sull’etimologia, ovvero le teorie filosofiche
sull’origo linguae e la loro applicazione nei lessici “per radici”.
11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del
sapere e il problema del tempo tra il Medioevo e l’Età dei Lumi
Cerchiamo di tirare le somme di quanto abbiamo detto fin ora.
Tra il VI e il XII secolo d.C., l’architettura del sapere descritta nel §
II.12 non subisce delle modifiche strutturali: le grammatiche continuano a classificare i nomi derivati registrati nel lessico, e le opere
che si interessano all’etimologia continuano a studiarne l’origine.
Certo, in questi secoli, si registra un notevole aumento di interesse
per le derivazioni di tipo “semantico-ontologico” (i.e. le derivazioni sensu, non litteratura), come quelle che sono discusse nei vocabolari di Papia, Osberno, Uguccione e Balbi, e per il problema
filosofico dell’origine del linguaggio, che è riformulato alla luce
dall’ipotesi creazionista del Genesi. I dati empirici sui nomi derivasistema morfologico”, come dice Rosiello (1987, p. 262). De Brosses, come
tutti i suoi coetanei, confonde la derivazione e l’evoluzione del linguaggio.
Anche se conosce il sanscrito grazie alla lettera dell’Abbate da Pons a Padre
Halde (Rosiello 1987; Rousseau 1984a, p. 312) e intuisce la “precategorialità” della radice sanscrita, infatti, de Brosses crede che la radice sanscrita sia
un’astrazione (1765: II, pp. 160-1 e 346).
156
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ti, però, non attirano l’attenzione degli studiosi: le grammatiche se
ne occupano poco, sia quando seguono la divisio latina, sia quando
seguono la divisio graeca; e lo stesso fa Isidoro nelle sue Origines,
che privilegiano di gran lunga l’etimologia “remota” rispetto all’analisi pratica delle terminationes.
Tra il XII e il XVI secolo si registrano dei cambiamenti più profondi. Il mutamento, però, non si vede nelle grammatiche pratiche,
che restano fedeli all’approccio sperimentato nei secoli precedenti:
al netto di un paio di eccezioni (cfr. § III.7.2), anche in questi secoli,
i dati sui nomi derivati vengono descritti con un’attenzione minore
di quella che gli attribuiva Prisciano nel VI secolo d.C.
Tuttavia, tra il XII e il XIV secolo, in seguito alla riscoperta della filosofia aristotelica, nasce un nuovo tipo di opera grammaticale
fondata sull’idea di una coincidenza tra pensiero, linguaggio ed essere. Le nuove grammaticae speculativae, in apparenza, descrivono
il latino, come tutte le grammaticae practicae dell’età antica, ma in
realtà cercano di descrivere tutto il meccanismo di funzionamento del linguaggio in generale attraverso l’analisi dei dati linguistici
latini. Questo nuovo tipo di grammatica presenta un approccio più
filosofico, più universalistico e più nettamente acronico di quello
proposto da Prisciano e da Donato, e l’analisi dei nomi derivati è
uno dei campi in cui la differenza emerge più chiaramente. In queste grammatiche, la derivatio non indica più il processo di formazione del linguaggio a partire dalla lingua originaria, ma indica il
processo di formazione dei concetti nella mente di Dio o nell’anima
degli uomini. Anche se reinterpretata in chiave acronica, però, l’analisi empirica dei nomi derivati non ha uno spazio particolarmente
notevole all’interno di queste opere.
Sempre tra il XII e il XVI secolo, aumenta l’interesse degli studiosi per il problema dell’origo linguae, che finisce per assorbire
gran parte dell’attenzione che gli antichi riservavano all’etimologia. A partire dal XVI secolo, infatti, compaiono le prime opere interamente dedicate a questo tema. Le ipotesi principali sono, in sostanza, due: o si identifica la lingua originalis con l’ebraico, come
dice la Bibbia, o la si identifica con una mitica lingua “celtica”,
“indo-scitica” o “gotica”, che sarebbe la diretta antecedente delle
lingue germaniche e la probabile “madre” di tutte le lingue d’Europa. All’interno delle opere sull’origo linguae e, in particolare,
all’interno della teoria “indo-scitica” compaiono le prime ipotesi
Dal Medioevo all’età dei Lumi
157
di parentela tra lingue; sempre all’interno di queste opere compaiono anche delle etimologie “remote” ma, almeno fino al XVI
secolo, l’analisi dei nomi derivati non riscuote particolare successo
in questo campo.
D’altra parte, nel XVI secolo, Scaligero e Sanzio propongono
una nuova riforma del genere “grammatica”. Invece di concentrarsi sul funzionamento del latino o del linguaggio, come tutte le
grammatiche precedenti, sia quelle speculative, sia quelle pratiche,
Scaligero e Sanzio cercano di studiarne le causae, un po’ come faceva, più di mille anni prima, Varrone. All’interno di questo nuovo
tipo di grammatica, che è filosofica e razionalistica come quella dei
Modisti, ma indirizza la speculazione verso la dimensione pancronica dell’origo linguae, l’analisi dei nomi derivati trova un nuovo
spazio. In pratica, Scaligero e Sanzio descrivono gli stessi dati che
sono descritti nelle grammatiche pratiche coeve; la loro interpretazione, però, è rivista in chiave pancronica: la derivazione coincide
con l’etimologia e con l’origine del linguaggio o, più precisamente,
con la parte più recente del processo di evoluzione del linguaggio.
In questo quadro, la quantità di informazioni sui nomi derivati non
è comunque molta, ma le sezioni su species e figurae nominum, che
erano divise nelle grammatiche greche e latine, si possono unire
all’interno di un’unica sezione, come facciamo noi oggi, dato che,
nel loro insieme, la derivazione e la composizione rappresentano le
fasi evolutive più recenti del processo generale di evoluzione del
linguaggio.
Tra il XVI e il XVIII secolo, una nuova ondata di cambiamenti
investe l’architettura del sapere linguistico in generale e l’analisi
dei nomi derivati in particolare. Anche in questo caso, le grammatiche pratiche si evolvono in continuità con quello che avveniva
nei secoli precedenti. Due sono le modifiche più notevoli di questi
secoli: da una parte si irrigidisce il Protokoll di organizzazione dei
contenuti delle grammatiche che si era andato definendo nei secoli
precedenti; dall’altra si riduce ancora lo spazio dedicato all’analisi
dei nomi derivati che, in qualche caso, è completamente esclusa
dalla descrizione linguistica sincronica.
Una continuità simile si registra anche nelle opere sull’origine
del linguaggio. A partire dal XVII e soprattutto nel XVIII, l’ipotesi
creazionista è affiancata da una nuova ipotesi, secondo la quale il
linguaggio avrebbe un’origine tutta naturale. Questa nuova teoria,
158
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
al cui interno nascono le prime ipotesi per la classificazione della
diversità delle lingue, trova una buona accoglienza soprattutto in
due tipologie di opere diverse, ma complementari: le opere lessicografiche tedesche, che cercano le radici della lingua originalis
sparse nelle varie lingue del mondo, e le opere filosofiche francesi
che cercano di ricostruire uno scenario plausibile per l’origine e
l’evoluzione del linguaggio. In entrambi i tipi di opere, soprattutto
a partire dal XVIII secolo, si trovano alcuni dati empirici sui nomi
derivati; la quantità di dati descritti, però, è minima e la loro interpretazione ricalca quella che, già nel XVII secolo, si trovava nelle
grammatiche “pancroniche” tedesche (cfr. infra). Tuttavia, anche in
questo campo si registra una novità interessante: Fulda è il primo
ad usare il termine Wortbildung, anche se, per lui, la Wortbildung
indica l’etymologische Wortbildung che coincide in toto con l’evoluzione del linguaggio.
Più complesso è lo scenario delle grammatiche filosofiche. Tra il
XVI e il XVIII secolo, la prospettiva acronica proposta dai Modisti
torna sia in Francia, sia in Germania. Come le grammaticae speculativae, anche le grammatiche generali di questi secoli cercano di
descrivere la substantia universale del linguaggio attraverso l’analisi dei dati empirici di una lingua particolare (in questo caso, il francese). E come le grammaticae speculativae dei Modisti, anche le
grammatiche generali armonizzano il trattamento dei nomi derivati
e il nuovo approccio acronico-universalistico, seguendo due strade
diverse: Ratke (1630), Gueinz (1641), Régnier-Desmarais (1706)
e Longolius (1715) riprendono la teoria modistica della derivatio
intesa come creazione dei concetti, ma descrivono poco i nomi derivati; Arnauld & Lancelot (1660), poi seguiti da tutte le successive
grammatiche generali francesi da Beauzée (1767) a Sacy (1799),
invece, accettano l’interpretazione proto-diacronica della derivazione tipica di tutte le opere dell’antichità ma, in linea con questa
interpretazione, escludono completamente la descrizione dei nomi
derivati dalla Grammaire.
Negli stessi secoli, soprattutto in Germania, si ritrova la stessa prospettiva pancronica che caratterizzava le grammatiche delle causae. Un certo numero di grammatiche, che trova nei lavori
di Scottelio (1641; 1663) e di Adelung (1781; 1782; 1783) le sue
espressioni migliori, si propone di studiare l’origine del tedesco
nella convinzione che l’origine del tedesco coincida con l’origine
Dal Medioevo all’età dei Lumi
159
del linguaggio in assoluto. In questo quadro filosofico e pancronico,
i dati sui nomi derivati tedeschi rappresentano le prove empiriche
del legame privilegiato che lega il tedesco e la lingua originalis, e
l’analisi della formazione dei nomi prende uno spazio maggiore di
quello che aveva in tutti gli altri campi del sapere. In queste opere,
la derivazione è distinta dalla composizione in modo abbastanza
sistematico; i suffissi di derivazione e le desinenze di flessione, che
prima erano conglobati nella nozione canonica di terminatio, vengono distinti con una certa frequenza; le parole cominciano ad essere divise in morfemi, anche grazie all’utilizzo del trattino di divisione che oggi è comune nelle pratiche di analisi morfemica. È vero
che, in certi casi, la confusione tra i dati empirici sui nomi derivati
e le teorie filosofiche sull’origo linguae tipiche di queste grammatiche determina la presenza di alcune scomposizioni morfemiche
arbitrarie e di alcune etimologie “fantasiose”. Nel complesso, però,
queste opere descrivono all’incirca gli stessi dati sui nomi derivati
che noi oggi descriveremmo nella sezione dedicata alla Wortbildung di una qualsiasi grammatica sincronica contemporanea, anche
se questi dati sono interpretati prevalentemente in chiave diacronico-ontogenetica.
11.1 Due tipi di grammatiche “filosofiche”
Alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo riesaminare la teoria vulgata sull’architettura del sapere linguistico tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Secondo la vulgata, l’architettura del sapere
linguistico in questi secoli sarebbe divisa in tre comparti principali
del sapere (ovvero, le opere sull’origo linguae, le grammatiche filosofiche e le grammatiche pratiche); le grammatiche “filosofiche”
formerebbero una linea di sviluppo sostanzialmente continua che
dovrebbe andare dai Modisti, a Scaligero e Sanzio, fino a Scottelio
e Adelung senza alcuna soluzione di continuità; e le grammatiche
pratiche sarebbero divisibili, innanzitutto, su base geografica (ovvero, grammatiche pratiche francesi, inglesi, italiane o tedesche). Ora,
tutte e tre queste idee sono effettivamente tradizionali e in ciascuna
di esse c’è, per così dire, un granello di verità. I dati che abbiamo
descritto fino ad ora, però, mi pare portino a rivedere diversi aspetti
di questo quadro.
160
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
A partire dalla metà del XVI secolo e poi, soprattutto, per tutto
il XVII e il XVIII secolo, le grammatiche filosofiche si possono
dividere in due gruppi di opere profondamente diversi tra loro sia
per l’inquadramento sull’asse del tempo, sia per la teoria della derivatio. Un primo gruppo di grammatiche filosofiche include prima le
grammaticae speculativae del XII-XIV secolo e poi le grammatiche
generali del XVII-XVIII secolo. Entrambi i tipi di grammatiche descrivono la substantia universale del linguaggio attraverso l’analisi
di una lingua particolare (prima il latino, poi il francese), ed hanno
un inquadramento sull’asse del tempo di tipo “proto-sincronico”
(ossia, in apparenza “sincronico”, ma in realtà “acronico”). Entrambi i tipi di grammatiche, quindi, sviluppano un’interpretazione della
derivazione compatibile con il loro approccio: i Modisti ridefiniscono la derivatio in chiave acronica, come il processo semantico-metafisico di creatio-formatio dei concetti nella mente universale degli
uomini; i Signori di Port Royal, invece, accettano l’interpretazione
proto-diacronica della derivatio tipica dell’antichità, ma escludono
qualsiasi riferimento alla derivazione dalla grammatica, che è proto-sincronica, e trattano i nomi derivati nella lessicologia.
Il secondo gruppo di grammatiche filosofiche include prima le
grammatiche delle causae del XVI secolo, poi le grammatiche “storiche” (i.e. storico-diacroniche) tedesche del XVII-XVIII secolo.
Entrambi i tipi di grammatiche si propongono di descrivere l’origo
di una lingua particolare (prima il latino, poi il tedesco), nella convinzione che tutte le lingue abbiano la medesima origine. Entrambi
i tipi di grammatiche, inoltre, presentano un inquadramento “proto-diacronico” (i.e. pancronico-ontogenetico), poiché descrivono
tutto ciò che va dall’origine del linguaggio al funzionamento di
una lingua, e propongono una teoria delle derivatio coerente con
il loro approccio: Scaligero e Sanzio descrivono i processi di derivatio-formatio delle parole latine a partire dalle loro radici nella
lingua originalis, ma confondono la derivatio e l’etimologia, e non
analizzano i dati empirici sui nomi derivati più di quanto non facciano le grammatiche pratiche coeve; Adelung e Scottelio, invece,
descrivono gli stessi dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole in tedesco che descriveremmo noi oggi, ma interpretano
questi dati solo sub specie originis linguae.
Chiaramente, la differenza tra queste due linee di grammatiche
filosofiche, così come la differenza tra le grammatiche filosofiche
Dal Medioevo all’età dei Lumi
161
e le grammatiche pratiche in generale non va intesa in modo rigido. Ci sono delle grammatiche pratiche che trattano diffusamente i
dati sui nomi derivati, quasi come le grammatiche pancroniche: è il
caso di Meigret (1550), Melantone (1558) e Wallis (1668). Ci sono
anche delle grammatiche particolari che escludono completamente
i dati sui nomi derivati, come le grammatiche generali: è il caso di
Linacri (1550), Bödiker (1746), Bel (1755) e Fränklins (1778). Ci
sono delle grammatiche generali che si occupano di species e figurae, utilizzando la teoria semantica della derivatio dei Modisti: è il
caso di Ratke (1630), Gueinz (1641), Régnier-Desmarais (1706) e
Longolius (1715). E ci sono anche delle grammatiche filosofiche
che sono dotate di una tensione speculativa modesta e sembrano
intermedie tra il polo pratico e il polo filosofico: è il caso di Buffier
(1714) in Francia o di Ritter (1616) e Aichinger (1741) in Germania.
Infine, soprattutto prima della metà del ‘600, è facile trovare grammatiche intermedie tra il polo pratico e il polo filosofico acronico,
come quella di Hellvicus (1616); tra il polo pratico e il polo pancronico, come quella di Clajus (1578); o tra tutti e tre questi poli, come
quella di Ramo (1590). Tuttavia, mi pare che, tra il XVI e il XVIII
secolo, il genere “grammatica” possa essere inteso secondo tre, e
non due, modalità diverse: grammatiche pratiche, grammatiche filosofiche “acroniche” e grammatiche filosofiche “pancroniche”.
Sarebbe riduttivo interpretare il contrasto tra le due diverse linee
di grammatiche filosofiche come una semplice opposizione “geografica” tra le grammatiche francesi e le grammatiche tedesche.
Certo, la linea di descrizione grammaticale acronica ha avuto più
successo in Francia, e la linea di descrizione grammaticale pancronica ha avuto più successo in Germania, soprattutto a partire dal
XVII secolo. Ci sono, però, grammatiche acroniche tedesche, come
quelle di Ratke (1630), Gueinz (1641), Longolius (1715), per non
dire della grammatica speculativa di Tommaso di Erfurt, e ci sono
grammatiche francesi che, in qualche misura, tendono verso la pancronia, come quelle di Meigret (1550) e, in parte, di Ramo (1590),
per non dire delle grammatiche di Scaligero, che era italiano, e di
Sanzio, che era spagnolo. L’equazione acronia-grammatica francese vs. pancronia-grammatica tedesca, quindi, è preferenziale, ma
non è assoluta.
Tuttavia proprio il contrasto “geografico” tra la grammatica filosofica francese, che è preferenzialmente acronica, e la gramma-
162
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
tica filosofica tedesca, che è preferenzialmente pancronica, ha una
rilevanza storiografica particolare. Questo contrasto, infatti, è alla
base di quella peculiare “gara di prestigio” che si registra tra gli
studiosi francesi e gli studiosi tedeschi tra XVII e il XVIII secolo.
Gli studiosi francesi, che escludono la derivazione dalla grammatica, si concentrano sull’analisi della sintassi e cercano di dimostrare
la superiorità del francese sulle altre lingue in base alla naturalezza del suo ordo verborum, che sarebbe stato analogue all’ordine
“naturale” dei pensieri, come diceva Girard (1747). Gli studiosi
tedeschi, che si concentrano sulla derivazione, invece, cercano di
dimostrare la superiorità del tedesco sulle altre lingue per la sua
maggiore copia verborum80. Se, però, ci rivolgiamo a questa particolare gara di prestigio tra lingue con la giusta distanza storica – e
con un filo di ironia –, ciò che resta è solo un contrasto tra due
modi strutturalmente diversi di intendere la grammatica “filosofica”: l’uno preferenzialmente francese e acronico, che descrive
solo (o quasi solo) dati empirici reali, ma non descrive tutti i dati
empirici che noi oggi riteniamo pertinenti per l’analisi grammaticale sincronica, dato che esclude i dati sulla derivatio; l’altro preferenzialmente tedesco, pancronico e incentrato sull’analisi della
derivatio, che, però, confonde ampiamente dati empirici sui nomi
derivati e teorie filosofiche sull’ontogenesi del linguaggio proprio
in virtù della comune interpretazione di quei dati e di quelle teorie
solo sub specie originis linguae.
12. Il lascito della linguistica “premoderna”
Insomma, nonostante il giudizio tradizionale, io direi che tra il
XVI e il XVIII secolo, l’architettura del sapere linguistico include
quattro, e non tre, domini di ricerca principali e ciascuno di questi
domini è definito da un suo inquadramento sull’asse del tempo e da
un diverso modo di descrivere i nomi derivati. In schema (fig. 7):
80
Sulla presenza di questa “gara di prestigio” tra studiosi francesi e tedeschi, si
veda McLelland (2011, pp. 2, 47 e 110). Su Girard, si vedano Plank (2001) e
Rosiello (1987).
Dal Medioevo all’età dei Lumi
163
Lingua-Linguaggio
Grammatiche generali francesi
generale
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: esclusa dalla grammatica
Funzionamento
Grammatiche particolari
particolare
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: analisi (minima) dei nomi derivati
Opere sull’origo linguae
generale
inquadramento: proto-diacronia
derivatio: formazione-creazione di tutte le
lingue
Grammatiche “pancroniche” tedesche
Origine
particolare
inquadramento: proto-diacronia
derivatio: formazione-creazione delle parole
tedesche
Fig. 7, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo
e la derivazione tra il XVI e il XVIII secolo
Probabilmente, per gli studiosi di questi secoli, i tratti definitori
principali di questi quattro gruppi di opere sono lo scopo della ricerca (funzionamento vs. origine); il metodo della ricerca (più empirico-descrittivo quello delle grammatiche pratiche; più filosofico-speculativo quello delle opere sull’origine del linguaggio; intermedio
tra i due poli quello delle grammatiche filosofiche); e il tasso di
universalità della ricerca (più particolare quello delle grammatiche
pratiche e delle grammatiche pancroniche tedesche; più generale
quello delle grammatiche generali francesi). Dal nostro punto di vista, però, è vero che ogni gruppo di opere è definito anche o, forse,
soprattutto da un suo specifico inquadramento sull’asse del tempo e
da uno specifico trattamento della derivatio.
Se confrontiamo l’architettura del sapere linguistico nella fig.
7 con quella vigente oggi (cfr. § I.3), si vede chiaramente che gli
stessi due problemi che affliggevano l’architettura del sapere linguistico nell’antichità si continuano senza trovare una soluzione definitiva anche tra il Medioevo e l’Età dei Lumi (i.e. la confusione tra
164
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
le nozioni di lingua e linguaggio, e l’inquadramento dei dati sulla
derivazione). Il modo in cui gli studiosi rispondono a questi due
problemi, però, è profondamente diverso da quello che si era verificato nell’antichità greco-romana.
Anche tra il VI e il XVIII secolo, le nozioni di lingua e di linguaggio sono confuse. La confusione è fuor di dubbio nelle opere
proto-diacroniche, che continuano a sovrapporre totalmente la diacronia di una singola lingua e l’ontogenesi del linguaggio, né più
né meno di quanto facevano gli etimologisti antichi. Ma, in questi secoli, la confusione diventa evidente anche nelle grammatiche
proto-sincroniche: è assolutamente lampante nelle grammatiche
filosofiche, che studiano la substantia eterna ed universale del linguaggio attraverso i dati di una singola lingua; ma emerge in modo
abbastanza chiaro anche nelle grammatiche pratiche, che finiscono
per imporre lo stesso Protokoll descrittivo elaborato sul latino su
tutte le lingue a prescindere dalla loro tipologia, perché gli studiosi
sono convinti che la substantia eterna e universale del linguaggio
sia uguale in tutte le lingue e che questa substantia, in ultima analisi,
coincida con la grammatica della lingua latina. Anche le grammatiche di questi secoli, generali o particolari, quindi, hanno un inquadramento, in apparenza sincronico, ma di fatto acronico: più consapevolmente acronico quello delle grammatiche “filosofiche”, ma
sostanzialmente acronico anche quello delle grammatiche pratiche.
Anche tra il VI e il XVIII secolo, la distribuzione dei dati empirici sui nomi derivati comporta diversi problemi. In una prima
fase, tra il VII secolo e il XVI circa, i dati empirici sulla formazione delle parole si squadernano tra tutti i campi del sapere, ma non
sono centrali in nessuno, un po’ come avveniva nell’antichità, e in
ciascuno di questi campi sono confusi con dei dati o delle teorie
molto diverse tra loro: sono confusi con i dati lessicografici nelle
grammaticae practicae; sono confusi con le teorie metafisiche sulla
formazione dei concetti nelle grammaticae speculativae; sono confusi con l’etimologia nelle grammatiche delle causae e nelle opere
sull’origo linguae. Tra il XVI e il XVIII secolo, però, i dati empirici
sulla formazione delle parole vengono progressivamente espulsi da
tutte le grammatiche proto-sincroniche, sia generali che particolari,
e iniziano ad aggregarsi nelle grammatiche proto-diacroniche tedesche. Proprio in queste opere comincia a delinearsi quel comparto
dell’analisi grammaticale che tutti oggi chiamiamo “morfologia de-
Dal Medioevo all’età dei Lumi
165
rivazionale”, anche se fino a tutto il XVIII, e ancora per una buona
parte del XIX secolo, i dati descritti in questo comparto sono interpretati solo in chiave diacronico-ontogenetica.
La nuova prospettiva da cui viene affrontata l’analisi dei nomi
derivati in questi secoli determina una confusione tra proto-sincronia e proto-diacronia molto diversa da quella che si verificava
già nell’antichità, ma non meno profonda. In altre parole, nel VI
secolo d.C., la derivazione appariva come una nozione sostanzialmente proto-diacronica, ma i dati empirici sui nomi derivati erano
distribuiti su tutti i campi del sapere senza particolari differenze.
Invece, nel XVIII secolo, la derivazione continua ad apparire come
una nozione sostanzialmente proto-diacronica, ma i dati sui nomi
derivati sono sostanzialmente espunti da tutte le opere proto-sincroniche, che non presentano un inquadramento sull’asse del tempo
coerente con quello che gli studiosi attribuiscono alla derivazione.
Tra l’antichità greco-romana e la linguistica “premoderna”, quindi, i dati empirici sulla formazione delle parole sono stati prima
dei dati ambigui, tanto proto-sincronici, quanto proto-diacronici, e
poi sono diventati dei dati esclusivamente proto-diacronici, ma non
sono mai stati considerati dati puramente sincronici, come lo sono
per noi moderni.
A questo punto è chiaro che quella che tutti noi, con una formulazione anacronistica e post-saussuriana, chiamiamo la “confusione
tra la sincronia e la diacronia” è l’effetto risultante di due confusioni
diverse che interagiscono, ma restano logicamente distinte: da una
parte c’è la confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio (quindi,
a fortiori, quella tra la sincronia e l’acronia, e tra la diacronia e la
pancronia); dall’altra c’è l’inquadramento della derivatio sull’asse del tempo e la sua analisi nelle grammatiche. Chiaramente, gli
studiosi di questi secoli non hanno consapevolezza di nessuna di
queste due confusioni nella stessa forma in cui le inquadriamo noi
oggi. Tuttavia, è difficile sostenere che entrambi i problemi non fossero presenti, almeno in qualche forma, alla consapevolezza degli
studiosi del XVIII secolo.
La divisione delle opere “proto-sincroniche” e delle opere “proto-diacroniche” in due filoni di ricerca, uno di carattere più generale
e uno di carattere più particolare, infatti, rappresenta il primo nucleo a partire dal quale verrà elaborata la distinzione tra le nozioni
di lingua e di linguaggio. Certo, ancora nel XVIII secolo, questa
166
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
distinzione rappresenta una distinzione “di secondo livello”, che è
subordinata a quella che oppone le opere che studiano il funzionamento della lingua-linguaggio e le opere che studiano l’origine
della lingua-linguaggio; è difficile, però, negare che la necessità di
distinguere un approccio generale e un approccio particolare all’analisi linguistica fosse presente agli studiosi a partire almeno dal
XVI secolo e poi ancora di più nel XVII e nel XVIII secolo, sia nel
campo della proto-sincronia, sia nel campo della proto-diacronia.
Lo stesso discorso vale per l’inquadramento della derivazione
sull’asse del tempo. A partire dal XII secolo nelle grammatiche speculative, e poi in modo sempre più evidente tra il XVI e il XVIII
secolo, gli studiosi cercano prima di interpretare i dati sui nomi derivati in chiave acronica, per poterli descrivere nelle grammatiche
filosofiche proto-sincroniche, poi accettano l’interpretazione proto-diacronica tradizionale della derivazione, ma escludono i dati sui
nomi derivati dalle grammatiche proto-sincroniche e li descrivono
solo all’interno delle grammatiche proto-diacroniche, che confondono questi dati con le teorie filosofiche sull’origo linguae. Certo,
in questi secoli, i dati sui nomi derivati non appaiono mai come
dati empirici e sincronici, come li consideriamo noi moderni oggi;
però, è evidente che anche gli studiosi attivi in questi secoli, proprio
come noi, sentivano la necessità di “armonizzare” l’inquadramento
sull’asse del tempo scelto per la grammatica in generale e l’inquadramento sull’asse del tempo dei dati sui nomi derivati.
CAPITOLO IV:
LE GRAMMATICHE SANSCRITE
TRA IL BAROCCO E BOPP
1. Introduzione
La terza questione storiografica di cui vorrei occuparmi per mostrare la relazione che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e il problema del tempo riguarda le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra il Barocco e gli anni ’30 del XIX secolo
(ovvero, in buona sostanza, fino alle grammatiche sanscrite di Bopp
1827; 1832; 1834).
Esistono diverse ragioni per studiare il modo in cui la morfologia derivazionale è trattata in queste grammatiche. Innanzitutto, Lindner (2015a) ha mostrato che le grammatiche pratiche
delle lingue classiche e, più in generale, le grammatiche pratiche
delle lingue europee, iniziano a presentare un capitolo specificamente dedicato all’analisi della Wortbildung solo nei primi anni
del XIX secolo, proprio in virtù del fatto che un capitolo analogo
si trovava già nella Vergleichende Grammatik di Bopp (1833). È
noto, però, che il principale modello per la Vergleichende Grammatik di Bopp, almeno come struttura e come ordinamento dei
materiali, è costituito proprio dalle grammatiche sanscrite scritte
da Bopp stesso (1827; 1832; 1834). Non sarebbe sorprendente,
quindi, se le grammatiche sanscrite di Bopp rappresentassero il
modello principale anche per l’analisi dei dati sulla morfologia
derivazionale.
Inoltre, è noto che la morfologia derivazionale sanscrita è particolarmente produttiva, anche più di quanto non lo sia quella del
greco antico o del tedesco. Non rappresenterebbe un dato inatteso, quindi, se i primi indianisti avessero cercato un modo per
descrivere questa caratteristica specifica e piuttosto evidente della
lingua sanscrita. Nel cap. III, però, abbiamo visto che il modo
in cui è descritta la morfologia derivazionale nelle grammatiche
pubblicate tra il Medioevo e l’Età dei Lumi non dipende tanto
168
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
dalla produttività che la morfologia derivazionale ha in questa o
in quella lingua, ma dipende soprattutto dall’approccio utilizzato
in questa o in quella grammatica. In altre parole, la morfologia
derivazionale tedesca è meno produttiva di quella del greco omerico, ma le grammatiche del greco sono grammatiche pratiche,
quindi presentano un approccio di tipo proto-sincronico, seguono
un Protokoll di tipo “lessicalista”, trattano poco i dati sui nomi derivati e non descrivono mai i processi di formazione delle parole
ma, al massimo, descrivono i prodotti lessicalizzati dei processi
“proto-diacronici” di formazione delle parole (i.e. i nomi derivati
e composti). Le grammatiche “filosofiche” tedesche, invece, presentano un inquadramento “proto-diacronico”, descrivono ampiamente i dati sulla derivazione e, spesso, descrivono anche i
processi di derivazione, ma interpretano tutto ciò che ha a che
fare con la derivazione solo sub specie originis linguae. È quindi
naturale chiedersi come si collochino le grammatiche sanscrite rispetto a questo quadro.
Inoltre, una simile domanda può risultare tanto più interessante,
quanto più si incrocia con una caratteristica peculiare della filologia
indiana e del processo di “grammaticizzazione” (nel senso di Auroux 1994) del sanscrito. Mentre le lingue classiche e poi le altre
lingue europee sono sempre state descritte attraverso l’utilizzo di un
modello di analisi di tipo “lessicalista”, il sanscrito è stato descritto
prima attraverso le lenti della grammatica indiana autoctona, che
ha un’impostazione totalmente “non-lessicalista” (cfr. infra) e, solo
dopo, attraverso le lenti della grammatica europea a base greco-latina. La quantità e il tipo di dati sulla morfologia derivazionale che
si trovano nelle prime grammatiche sanscrite pubblicate in Europa,
e anche l’interpretazione di questi dati, quindi, sono il frutto di una
mediazione complessa tra la produttività della morfologia derivazionale sanscrita, il modello descrittivo totalmente “non-lessicalista” tipico della grammatica indiana nativa, il Protokoll descrittivo
ampiamente “lessicalista” di tutte le grammatiche “proto-sincroniche” europee, sia generali, sia particolari, e la concezione “proto-diacronica” della derivazione tipica delle grammatiche pancroniche tedesche.
A queste ragioni storiografiche di ordine generale, se ne aggiunge un’altra di ordine più specifico, che riguarda la storiografia della filologia sanscrita. La critica, da Martineau (1867,
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
169
p. 309) a Leskien (1876, p. 144), fino a Law (1993) e Rocher
(2002), ha sempre visto le grammatiche sanscrite di Bopp come
il principale punto di svolta tra l’indologia “militante” o “missionaria” degli studiosi soprattutto inglesi dei primi anni del
XIX secolo, che dipende in modo notevole dalla tradizione
grammaticale indiana, e l’indologia “accademica” degli studiosi
soprattutto tedeschi del pieno XIX secolo, che si è emancipata da quella tradizione1. In genere, da questa valutazione, in sé
inoppugnabile, si fa discendere in modo automatico una seconda idea, secondo la quale, grazie a Bopp, “the time-honoured
framework of Greek grammar […] had been superimposed to
Sanskrit” (Law 1993, p. 245). Ora, in parte, questa seconda idea
è ragionevole: se si confronta la grammatica sanscrita di Bopp
con quelle di Carey (1804) o di Colebrooke (1805), è evidente
che la grammatica di Bopp non solo è molto simile alle grammatiche di sanscrito contemporanee, ma soprattutto non richiede
alcuna conoscenza pregressa di grammatica indiana autoctona
per essere letta e compresa, mentre le grammatiche di Carey e
di Colebrooke – per fare due esempi tra i vari possibili – sono
ben poco comprensibili se non si ha qualche familiarità con la
teoria grammaticale indiana. Il processo di adattamento del sanscrito al Protokoll delle grammatiche pratiche europee, quindi,
si conclude davvero con la Ausführliches Lehrgebäude der Sanscrita-Sprache di Bopp (1827). Tuttavia, io non direi che grazie
a Bopp il modello delle grammatiche a base greco-latina è stato
“imposto” sul sanscrito. Anzi, al contrario, nel seguito di questo
capitolo, vorrei provare a dimostrare che, proprio grazie a Bopp,
the framework of Greek-Latin grammar è stato modificato in
modo sostanziale per consentire l’analisi della formazione delle
parole, che rappresenta una caratteristica fondamentale del sanscrito come lingua e uno dei temi più studiati nella grammatica
indiana nativa.
1
Sul contrasto tra indologia “militante-missionaria” soprattutto inglese e indologia “accademica” soprattutto tedesca, e sul diverso valore attribuito ai
grammatici indiani nativi nei due approcci, si vedano Rocher L. (1979, p. 8),
Staal (1972), Law (1993), Rocher R. (2002) e Rocher & Rocher (2013, p. 8).
Sulle prime grammatiche europee di sanscrito, si vedano Adelung (1832),
Wilson (1865, pp. 285 ss.), Gipper & Schmitter (1979, pp. 32 ss.), Law
(1993), Muller (1986; 1993) e Milewska (2003).
170
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
2. La teoria grammaticale indiana
Come si è visto nel cap. III, il Protokoll descrittivo utilizzato tanto nelle grammatiche pratiche, quanto nelle grammatiche generali,
si fonda sull’assunto che la parola sia un’unità minima e indivisibile, che la descrizione grammaticale richieda un solo livello di
analisi (i.e. il livello delle parole formate), che i processi di formazione delle parole siano esclusi dalla descrizione grammaticale
in senso proprio, perché riguardano l’origine del linguaggio, e che
la descrizione grammaticale di ogni lingua debba comprendere tre
sezioni principali: i suoni della lingua, la flessione delle partes orationis e la sintassi. I grammatici indiani nativi, invece, fin dal V-IV
secolo a.C., hanno sviluppato un modello di descrizione linguistica
di incredibile raffinatezza e di altrettanto notevole precisione che è
perfettamente adeguato per descrivere la struttura della lingua sanscrita, ma si basa su degli assunti teorici completamente diversi, se
non addirittura opposti, rispetto a quelli su cui si fonda il Protokoll
descrittivo a base greco-latina che si usa nelle grammatiche “proto-sincroniche” europee, sia generali sia particolari2.
In India, la scienza grammaticale si divide in tre comparti principali: śīkṣa ‘fonetica’, nirukta ‘etimologia’, vyākaraṇa ‘analisi
grammaticale’. Lo śīkṣa si occupa dei suoni e delle loro combinazioni; il nirukta, che trova la sua massima espressione nel Nirukta di Yāska (V a.C. circa), si occupa dell’analisi semantica dei
nomi e della loro adeguatezza ontologica, ma non della loro formazione (Nir. II.1). Il vyākaraṇa si occupa di analisi linguistica in
senso stretto (vy-ā-kr̥- ‘dividere, analizzare’) e trova la sua massima espressione nell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini (lett. ‘Trattato in otto
lezioni’, generalmente attribuito al V-IV a.C., cfr. Cardona 1997a:
4). L’opera di Pāṇini è composta da circa 4000 sūtra ‘aforismi’ o,
più semplicemente, ‘regole’, che sono dotate di una tale brevità e
2
Per una descrizione introduttiva del modello di analisi linguistica utilizzato in
India, si vedano Pineault (1989), Itkonen (1991, pp. 1-85) e Aussant (2019).
Sull’importanza che la derivazione ha in questo modello, si veda Brocquet
(2008). Sulla diversità tra il sistema grammaticale indiano e il modello di
analisi linguistica tradizionale europeo, si vedano Misra (1966, p. 66) e
Cardona (1997b, p. 232). Sulle analogie tra il modello indiano e i modelli
anti-lessicalisti Item and Arrangment e Item and Process dello strutturalismo
americano, si veda Blevins (2016, pp. 14 ss.).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
171
una tale densità concettuale da essere difficilmente comprensibili senza l’ausilio di specifici commenti, come i Vārttika ‘glosse’
di Kātyāyana (III a.C. circa) e il Mahābhāṣya ‘Grande commento’
di Patañjali (II a.C. circa). L’Aṣṭādhyāyī, insieme ai Vārttika e al
Mahābhāṣya forma il trimunivyākaraṇa ‘la grammatica dei tre saggi’, che rappresenta l’auctoritas grammaticale assoluta in India.
A sua volta, l’insieme di queste tre opere, che sono effettivamente complesse alla lettura, è volgarizzata all’interno delle prakriyā
‘trattati pratico-didattici’, che rappresentano la base dell’insegnamento pratico del sanscrito in tutta l’India, come il Rūpāvatarā di
Dharmakīrti (XI d.C.), il Mugdhabodha di Vopadeva (XIII d.C.), la
Prakriyā-kaumudī di Rāmacandra (XIV d.C.) e la Siddhānta-kaumudī di Bhaṭṭoji Dīkṣita (XVII d.C.)3.
La differenza principale tra la grammatica di Pāṇini e i suoi
volgarizzamenti successivi consiste nell’approccio: mentre Pāṇini
insegna a formare le parole della lingua sanscrita a partire dalle
unità minime del lessico (i.e. radici e suffissi), Vopadeva insegna
ad analizzare, ossia a segmentare e scomporre, le parole della lingua sanscrita nei loro elementi formativi (Pontillo 2003a, 2003b)4.
Nonostante questa differenza di prospettiva, però, tutte le opere
di vyākaraṇa si propongono di descrivere le operazioni (kārya)
necessarie per formare o per analizzare tutte le parole (pada) che
potrebbero formare una qualsiasi frase sanscrita (vākya) a partire
dagli elementi minimi della lingua, ossia le basi lessicali (prakr̥ti) e
i suffissi (pratyaya). Queste unità, per gli indiani, nascono dall’immaginazione (kalpanā) dei grammatici, dunque non sono propriamente delle unità “reali” in senso forte (Sharma 2002: I, p. 4), ma
rappresentano comunque le unità di base di tutta la teoria linguistica
indiana, una teoria linguistica che non tratta la parola come un’unità
indivisibile, ma la vede come un aggregato complesso che è forma3
4
Sull’insegnamento della grammatica in India, si vedano Gerow (2002),
Scharfe (2002) e Tull (2015). Le prakriyā contaminano l’approccio formale
di Pāṇini con l’approccio semantico del Nirukta, come facevano già Patañjali
e Kātyāyana, e si concentrano sulla discussione degli esempi, che non sono
mai citati da Pāṇini.
In genere, vy-ā-kr̥- è glossato ‘dividere, analizzare’, ma non è escluso che il
termine, già in origine, possa far riferimento a un processo di creazione (scr.
kr̥- ‘fare’) delle unità linguistiche. Per una discussione sul tema, si vedano
Thieme (1982-3, pp. 11 e 23-4) e Cardona (1997a, pp. 565-471).
172
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
to produttivamente a partire da un elemento fondamentale, il dhātu
‘radice’ (lett. ‘fondamento, elemento di base’)5.
La diversa concezione della parola determina un’organizzazione dei contenuti molto diversa nel vyākaraṇa e nelle grammatiche
europee. L’Aṣṭādhyāyī, ad esempio, include VIII libri. Se si escludono i libri I-II, che trattano temi miscellanei (i.e. le regole interpretative generali, l’analisi della flessione attiva e media, la sintassi
dei casi, la composizione e la funzione delle desinenze flessionali),
l’Aṣṭādhyāyī comprende tre comparti tematici e ciascun comparto
è definito dalla presenza di una diversa unità di input per le regole
di formazione previste nel libro stesso. I libri III-VII riuniscono le
regole che elaborano una base lessicale (prakr̥ti). Le basi lessicali
sono di due tipi, il dhātu ‘radice’ e il prātipadika ‘tema nominale’,
e ogni tipo di base può essere primaria o derivata. Il libro III, quindi, riunisce tutte le regole che hanno una radice (dhātu) primaria o
derivata come forma di input e producono un verbo (tiṄ) o un tema
nominale derivato tramite un suffisso primario (kr̥t) come forma di
output. I libri IV-V, invece, riuniscono tutte le regole che richiedono
un tema nominale (prātipadika) primario o derivato con un suffisso
kr̥t come forma di input e producono un tema nominale derivato
con un suffisso secondario (taddhita), un tema di femminile (ṄīP)
o un nome flesso (sUP) come forma di output6. I libri VI e VII
5
6
L’utilizzo del dhātu come forma di base per la derivazione delle parole è canonizzato da Pāṇini, ma non è nato ex nihilo (Chatterji 1964, p. 64-5; Pontillo
1994 e 2003b, p. 110). Nell’Aitareya Brāhmaṇa (V a.C. circa), ad esempio,
si usa il participio passato del verbo presente in una stanza come mezzo per
citare tutta la stanza; nella Śatapatha Brāhmaṇa (VIII a.C. circa) VII.4.1.10,
la connessione tra due forme corradicali è indicata attraverso la terza persona
singolare del presente indicativo. In altri casi, sempre nell’Aitareya Brāhmaṇa, è possibile trovare il participio passato unito al suffisso -vat (mahad-vad
o jāta-vat per indicare le radici mah- e jan-), ma anche il participio presente,
l’imperativo, il nome d’agente o il nome d’azione (per una disamina dei passi
salienti, si veda Scharfe 1977, pp. 81-82).
Le lettere maiuscole indicano gli it (o anubandha): si tratta di elementi funzionali che si elidono nel processo di derivazione dopo aver indotto delle
modifiche formali sulle unità a cui sono affissi (i.e. letters that are rejected
in inflection […], the rejection of a letter being equal to a grammatical rule,
nella definizione di Carey 1806, p. v). In pratica, gli it si usano per gli scopi
più disparati. Ad esempio, una P unita alle desinenze verbali determina il grado guṇa: i- ‘andare’ + tiP → eti ‘va’, e una K unita a un suffisso kr̥t implica
il grado zero: budh- ‘svegliarsi’ + Ka → budha- ‘sveglio’. Pāṇini descrive le
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
173
descrivono le modifiche formali che subiscono tutte le basi che precedono un suffisso (aṅga), siano esse dei dhātu o dei prātipadika. Il
libro VIII, infine, riunisce le regole che riguardano i pada ‘parole
formate’. In schema (fig. 8, cfr. Sharma 2002: I, p. 166, lievemente
adattato)7:
prātipadika
ṄīP
taddhita (+ṄīP)
prakr̥ti
sUP
kr̥t (+taddhita (+ṄīP))
dhātu
TiṄ
Fig. 8, la struttura dell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini
Ora, l’organizzazione della grammatica di Pāṇini non si fonda propriamente su una teoria dei livelli di analisi nel senso occidentale del termine8. Ciò nonostante, tutte le regole descritte
7
8
regole d’uso degli it in Aṣṭ. I.3.2-9 e VII.2.114 ss. Per le funzioni degli it, si
vedano Misra (1966, pp. 65 ss.) e Devasthali (1967); per un’utile introduzione sull’utilizzo degli it, si veda Itkonen (1991, pp. 16 ss.).
Sulla struttura della grammatica di Pāṇini si veda Cardona (1997a; 1997b). Le
prakriyā hanno una struttura simile, ma antepongono la sezione sui suffissi
nominali a quella sui suffissi verbali (Scharfe 1977, p. 174; Sharma 2002: I, pp.
24 e 30; Aklujkar 2008, p. 197); inoltre, in diverse prakriyā, come la Siddhānta-kaumudī di Bhaṭṭoji Dīkṣita (cfr. Vasu 1995), i sūtra sono ordinati in base alla
parte del discorso a cui si riferiscono (i.e. nome, verbo, etc.), invece che in base
al livello di analisi considerato (cfr. Aussant 2019, p. 494). Secondo alcuni studiosi, nella grammatica indiana manca la sintassi: Pāṇini, però, descrive l’assegnazione dei casi nella sezione sui kāraka che, per noi occidentali, riguarda la
sintassi dei casi. Inoltre, il fine dell’Aṣṭādhyāyī è quello di insegnare a formare
una qualsiasi frase sanscrita, anche se la formazione della frase è descritta solo
in forma indiretta, insegnando a formare le parole che comporrebbero qualsiasi
frase (Scharfe 1977, p. 98; Sharma 2002: I, pp. 41-56).
In effetti, nella fig. 8, gli elementi sulla stessa “linea” appartengono a “livelli”
diversi, ed elementi dello stesso “livello” si trovano su “linee” diverse: le prakr̥ti sono primarie e derivate; tiṄ, kr̥t, taddhita e ṄīP sono sulla stessa linea, ma
174
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
nell’Aṣṭādhyāyī richiedono almeno due livelli di analisi, uno per
le unità di input della derivazione (prakr̥ti o aṅga), l’altro per le
unità di output del processo di derivazione (prakr̥ti derivate o anche pada).
Come la teoria dei livelli, così anche la teoria indiana delle unità
minime è molto diversa da quella greco-latina. I grammatici indiani
non utilizzano un solo livello di analisi (i.e. il livello delle parole
formate) diviso in tre classi (nome, verbo e aggettivo) ma due livelli
di analisi divisi in due classi ciascuno. Le unità minime del livello dei pada si dividono in due classi: nāman o subanta ‘nome’ e
ākhyata o tiṅanta ‘verbo’, a cui si possono eventualmente aggiungere upasarga ‘preverbo’ e nipata ‘particella’ (o, nei termini di Pāṇini,
avyaya ‘invarianti’). Le classi di subanta o tiṅanta sono delle classi flessionali come dice il nome stesso (lett. ‘ciò che finisce [anta
‘fine’] con una desinenza nominale [sUP]’ e ‘ciò che finisce [anta
‘fine’] con una desinenza verbale [tiṄ]’) e sono simili alle partes
orationis della grammatica latina (Sharma 2002: I, p. 165)9. In India, però, la flessione è un’operazione stem-, non word-based, perché il pada è l’unità di uscita dell’elaborazione flessionale, ma non
9
tiṄ indica una parola flessa, kr̥t indica un derivato primario, taddhita indica un
derivato secondario, e ṄīP indica un nome primario, un derivato primario o
un derivato secondario; d’altra parte, tiṄ e sUP rientrano entrambi nella classe
dei pada, ma sono collocati su linee diverse; e qualsiasi unità può essere un
aṅga, se è seguito da un suffisso. La grammatica indiana, quindi, è organizzata
attorno al concetto di “dominio”, più che a quello di “livello” (Sharma 2002: I,
p. 165). Alcuni studiosi, invece, credono che Pāṇini utilizzi gli stessi “livelli”
di analisi del generativismo: semantica, sintassi astratta (i kāraka), sintassi superficiale e fonetica (Kiparsky & Staal 1968; Kiparsky 1982). Per una critica
di questa tesi, però, si vedano le considerazioni di Sharma (2002: I, pp. 56-9).
Pāṇini non usa il termine nāman, ma usa ākhyata. Il termine avyaya è definito in Aṣṭ. I.1.37; i termini subanta e tiṅanta sono definiti in Aṣṭ. I.4.14.
Il termine sUP indica l’insieme delle desinenze nominali (elencate in Aṣṭ.
IV.1.2) e il termine tiṄ l’insieme delle desinenze verbali (elencate in Aṣṭ.
III.4.78). L’insieme delle desinenze è indicato per metonimia, citando solo il
primo elemento della serie: la -s del nominativo singolare e la -ti della terza
persona del presente indicativo. Le lettere -UP- e -Ṅ- sono it (cfr. n. 6 § IV.2):
-U- indica che le desinenze richiedono il sandhi; -P- che sono enclitiche;
-Ṅ- che possono indurre l’apofonia. Nella teoria indiana, inoltre, l’aggettivo
non è una parte del discorso diversa dal nome: per gli equivalenti funzionali dell’aggettivo nella grammatica indiana, si vedano Pontillo & Candotti
(2011). Per la teoria indiana delle parti del discorso in generale, si vedano
Radicchi (1973-4), Cardona (1997a; 1997b) e Aussant (2019).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
175
è l’unità a cui si affiggono le desinenze, che è solo il prātipadika
‘tema nominale’. I grammatici indiani, infatti, non trattano la desinenza (vibhakti) come la parte finale di una parola, come implica il
termine lat. terminatio, ma la immaginano come la parte che viene
separata o divisa dal tema (vi-bhaj- ‘dividere’); nello stesso modo,
i grammatici indiani non vedono i paradigmi come un insieme di
parole flesse, ma li vedono come il prodotto dell’affissione di un
certo numero di desinenze ad un tema semplice10.
Se il livello dei pada prevede le due classi sintattico-flessionali di nome e verbo, le forme di input che servono per costruire
i pada non sono in sé stesse né nomi né verbi, ma sono prakr̥ti
‘basi lessicali’ che, a loro volta, sono divise in due classi: dhātu
‘radice’ e prātipadika ‘tema nominale’. I pada, che rappresentano
le unità di output del processo di derivazione, sono classificati
in base all’occorrenza delle desinenze nominali e verbali; le prakr̥taya, che sono le unità di input della derivazione, invece, sono
classificate attraverso l’utilizzo dei suffissi. I suffissi (descritti a
partire da Aṣṭ. III.1.1) sono divisi in due classi; i suffissi primari
(kr̥t) che si uniscono alle radici (Aṣṭ.III.1.93) e formano i kr̥danta
‘derivati che terminano con un suffisso kr̥t’, come vác-as- ‘parola’
da vac- ‘parlare’; e i suffissi secondari, o taddhita, che si uniscono
ai prātipadika (Aṣṭ. IV.1.1 e IV.1.76) e formano i taddhitanta ‘derivati che terminano con un suffisso taddhita’, come áśva-vant- ‘che
possiede cavalli’ dal nome primario áśva- ‘cavallo’ e táras-vant‘veloce’ da tár-as- ‘velocità’, che è un derivato kr̥t della radice
tr̥ - ‘passare attraverso’11.
La lessicografia indiana è coerente con una teoria delle parti del
discorso che distingue in modo sistematico elementi primari ed ele10
11
Sulla nozione indiana di flessione, si veda Ronzitti (2014).
I termini kr̥t e taddhita possono indicare sia i suffissi con cui si formano
i derivati, sia i derivati stessi (Chatterji 1964, pp. 102 e 108-11). La distinzione kr̥t/taddhita è stata alle volte messa in dubbio per alcuni errori
dei grammatici indiani (Burrows 1955, p. 119): ad esempio, il nome udrá‘lontra’ è tradizionalmente considerato un derivato kr̥t della radice ud- ‘bagnare’ (i.e. ud-ra-); ma, si tratta di un derivato taddhita: udr-á- ‘[animale]
acquatico’ formato dal nome *udar- ‘acqua’ (gr. ὕδωρ, lat. unda < *ud-na-),
che, a sua volta, è un derivato kr̥t della radice ud-. Se si esclude qualche
errore, però, la divisione tra suffissi kr̥t e taddhita è generalmente accolta
dalle grammatiche sanscrite europee (MacDonell 1910, p. 138; Whitney
1924, p. 418; Burrows 1955, p. 288).
176
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
menti derivati. La lessicografia più antica non raccoglie i pada, ma
le radici. I dhātu sono raccolti nel dhātupāṭha ‘lista di radici’ (path‘recitare’, dato che il dhātupāṭha veniva declamato ad alta voce dagli studenti nelle scuole brahmaniche), che probabilmente risale a
Pāṇini stesso12. I temi nominali formati con i suffissi kr̥t, invece,
sono raccolti nel gaṇapāṭha ‘lista di temi gruppi’, che forse risale
anch’esso a Pāṇini, mentre gli avyutpanna ‘elementi inderivabili’ e
gli uṇādi ‘nomi formati con il suffisso -uṆ-, etc.’, i.e. i nomi formati secondo regole ad hoc, che seguono schemi formali irregolari o
non del tutto produttivi, sono elencati in una sezione specifica della
grammatica di Pāṇini, gli uṇādisūtra (Aṣṭ. III.3.1). La lessicografia
più tarda, che si sviluppa a partire dalla fine del V secolo d.C. con
l’Amarakoṣa di Amarasiṃha, invece, elenca i pada dividendoli per
campi concettuali, ma non usa un criterio strettamente alfabetico
e non registra tutto l’insieme delle parole sanscrite, come fanno i
vocabolari latini.
Insomma, nella teoria grammaticale indiana le parole sono il risultato di un processo di formazione che parte dai morfemi semplici (radici e suffissi), e la classificazione delle unità minime della
lingua non richiede un livello di analisi diviso in tre classi, ma due
livelli divisi in due classi ciascuno (dhātu e pratipādika sul livello
della prakr̥ti, sUP e tiṄ sul livello del pada)13. La parte principale di
ogni grammatica indiana, quindi, è dedicata a descrivere le regole
produttive di derivazione che i parlanti possono utilizzare per formare o, al massimo, per analizzare le parole sanscrite.
12
13
Sull’attribuzione di dhātupāṭha, gaṇapāṭha e uṇādisūtra si vedano Scharfe
(1977, p. 102) e Sharma (2002: I, p. 37 ss.). Diversamente dal dhātupāṭha, il
gaṇapāṭha non contiene solo temi nominali, ma contiene tutti i “gruppi” di
parole diversi dalle radici verbali, come i temi nominali, ma anche i numerali, i pronomi o alcune particelle invariabili (ad esempio, ca ‘e’ che inizia
il gruppo nr. 85 del gaṇapāṭha nell’edizione di Böhtlingk). Per un esempio
di dhātupāṭha moderno, si veda Werba (1997). Sulla storia del dhātupāṭha,
si vedano Paustian (1977) e l’antologia di Staal (1972). Sulla storia della
lessicografia indiana, si veda Vogel (1979; 1999).
Secondo Yāska e gli etimologisti tutte le parole indiane sarebbero derivate
dai dhātu senza eccezioni (Nir. I, 12); per i grammatici come Pāṇini, invece,
molte parole sono derivate ma esistono anche nomi primari. Sul tema, si
vedano Katre (1968-69: II, p. 399), Scharfe (1977, p. 81) e Pontillo (2003b,
pp. 110 ss.).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
177
3. Le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra Roth
(1660-1668) e Bopp (1827, 1832, 1834)
Vasco de Gama approda nelle Indie Orientali nel 1498. A metà
del XVI secolo, i gesuiti Franz Xavier, Filippo Sassetti e Francesco
de Nobili organizzano la prima missione cristiana a Goa. Le prime
traduzioni di testi sanscriti, però, risalgono solo alla metà del XVIII
secolo, quando il missionario Abraham Rogers traduce gli aforismi di Bartr̥ hari in un lavoro sulla religione e sulla cultura indiana
(De Open-Deure tot het verborgen Heydendom, Leida 1651). Negli
stessi anni il frate carmelitano Roth, di stanza ad Agra, pubblica la
prima grammatica sanscrita scritta da un europeo (1660-1668), che
però resta sostanzialmente ignota in Europa. Alla generazione successiva risalgono la grammatica di Hanxleden (1712-1732), che era
allievo di Roth, e la lettera sul sanscrito dell’Abbate da Pons a Padre
du Halde, che è la fonte principale per la conoscenza del sanscrito
da parte di Brosses, dell’Abbate Cœrdoux e degli Enciclopedisti14.
Nel XVIII secolo, l’India è sotto il dominio inglese e i funzionari britannici sentono la necessità di un approccio diretto alle leggi
indiane, la cui interpretazione finisce spesso per essere manipolata
a proprio piacimento dai pandit. Nel 1773, Warren Hastings, Governatore del Bengala, incarica Nathanel Brassey Halhed di redigere un codice di leggi basato sui testi indiani. L’opera, A Code of
Gentoo Laws (1776), è una collazione di various originals in the
Sanskrit language (Halhed 1776, p. x) e fornisce un impulso per
lo studio del sanscrito da parte dei ceti dirigenti inglesi di stanza
in India15. Negli stessi anni compaiono diverse traduzioni di testi
sanscriti in Europa, come la Bhagavad Gītā di Wilkins (1785), la
14
15
Sulle prime traduzioni di testi indiani si vedano Müller (1892: I, pp. 192 ss.) e
Windisch (1917, pp. 2-3). Sulla conoscenza del sanscrito da parte di de Brosses e degli Enciclopedisti, si vedano Rosiello (1986) e Swiggers (1988-90);
su Cœurdoux e la lettera dell’Abbate da Pons si vedano Gipper & Schmitter
(1979, p. 35), Mayrhofer (1983), Staal (1972, pp. 30-31) e Belardi (2002: I,
pp. 227 e 273); su entrambi i temi, si veda Rocher (2002). Sull’importanza di
Roma e dell’Italia per gli studi sanscriti nel XVIII secolo, si veda Marazzini
(1987; 1990).
Si noti che, nella sua grammatica di bengalese (1778), Halhed include varie
note sul sanscrito e si accorge della somiglianza tra sanscrito e greco prima
di Jones (Law 1993, p. 239). Sulle ragioni che spinsero gli Inglesi a studiare
il sanscrito, si veda Rocher (1993, p. 235).
178
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Śakuntalā di Jones (1789) e la Oupnek’hat di A.H. Anquetil-Duperron, la traduzione francese delle Upaniṣad che fu resa famosa da
Schopenauer. In questa prima fase, però, l’interesse per il sanscrito
come lingua è limitato e non si hanno strumenti didattici specifici.
Gli studiosi europei, come Wilkins, Jones, Colebrooke e Wilson,
quindi, devono rivolgersi direttamente ai pandit indiani per imparare la lingua, che viene insegnata agli Europei seguendo il modello
descrittivo indiano16.
Il Third Anniversary Discourse tenuto da William Jones alla Royal
Asiatic Society nel 1786 e la fondazione di Fort Williams a Jahre
nel 1800 da parte di Richard Wellesley, con l’istituzione della prima
cattedra di sanscrito ricoperta da un europeo, l’inglese H. Th. Colebrooke, aprono una fase nuova dell’indologia. Negli stessi anni, nascono le prime cattedre di sanscrito in Europa, come quella dell’East
India College (o Haileybury College) fondato nel 1804, dove insegnano Hamilton a partire dal 1806 e poi Wilkins, oppure quella del
College de France, dove insegna Chezy a partire dal 181417. Proprio
l’istituzione di queste cattedre segna l’inizio della progressiva divaricazione tra la grammatica indiana nativa e lo studio del sanscrito
in Europa. Il definitivo divorzio tra la filologia sanscrita europea e la
grammatica indiana, però, avviene con l’istituzionalizzazione delle
16
17
Su Duperron si veda Schwab (1984, pp. 161-63). Quasi tutti i lavori sul sanscrito usciti sulle Asiatick Researches di questi anni rimandano a due nomi:
Wilkins e Jones (Tull 2015, pp. 217 e 242 n. 7). L’utilizzo dei pandit come
docenti, soprattutto nella prima fase degli studi sanscriti, è perfettamente
noto (Windisch 1917, p. 1; Rocher 1995, pp. 235-40; 2002; Franklins 2011,
p. 34 e le testimonianze dirette di William Jones 1771, pp. xviii); ed è altrettanto noto che la prima base per l’insegnamento grammaticale dei pandit era
la grammatica di Pāṇini: un monaco buddhista cinese del VII secolo d.C., ad
esempio, racconta che l’educazione tradizionale indiana iniziava a sei anni; a
otto anni, il futuro pandit imparava a memoria tutta l’Aṣṭādhyāyī e impiegava
gli anni successivi a cercare di dare un senso al testo che aveva memorizzato
attraverso lo studio dei commenti (Staal 1972, pp. 11-17). Diverse testimonianze dirette, inoltre, confermano che questo metodo era utilizzato ampiamente ancora nel XX secolo (Ingalls 1959, p. 5 e Itkonen 1991, pp. 12-13).
Hamilton vive in India tra il 1783 e il 1797, studia con un pandit e pubblica
una traduzione dell’Hitopadeśa, con un’analisi grammaticale e una lista dei
termini grammaticali indiani (Rocher 1968, pp. 5-10 e 72-79), ma non scrive
una grammatica. Chezy segue a Parigi le lezioni di Sacy insieme a Bopp e,
con Anquetil-Duperron, legge la lettera dell’Abate da Pons che lui stesso ha
ritrovato nella Bibliothèque du Roi (Staal 1972, p. 30).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
179
cattedre di sanscrito nelle università tedesche a partire dagli anni ’20
del XIX secolo, dopo il successo dell’ipotesi indoeuropea di Bopp18.
Insomma, le primissime grammatiche sanscrite che sono state
pubblicate dagli studiosi europei rappresentano il contesto ideale
per verificare in che modo gli studiosi europei abbiano mediato tra
la produttività della morfologia derivazionale sanscrita, la grammatica indiana nativa che è incentrata sulla descrizione della formazione delle parole, il Protokoll canonico delle grammatiche europee e
l’interpretazione proto-diacronica della derivazione abituale delle
grammatiche filosofiche tedesche del XVII e XVIII secolo.
3.1 La grammatica di Roth (1660-1668)
La prima grammatica della lingua sanscrita realizzata da uno studioso occidentale è la Grammatica linguae sanscretanae del Padre
carmelitano Heinrich Roth, composta ad Agra tra il 1660 e il 1668 e
pubblicata solo negli anni ’80 del XX secolo (Camp & Muller 1988)19.
L’influsso della grammatica indiana è molto evidente nell’opera di
Roth, a cominciare dalla terminologia, che proviene tutta dalla tradizione indiana. Roth, ad esempio, divide la flessione del nome in due
classi, come fanno i grammatici indiani: svāraṁta ‘che finisce in vocale (svāra)’ e hasaṁta ‘che finisce in consonante (hasa)’; divide le
radici nei gruppi seṭ ‘radici con (sa-) -i-’ e aniṭ ‘radici senza (an-) -i-’, a
seconda del modo in cui ciascun gruppo di radici forma l’infinito (bhāvi-tum da bhū- ‘essere’, ma bhar-tum da bhr̥ - ‘portare’); utilizza i termini
18
19
Sull’istituzionalizzazione del sanscrito nelle università europee, si vedano
Morpurgo Davies (1996, pp. 28 ss.) e Tull (2015, p. 277).
L’opera ebbe una storia editoriale travagliata. Era nota a Kircher, che da qui
trasse le notizie sul sanscrito incluse nella sua China illustrata (1670, cfr.
Thumb-Hauschild 1955-56) e a Lorenzo Hervás (1787), che, nei primi anni
del XIX secolo, ne trovò una copia nella biblioteca romana del Collegio di
Propaganda Fide; subito dopo, però, l’opera fu smarrita e riapparve solo negli anni ’50 del secolo scorso nel Fondo dei Manoscritti Orientali della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (mss. 171 e 172). Il mss. 171 contiene
la grammatica e il mss. 172 contiene il Pānca-tattva-Prakāśa di Veṇīdatta,
un dizionario di metrica composto nel 1664, e il Vedāntasāra di Sadānanda,
un’introduzione alla filosofia dei Vedanta composta tra il 1490 e il 1660
(Gonda 1963: II, p. 91). Per la storia dell’opera, si vedano Wüst (1929, pp.
9, 29, 71, 119), Thumb-Hauschild (1955-56; 1958: I.1, pp. 168 ss.), Muller
(1986) e Camp & Muller (1988, pp. 6 ss.).
180
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
parasmaipadī e ātmanepadī (lett. ‘parola [pada] per altro [para]’ e
‘parola per sé stesso [ātmane]’) per indicare la flessione attiva e media;
usa i nomi sanscriti dei casi (prathamī ‘primo caso, nominativo’, dvitīya ‘secondo caso, accusativo’, etc.)20; cita le desinenze in isolamento,
divise dal tema, e unite agli it previsti dalla teoria indiana, etc.
L’influenza delle prakriyā indiane emerge anche nella struttura
generale dell’opera, che non segue il Protokoll tradizionale delle
grammatiche pratiche. L’opera di Roth comprende cinque capitoli
(per 48 fogli manoscritti) e una breve antologia. Il cap. I (ff. 3r-11v),
descrive l’alfabeto, i suoni della lingua e il sandhi (ossia, le regole di
aggiustamento fonotattico tra i morfemi all’interno delle parole o tra
le parole all’interno delle frasi). I cap. II, III e V trattano la flessione
del nome (ff. 12r-21v), la flessione del verbo (ff. 22r-36r) e la sintassi
(ff. 32v-47r). Il cap. IV tratta i nomi “deverbali” formati con i suffissi
kr̥t (De verbalibus seu kr̥daṃta, ff. 37v-41r). Anche se la descrizione
della flessione occupa la parte principale della grammatica (capp. II
e III, 24 fogli su 48) e i paradigmi flessionali sono descritti come un
insieme di parole flesse, come si usa nelle grammatiche europee (si
veda, ad esempio, il paradigma di devaḥ in f. 13r), l’opera di Roth
rappresenta comunque la prima grammatica particolare che include
un capitolo a sé dedicato all’analisi della derivazione.
Tuttavia, le modalità con cui Roth descrive la derivazione sono
quelle tradizionali delle grammatiche pratiche. Roth descrive le species nominum nel cap. II dopo la flessione del nome; le species verborum nel cap. III dopo l’analisi della flessione verbale; i composti nel
cap. V, dopo la sintassi dei casi; i nomina verbalia nel cap. IV. Inoltre,
anche se elenca gli augmenta con cui sono formati i nomi derivati
(i.e. -eya, -in, -āya, -ka, -īya, -īna per i derivati denominali del cap. II,
o -ta, -tum, -tvā per i derivati kr̥t del cap. IV), Roth non descrive mai
i processi di formazione dei nomi. Solo quando analizza i composti
o i processi di derivazione più vicini alla flessione, Roth si avvicina
alla nozione di derivazione-processo tipica della grammatica indiana:
i nomi femminili, ad esempio, sono descritti come dei nomi maschili
20
Nella teoria indiana i casi non hanno nomi “parlanti” come quelli che si usano nella teoria greco-latina (cfr. De Mauro 2005 [19651], con le precisazioni
di Belardi 1985, pp. 167 ss., Belardi & Cipriano 1990 e Ronzitti 2014, pp.
149 ss., in particolare le pp. 172 ss.), ma si nominano in base al loro numero
nell’ordinamento tradizionale: i.e. il nominativo è il ‘primo caso’, l’accusativo è il ‘secondo caso’, lo strumentale è il ‘terzo caso’ e così via.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
181
quae feminina fiunt [al presente!] additis his augmentis (f. 17v) e i
composti testimoniano la fertilitas ‘fertilità’ della lingua brahmanum.
3.2 Le grammatiche di Hanxleden (1712-1732) e Pons (1739-1771)
Il modello descrittivo “composito” utilizzato Roth non viene seguito dai suoi immediati successori. La Grammatica Grandonica
del gesuita Johann E. Hanxleden, composta tra il 1712 e il 1732 ad
Ambalakad nel Kerala centrale (e in alfabeto malayāḷam), segue
l’ordinamento tradizionale delle grammatiche pratiche europee e
contiene quasi soltanto delle tavole di flessione corredate da poche,
stringatissime regole (Van Hal & Vielle 2013)21.
La grammatica di Hanxleden comprende cinque parti: la prima
si occupa della flessione del nome (al cui interno sono descritti i
paradigmi nominali, ff. 2v-14r; l’uso dei casi, f. 14v; il genere, f.
15r-v; e i composti, ff. 15v-18v); la seconda si occupa della flessione
del verbo (f18v-35v); la terza della sintassi dei casi (ff. 37r-40r); la
quarta del sandhi (ff. 40r-42v); la quinta degli avverbi (f. 42r-v). La
parte sull’alfabeto non è pervenuta.
La terminologia grammaticale indiana è ignorata quasi del tutto e
il sistema di casi latino è proiettato sul sanscrito senza adattamenti.
Per Hanxleden, i paradigmi rappresentano un insieme di parole flesse, come è abituale in Europa, e non un tema fisso unito a una serie
di desinenze alternanti, come si usa nella teoria grammaticale indiana; e il sanscrito ha tre casi ablativi (f. 2r): ablativus I (i.e. lo strumentale); ablativus II (i.e. ablativo) e ablativus III (i.e. locativo). Il
termine radix non è mai citato e la derivazione non è descritta. Solo
nel paragrafo sulla composizione, Hanxleden nota che in sanscrito è
comune formare degli aggettivi dai sostantivi (est communissimum
in hac lingua facere [al presente!] ex substantivis adjectiva, f. 17r),
come si vede da citrāḥ gāvo yasya ‘le cui vacche sono belle’, che
può essere trasformato nel composto citraguḥ.
21
Hanxleden era allievo e confratello di Roth. Si accostò al sanscrito grazie
all’aiuto di due bramini e allo studio della Siddharūpa, la prakriyā più comune
nel Kerala del XVIII secolo, che è la fonte principale della sua grammatica.
Hervás (1787) consulta una copia anche di questa grammatica nella biblioteca
del Collegio di Propaganda Fide, ma subito dopo l’opera si perde. Recentemente una copia del lavoro è stata trovata nel convento di Monte Compatri, in
provincia di Roma (Van Hal 2010, Van Hal & Vielle 2013, pp. 2-14).
182
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Un discorso analogo, si può fare per la breve grammatica contenuta nella lettera di Padre Jean-François Pons al Padre du Halde pubblicata nelle Lettres édifiantes et curieuses (1743). La lettera contiene
la sintetica descrizione della letteratura indiana e una breve grammatica (edita recentemente da Filliozat 2020), di cui si serviranno
sia l’Abbate Cœrdoux nel suo studio dei manoscritti sanscriti della
Bibliothèque Du Roi di Parigi, sia Friedrich Schlegel durante il suo
soggiorno parigino (Maggi 2002, pp. 517-518; 2008, pp. vii-x e).
La grammatica consiste in un breve riassunto del Mugdhabodha
di Vopadeva ed è divisa in due manoscritti: il primo, in latino e
in caratteri devanāgarī, è del 1739 e comprende alcuni testi e una
trattazione dell’alfabeto e della flessione delle parti del discorso
(pronomi, nomi e verbi), oltre a un estratto dell’Amarakośa e un
dhātupāṭha; il secondo manoscritto è un complemento del primo, ma
è in francese e in caratteri telugu-kannaḍa; fu chiesto da Duperron
a Cœrdoux nel 1771 e contiene una breve descrizione della sintassi
dei casi, dei composti e delle particelle. Nel complesso, la grammatica di Pons segue il Protokoll canonico di tutte le grammatiche
pratiche europee – e, in particolare, quello della grammatica latina
di Alvari (Filliozat 2020, pp. 92-3) – e contiene soprattutto delle
tavole di flessione dei paradigmi nominali e verbali.
Pons si accorge che il sanscrito presenta une variété fort grande
de participes et de verbaux, che jamais langue ne fut si abondante
en synonimes et si riche en mots composez (lettera del 27.12.1729,
Filliozat 2020, p. 55) e sa bene che la grammatica indiana insegna a
combinare gli elementi semplici della lingua per formare parole (lettera del 23.11.1740, Filliozat 2020, p. 68), ma non include una sezione specificamente dedicata alla formazione dei nomi. Tuttavia Pons,
diversamente dall’uso delle grammatiche latine dell’epoca, elenca le
desinenze di persona e di caso come elementi autonomi rispetto alle
parole in cui compaiono (cap. 3, f. xvii e cap. 4, f. xvi, Filliozat 2020,
pp. 131 e 145), e descrive brevemente le nozioni indiane di tema nominale (nomen abstractum ab omni declinatione, cfr. cap. 3, f. xvii,
Filliozat 2020, pp. 129-130) e di radice, anche se, per lui, la radice
coincide con un verbo (verbum dicitur dhāt[u], cfr. cap. 4, f. xxv, Filliozat 2020, p. 143). Inoltre, all’interno del capitolo sulla coniugazione
verbale, si trova una brevissima sezione de verbalibus, al cui interno
Pons cita alcuni dei suffissi più comuni per la formazione di quelli che
lui chiama “participi” (i.e. i derivati primari deradicali), come -tavya,
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
183
-anīya, -ya, -tr̥, -aka, -ta, etc. (cap. 4, f. xxix-xxx, Filliozat 2020, pp.
152-4). Tuttavia, la sezione contiene esempi di parole formate con
questi suffissi, piuttosto che regole di formazione delle parole.
3.3 La grammatica di Paolino da San Bartolomeo (1790)
La grammatica di Hanxleden è la fonte principale per la Sidharubam seu grammatica samscrdamica dal frate carmelitano Paolino
da San Bartolomeo (1790), al secolo Johann Philipp Wesdin, docente di lingue orientali presso il Collegio di Propaganda Fide di Roma
tra il 1770 e il 1776 e inviato di Papa Pio VI in Kerala tra il 1776 e
il 1789 (come ci dice Paolino stesso nel suo memoriale del 1796)22.
La grammatica di Paolino segue il Protokoll tradizionale delle
grammatiche pratiche europee23. Anche in questo caso, la nozione
di derivazione non trova spazio, perché, per Paolino (1790, pp. 64 e
65), la grammatica insegna solo a coniugare e a declinare le parole
(omnia vocabula […] declinare et coniugare), dunque comprende
solo i tres libros classicos grammaticales, ovvero i capitoli sulle
22
23
Paolino dice di aver visto la grammatica di Hanxleden dopo la pubblicazione
del suo lavoro, ma si tratta di una notizia falsa (Van Hal & Vielle 2013, p. 12).
La reale conoscenza del sanscrito da parte di Paolino è oggetto di dibattito:
secondo i più (Windish 1917: I, p. 22; Rocher 1968, p. 19 e Van Hal & Vielle
2013, p. 13), Paolino, non è un buon conoscitore del sanscrito (che, per lui, in
effetti sembra potersi chiamare ugualmente Hanscret, Samscroot, Samscroutam, Samscroudam, Sanskretan, Samscretan, Sanscreet, Sanskrit, Shamskrit,
Samscrit, Sanscrit, Samskrdam, Samskrda, Grantha e Grandon – gli ultimi
due nomi derivano dal nome delle foglie di palma (scr. grantha) con cui erano
rilegati i libri sacri). Non si può escludere, però, che Paolino avesse qualche
conoscenza di Pāṇini, come dice lui stesso nell’introduzione della sua seconda
grammatica sanscrita, la Vyàcarana (cfr. Mastrangelo 2018, pp. 51-57 e 70
ss.). L’opera di Paolino è stata ristampata da Rocher (1977). Sui rapporti tra
Paolino e William Jones, si veda Rocher (1977, p. xxiii). Sulla ragione dei giudizi aspri ricevuti da Paolino dai suoi contemporanei, si veda Županov (2006).
L’indice della sua grammatica è il seguente: dopo una lunga dissertazione
(cap. I, pp. 1-81) sugli alfabeti utilizzati in India (pp. 1-14), sull’eleganza del
sanscrito (pp. 14-25), sulla sua origine (pp. 25-28), sulle divinità indiane (pp.
28-32), sull’antichità, dunque il prestigio, del sanscrito (pp. 32-78), Paolino
descrive l’alfabeto (cap. I, pp. 81-85); la flessione (cap. II, pp. 87-117), i pronomi, gli avverbi, il genere e i composti (cap. II, pp. 86-132); la coniugazione
(cap. III, pp. 133-150); la sintassi (cap. IV, pp. 151-168), che include una
sezione sulla metrica (pp. 158-168); i numerali (pp. 168-170) e un’antologia
della Bhagavadgītā (pp. 171-186).
184
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
lettere, sulle parti del discorso e sulla sintassi24. Paolino, però, nota
che, nella tradizione indiana, i nomi e i verbi si citano nella loro
forma nuda, priva di desinenze, che lui chiama radix (1790, p. 16):
Nomina et verba abstractive a quacunque declinatione aut coniugatione, ac solum prout in radices spectentur (“i nomi e i verbi si considerano a prescindere da qualsiasi declinazione o coniugazione, solo
in quanto radici”)25.
Per Paolino, però, la radix è un concetto diacronico-ontogenetico, mistico e magico, più che un’unità di analisi linguistica. La
presenza delle radices vocum (1790, pp. 9, 64, 11) dipende dalla
prossimità del sanscrito alla lingua originaria degli antichi saggi indiani (1790, p. 3), dato che il sanscrito è un idioma sacrum,
scientificum, literale, divinum (1790, p. 4), la cui origine è incerta
e misteriosa (incerta & fabulosa, 1790, p. 25) e risale addirittura
al “secolo pitagorico” che precede la nascita di Cristo (1790, p.
22). Proprio per la sua antichità, il sanscrito presenta un’immensa
abbondanza di parole (immensa paene & infinita nominum & verborum copia, 1790, p. 16) e ha sviluppato ex se solo quasi tutte le
parole pensabili (omnia fere vocabula excogitabilia) e, soprattutto,
tutti quei termini religiosi e metafisici che noi europei non siamo
riusciti a produrre in proprio, ma abbiamo preso in prestito dai
Greci (1790, p. 16). Pertanto – conclude Paolino – il sanscrito dev’essere, in qualche modo, la madre e la fonte della lingua “latina”
24
25
La suffissazione non è affrontata neppure nella seconda grammatica di scritta
da Paolino, la Vyàcarana (1804), che doveva essere un’epitome del Rūpāvatāra di Dharmakīrti; alla fine di quest’opera, però, compare un dhātupāṭha in
stile indiano (Mastrangelo 2018, p. 93).
Una definizione del tema-radice simile a quella di Paolino si trova già nella
grammatica bengalese di Halhed (1778, p. 52) A Sanskrit noun, on its first
formation from the general Root, exists equally independant of case as of
gender. It is neither Nominative, nor Genitive nor Accusative, nor is impressed with any other of those modifications, which marks the relation and connection between several members of the sentence. In this state it is called an
imperfect or crude noun. Thus jkTkUk raajon [scr. rājan] means Monarch; but
implies neither a Monarch, of a Monarch, to a Monarch, nor any other predicament in which a Monarch can be supposed to stand. To make a nominative
of this word, the termination must be changed, and a new form supplied as
jkTkk raajaa [scr. rājā] a King jkUkh raanee [scr. rājñī] a Queen..
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
185
di Italia, Spagna e Portogallo, oltre che delle altre lingue “malabriche” e delle varie nazioni dell’India (1790, pp. 33 e 39)26.
3.4 La grammatica di Carey (1804)
Certamente più dettagliata della grammatica di Paolino, è la
Grammar of the Sungskrit language (1804 e 18062) del missionario
battista William Carey, docente di bengalese a Fort Williams27.
Carey si rivolge ai funzionari inglesi di stanza in India che studiano il sanscrito con i pandit locali e si propone di facilitare questa modalità d’apprendimento offrendo ai suoi lettori un’opera che
possa aiutarli anche in assenza del loro pandit. Proprio per questo,
Carey cerca di accommodate the work as much as possible to the
European system of grammar, that a person may be able to study the
language successfully without a master (1806, p. v). L’influsso della
grammatica indiana nativa, però, è molto evidente nell’opera, che
comprende cinque libri, e un’appendice. I libri I, II, III e V trattano
gli argomenti descritti in ogni grammatica pratica (alfabeto, flessione e sintassi), anche se la sezione sulla sintassi è breve (libro V, pp.
854-903) e la presenza degli esercizi (che sono inclusi nel cap. V)
26
27
Cfr. ex quo sane infertur quaemadmodum lingua latina Italicae, Hispanicae,
Lusitanicae, ita linguam Sanscrdamicam reliquarum indicarum linguarum &
nationum matrem & fontem esse. Sulla comparazione linguistica in Paolino,
si vedano Rocher (1961) e Van Hal (2004-05) e Mastrangelo (2018: 13). In
particolare, Paolino era autore di due pamphlet dedicati alle affinità tra sanscrito, avestico e germanico (De antiquitate et affinitate linguae Zendicae,
Samscrdanicae et Germanicae, Padova 1798) e alle affinità tra sanscrito e
latino (De latini sermonis origine et cum orientalibus linguis connexione,
Roma 1802). Il nome Malabar (o Melibar, Manībār e Malībār) probabilmente deriva dall’ar. ma‘bar ‘guado’, termine utilizzato dai mercanti arabi e
cinesi del XIII-XIV secolo per indicare la costa del Kerala e del Tamil Nadu.
Carey era un calzolaio divenuto un missionario di successo (Myers 1887 e
Walker 1980): fondò la prima università inglese dell’India, il Serampore College (1818), tradusse il Nuovo e il Vecchio Testamento in bengalese (1801 e
1808), sanscrito (1808 e 1818), marati (1808 e 1820) e punjabi (1815); tradusse l’Hitopadeśa insieme a Colebrooke (1804) e fu autore di una grammatica
di bengalese (1806) e una di marathi (1806). Carey traslittera con <u> (i.e.
<Sungskrit>), il scr. /a/ che oggi si pronuncia [ɐ], [ʌ] o [ɑ] a seconda delle zone
dell’India. La difficoltà che gli Europei incontravano con i metodi didattici dei
pandit indiani è ben descritta da Ballantyne (1849) e Law (1993, pp. 241-2).
186
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
non è scontata28. Il libro IV (derivative words, pp. 569-853), invece,
descrive la derivazione kr̥t (pp. 569-624), la derivazione taddhita
(pp. 625-755), la composizione (pp. 764-843), gli indeclinabili (pp.
755-764) e il genere dei nomi derivati (pp. 843-853), mentre l’appendix (pp. 1-108) spiega le funzioni degli it e riporta un dhātupāṭha.
Carey usa ampiamente i concetti e i termini grammaticali indiani:
cita spesso Pāṇini e Vopadeva (cfr. § IV.2) e ringrazia i pandit indiani di Fort Williams che lo hanno aiutato nello studio del sanscrito
(1806, p. iv); usa regolarmente gli it (1806, p. v), i nomi indiani dei
tempi e dei modi, delle persone e dei casi, isola le desinenze nominali e verbali, etc. Soprattutto, Carey inserisce un’intera sezione
dedicata alla derivazione; poiché, però, tra la prima e la seconda edizione del lavoro, Colebrooke aveva pubblicato una nuova grammatica sanscrita (1805), in cui l’analisi della derivazione era completamente esclusa, nell’introduzione alla seconda edizione della sua
grammatica, Carey spiega le ragioni della sua scelta (1806, p. iii):
Instead of including every word of the language in their dictionaries,
the Hindoo lay down the grammatical rules for forming them from the
roots. Their treaties on grammar are hereby rendered more prolix, and
the difficulty of acquiring the language is increased. Although this may
first appear a disadvantage, the student who makes himself thoroughly
acquainted with the different rules for forming derivative words, will be
amply compensated by a rich store of etymological knowledge, useful
not only in the Sungskrit but in all the colloquial languages of India.
(“Invece di includere ogni parola della loro lingua nei loro dizionari, gli
Hindù descrivono le regole grammaticali necessarie per formarle dalle
radici. Per questo i loro trattati sulla grammatica sono molto più prolissi, e la difficoltà di apprendere la lingua aumenta. Anche se questo può
inizialmente sembrare uno svantaggio, lo studente che familiarizzi a
dovere con le diverse regole per formare parole derivate sarà compensato ampiamente da una ricca messe di conoscenze etimologiche utili
non solo per il sanscrito ma per tutte le lingue dell’India”)29.
28
29
Il libro I (pp. 1-29) analizza i suoni, l’alfabeto e il sandhi; il libro II (pp. 35129) la declinazione di nomi, aggettivi e pronomi; il libro III (pp. 130-568) la
coniugazione verbale.
Lo stesso concetto è ribadito a p. vii: The necessity of the fourth book may in
time be superseded, or the number of rules greatly reduced, by a good dictionary; but in the present state of the language this part cannot be dispensed with.
An etymologist will always found it useful in tracing out the origin not only of
Sungskrit words, but of those which compose all other languages of India.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
187
In sostanza – dice Carey – la derivazione non è affatto un problema sincronico, come credono i grammatici indiani, che la includono
nelle loro grammatiche eccessivamente complesse, ma è un problema etimologico, dunque diacronico-ontogenetico, come sappiamo
bene noi Europei. Poiché, però, non c’è ancora un good dictionary
che elenchi tutte le parole sanscrite, sia quelle primarie sia quelle
derivate, è necessario descrivere la derivazione per consentire allo
studente di leggere i testi antologizzati nel cap. V, anche se la derivazione, a rigore, non riguarda la grammatica sincronica.
L’utilizzo della grammatica indiana consente a Carey di descrivere la morfologia derivazionale sanscrita in modo più preciso e
più dettagliato di come non facessero i suoi predecessori. Carey,
ad esempio, non descrive le parole derivate registrate nel lessico,
ma descrive i processi di derivazione (the rules for forming derivative words, come dice il titolo del libro IV) e, per farlo, utilizza sempre formule che utilizzano verbi attivi e al presente: i verbi
derivati are produced by affixing the above syllables [i.e. i suffissi
di desiderativo, causativo, etc.] (1806, p. 132); the adverbial past
participle is formed by affixing DRokp~ [KtvāC] to the dhatoo (1806,
p. 155)30; nouns of agency are formed by affixing r`.k~ [trṆ] and .d
[Ṇka] (1806, p. 580)31; i composti are formed by rejecting the terminations of the case in all members (1806, p. 764); [they] are formed
with the greatest facility (1806, p. iii).
Tuttavia, la contaminazione tra il Protokoll europeo e la grammatica indiana produce qualche difficoltà descrittiva. Ad esempio, Carey segue il criterio semantico utilizzato nelle prakriyā per
classificare i nomi derivati, che non aiuta la chiarezza dell’esposizione: i derivati kartr̥ ‘agente’ e kāraka ‘azione’, ad esempio,
sono descritti tra gli agency nouns (1806, p. 580), perché i suffissi
-tar- e -ka-, in genere, formano nomi di agente; kāraka ‘azione’,
però, è evidentemente un nome di azione. Inoltre, Carey, come
Pāṇini, introduce i termini tecnici indiani e stila le regole per stabilire l’utilizzo di quei termini, ma non fornisce degli esempi delle
regole che propone. Nella sezione sulla derivazione, ad esempio,
30
31
Il suffisso di formazione del gerundio sanscrito, che Carey chiama participio
passato avverbiale, è solo -tvā indeclinabile: pac- ‘cuocere’ → paktvā ‘avendo cotto’; K e C sono it.
Anche in questo caso, i suffissi sono -tar- e -ka-, mentre Ṇ è un it.
188
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Carey introduce i termini pacādi e grahādi (1806, p. 580), che
indicano le radici il cui elenco – inserito all’interno di una sezione
specifica del dhātupāṭha indiano – comincia con pac- ‘cuocere’ e
grah- ‘prendere’ (scr. ādi vale ‘eccetera’ nel suo uso grammaticale), e dice che la classe pacādi forma i nouns of agency con il
suffisso -an, anche se the n is rejected, mentre la classe grahādi li
forma con il suffisso -ṇin, anche se the ṇ is rejected, ma non cita i
nomi grāhin- ‘colui che prende, il prendere’ e paca- ‘il cuocere’,
che rappresentano evidentemente gli esempi concreti a cui alludono queste regole.
Proprio la scarsa chiarezza descrittiva connessa con l’utilizzo
della teoria grammaticale indiana, però, rendeva la grammatica di
Carey poco appetibile per gli studiosi europei (Law 1993, p. 242).
Per Schlegel (1820, p. 10; 1832, p. 124), Carey era sehr weitläufig
ausgefallen rispetto al suo obiettivo dichiarato di adattare il sanscrito all’European system of grammar; per Burnouf (1825, p. 310),
la grammatica di Carey aveva tutte le oscurità delle grammatiche
indiane senza averne la precisione; per Woolaston (1835, p. xii) si
trattava della nearest approximation to the native plan (sc. of grammatical description); e per Wilson (1844, p. 18) era una compilation
of great merit che, però, era inutile per gli studenti per via del suo
adhering so closely to the native technicalities.
3.5 La grammatica di Colebrooke (1805)
Tra la prima e la seconda edizione della grammatica di Carey
(1804 e 1806), Henry Thomas Colebrooke, docente di sanscrito a
Fort Williams dal 1801 e giudice della Corte di Appello del Bengala,
pubblica a Calcutta A grammar of the Sanskrit language (1805)32.
Colebrooke è un ottimo conoscitore dell’India. Legge i testi sanscriti di filosofia, di legge, di matematica, di astronomia e, soprattutto, di grammatica, tanto da essere definito un Pânini in Englisher
Sprache (Lassen 1842, p. 242); descrive le principali prakriyā nel
lavoro On the Sanskrit and Prakrit Languages del 1803, è il primo
studioso europeo a cimentarsi in una traduzione dell’Aṣṭādhyāyī,
anche se il lavoro non fu mai concluso, e traduce l’Amara Kośa di
32
Sulla vita e sull’opera di Colebrooke si vedano Benfey (1869, pp. 345 ss.),
Windisch (1917, pp. 23 ss.), Law (1993, pp. 224 ss.) e Rocher & Rocher (2013).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
189
Amarasiṁha, il più noto lessico sanscrito dell’epoca (Colebrooke
1807). Nell’introduzione alla grammatica, inoltre, cita i maggiori
grammatici indiani (Pāṇini, Kātyāyana e Patañjali, Bhaṭṭoji Dīkṣita,
Rāmacandra e Vopadeva, 1805, pp. ix-xvi); usa le loro teorie fonetiche (1805, p. 11), gli it (1805, p. v), i concetti di aṅga ‘tema’ (1805,
p. 12), pratyaya ‘affisso’ (1805, p. 13), i nomi indiani dei casi, dei
tempi e dei modi; presenta le desinenze divise dai temi a cui si affiggono e unite con i loro it (1805, pp. 31, 134 e 146-7); discute
spesso i sūtra di Pāṇini (1805, p. 37); non stampa i paradigmi in
forma tabellare, come fanno gli studiosi europei, ma li colloca nel
corpo del testo, stampando un caso di seguito all’altro, come si usa
abitualmente nelle prakriyā.
Anche se conosce molto bene la grammatica indiana, però, Colebrooke organizza la sua grammatica seguendo il Protokoll canonico delle grammatiche europee (alfabeto e flessione, oltre a un
dhātupāṭha), senza includere una sezione dedicata alla sintassi, né
tanto meno una sezione dedicata alla derivazione33. Nel testo, Colebrooke cita appena le nozioni di dhātu ‘crude verb’ (1805, p. 129) e
di prātipadika ‘crude noun’ (1805, p. 12), e dice chiaramente che in
sanscrito all nouns without exception say some grammarians, and
with few according to others may be deduced by rule of etymology from some crude verb (1805, p. 11); l’analisi dei nomi derivati,
però, non ha nessuno spazio nella sua grammatica.
Nonostante la scelta “europeizzante” di escludere tutti i dati sulla derivazione, però, l’influsso della grammatica indiana su Colebrooke apparve comunque del tutto eccessivo ai suoi immediati
successori. Come scrisse Wilson (1844, pp. 19-20): the technical
language of his rules, as those of Carey’s grammar, is startling and
perplexing to a European student, and almost incomprehensible without the aid of an interpreter34.
33
34
La grammatica di Colebrooke è così composta: l’alfabeto, i suoni della lingua e
il sandhi (capp. 1-3, pp. 1-30); la flessione di nomi, pronomi e numerali (capp.
4-12, pp. 31-108); il genere e la formazione dei femminili (capp. 13-14, pp.
108-119); le particelle indeclinabili (cap. 15, pp. 120-128); la coniugazione
dei verbi (capp. 16-19, pp. 129-180); la declinazione del verbo “essere” (cap.
20, pp. 181-200), il dhātupāṭha (capp. 21-22, pp. 200-396). La sintassi sarebbe
dovuta rientrare in un secondo volume, che, però, non fu mai pubblicato.
Dei giudizi simili da parte di Humboldt (in una lettera a Bopp del 29.5.1829), Lassen (1842, p. 242) e Benfey (1869, p. 349) sono riportati da Law (1993, p. 243).
190
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
3.6 La grammatica di Wilkins (1808)
Molto diversa da tutte le grammatiche precedenti è la Grammar
of the Sanskrĭta language di Charles Wilkins (1808). L’opera non fu
redatta per i dirigenti inglesi di stanza in India che avevano accesso
alle lezioni orali dei pandit, ma fu pensata come manuale per gli
studenti europei dell’Haleybury College, dove Wilkins fu impiegato a partire dai primi anni del XIX secolo come Visiting Professor e
Keeper of the Oriental Manuscripts35.
Il mutamento nel pubblico di riferimento è evidente nella terminologia: Wilkins sostituisce tutti (o quasi tutti) i termini grammaticali
indiani con i rispettivi calchi inglesi. Il termine sandhi diventa permutation of letters; i nomi indiani dei casi e dei tempi non sono citati
(1808, p. 37); la flessione è organizzata in otto declinazioni, raggruppando le desinenze in base alle loro somiglianze formali (1808, pp.
36-7), come facevano Donato e Prisciano; i paradigmi sono presentati
nella forma tabellare tipica delle grammatiche europee; e gli it sono
utilizzati il meno possibile (i.e. solo nella forma di citazione delle desinenze e nell’analisi delle classi verbali, 1808, pp. 37-8, 126 e 123).
Anche dal punto di vista stilistico, inoltre, Wilkins non organizza la
sua grammatica intorno a delle regole che governano l’applicazione
di termini tecnici, come facevano i grammatici indiani, ma presenta
dei paradigmi che facciano da esempio per un’intera classe di parole,
come si usa nelle grammatiche occidentali (1808, pp. 37-8).
Il rifiuto dei termini tecnici e dello stile descrittivo indiano, però,
non implica il rifiuto della teoria grammaticale indiana in toto. Nel
1815, infatti, Wilkins pubblica un dhātupāṭha e, nella sua grammatica, oltre alle sezioni canoniche che compongono qualsiasi grammatica europea (i.e. suoni della lingua, flessione e sintassi), include
35
Wilkins inizia a studiare il sanscrito nel 1778, su consiglio di Halhed, leggendo tre prakriyā molto diffuse in India nei primi anni del XIX secolo: la
Sārasvataprakriyā di Anubhūtisvarūpācārya, il Mugdhabodha di Vopadeva e
la Ratnamālā di Puruṣottamadeva. Per aiutarlo, il suo pandit gli prepara un’edizione della Sārasvataprakriyā su due colonne, una per il testo sanscrito e
l’altra per la traduzione inglese (l’opera è conservata nei mss. 2809 [795] e
2834 [800] dell’India Office Library ma non è mai stata pubblicata). Nel 1786,
dopo aver insegnato il sanscrito a Jones e Colebrooke, Wilkins torna in Inghilterra e cerca di completare una grammatica che aveva iniziato anni prima
collazionando varie fonti indiane (Wilkins 1808, pp. xii ss.), probabilmente
senza aver mai letto i lavori di Carey e Colebrooke (Law 1993, p. 246 n. 16).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
191
dei paragrafi specifici dedicati all’analisi della derivazione kr̥t (On
the formation of participles and participial nouns, pp. 407-492),
all’analisi della derivazione taddhita (On the formation of derivative
words, pp. 493-536), e allo studio della composizione (On the compound words, pp. 556-594)36; accetta le nozioni indiane di tema nominale o crude state (sc. of the noun, cfr. 1808, p. 36) e di radice o
primitive verb (1808, p. 120); e descrive le regole per la formazione
dei nomi, non solo la forma dei nomi derivati registrati nel lessico:
ad esempio, the participle of the common form of the present tense
is made by affixing the termination vu~ [an] to the verbal root (1808,
p. 407); v [a] […] is used to form a variety of substantive nouns
(1808, p. 469); words attributive of ancestry, tribe, race, family &c.
are derived from their primitives (1808, p. 494); there are two way
of forming compounds of this species (1808, p. 569), etc.
Nonostante la scelta “indianizzante” di includere la derivazione
nella grammatica, però, la ricerca di uno stile descrittivo compatibile con quello europeo fu apprezzata dagli studiosi successivi (Law
1993, p. 247), come mostrano i giudizi positivi espressi sul lavoro
di Wilkins da Hamilton (1809, p. 367), A. Schlegel (1820, p. 10),
Burnouf (1825, p. 311), Adelung (1830, p. 36), Wilson (1844: 23-4)
e Woollaston (1835, p. iii).
3.7 La grammatica di Forster (1810)
Nel 1804, Henry Pitts Forster presenta il suo Essay on the Principles of Sanscrit Grammar al Consiglio del College di Fort Williams, ma l’opera sarà pubblicata solo nel 1810, dopo la pubblicazione delle grammatiche di Carey, Colebrooke e Wilkins37.
36
37
L’ordinamento del lavoro di Wilkins è il seguente. La prima parte del lavoro (pp. 1-36) descrive l’alfabeto (Of the elements, pp. 1-6) e il sandhi
(Orthography, pp. 17-35). La seconda parte analizza la flessione dei nomi
(Declension of nouns, pp. 36-106), dei pronomi (Declension of pronouns and
pronominals, pp. 107-119) e dei verbi (Conjugation of verbs, pp. 120-406).
La terza parte analizza la derivazione kr̥t (On the formation of participles
and participial nouns, pp. 407-492), la derivazione taddhita (On the formation of derivative words, pp. 493-536), le particelle (Indeclinable words, pp.
537-555), la composizione (On the compound words, pp. 556-594), il genere
(Gender of nouns, pp. 595-618) e la sintassi (Syntax, pp. 619-655).
Forster entra nella Compagnia delle Indie Orientali nel 1783, dirige la zecca
di Calcutta, pubblica un vocabolario e una grammatica di bengalese, e pro-
192
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Forster non ha un’alta opinione del modello grammaticale indiano, che per lui è un confused, complex system (1810, p. vi) dotato di
numerosi defects in the mode of teaching and abstruseness (1810,
p. x). Per questo, Forster raccoglie alcuni trattati grammaticali indiani che cerca di methodize and arrange on a plan, more congenial
to that observed by European grammarians, as being more simple
and perspicuous (1810, p. vi), evita la moltitude of rules tipica delle
prakriyā (1810, p. 83), e traduce in inglese vari termini grammaticali indiani (il termine sandhi, ad esempio, è reso con mutation of
letters, 1810, p. 15).
A dispetto delle dichiarazioni di principio, però, l’influsso della
grammatica indiana è molto evidente nel suo lavoro. Ad esempio,
Forster utilizza gli it, i nomi indiani dei tempi e dei modi, e la nozione di radice che, per Forster, non coincide con nessuna nozione
nota alle grammatiche europee38. Inoltre, dopo aver descritto, le lettere, l’alfabeto e il sandhi (capp. I-II, pp. 1-80), nel cap. III, presenta
una lunga serie di tavole che riuniscono gli elementi semplici della
lingua (pp. 81-431), come le radici, i suffissi e le desinenze, e discute le regole necessarie per combinare questi elementi tra loro (pp.
432-440)39. Solo a p. 441 comincia la grammatica nel senso europeo
del termine; e anche in questo caso Forster unisce ai dati canonici
sulla flessione e sulla sintassi (capp. IV, VIII e XI-XII), dei capitoli
specificamente dedicati ai nomi formati con i suffissi kr̥t (cap. V, pp.
461-509); alle radici derivate causative, desiderative, etc. (cap. VI,
38
39
muove l’utilizzo di questa lingua nelle corti di giustizia indiane che, fino ai
primi anni del XIX secolo, utilizzavano il persiano (soprattutto nel Nord del
paese). Le date di consegna e di pubblicazione dell’Essay sono testimoniate
da Forster stesso (1810, p. xi).
Cfr. Forster (1810, p. 81): In rendering the Roots into any other language,
a considerable difficulty arises from there being no such corresponding element of words preserved for, in fact they are not words themselves, as their
very name implies; they merely convey the abstract idea of things, actions
and quality; but when organized they no longer differ from words in any
other language. In the limited choice of rendering them as verbs or nouns,
I should prefer the latter, as being less subject to misinterpretation of their
sense, even when converted into verbs.
Più specificamente, le tavole di Forster elencano: le radici (pp. 86-186), le
desinenze verbali (pp. 187-244), i suffissi kr̥t (pp. 245-287), le radici derivate (pp. 288-333), le forme irregolari della coniugazione (pp. 334-383), le
desinenze nominali (pp. 384-421) e i pronomi (pp. 422-431). Forster, inoltre,
utilizza regolarmente gli it e i nomi indiani dei tempi e dei modi.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
193
pp. 510-539); ai verbi denominali (cap. VII, pp. 540-460); ai nomi
derivati con i suffissi taddhita (cap. IX, pp. 574-639) e ai composti
(cap. X, pp. 642-676).
La derivazione è descritta secondo il modo indiano, come processo produttivo. Forster, infatti, descrive i principles of formation
of nouns (1810, p. 575), non soltanto la forma dei nomi derivati
registrati nel lessico, perché, come dice lui stesso, il sanscrito è una
lingua founded on actual etymology (1810, p. v). I verbi con cui
Forster descrive i processi morfologici, quindi, sono sempre verbi
attivi e al presente, che alludono alla produttività in atto delle regole di formazione delle parole: I have shewn their [sc. of the roots]
capacity of forming a new series of Modified Roots, which like the
Simple Roots, are convertible either into verbs or nouns (1810, p.
81); each of these roots […] forms as many verbal nouns, participles, and the like, that is above sixty thousand (1810, p. vii); the
root takes a certain suffix, or takes a different form, makes a form
a derivative (1810, p. 461). Troppo perché i sanscritisti del XIX secolo potessero apprezzare realmente la sua grammatica, come mostrano i giudizi, piuttosto sferzanti, che Bopp (Lefman 1891: I.1, p.
111) e A. Schlegel (1832, p. 125) riservarono all’opera di Forster40.
3.8 La grammatica di Yates (1820)
Nel 1820, William Yates, scolaro e collega di Carey alla Missione Battista di Serampore, pubblica a Calcutta A Grammar of the
Sunscrit Language on a new plan, un plan, che, come dice Yates
nel sottotitolo della seconda edizione del lavoro (1845), era pensato
per essere similar to that most commonly adopted for the learned
languages of the West.
Yates ritiene che il sanscrito sia simile al greco (1820, pp. xviii-xxi) ed è, quindi, naturale che si utilizzi lo stesso plan per descrivere entrambe le lingue (1820, p. xxii). Inoltre, crede che nella
brevità tipica delle regole grammaticali indiane there is a danger
40
Gli sferzanti giudizi su Forster di Bopp e A. Schlegel sono discussi da Law
(1993, p. 244 n. 13). Ciò non toglie, però, che agli occhi di Bopp il lavoro
di Forster doveva avere anche dei pregi: una lista delle desinenze sanscrite
analoghe a quella di Forster appare tra i desiderata di Bopp (1818, p. 470) e fu
poi inclusa, pur se in forma semplificata, nella sua grammatica (1827, p. 98).
194
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
of becoming obscure (1820, p. vi) e che le grammatiche sanscrite
pubblicate fino ad allora siano confessedly too voluminous and in
many particulars too abstruse (1820, p. vi). Per questo, anche se
rende omaggio a Vopadeva (1820, p. xxiii), evita i termini tecnici
indiani, a cominciare dagli it, che gli sembrano calculated rather
to exercise the patience than to improve understanding (1820, p.
ix)41; e riporta i paradigmi dei nomi, dei verbi e degli aggettivi in
forma tabellare, come si usa nelle grammatiche europee (1820, pp.
xii-xiii). Anche l’ordinamento dei materiali segue il Protokoll tradizionale delle grammatiche pratiche: l’ortografia (pp. 1-31), l’etimologia (pp. 31-266), che include due paragrafi molto brevi dedicati
alle parole derivate (pp. 251-262) e composte (pp. 263-87), e la sintassi (pp. 267-341), oltre a un capitolo sulla prosodia (pp. 342-402).
Un’appendice pensata for the convenience of those who may have
to converse with learned natives elenca i termini tecnici indiani,
spiega le regole del sandhi e l’utilizzo degli it, e presenta le desinenze in isolamento, alla maniera indiana (pp. 403-423).
La principale novità del new plan di Yates, insomma, consiste
in parte nell’esclusione dei termini tecnici indiani, in parte nell’assenza di un capitolo specifico dedicato all’analisi della formazione
delle parole. Anche in questo caso, la scelta di escludere completamente l’analisi della derivazione è spiegata da Yates nell’introduzione della sua opera (1820, p. xiii):
A singular plan by which Sunskrit grammar have been rendered exceedingly prolix, has been that of laying down rules to account for the
formation of almost any derivative word. In most cases derivative words
may be traced by the respective roots with the greatest facility; in particular instances, where the origin is doubtful, the methods of tracing
them are so fanciful, that little dependence can be placed upon them.
Moreover, as this is a subject which belong to the Dictionary and not to
a Grammar, and as a minute investigation of this is rather amusing than
essentially necessary, no apology is deemed requisite for not having
discussed it more extensively. (“L’unico aspetto che è stato trattato in
modo troppo prolisso nella grammatica sanscrita è quello di stabilire le
regole di formazione di quasi ogni parola derivata. In molti casi le parole derivate possono essere ricondotte alla loro radice rispettiva con la
41
Yates, però, utilizza comunque gli it per descrivere la divisione delle radici
nelle dieci classi di presente (1820, p. 97), come faceva Wilkins.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
195
massima facilità; in casi particolari, quando l’origine è dubbia, i metodi
attraverso cui sono derivate sono così fantasiosi da non potersi basare
seriamente su di essi. Inoltre, poiché questo è un argomento che riguarda il Dizionario e non la Grammatica e dato che uno studio dettagliato
di questo tema è più divertente che davvero necessario, non c’è bisogno
di scusarsi per non averlo trattato in modo più particolareggiato”).
Nel 1820, l’assenza di un good dictionary lamentata da Carey
non rappresentava più un problema: nel 1807, Colebrooke aveva
pubblicato l’Amhara Kośa; nel 1819 Wilson aveva dato alle stampe
un nuovo dizionario con l’aiuto dei pandit di Fort Williams, e Yates stesso stava lavorando alla stesura di un dizionario che sarebbe
stato pubblicato di lì a poco (Yates 1846). Il miglioramento degli
strumenti lessicografici, insomma, consentiva di escludere la derivazione dalla grammatica, dato che la derivazione, in sé, riguarda il
lessico, più che la descrizione grammaticale in senso proprio, come
dice Yates. Le formule che Yates utilizza per descrivere la flessione,
infatti, rimandano sempre a processi conclusi: ad esempio, the second conjugation has all the terminations united immediately with
the root (1820, p. 125); the third conjugation has the first syllable
of the root reduplicated (1820, p. 131), the fourth conjugation has ;
[ya] united with the root (1820, p. 138), etc.42.
La prospettiva lessicalista di Yates, però, non aiuta la descrizione
della derivazione. Per Yates, i verbi derivati causativi, desiderativi,
etc., come i derivati nominali, si formano dai verbi semplici corrispondenti (1820, p. 206): in sanscrito, però, sia i verbi derivati che i
nomi derivati si formano a partire dalla radice pura, non dai temi di
presente, che nella maggior parte dei casi includono dei suffissi che
non compaiono nei derivati (i.e. pacyati ‘cuoce’ da pac- ‘cuocere’,
participio passato pakta- ‘cotto’, non **pacyata-, e nome d’agente paktar- ‘colui che cuoce, cuoco’, non **pacyatar-); nello stesso
modo, secondo Yates l’infinito, come yācitum ‘cercare’ da yāc-, si
formerebbe dal “futuro” yācitā sostituendo la -ā del suffisso con
42
Però, la derivazione taddhita e la composizione, in qualche caso, sono descritte come processi produttivi: patronymics are formed from the original
word by lengthening the first syllable of it by vriddhy (1820, p. 251); gentiles
are formed in the same manner as the above, by lengthening the first syllable
of the word (1820, p. 253), they [sc. compounds] are formed by uniting two
or more words together and inflecting the last (1820, p. 263), etc.
196
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
-um (1820, p. 188), dato che il futuro include già la -t- che si trova
nell’infinito; però, la sequenza yācit- non è un tema semplice né
un tema derivato, visto che il suffisso del “futuro” è -tar- e quello
dell’infinito è -tu-43.
Nonostante l’utilizzo di un plan simile a quello delle grammatiche
pratiche coeve, però, la grammatica di Yates non ottenne un grande
successo (Law 1993, p. 249), forse anche per la concorrenza delle
grammatiche più dettagliate e precise di Wilkins (1808) e di Bopp
(1827), ma fu comunque utilizzata come manuale per l’apprendimento del sanscrito da parte dei missionari e dei funzionari inglesi di stanza in India (come conferma la ristampa che ebbe il volume nel 1845).
3.9 La grammatica di Frank (1823)
Se si esclude l’opera di Wilkins (1808), tutte le grammatiche
indiane stampate fino agli anni ’20 del XIX secolo sono prodotte
da studiosi che si sono formati in India e si rivolgono a funzionari
inglesi di stanza in quel paese. La Grammatica Sanskrita (1823)
di Frank, invece, è interamente pensata per le università europee44.
Frank è consapevole della diversità di approccio tra la grammatica europea e indiana (1823: x), ma si propone di emanciparsi da
entrambe e di rifondare le basi filosofiche della grammatica rivol43
44
La forma yācitā non è il futuro “standard” del sanscrito, che è yākṣyāmi, ma il
cosiddetto futuro perifrastico, che si diffonde a partire dalla prosa tardo-vedica
ed è è formato da un nome d’agente in -tar- e una copula (che può essere omessa) e yācitā (asmi) ‘cercherò’, lett. ‘sono cercatore’. Sulla genesi e la diffusione
del futuro perifrastico in sanscrito, si vedano Lazzeroni (1995) e Lowe (2017).
Frank si forma tra Londra e Parigi, dove frequenta le lezioni di Chézy insieme a Bopp (Law 1993, p. 251). Nel 1821 ottiene la cattedra di sanscrito
e persiano nell’università di Würzburg e nel 1826 passa all’università di
Monaco. Il suo interesse per il sanscrito nasce dall’interesse romantico per
lo Spirito, la religione e la mitologia indiana, come mostrano le sue opere
mistico-phaosofiche (Frank 1809) e il suo tentativo di spiegare la struttura
sintattica della frase sanscrita sulla base dei principi yogici (Frank 1823, p.
xii). La sua personalità sprezzante (testimoniata, tra l’altro, dall’aspro rifiuto opposto da Frank alla possibilità di uno scambio epistolare con Rückert,
scolaro di Bopp, cfr. Law 1993, p. 250), e la mescola di filologia e religione
non favorirono il successo della grammatica di Frank che fu recensita (probabilmente da Bopp) in modo notevolmente ostile sul Jenaische Allgemeine
Literatur-Zeitung (Law 1993, p. 252 n. 26). Oltre ad una grammatica, Frank
pubblicò anche una Chrestomathia Sanskrita (1820).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
197
gendosi verso quei principiis indico-philosophicis (1823, p. xii) che
consentono di svelare l’intima spiritus natura attraverso lo studio
del sanscrito (1823, p. 30). Il sanscrito, infatti, è una lingua maximi
momenti, specie nell’etymologia (1823, p. ix); ha un’origine divina
(1823, p. xi). Dal punto di vista tecnico, però, il radicale rinnovamento teorico vagheggiato da Frank si risolve in un approccio fortemente eclettico, che mescola senza un ordine specifico elementi
della teoria grammaticale indiana rivisti alla luce delle teorie yogiche, tratti tipici delle grammatiche particolari europee e istanze
provenienti dalle grammatiche storiche delle lingue germaniche.
L’architettura generale della grammatica di Frank è quella tipica
delle grammatiche pratiche europee: il Libro I (De litteris sanscritis
scribendis et pronuntiandis, pp. 1-29) descrive l’alfabeto, il Libro II
(De vocabulis formandis. Partes orationis, pp. 30-179) tratta le partes
orationis e Libro III (Syntaxi, pp. 181-222) si occupa della sintassi.
L’analisi dell’alfabeto, però, unisce teorie articolatorie indiane, il concetto europeo di vis litterarum e delle considerazioni mistico-cosmogoniche di ascendenza yogica (1823, pp. 4 ss. e 10 ss.)45. La descrizione della flessione riprende la teoria indiana dei kāraka (1823, pp.
35 ss.), ma i paradigmi sono stampati nella forma tabellare tipica delle
grammatiche europee. Il titolo del Libro II (De vocabulis formandis),
infine, richiama il processo storico-ontogenetico di formazione delle
parole, mentre l’ordinamento del libro stesso, che inizia con la flessione, passa alla derivazione e finisce con la composizione, sembra
ripercorrere a ritroso l’evoluzione dello Spirito dalle voces simplices
originarie, come facevano le grammatiche storiche tedesche46.
Come avveniva nelle grammatiche filosofiche tedesche, l’utilizzo di una prospettiva di tipo diacronico-ontogenetico facilita la
45
46
I grammatici romani ritenevano che ogni lettera fosse definita da tre proprietà,
nomen, vis (o potestas) e figura (Prisciano, GL II.1.7 e II.9.2 e Desbordes 1990,
pp. 113-132): il nomen indica il nome della lettera; la potestas indica il suono,
e la figura indica la forma grafica. Nel Medioevo, però, gli studiosi europei
trasformano l’idea di una potestas di ogni lettera dell’alfabeto (e soprattutto
dell’alfabeto semitico) in una sorta di potere magico di quella lettera, una vis
che, se scoperta, potrebbe chiarire il mistero della lingua originaria (così, ad
esempio, Postel 1538, pp. Eii-iii, seguendo un’idea che, in ultima analisi, era
già implicita in Prisciano GL II.1.8, cfr. Rodríguez Estrella 2002).
Le categorie flessionali (caso, numero, persona, tempo, etc.), infatti, sono
trattate come altrettante tappe nella storia del progressivo sviluppo cognitivo
dello Spirito (1823, pp. 32 ss.).
198
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
descrizione della derivazione. Frank, infatti, descrive la nozione di
tema (prātipādika) in un paragrafo a sé (1823, p. 37), identifica la
natura root-based della derivazione indiana, sia per la formazione
dei presenti (1823, p. 80), sia per la formazione dei causativi, dei
desiderativi (1823, p. 137), e dei derivati kr̥t (1823, p. 154)47. I nomi
derivati dalle radici, inoltre, sono chiamati radicalia e sono distinti
dai nomi derivati dai verbi già derivati (causativi, desiderativi, etc.),
che sono chiamati verbalia, e sono divisi dai nomi derivati da altri
temi nominali già derivati (diminutivi, patronimici, aggettivi di relazione, etc.), che sono chiamati denominalia (1823, p. 154).
Come avveniva nelle grammatiche filosofiche tedesche, però, il
miglioramento empirico si unisce a un certo peggioramento teorico. Frank descrive la derivazione attraverso verbi che rimandano a
processi produttivi (si veda, ad esempio, superest enim derivare ex
ipsis radicibus nomina cum substantiva tum attributiva, 1823, p.
154). Questi processi, però, anche se produttivi, sembrano dei processi diacronico-ontogenetici, dato che le linguae radices sono le
matrices fecundae e monosyllabae, da cui si derivano paene omnia
vocabula sanskrita (1823, p. 30) e, per questo, hanno il significato
vagus et infinitus tipico delle ideae primitivae, come i geroglifici
egizi o i vocabula informa del cinese (1823, p. 31), e non indicano
dei nomi, dei verbi o delle altre parti del discorso (nec substantivum
denotat solum, nec verbum modo, aut alia orationis partem, 1823,
p. 30), ma rappresentano la materia prima significativa e la natura
ultima della lingua (Hindi in ipsis materiam primam significativa,
linguae naturam çd`fr [prakr̥ti] sitam dicunt, 1823, p. 30).
3.10 Le grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834)
Come le grammatiche di Wilkins e di Frank, la Ausführliches
Lehrgebäude der Sanscrita-Sprache (1827) di Bopp è pensata come
un Leherbuch da utilizzare nei corsi di sanscrito che Bopp stesso
tiene, a partire dal 1825, presso l’università di Berlino48.
47
48
In qualche caso, però, Frank tratta comunque i causativi come derivati dei
verbi semplici corrispondenti, invece che dalle radici (1823, p. 87).
Bopp si accosta allo studio delle lingue orientali sotto la guida di Windischmann, ammiratore di Schlegel e Adelung. Tra il 1812 e il 1816, risiede a
Parigi, dove studia il persiano e le lingue semitiche con Sacy, conosce Chézy
e Hamilton, oltre ai fratelli Schlegel, e incomincia lo studio dei manoscritti
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
199
Nell’introduzione all’edizione del 1845, Bopp spiega la genesi
del lavoro. Le precedenti grammatiche sanscrite sono tutte molto
simili tra loro e si distinguono quasi solo per il modo con cui “traducono” die Indische Lehrbücher: Forster è il traduttore più ricco e
più accurato; Wilkins è il più chiaro e Colebrooke è il più fedele, ma
il suo lavoro è talmente oscuro che non si può usare come manuale pratico per l’apprendimento (1845, pp. iii-iv). Diversamente dai
suoi predecessori, però, Bopp non vuole tradurre i manuali indiani,
ma si propone di fornire un’analisi autonoma della lingua per sé
stessa (eine Kritik der Sprache selbst), una sua Naturbeschreibung
e un’indagine scientifica sul suo innere Organismus (1827, p. v)49.
49
sanscriti della Biblioteca Imperiale raccolti dall’Abbate Da Pons e da Hamilton. Tra il 1816 e il 1818, si trasferisce a Londra, dove risiede Hamilton, che lo
presenta a Colebrooke e Wilkins; qui Bopp conosce Humboldt, a cui insegna
i primi rudimenti di sanscrito. Grazie alla sua intercessione, nel 1821, Bopp
ottiene la cattedra di Orientalische Literatur und allgemeine Sprachkunde
nell’università di Berlino: la stessa cattedra che sarà rinominata vergleichende Sprachwissenschaft und Sanskrit nel 1825 e sarà tenuta da Bopp fino alla
fine della vita, nel 1867. Secondo Lefman (1891, p. 18), Leskien (1876, p.
142) e Rocher (1968, p. 51), Bopp avrebbe imparato il sanscrito da autodidatta, ohne alle fremde Hilfe (come lui stesso dice in lettera a Windischmann del
24.4.1818, cfr. Gipper & Schmitter 1979, p. 50), perché keine Lehrstuhl war
dafür (lettera a Schlegel del 17.10.1821, cfr. Sternemann 1984, p. 12). Secondo Martineau (1867, pp. 306 ss.), però, Bopp aveva frequentato le lezioni
di Chézy a Parigi, dove risiedeva anche Hamilton. Si può, quindi, supporre
che Bopp abbia appreso i primi rudimenti di sanscrito da Chézy, giovandosi
anche di qualche indicazione di Hamilton, anche se nessuno dei due teneva
dei corsi regolari (Neumann 1967, p. 13). Sulla vita di Bopp, oltre a Lefman
(1891-97), Martineau (1876) e Leskien (1876), si vedano Guigniaut (1877),
Wüst (1955) e Koerner (1984). Per rapporti tra Bopp e Windischmann, si
vedano Windisch (1917, pp. 67 ss.) e Maggi (1986, p. 142).
A Londra, Bopp frequenta le lezioni di grammatica pāṇiniana di Colebrooke
che probabilmente seguiva il Mugdhabodha di Vopadeva, più che l’Aṣṭādhyāyī
di Pāṇini, ma non si addentra mai in profondità in questo studio (Lefman
1897, p. xxi). I rapporti tra Bopp e i grammatici indiani sono descritti da
Windisch (1917, p. 77), Pontillo (2003b, p. 107) e Bologna (1992, p. 37). La
grammatica sanscrita è preceduta dal Nalus (1819), il primo Sanskrit reader
d’Europa, ed è seguita da una seconda edizione latina della stessa grammatica (Bopp 18322) e dalla terza edizione tedesca (Bopp 18343), ristampata
nel 1845 e nel 1863. Le tre edizioni non presentano grandi differenze, se si
escludono alcune questioni discusse esplicitamente da Bopp stesso (1832, p.
xiv, e 1836, p. xiii). Dal 1830, inoltre, le grammatiche sono affiancate da un
Glossarium sanscritum (1830). L’idea di una descrizione della lingua durch
sich selbst è ribadita in una lettera a A. Schlegel del 26.05.1829 (Windisch
200
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Nella pratica, Bopp sostituisce all’incirca tutti i termini grammaticali sanscriti con i rispettivi calchi tedeschi (Anuswāra è tradotto con
Nachlaut; sandhi con Wohllautsregeln; guṇa e vr̥ddhi con Vokal-Verstärkungen, etc.)50; con la stessa logica, Bopp cerca sempre di utilizzare la teoria grammaticale latina, in particolare nell’analisi della
flessione; e, anche quando segue in sostanza la teoria indiana, la rielabora in base al gusto e allo stile descrittivo europeo: ad esempio,
impiega i nomi e gli ordinamenti latini dei casi, delle persone, dei
tempi e dei modi; divide i nomi in sei declinazioni a seconda della
somiglianza formale delle desinenze, invece di avere una sola declinazione e varie regole di aggiustamento fonotattico, come fanno i
grammatici indiani (1827, p. vi); divide i verbi in 4 “coniugazioni”,
invece che nelle 10 classi abituali dei presenti sanscriti (1827, p.
161); evita tutti gli it, anche quelli affissi alle desinenze che Wilson
aveva mantenuto; tratta i paradigmi come insiemi di parole flesse
e li stampa nella forma tabellare tipicamente europea, anche se le
desinenze sono elencate in isolamento (1827, pp. 98 e 158); anche
quando utilizza delle regole per descrivere il sanscrito (1827, pp. vi
e 160), inoltre, evita la brevità estrema della grammatica indiana, e
correda le regole con tutti gli esempi del caso, come farebbe qualsiasi studioso europeo.
Il Protokoll della grammatica di Bopp, però, non coincide affatto con quello tipico delle grammatiche latine. Oltre ai dati canonici su lettere e suoni (capp. 1-2, pp. 1-27 e 28-70), sulla flessione
(capp. 4-5, pp. 83-155 e 156-267) e sulle particelle indeclinabili
(capp. 8, pp. 333-340), Bopp introduce tre capitoli inattesi, uno
sulle radici (cap. 3, pp. 71-82), uno sulla Wortbildung (cap. 6, pp.
268-309) e uno dedicato ai composti (cap. 7, pp. 310-332), perché, come dice lui stesso (1827, p. vii), la derivazione è una delle
caratteristiche più tipiche della lingua sanscrita e una delle meglio
studiate dai grammatici nativi51. All’interno di questo Protokoll,
50
51
1919, p. 77). Come nota Bologna (1992, p. 38), la parola Kritik nell’ambiente
berlinese dell’epoca indica necessariamente una teoria di carattere generale.
Chiaramente, restano alcuni prestiti, come Atmanêpadam e Parasmaipadam,
Wisarga o i nomi dei composti (Bopp 1827, pp. 155, 13 e 310 ss.), ma non si
tratta di molti casi.
Die Wortbildung ist derjenige Gegenstand der Sanskrita-Sprache, welche
von den eingeborenen Grammatiker am befriedigendste behandeln worden
ist. Il termine Wortbildung include la composizione (cfr. Bopp 1827, p. viii).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
201
che già in sé è molto diverso da quello tipico delle grammatiche
europee, Bopp inserisce una teoria dell’analisi linguistica che, in
sostanza, ricalca quella indiana, pur se rielaborata attraverso il gusto europeo.
3.10.1 La teoria dei livelli di analisi
Come le prakriyā indiane, anche Bopp divide l’analisi linguistica
su più livelli. Il primo livello è quello del lessico, che è formato
dalle radici e dai preverbi descritti nel cap. 3, che i grammatici indiani chiamano dhātu e upasarga e non possono essere pronunciati
in isolamento, senza legarsi ad altri lessemi (1827, p. 71)52.
Al di sopra del livello del lessico, si trova il livello delle parole flesse e delle particelle (interiezioni, congiunzioni, etc.), che i
grammatici indiani chiamano pada e nipāta e che, diversamente
dai preverbi e dalle radici, si possono pronunciare anche in isolamento. L’analisi delle parole occupa i capp. 4-7 ed è organizzata in
modo diverso nel caso del verbo e del nome. La flessione dei nomi
è descritta nel cap. 4 ed è divisa dalla formazione dei nomi, che è
trattata nei capp. 6-7. La formazione dei verbi, invece, è descritta
insieme alla flessione dei verbi nel cap. 5.
In sanscrito, in generale, le parole non sono primarie, ma si formano a partire dalle radici e dai suffissi (1827, p. 268)53. Tra il lessico primario e la flessione, quindi, si colloca la morfologia derivazionale, che si occupa della formazione dei vari tipi di nomi derivati
e del passaggio degli elementi dal livello del lessico alla flessione.
I primäre Derivativa, che Bopp chiama anche primitive Wörter o
semplicemente primitiva, indicano i nomi e gli aggettivi formati con
52
53
Lo spazio dedicato alla derivazione, inoltre, guadagna terreno nel corso tempo e passa dal 9% circa nell’edizione del 1827 al 16% circa e al 17% circa
nelle edizioni del 1845 e del 1863 (rispettivamente 40 pagine su 350 circa, 60
pagine su 370 circa e 80 pagine su 460 circa).
Bopp sa bene che il lessico sanscrito include anche nomi o aggettivi derivati
da radici ormai perdute o di origine oscura (1845, pp. 56-7). I grammatici
indiani, però, credono che tutte le parole derivino dalle radici e questa idea,
dal suo punto di vista, è sufficientemente vicina al vero da potersi utilizzare
come criterio ordinatore della grammatica.
Die Wort-bildung geschieht fast ausschließlich durch Anfügung von Suffixen
(1827, p. 268). In vedico si trovano dei nomi radice (búdh- ‘risveglio’ da
budh- ‘svegliarsi’, bídh- ‘distruttore’ da bidh- ‘spaccare’), ma in sanscrito queste Wurzelwörter sono rare (Bopp 1827, pp. 268 e 310).
202
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
i suffissi di tipo kr̥t, che sono elencati alla fine della prima parte del
cap. 6 (1827, pp. 278-9). I verba primitiva, che nelle edizioni tedesche della grammatica sono chiamati solo Verba, invece, indicano
tutti i temi temporali e modali che si formano dalla radice e sono descritti nel cap. 4 (1827, pp. 160 ss. e 190 ss.)54. Come i nomi, anche
i verba primitiva sono formati con dei suffissi, ma i suffissi verbali,
diversamente da quelli nominali, sono chiamati soltanto Syllbe.
I sekundäre Derivativa o abgeleitete Wörter sono le parole derivate da altri temi nominali o verbali già derivati con dei suffissi
secondari. Bopp chiama taddhitanta o nomina derivativa i nomi che
sono derivati da altri temi nominali grazie ai suffissi di tipo taddhita
ed elenca i taddhita-Suffixe nel cap. 6 (1827, pp. 300 ss.)55. Chiama,
invece, verba derivativa i verbi causativi, intensivi, desiderativi o
denominativi che sono formati da altri temi verbali o nominali e
sono descritti alla fine del cap. 5 (1827, pp. 233 ss.). I Composita
sono i nomi formati da due o più temi nominali.
Come nella grammatica indiana, il passaggio dall’uno all’altro
di questi livelli di analisi è descritto tramite regole. I verbi che si
riferiscono alle regole di elaborazione morfologica indicano normalmente dei processi e sono coniugati al presente, sia quando
descrivono la flessione, sia quando descrivono la derivazione primaria, la derivazione secondaria, o la composizione; Das v [a] der
erste Conjugation geht vor die Kennzeichen e~ [m] oder o~ [v] in vk
[ā] über; vr~ [at] Diese Suffix bildet das Part.pres.parasm.; Viele
taddhita-Suffixe, und alle diejeinige, welche Patronymica bilden,
erfordern Wriddhi des ersten Vokals des Primitivs; ein schliessendes _ [r̥] geht vor iq= [putra] Sohn und Verwandtschaftwörtern auf
_ [r̥] in vk [ā] über, z.B. firkiq=© [pitāputrau] Vater und Sohn (cfr.
rispettivamente, Bopp 1827, pp. 161, 268, 298 e 312).
3.10.2 La teoria delle unità minime
La classificazione delle unità minime muta a seconda del livello
di analisi considerato. Le radici sono le uniche unità minime del les54
55
Il sintagma verba primitiva è utilizzato nell’edizione del 1832 (1832, p. 140).
Bopp chiama i suffissi kr̥t e taddhita rispettivamente Kridanta-Suffixe e taddhitanta-Suffixe (1827, p. 268), anche se i termini krdanta e taddhitanta, a
rigore, indicano i derivati che finiscono con un suffisso kr̥t o taddhita (scr.
anta- ‘fine’), non i suffissi di tipo kr̥t e taddhita.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
203
sico, ma non sono parole e non rientrano in nessuna delle classiche
partes orationis (1827, pp. 71-2):
Die Wurzeln sind die Urelemente der in der Sprache vorkommende
Elemente [Wortformen, 1845, p. 53; 1863, p. 69], und woraus sowohl
Verba als Nomina gebildet werden. Sie selber kommen als solche [als
Wurzeln 1845, p. 53] in der Sprache nicht vor, sondern sind blos [sic]
aus ihren Abkömmlingen erkennbar, denen sie als gemeinschaftlicher
Stamm zum Grunde liegen. […] Es ist unpassend diese Wurzeln
Verbal-Wurzeln zu nennen, da sie mit eben so großem Rechte NominalWurzeln genannt werden könnten, denn von einen jede Wurzel geht ein
Verbum und eine große Anzahl von adjective und substantive Nomina
aus, die sich durch die verschiedenen Ableitung-suffixe unterschieden,
wodurch sie zu besonderen Klassen von Nomina gestempelt werden.
Diese Nomina Verbal-Nomina zu nennen, scheint ebenfalls unpassend,
da sie zu dem von gleicher Wurzel abstammenden Verbum in einem
verschwisterten, und nicht in einem Abkömmlingsverhältinsse stehen,
wie dieses auch von den indischen Grammatiker anerkannt wird; denn
sie leiten kein einziges Nomen von einem Verbum ab, sondern blos von
der gemeinschaftlichen Wurzeln (“Le radici sono gli elementi originari
degli elementi [le parole] presenti nella lingua, e quelli da cui sono
formati sia i Nomi che i Verbi. Le radici stesse non appaiono nella
lingua come tali [come radici], ma sono riconoscibili solo dai derivati,
di cui formano il tema comune. […] Non è corretto definire queste radici
“radici verbali”, perché con la stessa ragione le si potrebbe definire
“radici nominali”, dato che da ciascuna radice viene un verbo e un gran
numero di nomi aggettivi e sostantivi, che differiscono grazie ai diversi
suffissi di derivazione, tramite i quali sono inquadrati in specifiche classi
di nomi. Ugualmente non è corretto definire questi nomi [sc. i nomi
radice come yudh ‘battaglia’ e bhī ‘paura’ citati poco prima] “nomi (de)
verbali”, perché essi stanno in un rapporto di fratellanza con il verbo
derivato dalla medesima radice e non in rapporto di derivazione, come
è noto già ai grammatici indiani; dunque [sc. i grammatici indiani] non
derivano nessun nome da un verbo, ma solo dalla radice comune”)56.
Il termine Urelemente, come il suo calco latino elementa primitiva (1832, p. 63), allude alla diacronia-ontogenesi del linguaggio.
Per Bopp, le radici sono gli elementi “il cui significato è costituito
56
La seconda parte del passo compare nell’edizione del 1827 e del 1832, ma
non in quelle del 1845 e del 1867 (Verburg 1950, p. 447). Nella versione
latina, si trovano i calchi stirps vel fudamentum per il ted. Stamm ed elementa
primitiva per il ted. Urelemente (1832, p. 63).
204
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
da un’idea astratta indeterminata rispetto alla sua funzione come
parte del discorso” (Antinucci 1975, p. 156), perché sono ontogeneticamente originarie. Dal suo punto di vista, quindi, la diversità
funzionale tra le parole e le radici dipende dalla recenziorità storico-ontogenetica delle radici rispetto alle parole, ma è anche una
delle caratteristiche più evidenti del modo in cui funziona la lingua
sanscrita in sincronia57.
Se il lessico presenta una sola classe di elementi lessicali pieni,
le radici, il livello delle parole è diviso nelle stesse tre classi che
si trovano in latino: il nome, il verbo e l’aggettivo. Le desinenze
nominali, chiamate Casusendungen o Casuszeichen, e le desinenze
verbali, dette Personalziechen, Personalendungen o Personzeichen
sono elencate a prescindere dai temi a cui si affiggono (1827, pp.
98 e 115).
Oltre alla radice e alla parola, Bopp definisce una terza unità significativa, il tema. La definizione del tema, però, cambia nel caso
del nome e del verbo. Il tema nominale, che i grammatici indiani
chiamano prātipadika, è definito nell’incipit del cap. 4 (1827, p. 83):
Die Indische Grammatiker fassen die Nomina (sowohl Substantive,
als Adjective, Pronomina und Zahlwörter) in ihrem absoluten, von allen Casusverhältinssen unabhängigen, und von allen Casuszeichen entblößten Zustande auf, und nehmen daher eine Grund- oder Stammform
an, zu welcher der Nominativ und die obliquen Casus der drei Zahlen
sich als abgeleitet verhalten. Diese Grundform [Grundform (Stamm,
Thema), 1863, p. 81] kommt sehr häufig in zusammengesetzten Wörter
vor… (“I grammatici indiani prendono i nomi (sia sostantivi, sia aggettivi, pronomi e numerali) nel loro stato assoluto, indipendente da tutti i
rapporti di caso e da tutti i segni di caso, e adottano quindi una forma di
57
Per tutto il XIX secolo l’aggettivo historisch ha un significato molto vicino
a quello di empirisch, perché si oppone soprattutto a philosophisch e a teoretisch, più che a synchronisch, che, prima di Saussure, non è un termine
conosciuto. Sul significato di historish ‘empirico’ in Bopp, si vedano Windischmann (in Bopp 1816, p. ix), Lefmann (1891: I.1, p. 52), Telegdi (1966,
p. 227) e Sternemann (1984, p. 13). Nell’ordinamento scolastico vigente alla
fine del XVIII secolo, ad esempio, era di prammatica la divisione tra scienze
filosofiche (o logico-razionali) e scienze storiche (o empiriche, cfr. Diderichsen 1976, p. 19); la sinonimia tra storico ed empirico, inoltre, è ben evidente,
ad esempio, quando A. Schlegel, in una lettera a Bopp, critica aspramente
un’ipotesi definendola konjektural, ohne historische Grundlage (Lefman
1891: I.1, p. 144).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
205
base o tema, a cui i grammatici riportano il Nominativo e i casi obliqui
come derivati. Questa forma di base (detta Stamm o tema) spesso si
trova nelle parole composte…”)58.
Nell’edizione latina del 1832 il sintagma Grund- oder Stammform è tradotto con thema, da cui dipende il fr. thème che Bréal
usa nella sua traduzione della vergleichende Grammatik di Bopp,
mentre Schleicher (1876, p. 228) utilizzerà (Wort)stamm, che entrerà nel lessico tecnico tedesco. Nell’edizione del 1863, inoltre,
Bopp emenda il passo e stampa Grundform (Stamm, Thema), con
l’intento di stabilizzare una terminologia che, evidentemente, si era
andata diffondendo tra gli anni ’20 e gli anni ’50 XIX secolo, ma
che nel 1827 non era ancora del tutto accettata.
3.10.3 L’inquadramento della grammatica sull’asse del tempo
Grazie al nuovo Protokoll, Bopp riesce a descrivere gli stessi dati
che descriviamo anche noi nelle grammatiche sanscrite attuali, a
partire dai dati sulla derivazione. Il contrasto tra la concezione sincronica e produttiva della derivazione tipica dei grammatici indiani
e la concezione proto-diacronica della derivazione degli studiosi
europei, però, effettivamente confonde un po’ l’inquadramento della grammatica di Bopp sull’asse del tempo.
In altre parole, se la derivazione riguarda la proto-diacronia,
come credono gli studiosi europei, la grammatica sincronica descrive la forma delle parole registrate nel lessico, ma esclude i processi di derivazione; il lessico indica l’insieme delle parole formate,
non gli elementi formativi delle parole; la produttività non è una
proprietà significativa, quindi i suffissi produttivi (kr̥t e taddhita) e
quelli non-produttivi (uṇādi) possono essere trattati insieme, perché
entrambi i tipi di suffissi, in ultima analisi, riguardano l’etimologia;
e, all’interno delle grammatiche, i dati sono ordinati in base all’uni58
La versione latina del passo è (1834, p. 73): indici grammatici, ubi nomina
(substantiva, adjectiva, pronomina et numeralia) extra sermonis contextum
memorant, non Nominativum sing. sed thema eorum i.e. formam nudam
ab omni casuum terminatione vacuam proponunt […]. In sermone tamen
plurimarum vocum thema nunquam apparet, nisi in nominibus compositis,
quorum prius membrum, pronominibus exceptis, semper nudam vocis stirpem exhibet. Il sintagma verbi thema, invece, è utilizzato regolarmente solo
a partire almeno dal Glossarium Sanscritum (1847, p. v; 1867, p. v).
206
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
tà di output del processo di derivazione (i.e. la parola formata), e le
parole derivate sono descritte insieme alle parole semplici appartenenti alla stessa classe (i nomi semplici o derivati nella sezione sul
nome, i verbi semplici o derivati nella sezione sul verbo, etc.). Se,
invece, la derivazione è vista come una nozione proto-sincronica,
come avviene nella teoria indiana, il lessico indica l’insieme delle
radici da cui si formano le parole; la grammatica descrive i processi
di formazione delle parole; l’analisi dei suffissi produttivi (kr̥t e taddhita) è rigidamente divisa dall’analisi dei suffissi opachi (uṇādi),
che sono improduttivi; e i dati grammaticali sono ordinati in base
all’unità di input del processo di derivazione, perché i processi che
richiedono un dhātu come forma di input (i.e. la derivazione con
i suffissi kr̥t e la flessione dei verbi) sono divisi dai processi che
richiedono un prātipadika come forma di input (i.e. la derivazione
con i suffissi taddhita e la flessione dei nomi).
Bopp mescola i correlati pratici dell’una e dell’altra concezione
della derivazione senza un criterio specifico. Come i grammatici
indiani, descrive i processi di derivazione; nelle edizioni del 18271
e del 18322 (non nelle altre) divide i suffissi uṇādi, che non sono
produttivi, dai suffissi kr̥t e taddhita, che sono produttivi; e tratta il
lessico come un insieme delle radici quando incarica il suo allievo
Rosen (1827) di redigere un dhātupāṭha aggiornando quelli che si
trovavano alla fine delle grammatiche di Carey (1804) e di Forster
(1810)59. Come gli studiosi europei, però, Bopp ordina i materiali
in base alla classe dell’unità di output del processo di derivazione,
dato che descrive tutti i nomi (primari e derivati) nel cap. 4 e tutti
i verbi nel cap. 6; crede che la radice sia ontogeneticamente più
arcaica della parola; nelle ed. del 18453 e del 18673 fonde l’analisi
dei suffissi kr̥t e quella dei suffissi uṇādi (1845, pp. 284 ss.), come
se non ci fosse differenza tra suffissi produttivi e non produttivi;
e nel Glossarium (1847) propone un lessico formato tanto dalle
radici quanto dalle parole formate, seguendo l’esempio di Wilson
(1919)60.
59
60
Il lavoro di Rosen sarà ripreso da Westergaard (1841), che rappresenterà la
fonte principale per lo studio del dhātupāṭha fino a Whitney (1885).
Come dice Bopp stesso: continetur hoc libro omnes linguae sanscritae radices et vocabola (1847, p. v). Ad esempio, Bopp lemmatizza sia la radice
kr̥- ‘fare’, sia i derivati kr̥ta- ‘fatto’, kartr̥- ‘agente’, karman- ‘azione’, kārya‘che va fatto’, etc.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
207
Insomma, Bopp innesta lo stile descrittivo, la terminologia e, in
buona parte, l’analisi della flessione tipica del modello di descrizione grammaticale a base greco-latina che si usa nelle grammatiche
pratiche europee, su una teoria delle unità minime e una teoria dei
livelli di analisi molto simili a quelle della grammatica indiana. Il
Protokoll che emerge da questa fusione è molto diverso da quello
che si usa nelle grammatiche pratiche europee, e anche dai modelli
descrittivi utilizzati nelle precedenti grammatiche sanscrite, ma assomiglia al modello descrittivo utilizzato nelle grammatiche “pancroniche” tedesche di Scottelio e di Adelung, e diventerà il modello
indiscusso per tutte le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa
dagli anni ’20 del XIX secolo in poi, oltre che per la vergleichende
Grammatik di Bopp e tutte le successive grammatiche comparative
delle lingue indoeuropee.
4. La storia della morfologia derivazionale nelle grammatiche
sanscrite tra il Barocco e Bopp
Cerchiamo di tirare le somme di quello che abbiamo detto fino
ad ora. Le grammatiche sanscrite comprese tra Roth (1660-1668) e
Bopp (1827; 1832; 1834) rappresentano le fonti principali per studiare quello che Law ha definito il process of assimilation della
grammatica indiana nativa nella teoria grammaticale europea (Law
1993; Rocher 2002). Le grammatiche descritte in questo capitolo,
infatti, si possono dividere in due gruppi, a seconda della loro vicinanza alla teoria grammaticale indiana: le grammatiche prodotte
per i funzionari inglesi o i padri missionari residenti in India, che
hanno un accesso diretto all’insegnamento orale dei pandit e alle
prakriyā indiane, e attingono ampiamente alla teoria grammaticale
indiana (i.e. Roth 1660-1668, Hanxleden 1712-1732, Pons 17391771, Paolino 1790, Carey 1804, Colebrooke 1805, Forster 1810
e Yates 1820) e le grammatiche prodotte per gli studenti europei
d’Europa, che non hanno accesso né ai pandit, né alle prakriyā, e
non usano la teoria indiana in modo particolare (i.e. Wilkins 1808,
Frank 1823 e Bopp 1827). In linea generale, le grammatiche del primo gruppo sono state fortemente criticate dalla successiva generazione di sanscritisti; le seconde hanno ricevuto giudizi più positivi.
208
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Ovviamente, esistono delle piccole eccezioni rispetto alla situazione descritta sopra. La grammatica di Yates (1820) utilizza la
teoria indiana molto meno delle altre grammatiche del suo gruppo, ma è comunque pensata per gli inglesi della Missione Battista
di Serampore e ha comunque ricevuto giudizi assai poco lusinghieri da parte degli studiosi successivi. E la grammatica di Frank
(1823) usa poco la teoria grammaticale indiana, come le altre del
suo gruppo, ma è così piena di speculazioni mistico-filosofiche da
aver comunque suscitato giudizi poco lusinghieri da parte degli
studiosi successivi. Al netto di queste eccezioni, però, il quadro
complessivo è chiaro: tra Wilkins (1808) e Bopp (1827), l’indologia “militante” (o “missionaria”) soprattutto inglese del XVII e del
XVIII secolo, che attinge ancora a piene mani alla teoria grammaticale indiana, cede il passo all’indologia “accademica” soprattutto
tedesca del XIX secolo, che si è ormai quasi del tutto emancipata
da quella teoria61.
In genere, però, da questa constatazione, in sé perfettamente ragionevole, si deduce che, grazie a Bopp, il framework della grammatica europea a base greco-latina è stato “imposto” sul sanscrito
(Law 1993, p. 245). Ora, la teoria grammaticale indiana comprende moltissimi aspetti e non è detto che tutti abbiano lo stesso destino. Effettivamente, se si guarda allo stile descrittivo “indiano”
(i.e. il cosiddetto sūtra-style), all’utilizzo dei termini tecnici indiani (a partire dagli it), alla teoria dei kāraka, all’ordinamento
dei casi, alla definizione delle declinazioni e delle coniugazioni,
alla distinzione tra sostantivi e aggettivi, etc. il giudizio di Law è
completamente condivisibile. Se, però, si guarda specificamente
al trattamento della formazione dei nomi, che rappresenta comunque una delle differenze più profonde tra la teoria grammaticale
indiana e la teoria grammaticale “europea”, lo stesso giudizio risulta meno convincente.
61
Il contrasto tra le due anime della primissima indologia, nel complesso, è
vero (cfr. Rocher 1979, p. 8; Law 1993; Rocher 2002; Rocher & Rocher
2013, p. 8), ma non va esagerato. Il primo a rifiutare in toto il sistema indiano
degli it (cfr. n. 6 § IV.2) è effettivamente il tedesco Bopp (Wilson 1865, pp.
285-6), ma la prima grammatica sanscrita redatta secondo i canoni occidentali è quella dell’inglese Wilkins (1808) ed è l’inglese Yates a descrivere il
sanscrito secondo a plan similar to that most commonly adopted for the learned languages of the West (18452 ma 18201).
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
209
Anche se ci si concentra sull’analisi della derivazione, infatti,
le grammatiche sanscrite prodotte tra Roth (1660-1668) e Bopp
(1827; 1832; 1834) si possono dividere in due gruppi, ma i due
gruppi sono molto diversi dai precedenti. Un primo gruppo di
grammatiche, che include i lavori di Hanxleden (1712-1732),
Pons (1739-1771), Paolino (1790), Colebrooke (1805), Yates
(1820) e Frank (1823) è redatto seguendo il Protokoll canonico
delle grammatiche europee, generali e particolari (i.e. suoni della
lingua, flessione delle partes orationis e sintassi), e non presenta
una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione, quindi descrive poco i nomi derivati e, anche quando li descrive, li tratta come nomi già formati e già registrati nel lessico
una volta per sempre, senza descriverne le regole di formazione.
Un secondo gruppo di grammatiche, che comprende le opere di
Roth (1660-1668), Carey (1804), Wilkins (1808), Forster (1810)
e Bopp (1827), invece, modifica il Protokoll tradizionale delle
grammatiche generali e particolari europee introducendo una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione, quindi
descrive più abbondantemente i dati sui nomi derivati e, in linea di
massima, propone delle vere e proprie regole di derivazione, come
fanno i grammatici indiani nativi.
Anche in questo caso, è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto alla bipartizione descritta sopra: la grammatica di
Roth (1660-1668), ad esempio, presenta una sezione dedicata unicamente all’analisi dei nomi derivati, ma la sezione è breve e,
in genere, non presenta regole di derivazione. La grammatica di
Frank (1823), di contro, non include una sezione specificamente
dedicata ai nomi derivati, ma descrive delle regole di derivazione. Anche in questo caso, però, la situazione, nel complesso, è
abbastanza chiara. Grazie alle grammatiche del secondo gruppo
e, soprattutto, grazie alla grammatica di Bopp, il processo di assimilazione del sanscrito alla teoria grammaticale europea non si è
realizzato attraverso la semplice imposizione del Protokoll di descrizione grammaticale europeo sul sanscrito, ma ha comportato
una sostanziale modifica di quel modello descrittivo, che è stato
rimodulato per consentire la descrizione di tutti quei dati empirici
sulla formazione delle parole che sono fondamentali nella lingua
sanscrita e che erano descritti ampiamente nella grammatica in-
210
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
diana nativa, ma erano completamente esclusi da tutte le grammatiche proto-sincroniche europee, generali e particolari.
Certo, la modifica non è stata né semplice né lineare. Le grammatiche che descrivono i dati sulla formazione dei nomi in sanscrito sono più informative delle altre, perché trattano più ampiamente i dati (per noi) sincronici sulla Wortbildung che sono
omessi o trascurati nelle altre grammatiche. L’ingresso di questi
dati nel Protokoll tradizionale europeo, però, ha prodotto anche dei
contraccolpi non del tutto positivi. Nelle grammatiche di Wilkins
(1808), Forster (1810) e Carey (1808), il contraccolpo principale
consiste nell’eccessiva dipendenza dalla teoria grammaticale indiana e nella sovrabbondanza dei tecnicismi grammaticali indiani, che risultavano poco comprensibili agli studiosi europei. Nella
grammatica di Frank (1823), invece, l’intralcio dipende innanzitutto da un apparato mistico-filosofico ingombrante e ampiamente
gratuito. Nelle grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834), infine, il
problema è dato da un inquadramento un po’ ambiguo della grammatica rispetto all’asse del tempo (cfr. § IV.3.10.3). Gli studiosi
successivi si resero conto perfettamente dei primi due problemi,
ma non si resero conto del terzo altrettanto chiaramente, perché
per tutto il XIX secolo la formazione dei nomi, in Europa, continuò ad essere considerata come un problema sostanzialmente diacronico (Lindner 2015a).
Quale che sia il contraccolpo prodotto dall’ingresso dei dati
empirici sulla formazione dei nomi all’interno del Protokoll tradizionale delle grammatiche europee, però, è chiaro che tutte le
grammatiche sanscrite che includono una sezione specifica dedicata all’analisi della derivazione non si limitano a imporre il modello descrittivo europeo canonico sul sanscrito, ma modificano la
struttura di quel modello cercando una mediazione tra quel Protokoll, la produttività della derivazione nella lingua sanscrita, la
descrizione di questi dati da parte dei grammatici indiani nativi e
l’utilità pratica di questi dati per i lettori delle grammatiche, sia che
si trattasse di funzionari inglesi e di missionari residenti in India,
sia che si trattasse di studenti europei.
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
211
5. Il lascito delle grammatiche sanscrite pubblicate tra il Barocco e Bopp
Come abbiamo mostrato nel cap. III, tra il XVI e il XVIII secolo, l’architettura del sapere linguistico è articolata attorno a quattro
gruppi di opere principali: le grammatiche generali e particolari,
che hanno un inquadramento di tipo proto-sincronico; le opere
sull’origine del linguaggio e le grammatiche pancroniche tedesche,
che hanno un inquadramento di tipo proto-diacronico. La derivazione, in questa architettura, è una nozione “proto-diacronica”: i
dati empirici sui nomi derivati, infatti, si trovano nelle grammatiche
pancroniche tedesche e, in subordine, nelle opere sull’origine del
linguaggio, ma sono assenti o, comunque, sono poco presenti nelle
grammatiche generali e particolari.
Dal punto di vista retrospettivo, una simile architettura del sapere
linguistico si poggia su due malintesi teorici che abbiamo già messo in evidenza nei capitoli precedenti (cfr. § II.12 e III.12): da una
parte, la confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio; dall’altra
l’inquadramento “proto-diacronico” della derivazione. A sua volta,
il secondo di questi problemi produce un effetto collaterale importante nelle grammatiche sanscrite prodotte in Europa tra il XVII e i
primi anni del XIX secolo. Per noi, le grammatiche sanscrite sono
delle grammatiche sincroniche – chiaramente, sincroniche nel senso
di old-time synchrony definito da Janda & Joseph (2003, p. 21, cfr.
§ I.3), ma pur sempre delle grammatiche sincroniche. Queste grammatiche, inoltre, descrivono i dati empirici sui nomi derivati per due
accidenti storici ovvero, da una parte per la produttività che la morfologia derivazionale ha nella lingua sanscrita, e dall’altra per il fatto
che gli stessi dati sono descritti dai grammatici indiani. Tra il XVII e
il XVIII secolo, però, la derivazione e l’analisi morfemica sono nozioni strutturalmente “proto-diacroniche”. Tutte le grammatiche che
descrivono la formazione delle parole, quindi, finiscono per essere
circondate da una sorta di aura di “proto-diacronia”; in altre parole,
finiscono per avere un inquadramento sull’asse del tempo un po’
ambiguo, che oscilla tra la dimensione “proto-sincronica” abituale per la descrizione linguistica e la dimensione “proto-diacronica”
abituale per l’analisi della formazione dei nomi. Se, quindi, riportiamo le grammatiche sanscrite su uno schema simile a quelli utilizzati
nei §§ I.3, II.12 e III.12, otteniamo lo schema seguente (fig. 9):
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
212
Lingua-Linguaggio
Grammatiche generali francesi
generale
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: esclusa dalla grammatica
Funzionamento
Grammatiche particolari
particolare
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: analisi (minima) dei nomi derivati
Grammatiche sanscrite
inquadramento: ambiguo
derivatio: formazione-creazione delle parole
sanscrite
Grammatiche “pancroniche” tedesche
particolare
Origine
generale
inquadramento: proto-diacronia
derivatio: formazione-creazione delle parole
tedesche
Opere sull’origo linguae
inquadramento: proto-diacronia
derivatio: formazione-creazione di tutte le
lingue
Fig. 9, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo,
la derivazione e le grammatiche sanscrite nei primi anni del XIX secolo
Ovviamente, non è detto che Roth, Carey, Forster o Wilkins sentissero un particolare legame tra la derivazione e la “proto-diacronia”: forse, l’analisi dei nomi derivati compariva nelle loro grammatiche solo perché questi temi erano centrali nell’insegnamento
orale dei pandit e nelle prakriyā indiane. I missionari e i funzionari
inglesi residenti in India, in altre parole, potevano anche non essere
aggiornati rispetto agli studi grammaticali europei e alla concezione “proto-diacronica” della derivazione che si era andata definendo
sempre più chiaramente tra il XVII e il XVIII secolo. Ma è difficile
che Bopp non fosse consapevole del legame tra derivazione e “proto-diacronia”: il Barone A. S. de Sacy, maestro di Bopp per le lingue semitiche e il persiano, era autore di una grammatica generale
che escludeva del tutto i dati sui nomi derivati (Sacy 1799), ma gli
Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp
213
stessi dati erano centrali nella grammatica di Adelung (1781), che
era nota a tutti i tedeschi colti dell’epoca. Inoltre, un’aura di particolare antichità e, quindi, di vicinanza con l’origine del linguaggio,
aleggiava nelle grammatiche sanscrite fin dal discorso di William
Jones alla Asiatic Society of Bengal (1786) e si ritrovava sia nella
grammatica di Paolino (1799), sia nel lavoro di Schlegel (1808).
Infine, nel Conjugationssystem (1816), Bopp stesso aveva usato l’analisi morfemica e la formazione dei temi verbali in latino, greco,
sanscrito e germanico per dimostrare la parentela delle lingue indoeuropee, rinsaldando ulteriormente il legame tra la derivazione e la
“proto-diacronia” (cfr. infra § V.2).
Insomma, quale che fosse la ragione originale per cui Roth,
Carey, Forster o Wilkins avevano incluso una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione nelle loro grammatiche, nell’Europa dei primi anni del XIX secolo, soprattutto dopo
la dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea e la pubblicazione della
grammatica sanscrita di Bopp, la presenza di questa sezione non
poteva che apparire come connotata in senso “proto-diacronico”.
Certo, la connotazione “proto-diacronica” che si nota nelle grammatiche sanscrite è minore di quella che si nota nelle grammatiche
pancroniche tedesche: Bopp descrive il funzionamento del sanscrito, ma non cerca di dimostrare che il sanscrito è la lingua originale
dell’umanità nella grammatica, come facevano Scottelio e Adelung
rispetto al tedesco. L’inquadramento delle grammatiche sanscrite
sull’asse del tempo, quindi, non è pancronico in senso stretto, ma è
comunque un inquadramento almeno in parte ambiguo, che oscilla
tra la proto-sincronia e la proto-diacronia, e oscilla tra queste due
dimensioni soprattutto nell’analisi dei nomi derivati.
CAPITOLO V:
CONCLUSIONE
1. Friedrich Schlegel e la storia della morfologia derivazionale
Le fasi della storia della morfologia derivazionale immediatamente successive a quelle descritte nei cap. III e IV sono tutto sommato note o, comunque, sono abbastanza facili da ricostruire seguendo le orme già tracciate da Lindner (2015a; 2015b) e, in misura
minore, da Kastovsky (2006). Per raggiungere questo scopo, però, è
utile fare un passo indietro rispetto alle date di pubblicazione delle
grammatiche sanscrite di Bopp e tornare al 1808, quando Schlegel
dimostra per la prima volta la parentela delle lingue indoeuropee
nel suo lavoro Über die Sprache und die Weisheit der Indier.
La dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea di Schlegel si poggia
principalmente su due elementi1. Da una parte, Schlegel propone
una teoria filosofica sull’origo linguae, al cui interno le diverse fasi
di sviluppo del linguaggio coincidono con altrettanti “tipi” linguistici, e la genesi delle lingue indoeuropee rappresenta la fase finale,
ontogeneticamente più recente, di questa evoluzione pancronica del
linguaggio. Dall’altra parte, Schlegel identifica delle concordan1
Schlegel impara i primi rudimenti della lingua sanscrita da Hamilton, che
ospita a Parigi tra il 1802 e il 1805, e da Chèzy, che gli insegna il persiano;
non possiede, però, una grammatica sanscrita e la sua conoscenza del sanscrito dipende dallo studio di alcuni manoscritti della Biblioteca di Parigi,
oltre che dalle lezioni di Hamilton e Chèzy. Fin dai tempi del circolo di Jena,
inoltre, Schlegel segue il dibattito sull’origine del linguaggio che si tiene
nell’Akademie der Wissenschaften di Berlino e si chiude con il saggio di Herder (1772, cfr. Aarsleff 1974, pp. 94-4 e 109-115; 1984 [19821], pp. 175-180).
Sul periodo parigino di Schlegel e i suoi rapporti con Hamilton e Chèzy, si
vedano Windisch (1917, p. 57), Rocher (1968, pp. 34-63 e 97-101), Schwab
(1984, p. 68), Plank (1987b) e Tull (2015, p. 227). Sul pensiero linguistico
di Schlegel, si vedano Nüsse (1962), Formigari (1977a; 1977b) e Timpanaro (1977); sui rapporti tra Schlegel e la linguistica indoeuropea, si vedano
Rosiello (1967, pp. 95 e 167 ss.), Gipper & Schmitter (1979, p. 19), Muller
(1984), Schreyer (1984), Rousseau (1984b) e Swiggers (1993).
216
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ze oggettive, ma tutto sommato non particolarmente estese, tra le
lingue indoeuropee più anticamente attestate (il latino, il greco, il
sanscrito e il germanico) al livello delle radici lessicali (ted. Wurzeln) e di quella che Schlegel (1808, p. 27) chiama grammatische
Struktur e che, in sostanza, indica le desinenze di flessione (ted. Endungen, cfr. rispettivamente Schlegel 1808, pp. 3-16 e 27-43)2. In
altre parole, l’analisi della derivazione, che era fondamentale nelle
grammatiche pancroniche tedesche del XVII e del XVIII secolo e
nelle grammatiche sanscrite pubblicate in Europa prima del 1808,
viene completamente esclusa dalla vergleichende Grammatik di
Schlegel3.
2. Franz Bopp e la storia della morfologia derivazionale
Nel 1816, Bopp riprende la tesi di Schlegel e dimostra nuovamente la parentela delle lingue indoeuropee sulla base di una serie di concordanze, ben più estese, sistematiche e regolari di quelle
identificate da Schlegel, nella formazione dei temi verbali in latino,
greco, sanscrito, germanico e, in parte, persiano.
Il metodo grazie a cui Bopp descrive la struttura interna dei temi
verbali indoeuropei – la sua Zergliederugnkunst –, come ha scritto
giustamente Sternemann (1984, p. 24), è un synchron-kombinieren-
2
3
In un caso, la Endung di Schlegel indica il suffisso nd dei participi germanici
(1808, pp. 29-30), e in un altro paio di casi indica una “terminazione” nel
senso latino del termine, i.e. l’insieme di suffisso e di una desinenza (cfr. il
comparativo sanscrito taro o le Endsylben scr. tvan e ted. thun, che formano
i nomi astratti, 1808, pp. 18, 29 e 32). Se si escludono questi casi, però, la
grammatische Struktur di Schlegel indica solo la flessione. Sulla sinonimia
tra i termini Flexion, Grammatik e Organismus nei primi anni del XIX secolo, si vedano Lefman (1891: I.1, p. 44), Timpanaro (1977, p. xvi) e Sternemann (1984, p. 30).
L’utilizzo del sintagma vergleichende Grammatik in Schlegel non è del tutto
nuovo. A metà del XVIII secolo, de Gébelin aveva usato grammaire comparative per indicare la comparazione tipologica (Savoia 1986, p. 68) e il
calco vergleichende Sprachlehere era stato usato con lo stesso significato
da Herder e Vater (Ramat 1974), seguiti da A. Schlegel nella sua recensione
alla Sprachlehre di Bernhardi (1803, cfr. Koerner 1990, p. 242). Nel 1808, F.
Schlegel modifica vergleichende Sprachlehre in vergleichende Grammatik.
Conclusione
217
der Vergleich einzelsprachlicher Erscheinungen4. In pratica, Bopp,
per prima cosa, individua i suffissi sanscriti già descritti dai grammatici indiani e dai primi sanscritisti europei; poi sviluppa gli strumenti tecnici necessari per rendere evidente la presenza di questi
suffissi, come il trattino di divisione morfemica, che era stato utilizzato da Mäkze (cfr. § III.10.1), ma che, con Bopp, diventa del tutto
abituale5; infine, Bopp utilizza i suffissi sanscriti così identificati
come una guida per individuare i suffissi analoghi presenti nelle
altre lingue indoeuropee6. Grazie a questo metodo, Bopp riesce ad
isolare regolarmente tutti i moduli che compongono la parola indoeuropea (radice, suffisso e desinenza), e dimostra che la parentela tra le lingue indoeuropee coinvolge tutti i principali schemi di
formazione delle parole e molte delle concrete unità di lingua che
entrano in questi schemi.
Il suffisso -tum dell’infinito scr. tap-i-tum, ad esempio, si ritrova
nel suffisso tāf-ten dell’infinito persiano, che è l’accusativo di un no4
5
6
Sulla natura sincro-diacronica la Zergliederungkunst di Bopp, oltre a Sternemann, si vedano Orlandi (1962), Antinucci (1975) e Morpurgo-Davies (1996,
p. 191).
Si vedano scr. tan-i-tum, bhav-i-tum; lat. posse < pot-se e fu-ero; got. sokj-a;
pers. ber-em, etc. (1816, pp. 43, 54, 57, 58, 66, 107 e 117). Probabilmente, il
modello per l’utilizzo del trattino è la grammatica greca di Thiersch (1808,
cfr. Lefman 1891: I.1, p. 57; I.2, p. 32; Rousseau 2001, p. 1199). Però, anche i lavori di Mäkze (cfr. § III.10.1) e quelli della Schola Hemsterusiana
(i.e. la scuola olandese di filologia classica) citata da Lefman (1897, p. iv)
e Verburg (1950, p. 461) potrebbero aver contribuito. Grazie alla sua Zergliederungkunst sincro-diacronica, Bopp dimostra la parentela dei suffissi
indoeuropei, ma non ricostruisce le proto-forme indoeuropee dei suffissi.
La tecnica di comparazione sincro-diacronica di Bopp, in altre parole, gli
consente di dimostrare la parentela tra le lingue indoeuropee e di indagare
la diacronia recente, ma gli preclude la diacronia remota della ricostruzione
indoeuropea (così già Orlandi 1962, p. 545). Infatti, Bopp non usa mai l’asterisco ricostruttivo (Graffi 2001b), che risale al Glossarium der Gothischen
Sprache di Gabelentz & Loebe (1843, cfr. Koerner 1977) o a Pott (1833, p.
180 ss., cfr. Lindner 2016a, p. 60), anche se qualche asterisco si trova già in
Stiernhielm (1671) e Hickesius (1689, cfr. Lindner 2016a, p. 60); la canonizzazione dell’asterisco negli studi indoeuropei, invece, si deve a Schleicher
(1861, p. 11, n. **; 1876, p. 12, n. *).
L’utilizzo del sanscrito come “lente attraverso cui guardare a tutte le altre
lingue” è noto (Orlandi 1962, pp. 542-3 e 548-9; Sternemann 1984, pp. 15,
18). Proprio il katalysierende Stellung der Sanskrit (als Metasprache), identificato da Sternemann (1984, p. 35 n. 14) conferma il “sanscritocentrismo”
di Bopp (cfr. Lefman 1895: II.1, p. 190 e Mayrhofer 1983, p. 115).
218
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
men actionis in -tu- analogo a quello dei nomi astratti latini del tipo
actus, -us ‘l’agire’ (1816, pp. 53, 71-3 e 135); il suffisso -sja- (i.e.
-sya-) del futuro indiano è analogo al suffisso -εσω del futuro greco del tipo μαχ-έσω ‘combatterò’ da μάχομαι ‘combatto’; i suffissi
dei nomina agentis in sanscrito, latino e greco sono uguali (1816, p.
26); la sequenza -ant- del got. sokj-and-s si ritrova nel suffisso -antdei participi sanscriti e la desinenza -s del nominativo latino appare
come -h (i.e., nella trascrizione moderna, -ḥ) in sanscrito (1816, p.
135); la -s- dei desiderativi latini del tipo fac-so da facio è analoga
alla -s- dei desiderativi indiani (1816, pp. 62 e 66); i suffissi in -ndelle classi V, VII e IX del presente sanscrito sono paragonabili agli
infissi nasali del gr. δείκνυμι ‘mostro’ (aor. ἔδειξα) o κρίνω ‘giudico’
(aor. ἔκρισα, 1816, pp. 17 e 62), etc. La dimostrazione dell’ipotesi
indoeuropea di Bopp, in altre parole, ha l’effetto di riportare l’analisi
della formazione dei nomi al centro degli interessi di tutti gli studiosi di lingue indoeuropee, offrendo una conferma almeno apparente
ai legami tra la formazione delle parole e la “proto-diacronia” che
erano emersi nelle grammatiche filosofiche tedesche del XVII e del
XVIII secolo, ma che erano stati completamente esclusi dalla dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea proposta da Schlegel (1808).
Negli anni ’20 del XIX secolo, mentre approfondisce i suoi
studi di sanscrito (cfr. n. 48 § IV.3.10) e precisa le caratteristiche più importanti del suo metodo di vergleichende Gliederung
grammatischer Formen (1820, pp. 1-9; 1824, pp. 117-124), Bopp
riprende il Protokoll di descrizione grammaticale che compariva,
da una parte nelle grammatiche sanscrite di Carey (1804), Wilkins
(1808) e Forster (1810), dall’altra nelle grammatiche tedesche di
Scottelio (1641) e di Adelung (1781), ed elabora un nuovo Protokoll che include una sezione specifica dedicata all’analisi della
formazione dei nomi. Questo nuovo modello descrittivo, in prima
istanza è utilizzato per descrivere la lingua sanscrita (Bopp 1827;
1832; 1834), ma nel giro di pochi anni è applicato anche allo studio della parentela delle lingue indoeuropee nella vergleichende
Grammatik di Bopp stesso (1833-52), che viene subito accolta
come il nuovo manuale per lo studio della genealogia delle lingue indoeuropee fino al Compendium di Schleicher (1867)7. Nella
7
La vergleichende Grammatik esce in tre edizioni (1833-521; 1857-612; 1868713), la prima e più breve delle quali comprende 6 volumi e circa 1500 pagi-
Conclusione
219
vergleichende Grammatik di Bopp, quindi, lo studio dei suffissi di
derivazione (ted. Suffixe) rappresenta un tema fondamentale, che è
trattato in un capitolo a sé, collocato dopo l’analisi della flessione,
come avveniva nella sua grammatica sanscrita (1833-52: cap. 5,
Wortbildung, pp. 1072-1490), e come avviene ancora oggi nella
maggior parte delle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche
e moderne8.
Anche il modo con cui Bopp descrive i suffissi presenti nelle lingue indoeuropee antiche è sostanzialmente analogo a quello
che si userebbe oggi in ogni grammatica. In altre parole, nella sua
vergleichende Grammatik, Bopp in qualche caso si limita a identificare un suffisso in una lingua e a verificare che lo stesso suffisso
compare anche in altre lingue. Ma, in molti casi, finisce proprio
per descrivere la formazione delle parole che contengono questo
o quel suffisso. Si veda, ad esempio, dasselbe Suffix, welches das
Part. der Gegenwart bildet [sc. *-nt-], fügt sich im Sanskrit und
Zend auch an das Thema der Auxiliarfuturums; da mehrere Participialsuffixe nicht selten auch zur Bildung abgeleitete Wörter
verwendet werden; die Form mana (mna) bildet gleichsam den
Übergang zum Griech. μενο und Lat. minu […] und ist identisch
mit Altpreuſs. mana…; auch Abstracta werden durch dieses Suffix [sc. scr. -ma-] gebildet (1833-52, p. 1081, 1097, 1104, 1121).
Certo, per Bopp, la formazione delle parole in quanto tale riguarda
principalmente la diacronia delle lingue indoeuropee, che è pur
sempre la fase finale dell’ontogenesi del linguaggio; le procedure
di analisi attraverso cui Bopp descrive la morfologia derivazionale, però, sono ormai sostanzialmente analoghe a quelle che utilizzerebbe qualsiasi studioso contemporaneo.
8
ne. Le tre edizioni sono simili, ma tra l’una e l’altra cambia il numero delle
lingue ascritte alla famiglia indoeuropea. Ad esempio, le lingue iraniche sono
quasi del tutto assenti dalla prima edizione; lo slavo compare solo dal vol.
II dell’edizione del 1833-521; e l’armeno dalla prefazione all’edizione del
1857-612. Oltre a questo, le maggiori differenze si notano nel progressivo
aumento di dimensioni dei cap. I (Schrift- und Laut-System) e II (Von den
Wurzeln), che passano rispettivamente da 104 pp. a 196, e da 27 pp. a 47.
Già Lefman (1895: II.1, pp. 276 e 270 ss.) notava che il capitolo sulla Wortbildung della vergleichende Grammatik di Bopp era modellato sul capitolo
analogo della sua grammatica sanscrita.
220
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
3. Lo studio della formazione delle parole dopo Bopp
Il successo dell’ipotesi indoeuropea di Bopp e della sua Zergliederungkunst incentiva lo studio della formazione delle parole che, a
partire dai primi anni del XIX secolo, si diffonde a partire dalla vergleichende Grammatik e della grammatica sanscrita verso le grammatiche sincroniche di tutte le altre lingue indoeuropee antiche, a
cominciare dal greco (Lindner 2015a; 2015b).
Già nel 1790, infatti, la grammatica greca di Trendelenburg
(1790), includeva una brevissima sezione sui verbi preverbati; la
stessa sezione è ripresa da Buttmann nelle prime tre edizioni della
sua grammatica all’interno di un paragrafo dal titolo Zusammensetzung (18083 [17921], pp. 266-268). Nella quarta e, soprattutto, nella
quinta edizione del lavoro, Buttmann modifica il titolo del paragrafo in Wortbildung, ne ampia notevolmente la portata e lo divide in
due parti: la Wortbildung zur Endungen (18105, pp. 399-419), che
è dedicata ai nomi derivati, e la Wortbildung zur Zusammensetzung
(18105, pp. 420-428), che è dedicata ai nomi composti e ai verbi o
ai nomi formati con le preposizioni.
Come riconosce lo stesso Buttmann, la scelta di trattare i nomi
derivati all’interno di un paragrafo autonomo è inusuale e richiede
una giustificazione, perché, secondo la communis opinio di quegli
anni, la Wortbildung è un tema diacronico-ontogenetico, sostanzialmente esterno alla descrizione grammaticale in senso stretto (18105,
p. 399, il passo è citato da Lindner 2015a, pp. 38-9):
Die Wortbildung in volle Verstande des Wortes liegt außerhalb
der Grenzen der gewöhnlichen Sprachlehre. Denn da die Analogien
in dem älteren Theile des Wortvorrathes durch die Zeit und durch
die Vermischung der Stämme vielfältig zerrissen und verdunkelt
sind […], [wird daher] eine gewisse Masse von Wörtern lexikalisch
voraus[gesetzt] […]. Gewisse Arten von Ableitung jedoch, von welchen
man eben deswegen annehmen kann, daß sie neuer sind, haben sich
so vollständig und innerhalb gewisser Grenzen durchgehend erhalten,
daß sie mit Sicherheit zusammen gestellt werden können; und diese
Vereinigung derselben unter einem Gesichtspunkt erleichtert und
beschleunigt die Kenntnis der Sprache (“La derivazione, nel senso
stretto del termine, cade al di fuori della grammatica ordinaria. Dal
momento che nella parte più antica del vocabolario le analogie, a causa
del tempo e della mescolanza dei temi, si sono sfibrate in modi diversi
Conclusione
221
e sono ormai opache […], un certo numero di parole sono presupposte
nel lessico […]. Però, alcuni tipi di derivazione che a buona ragione si
possono considerare più giovani si sono preservate in modo così pieno
e completo, entro certi limiti, che possono essere unite senza dubbio;
e la loro unione da un dato punto di vista rende la conoscenza della
lingua più semplice e più rapida”).
L’idea di Buttmann di inserire nella sua grammatica greca una
sezione specificamente dedicata all’analisi della formazione delle parole è seguita pochi anni dopo da Tiersch, che riunisce i dati
sui nomi derivati in un paragrafo dal titolo Von der Herleitung der
Wörter aus Einander (1812, pp. 110-14). La grammatica di Tiersch,
però, viene stroncata da una pessima recensione anonima uscita sulla Wiener Allgemeine Literatur-Zeitung 74 (1814), pp. 118-9 (Lindner 2012, p. 127; 2015b, p. 248). Anche nel lavoro di Buttmann,
inoltre, il capitolo sui nomi derivati non rappresenta il quarto comparto tematico della grammatica, oltre all’alfabeto, alla flessione e
alla sintassi, almeno fino all’edizione del 184115, né tanto meno rappresenta un livello di analisi autonomo e distinto sia dalla flessione,
sia dalla sintassi: i dati sui nomi derivati, infatti, sono trattati in
un paragrafo collocato alla fine della grammatica e sono mescolati insieme ad altri materiali miscellanei, come la descrizione della
nozione di anomalia, l’analisi delle particelle e della prosodia e, più
in generale, di tutto ciò che non trova spazio nelle tre sezioni canoniche che formano ogni grammatica pratica europea.
Solo alcuni anni dopo la pubblicazione del Conjugationssystem
di Bopp (1816), grazie soprattutto ai lavori sulle lingue germaniche
di Grimm (1819-1837), e ai lavori sul greco di Kühner (1834-5) e
di Curtius (1842; 1852), che sono entrambi allievi, diretti o indiretti, di Bopp e sono convinti dell’importanza della nuova linguistica
comparata anche per lo studio delle lingue classiche, la presenza di
una sezione autonoma dedicata alla descrizione della Wortbildung
diviene la norma, almeno nelle grammatiche del greco, del latino
e delle lingue germaniche9. Negli stessi anni, inoltre, compare un
capitolo sulla derivazione anche nel secondo volume della Romani9
La comparsa del capitolo sulla derivazione nelle grammatiche di Curtius e
Kühner segue di poco la comparsa delle prime monografie sulla derivazione,
come quella di Becker (1824) sul tedesco (Jankowsky 2004) o quella di Curtius (1842) sul greco classico, che è dedicata al suo maestro Bopp.
222
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
sche Grammatik di Diez (1882 [18381]: 219 ss., cfr. Lindner 2015a).
A partire da queste grammatiche il Protokoll descrittivo che, tra il
Medioevo e l’Età dei Lumi era abituale per tutte le grammatiche
“proto-sincroniche”, sia generali, sia particolari, viene superato in
modo definitivo per accogliere i dati sulla formazione dei nomi. La
morfologia derivazionale ormai è abitualmente descritta in un paragrafo autonomo e tutt’altro che breve all’interno della Formenlehre
(Kühner 1834-5: I, pp. 255-336; Curtius 1852, pp. 193-203), come
si usa anche ai nostri giorni.
3.1 La terminologia tecnica e le procedure di analisi
Una evoluzione analoga a quella descritta sopra si registra per
la terminologia tecnica relativa alla formazione delle parole e, in
generale, per le pratiche di analisi morfemica, che si diffondono
nelle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche a partire dai
primi anni del XIX secolo, immediatamente dopo la dimostrazione
dell’ipotesi indoeuropea da parte di Bopp (Lindner 2012, pp. 124
ss.; 2015a; 2015b; 2016a, pp. 84).
Nei primi anni del XIX secolo, infatti, Buttmann utilizza le nozioni di Stamm, Thema o Wurzel ma, in molti casi, il tema, il suffisso
di derivazione e la desinenza di flessione non sono divisi in modo
coerente: secondo Buttmann, ad esempio, i nomi greci della I e della
II declinazione vanno segmentati λόγ-ος, λόγ-ου, senza distinguere
la desinenza e la vocale tematica; i composti, sarebbero formati con
una ex desinenza di caso ormai opacizzatasi (che è definita Deklinir-Endung, Nominal-Endung o Bindenvokal), come la -o- che si trova in λογ-ο-ποιός ‘logografo’; e il verbo κολακ-εύω sarebbe formato
a partire da κόλακ-ος, genitivo singolare di κόλαξ ‘adulatore’, data la
presenza della -k- nel tema del verbo (Buttmann 1805, pp. 52, 112;
18115, pp. 74, 173, 418). Nello stesso tempo, Buttmann inizia a utilizzare regolarmente la nozione di Endung per riferirsi alle desinenze di
caso, ma ancora non distingue la Endung nel nostro senso moderno di
‘desinenza’ dalla ‘terminazione’ nel senso latino del termine, dato che
considera Endungen anche le sequenze -της dei nomi d’agente, -αινα
dei nomi femminili, -ιδης dei patronimici, etc. (18115, pp. 418 ss.).
L’abitudine di scomporre le parole in morfemi, necessaria per
descrivere la formazione dei nomi, torna nella grammatica greca
di Thiersch che, per la prima volta, concettualizza abitualmente la
Conclusione
223
parola (Wort) come l’insieme di un tema (Wortstamm) e delle lettere
o sillabe (Buchstaben oder Syllben) che indicano die Grammatik,
ossia la flessione (1812, p. 25)10. L’analisi morfemica delle parole, però, non incontra i favori degli studiosi contemporanei, tanto
che un anonimo recensore della grammatica di Tiersch definisce la
scomposizione del gr. ἐλπίς, -ίδος come ‘un peccato contro il loro
[sc. dei Greci] Genio’ (eine Versündigung an ihrem Genius) e, per
di più, come un peccato dovuto a un eccesso di speculazione filosofica, dato che i temi non sono altro che forme vuote (Luftformen),
inventate dai grammatici. La segmentazione delle forme linguistiche proposta da Tiersch, inoltre, è spesso arbitraria, un po’ come
era quella dei grammatici tedeschi del XVII e del XVIII secolo,
dato che, per fare un esempio tra i tanti possibili, il gr. λαμβάνω
‘prendo’ viene segmentato alternativamente come λαβ-, λα-νβ-αν
e λα-μβ-αν.
Anche in questo caso, insomma, è solo dopo la monografia di
Curtius sulla derivazione in greco (1842), che è dedicata al suo
maestro Bopp, e la pubblicazione delle grammatiche greche di
Kühner (1834) e di Curtius (1842, pp. 3, 7 e 16; 1875 [18521],
pp. 17, 20 e 193), che gli studiosi europei cominciano ad accettare davvero la concezione stem-based della flessione che era corrente nelle grammatiche sanscrite fin dal XVIII secolo e iniziano
a dividere abitualmente la parola in una radice (radix, Stamm,
Stammwort), un suffisso di derivazione (suffixum, Wortbildungsendung) e una desinenza di flessione (terminatio, Endung)11. Le
grammatiche scolastiche e le grammatiche delle lingue europee
“vive”, però, non accolgono il concetto di tema e l’idea della
scomponibilità della parola almeno fino all’affermazione definitiva della grammatica comparativa nella seconda metà del XIX
secolo (Lindner 2015b, p. 251). La prima distinzione coerente tra
10
11
Su Thiersch e il suo influsso su Schleicher, si vedano anche Rousseau (2000)
e Odoul & Samain (2019, p. 84).
L’identificazione del tema nel primo membro
dei composti fu probabilmente
̥
la parte filologicamente più dibattuta per l’accettazione della nozione di tema
nella filologia classica, dato che Curtius stesso non aveva del tutto rinunciato
al concetto di Bindenvokal nei composti (1875 [18521], p. 151, cfr. Lindner
2012, pp. 128-133). Soprattutto in Germania, inoltre, c’è anche stato chi,
come Mehlhorn (1845, p. 130), divideva Endung ‘desinenza’ e Ausgang ‘terminatio’ (Lindner 2012, p. 138).
224
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
le nozioni di Wurzel ‘radice’, Grudwort ‘tema primario (formato
da una radice)’, e Stamm ‘tema flessionale (che può essere formato da una radice o da un tema primario già derivato)’, infatti,
compare, per la prima volta, nella grammatica di Reimnitz (1831,
pp. 31-2, cfr. Lindner 2016a, p. 80).
4. Dalla concezione “proto-diacronica” alla concezione diacronica della derivazione
Mentre le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche iniziano
a far spazio all’analisi della formazione dei nomi e alle pratiche
di analisi morfemica, a partire almeno dalla metà del XIX secolo,
la vergleichende Grammatik si distacca progressivamente dalla sua
originaria prospettiva pancronica, che includeva tipologia e genealogia come due momenti successivi dell’evoluzione del linguaggio,
e si specializza nel ruolo di grammatica storico-diacronica, ma per
nulla ontogenetica, delle lingue indoeuropee12. Come ha mostrato
Robins (1990, p. 89), infatti, a partire da Steinthal (1850), il sintagma historisch-vergleichende Grammatik (der indogermanischen
Sprachen) si affianca a quello ormai divenuto canonico di vergleichende Grammatik. Alla fine del secolo, quindi, la comparazione è
ancora il metodo che caratterizza qualsiasi tipo di approccio scien-
12
Il mutamento dalla concezione tipologica della vergleichende Grammatik alla
sua concezione genealogica, è noto. Per Schlegel, la comparazione serviva a
studiare tutta l’evoluzione del linguaggio, dalla sua origine ultima fino alla storia delle lingue indoeuropee. Bopp accoglie la concezione di Schlegel in teoria
(infatti, inizia la sua vergleichende Grammatik con una sezione sulla tipologia
delle lingue e afferma esplicitamente che studiare l’origine delle lingue indoeuropee è il modo migliore per studiare l’origine del linguaggio, cfr. Bopp 183352: I, pp. 112-3 e III, pp. iii-iv). In pratica, però, Bopp si occupa esclusivamente
della comparazione delle lingue indoeuropee. Lo stesso avviene in Schleicher,
che ancora descrive la tipologia nell’introduzione al suo Compendium (1867,
pp. 2 ss.). Qualsiasi riferimento alla tipologia delle lingue, però, scompare dai
successivi manuali di linguistica indoeuropea, come la Einleitung di Delbrück
(1884) e il Grundriss di Brugmann (1886-1916). Sul passaggio dalla concezione anche tipologica alla concezione solo genealogica della vergleichende
Grammatik si vedano Ramat (1974), Antinucci (1975, pp. 170 ss.), Morpurgo
Davies (1975, p. 657), Timpanaro (1977, p. xxxiii), Sternemann (1984, pp. 14,
20 e 24), Auroux (1990) e Koerner (1990).
Conclusione
225
tifico allo studio del linguaggio ma, ormai, il Vergleich riguarda soltanto la genealogia delle lingue indoeuropee.
In questo modo, nel corso di XIX secolo, la diacronia delle lingue indoeuropee viene distinta per la prima volta in modo netto
dalla pancronia che serve per studiare l’origine del linguaggio13. La
derivazione, però, rappresenta ormai una parte fondamentale della grammatica storico-comparativa delle lingue indoeuropee. Nel
corso del XIX secolo, quindi, si disarticola il legame originario tra
la derivazione e lo studio dell’origine del linguaggio, ma la derivazione continua ad avere un legame, se non proprio esclusivo, almeno preferenziale con la diacronia delle lingue indoeuropee. Ancora
Kühner, ad esempio, considerava nomi “derivati” tutti i nomi greci
dotati di un’etimologia indoeuropea, come il gr. χεῖρ, che, secondo
lui, era formato a partire dalla radice sanscrita hr̥- ‘prendere’14; e,
con la stessa logica, Perthes sosteneva che il termine Wortstamm
dovesse essere escluso da ogni grammatica latina perché indicava
solo un’astrazione diacronica estranea alla consapevolezza dei parlanti (1876, pp. 49 ss.).
Già nel 1805, però, Buttmann (1805, p. 112 n.) intravede il
problema costituito dai rapporti tra la derivazione e la diacronia
quando dice che utilizzerà il termine Stammwort oder Wurzel solo
nel senso (per noi sincronico) di Konjugationswurzel, come φονεύrispetto a φονεύω ‘uccido’ e τιμά- rispetto a τιμάω ‘onoro’, ma
non nel senso più tradizionale della etymologische Wurzel, come
φον- e τιμ- rispetto a φονεύω e τιμάω15. Nonostante le precisazioni
di Buttmann, però, il legame tra la diacronia e la morfologia derivazionale non verrà mai realmente messo in discussione nel XIX
13
14
15
L’origine ultima del linguaggio continuò a rappresentare un tema ampiamente discusso fino alla metà del XIX secolo, come mostrano, tra i vari, i lavori di
Grimm (1851) e Steinthal (1850), ma fu comunque messo al bando nel 1866
dalla Société di Linguistique di Parigi (cfr. n. 6 § I.3.1).
L’etimologia di Kühner è citata polemicamente da Curtius (1842, p. 1) ed
è rifiutata dalla lessicografia attuale: il gr. χεῖρ deriva da *ĝhes-r- (NIL 170:
cfr. arm. jer̄ n, alb. dorë), mentre il scr. hr- deriva da *ĝher- (LIV2 177). Su
Perthes, si veda Lindner (2015b, p. 249).
Ugualmente, Buttmann distingueva nel gr. σῶμα, -τος, il Biegungstamm
σωματ- (i.e. der Stamm eines Wortes in Absicht auf Biegung) e il Wortstamm
σωμ- (i.e. der Wortstamm in Rücksicht der Etymologie, 1810, pp. 73; 1819,
p. 162; 1830, p. 159). Per una disamina di questi termini, si vedano Lindner
(2012, p. 125) e Eichner (1993, p. 39).
226
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
secolo; anzi, come hanno mostrato Kastovsky (2006) e Lindner
(2015a), una certa aura di diacronia continuerà a caratterizzare tutti
gli studi sulla morfologia derivazionale fino almeno agli anni ’70’80 del XX secolo, quando la scoperta della nozione di produttività determinerà la definitiva distinzione tra i suffissi opachi (o, al
massimo, ancora trasparenti ma improduttivi), che vanno descritti
nel lessico o spiegati in diacronia, e suffissi produttivi che, invece,
vanno trattati nell’ambito della morfologia derivazionale, poiché
possono essere utilizzati produttivamente dai parlanti per formare
delle nuove parole.
5. Il lascito dell’originaria concezione “(proto-)diacronica” della derivazione
È perfettamente noto che l’ipotesi indoeuropea ha rappresentato
un immenso spartiacque nella storia della linguistica del XIX secolo. Il lavoro di Schlegel (1808), infatti, non contiene solo la prima
formulazione dell’ipotesi indoeuropea, ma propone un rinnovamento radicale di tutta l’architettura del sapere linguistico accettata tra
il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Il rinnovamento non riguarda le
grammatiche pratiche, che continuano il loro corso senza particolari
scossoni, ma investe tutti gli altri campi del sapere. Al posto della
divisione tra grammatiche filosofiche pancroniche, grammatiche
filosofiche acroniche e opere sull’origine del linguaggio, Schlegel
propone un unico tipo di “grammatica”, che sia contemporaneamente filosofica, ma anche empirica (quindi, storica) e comparativa,
e che abbracci con un unico sguardo tutto ciò che va dall’origine
ultima del linguaggio, alla classificazione tipologica delle lingue
del mondo, fino alla parentela delle lingue indoeuropee16. Almeno
in questa prima fase, però, l’analisi della Wortbildung è completamente esclusa dalla vergleichende Grammatik.
16
In questo modo, si realizza quello che Rosiello ha definito il “trapasso dagli
universali metodologici [sc. della grammatica generale] agli universali storici [sc. della nuova vergleichende Grammatik]” (Rosiello 1967, p. 176). Si
noti, però, che questo trapasso non è stato immediato: tra il 1795 e il 1850
si stampano più di 51 grammatiche generali in Francia e circa 20 in Spagna;
la frequenza di queste opere inizia a decresce dagli anni ’30 del XIX secolo,
fino quasi a esaurirsi dopo la metà del secolo (Lépinette 2008).
Conclusione
227
A partire da Bopp, però, la vergleichende Grammatik pancronica proposta da Schlegel si specializza nell’analisi diacronica delle
lingue indoeuropee; nello stesso tempo, i problemi dell’origine
ultima del linguaggio e della tipologia delle lingue vengono progressivamente esclusi dalla nuova Sprachwissenschaft, che continua a essere fondata sulla comparazione, ma ormai solo in chiave
diacronica e indoeuropea. Alla metà del XIX secolo, quindi, l’architettura del sapere linguistico è divisa in due domini principali,
la grammatica storico-comparativa delle lingue indoeuropee, che
ha un inquadramento ormai diacronico (e non più “proto-diacronico”), e la grammatica pratica, che presenta lo stesso inquadramento “proto-sincronico” che aveva nei secoli passati. L’analisi dei
nomi derivati è un tratto distintivo del primo campo di ricerca, ma
non si trova o si trova poco nelle grammatiche pratiche e, anche
quando si trova, si limita all’analisi dei diversi tipi di nomi derivati registrati nel lessico, senza descrivere le regole di formazione
di quei nomi.
In una posizione intermedia tra questi due domini del sapere,
si trovano le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche. Tutte queste grammatiche descrivono il funzionamento di una lingua
particolare (come il sanscrito, il greco, il latino o qualche lingua
germanica), ma includono anche gli stessi dati (almeno apparentemente) diacronici sulla formazione delle parole che si trovano nella
vergleichende Grammatik. In altre parole, vuoi per il fatto che descrivono lingue molto antiche, vuoi per il fatto che sono prodotte
e utilizzate soprattutto da indoeuropeisti, vuoi per il fatto che descrivono i dati (apparentemente) diacronici sulla formazione delle
parole, le grammatiche delle lingue indoeuropee più antiche finiscono per essere attratte nel campo di influenza della vergleichende
Grammatik e, proprio in virtù di questa “attrazione”, finiscono anche per avere un inquadramento sull’asse del tempo che oscilla tra
la “proto-sincronia” delle grammatiche pratiche e la diacronia della
vergleichende Grammatik.
Se riportiamo su una tabella, l’architettura del sapere linguistico
abituale tra la metà e la fine del XIX secolo, otteniamo la figura
seguente (fig. 10):
228
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
Lingua(-Linguaggio)
Grammatiche pratiche
Funzionamento
inquadramento: proto-sincronia
derivatio: esclusa o comunque poco descritta
Grammatiche delle lingue indoeuropee antiche
inquadramento: ambiguo
derivatio: formazione-etimologia delle parole
Historisch-vergleichende Grammatik
Origine
inquadramento: diacronia
derivatio: formazione-etimologia delle parole
Fig. 10, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo,
la derivazione e le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche nei primi anni
del XIX secolo
L’architettura del sapere ritratta nella fig. 10 presenta dei problemi teorici simili a quelli già messi in luce nei capitoli precedenti. Però, cambia la forma in cui si manifestano questi problemi
e cambia anche la forza del loro impatto sulle concrete pratiche di
analisi linguistica. Anche l’architettura nella fig. 10, in altre parole,
presuppone una certa confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio; in questo caso, però, la confusione si limita al campo della
“proto-sincronia”, perché la diacronia che serve per studiare la genealogia delle lingue indoeuropee è stata ormai distinta in modo
netto dalla pancronia che serve per studiare l’origine del linguaggio. In modo simile, anche l’architettura nella fig. 10 presuppone un
inquadramento diacronico per tutti i dati sulla formazione dei nomi
e, quindi, presuppone un inquadramento almeno in parte diacronico
anche per le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche che descrivono questi dati, come avveniva già all’inizio del secolo per le
grammatiche sanscrite.
Entrambi i problemi teorici descritti sopra (i.e. la confusione tra
le nozioni di lingua e linguaggio, e l’inquadramento diacronico dei
dati sulla morfologia derivazionale) sono ormai risolti nel sapere linguistico contemporaneo. La loro soluzione, però, ha seguito logiche
e tempistiche diverse. La confusione tra lingua e linguaggio è stata
Conclusione
229
risolta in modo, direi, definitivo tra la seconda metà del XIX secolo
e gli anni ’20 del XX secolo, con l’elaborazione della nozione di sincronia limitata nello spazio e nel tempo da parte di Saussure (1916)
in Europa, e con la pubblicazione della tipologia di Sapir (1921)
in America. L’inquadramento diacronico dei dati sulla formazione
dei nomi, invece, è rimasto tale più a lungo, dato che, come hanno
mostrato Kastovsky (2006) e Lindner (2015a), la formazione delle
parole è stata comunque avvolta da una certa aura di diacronia fino
agli anni ’70-’80 del XX secolo, quando la scoperta della nozione di
produttività ha confermato la natura sincronica dei processi di formazione delle parole (cfr. n. 1 § I.2 e, per un esempio pratico, il lavoro di
Grossmann & Reiner 2004 sulla formazione delle parole in italiano).
Tuttavia, almeno due tracce dell’inquadramento originariamente
“proto-diacronico” che avevano i dati sulla formazione delle parole
restano visibili ancora oggi, se non proprio nella teoria linguistica,
almeno nella pratica di descrizione grammaticale a noi contemporanea. La prima di queste tracce riguarda la posizione che la sezione
sulla formazione delle parole ha nelle grammatiche delle lingue indoeuropee “vive”. In origine, il Protokoll canonico delle grammatiche pratiche aveva un andamento bottom-up: si partiva dai suoni
della lingua, si passava alle parole in isolamento e si chiudeva con
le parole in combinazione; la formazione delle parole era esclusa
dalla descrizione grammaticale proprio perché riguardava la “proto-diacronia”. Quando l’analisi della formazione delle parole è stata inserita nel Protokoll, però, il capitolo sulla Wortbildung è stato
collocato dopo la flessione e prima della sintassi, perché, appunto,
si trattava di un’aggiunta alla sezione sulle parole in isolamento.
Questa posizione, però, è incoerente rispetto all’originario andamento bottom-up che avevano le grammatiche pratiche, dato che la
flessione riguarda anche le parole derivate, ma la derivazione non
riguarda le parole flesse. La posizione che la sezione sulla morfologia derivazionale ha in molte grammatiche a noi contemporanee,
in altre parole, ci ricorda che questa sezione, originariamente, era
estranea alla descrizione grammaticale in senso proprio, e le era
estranea, proprio perché la formazione delle parole è sempre stata
considerata come un problema “proto-diacronico”17.
17
Alcune grammatiche moderne, in effetti, “correggono” questa anomalia e
spostano la sezione sulla formazione dei nomi prima della flessione: così
230
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
La seconda traccia dell’originario inquadramento “proto-diacronico” della formazione delle parole riguarda il modo in cui è
descritta la formazione delle parole soprattutto nelle grammatiche
delle lingue indoeuropee antiche. Di norma, ancora oggi, queste
grammatiche descrivono la forma dei nomi derivati registrati nel
lessico, non le regole di formazione di quei nomi. In altre parole,
l’analisi della morfologia derivazionale che si trova abitualmente
nelle grammatiche greche, latine o gotiche (meno in quelle sanscrite) segue un approccio di tipo lessicalista e si fonda sulla nozione di trasparenza morfotattica, più che su quella di produttività.
In pratica, le grammatiche di queste lingue elencano in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui compare un certo suffisso, sia quelli in
cui il suffisso è produttivo, sia quelli in cui il suffisso è trasparente
ma non produttivo, sia quelli in cui il suffisso è un relitto ormai
fossilizzato che si può identificare soltanto grazie all’etimologia.
Schwyzer, ad esempio, tratta insieme (1939: I, pp. 504 ss.) tutti i
nomi in *-ti- > gr. -σι-, sia quelli che sono formati produttivamente in greco, come λύσις ‘scioglimento’ da λύω ‘sciolgo’, sia quelli
che sono ancora trasparenti, ma sono il prodotto di una regola
produttiva, come πίστις ‘fiducia’ da πείθω ‘persuadere’ (cfr. il più
recente πεῖσις ‘persuasione’), sia i relitti indoeuropei fossilizzati
e ampiamente opachi già in Omero, come μῆτις ‘saggezza’, che
non può essere formato da nessun verbo greco (e non presenta
l’esito atteso *-ti- > gr. -σι-), ma continua un proto-gr. *meh1-ti(da *meh1- ‘misurare’, cfr. anche gr. μέτρον ‘misura’, scr. māti‘misura’ e mi-mā-ti ‘misurare’, ags. mǣd ‘misura’ e lat. mētior
‘misurare, stimare’)18.
L’abitudine di riunire in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui
compare un suffisso, a prescindere dalle differenze di produttività,
è perfettamente comprensibile dal punto di vista pratico. Il greco
non è una lingua “viva”: chi studia il greco non parla con una comunità di persone che vive in uno specifico cronotopo, ma legge
18
avviene, ad esempio, nella grammatica greca di Schwyzer (1939) e in molte
grammatiche recenti di lingue “esotiche”, come la grammatica di kalaallisut
(groenlandese occidentale) di Sadock (2003) o la grammatica di jamul tiipay
(hokan) di Miller (2001).
La mancata assibilazione del suffisso *-ti-, in genere, è spiegata come un
tratto arcaico che denuncia l’origine eolica (o, forse, dorica), della parola
(cfr. EDG, s.v.).
Conclusione
231
i testi prodotti durante un lungo arco di secoli; e, in linea di massima, chi legge Omero legge anche Platone, Polibio o Luciano di
Samosata, anche se tra Luciano e Omero ci sono circa dieci secoli
di differenza. In questo caso, quindi, è molto più comodo produrre
una grammatica che aiuti a leggere tutti i testi greci, anche se tra
un testo e l’altro la produttività di questo o quel suffisso è cambiata. Però, per quanto comprensibile sul piano pratico, l’abitudine di
riunire in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui compare un certo
suffisso, senza curarsi delle differenze di produttività e delle regole di derivazione, implica una piccola negazione della differenza
tra la sincronia e la diacronia: in questo caso, infatti, i derivati
formati sulla base di regole di formazione produttive e i nomi derivati dal punto di vista etimologico ma ormai immagazzinati nel
lessico come un tutto unico sono inevitabilmente confusi insieme.
6. Conclusione
Insomma, nel 2004, Kaltz giustamente lamentava un certo ritardo negli studi sulla storia della morfologia derivazionale. Negli
ultimi trent’anni, infatti, gli storici della linguistica hanno prodotto
una discreta quantità di materiali utili per ricostruire la storia di quel
particolare comparto dell’analisi linguistica che noi oggi chiamiamo morfologia derivazionale e che trattiamo, di norma, nelle nostre
grammatiche descrittive (ovvero, sincroniche) dopo la sezione dedicata alla flessione dei nomi, e prima della sezione dedicata alla
sintassi. Nei lavori dedicati alla storia della morfologia derivazionale pubblicati fino ad oggi, però, era rimasto un po’ in ombra un problema che a me è sembrato piuttosto importante, ovvero il rapporto
tra la morfologia derivazionale e quello che con una formula un po’
semplicistica ho chiamato “il problema del tempo”.
La formula è semplicistica perché “il problema del tempo” è il
prodotto di due problemi diversi e interrelati: da una parte la sovrapposizione tra le nozioni di lingua e di linguaggio, che determina
la confusione sincronia/acronia e diacronia/pancronia tipica di tutto il sapere linguistico comunemente accettato tra Platone e Bopp;
dall’altra un inquadramento di tipo primariamente “proto-diacronico” per tutti i dati empirici sulla formazione delle parole, che, a sua
volta, produce una certa confusione nell’identificazione di quella
232
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
linea ideale che separa la “proto-sincronia” e la “proto-diacronia”.
Anche se semplicistica, quindi, la formula che ho proposto spero
possa effettivamente aiutare a mettere in luce una caratteristica interessante della storia della morfologia derivazionale: questa storia,
in ultima analisi, è la storia del modo in cui gli studiosi attivi tra
Platone e Bopp hanno gestito i due problemi citati sopra, ovvero
da una parte la confusione tra le nozioni di lingua e di linguaggio,
e dall’altra l’inquadramento dei dati sulla formazione dei nomi rispetto all’asse del tempo.
In altre parole, noi moderni, dopo aver diviso in modo netto la
lingua e il linguaggio, dividiamo il “pacchetto” dei dati sulla derivazione in due “sotto-pacchetti”: i dati empirici e sincronici sui suffissi produttivi e sulle regole di formazione delle parole, che trattiamo
nel capitolo sulla morfologia derivazionale all’interno delle grammatiche sincroniche, e i dati sui suffissi di derivazione trasparenti
ma non produttivi o, addirittura, i dati sui suffissi opacizzati, che
riguardano il lessico e l’etimologia, ovvero la diacronia. Proprio
questa divisione dei dati sulla formazione delle parole in due “pacchetti”, uno sincronico e uno diacronico, però, era completamente
estranea a tutto il pensiero antico. Anzi, si può dire che tutti gli studiosi attivi tra Platone e Bopp siano sempre partiti dal presupposto
che questi due gruppi di dati formassero un unico “pacchetto” di
dati, ma si sono spesso interrogati sul modo in cui questo “pacchetto” di dati, sempre inteso come un’unità, dovesse essere gestito
all’interno delle diverse architetture del sapere che si sono succedute nel corso dei secoli.
Più specificamente, in un primo tempo, che coincide grossomodo
con l’antichità greco-romana, questo “pacchetto” unitario di dati è
stato descritto ugualmente e in una forma simile, sia nelle opere
etimologiche “proto-diacroniche”, che descrivevano la genesi delle
parole e dei loro suffissi, sia nelle grammatiche “proto-sincroniche”,
che classificavano le diverse tipologie di parole presenti nel λόγος
anche in base alla presenza dei diversi suffissi di derivazione. A
partire dal Medioevo, però, e soprattutto tra il Rinascimento e l’Età
dei Lumi, tutti i dati empirici sui nomi derivati sono stati espulsi
dalle grammatiche “proto-sincroniche”, sia generali, sia particolari,
e si sono andati progressivamente aggregando solo all’interno delle
grammatiche “proto-diacroniche” tedesche. In questo modo, tutto il
“pacchetto” dei dati empirici sui nomi derivati si è andato legando
Conclusione
233
in modo sempre più stretto con la “proto-diacronia”, ovvero con
l'etimologia e l’origine del linguaggio. Proprio questo legame tra
i dati sui nomi derivati e la “proto-diacronia”, però, ha finito per
confondere l’inquadramento sull’asse del tempo di tutte le grammatiche che descrivevano la formazione delle parole: in primo
luogo, l'inquadramento delle grammatiche “filosofiche” tedesche,
che sono strutturalmente pancroniche proprio perché descrivono la
formazione delle parole tedesche; poi, l’inquadramento delle grammatiche sanscrite, che sono grammatiche sincroniche e descrivono i
dati sui nomi derivati perché questi dati erano descritti dai grammatici indiani autoctoni; e, infine, l’inquadramento delle grammatiche
di tutte le altre lingue indoeuropee antiche, a partire dal latino, dal
greco e dalle lingue germaniche, che descrivono questi dati perché
gli stessi dati, grazie a Bopp, erano stati descritti nella vergleichende Grammatik delle lingue indoeuropee.
La storia della morfologia derivazionale, in altre parole, si può
effettivamente vedere come la storia di una grande contesa; una
contesa che si è protratta per secoli senza mai essere stata identificata come tale e che ha riguardato l’inquadramento dei dati sulla
formazione delle parole rispetto all’asse del tempo e, quindi, almeno indirettamente, l’identificazione di quella linea ideale che divide
la proto-sincronia dalla proto-diacronia. Poiché, però, entrambi i
domini del sapere, nel corso del tempo, si sono andati definendo e
ridefinendo varie volte e in forme diverse, la storia della morfologia
derivazionale non si può raccontare se non in relazione alle diverse
forme che ha assunto l’architettura complessiva del sapere linguistico comunemente accettata nel corso delle diverse epoche.
Proprio per questo, ricostruire la storia della morfologia derivazionale è certamente un obiettivo importante in sé, come diceva
già Kaltz, ma può anche aiutare a rivalutare alcuni aspetti, secondo
me rilevanti, della storia del pensiero linguistico in generale. Certo,
questa rivalutazione non riguarda primariamente il periodo antico:
la divisione tra le grammatiche e le opere etimologiche, anche se
poco valorizzata da Vaahtera, era ben nota anche prima di questo
lavoro. Però, è vero che identificare due diversi approcci all'analisi
dei nomi derivati fin dal periodo antico aiuta a comprendere la differenza tra grammatica ed etimologia. Inoltre, la distinzione tra due
tipologie di grammatiche filosofiche (i.e. le grammatiche filosofiche
“acroniche” soprattutto francesi e le grammatiche filosofiche “pan-
234
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
croniche” soprattutto tedesche) è difficile da identificare, se non si
tiene conto del trattamento della derivazione e del problema del
tempo; e, senza questa distinzione, è molto difficile superare l’idea
vulgata, secondo cui l’architettura generale del sapere linguistico
tra il Rinascimento e Bopp sarebbe fondata solo su tre gruppi principali di opere (i.e. le grammatiche pratiche, le opere sull’origine
del linguaggio, e le grammatiche filosofiche, considerate come un
insieme uniforme). Lo stesso discorso vale per l’inquadramento
delle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche rispetto all’asse del tempo: se non si tiene nel giusto conto la storia della morfologia derivazionale e i suoi legami con il problema del tempo, diventa
difficile o, forse, impossibile comprendere come e perché sia nata
quella confusione tra old-time synchrony e diacronia che, effettivamente, si nota nelle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche
prodotte nel XIX secolo, né si capisce perché qualche piccolissima
traccia di quella stessa confusione sia visibile ancora nelle grammatiche di latino, greco o delle lingue germaniche antiche che tutti noi
utilizziamo anche oggi.
Ovviamente, molto lavoro resta ancora da fare. In particolare,
sarebbe utile ricucire il legame tra la storia della nozione di derivazione e la storia della nozione di radice, soprattutto per quello che
riguarda l’analisi delle grammatiche sanscrite (per qualche indizio
in questa direzione, si veda Alfieri 2014a; 2013). Inoltre, nonostante
gli importanti lavori di Biondi (2014, 2018), il periodo compreso tra
Prisciano e i Modisti è ancora oggi poco noto (anche per la mancanza delle edizioni critiche di molti dei testi fondamentali per quei
secoli), anche se è stato un periodo fondamentale sia per lo studio
della derivazione, sia per tutta la riorganizzazione del sapere linguistico. Nello stesso modo, sarebbe utile estendere l’indagine alle
grammatiche “missionarie”: è noto, infatti, che in alcuni casi queste
grammatiche rispettano il Protokoll canonico delle grammatiche
delle lingue europee e non descrivono la formazione delle parole;
però, in altri casi, soprattutto quando si trovano di fronte a lingue
polisintetiche, i Padri Missionari descrivono le regole di formazione delle parole anche più di quanto non facciano gli studiosi di lingue europee. Infine, sarebbe assolutamente auspicabile estendere
l’indagine alle nozioni di radice e di derivazione nelle grammatiche
delle lingue semitiche, sia arabe, sia ebraiche, pubblicate in Europa
tra il Rinascimento e la vergleichende Grammatik di Bopp. Queste
Conclusione
235
grammatiche, infatti, presentano almeno due aspetti di notevolissimo interesse per la storia della morfologia derivazionale: in primo
luogo, anche queste lingue, come il sanscrito, sono state descritte
inizialmente da studiosi autoctoni che utilizzavano un modello di
analisi linguistica non lessicalista, strutturalmente simile al modello
di analisi linguistica utilizzato in India (ma prodotto in modo indipendente); inoltre, è noto che le grammatiche delle lingue semitiche
e, soprattutto, le grammatiche ebraiche sono state il primo modello
da cui Scottelio ha mutuato le nozioni di radice e di derivazione
che tanta parte avrebbero avuto nella successiva storia linguistica
europea, e che proprio in queste grammatiche si nasconde una parte
ancora poco nota della confusione tra diacronia e origine del linguaggio abituale in tutta la linguistica premoderna.
Insomma, il ritardo nello studio della storia della morfologia derivazionale lamentato da Kaltz, in parte dipende dal fatto che la
morfologia derivazionale, in ordine di tempo, è effettivamente stata
l’ultimo comparto di analisi ad essere stato accettato nelle nostre
grammatiche sincroniche. In parte dipende dalla particolare complessità che caratterizza la morfologia derivazionale e, quindi, anche la sua storia. I dati sulla formazione delle parole, infatti, si trovano nel punto esatto in cui da sempre si confondono la linguistica,
intesa come una scienza empirica, e la filosofia, intesa come una
scienza speculativa; e, anche una volta distinti questi due piani, i
dati sulla morfologia derivazionale insistono comunque nel punto
in cui da sempre la “(proto-)sincronia” si confonde con la “(proto-)
diacronia”. La morfologia derivazionale, in altre parole, rappresenta il comparto di analisi linguistica in cui la confusione tra linguistica e filosofia e, all’interno della linguistica, la confusione tra la sincronia e la diacronia è stata più complessa, più pervasiva ed è durata
più a lungo. Certo, come si diceva, molto lavoro resta ancora da fare
per recuperare tutti gli effetti che queste due confusioni intrecciate
tra loro hanno prodotto nel corso dei secoli. Ma spero che questo
lavoro possa rappresentare un contributo utile per ricostruire alcuni
aspetti della storia della morfologia derivazionale che erano rimasti
se non ignoti, certamente un po’ in ombra nei lavori sul tema pubblicati negli ultimi anni. Soprattutto, spero che questo lavoro possa
mostrare che la storia della nozione di derivazione, comunque la si
voglia interpretare nei suoi aspetti minuti, non può essere ricostruita in modo soddisfacente se non si includono nell’orizzonte della
236
La morfologia derivazionale e il problema del tempo
ricerca tanto l’architettura complessiva del sapere linguistico, al cui
interno da sempre si dibatte la confusione tra linguistica e filosofia,
quanto “il problema del tempo”, al cui interno si può dibattere la
confusione tra sincronia e diacronia.
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Portugese Missionary Grammar in Asia, Africa and Brazil, 15001800, John Benjamins, Amsterdam-Philadelphia.
INDICE DELLE FIGURE
Fig. 1, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, § I.3
Fig. 2, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo e il
problema del tempo, § I.3
Fig. 3, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, il
problema del tempo e il trattamento della derivazione, § I.3
Fig. 4, la struttura logica della divisio graeca (nella versione di
Prisciano), § II.9.1.1
Fig. 5, la struttura logica della divisio latina, § II.9.1.2
Fig. 6, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e
la derivazione tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C., § II.12
Fig. 7, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e
la derivazione tra il XVI e il XVIII secolo, § III.12
Fig. 8, la struttura dell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini, § IV.2
Fig. 9, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo,
la derivazione e le grammatiche sanscrite nei primi anni del
XIX secolo, § IV.5
Fig. 10, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo,
la derivazione e le grammatiche delle lingue indoeuropee
antiche nei primi anni del XIX secolo, § V.5
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2023
da Puntoweb s.r.l. – Ariccia (RM)