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La storia della morfologia derivazionale e il problema del tempo

2023, Milano-Udine, Mimesis

Luca Alfieri, laureato in Lettere nel 2004, ha conseguito il Dottorato di ricerca nel 2008. Dopo due borse di perfezionamento all’estero, è stato docente a contratto, assegnista di ricerca e membro di vari progetti di ricerca, italiani ed europei. Ha collaborato con diverse case editrici e con Groenlandia Film per la traduzione “proto-latina” del film Il primo re (2019). Attualmente è Professore associato in glottologia e linguistica presso l’Università Telematica Guglielmo Marconi e segretario di redazione dell’Archivio Glottologico Italiano. 26,00 euro LUCA ALFIERI LA MORFOLOGIA DERIVAZIONALE E IL PROBLEMA DEL TEMPO DALL’ANTICHITÀ GRECO-ROMANA A FRANZ BOPP ISBN 978-88-5759-878-9 MIMESIS Mimesis Edizioni Epéktasis Collana di scienze umane e sociali www.mimesisedizioni.it LUCA ALFIERI LA MORFOLOGIA DERIVAZIONALE E IL PROBLEMA DEL TEMPO Il volume tratta la storia della morfologia derivazionale e, in particolare, la relazione tra quest’ultima e il problema del tempo tra la linguistica greco-romana e gli anni ’30 del XIX secolo. Oltre a un’introduzione dedicata a questioni di carattere generale e alle conclusioni dedicate alla storia della morfologia derivazionale nella linguistica indoeuropea del primo ’800, il corpo principale del lavoro consiste di tre capitoli che si occupano, rispettivamente: dell’antichità greco-romana, delle grammatiche delle lingue classiche ed europee nel periodo compreso tra Medioevo ed Età dei Lumi, infine delle grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra il Barocco e i primi anni del XIX secolo. Scopo principale del lavoro è quello di ricostruire come si sia formato in origine, e come si sia evoluto nel corso del tempo, quel particolare legame tra la morfologia derivazionale e la diacronia (o l’ontogenesi del linguaggio) che è ha caratterizzato, con alterne vicende, tutta la storia linguistica passata fin quasi ai nostri giorni. 9 788857 598789 MIMESIS / EPÉKTASIS MIMESIS / EPÉKTASIS – COLLANA DI SCIENZE UMANE E SOCIALI N. 2 Collana diretta da Direzione scientifica: Sara Fortuna (Professore associato di “Filosofia del linguaggio” - Università degli Studi “Guglielmo Marconi”), Andrea Gentile (Professore ordinario di “Filosofia teoretica” - Università degli Studi “Guglielmo Marconi”), Tommaso Valentini (Professore associato di “Filosofia politica” - Università degli Studi “Guglielmo Marconi”) comitato scientifico: Dario Antiseri (Università Luiss – Roma), Adriano Ardovino (Università degli Studi “G.D’Annunzio” – Chieti – Pescara), Paolo Armellini (Università di Roma “La Sapienza”), Grazia Basile (Università degli Studi di Salerno), Reinhard Brandt (Philipps-Universität Marburg), Barbara Cassin (CNRS, Paris), Camilla Croce (Institut für Philosophie – Freie Universität Berlin), Luca Di Blasi (Università di Berna), Bernd Dörflinger (Universität Trier), Andreas Eckl (Goethe-Universität – Frankfurt am Main), Flavio Felice (Università degli studi del Molise), Maurizio Ferraris (Università degli Studi di Torino) Günter Gebauer (Freie Universität – Berlin), Manuele Gragnolati (Université de Paris 4 – Sorbonne), Alessandro Grilli (Università di Pisa), Luca Illetterati (Università degli Studi di Padova), Marco Ivaldo (Università degli Studi di Napoli “Federico II”), Heiner F. Klemme (Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg), Davide Luglio (Université de Paris 4 – Sorbonne), Giancarlo Marchetti (Università degli Studi di Perugia), Pietro Montani (Università di Roma “La Sapienza”), Rocco Pezzimenti (Università Lumsa – Roma), Claude Piché (Université de Montréal), Simone Pisano (Università per Stranieri di Siena), Riccardo Pozzo (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Rossella Saetta-Cottone (CNRS – Centre National de la Recherche Scientifique – Paris), Laura Scuriatti (Bard College – Berlin), Jürgen Trabant (Freie Universität, Humboldt Universität – Berlin), Paolo Valore (Università degli Studi di Milano “La Statale”) Sono membri del comitato scientifico anche i seguenti docenti afferenti al Dipartimento di Scienze umane presso l’Università degli Studi “Guglielmo Marconi”: Luca Alfieri, Chiara Baglioni, Anna Baldazzi, Paloma Brook, Ida Caiazza, Arnaldo Colasanti, Paola De Bartolo, Massimo Fioranelli, Giuseppe Gatti, Francesca Gelfo, Aniello Iacomino, Giuliana Lucci, Francesco Mancini, Roberta Melazzo, Stefania Montebelli, Domenico Morreale, Valdemaro Pavacci, Manuel Petrucci, Alberto Ricciardi, Maria Grazia Roccia, Viviana Rubichi, Giovanna Scatena, Emanuele Toscano, Renée Uccellini, Francesco Claudio Ugolini, Alessia Veglia, Alessandro Emiliano Vento, Maria Volpicelli, Vittoria Zaccari. Luca aLfieri LA MORFOLOGIA DERIVAZIONALE E IL PROBLEMA DEL TEMPO Dall’antichità greco-romana a Franz Bopp MIMESIS Stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane dell'Università degli Studi Guglielmo Marconi. MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Collana: Epéktasis, n. 2 Isbn: 9788857598789 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 INDICE capitoLo i: introDuzione 1. La genesi di questo lavoro 2. Gli studi attuali sulla storia della morfologia derivazionale 3. L’architettura del sapere, la morfologia derivazionale e il problema del tempo nella linguistica attuale 3.1 L’idea storiografica alla base di questo lavoro 4. Il problema dell’anacronismo 5. Un’avvertenza prima di cominciare capitoLo ii: L’antichità greco-romana 1. Introduzione 2. Le prime riflessioni sul linguaggio nella Grecia arcaica 3. Etimologia, pathologia e derivazione nel Cratilo Platone 4. Retorica e derivazione tra i sofisti e Aristotele 4.1 Le opere poetico-retoriche di Aristotele 5. Etimologia, grammatica e derivazione in età alessandrina 6. Il De lingua latina di Varrone 6.1 Termini tecnici e procedure di analisi 7. Retorica e derivazione tra Cicerone e Quintiliano 8. Etimologia e derivazione nelle Noctes Atticae di Gellio 9. I grammatici 9.1 La classificazione degli accidenti 9.1.1. La divisio graeca 9.1.2. La divisio latina 9.2 Termini tecnici e procedure di analisi 9.3 La posizione particolare dell’Ars Prisciani 10. I lessicografi 11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del sapere e il problema del tempo nell’antichità greco-romana 9 9 11 14 20 23 26 29 29 31 34 39 40 43 48 54 58 60 65 66 69 72 75 80 84 86 11.1 Due approcci all’analisi dei nomi derivati 12. Il lascito della tradizione antica 12.1 La confusione tra lingua e linguaggio 12.2 L’inquadramento dei dati empirici sui nomi derivati capitoLo iii: DaL meDioevo aLL’età Dei Lumi 1. Introduzione 2. Lessicografia, etimologia, ontologia e derivazione nel Medioevo 3. Grammatica e derivazione nel Medioevo 4. Origine del linguaggio, etimologia e derivazione tra il Medioevo e il Rinascimento 5. La grammatica speculativa dei Modisti 5.1 Il trattamento dei nomi derivati 6. Le grammatiche “delle causae” 6.1 Il trattamento dei nomi derivati 7. Le grammatiche pratiche tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi 7.1 Il trattamento dei nomi derivati 7.2 Alcune piccole eccezioni 8. Le grammatiche generali (soprattutto) francesi 8.1 Il trattamento dei nomi derivati 9. Le grammatiche “pancroniche” tedesche 9.1 Il trattamento dei nomi derivati 9.2 I termini tecnici e le procedure di analisi 10. Le opere sull’origine del linguaggio tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi 10.1 La lessicologia tedesca 10.2 La filosofia francese 11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del sapere e il problema del tempo tra il Medioevo e l’Età dei Lumi 11.1 Due tipi di grammatiche “filosofiche” 12. Il lascito della linguistica “premoderna” capitoLo iv: Le grammatiche sanscrite tra iL Barocco e Bopp 1. Introduzione 2. La teoria grammaticale indiana 89 93 94 97 101 101 103 110 111 114 117 119 121 124 127 129 132 133 137 141 143 148 151 153 155 159 162 167 167 170 3. Le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra Roth (1660-1668) e Bopp (1827, 1832, 1834) 3.1 La grammatica di Roth (1660-1668) 3.2 Le grammatiche di Hanxleden (1712-1732) e Pons (1739-1771) 3.3 La grammatica di Paolino da San Bartolomeo (1790) 3.4 La grammatica di Carey (1804) 3.5 La grammatica di Colebrooke (1805) 3.6 La grammatica di Wikins (1808) 3.7 La grammatica di Forster (1810) 3.8 La grammatica di Yates (1820) 3.9 La grammatica di Frank (1823) 3.10 Le grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834) 3.10.1 La teoria dei livelli di analisi 3.10.2 La teoria delle unità minime 3.10.3 L’inquadramento della grammatica sull’asse del tempo 4. La storia della morfologia derivazionale nelle grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 5. Il lascito delle grammatiche sanscrite pubblicate tra il Barocco e Bopp 177 179 181 183 185 188 190 191 193 196 198 201 202 205 207 211 capitoLo v: concLusione 1. Friedrich Schlegel e la storia della morfologia derivazionale 2. Franz Bopp e la storia della morfologia derivazionale 3. Lo studio della formazione delle parole dopo Bopp 3.1 La terminologia tecnica e le procedure di analisi 4. Dalla concezione proto-diacronica alla concezione diacronica della derivazione 5. Il lascito dell’originaria concezione “(proto-)diacronica” della derivazione 6. Conclusione 215 BiBLiografia 237 inDice DeLLe figure 301 215 216 220 222 224 226 231 CAPITOLO I: INTRODUZIONE 1. La genesi di questo lavoro Questo lavoro nasce, come praticamente tutte le “cose linguistiche” che mi è capitato di pensare, a margine delle lezioni che Walter Belardi teneva sull’etimologia (cfr. Belardi 2002). Era all’incirca il 2003 e io non ero ancora laureato: una volta, prima di una lezione, superai il timore reverenziale che mi incuteva il Maestro e gli chiesi: “Professore, ma perché Saussure decide di definire sincronia e diacronia nel Cours? Voglio dire, se Saussure decide di chiarire la differenza tra questi due concetti vuol dire che qualcuno prima di lui li confondeva. Ma io non so vedere bene chi, come e perché confondeva queste due nozioni prima di lui”. Belardi mi rispose un po’ stupito della mia domanda: “Oh bella, ma è la derivazione il problema! Gli antichi erano convinti che tutta la formazione delle parole riguardasse l’etimologia e l’origine del linguaggio; prendi, ad esempio, la grammatica di Adelung: vedrai che la confusione lì è costante”. Tornato a casa dopo la lezione, andai subito a cercare la grammatica tedesca di Adelung (1781), che chiaramente non conoscevo, e verificai che Belardi aveva perfettamente ragione. Però, più sfogliavo quel lavoro, più mi pareva che mi mancassero ancora diversi tasselli. Possibile che Saussure stesse parlando solo con Adelung o, comunque, solo con i grammatici tedeschi del XVIII-XIX secolo quando distingueva sincronia e diacronia? Leggendo il Cours mi sembrava che Saussure parlasse più in generale, come se stessa criticando una confusione diffusa da sempre e un po’ tra tutti i suoi predecessori. Però, io non riuscivo a identificare quella confusione nelle grammatiche romane di Donato e di Prisciano, nelle grammatiche pratiche del XVI-XVII secolo o nella Grammaire di Port Royal (1660) con cui all’epoca avevo un po’ di dimestichezza. Certo, quella confusione effettivamente c’era nelle opere sull’origo linguae scritte tra il Rinasci- 10 La morfologia derivazionale e il problema del tempo mento e l’Età dei Lumi, ma i proto-comparativisti non si occupavano della formazione delle parole in modo particolare e, in molti casi, non se ne occupavano affatto. Insomma, nonostante la spiegazione di Belardi, c’era ancora qualcosa che mi sfuggiva: la confusione tra derivazione e origine del linguaggio c’era solo nelle grammatiche tedesche precedenti a Bopp o era un tratto pervasivo di tutta la linguistica “prescientifica”? E se era un tratto pervasivo, che riguardava tutte le opere scritte prima della dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea da parte di Rask e Bopp, come effettivamente sembrava potersi desumere da Saussure, dove si nascondeva quella confusione al di fuori della grammatica di Adelung? E quali erano gli aspetti pratici dell’analisi linguistica che erano davvero viziati da quella confusione nel lavoro di Adelung e negli altri lavori della sua epoca? Soprattutto, se la derivazione era confusa con l’origine del linguaggio in tutta la linguistica premoderna, come diceva Belardi, come, dove e perché si era creata questa confusione in origine? E poi, come si era strutturata questa confusione nelle diverse epoche? Era cambiata nel tempo o era rimasta sempre uguale a sé stessa? È da queste domande e da molte altre di questo tipo che nasce questo lavoro. Purtroppo, Belardi ci ha lasciato nel 2008, prima che io riuscissi a trovare delle risposte alle domande da cui sono partito. Non so, quindi, se il Maestro – venerando e terribile – avrebbe approvato ciò che ho scritto. So, però, che gli sono infinitamente grato per aver fatto nascere in me quelle domande e per avermi dato gli strumenti per provare a dar loro una risposta. È alla sua memoria che dedico questo lavoro. Un’ultima nota: oltre a Belardi, vorrei ringraziare alcuni amici e colleghi che mi hanno aiutato, direttamente o indirettamente, nella stesura di questo libro. In primo luogo gli amici del Sodalizio Glottologico Milanese (i.e. Patrizia Bologna, Laura Biondi, Francesco Dedè, Andrea Scala e Massimo Vai) che hanno discusso con me praticamente tutti i capitoli di questo lavoro durante le sedute del Sodalizio che si sono susseguite negli anni. Inoltre, sono molto grato ad Albio Cesare Cassio e Laura Biondi per i loro ricchissimi suggerimenti sul cap. II; a Giuliano Bernini, Paolo Ramat per i loro commenti sulle precedenti pubblicazioni da cui è poi nato il cap. III; a Marco Mancini e Paolo di Giovine per avermi invitato a discutere il cap. III in un bel convegno romano (Benvenuto et al. 2020), e a Paola Cotticelli per i suoi commenti a margine di quel convegno e per il dialogo che ne è nato; a Claudia Ciancaglini, Artemio Keidan, Alessandro del Tomba Introduzione 11 e Francesco Pirozzi per il loro supporto, umano e scientifico, durante tutto l’arco della mia ricerca; a Beatrice Grieco per avermi aiutato a rileggere tutto il lavoro e averne discusso con me moltissime sue parti; e a Edoardo Nardi, Daniela Baldassarre e Stefano Santacroce per avermi aiutato a riguardare le bozze. Infine, ringrazio tutti gli studenti e i dottorandi a cui ho inflitto le mie lezioni sulla storia della morfologia derivazionale: i loro commenti e la loro prossemica facciale (ora attonita, ora annoiata, ora incuriosita) mi hanno aiutato molto più di quanto non sappia dire. Tutto ciò che c’è di sbagliato, impreciso o non condivisibile nel lavoro, ovviamente, dipende unicamente da me. 2. Gli studi attuali sulla storia della morfologia derivazionale Nel 2004, circa un anno dopo la mia domanda a Belardi, KjellÅke Forsgren e Barbara Kaltz curano un numero monografico di Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft 14(1) interamente dedicato alla storia della morfologia derivazionale. Nel suo contributo al volume, la Kaltz, con buone ragioni, lamenta un certo ritardo nello studio della storia della nozione di morfologia derivazionale (Kaltz 2004, p. 23). Le cause del ritardo, nel complesso, sono note o, comunque, oggi sono abbastanza semplici da identificare. Indirettamente, le hanno già spiegate Kastovsky (2006) e Lindner (2015a) qualche anno fa. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, la derivazione appariva alla maggioranza degli studiosi come un problema prevalentemente diacronico: in sostanza, un tema per etimologisti e studiosi di linguistica indoeuropea, più che un tema per linguisti generali o per studiosi interessati, a qualsiasi titolo, alla sincronia (per una conferma di questa tesi, si vedano anche i materiali discussi da Kaltz & Leclercq 2015). Questa idea, pur se errata, ha inevitabilmente prodotto un certo ritardo nello studio della morfologia derivazionale come campo di ricerca autonomo, sincronico e distinto sia dalla flessione, sia dal lessico. A sua volta, il ritardo nello studio della morfologia derivazionale come campo di ricerca sincronico, autonomo e distinto sia dalla flessione sia dal lessico ha determinato un ritardo parallelo nella storiografia della linguistica: per farla breve, fino a una cinquantina di anni fa, la storia della morfologia derivazionale era assorbita – quasi dissolta – nella storia dell’etimologia e del 12 La morfologia derivazionale e il problema del tempo proto-comparativismo, più o meno nello stesso modo in cui la teoria della formazione delle parole era confusa con l’etimologia. Certo, tra gli anni ’70 e gli anni ’80 dello scorso secolo, l’avanzamento degli studi di linguistica generale e, soprattutto, l’identificazione della nozione di produttività hanno imposto la morfologia derivazionale all’attenzione di tutti gli studiosi interessati alla descrizione grammaticale sincronica e alla linguistica teorica1: oggi (quasi) nessuno direbbe più che la formazione delle parole è un problema soltanto o principalmente diacronico. Così, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, anche la ricerca storiografica ha fatto la sua parte e la storia della morfologia derivazionale ha iniziato a muovere i suoi primi passi, se non proprio come campo di ricerca autonomo, almeno come sotto-dominio perfettamente accettabile nell’ambito della storia della morfologia e, più in generale, della storia delle idee linguistiche. In altre parole, tra il 2004 e oggi, il ritardo lamentato da Kaltz è stato, almeno in parte, colmato, e sono apparsi diversi lavori importanti dedicati specificamente alla storia della morfologia derivazionale. I filoni di ricerca più battuti sono stati soprattutto due. Il primo riguarda l’antichità greco-romana ed è stato aperto da due monografie importanti per chi si occupa di questo tema: la prima, scritta da Amsler (1989), riguarda la nozione di etimologia tra la tarda antichità e il Medioevo e, quindi, almeno indirettamente, si occupa anche della storia della nozione di derivazione che, per gli antichi, è uno degli aspetti dell’etimologia (cfr. infra); la seconda monografia, scritta da Vaahtera (1998), è dedicata più specificamente al modo in cui gli studiosi greci e romani descrivevano i nomi derivati. A que1 Per una storia della nozione di produttività morfologica, si veda Bauer (2001, pp. 11-32, 2005): se si escludono alcuni antecedenti minori, la nozione di produttività è entrata nel mainstream della linguistica sincronica dopo i lavori di Aronoff (1976; 1980), Mayerthaler (1981), Bybee (1985), Dressler et al. (1987) ed è stata accolta come nozione indispensabile nell’ambito della morfologia solo dopo la monografia di Bauer (2001). Tra l’altro, oggi in inglese e tedesco si distingue spesso tra derivazione diacronica e derivazione sincronica anche a livello lessicale: ingl. derivation vs. word-formation, ted. Ableitung vs. Wortbildung. L’uso, però, è recente, dato che per tutto il XIX secolo, la Wortbildung era considerata un problema sostanzialmente diacronico (cfr. Lindner 2015a). Tra l’altro, questa differenza tra derivazione-etymologia e derivazione-Wortbildung era già stata identificata, almeno in parte, da Klinck (1970, pp. 22-30 e, soprattutto, pp. 23-25). Introduzione 13 ste due monografie, si sono poi aggiunti diversi articoli più recenti che si occupano della classificazione dei nomi derivati nell’antichità classica, come i lavori di Matthaios (2004; 2008), Lallot (1993; 2008) e Novokatko (2020) dedicati ai grammatici alessandrini, il lavoro di Fögen (2008) sui retori romani, i lavori di Flobert (1989), Kircher (1988; 1999) e Alfieri (2022; in stampa a, b) sui grammatici romani. Per chiudere la rassegna, si può citare un recente libro di Matthews dedicato alla grammatica greco-romana (2019, p. 189 ss.), che include anche un capitolo sulla formazione dei nomi. Il secondo filone di ricerca riguarda, invece, il periodo compreso tra il Medioevo e la dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea da parte di Bopp (1816) e Rask (1818), ovvero quella parte della storia degli studi linguistici che viene spesso identificata attraverso l’etichetta di “linguistica premoderna”. Alla fase iniziale di questo ampio lasso di tempo si riferiscono i lavori di Biondi (2014, 2018) dedicati alla storia della derivazione e, più in particolare, alle metafore utilizzate per descrivere la formazione delle parole nel Medioevo; il numero monografico 14.1 (2004) di Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft (edito da Forsgren & Kaltz 2004), che è interamente dedicato alla storia della morfologia derivazionale tra il XVII e il XIX secolo; diversi articoli dedicati ad aspetti specifici della storia della morfologia derivazionale, come i lavori di Schmitter (2004), Kaltz (2004; 2005), Kaltz & Leclerq (2015); un paio di articoli di Alfieri (2018; 2019), che trattano della formazione dei nomi nelle grammatiche “filosofiche” tedesche pubblicate tra il XVII e il XVIII secolo; e le note sparse, ma per nulla secondarie, contenute nel bel lavoro di Delesalle & Mazière (2002). Un ulteriore, importante contributo in questo campo, si può trovare nei lavori di Gützlaff (1989a, pp. 23-40; 1989b) e McLelland (2010; 2011): anche se entrambi i lavori si concentrano prevalentemente sulla figura di Scottelio, si tratta comunque di opere molto importanti per chi si occupa di storia della derivazione, dato che Scottelio è, in ultima analisi, lo studioso che più di tutti si è occupato di formazione delle parole tra il Rinascimento e Bopp. Insomma, negli ultimi vent’anni il ritardo lamentato da Kaltz è stato colmato, almeno in parte. Eppure ci sono diversi aspetti della storia della morfologia derivazionale che restano ancora oggi poco noti, poco chiari o, comunque, che sono meritevoli di un qualche approfondimento. Proprio ad uno di questi aspetti è 14 La morfologia derivazionale e il problema del tempo dedicato il lavoro presente. Nel seguito dell’opera, infatti, vorrei occuparmi di quello che, a mio avviso, rappresenta il limite principale che accomuna tutti gli studi sulla derivazione apparsi fino ad oggi: la mancata identificazione del legame cruciale che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e quello che, con una formula un po’ semplicistica ma – spero – utile, chiamerei il “problema del tempo”. 3. L’architettura del sapere, la morfologia derivazionale e il problema del tempo nella linguistica attuale Per spiegare cosa intenda con l’etichetta “il problema del tempo” e perché io creda che la relazione tra il problema del tempo e lo studio della storia morfologia derivazionale sia un aspetto a dir poco fondamentale di questo problema, è utile fare un passo indietro: in altre parole, vorrei cominciare dal presente e descrivere quali sono i rapporti che legano la nozione di morfologia derivazionale e il problema del tempo all’interno di quella che, con Foucault (1966), chiamerei l’architettura del sapere linguistico contemporaneo2. Partiamo da alcune notazioni di carattere molto generale. Oggi, di norma, distinguiamo in modo abbastanza netto la linguistica, che è una disciplina empirica, e la filosofia, che è una disciplina prevalentemente speculativa. All’interno della linguistica, pur sempre intesa come disciplina empirica, si possono poi distinguere quattro campi o quattro domini principali del sapere, che possono essere organizzati all’interno di una matrice definita da due variabili correlate tra loro. La prima variabile riguarda l’oggetto di indagine, che può es2 In generale, con “architettura del sapere” si intende l’organizzazione della conoscenza all’interno di un dato campo disciplinare. Per Foucault, essa è il prodotto diretto delle “tassonomie inconsapevoli sottese all’organizzazione della conoscenza”, ossia di tutte le “condizioni di possibilità” e degli “a priori logici” – insomma, dei postulati – che non sono discussi in modo esplicito dagli studiosi, ma che sono alla base di tutta la loro ricerca (Foucault 1988, pp. 7-11). Al di là di alcune imprecisioni di Foucault nell’analisi delle teorie linguistiche (già discusse da Melandri 1967, Rosiello 1967: 168, Aarsleff 1984 [19821], pp. 38, 59 e Chiss 1984, p. 73), la nozione di “architettura del sapere” ha una sua utilità e, infatti, è stata utilizzata spesso nei lavori dedicati alla storia della linguistica “premoderna” (per qualche esempio tra i vari possibili, si vedano Dubois 1970, Tavoni 1990 e Simone 1990). Introduzione 15 sere rappresentato da una singola lingua, particolare e storicamente determinata, oppure dal linguaggio, inteso come facoltà umana generale, specie-specifica e innatizzata nel corso dell’evoluzione (o, se si preferisce, innata)3. La seconda variabile, invece, riguarda lo scopo dell’indagine, che può concentrarsi sul funzionamento di una lingua o del linguaggio, oppure sul mutamento nel tempo di una lingua o del linguaggio (o, al massimo, come si usava dire prima del XX secolo, sull’origine di una lingua o del linguaggio). Se incrociamo l’oggetto dell’indagine e lo scopo dell’indagine otteniamo una matrice a quattro caselle, ciascuna delle quali descrive uno dei campi principali del sapere linguistico contemporaneo. La linguistica descrittiva o linguistica particolare studia il funzionamento di una singola lingua; la linguistica generale si occupa del funzionamento di tutte le lingue, dunque in pratica studia la facoltà umana del linguaggio in assoluto; la linguistica storica studia il mutamento o l’origine di una lingua particolare o di una famiglia specifica di lingue imparentate tra loro; e la linguistica “evoluzio3 Si noti che il lat. lingua vale sia ‘lingua’, sia ‘linguaggio’, mentre le lingue romanze dividono le due nozioni anche a livello lessicale (Coseriu 1988, Rochette 2009): fr. langue, sp. lengua vs. fr. langage, sp. lenguaje. In qualche caso, inoltre, l’it. linguaggio (ma lo stesso vale per i corradicali romanzi) può essere un equivalente non tecnico di ‘forma di comunicazione’ (cfr. il linguaggio dei fiori). Più complessa la situazione nelle lingue germaniche: in origine, ingl. tongue e ted. Zunge (corradicali del lat. lingua) avevano lo stesso significato di lingua: Lutero, ad esempio, scriveva in teutcher zunge e in inglese ancora si dice mother tongue. Oggi, però, in tedesco Zunge è stato sostituito da Sprache nel senso di ‘lingua, linguaggio’ e l’ingl. tongue ha lasciato il posto all’opposizione tra speech ‘lingua (parlata)’, language ‘lingua, linguaggio’ e utterance ‘espressione linguistica singola’. Una situazione simile si trova nelle lingue slave, dove, il russo jazyk indica sia la singola lingua, sia la facoltà del linguaggio in generale. Chiaramente, anche nelle lingue in cui la distinzione tra lingua e linguaggio non è lessicalizzata, è possibile distinguere le due nozioni: si veda, a riprova, la distinzione tra Sprachfähigkeit e Sprachmaterial proposta da Gabelentz e discussa da Graffi (2001, p. 43). Sulla differenza tra lo studio delle singole lingue e lo studio della facoltà del linguaggio in generale, si veda Bossong (1992). Il problema della natura innata del linguaggio è noto: il contrasto tra l’innatismo “puro” e l’“innatizzazione” del linguaggio durante l’evoluzione oggi è, in buona sostanza, una opposizione tra generativisti che accolgono l’idea chomskiana del linguaggio innato e non-generativisti, che tendono a guardare quell’idea con sospetto. Per una discussione sul tema, si vedano, anche se da prospettive molto diverse tra loro, Belardi (1990a), Tomasello (1995; 1999; 2003) ed Evans (2013). La morfologia derivazionale e il problema del tempo 16 nista” (nel senso di Hurford 2007; 2012 e Botha 2016) si occupa dell’origine ultima del linguaggio, ovvero della sua evoluzione (nel senso biologico del termine). In schema (fig. 1): Funzionamento Mutamento Lingua Linguaggio Linguistica descrittiva Linguistica generale Linguistica storica Linguistica evoluzionista Fig. 1, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo Ciascuno dei quattro quadranti definiti nella fig. 1 è definito dall’incrocio di un dato oggetto di ricerca e di un proprio obbiettivo di ricerca, ma è caratterizzato anche da uno specifico inquadramento sull’asse del tempo. La linguistica descrittiva, da Saussure in poi, è chiaramente sin-cronica; ed è sincronica, sia quando la lingua oggetto di descrizione è una lingua parlata nel nostro presente (i.e. una lingua “viva”), come l’italiano o l’inglese, sia quando la lingua descritta è una lingua che era parlata nel passato ma non è più parlata oggi (i.e. una lingua “morta”), come il sanscrito, il greco antico o il latino (ove necessario, i due casi si possono distinguere separando, con Janda & Joseph (2003, p. 21), una sincronia in senso stretto e una old-time synchrony ‘descrizione sincronica degli stadi di lingua passati’). La linguistica storica, dal canto suo, è notoriamente dia-cronica perché studia i mutamenti linguistici che avvengono nel tempo. La linguistica generale, invece, è a-cronica, perché aspira a raggiungere delle verità generali svincolate dallo spazio e dal tempo, che siano valide sempre e per tutte le lingue (presenti, passate e future), dunque a fortiori per la facoltà universale del linguaggio (si noti che in un campione tipologico l’ultimo pidgin formatosi in Africa nel XXI secolo e l’ittito, che si è estinto nell’XI secolo a.C. circa, possono convivere senza contrasti, perché entrambi ci dicono qualcosa sulla facoltà umana del linguaggio). Infine, la linguistica evoluzionista si può considerare pan-cronica, perché studia tutto ciò che va dalla genesi ultima della facoltà del linguaggio fino al funzionamento delle lingue parlate ai nostri giorni. Se riassumiamo in una tabella questi quattro Introduzione 17 comparti del sapere linguistico, ciascuno con il suo inquadramento sull’asse del tempo, otteniamo lo schema seguente (fig. 2): Lingua Linguistica descrittiva Funzionamento inquadramento: sincronia Linguistica storica Mutamento inquadramento: diacronia Linguaggio Linguistica generale inquadramento: acronia Linguistica evoluzionista inquadramento: pancronia Fig. 2, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo e il problema del tempo La terminologia proposta nella fig. 2 è la più diffusa nella critica moderna, ma non è l’unica possibile4. Saussure, ad esempio, distingue tra la sincronia e la diacronia, e cita di sfuggita anche la pancronia (1922, pp. 134-5), ma non identifica l’acronia come una dimensione a sé dell’analisi linguistica, perché per lui la linguistica generale, in ultima analisi, coincide o con la somma delle categorie e dei costrutti teorici impiegati nelle diverse linguistiche particolari, oppure con il campo di attuazione delle leggi evolutive universali, ossia pancroniche. Pertanto, in Europa, e soprattutto nei dipartimenti di linguistica storica dove il magistero di Saus4 In un post recente (LINGTYP 28.2.2018), Haspelmath ha proposto di usare l’etichetta di comparative linguistics per indicare la “tipologia (possibilmente includendo anche la linguistica storica)” e evolutionary linguistics per indicare la linguistica storica. Non è questa la sede per una discussione dettagliata sul tema, ma è ben noto che comparative linguistics e comparative philology sono i calchi inglesi più comuni del ted. vergleichende Sprachwissenschaft, che è l’etichetta tradizionalmente utilizzata per la linguistica storica nel campo indoeuropeo fin dai primi anni del XIX secolo. È vero che, nel comparativismo prescientifico del XVIII secolo, il ted. vergleichende Sprachwissenschaft e il fr. grammaire comparatif indicavano sia la linguistica storica sia la tipologia (cfr. n. 3 § V.2). Però, se distinguiamo l’ontogenesi del linguaggio e la filogenesi di una lingua (o di una famiglia di lingue), come si fa abitualmente oggi, l’idea di utilizzare la stessa etichetta di evolutionary linguistics sia per la tipologia che per la linguistica storica rischia di confondere le acque (sul tema, si vedano Janda & Jospeh 2003, pp. 59 ss., 79 ss., 86 ss. e la discussione in Alfieri, Arcodia & Ramat 2020, pp. 21 ss.). 18 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sure è ancora ben vivo, l’etichetta “linguistica sincronica” si usa spesso per indicare sia lo studio del funzionamento delle singole lingue, ovvero la grammatica descrittiva, che è effettivamente sincronico, sia la teoria generale di tutte le lingue, ovvero la linguistica generale, anche se a rigore la linguistica generale è acronica, più che sincronica in senso stretto5. La nozione di derivazione riguarda tutti e quattro i domini del sapere definiti sulla tab. 2, ma assume un significato diverso in ciascuno di essi. In senso sincronico, la derivazione è un’operazione produttiva di formazione di una parola in una lingua specifica: it. mangia-re + -ata → it. mangia-ta. In senso diacronico, la derivazione indica l’etimologia, ovvero la formazione di una parola specifica o di una famiglia di parole particolare a partire dal suo antecedente genealogico: l’it. padre < lat. patrem. In senso acronico, la derivazione indica l’insieme di tutte le regole di formazione delle parole attestate a livello interlinguistico, le loro funzioni e i mezzi tecnico-formali con cui sono codificate queste funzioni nelle diverse lingue del mondo. In senso pancronico, infine, la derivazione indica tutto il processo di evoluzione della facoltà umana del linguaggio, ossia la formazione del linguaggio articolato umano a partire dai gesti o dalle urla inarticolate degli ominidi. Se aggiungiamo la nozione di derivazione allo schema che abbiamo elaborato nelle fig. 1-2, otteniamo la tabella seguente (fig. 3): 5 In altre parole, la dimensione tipologica, in Saussure, è assorbita – quasi dissolta – ora nella sincronia, ora nella pancronia. La critica, infatti, ha notato da tempo che la pancronia di Saussure include l’acronia, perché riguarda tutto ciò che è universale, ma non è distinta dalla sincronia (Hjelmslev 1968, pp. 101-11; Sommerfelt 1971, pp. 59-65). Anche la sinonimia saussuriana tra statico e sincronico, spesso criticata da Belardi (1990b), offre una conferma indiretta del fatto che Saussure tendeva davvero a sovrapporre la linguistica descrittiva, che è sincronica, e la linguistica generale, che invece è acronica, dunque in un certo senso davvero “statica”, perché sempre uguale a sé stessa. Sulla natura acronica o pancronica degli universali tipologici, si vedano recentemente Plank (2007), Cristofaro (2014) e Haspelmath (2019). Sulla diversità tra linguistica particolare e generale, si veda il recente dibattito sui comparative concepts (cfr. Alfieri, Arcodia & Ramat 2020), ovvero quei concetti che si impiegano per comparare le lingue, ma che non hanno un equivalente nella grammatica sincronica di nessuna delle lingue comparate. Introduzione 19 Lingua Linguistica descrittiva Funzionamento inquadramento: sincronia inquadramento: acronia derivatio: formazione delle parole in una lingua derivatio: formazione delle parole in tutte le lingue Linguistica storica Mutamento Linguaggio Linguistica generale Linguistica evoluzionista inquadramento: diacronia inquadramento: pancronia derivatio: filogenesi delle lingue/parole (etimologia) derivatio: ontogenesi del linguaggio Fig. 3, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, il problema del tempo e il trattamento della derivazione La fig. 3 ci consente di visualizzare in modo semplice la collocazione della nozione di derivazione rispetto all’architettura del sapere linguistico contemporaneo e le sue relazioni con il problema del tempo. Oggi è possibile identificare quattro diversi domini del sapere linguistico e ciascuno di questi domini è caratterizzato da un suo specifico inquadramento sull’asse del tempo e dalla presenza di una diversa nozione di derivazione. Nel passato, però, non solo era molto diversa la nozione di derivazione, ma era molto diversa anche tutta l’architettura del sapere linguistico al cui interno si collocava la nozione di derivazione. Inoltre, tra Platone e Bopp, l’architettura generale del sapere linguistico è cambiata diverse volte e ciascun cambiamento ha determinato un riposizionamento o una ridefinizione della nozione di derivazione e dei suoi rapporti con il problema del tempo. Proprio per questo, è difficile – per non dire impossibile –, ricostruire la storia della nozione di morfologia derivazionale senza concentrarsi sui diversi rapporti che, di secolo in secolo, legavano l’architettura generale del sapere linguistico, il problema del tempo e la nozione di derivazione. 20 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 3.1 L’idea storiografica alla base di questo lavoro Per spiegare più concretamente l’idea che è alla base di questo lavoro possiamo partire dal confronto seguente. Per gli studiosi greci e romani, la nozione di derivazione (lat. derivatio, gr. παραγωγή) non indica quattro concetti diversi, uno per ciascun campo del sapere linguistico, ma indica un’unica nozione che coincide, in buona sostanza, con l’etimologia. Per gli antichi, in altre parole, la derivazione indica tutto il processo di formazione-creazione-evoluzione di tutte le lingue del mondo a partire dalla lingua originaria dell’umanità imposta sugli oggetti del mondo dal primo Nomoteta. Più precisamente, nella concezione antica, la derivazione indica solo la parte evolutivamente più recente di questo processo generale di creazione-formazione-evoluzione delle lingue (e, quindi, delle parole che le componevano), quella parte che inizia subito dopo la prima impositio dei nomi sugli oggetti del mondo da parte del Nomoteta e che coincide grossomodo con l’evoluzione di tutte le lingue umane a partire dalla lingua originalis. In altri termini, per gli antichi il processo di formazione-creazione delle lingue, il processo di formazione-creazione delle parole all’interno delle lingue umane e la formazione delle nuove parole da parte dei poeti o dei retori che condividono la stessa capacità onomaturgica del Nomoteta originario, rappresentano solo tre aspetti di un unico processo “creativo” di derivatio, un processo che, appunto, comprende senza soluzione di continuità tutto ciò che va dall’origo linguae più remota fino al neologismo. All’interno di questo processo di derivazione-formazione-creazione delle parole, delle lingue e del linguaggio che agli antichi sembrava unico, però, noi moderni distinguiamo quattro diversi processi di derivazione (i.e. la derivazione in senso sincronico, acronico, diacronico e pancronico), ma anche quattro diversi “pacchetti” di dati, uno per ciascun processo di derivazione: i dati sincronici descritti dalle grammatiche nel capitolo sulla formazione delle parole riguardano la derivazione in senso sincronico; i dati etimologici descritti nelle grammatiche storiche o, in parte, nel capitolo sul lessico delle grammatiche sincroniche riguardano la derivazione in senso diacronico; i dati tipologico-interlinguistici riguardano la derivazione in senso acronico (se mai qualcuno dovesse provare a fare una ricerca di questo tipo) e i dati evoluzionistici sullo sviluppo Introduzione 21 del linguaggio articolato umano riguardano la derivazione in senso pancronico. La storia della nozione di morfologia derivazionale, in questo quadro, è anche o, forse, soprattutto la storia del modo in cui il processo di derivazione, che per gli antichi era un processo unico e unitario, è stato diviso, segmentato – vorrei quasi dire quasi “analizzato” (in senso etimologico) – in quattro processi distinti, ciascuno dei quali è definito, oggi, da uno specifico inquadramento sull’asse del tempo e da un suo specifico “pacchetto” di dati. Inoltre, poiché per gli antichi l’origine del linguaggio e l’etimologia rappresentano dei problemi primariamente filosofici, la storia della nozione di morfologia derivazionale è anche la storia del modo in cui, attraverso le varie riorganizzazioni dell’architettura del sapere linguistico, siamo arrivati a distinguere linguistica e filosofia; più concretamente, è la storia del modo in cui siamo arrivati a distinguere le teorie filosofiche e gli “pseudo-dati” su cui si fonda tutta l’etimologia “selvaggia” precedente a Bopp, e i dati linguistici empirici sulla “derivazione”: ovvero, da una parte i dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole (che noi, di norma, trattiamo nel capitolo sulla derivazione delle attuali grammatiche sincroniche), e dall’altra i dati empirici e diacronici sull’etimologia (che noi trattiamo nelle grammatiche storiche o, al massimo, nel capitolo sul lessico delle grammatiche sincroniche). Tuttavia, come si diceva, se escludiamo il lavoro di Lindner (2015a) e, in parte, quello di Kastovsky (2006), nessuno dei lavori dedicati alla storia della derivatio apparsi fino ad ora si interessa minimamente al problema del tempo, né tanto meno si interessa al modo in cui, nel corso della storia delle idee linguistiche, il “pacchetto” di dati sulla formazione delle parole sia stato distinto dal “pacchetto” dei dati sull’etimologia e sul neologismo o come, i “pacchetti” di dati sulla formazione delle parole e sui neologismi si siano aggregati insieme all’interno di quel capitolo sulla morfologia derivazionale che compare oggi in tutte le grammatiche sincroniche, separandosi progressivamente dal “pacchetto” di dati diacronici sull’etimologia. Di qui, la necessità di questo lavoro, che non si propone di ricostruire la storia della nozione di derivazione nella sua completezza, ma solo di richiamare l’attenzione degli studiosi sui legami che intercorrono tra la storia della derivazione e il problema del tempo tra l’antichità greco-romana e Bopp. Per raggiungere questo scopo, infatti, vorrei concentrarmi su tre aspetti molto specifici della storia della derivazione, ovvero: la 22 La morfologia derivazionale e il problema del tempo storia della derivazione e il problema del tempo nell’età classica (cap. 2); la storia della derivazione e il problema del tempo tra il Medioevo e l’Età dei Lumi (cap. 3); la storia della derivazione e il problema del tempo nelle grammatiche sanscrite pubblicate tra il Barocco e Bopp (cap. 4). Chiaramente, la scelta di questi tre aspetti non è casuale. In parte, dipende dal fatto che (soprattutto nei primi due casi, assai meno nel terzo) si tratta dei temi e dei periodi storici che più di tutti hanno riscosso l’interesse degli studiosi negli ultimi anni. In parte, dipende dal fatto che si tratta degli aspetti della storia della derivazione e, in generale, della storia della linguistica che avrebbero più da guadagnare da un riesame di quello che ho chiamato “il problema del tempo”. In parte dipende dal fatto che non tutti gli aspetti della storia della morfologia derivazionale, anche se si accetta il quadro teorico che ho proposto sopra, sono ignoti: sappiamo, ad esempio, che la distinzione tra ontogenesi del linguaggio e filogenesi delle lingue era sufficientemente salda a partire dall’inizio del XIX secolo, grazie alla dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea di Bopp e Rask, o al massimo, dal 1866, quando la Société de Linguistique de Paris mise al bando qualsiasi comunicazione sull’origine del linguaggio6; sappiamo anche che la differenza tra acronia e sincronia è, in un certo senso, implicita nel lavoro di Sapir (1921); infine, sappiamo da Kastovsky (2006) e Lindner (2015a) che la morfologia derivazionale è stata trattata come una nozione prevalentemente diacronica tra Bopp (1833) e gli anni ’60 o ’70 del XX secolo. Quindi, la parte della storia della morfologia derivazionale che è meno nota e, proprio per questo più interessante – sempre che si accetti l’impostazione storiografica proposta sopra – è quella compresa tra l’antichità e l’ipotesi indoeuropea di Bopp (1816). Nel seguito del lavoro, infatti, vorrei provare a mostrare che, se si tiene nella giusta considerazione il nesso che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e il problema del tempo è possibile proporre una interpretazione storiografica almeno in parte originale per la storia della derivazione nell’età classica, nella linguistica “prescientifica” e nelle grammatiche sanscrite precedenti a Bopp. 6 L’articolo 2 dello statuto della Société de Linguistique di Parigi, infatti, recitava: La Société n’admet aucune communication concernant, soit l’origine du langage, soit la création d’une langue universelle (Leroy 1969, p. 44). Introduzione 23 4. Il problema dell’anacronismo Chiaramente, utilizzare l’architettura del sapere comunemente accettata ai nostri giorni come quadro teorico generale al cui interno studiare la storia della derivazione nell’antichità è un’operazione anacronistica. L’anacronismo, però, non è necessariamente un difetto in sede di analisi storiografica. Anzi. Lo studio del passato, infatti, può seguire due approcci, entrambi legittimi dal punto di vista teorico7. La storiografia “cronica” si occupa di ricostruire il valore che una data nozione aveva per gli studiosi che utilizzavano quella nozione, a prescindere dai rapporti che legano quella nozione e le nozioni dominanti nel presente. Questo tipo di indagine storiografica utilizza un punto di vista interno alla teoria oggetto della descrizione e produce i migliori risultati nel mettere in risalto le differenze tra le nozioni dominanti nel presente e le nozioni passate, anche quando queste nozioni sono veicolate dagli stessi termini tecnici. Un buon esempio di questo tipo di storiografia è il lavoro di Aarsleff (1974) su Condillac o quello di Borst (1957-1959) sull’origine del linguaggio. Al contrario, la storiografia “anacronica” cerca di dimostrare il valore che le nozioni del passato hanno rispetto alla teoria linguistica del presente (evito volutamente il termine anacronistico, che nel linguaggio comune ha un’accezione negativa). Questo tipo di indagine ha un punto di vista esterno alla teoria oggetto di studio e serve soprattutto a far emergere le analogie tra le nozioni dominanti nel presente e i loro antecedenti passati, anche quando queste nozioni sono identificate attraverso termini tecnici diversi. Un esempio di questo tipo di storiografia è costituito dai lavori di Belardi dedicati alla nozione di radice in Saussure, alla sua tipologia morfologica e alla controversia sulle nozioni di radice e di parola nella linguistica indoeuropea del XIX secolo (Belardi 1990b; 1993; 2002: I, pp. 256 ss.; 2008). Una storia rigorosamente “cronica” della nozione di morfologia derivazionale nella linguistica premoderna è chiaramente impos7 Alcune riflessioni sulla teoria della storiografia simili a quelle esposte sopra si trovano in Aarsleff (1982), Koerner (1976; 1993; 2004) e, in misura minore, in Simone (1995) e Swiggers (2012). 24 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sibile, perché la nozione stessa di formazione delle parole, intesa come campo di ricerca sincronico e distinto tanto dal lessico quanto dalla flessione, non esiste prima degli anni ’70 del XX secolo. Se si segue un approccio “cronico”, insomma, l’unica reale possibilità è quella di produrre una storia delle nozioni di etimologia (come quella di Amsler 1989) o di origine del linguaggio (come quella di Borst 1957-1959), includendo al suo interno anche il problema della formazione delle parole, dato che la formazione delle parole, l’etimologia e l’origine del linguaggio, di fatto, sono temi di ricerca ampiamente confusi nell’antichità. Una storia “anacronica” della nozione di derivazione, invece, può ricostruire in che modo, e secondo quale logica, sono stati descritti i dati empirici che noi, oggi, riuniamo insieme nei capitoli sulla formazione delle parole che compaiono in tutte le grammatiche delle lingue europee moderne, dato che la specificità di questi dati rispetto ai dati etimologici è un’acquisizione soltanto moderna. Solamente una storia “anacronica” della nozione di derivazione, insomma, può avere come scopo quello di ricostruire in che modo si sia formata la nozione moderna di derivazione, dato che questa nozione, per l’appunto, è solo moderna. Insomma, anche se entrambi gli approcci storiografici che abbiamo delineato sopra sono perfettamente legittimi e plausibili in assoluto, in questo caso, è stato scelto un approccio rigorosamente “anacronico”, seguendo ciò che avviene in quasi tutti i lavori dedicati a questo tema, a partire dalla bella monografia di Vaahtera (1998)8. Selezionare un approccio “anacronico” ha chiaramente dei vantaggi, ma comporta anche dei rischi. I vantaggi sono chiari. Ricostruire la storia di una nozione non è una operazione neutra dal punto di vista teorico: come sapeva già Kuhn, lo studio del passato è fondamentale per stabilizzare le nozioni dominanti nel presente. Ricostruire la storia della morfologia derivazionale, 8 Non è un caso, che Vaahtera intitoli il suo lavoro Greek and Roman views on word-formation, invece di scegliere un titolo come Greek and Roman theories on word-formation: i Greci e i Romani, infatti, non hanno una teoria compiuta sulla formazione delle parole, ma hanno comunque delle opinioni sulla formazione di questo o di quel tipo di nome, anche se per loro la formazione di questo o di quel tipo di nome sconfina (ossia, si confonde) ora con la formazione delle lingue, ora con la retorica e il neologismo, ora con l’etimologia remota e l’origine del linguaggio. Introduzione 25 quindi, è un modo – speriamo – efficace, ancorché indiretto, per stabilizzare la nozione di morfologia derivazionale in sede di teoria linguistica. Tuttavia, un quadro teorico eccessivamente “anacronico” corre il rischio di nascondere le differenze tra le nozioni passate e quelle presenti al di sotto dell’identità dei termini tecnici che indicano quelle nozioni. Un po’ come se, nella furia di cercare gli antecedenti passati della nozione moderna di derivazione, finissimo per convincerci che la nozione di derivazione per noi e per Prisciano indichino sostanzialmente la stessa cosa, perché hanno lo stesso nome, oppure perché in certi casi (ma solo in certi!) si riferiscono a dati linguistici simili; seguendo questa linea, si potrebbe addirittura arrivare a credere (o, almeno, ad agire come se si credesse) che la nostra nozione di derivazione e quella di Prisciano grossomodo coincidano, ovvero che la nozione di derivatio in Prisciano sia solo una pallida anticipazione della nostra nozione di derivazione – il che è chiaramente un’assurdità dal punto di vista storiografico, dato che Prisciano non pensava affatto a noi mentre compiva i suoi studi9. Insomma, selezionare un approccio “anacronico” è utile e, forse, inevitabile in questo caso, ma comporta certamente il rischio di vedere il passato solo come una anticipazione un po’ pallida e imprecisa del presente. Proprio per evitare questo rischio e, più nel concreto, per evitare di appiattire le differenze tra la nozione presente di derivazione e la nozione passata di derivazione al di sotto dell’identità del termine derivatio, quindi, il presente lavoro si muoverà alla ricerca di una “anacronia mediata”: con questa etichetta mi riferisco ad un’impostazione storiografica che eviti di proiettare la nozione presente di derivazione nel passato in modo diretto e irriflesso, ma utilizzi il quadro teorico comunemente accettato nel nostro presente (e descritto in modo esplicito nel § I.3) come mappa concettuale al cui interno descrivere i vari modi in cui è stata concepita la nozione di derivazione nel corso del tempo: in questo modo speriamo di rispettare la visione passata delle nozioni passate e, nello stesso tempo, di mostrare il valore presente delle nozioni passate. 9 Un problema di questo tipo, ad esempio, mi pare si possa trovare in quei lavori che hanno cercato di riportare la nozione di struttura profonda a Cartesio (Chomsky 1966, cfr. Graffi 2001c), il concetto di morfema a Varrone (Pisani 1976) o la nozione di trasformazione a Pāṇini (Chomsky 1965, p. iii). 26 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 5. Un’avvertenza prima di cominciare Prima di iniziare, vorrei dichiarare non tanto cosa c’è in questo libro, ma cosa certamente non c’è. Ciò che questo libro non offre ai lettori è una storia della nozione di radice che scorra in parallelo alla storia della nozione di derivazione. La ragione di questa mancanza è semplice e si evince dai lavori che, in questi anni, ho dedicato alla definizione della nozione di radice (Alfieri 2009; 2016; 2017; 2018b; 2019b; 2020; 2021; Alfieri & Gasbarra 2021). In breve, tutti (o quasi tutti) gli studiosi contemporanei sono d’accordo su cosa sia la morfologia derivazionale e quale sia la sua collocazione all’interno dell’architettura del sapere linguistico contemporaneo, ma lo stesso non si può dire per la nozione di radice (per una rassegna delle varie ipotesi, spesso molto diverse e in contrasto netto tra loro, si veda Alfieri 2016, pp. 129-136). Secondo alcuni, la radice indica solo una nozione diacronica, mentre secondo altri indica sia una nozione diacronica, sia una nozione sincronica; coloro che accettano la definizione anche sincronica della nozione di radice, inoltre, si dividono ulteriormente tra coloro che credono che la radice in senso sincronico coincida necessariamente con un tema verbale semplice e coloro che, invece, credono che la radice possa essere un’unità di analisi diversa da un tema verbale semplice sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista tipologico-funzionale. Chiaramente, non è questa la sede per discutere le varie definizioni della nozione di radice. Però, è chiaro che se la radice sanscrita rappresenta un’unità di analisi diversa da un tema verbale latino, allora la storia della nozione di radice ha una dimensione tipologica fondamentale, che non compare affatto nella storia della nozione di derivazione. La stessa dimensione tipologica, però, è completamente assente se le radici verbali sanscrite e i temi verbali primari del latino rappresentano lo stesso tipo di unità di analisi. Ora, in assoluto, io credo che la storia della nozione di radice abbia effettivamente una dimensione tipologica importante. Tuttavia, questa idea non è quella oggi dominante. Per evitare di entrare in questioni teoriche controverse che avrebbero finito per rendere il lavoro troppo lungo (dunque, poco leggibile) o troppo partigiano (dunque, poco condivisibile), quindi, in questo caso mi sono limitato a ricostruire la storia della nozione di derivazione, lasciando da parte la storia della Introduzione 27 nozione di radice. Resta il fatto che il lettore interessato a questo tema, si può rivolgere ai miei lavori dedicati all’ingresso della nozione di radice nella teoria grammaticale europea per farsi un’idea del problema (Alfieri 2017; 2014a; 2013). Come si vedrà tra breve, il corpo principale di questo libro è costituito da tre capitoli. Ciascuno di questi capitoli si appoggia a delle precedenti pubblicazioni. In particolare, il cap. 2, che è dedicato all’antichità greco-romana prende le mosse dagli stessi materiali che ho utilizzato in Alfieri (2022; in stampa a; in stampa b); il cap. 3, che è dedicato alle grammatiche filosofiche si basa sugli stessi materiali che ho utilizzato in Alfieri (2018a; 2019a); mentre il cap. 4 dedicato alle grammatiche indiane parte dagli stessi materiali che ho utilizzato in Alfieri (2013, 2014a). Tutti i materiali, però, stati profondamente rivisti, aggiornati e rimodulati per l’occasione, così da offrire al lettore un quadro – spero – coerente e, per quanto possibile, originale della storia della nozione di derivazione tra l’antichità e Bopp. CAPITOLO II: L’ETÀ CLASSICA 1. Introduzione Partiamo dall’inizio di questa storia. Nel suo fondamentale lavoro dedicato a Greek and Roman views on word-formation, Vaahtera (1998) ha mostrato che il processo di derivazione in quanto tale non è l’oggetto principale di nessuno dei domini del sapere più comuni nell’antichità. Eppure, alcuni degli aspetti più importanti del processo di formazione delle parole vengono descritti all’interno di opere che afferiscono a tre diverse branche del sapere linguistico antico: le opere etimologiche, le opere retoriche e le grammatiche. Aver identificato in modo chiaro la presenza di tre approcci strutturalmente diversi allo studio della morfologia derivazionale nell’antichità classica è uno dei meriti principali del lavoro di Vaahtera, insieme a quello – di per sé non secondario – di aver raccolto con attenzione e acribia filologica la grande maggioranza dei passi dedicati all’analisi della formazione delle parole nella letteratura greca e romana. Certo, rispetto agli anni ’90, alcuni aspetti filologici del lavoro di Vaahtera si possono aggiornare: la monografia di Luhtala (2005), ad esempio, ci permette di identificare con più chiarezza due diversi modelli tassonomici nel pensiero grammaticale romano, soprattutto per ciò che riguarda la classificazione degli accidentia nominum. Alcuni passi di Aristofane permettono di anticipare l’approccio retorico allo studio dei nomi derivati di una o due generazioni; alcuni passaggi del Cratilo di Platone ci lasciano intravedere degli aspetti secondo me piuttosto interessanti di quella relazione tra derivazione, patologia ed etimologia che, in anni recenti, è stata studiata da Lallot (1995; 2008); e la recente pubblicazione dei frammenti di Aristofane di Bisanzio (Slater 1986 = SGLG 6, Schironi 2004), Aristarco di Samotracia (Matthaios 1999) e Cratete di Mallo (Broggiato 2001; 2014) consente di precisare qualche caratteristica delle pri- 30 La morfologia derivazionale e il problema del tempo missime fasi del pensiero grammaticale greco che era rimasta un po’ in ombra nella monografia di Vaahtera. Ma non sono questi i punti più rilevanti: è l’interpretazione storiografica generale proposta da Vaahtera che, a mio avviso, richiede un qualche ripensamento. Nonostante la divisione per “generi letterari” proposta da Vaahtera, alla fine della sua monografia, l’Autrice dice in modo esplicito che, secondo lei (1998, p. 115): “it is clear that we cannot keep the etymological and the grammatical approach to derivatives separate”. Ora, questa tesi in parte è vera, ma in parte è fuorviante. È vero che gli strumenti tecnico-pratici con cui i grammatici e gli etimologisti analizzano i nomi derivati sono molto simili tra loro (anche se non del tutto uguali); quindi, da un certo punto di vista, è davvero difficile tenere distinti l’approccio etimologico e quello grammaticale rispetto all’analisi pratica dei nomi derivati. Ciò nonostante, secondo me, fin dall’età classica e, ancor di più, dall’età ellenistica in poi si sono andati delineando due approcci all’analisi della derivazione strutturalmente diversi dal punto di vista teorico e terminologico: un approccio di tipo “grammaticale” o, per così dire, “proto-sincronico”, e un approccio di tipo “etimologico” o, per così dire, “proto-diacronico”. In altre parole, Vaahtera crede che non sia possibile distinguere un approccio grammaticale e un approccio etimologico alla derivazione, perché gli strumenti tecnici impiegati nell’analisi empirica dei nomi derivati sono praticamente gli stessi nei due casi. Io, invece, vorrei dimostrare che, se si tiene in considerazione il problema del tempo, non è solo possibile, ma è anche necessario tenere ben distinti un approccio grammaticale e un approccio etimologico rispetto all’analisi dei nomi derivati, anche se la differenza, in buona parte (ma non del tutto), si neutralizza nell’analisi pratica dei nomi derivati. Per dimostrare questa tesi mi propongo di rivedere la storia della derivazione nell’età greco-romana, con due differenze sostanziali rispetto al lavoro di Vaahtera (1998). La prima, come ho già detto, è di ordine teorico e consiste in un’attenzione nuova al problema del tempo. La seconda, di ordine più pratico, consiste in un diverso ordinamento del lavoro: invece di seguire la divisione “per generi letterari” utilizzata da Vaahtera, ordinerò i passi, per quanto possibile e al netto delle lacune effettivamente presenti nella documentazione, nella loro sequenza cronologica. Certo, anche se ordinati in questa forma, i passi analizzati nel seguito del lavoro presenta- L’età classica 31 no delle sovrapposizioni con quelli discussi da Vaahtera. Più nello specifico, i paragrafi dedicati all’approccio retorico allo studio dei nomi derivati (i.e. §§ II.4 e II.7), a Gellio (i.e. § II.8) e ai lessicografi (i.e. § II.10) sono inquadrati in una prospettiva storiografica molto diversa rispetto a quella di Vaahtera ma analizzano grossomodo gli stessi passi già discussi dalla studiosa (al netto, ovviamente, di qualche differenza, come i passi di Aristofane discussi nel § II.4); le sezioni dedicate ai rapporti tra derivazione ed etimologia (i.e. §§ II.2, II.3, II.5 e II.6) e quelle su derivazione e grammatica (i.e. §§ II.9, II.9.1, II.9.1.1, II.9.1.2, II.9.2 e II.9.3), invece, pur trattando in sostanza gli stessi temi già discussi da Vaahtera, sono decisamente più innovative, sia nella teoria storiografica utilizzata, sia soprattutto nei passi valorizzati di volta in volta. 2. Le prime riflessioni sul linguaggio nella Grecia arcaica I primi esempi di un interesse dei Greci per il linguaggio compaiono nell’età arcaica. Omero, ad esempio, racconta che la dea Errore (gr. Ἄτη), figlia di Zeus, si chiama così perché tutti fa errare (Ἄτη, ἣ πάντας ἀᾶται, Il. 19.91). Le paretimologie di questo tipo sono comuni in Omero, in Esiodo, nei tragici e negli inni orfici e ci lasciano vedere i primi segni di un’idea che avrebbe avuto grande fortuna nei secoli successivi1. Il linguaggio, che per gli antichi non era poi molto diverso da un insieme di parole, nasce nel momento in cui qualcuno, forse un vero e proprio ‘impositore di nomi’ (gr. νομοθέτης, lat. impositor nominum), come quello descritto da Platone nel Cratilo (429a1), per la prima volta impone i nomi alle cose, all’incirca nello stesso modo in cui un padre impone il nome ai suoi figli2. Inoltre, se il Nomoteta in questione era Zeus stesso, o comunque un essere divino, la prima imposizione dei nomi (gr. θέσις ὀνομάτων, lat. impositio nominum) non poteva che riflettere 1 2 Sulle etimologie dei poeti arcaici e classici, si vedano Gambarara (1984, pp. 109 ss., 113 ss.) e Belardi (2002: I, pp. 11 ss.). Il sintagma θέσις ὀνομάτων si trova per la prima volta in Platone (Crat. 390d10), mentre il nome νομοθεσία è attestato solo a partire da Plutarco. La nozione di Nomoteta compare negli inni orfici e, da qui, passa nella filosofia pitagorica prima di essere integrata nello stoicismo (Gambarara 1984, pp. 161 ss. e 191 ss.). 32 La morfologia derivazionale e il problema del tempo la natura profonda degli oggetti nominati, la loro “verità” ontologica, quella stessa verità ontologica che restava inscritta, appunto, nei loro etimi (si ricordi che il gr. τὸ ἔτυμον vale letteralmente ‘il vero’, ed è da qui che si forma il gr. ἐτυμολογία, termine che Cicerone, non a caso, tradusse con veriloquium in Top. 35 e Quintiliano tradusse direttamente con veritas in Inst. or. I.7.8)3. Oggi siamo abituati a riassumere questo tipo di teorie sul linguaggio con l’etichetta di etimologia. Il termine greco τὸ ἔτυμον nel significato di ‘valore vero di una parola’, però, risale all’età aristotelica e il composto ἐτυμολογία, stando a Galeno (SVF II, fr. 884), compare per la prima volta nel Τὰ ἐτυμολογικά di Crisippo (Pfeiffer 1973, p. 395, n. 48; Belardi 2002: I, p. 21 e 28). Nell’età arcaica, quindi, i Greci cominciano a percepire il linguaggio come qualcosa di distinto dal mondo e dal pensiero, ma non sono ancora arrivati ad una distinzione netta tra pensiero e linguaggio, né tanto meno tra lingua e linguaggio, e la grammatica è ancora lontana dall’essere identificata come una scienza a sé4. In questa primissima fase degli studi linguistici, esiste solo l’etimologia che, almeno dal punto di vista cronologico, rappresenta il punto di partenza di tutte le riflessioni greche sul linguaggio. Soprattutto nell’età arcaica, quindi, la prospettiva dei Greci per lo studio del linguaggio è “pancronica” e “olistica” o, se si preferisce, anche solo “filosofica”, perché abbraccia in un solo sguardo tutto ciò che va dalla prima imposizione delle πρῶται φωναί della lingua originaria fino alla ratio e al funzionamento in atto delle parole greche, senza alcuna soluzione di continuità5. 3 4 5 Oltre a veriloquium e veritas, gli studiosi romani rendono ἐτυμολογία con il prestito non adattato ἐτυμολογία (Varr., Ling. lat. V.2), con il prestito adattato etymologia (Varr., Ling. lat. VIII.102), oppure con i termini origo (Varr., Ling. lat. V.3 e 6), explicatio o interpretatio (Cic., De or. I.87), ratio con il senso di ‘significato dell’etimo’ (Varr., Ling. lat. VI.36; Quint., Inst. or. I.6.1), causa (Varr., Ling. lat. V.9 e 94) e (ad)notatio (Cic., Top. 10 e 35), che è un calco semantico del gr. σύμβολον attraverso il lat. nota. Sulle rese latine di ἐτυμολογία, si veda Cavazza (1981, pp. 20-1, n. 13). La confusione tra il pensiero e il linguaggio è la norma in Grecia (Belardi 2002: I, pp. 17 ss.; II, pp. 221 ss.), anche se esistono delle eccezioni, forse, in Parmenide (Belardi 2002: II, pp. 228-9, n. 684 e pp. 236 ss.) e, di certo, in Aristotele (Belardi 1975, pp. 38-61) e Crisippo (Belardi 1990-91, pp. 5 ss.). Anche se entrambe le Autrici descrivono perfettamente la Denkform su cui si fonda l’etimologia antica, Sluiter (2015, p. 898) crede che “ancient etymology […] is all about synchrony” e Desbordes (2007 [19981], p. 142) ritiene che sia sostanzialmente “achronique”. Il contrasto tra le due defini- L’età classica 33 In questo quadro filosofico e pancronico si innestano le prime riflessioni dei filosofi presocratici (Belardi 2002: I, pp. 24 ss. e II, pp. 213 ss. e 220-253). Se il linguaggio nasceva davvero da una imposizione dei nomi sulle cose del mondo, questa imposizione poteva essersi realizzata per natura (φύσει), in modo che i nomi imitassero la natura delle cose stesse, come credevano Eraclito e Pitagora; oppure poteva essersi realizzata attraverso una sorta di pattuizione (νόμῳ, θέσει) tra i membri della società umana, come credevano Democrito e Parmenide6. La differenza tra queste due prospettive sarà fondamentale per tutto il seguito degli studi linguistici. Se i nomi imitano le cose del mondo, come credevano i più, allora il linguaggio è uno strumento conoscitivo efficace e l’etimologia è una scienza fondamentale, perché ha il compito di recuperare il legame mitico, quasi magico, che unisce fin dall’origine le parole e le cose, mostrando l’adeguatezza ontologica dei nomi (l’ὀρθότης τῶν ὀνομάτων di cui parla Platone nel Cratilo, 421c-d) e, dunque, l’effettiva funzionalità del linguaggio nel significare le cose del mondo. Se, invece, i nomi nascono da una pattuizione tutta umana (quindi fallibile), come credevano i filosofi convenzionalisti, seguiti dai sofisti, allora il linguaggio non è necessariamente uno strumento affidabile per conoscere la natura delle cose e l’etimologia non ha una particolare rilevanza, ma si apre uno spazio autonomo per lo studio dei meccanismi di funzionamento del linguaggio, al di là della sua origine e della natura delle cose nominate7. 6 7 zioni mi pare una conferma indiretta dell’approccio pancronico dell’etimologia antica, che ingloba elementi sincronici, diacronici e acronici, ma non può essere ridotto a nessuno di questi. Chiaramente, il legame tra origine naturale del linguaggio ed etimologia è più forte nelle fasi iniziali del pensiero linguistico antico. Varrone, ad esempio, pur occupandosi di etimologia e accettando l’origine naturale del linguaggio (cfr. ea [i.e. natura] enim dux fuit ad vocabula imponenda homini, Ling. lat. VI.3 e similmente in IX.33) cerca una mediazione con l’importanza della humana consuetudo. È, però, vero che, nelle fasi iniziali del pensiero linguistico greco, i sostenitori di un’origine naturale del linguaggio sono ovviamente molto più inclini alle speculazioni etimologiche dei convenzionalisti. Una eco di questa idea si trova, oltre che ne Cratilo di Platone (cfr. infra), negli autori che rifiutano l’etimologia come strumento euristico affidabile, come Sesto Empirico (Adv. math. I.241-7), in parte Quintiliano (Inst. or. I.6.32) e lo scettico Cotta, citato da Cicerone (De nat. deo. II.24-28). Sull’etimologia greca in generale, si vedano da ultimi Nifadopulos (2003) e Zucker & Le Feuvre (2021). 34 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Insomma, le prime riflessioni linguistiche dei Greci precedono la distinzione netta tra pensiero e linguaggio, quindi precedono anche la distinzione tecnica tra le nozioni di lingua e linguaggio che è alla base di tutta la speculazione linguistica moderna. Tra la fine dell’età arcaica e l’inizio dell’età classica, però, cominciano a delinearsi due approcci distinti agli studi linguistici. Coloro che credono in un’origine naturale del linguaggio sono interessati principalmente a studiarne l’origine, mentre coloro che credono nell’origine convenzionale del linguaggio, si interessano di più a studiarne il funzionamento in atto. Tra l’età classica e l’età ellenistica, entrambe queste prospettive produrranno uno specifico approccio allo studio dei fatti di lingua e, con esso, uno specifico approccio all’analisi dei nomi derivati. 3. Etimologia, pathologia e derivazione nel Cratilo di Platone All’interno della diatriba sull’origine del linguaggio e sulla sua affidabilità come strumento euristico si inserisce il Cratilo di Platone. Come ha mostrato Belardi (2002: II, pp. 246 ss.), Platone crede che sia possibile, se non addirittura preferibile, conoscere le cose senza passare attraverso le parole che le designano (δυνατόν μαθεῖν ἄνευ ὀνομάτων τὰ ὄντα, Crat. 438e2). La varietà poliedrica delle etimologie proposte da Cratilo e da Socrate, in altre parole, è il mezzo scelto da Platone per la reductio ad absurdum delle pretese conoscitive del linguaggio: se tutte le etimologie sono possibili in assoluto ma nessuna è dimostrabile, allora è necessaria una teoria della conoscenza che sia sostanzialmente indipendente dalle parole. Proprio per arrivare a questa reductio, però, Platone descrive tutto il bagaglio sapienziale sul linguaggio e la sua genesi che si era andato accumulando a partire dall’età arcaica e dal quale avrebbero attinto, in varie forme, tutte le scuole filosofiche dell’età classica ed ellenistica, a cominciare dagli Stoici8. 8 La teoria etimologica fondata sull’isomorfia tra nomi e cose si è legata in particolare alla filosofia stoica, ma non è una teoria solo stoica (Belardi 199091, pp. 92 ss.). La nozione di Nomoteta, infatti, nasce negli inni orfici e passa nella filosofia pitagorica prima che nello stoicismo (cfr. n. 2 § II.2). Cratilo, inoltre, era eracliteo e le etimologie basate sull’isomorfia nomi-cose erano comuni nei testi arcaici. Per il tramite di Agostino e Isidoro, infine, la teoria etimologica “stoica” sopravvive alla fine della Stoà e giunge fino a Dante. È, L’età classica 35 Dal punto di vista retrospettivo, questo bagaglio sapienziale si fonda in sostanza su due elementi. Il primo, come abbiamo detto, consiste nell’idea “pancronica” secondo cui il funzionamento del linguaggio dipende, in sostanza, dalla sua origine, ovvero dal modo in cui i nomi sono stati imposti ab origine sulle cose nominate. Il secondo elemento, altrettanto fondamentale, ma in genere meno considerato, è un abbozzo di una teoria del mutamento delle parole nel tempo. In altre parole, anche se si tratta di una “semantic ontology” (Fresina 1990: 110), più che di una teoria sulla diacronia delle lingue, l’etimologia antica produce fin da subito una teoria del mutamento o, più precisamente, una teoria dell’evoluzione del linguaggio e della lingua greca a partire dalla sua origine mitica. Questa teoria che, fin da Wackernagel (1876), è conosciuta come teoria delle “affezioni” dei nomi (gr. πάθη τῆς λέξεως, lat. accidentia nominum), non è mai descritta nelle fonti in modo esplicito, ma è citata in modo cursorio da Aristotele, Platone, Varrone, Quintiliano e da molti dei grammatici greci e latini (almeno nell’analisi dei composti) ed è effettivamente alla base di tutte le ipotesi etimologiche antiche9. 9 però, vero che questa teoria ebbe un particolare successo presso gli Stoici: Origene dice esplicitamente che per gli Stoici le prime voci imitavano le cose (μιμουμένων τῶν πρώτων φωνῶν τὰ πράγματα, καθ’ὧν τὰ ὀνόματα, καθὸ καὶ στοιχεῖά τινα τῆς ἐτυμολογίας εἰσάγουσιν, Contra Celsum I, 24 = SVF II, fr. 146 e Belardi 2002: I, p. 29). Inoltre, Crisippo lamentava che le parole con alpha privativo non indicavano sempre στήρεσις, mentre molte altre parole che indicavano στήρεσις non contenevano l’alpha privativo (SVF II, fr. 177-179). Sul tema, si vedano anche Belardi (1985; 2002: I, pp. 213-376), Belardi & Cipriano (1990) e Blank & Atherton (2003). Chiaramente, l’idea della nomotesia non era l’unica teoria possibile sull’origine del linguaggio in Grecia: nel libro 12 del De natura, purtroppo perduto, è probabile che Epicuro proponesse l’origine naturale del linguaggio, senza far intervenire alcun Nomoteta (cfr. Lett. Er. 75-6, e Baratin & Desbordes 1981, pp. 25 e 111) e, di certo, questa stessa tesi torna nel libro V del De rerum natura di Lucrezio (cfr. vv. 1028-90, cfr. Deneker 2017, pp. 25 ss.). È vero, però, che questa teoria “naturalistica” nelle fonti antiche non ha avuto successo. Il sintagma πάθη τῆς λέξεως compare già in Aristotele (Poet. 1460b12); Platone usa il perfetto πέπονθεν da πάσχω (Crat. 399b7) per indicare il mutare delle parole nel tempo (in relazione alla parola ἄνθρωπος) e l’idea della corruzione dei nomi è abituale in Varrone (Ling. lat. V.7 e VII.12), oltre che in Quintiliano (Inst. or. I.5.68-9) e nei grammatici, almeno per ciò che riguarda l’analisi dei composti (cfr. § II.9.1). Inoltre, Apollonio e il figlio Erodiano, probabilmente seguendo le orme di Trifone e il Περὶ παθῶν di Didimo, usavano la stessa teoria per spiegare le differenze tra le diverse voci 36 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Dopo la fase mitica della prima positio, le πρῶται φωναί non rimanevano immutabili per sempre, ma potevano cambiare incorrendo in un processo di progressiva ‘corruzione’ (gr. παραφθορά) dovuto ora all’usura ora anche soltanto al tempo, che poteva nascondere la loro motivazione originaria. Questo processo di corruzione – o, per noi, semplicemente di cambiamento – poteva produrre nelle parole una serie di mutamenti o di “affezioni” (gr. πάθη, lat. accidentia), che modificavano la loro forma o il loro significato, fino a oscurarne la motivazione originaria. In certi casi, le modificazioni dei πρῶτα ὀνόματα riguardavano singoli termini, che erano “scivolati” da un oggetto all’altro, cambiando forma o significato. Ad esempio, Socrate dice che i termini greci φορά ‘movimento’, ῥείν ‘scorrere’, ῥοή ‘corrente’ e τρέχειν ‘correre’ erano tutti derivati da diverse modificazioni della lettera ῥῶ, perché la lettera ῥῶ veicolava per natura l’idea dello scorrere e del moto (Crat. 426c1 ss.). In altri casi, i πρῶτα ὀνόματα non si erano evoluti in isolamento; piuttosto si erano scontrati tra loro nelle varie frasi in cui comparivano e si erano fusi l’uno con l’altro formando dei proto-composti, i cui membri si erano poi corrotti fino a rendere irriconoscibile la motivazione originale del composto stesso. Ad esempio, per Socrate, il nome Ποσειδῶν poteva derivare dal composto ποσίδεσμων ‘catena dei piedi’ con l’aggiunta di una -ε- “per bellezza”, perché il Nomoteta sentiva come una catena tra i piedi camminando nell’acqua, dato che l’acqua oppone resistenza al moto; ma poteva anche derivare da πολλὰ εἰδότος ‘che sa molte cose’ con il mutamento -λλ- > -σ-, perché Poseidone è effettivamente molto saggio; oppure poteva derivare da ὁ σείων ‘colui che scuote’, con l’aggiunta di π- e -δ-, perché Poseidone, come sua prerogativa divina, può davvero causare i terremoti (Crat. 402d11 ss.). In altre parole, la teoria delle affezioni dei nomi è la teoria del mutamento linguistico che è implicita nella teoria etimologica antica. E non si tratta solo di una teoria “filosofica” priva di correlati dialettali greche (Wackernagel 1979 [1876], pp. 1428 ss., 1432 ss. e 1448 ss.). Chiaramente, la teoria delle affezioni dei nomi e, ancora di più, quella della “corruzione” dei nomi è la base dell’idea stoica espressa da Cleante di Asso (cit. in Ateneo, SVF I, fr. 991), secondo cui i nomi non sempre sono veridici e, anzi, alle volte possono ingannare (Belardi 2002: I, p. 23 e n. 14). Sul tema della “patologia” dei nomi, si vedano anche Holtz (1981, pp. 171 ss.), Blank (1982, p. 83), Lallot (1995) e Vaahtera (1998, p. 101, n. 411). L’età classica 37 pratici. Platone, ad esempio, usa il verbo παράγω per riferirsi alle trasformazioni che i nomi subiscono nel corso della loro evoluzione e propone il sintagma ὀνόματα συμπλακέντα ‘nomi composti’ per indicare i nomi formati da più elementi (Theaet. 202b)10. Inoltre, sempre Platone (Crat. 394b1, 418a5 e 431e9), presenta anche una prima classificazione dei vari tipi di mutamenti che si possono produrre durante il processo di creazione-evoluzione-corruzione dei nomi: gr. πρόστεσις (lat. adiectio), gr. ἀφαίρεσις (lat. detractio), gr. ἀλλοίωσις (lat. immutatio) e gr. μετάθεσις (lat. traspositio)11. In effetti, questi quattro tipi di mutamento, che sono i correlati tecnici della teoria delle affezioni dei nomi, possono davvero dare ragione di tutte le ipotesi etimologiche antiche. È, però, vero che la teoria delle affezioni dei nomi, così come i suoi correlati pratici, non sono teorie falsificabili empiricamente: le nozioni di aggiunta di lettere, sottrazione di lettere, modificazione di lettere e spostamento delle lettere sono strumenti così potenti da consentire di derivare qualsiasi parola da qualsiasi altra, dato che non esiste un criterio empirico di verificazione per stabilire quando è possibile utilizzare l’uno o l’altro di questi processi o quale sia la prova empirica necessaria per dire, ad esempio, che τρέχειν deriva dalla lettera ῥῶ ‘correre’, ma ῥυθμός ‘ritmo’ non deriva dalla stessa “lettera”; oppure quale sia la prova empirica necessaria per dire che l’etimologia secondo la quale il nome di Poseidone deriva da ὁ σείων ‘colui che scuote’ sia migliore o peggiore di quella che lo connette al composto ποσίδεσμων ‘catena dei piedi’, e perché12. 10 11 12 Il contesto del passo di Platone è ancora incentrato sulla corrispondenza tra nomi e cose: Platone, infatti, ci dice che le nozioni formate da più elementi sono συμπλακέντα ‘composte’ (o, forse, anche solo ‘complesse’) e, quindi, alle volte possono essere identificate da ὀνόματα συμπλακέντα ‘nomi composti’ (o, forse, anche solo ‘complessi’). La classificazione dei mutamenti fonetici torna in Aristotele (Phys. 224a21226b17) e Varrone (Ling. lat. V.6, V.1). Sul, tema, oltre al lavoro fondamentale di Barwick (1957), si vedano Desbordes (1983) e Ax (1986a). Le quattro “affezioni” descritte sopra sono quelle canoniche della tradizione stoica, ma nei grammatici la lista dei “metaplasmi” può arrivare a includere fino a 14 diversi tipi di mutamenti (Holtz 1981, pp. 173 ss.). In pratica: derivationes firmas non habent regulas, sed exeunt prout auctoribus placet (Plinio, cit. da Servio, GL IX.703 Aen. e GRF M, p. 306, fr. 95, cfr. Vaahtera 1998, p. 105). La stessa idea torna in Carisio (GL I.93.28): derivationis vero tanta est inaequalitas ut comprehendit non possit. 38 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Inoltre, nella gran parte dei casi, l’etimologia antica si occupa dell’origine dei nomi primari e, soprattutto, di teonimi ed epiteti divini, ma non si occupa dei nomi derivati (così, ad esempio, avviene sia nel Cratilo sia negli SVF)13. Sappiamo, però, da Aristofane che nell’Atene del V secolo a.C. e soprattutto nelle scuole di sofistica era nato un certo interesse per la formazione dei nomi (cfr. infra § II.4), ed è probabile che questo interesse per i nomi derivati avesse incentivato una applicazione della teoria delle affezioni dei nomi anche all’analisi dei nomi derivati. Già nel Cratilo, infatti, si vede bene come l’etimologia antica poteva arrivare, senza difficoltà, all’analisi dei nomi derivati. Socrate, ad esempio, identifica indirettamente il suffisso -μα, -ματος quando dice che il σῶμα ‘corpo’ si chiama cosi perché ‘salva’ (σῴζεται), ossia protegge, l’anima (Crat. 400c7): chiaramente Socrate si interessa più al legame semantico tra il corpo e il salvataggio dell’anima, che al rapporto tra la radice σω- e il suffisso -μα, ma il risultato dell’accettazione del legame filosofico tra il corpo e il salvataggio dell’anima è anche l’identificazione del suffisso -μα. In altri passi, Platone va ancora più a fondo nell’analisi linguistica e, sempre per bocca di Socrate, etimologizza due suffissi comuni e molto produttivi nel linguaggio filosofico dell’epoca: ad esempio, Socrate dice che il gr. -σύνη che si trova nel termine δικαιοσύνη ‘giustizia’ è una forma corrotta di σύνεσις ‘comprensione’, poiché la giustizia indica, in ultima analisi, la comprensione del giusto (Crat. 412c6). Nello stesso modo, il suffisso -ία che si vede nel greco κακία ‘vizio’ potrebbe essere la forma abbreviata del verbo ἰέναι ‘andare’, perché il vizio, in ultima analisi, indica tutto ciò che va male (Crat. 415a9). Anche in questi casi, Socrate è chiaramente interessato a cercare la verità profonda nascosta nelle parole σύνεσις e κακία, più di quanto non desideri discutere la loro struttura morfemica interna. È, però, evidente che, in questa ricerca primariamente filosofica, era effettivamente possibile, almeno in modo indiretto, arrivare ad identificare i suffissi di derivazione; certo, questi “suffissi”, nell’età classica, non erano visti come dei veri e propri suffissi, 13 Per ciò che riguarda gli SVF, si vedano i casi dei nomi Δῆλος, Κύκλοψ, Ἀπόλλων, Φερσεφόνη, Ζεύς, Ἀθηνᾶ e Ἥρα (SVF I, fr. 106, 118, 540, 547 e SVF II, fr. 1021 e 1062); l’epiteto δωδωναῖος (SVF I, fr. 535 e 537); i nomi comuni χάος, ἥλιος e ὀρθαγορίσκοι ‘maialini da latte’ (SVF I, fr. 103, 121 e 455). Per un commento, si veda Belardi (2002: I, pp. 30-31). L’età classica 39 ma apparivano come la forma “corrotta” di antiche parole che si erano unite in un “proto-composto” dopo la fase mitica dalla prima imposizione, per poi fondersi tra loro e trasformarsi in quello che noi oggi noi chiamiamo suffisso e che i grammatici greci e romani chiamavano gr. παραγωγή, lat. terminatio (per le prime attestazioni di questi termini e il loro esatto significato nelle fonti greche e romane, cfr. infra § II.6.1, II.8 e, soprattutto, la n. 74 § II.9.2)14. Insomma, l’etimologia antica si occupa, in generale, dell’adeguatezza ontologica dei nomi più che della loro forma esterna; e si occupa soprattutto dell’adeguatezza ontologica dei nomi degli dei e dei loro epiteti e, comunque, dei nomi primari. Attraverso la teoria dei πάθη τῆς λέξεως, però, già in Platone l’etimologia antica arriva ad occuparsi della genesi di alcuni suffissi che risalirebbero alla forma “corrotta” del secondo membro di un antico composto formatosi dopo la fase della prima positio dei nomi. Questo tipo di spiegazione per la genesi dei suffissi, in Platone, riguarda soltanto un paio di casi, ma rappresenta la base su cui si sarebbe sviluppato tutto l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati nei secoli successivi. 4. Retorica e derivazione tra i sofisti e Aristotele Come tutti i sostenitori dell’origine convenzionale del linguaggio, i sofisti erano poco interessati all’origine del linguaggio, ma si interessavano del suo funzionamento: in questo ambito, gli studiosi iniziano a interrogarsi sulle diverse tipologie di parole che possono far parte di un λόγος e sulla possibilità di formare delle nuove parole (ossia, i neologismi), che potevano rappresentare un mezzo importante per movere l’uditorio nel caso delle assemblee pubbliche o dei processi15. 14 15 Secondo Holtz (1981, p. 173), la genesi della nozione di παραγωγή va collocata all’interno della teoria dei πάθη, tra le diverse alterazioni fonetiche che le parole possono subire nel corso del tempo; παραγωγή, infatti, letteralmente indica il ‘prolungamento’ di una qualsiasi parola, come la -ι di οὑτοσί citata da Apollonio Discolo (GG II/2.137.2). Si vedano, ad esempio, Donato (GL IV.661.3) paragoge est appositio ad finem dictionis litterae aut syllabae, e Consenzio (GL V.4.10) paragoge est adiectio litterae syllabaeue ad finem dictionis. Vaahtera (1994, pp. 19-51) ricostruisce questa linea di ricerca citando, in primo luogo, i lavori poetico-retorici di Aristotele (cfr. § II.4.1) e, in epoca ro- 40 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Ad esempio, sappiamo da Aristofane che, già una generazione prima di Platone, i sofisti insegnavano a formare parole nuove, e i giovani ateniesi alla moda amavano infarcire i loro discorsi con delle neoformazioni, forse un po’ ridicole, in -ικός (Cavalieri 1374 ss.)16. Protagora, inoltre, aveva elaborato delle regole per stabilire il genere dei nomi derivati (fr. A28 DK e Nuvole 658 ss.). Una qualche attenzione alla formazione dei nomi derivati e, più specificamente, alla formazione dei neologismi doveva, quindi, essere presente nelle scuole di retorica dell’ultimo quarto del V secolo a.C. ad Atene. È, quindi, possibile che sia stato questo interesse sofistico per i nomi derivati a spronare Platone a riflettere sugli ὀνόματα συμπλακέντα nel Teeteto, o a etimologizzare i suffissi -ία e -σύνη nel Cratilo. Certo è che, nella generazione successiva a quella di Platone, l’interesse retorico per l’analisi dei nomi derivati e, più in generale, per la definizione dei diversi tipi di parole che ci sono nel λόγος, a prescindere dalla loro origine, trova una nuova linfa nelle opere di Aristotele. 4.1 Le opere poetico-retoriche di Aristotele Per Aristotele, il termine πτῶσις indicava qualsiasi modificazione di una forma di base: in primo luogo, quindi, le diverse categorie dell’essere, che sono i predicabili che si possono attribuire a un dato ente all’interno di un λόγος (Meth. 1089a27); ma anche qualsiasi modificazione formale di un nome a partire dalla sua forma di base, 16 mana, i lavori retorici di Cicerone e Quintiliano (cfr. § II.7). Le testimonianze di Aristofane, però, dimostrano che questo tipo di approccio all’analisi della derivazione risale ad almeno una, se non due, generazioni prima di Aristotele. Inoltre, la stessa attitudine dei sofisti a discutere i tipi di parole presenti nel λόγος sembra potersi inferire da Platone: non è un caso che la prima definizione, ancora non del tutto tecnica, delle partes orationis, si trovi nel Sofista (262a1 ss., cfr. anche Crat. 425a1). Sul ruolo dei sofisti nella genesi del pensiero grammaticale, si veda anche Holtz (1981, p. 7). Si veda Neil (1909, pp. 180-1): τὰ μειράκια ταυτὶ λέγω, τἀν τῷ μύρῳ, ἃ στωμυλεῖται τοιαδὶ καθήμενα· σοφός γ᾽ ὁ Φαίαξ δεξιῶς τ᾽οὐκ ἀπέθανεν. Συνερτικός γάρ ἐστι καὶ περαντικός, καὶ γνωμοτυπικός καὶ σαφὴς καὶ κρουστικός, καταληπτικός τ᾽ἄριστα τοῦ θορυβητικοῦ. Una presa in giro simile si ritrova anche nelle Nuvole (vv. 317 ss., cfr. Dover 1968 ad loc.) e nei Banchettanti (fr. 1 e 28, Cassio 1977, pp. 32-6). Sono molto grato ad Albio C. Cassio per aver portato questi passi alla mia attenzione. L’età classica 41 sia essa una modifica di tipo (per noi) flessionale, come ὑγιαίνειν ‘era in salute’ rispetto a ὑγιαίνει ‘è in salute’ e Φίλωνος ‘Filone (nom.)’ rispetto a Φίλωνι ‘Filone (dat.)’ (De int. 16b16 e a33), o una modifica di tipo (per noi) derivazionale, come ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ da ἀνδρεία ‘coraggio’ (Cat. 1a12) e χαλκοῦς ‘bronzeo’ in rapporto al nome χαλκός ‘bronzo’ (Rhet. 1410a34-5)17. Sempre nelle opere poetico-retoriche, Aristotele, riprende la distinzione platonica tra nomi semplici e composti (cfr. § II.3), e distingue due diverse tipologie (εἶδη) di nomi in senso tecnico: il nome ἀπλοῦν ‘semplice’ e il nome διπλοῦν ‘doppio’ o, più in generale, il nome πεπλεγμένος o συμπεπλεγμένος, che indica il nome ‘composto’ o, più precisamente, il nome formato con qualsiasi elemento privo di autonomia semantica nella frase, sia esso un altro nome, una preposizione o uno dei prefissi ἀ(ν)-, ἁ-, δυσ-, etc. (Poet. 1457a31 ss., De int. 16a19 ss.)18. A queste due tipologie di nome, Aristotele ne aggiunge una terza, la cui interpretazione è particolarmente complessa, ovvero il nome παρώνυμος. Aristotele ci dice che sono paronimi tutti i nomi che presentano la stessa radice ma differiscono nelle loro πτώσεις; in pratica, quindi, questo terzo tipo 17 18 In Poet. 1457a18-23, la nozione di πτῶσις è esemplificata solo con casi di flessione (sia nominale sia verbale), ma in Rhet. 1410a34-5 e Cat. 1a12 si trovano anche casi di derivazione. Sulla nozione di πτῶσις in Aristotele, cfr. Belardi (1975, p. 43, 62; 1985, pp. 121-3), Vaahtera (1998, pp. 117-8) e Lallot (2008, pp. 55 ss.). Sulla nozione di πτῶσις in generale, si vedano De Mauro (2005 [19651]: III, pp. 34 ss.), con le precisazioni contenute in Belardi (1985, pp. 167 ss.), Belardi & Cipriano (1990), e Ronzitti (2014, pp. 149 ss., in particolare pp. 172 ss.). Il passo della Poetica, filologicamente assai tormentato, è il seguente (nell’ed. di Lucas 1968): ὀνόματος δὲ εἴδη τὸ μὲν ἀπλοῦν, ἀπλοῦν δὲ λέγω ὃ μὴ ἐκ σημαινόντων σύγκειται, οἷον γῆ, τὸ δὲ διπλοῦν· τούτου δὲ τὸ μὲν ἐκ σημαίνοντος καὶ ἀσήμου, πλὴν οὐκ ἐν τῷ ὀνόματι σημαίνοντος καὶ ἀσήμου, τὸ δὲ ἐκ σημαινόντων σύγκειται. In passato, l’autenticità dei capp. 20-21 della Poetica è stata messa in dubbio, ma oggi la critica è concorde nell’accoglierli (Vaahtera 1998, p. 20). Per Gallavotti (1974, p. 180) il nome διπλοῦν comprende anche i nomi derivati, ma Belardi (1985, pp. 110 ss.) ha mostrato che διπλοῦν, indica una specie particolare di πεπλεγμένος ‘composto’, ovvero il nome composto da due elementi (non da tre o quattro, come avviene nei nomi τριπλᾶ, τετραπλᾶ o πολλαπλᾶ citati poco dopo da Aristotele). Infatti, Aristotele esemplifica il nome διπλοῦν solo attraverso nomi composti (Rhet. 1405b35, 1406a30, 1406a35; Poet. 1459a4-6, 1459a9, etc.) e lo stesso nome ἐπακτροκέλης ‘nave da corsa’ che è chiamato πεπλεγμένος in De int. 16a23 è chiamato διπλοῦν in De int. 16b32. 42 La morfologia derivazionale e il problema del tempo di nome indica il nome ‘derivato’ o il nome ‘denominativo’, ossia qualsiasi nome che sia derivato, da un altro nome (o al massimo, da un’altra parola), come γραμματικός ‘grammatico’ rispetto a γραμματική ‘grammatica’ e ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ rispetto ad ἀνδρεία ‘coraggio’ (Cat. 1a12 ss.)19. Insomma, come gli etimologisti, anche i retori propongono un loro approccio allo studio del linguaggio. In questo caso, l’idea di partenza, già abbastanza chiara in Aristotele, è quella di identificare e di distinguere le diverse tipologie di parole che possono comparire in un λόγος. In questo modo, Aristotele arriva a identificare il nome ἀπλοῦν, πεπλεγμένος e παρώνυμος. Lo studio dei nomi derivati, però, non è il fulcro dell’analisi: conoscere i vari tipi di nome che compaiono nel λόγος serve innanzitutto per usare al meglio il linguaggio nei discorsi pubblici o nelle opere poetiche. Tuttavia, dopo Aristotele, la distinzione tra i nomi semplici, i nomi composti e i nomi derivati, viene assorbita nel patrimonio sapienziale condiviso da tutti i Greci, come molti altri aspetti della filosofia peripatetica; nello stesso tempo, l’idea generale di classificare i diversi tipi di parole presenti nel λόγος viene ripresa, sviluppata e 19 Cfr. παρώνυμα δὲ λέγεται ὅσα ἀπό τινος διαφέροντα τῇ πτώσει τὴν κατὰ τοὔνομα προσηγορίαν ἔχει, οἷον ἀπὸ τῆς γραμματικῆς ὁ γραμματικός καὶ ἀπὸ τῆς ἀνδρείας ἀνδρεῖος (Cat. 1a12). Il termine παρώνυμος risale a Xenocrate o a Speusippo (cfr. fr. 45 Isnardi Parente e Ebbesen 1981, p. 5; 2009). L’interpretazione esatta del termine è complessa, perché παρώνυμος nel corso del tempo ha indicato: il nome denominativo, i.e. il nome formato da un altro nome (così, ad esempio, in Dionisio Trace GG I/1.29.1; Apollonio Discolo, fr. ζ, GG II/3.46.11; ed Erodiano, ad Π 123c, che usa il termine per descrivere la formazione del femminile ἀσβέστη dal maschile dell’aggettivo ἄσβεστος ‘inestinguibile’); il nome derivato, sia denominale sia deverbale (così, ad esempio, nel libro IV de denominativiis dell’Ars di Prisciano, dove sono trattati anche i deverbali); qualsiasi tipo di nome di significato “specifico” che sia derivato “semanticamente” da un nome di carattere più generale, a prescindere da ogni riferimento alla forma linguistica dei due nomi in questione (come bonus da bonitas o velox da velocitas), come ritenevano i filosofi del Medio Evo, da Marziano Capella a Boezio fino ad Abelardo e ai Modisti (Rosier-Catach 1992; 2008; Ebbesen 2009). Tra l’altro, questo tipo di esempi di derivazione “semantica” può rappresentare il punto in cui nasce quella differenza tra derivatio sensu e derivatio litteratura o sono (in greco κατὰ φωνήν e κατὰ σημασία) di cui parlano Biondi (2014, p. 144 e fn. 31; 2018), Klinck (1970, p. 26) e, qui di seguito, la n. 41 § II.6; la n. 81 § II.9.2; il § III.2 e le nn. 23-24 § III.5.1. L’età classica 43 rivista, da una parte nei trattati di retorica e poetica greci e romani (cfr. § II.7), dall’altra nelle opere dei grammatici (cfr. § II.9). 5. Grammatica, etimologia e derivazione in età alessandrina Se l’analisi poetica e retorica, proprio grazie ad Aristotele, poteva giovarsi di una prima classificazione delle parole in semplici, composte e derivate/denominali, non c’era ragione perché questa stessa distinzione non fosse accolta, raffinata e valorizzata nell’ambito della filologia alessandrina. Tra il III e il II secolo a.C., infatti, si apre quella particolare fase del pensiero linguistico antico che Ax (1982), con una formula efficace, ha definito la fase della Grammatik in Kopf: non ancora una vera e propria grammatica già completa e formata come scienza indipendente, ma l’utilizzo di concetti e strumenti elaborati nell’ambito della teoria grammaticale per affrontare i problemi connessi con l’esegesi dei testi letterari del passato (διόρθωσις). Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, ad esempio, discutono spesso problemi di tipo strettamente linguistico (di accentazione, flessione o etimologia) con il solo scopo di stabilire la corretta lettura di un verso dell’Iliade. In questo quadro, cominciano a comparire alcuni dati di un certo interesse per l’analisi dei nomi derivati, da cui emerge bene la contiguità che, ancora in questa fase, avevano l’etimologia e la grammatica. Da una parte, in Aristofane di Bisazio e, soprattutto, in Aristarco comincia a comparire la terminologia sulla derivazione dei nomi che si ritroverà nei grammatici più tardi. Aristofane di Bisanzio, infatti, usa il verbo παράγω ‘derivare’ e il nome παράγωγον ‘derivato’ per indicare il rapporto che c’è tra μαγίς ‘massa impastata’ e μάγειρος ‘cuoco’ (cfr. infra), o tra μολοβρός ‘maiale selvatico’ (da cui il significato usuale di ‘compagno ingordo, avido’) e μολοβρίτης ‘cucciolo del maiale’20. Nei suoi frammenti, però, i termini πτῶσις, κλίσις e σύνθεσις non compaiono mai, anche se è possibile che Ari20 Cfr. SGLG 6, fr. 197 AE, 65: ἰστέον δὲ ὅτι μολοβρόν καὶ παράγωγον αὐτοῦ μολοβρίτης δοκεῖ ἐπὶ συὸς λέγεσθαι e si veda Callanan (1987, pp. 42 ss.) per un commento. Aristofane usa anche il termine παρώνυμος in relazione alla coppia νύμφη ‘sposa’/νύμφιος ‘sposo’ (SGLG 6, p. 93, fr. 281: ὄτι παρώνυμος τῇ νύμφῃ ὁ νύμφιος), ma Slater (1989) ha mostrato che il termine non è utilizzato in senso tecnico in questo passo. 44 La morfologia derivazionale e il problema del tempo stofane abbia effettivamente utilizzato il termine κλίσις, dato che la forma ἄκλιτα è utilizzata per indicare le parole indeclinabili (cfr. Callanan 1987, p. 61). Aristarco di Samotracia, dal canto suo, usa il termine aristotelico πτῶσις per indicare la flessione (nominale), ma usa παραγωγή e παράγωγον per riferirsi alla derivazione, e utilizza σύνθεσις per indicare la composizione e σύνθετος σχηματισμός per indicare il composto, seguendo Teofrasto e la tradizione peripatetica21. Inoltre, sempre in Aristarco si trova il termine συζυγία per indicare qualsiasi tipo di relazione tra due forme linguistiche, il cui caso prototipico è rappresentato, appunto, dalla flessione verbale (lat. coniugatio) 22. Tuttavia, i termini εἶδος e σχῆμα non si trovano mai in Aristarco nel significato tecnico-grammaticale che sarebbe divenuto abituale nei grammatici più tardi, mentre si trova al loro posto l’etichetta generale di σχηματισμός (Matthaios 1999, pp. 257-8). Dall’altra parte, sappiamo che etimologie simili a quelle proposte nel Cratilo, in cui l’etimologia antica era utilizzata per “spiegare” l’origine di un suffisso, erano comuni nell’età alessandrina23. Ce lo dimostra, ad esempio, il seguente passo di Aristofane di Bisanzio, riportato da Eustazio 1761, 34 ad ξ 350 (SGLG 6, fr. 24 AB, pp. 18-9): 21 22 23 Si veda Mattahios (1999, pp. 78-80, fr. 21-22 per la composizione e lo σχηματισμός; p. 80, fr. 23 per la derivazione; p. 93, fr. 48-9 per la flessione; p. 126, fr. 103 per la coniugazione; e il commento alle pp. 254-9, 261, 293, 354-4, 451). La specializzazione del termine πτῶσις in riferimento alla declinazione dipende, probabilmente, dal lavoro perduto di Crisippo Περὶ πέντε πτώσεων (SVF II, fr. 14, p. 183), anche se nella tradizione stoica in genere le πτώσεις si riferiscono al significato delle parole, piuttosto che alla loro forma, come invece avveniva nella tradizione peripatetica (Brandenburg 2020). È possibile (ma non certo), inoltre, che Aristarco abbia utilizzato il termine κλίσις per indicare la flessione, se si dà credito alla testimonianza di Erodiano (Herbse, ad Δ 235) e alle parole di Carisio, secondo cui Aristarco, per primo, aveva distinto la composizione e la derivazione (sempre che la classe aristarchea dei nomina simplicia includesse effettivamente anche i nomi derivati, come si dice in genere): Aristarchus discipulus eius [sc. di Aristofane] illud addidit, ne umquam simplicia compostis aptemus (GL I.117.4-5). In generale, l’utilizzo degli argumenta ab etymologia per l’esegesi omerica è documentato fin dal V secolo a.C.: Stesimbroto di Taso, famoso interprete di Omero (cfr. Platone, Ion. 330d1 ss.), già utilizzava l’etimologia per risolvere i problemi di esegesi omerica, e lo stesso faceva Ferecide (Pfeiffer 1968, p. 12). I primi frammenti in cui l’etimologia è utilizzata per spiegare l’origine di un suffisso, però, si trovano in Platone e Aristofane di Bisanzio. L’età classica 45 ἔφη δὲ καὶ ὅτι ἡ μαγίς ἀπό τῆς μάζης ἤ τοῦ μαστεύειν [μάττειν, conj. Nauck 1848: 205, LII] ῥηθεῖσα παράγει τὸν μάγειρον, ὅς οὕτω, φησί, λέγεται παρὰ τὸ μαγίδας αἴρειν ἤγουν προσφέρειν. (“dice [sc. Aristofane] che μαγίς ‘massa impastata’ è derivato da μᾶζα ‘focaccia’ o da μάττειν ‘impastare’, mentre μάγειρος ‘cuoco’ è derivato da μαγίδας ‘focaccia’ e αἴρειν nel senso di ‘servire a tavola’”). Secondo Aristofane il termine μαγίς ‘massa impastata’ prende il nome dal sostantivo μᾶζα ‘focaccia’ o dal verbo μάττειν ‘impastare’, mentre il termine μάγειρος ‘cuoco’ prende il suo nome dal fatto che serve le focacce impastate (παρὰ τὸ μαγίδας αἴρειν, con αἴρειν nel senso inusuale ma non impossibile di ‘servire a tavola’). In altre parole, mentre noi linguisti del XXI secolo tendiamo a considerare il termine μάγειρος come un sostantivo dall’etimologia incerta, ma comunque formato con il suffisso -ρο-, Aristofane lo considera il risultato della corruzione di un proto-composto formato dal nome μαγίς e dal verbo αἴρειν, proprio perché di fatto il cuoco è ‘colui che serve le focacce impastate’ (**μαγίς + αἴρειν (nel senso di προσφέρειν) > **μάγ-αιρ-ος > μάγειρος, con la “trasformazione” di -α- in -ε- e la “sottrazione” di -ίς e -ιν)24. Non sappiamo quanto la pratica di “etimologizzare” i suffissi fosse effettivamente diffusa in ambito stoico durante l’età classica. Certo è che passi di questo tipo, in cui un suffisso derivazionale veniva interpretato come il risultato della “corruzione” – oggi diremmo grammaticalizzazione – di un sintagma nominale che descrive la natura profonda dell’oggetto nominato non sono affatto rari in età alessandrina. Per Aristarco, ad esempio, l’epiteto di Poseidone ἑλικώνιος non deriva dai toponimi Ἑλίκη ‘Elice’ (con il suffisso 24 Frisk, seguendo Schwyzer (1939, p. 275) e Wakernagel (1909, pp. 326 ss.), considera μάγειρος un prestito dal dor. μάγῑρος con una scriptio irregolare <ει> per /i:/ (GEW: s.v.). La connessione con la radice *μαγ- ‘impastare’ che si trova in μάττειν < *μαγ-jo- e μαγίς < *μαγ-ίδ-ς è formalmente possibile, ma un po’ strana dal punto di vista semantico (DELG: s.v.), dato che, nelle fonti greche, il μάγειρος è un ‘macellaio’, piuttosto che un ‘panettiere’. Schwyzer (1939, p. 471, n. 12), quindi, riporta il gr. μάγειρος alla radice *mak- che si trova nel lat. mactare e Pisani (1934) la considera un prestito dal macedone in cui si rivedrebbe la radice *makh- che si trova nel gr. μάχαιρα ‘coltello da macellaio’, con l’esito “macedone” -g- per l’indoeuropeo *-kh-. Ad ogni modo, non si può escludere che, come dice Beekes, μάγειρος sia un termine non-indoeuropeo, forse pre-greco, derivato da una radice *mak-ary- (EDG: s.v.). 46 La morfologia derivazionale e il problema del tempo eol. -νιο-ς), né da Ἑλικών ‘Elicona’ (con il suffisso ion. -ιο-ς), ma ha questa forma perché i gorghi del mare di cui Poseidone è dio sono effettivamente vorticosi e ricurvi (διὰ τὸ ἑλικὰς καὶ περιφερεῖς εἷναι τὰς δίνας τῆς θαλάσσης, cfr. Schironi 2004: fr. 53, p. 413). Seguendo la stessa logica, Cratete di Mallo identifica indirettamente il suffisso -ευς quando dice che il nome dell’eroe Ἀφαρεύς deriva da Ἀφάρης e Ἀφάρης deriva da ἄφαρ ‘presto’ (Broggiato 2004: fr. 8, p. 18)25. Passi di questo tipo, insomma, mostrano con chiarezza la contiguità tra etimologia e derivazione che doveva esserci ancora in età alessandrina, sia in ambito grammaticale, sia in ambito etimologico. Non c’è motivo, quindi, di escludere che casi analoghi comparissero negli 11 libri Περὶ τῶν ἐτυμολογικῶν di Crisippo. Anzi, è di certo possibile, e forse anche probabile, che proprio in ambito stoico e pergameno il legame tra derivazione ed etimologia avesse trovato un nuovo spazio26. I dati sui nomi derivati, infatti, sono certamente più adatti dei dati sulla flessione a mostrare le ragioni dell’anomalia, che stavano a cuore in particolare agli Stoici, mentre se si parla dei casi, ossia di flessione, effettivamente Aristarchei suos contendunt nervos, come dice Varrone (Ling. lat. VIII.63)27. Sarebbe, quindi, strano se i dati sulla derivazione non fossero stati utilizzati anche nel Περὶ τῆς 25 26 27 Altri passi in cui un suffisso è interpretato come l’esito corrotto di un membro di un proto-composto, si possono trovare in Aristarco (Schironi 2004, p. 120, fr. 11; p. 399, fr. 51; p. 413, fr. 53), Apollonio Discolo (GG II/2.254.5 ss. e 260.1 ss.) e Gellio (cfr. § II.8). In altri casi, Aristarco diceva l’opposto e trovava un suffisso là dove altri vedevano un composto: ad esempio, uno scolio erodianeo ci dice che, per Aristarco, ταλαύρινος ‘pugnace’ non era un composto formato con ῥινός ‘scudo’ (lett. ‘portatore di scudo’), ma un derivato della radice τλα- (Sch. A ad E 289 b1, Hrd. II.50.32, cfr. Schironi 2004, p. 510 e n. 30-1). L’etimologia, insomma, era praticata ad Alessandria come a Pergamo con poche differenze (Dahlmann 1997 [19321], p. 25 e, più recentemente, Broggiato 2001, p. xxxv e lxiii, e Schironi 2003): non a caso, Apollodoro di Atene, allievo di Aristofane, scrive un Περὶ θεῶν dedicato ai nomi e agli epiteti delle divinità in cui abbondano i frammenti etimologici (BNJ 244 F 88, fr. 90-4, 96, 100-102a, 103a, 104-107a, 108-109a, 110a e 111-116). Oggi non gode di grande successo l’idea di Fehling (1956-7), secondo cui la disputa tra analogisti e anomalisti sarebbe un’invenzione di Varrone del tutto assente dall’orizzonte culturale dell’età alessandrina (Broggiato 2001, pp. xxxiii-xxxvi; 2014, pp. 3 ss., Calboli 2011 e Matthaios 2020). Sull’origine dei termini greci ἀναλογία e ἀνωμαλία e sulle loro rese latine, si veda Schironi (2007; 2018); su Cesare analogista, si vedano Garcea (2007) e Mancini (2021). L’età classica 47 κατὰ λέξεις ἀνωμαλίας di Crisippo o nei lavori di Cratete di Mallo, che Varrone cita come campione dell’anomalia (Ling. lat. VIII.63, VIII.68, IX.1). La maggior parte delle informazioni sui nomi derivati che compaiono in ambito etimologico, non a caso, si trovano proprio nel libro VIII del De lingua latina di Varrone, lo stesso libro dedicato agli argomenti in favore dell’anomalia che, secondo i giudizi tradizionali di Collart (1954, p. 156, n. 4), Siebenborn (1976, pp. 100-104) e Dahlmann (1997 [1932], pp. 58 ss. e 68 ss.), dipende in modo sostanziale dai lavori di Cratete di Mallo e quindi, almeno indirettamente, dalla teoria stoica di Crisippo28. Insomma, nel complesso, una certa attenzione per i nomi derivati probabilmente rientrava nella Grammatik in Kopf degli alessandrini, e vi rientrava seguendo due prospettive complementari: da una parte quella tradizionalmente etimologica, che spiegava la genesi dei suffissi come il risultato della “corruzione” degli antichi composti formatisi dopo la fase mitica della prima impositio nominum; dall’altro una prospettiva già in parte nuova, secondo la quale, a prescindere da qualsiasi etimologia, poteva essere utile descrivere o classificare i diversi tipi di parole presenti nel λόγος anche attraverso i diversi tipi di processi attraverso cui queste parole erano “elaborate”. Certo, la frammentarietà delle testimonianze rende difficile stabilire l’esatta referenza e il quadro teorico complessivo al cui interno erano utilizzati i termini πτῶσις, κλίσις, παραγωγή e παράγωγον, σύνθεσις, συζυγία, εἶδος e σχῆμα che diverranno fondamentali nei grammatici più tardi, a partire da Dionisio Trace29. 28 29 Per Dahlmann e Collart, la somiglianza tra i contenuti del libro VIII di Varrone e Sesto Empirico (Adv. gram. II.44) si spiega solo supponendo che Cratete sia la fonte di entrambi. Ora, anche se non tutto ciò che c’è in Sesto può essere attribuito a Cratete (Blank 1982, pp. 3-5), ci sono delle concordanze oggettive tra Cratete e delle rilevanti dottrine stoiche (Broggiato 2001, p. lxi, pace Porter 1992) ed è probabile che tra queste ci fosse anche una certa attenzione per i nomi derivati, come credeva anche Siebenborn (1976, pp. 100-4). La datazione della Τέχνη γραμματική attribuita a Dionisio Trace è notoriamente questione problematica e sono molti gli studiosi che, in seguito alle critiche di Di Benedetto (1958; 1959; 1973; 1990; 2000), rifiutano l’autenticità della Τέχνη, al di là dei primi 3 o dei primi 5 capitoli, e credono che grammatica che ci è giunta sotto il nome di Dionisio Trace sia una compilazione tarda, risalente ai primi secoli dell’impero romano, probabilmente tra il III e il IV secolo d.C. (per una discussione del problema, che a tutt’oggi registra opinioni molto discordi tra gli studiosi, si vedano Erbse 1980; Ax 48 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Però è chiaro che, è proprio in questo contesto in cui si intrecciano etimologia, derivazione, patologia, anomalia e grammatica che vanno inquadrati i dati sui nomi derivati contenuti del De lingua latina di Varrone. 6. Il De lingua latina di Varrone Si è detto spesso che il De lingua latina è una “archeologia romana” (Cavazza 1981, p. 13). Non si tratta, però, di un’archeologia di cose: piuttosto un’archeologia di parole o, come si dice oggi, un’archeologia di beni immateriali; un’indagine archeologica che, attraverso lo studio di quei termini giuridici, religiosi e poetici su cui si fondava la cultura di Roma, restituisse alla res publica quella dignitas che Cesare cercava di oscurare e che Pompeo, forse per calcolo più che per credo, diceva di voler difendere. È proprio per ottenere questo scopo che, nel De lingua latina, Varrone si propone di ricostruire tutto il percorso che va dalla prima impositio nominum fino al funzionamento delle parole latine in atto. In pratica, il piano originale del De lingua latina – lo dice San Girolamo – comprendeva 25 libri, divisi in quattro esadi, più un’introduzione30. Ogni esade includeva due triadi, una teorica e una pratica, ma le prime due trattavano lo stesso tema (quemadmodum vocabula esse imposita rebus in lingua latina, sex libris exponere institui, Ling. lat. V.1). L’opera era, quindi, divisa in tre parti (quocirca quoniam omnis operis de Lingua Latina tris feci partis, Ling. lat. VII.110), una per ciascuna tappa di sviluppo del linguaggio: l’impositio indica il modo in cui le parole sono state imposte ab origine sulle cose, ossia l’etimologia più remota; la declinatio indica il modo in cui si sono formate le parole complesse (derivate, composte, flesse); la coniunctio indica il modo in cui le parole si unisco- 30 1986b, pp. 223 ss.; Lallot 1989, pp. 19-26; Robins 1995; i lavori antologizzati da Law & Sluiter 1995; Wouters 1999; 2000 e Pagani 2010). Chiaramente, l’accettazione o il rifiuto dell’autenticità della Τέχνη cambia in modo sostanziale la nostra ricostruzione della grammatica alessandrina e, in particolare, l’analisi dei nomi derivati durante l’età ellenistica e la prima età romana (per una discussione, cfr. §§ II.9.1.1 e II.11). Sulla struttura dell’opera, cfr. Cavazza (1981, p. 55) e Piras (1997, pp. 17 ss., 41 ss.). Sui principi descrittivi ed esplicativi dell’opera, si veda Viti (2016). L’età classica 49 no tra loro nelle frasi31. Dei 25 libri originali restano i libri 5-10 e alcuni frammenti (la triade pratica sull’etimologia, libri V-VII, e la triade teorica su analogia e anomalia, libri VIII-X). In questo percorso ideale di sviluppo del linguaggio e della lingua latina tracciato da Varrone, la nozione cruciale è quella di declinatio, che si riferisce alla parte più recente del processo di formazione del linguaggio, successiva alla sua prima positio (Taylor 1974, p. 65). La declinatio indica la proprietà generale di tutte le lingue di formare un gran numero di nuovi lessemi a partire da pochi elementi e include qualsiasi modifica realizzabile a partire da una stessa radice, sia essa una modifica flessionale di tipo “analogico”, come lego, legis, legit (Ling. lat. VI.37), o una modifica derivazionale di tipo “anomalo”, come processit et recessit, accessit et abscessit (Ling. lat. VI.38)32. È forte la tentazione di vedere una κλίσις stoica dietro alla nozione varroniana di declinatio (già Barwick 1957, p. 34), tanto più che Nigidio Figulo (Gellio, Noct. IV.9.2) usa il termine inclinamentum, anch’esso un probabile calco del gr. κλίσις o ἔγκλισις, per riferirsi al suffisso -osus, e la tripartizione della materia che si nota nel De lingua latina potrebbe derivare da un Etymologikon greco perduto tradotto in latino da Elio Stilone (Dahlmann 1997, pp. 22 e 55-6). Un antecedente per l’uso varroniano, però, non è effettivamente attestato (già Schenkeveld 1990). Ad ogni modo, la declinatio di Varrone comprende due aspetti. La declinatio voluntaria riguarda la creazione delle nuove parole sotto forma di rectum ‘nominativo’ (p.es. Roma da Romulus, cfr. Ling. lat. X.15) e ricorda la nostra morfologia derivazionale33: si 31 32 33 All’interno di ogni libro, le voces discusse sono ordinate secondo la divisione stoica o pitagorica: corpus, locus, tempus, actio (cfr. Ling. lat. V.11-12, Taylor 1974, p. 68; Cavazza 1981, p. 55 e Piras 1998, pp. 41 ss.). Si noti che, per Varrone, la declinatio include tanto la nostra derivazione quanto la nostra flessione (così già Taylor 1974: 12): verba declinata sunt quae ab aliquo oriuntur (Ling. lat. V.37); verba primigenia aut declinata (Ling. lat. VI.37); armarium et armamentarium ab eadem origine, sed declinata aliter (Ling. lat. V.128). Sulla presenza della declinatio in tutte le lingue, si veda Varrone: declinatio inducta in sermone non solum latino sed omnium hominum et necessaria de causa (Ling. lat. VIII.2). L’idea del nominativo come caso generale o non-caso risale ad Aristotele (An. pr. 48b14), che distingue una κλῆσις τῶν ὀνομάτων ‘nominativo’ e una πτῶσις τῶν ὀνομάτων ‘caso obliquo’; per la nozione di rectum ‘nominativo’, si veda il passo seguente: rectum homo, obliquum hominis, quod declinantur 50 La morfologia derivazionale e il problema del tempo tratta, infatti, di un processo “anomalo” di ispirazione stoica che dipende dalla voluntas impositoris e si può descrivere solo con una historia, ovvero una ricerca antiquaria e una lista asistematica di casi singoli. La derivatio naturalis, invece, indica la flessione del rectum negli altri casi (p.es. Roma, Romam, Romae, cfr. Ling. lat. X.15) e coincide con la nostra flessione: si tratta, infatti, di un processo “analogico” di ispirazione soprattutto alessandrina, che dipende dalla natura o dalla communis consuetudo, ma prescinde dalla volontà del singolo, e può essere trattata in modo sistematico in un’ars34. In altre parole, diversamente dall’etimologia stoica, che si interessava soprattutto alla prima positio, l’etimologia di Varrone comprende tutto ciò che va dalla prima positio alla declinatio, nella doppia forma di declinatio voluntaria e di declinatio naturalis. Infatti, i primi due gradi dell’etimologia (quo populus etiam venit e quo grammatica descendit antiqua, Ling. lat. V.7) riguardano le parole complesse ma trasparenti, la cui origine è chiara anche al volgo, e i neologismi poetici (le cosiddette γῶσσαι) studiati dai grammatici alessandrini. Il terzo e il quarto grado, invece, riguardano le parole opache la cui ratio, in parte si spiega grazie alla filosofia 34 a recto (Ling. lat. VIII.1); e la discussione in Belardi & Cipriano (1990, pp. 77 ss.). La stessa funzione, per il verbo, è svolta dalla prima persona singolare del presente indicativo (cfr. nam ut illic externi<s> caput rectus casus, sic hic in forma est persona eius qui loquitur et tempus praesens, ut scribo lego, Ling. lat. IX.102, ma anche VIII.4, 7, 20 e Taylor 1974, pp. 33 ss.). Per una discussione più completa, si vedano anche la n. 17 § II.4.1 e la n. 22 § II.5. Sulla differenza tra declinatio naturalis e voluntaria, si vedano Ling. lat. VIII.21-3, IX.34-5, X.14-5 e X.51-3 e in particolare: in voluntaria declinatione animadvertitur natura, et in naturali voluntas […] quod in declinatione voluntaria sit anomalia, in naturali magis analogia (Ling. lat. VIII.23); itaque in voluntariis declinationibus inconstantia est, in naturalibus constantia (Ling. lat. IX.35); alia [sc. verba] sunt a voluntate, alia a natura (Ling. lat. X.15); itaque in hoc genere [sc. declinatio volutaria], magis anomalia quam analogia (Ling. lat. X.16); voluntatem dico impositionem vocabulorum, naturam declinationem vocabulorum (Ling. lat. X.51); impositio est in nostro dominatu, nos in natura: quemadmodum enim quisque volt, imponit nomen, at declinat, quemadmodum volt natura (Ling. lat. X.53). Per un commento a questi passi, si vedano Taylor (1974, pp. viii, 21 ss. e 65), Cavazza (1981, pp. 69-72) e Piras (1998, p. 20 e 132). Sull’opposizione historia vs. ars, si veda: ad illum genus, quod prius [sc. impositio] historia opus est; […] ad reliquum genus, quod posterius [sc. declinatio] ars (Ling. lat. VIII.6, Taylor 1974, pp. 66 ss. e Flobert 1989, p. 747). L’età classica 51 (quo philosophia ascendens pervenit), in parte resta sempre preclusa agli uomini (ubi est adytum et initia regis), perché la vetustas o anche l’errore possono nascondere la voluntas impositoris35. Tra questi quattro gradi, l’ultimo è di certo il più affascinante, ma i primi sono i più importanti: dato che le parole derivate sono molto più numerose delle parole semplici (impositicia nomina esse voluerunt quam paucissima […] declinata quam plurima, Ling. lat. VIII.5; si veda anche VI.36-9), chi spiega le declinationes e riporta equitatus ‘equitazione’ a equites ‘cavalieri’, equites a eques ‘cavaliere’, e eques a equus ‘cavallo’, docet plura et satisficit grato, anche se non dice da dove viene equus (Ling. lat. VII.4 ma anche VI.36 e 39)36. In questo quadro certamente etimologico, ma a suo modo vicino alla concretezza del funzionamento linguistico in atto,Varrone propone una sua classificazione dei nomi derivati. Per impostare il discorso, Varrone, per prima cosa, separa il genus fecundum, ossia le parole soggette a declinatio, come lego, legis e legam, e il genus sterile, ossia le parole non soggette a declinatio, come vix, cras, magis e cur (Ling. lat. VIII.9). Nel genus fecundum, poi, identifica due parti del discorso principali, il nomen e il verbum, che possono essere entrambe primarie, come homo e scribit, o declinata, come doctus e docte (Ling. lat. VIII.12). I verba declinata ‘parole derivate’, infine, sono ordinati secondo due tassonomie molto diverse tra loro. Da una parte, Varrone definisce due gruppi di nomi declinati in base della loro referenza (Ling. lat. VIII.14-18, cfr. Barwick 1957, p. 40)37. Nel gruppo intrinsecus, il derivato mantiene la stessa re35 36 37 Sui problemi testuali del passo che, però, non ne impediscono la comprensione, si vedano Piras (1998, pp. 57 ss. e n. 3; pp. 72 ss.) e Belardi (2002: II, pp. 314 ss.). L’attenzione di Varrone per il lato “grammaticale” dell’etimologia conferma i suoi legami con la scuola di Alessandria e il suo eclettismo filosofico (cfr. non solum ad Aristophanis lucerna, sed etiam Cleant<h>is lucubravi, Ling. lat. V.9). Sul tema, cfr. Traglia (1962), Taylor (1974, p. 68), Pisani (1976, con le precisazioni in Belardi 2002: II, pp. 316, 325 e 329), Cavazza (1981, pp. 31, 38, 52, 55, 71), Amsler (1989, pp. 22 ss.), Vaahtera (1998, pp. 28-52, 94 ss.) e Piras (1998, p. 72). Cfr., ad esempio, nomina declinantur aut in earum rerum discrimina, quarum nomina sunt, ut ab Terentius Terenti<a>, aut in ea<s> res extrinsecus, quarum ea nomina non sunt, ut ab equo equiso (Ling. lat. V.14). La terminologia è in parte di Varrone, che usa extrinsecus, in parte di Barwick (1957, p. 40), che propone intrinsecus per indicare il primo gruppo di nomi (cfr. Vaahtera 1998, pp. 126 ss.). 52 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ferenza del nome di base da cui è formato: homo → homunculus o homo → homines. Nel gruppo extrinsecus, invece, il derivato indica un referente diverso da quello del nome di base: equus ‘cavallo’ → equiso ‘mozzo di stalla’. L’identità di referenza, però, è intesa in senso lato e il gruppo intrinsecus include sia forme flessionali (come i diversi casi, i comparativi, i femminili), sia delle forme derivazionali che hanno un legame di “contiguità” con il nome di base, come manubria ‘manubri’ da manus ‘mano’ o ingeniosus ‘ingegnoso’ da ingenium ‘ingegno’. Il gruppo extrinsecus, invece, include soltanto forme derivazionali: pecuniosus ‘ricco’ da pecunia ‘denaro’; ab Romulo Roma et a Roma Romanus ‘da Romolo, Roma e da Roma romano’ o pugiles a pugnando ‘pugili dal combattere’. Dall’altra parte, Varrone distingue quattro tipi di nomi “declinati” in base al significato e, in parte, in base alla loro forma (Ling. lat. VII.52-57 e Vaahtera 1998, pp. 134 ss.)38. Il genus nominandi indica i nomi denominali (i.e. formati da altri nomi) o semplicemente derivati, come ab equo equile ‘stalla’; il genus casuale indica i nomi flessi, come ab equo equum; il genus augendi indica i comparativi, come ab albus albius; il genus minuendi indica i diminutivi, come a cista cistula. Le radices a partire da cui sono formati tutti i nomi del genus nominandi sono tre: il nome comune (venabulum ‘spiedo da caccia’ da venator ‘cacciatore’), il nome proprio (Tiburs ‘tiburtino’ da Tibur ‘Tivoli’) e il verbo (cursor ‘corridore’ da currendum ‘il correre’, Ling. lat. VIII.53), anche se tra queste tre possibilità, è in genere il nome ad essere primario (Ling. lat. VIII.13). Nel complesso, tutta la sezione ha lo scopo di mostrare che il genus nominandi è il regno dell’anomalia, perché non è possibile formare una parola in base all’esistenza di una parola “analoga”, senza considerare la communis consuetudo: poiché da vinum si ha vinaria ‘taverna’, da creta cretaria ‘bottega della creta’ e da unguentum unguentaria ‘bottega degli unguenti’, se le parole fossero davvero ἀνὰ λόγιον, le botteghe della carne (caro), delle pelli (pelles) e delle scarpe (calcei) si dovrebbero chiamare carnaria, pelliaria e calcearia; invece si chiamano laniena, pellesuina e sutrina, il che rappre38 Cfr. eorum declinationum genera sunt quattruor, unum nominandi, ut ab equo equile, alterum casuale, ut ab equo equum, tertium augendi, ut ab albo albius, quartum minuendi, ut a cista cistula (Ling. lat. V.52). L’età classica 53 senta chiaramente un’anomalia (Ling. lat. VIII.55)39. Nello stesso modo, da ovis si forma ovile, ma da avis e bovis non si formano *avile e *bovile; da amare e salutare si formano amator e salutator, ma da cantare e ferre non si formano *cantator e *fertor, bensì cantor e lator. Lo stesso metodo d’analisi, infine, è applicato anche ai composti (Ling. lat. VIII.61-2): da tibiis e cano si forma tibicen, ma da cithara e cano non si forma *citharicen; e ab avibus capiendis si forma auceps, ma a piscibus capiendis non si forma *pisciceps. In questo modo, Varrone discute un grande numero di nomi derivati, di fatto molti di più di quelli che si trovano in tutte le altre fonti dell’antichità, con la sola esclusione, forse, di Prisciano (cfr. § II.9.3): alcuni nomina agentis in -tor e alcuni nomina loci in -ile (cfr. sopra); diversi aggettivi in -osus (Ling. lat. VIII.15); molti aggettivi in -alia da cui si formano i nomi delle festività (Ling. lat. VI.15-6); alcuni etnonimi in -ensis e -anus (Ling. lat. VIII.18, 56, 83 e X.15-6); i comparativi (Ling. lat. VIII.17, 78); qualche nome astratto in -tas (Ling. lat. X.39); un buon numero di diminutivi in -ellus, -illus e -(c)ulus (Ling. lat. V.110, 139 e X.74); alcuni nomi o verbi prefissati (Ling. lat. VI.38, VI.82); diversi nomi composti, come aedificium (Ling. lat. V.141), argentifondinae (Ling. lat. V.7 e VIII.62), artifex (Ling. lat. V.93), solstitium (Ling. lat. VI.8), insulsus (Ling. lat. VIII.61); alcune di famiglie di parole nella loro interezza, come lectio, lector, legens, lecturus e lectissime da lego (Ling. lat. VI.36), oppure sedes, sedile, solium, sellae e subsellim da sedere (Ling. lat. V.128); e un buon numero di voci singole, come le parole territorium da terra (Ling. lat. V.21), pecuniosus da pecunia e pecunia da pecu (Ling. lat. V.92), panarium da panis, granarium da granum (Ling. lat. V.105), barbatus da barba (Ling. lat. V.119), vehiculum da vehitur (Ling. lat. V.140), impluvium e compluvium da pluvia (Ling. lat. V.161), curare da cura (Ling. lat. VI.46), etc.40. Varrone, in genere, predilige il lato formale della derivazione sul lato semantico e, come facciamo anche noi, deriva parole “più lunghe” da parole “più brevi”. In certi casi, però, il lato semanti39 40 Cfr. quoniam taberna ubi venit vinum, a vino vinaria, a creta cretaria, ab unguento unguentaria dicitur, ἀνὰ λόγ[ι]ον si essent vocabula, ubi caro venit carnaria, ubi pelles pelliaria, ubi calcei calcearia diceretur, non laniena, ac pellesuina et sutrina (Ling. lat. VIII.55). Si noti che, secondo Gellio, Varrone usava lo stesso schema di ragionamento anche per gli avverbi derivati (Noct., II.25.8 ss., cfr. GRF F 191-2, fr. 11 F). 54 La morfologia derivazionale e il problema del tempo co-concettuale della declinatio prende il sopravvento e Varrone si trova a derivare nozioni più specifiche da nozioni più generali, indipendentemente dalla forma dei nomi che indicano quelle nozioni: ad esempio, strenui, nobiles e prudens sono derivati da strenuitas, nobilitas e prudentia; cursores e pugilies da currendo e pugnando, invece che da currere e da pugnare (Ling. lat. VIII.15); venabulum è derivato da venator (Ling. lat. VIII.54), invece che da venare; inpos è derivato da potentia (Ling. lat. V.4), il nome Roma è derivato da Romolo (Ling. lat. VIII.18), perché così vuole il mito; e i termini medicus e sutor sono derivati da medicina e sutrina, perché i nomi di coloro che coltivano un’ars presuppongono il nome di quell’ars e non viceversa (Ling. lat. V.93)41. In Varrone, in altre parole, si trovano derivazioni “creative”, simili alle etimologie “creative” (del tipo di canes perché signa canunt oppure volpes quia volat pedibus, cfr. Ling. lat. VII.32 e V.20). I casi di questo tipo sono però pochi, certamente meno delle etimologie che, ad oggi, ci appaiono insostenibili: tanto per fare un esempio tra i molti possibili, accano ‘cantare per qualcuno’, succano ‘accompagnare col canto’ e cantatio ‘canto’ sono correttamente riportati a cano, ma cano è poi riportato “creativamente” a Camena (Ling. lat. VI.75). 6.1 Termini tecnici e procedure di analisi Varrone, come i grammatici, crede che la parola sia un elemento minimo e indivisibile: verbum dico orationis vocalem partem, quae sit minima et indivisa (Ling. lat. X.77), dunque non separa le desinenze dai temi a cui si affiggono, ma si limita a confrontare tra loro parole intere simili per il tema o la desinenza. La sua termino41 Cfr. artificibus maxima causa ars, id est, ab arte medicina ut sit medicus dicto, a sutrina sutor, non a medendo ac suendo, quae omnino ultima huic rei: <hae enim> earum rerum radices, ut in proxumo libro aperietur (Ling. lat. V.93). Questo tipo di derivazioni, fondate sulla precedenza ontologica dei referenti (ovvero, sul significato), piuttosto che sulla forma linguistica, con ogni probabilità nasce a margine del problema filosofico dei paronimi (cfr. le nn. 19 § II.4.1 e 81 § II.9.2; il § III.2 e le nn. 23-24 § III.5.1); oltre che in Varrone, le derivazioni “semantiche” sono testimoniate in Quintiliano (cfr. velox da velocitas in Inst. or. I.6.38) ed ebbero grande fortuna nel Medioevo (Rosier-Catach 1992; Biondi 2018): come esempio di derivazione, infatti, Isidoro di Siviglia cita diversi casi di questo tipo, come a bonitate bonus et a malitia malus, o anche homo ab humanitate e sapiens a sapientia (Or. II.26.4 e X.1). L’età classica 55 logia tecnica, però, è meno sviluppata di quella dei grammatici (per un confronto più dettagliato, cfr. § II.11.1): come ha scritto Collart (1954, p. 330) “bref, le vocabulaire grammatical de Varron est plein d’incertitudes, de flottements, de lacune”. Varrone, infatti, utilizza regolarmente i termini simplex ‘semplice’ e compositum ‘composto’ (o genus compositicium, cfr. Ling. lat. VIII.33, o anche compositio in De ser. lat. 37), dato che le nozioni corrispondenti erano divenuti abituali in Grecia fin da Aristotele (cfr. § II.4.1). Nonostante questo, però, non sembra che Varrone abbia già sviluppato una terminologia tecnica univoca, fissa e costante per nessun altro elemento di quella che oggi chiamiamo analisi morfologica. Il processo di sviluppo del linguaggio, ad esempio, è chiamato solitamente declinatio, ma si trovano anche, seppur più raramente, i termini inclinatio (Ling. lat. IX.1 e 114), transitus (Ling. lat. VIII.39, IX.70 e X.51), incrementum (Ling. lat. VIII.17 e IX.66), o delle perifrasi basate sul verbo propago (Ling. lat. IX.74, cfr. Flobert 1989, pp. 744-5). Con la stessa logica, la nozione di terminatio, che sarà abituale per i grammatici (cfr. n. 74 § II.9.2), non compare mai in Varrone e negli unici tre casi in cui la parte finale della parola è identificata in modo esplicito, la si chiama forma, figura o extrema syllaba42. Tra l’altro, l’uso di forma o figura per indicare la parte finale della parola sembra essere esclusivo di Varrone, ma si spiega perfettamente come estensione metonimica: due parole simili formā o figurā, di fatto, sono simili per le desinenze, se hanno temi diversi, come nel caso dei nomi Vatinus, Manilius, denarius discussi in Ling. lat. VIII.71. Diversamente dai grammatici più tardi, inoltre, Varrone non usa positio, se non una volta, come prima positio (GRF M, fr. 280), né 42 Cfr. et similitudo figura<e> verbi ut sit ea quae ex se declinatu genus prodere certum possi[n]t (Ling. lat. IX.37); sic dici virum Perpennam ut Alfienam muliebri forma[m], sed et contra parietem ut abietem esse forma[m] similem, quo<m> alterum vocabulum dicatur virile, alterum muliebre et utrumque natura neutrum sit (Ling. lat. IX.41); utrum in secunda <persona> forma verborum temporali<um> habeat in extrema syllaba AS <an ES> an ĬS <au>t ĪS (Ling. lat. IX.103). In Ling. lat. VI.39, figura indica tutto il nome derivato o, specificamente, “a word’s phonological configuration” (Taylor 1977, p. 315). Non mi pare che le litterae di Ling. lat. VI.2 (ut verba litteras alia assumant, alia mittant, alia commutent, ut fit in turdo, in turdaro et turdelice) siano davvero equiparabili ai suffissi e alle desinenze, come credeva Pisani (1976, p. 210, contra già Vaahtera 1998, p. 132). 56 La morfologia derivazionale e il problema del tempo usa thema (gr. θέμα). Se vuole indicare il nome imposto su un oggetto nella sua forma di base, Varrone lo chiama solo rectus poiché, per tutti gli studiosi antichi, i nomi sono imposti sugli oggetti al nominativo (i.e. rectus) e poi “si inclinano” negli altri casi (cfr. n. 17 § II.4.1 e n. 22 § II.5), così come i così i verbi sono stati imposti sulle azioni che indicano alla prima persona singolare del presente indicativo, per poi essere inclinati in tutti gli altri tempi, modi e persone (per i passi pertinenti, si veda sopra la n. 33 § II.6). Varrone, però, è il primo ad utilizzare le nozioni di “radice” e di “famiglia di parole” (societas o cognatio verborum, cfr. rispettivamente Ling. lat. V.13 e VI.1), che sono ignote ai grammatici. È possibile che, in questo uso, sia stato influenzato Filosseno, che aveva raccolto le ἀρχαί della lingua greca (cfr. SGLG 2 e Lallot 1993), o da qualche altra fonte (ad esempio, il grammatico Cosconio, che è citato in Ling. lat. VI.36), ma non ci sono prove definitive in tal senso. Tra l’altro, in diversi passi l’originario valore metaforico del termine radix è ancora perfettamente evidente, il che lascerebbe supporre una certa originalità nell’uso varroniano o, almeno, una certa fluidità nella sua terminologia: ad esempio, in Ling. lat. V.13 si passa senza soluzione di continuità, come per libera associazione, dalle radici di un albero all’analisi di una catena derivazionale43. In altri casi, però, la nozione di “radice” ha già sviluppato un significato più tecnico, sia nel senso (per noi) diacronico di “origine di una parola”, sia nel senso (per noi) sincronico di “forma di input da cui deriva una parola o una famiglia di parole”44. 43 44 Cfr. sed qua cognatio erit verbi quae radices egerit extra fines suas persequemur. S<a>epe enim ad limitem arboris radices sub vicini prodierunt segetem. Quare non, cum de locis dicam, si ab agro ad agrarium hominem, ad agricolam pervenero, aberraro. Multa societas verborum, nec Vinalia sine vino expediri, nec Curia Calabra sine calatione potest aperiri (Ling. lat. V.16). Per la stessa posizione intermedia tra metafora e tecnicismo si vedano anche: …e quis nonnulla nomina in utraque lingua [sc. latina et sabellica] habent radices, ut arbores quae in confinio natae in utroque agro serpunt (Ling. lat. V.74); neque si non norim radices arboris, non posse me dicere pirum esse ex ramo, ramum ex arbore, eam ex radicibus quas non video (Ling. lat. VII.4). Tra l’altro, è interessante notare come la maggior parte delle metafore connesse con l’analisi morfologica, a partire dai termini radix, fons, rivus, propago, etc. derivino dal mondo agricolo (Taylor 1974, p. 102). Per il senso diacronico del termine radice si veda: primum cascum significat vetus; secundum eius origo Sabina, quae usque radices in Oscam linguam egit (Ling. lat. VII.28); item dictae lepestae [….]; apud antiquos L’età classica 57 Inoltre, la metafora della radix è la più frequente con cui Varrone indica la forma di base di una famiglia di parole, ma non è l’unica: i termini fons, rivus e caput sono più rari, ma possono avere la stessa funzione (cfr. Ling. lat. VIII.5 e IX.102-3). Né mancano indecisioni rispetto alla natura della radix: di regola, tra il nome e il verbo è primario il nome (Ling. lat. VIII.13), ma cursor è derivato ora da cursus (Ling. lat. V.94) ora da curro (Ling. lat. VIII.53), e ductor, amator e salutator sono tratti da ducere, amare e salutare (Ling. lat. VI.62 e VIII.57), mentre orator e imperator sono tratti da oratio e imperium (Ling. lat. VII.41 e V.87). È assolutamente possibile, quindi, che Varrone sia stato il primo a sviluppare qualche sentore del concetto moderno di radice, ma di certo non abbastanza da fondare su di esso la sua teoria della declinatio (così già, con buone ragioni, Cavazza 1981, p. 76, n. 105). Insomma, Varrone, come tutti gli etimologisti, si occupa in primo luogo dell’origine dei nomi, quindi della loro etimologia. Proprio per la sua vicinanza agli aspetti grammaticali dell’etimologia, però, consente a Varrone di concentrarsi sull’origine di quei termini poetici, giuridici e religiosi che erano culturalmente fondamentali per le antiquitates romane, ma non erano necessariamente primari. In questo modo, Varrone riesce a studiare la formazione dei nomi derivati molto di più e molto più precisamente di quanto non avevano mai fatto Platone e tutti gli altri etimologisti. scriptores Graecos inveni appellari poculi genus δεπέσταν: quare vel inde radices in agrum Sabinum at Romanum sunt profectae (Ling. lat. V.123); subulo dictus, quod ita dicunt Tibicines Tusci: quocirca radices eius Etr<ur>ia, non Latio qu<a>erundae (Ling. lat. VII.35). Per il significato sincronico del termine radice, invece, si veda: primigenia dicuntur verba ut lego, scribo, sedeo et cetera quae non sunt ab aliquo verbo, sed suas habent radices. Contra verba declinata sunt quae, quo ab alio quo oriuntur, ut ab lego, legis, legit, legam et sic indidem hinc permulta (Ling. lat. VI.37); Hoc [sc. genus nominandi] fere triplices habet radices, quod et a vocabulo oriuntur, ut a venatore venabulum et a nomine, ut a Tibure Tiburs, et a verbo, ut a currendo cursor (Ling. lat. VIII.53 ma anche V.93, citato nella n. 41 § II.6). Secondo Vaahtera (1998, p. 171), la radix “cannot function as the starting point of the derivation”; in Ling. lat. VI.36, però, leges e lege, lectio e lector, legens e lecturus, lecte e lectissime sono tutti derivati da lego. 58 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 7. Retorica e derivazione tra Cicerone e Quintiliano I trattati di retorica greci di età alessandrina sono in massima parte perduti. Possiamo, però, essere ragionevolmente certi che questi trattati includessero anche una qualche attenzione alla derivazione perché questo aspetto compariva nelle opere dei sofisti, nelle opere poetico-retoriche di Aristotele e ritorna in epoca romana nelle opere retoriche di Cicerone e di Quintiliano. Il quadro teorico in cui si muovono tutti questi autori, infatti, è simile, se si escludono le profonde differenze cronologiche che li separano: i retori si occupano delle diverse tipologie di parole che sono presenti in un λόγος, perché conoscere questi diversi tipi di parole può aiutare a rendere più efficaci i discorsi pubblici. Anche in questo caso, quindi, l’identificazione dei diversi tipi di parole presenti nel λόγος è la chiave d’accesso all’analisi empirica dei nomi derivati. Diversamente da ciò che avveniva in Aristotele, però, in Cicerone e in Quintiliano il focus principale del discorso non sta nella distinzione, che doveva ormai essere abituale, tra parole semplici, derivate e composte, ma nell’analisi del neologismo e della formazione delle nuove parole. Cicerone, ad esempio, ci dice che i poeti, come gli oratori, possono avere il desiderio di abbellire il loro stile aggiungendo ai verba inusitata ‘parole inusuali’, anche dei verba translata ‘metafore’ o novata ‘neologismi’45. Inoltre, sempre Cicerone, che si era spesso confrontato con il problema della traduzione dei composti e dei nomi astratti greci, divide in modo chiaro i verba nativa, ovvero le parole presenti in latino fin dalle origini del linguaggio (paene una nata cum rebus ipsis, De or. III.149), e i verba reperta, ovvero le parole che sono il frutto di invenzione o di innovazione. I verba reperta, a loro volta, possono essere ‘formati’ o ‘innovati’ (facta, novata) a partire da altre parole già esistenti in latino per analogia (similitudo), per imitazione dei modelli greci (imitatio), per derivazione (inflexio, probabile calco del gr. κλίσις o ἔγκλισις) o per composizione (adiunctio verborum, forse un calco del gr. σύνθεσις)46. 45 46 Cfr. tria sunt igitur in verbo simplici, quae orator adferat ad inlustrandam atque exornandam orationem: aut inusitatum verbum, aut translatum aut novatum (De or. III.152). Su questi passi e, più in generale, sulla continuità tra derivatio e creazione poetica nell’antichità, si veda Vaahtera (1998, pp. 34 ss. e 37 ss.). Cfr. unum genus est eloquendi sua sponte fusum; alterum versum atque mutatum. prima vis est in simplicibus verbis, in coniunctis secunda. simplicia L’età classica 59 Un quadro teorico molto simile si ritrova in Quintiliano, pur se con una terminologia lievemente diversa. Sappiamo che Plinio aveva utilizzato derivativus e derivatio come calchi dei termini greci παράγωγον e παραγωγή (GRF M fr. 94 e 95 = Pompeo, GL V.144.14 ss.), piuttosto che riprendere l’inclinamentum di Nigidio, la declinatio di Varrone oppure l’inflexio di Cicerone, e Quintiliano segue questa scelta, che sarebbe poi diventata quella abituale nei grammatici. L’ornamento dello stile, nella visione di Quintiliano, può riguardare i gruppi di parole o le parole singole (Inst. or. VIII.3.15). Nel caso in cui riguardi le parole singole, è possibile dividere le parole in verba propria, ovvero parole che hanno ricevuto il loro significato una volta per tutte nell’antiquitas più remota, verba ficta, ovvero parole ‘coniate’ ex novo da un poeta o da un oratore, e verba translata ‘metaforiche’ (Inst. or. I.5.71 e VIII.3.30-8). La coniazione delle nuove parole, a sua volta, può avvenire per derivazione (derivatio) o per composizione (compositio), ma in entrambi i casi si tratta di una risorsa ben più adatta al greco che al latino o, comunque, più adatta ai rudes primique homines dei primordi, che ai romani del II secolo d.C. (Inst. or. III.3.30 e 36)47. Insomma, le opere di Cicerone e di Quintiliano seguono lo stesso approccio “retorico” all’analisi dei nomi derivati che si era delineato già in Aristotele; e Quintiliano attesta la stessa terminologia tecnica sulla derivazione basata sulla differenza tra inflexio, derivatio 47 invenienda sunt, coniunctio conlocanda est. et simplicia verba partim nativa sunt, partim reperta. nativa ea quae significata sunt sensu; reperta, quae ex eis facta sunt et novata aut similitudine aut imitatione aut inflexione aut adiunctione verborum (Part. or. 16). Per il significato di nativus, si veda la coppia naturale-derivativum in Pompeo (GL V.202.1 ss.). Cfr. fingere, ut primo libro dixi, Graecis magis concessum est, qui sonis etiam quibusdam et adfectibus non dubitaverunt nomina aptare, non alia libertate quam <qua> illi primi homines rebus appellationes dederunt. nostri aut in iungendo aut in derivando paulum aliquid ausi vix in hoc satis recipiuntur (Inst. or. III.3.30); nam, cum sint eorum alia (ut dicit Cicero) nativa, id est quae significata sunt primo sensu, alia reperta quae ex iis facta sunt, ut iam nobis ponere alia, quam quae illi rudes homines primique facerunt, fas non sit, at derivare, flectere, coniungere, quod natis postea concessum est, quando desiit licere? (Inst. or. III.3.36). Si noti, però, che in qualche passo, Quintiliano usa anche declinare con lo stesso significato di derivare (p.es. in tractu et declinatione talia sunt, qualia apud Ciceronem beatitas et beatitudo, cfr. Inst. or. III.3.32). Sulla derivazione in Quintiliano, si veda Fögen (2008, pp. 66 ss.). 60 La morfologia derivazionale e il problema del tempo e compositio che diverrà del tutto abituale nei grammatici più tardi. Dal punto di vista concettuale, però, la sovrapponibilità tra le nozioni moderne di nome semplice o derivato e quelle quintilianee di verba propria o ficta è ampia, ma non totale: aerumnosus ‘afflitto’ (da aerumna ‘afflizione’), ad esempio, è considerato un proprium da Quintiliano (Inst. or. VIII.3.26), perché si tratta di un nome uscito dall’uso, quindi di un nome che, in apparenza, è molto antico, ma per noi moderni resta un nome derivato, quale che sia la data della sua formazione. 8. Etimologia e derivazione nelle Noctes Atticae di Gellio L’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati proposto da Varrone torna anche nell’opera di Gellio, pur se nella forma desultoria tipica delle Noctes Atticae. L’arcaismo, in effetti, fu un movimento con molte sfaccettature e l’arcaismo di Gellio – come quello del suo maestro Frontone – non era teso soltanto alla preservazione delle parole antiche. Si trattava, piuttosto, di trovare una nuova norma che permettesse il rinnovamento della lingua, mentre le scholae e i grammatici cercavano di fossilizzare la lingua della letteratura aurea in una Latinitas tanto più immutabile, quanto più lontana dalla lingua parlata (Cavazza 1984, p. 30). Gellio, insomma, non rifiuta la creazione delle nuove parole (cfr. Noct. XVIII.11.2), ma ritiene che qualsiasi neologismo debba rispettare i modelli utilizzati dagli antichi48. In questo percorso ideale che parte dal passato per fornire una norma linguistica al presente, Gellio finisce spesso per interrogarsi sull’origine delle parole e sulla loro etimologia che, secondo lui, è il mezzo principale per stabilirne la correttezza formale e semantica (così già Vaahtera 1998, pp. 149 ss.). 48 Marache (1957, p. 263) ha elencato i neologismi di Gellio e di Frontone. La sua lista ha diversi limiti (Gamberale 1969, p. 168, n. 240; Vessey 1994, p. 1875, n. 55 e Vaahtera 1998, p. 151, n. 618), ma è sufficiente per dimostrare che Gellio non rifiuta il neologismo. Tra l’altro, in Noct. I.10.1 (simile a XI.7.1-9) Gellio riporta la reprimenda di Favorino a un giovane che usa parole nimis priscas et ignotas in cotidianis communibusque sermonis. Su Gellio “grammatico”, si vedano Springer (1958), Cavazza (1987) e Mancini (2015). L’età classica 61 In vari casi, Gellio contesta delle etimologie tradizionali fondate sull’idea di una composizione tra due nomi “corrotti”, preferendo un’analisi di tipo derivazionale. Nigidio Figulo, ad esempio, riteneva che avarus fosse formato da avidus aeris, mentre Gellio (Noct. X.5.1-3) ritiene più probabile che si tratti di un nome “inclinato” dal verbo aveo con la medesima fictura che si trova in amarus49. Analoghi sono anche i casi di testamentum, che, per Gellio, non deriva a mentis contestatione, come diceva il giureconsulto Servio Sulpicio, perché il suffisso -mentum compare in molti altri nomi che nessuno crede siano dei composti; e di sacellum, che non deriva da sacra et cella, come diceva Trebazio, seguendo Varrone (sacellum sacra cella est, cfr. GRF F 369, fr. 453), ma dal diminutivo di sacrum (Noct. VII.12.1-6)50. Chiaramente, la presenza di questi passi non implica che Gellio rifiutasse il metodo etimologico tradizionale in assoluto. I grammatici, ad esempio, credevano che -triones in septentriones fosse un supplementum privo di significato; secondo Gellio, invece, -triones è la versione corrotta del nome “rustico” terriones ‘buoi’, come di49 50 Cfr. ‘avarus’ non simplex vocabulum, sed iunctum copulatumque esse P. Nigidius dicit in commentariorum undetricesimo. “avarus enim” inquit “appellatur qui avidus aeris est, sed in ea copula ‘e’ littera” inquit “detrita est”. (2) item ‘locupletem’ dictum ait ex conpositis vocibus, qui pleraque loca, hoc est, qui mulae possessiones teneret. (3) sed probabilius id firmiusque est, quod de locuplete dixi. nam de ‘avaro’ ambigitur: cur enim non videri possit ab uno solo verbo inclinato, quod est ‘aveo’, eademque esse fictura, qua est ‘amarus’, de quo nihil dici potest quin duplex non sit? L’etimologia di Nigidio, tra l’altro, torna in Isidoro di Siviglia (Or. X.9). Cfr. Servius Sulpicius iureconsultus, vir aetatis suae doctissimus, in libro de sacris detestandis secundo qua ratione adductus “testamentum” verbum esse duplex scripserit, non reperio. (2) nam composito esse dixit a mente contestatione. (3) quid igitur “calciamentum”, quid “paludamentum”, quid “pavimentum”, quid “vestimentum”, quid alia mille per huiuscemodi formam producta? etiamne ista composita dicemus? (4) obrepisse autem videtur Servio, vel si quis est qui id prior dixit, falsa quidem sed non abhorrens neque inconcinna quasi mentis quaedam in hoc vocabulo significatio, sicut hercle C. quoque Trebatio eadem concinnitas obrepsit. (5) nam in libro de religionibus secundo: “‘sacellum’ est – inquit – locus parvo deo sacratus cum ara”. deinde addit verba haec: “‘sacellum’ ex duobus verbis arbitror compositum ‘sacri’ et ‘cellae’, quasi ‘sacra cella’. (6) hoc quidem scripsit Trebatio sed quis ignorat ‘sacellum’ et simplex verbum esse et non ex ‘sacro’ et ‘cella’ copulatum, sed de ‘sacro’ deminutum? (Noct. VII.12.1-6). Simili, anche i casi di parcus (Noct. III.19.1-5) e aeditimus (Noct. XII.10.1). 62 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ceva Varrone (Noct. II.21.6-8)51. Il metodo etimologico tradizionale, però, in Gellio convive con una nuova attitudine per l’analisi empirica della forma delle parole e delle loro parti componenti (Cavazza 1984, pp. 24-5; 1987, p. 410, n. 6; Vaahtera 1998, pp. 1545). Ad esempio, Laberio, che aveva l’abitudine di proporre neologismi infelici (Noct. III.12), aveva coniato la parola amorabundus per indicare una donna in amore, secondo lo schema (lat. figura) di ludibundus, ridibundus, errabundus (Noct. XI.15.1-8). Il grammatico Terenzio Scauro, però, aveva rifiutato il neologismo, perché, diversamente da ciò che dicevano Laberio e Cesellio Vindice, ludens e ludibunda non avevano avuto lo stesso significato, perché ludibundus e ridibundus indicavano in realtà una persona che imita l’atto di giocare o ridere (così anche Prisciano, cfr. § II.9.3), e non una persona che gioca o ride, che erano identificate solo dai termini ridens e ludens. Gellio, invece, accetta il neologismo di Laberio, perché le parole in -bundus ‘hanno lo stesso significato delle parole che dimostrano le parole da cui sono derivate’ (eadem significent, quod ea demonstrant, a quibus producunt, Noct. XI.15.4). Dunque, Gellio si chiede se la extrema particula -bundus vada considerata un ampliamento (lat. productio) gratuito, come quelli che i Greci definiscono παραγωγαί, oppure se si tratti di una particula dotata di significato, e conclude, seguendo il grammatico Sulpicio Apollinare, che -bundus sia una particula che si affigge ai verbi e significa vim et copiam et quasi abundantiam rei, cuius id verbum est, dato che ‘leatabunds’ is dicatur, qui abunde laetus est, et ‘errabundus’, qui longo et abundanti errore sit (Noct. XI.15.8)52. 51 52 Cfr. vulgus, inquit, grammaticorum ‘septentriones’ a solo numero stellarum dictum putat. (7) ‘triones’ enim per se nihil significare aiunt, sed vocabuli esse supplementum; sicut in eo quod ‘quinquatrus’ dicamus, quinque ab Idibus dieum numerus sit, ‘atrus’ nihil. (8) sed ego quidem cum L. Aelio et M. Varrone sentio, qui ‘triones’ rustico vocabulo boves appellatos scribunt quasi quosdam ‘terriones’, hoc est arandae colendaeque terrae idoneos. Cfr. Laberius in Lacu Averno mulierem amantem verbo inusitatius ficto ‘amorabundam’ dixit. (2) id verbum Caesellius Vindex in commentario lectionum antiquarum ea figura scriptum dixit, qua ‘ludibunda’ et ‘ridibunda’ et ‘errabunda’ dicitur ludens et ridens et errans. (3) Terentianus autem Scaurus, divi Hadriani temporibus grammaticus vel nobilissimus, inter alia, quae de Caeselli erroribus conposui, in hoc quoque verbo errasse cum scripsit, quod idem esse putaverit ‘ludens’ et ‘ludibunda’, ‘ridens’ et ‘ridibunda’, ‘errans’ et ‘errabunda’. “nam ‘ludibunda’” inquit “et ‘ridibunda’ et ‘errabunda’ ea L’età classica 63 In questo modo, Gellio si occupa, pur se nel suo modo asistematico, di diversi tipi di nomi derivati: ad esempio, dei nomi astratti in -tudo e -tas (necessitas e necessitudo, suavitudo e suavitas), che hanno lo stesso significato, anche se sono formati in modo diverso (Noct. XIII.3.1-2)53; degli aggettivi in -oso, che per Nigidio Figulo indicavano copiam quidam immodicam rei, mentre per Gellio indicano solamente l’abbondanza di qualcosa, ma non necessariamente un’abbondanza negativa (Noct. IV.9.12-14 e IX.12.1-2); di alcuni nomina loci in -arius (Noct. II.20.1-8); di alcuni avverbi in -im (Noct. XII.15.1-2), ma anche alcuni casi singoli, come il sintagma putus purus (Noct. VII.5.1-4). In almeno un paio di casi, inoltre, Gellio non si limita ad analizzare il significato dei suffissi, ma si interroga anche sulla natura delle basi a cui si affiggono: il neologismo di Laberio bibosus, ad esempio, è rifiutato da Gellio, perché i nomi in -osus non si formano da verbi, ma da altri nomi (Noct. III.12.1-3, ma anche XI.15.8)54. 53 54 dicitur, quae ludentem vel ridentem vel errantem agit aut simulat. (4) sed qua ratione Scaurus adductus sit, ut Caesellium in eo reprehenderet, non hercle reperiebamus. Non est enim dubium, quin haec genere ipso dumtaxat idem significent, non intellegere videri, aluimus quam insimulare eum tamquam ipsum minu intellegentem. (5) quin magis Scaurum oportuit commentaria Caeselli criminantem hoc ab eo preterito requirere quod non dixerit, an quid et quantulum differret a ‘ludibundo’ ‘ludens’ et ‘ridibundo’ ‘ridens’ et ‘errabundo’ ‘errans’ ceteraque horum similia, an a principalibus verbi paulum aliquid distarent et quam omnino vim haberent particula eiusmodi vcabulis addita. (6) hoc enim fuit potius requirendum in istiusmodi figurae tractatu, sicuti requiri solet in ‘vinulento’ et ‘lutulento’ et ‘turbolento’ vacuane et inanis sit istaec productio, cuiusmodi sint quae παραγωγάς Graeci dicunt, an extrema illa particula habeat aliquid suae propriae significationis. Tra l’altro, Festo sembra concordare con Gellio: negibundum antiqui pro negante dixerunt (Linsday 1913, p. 162). In questo caso, Gellio potrebbe avere torto (Bernardi-Perini 2017 [19881], p. 934): le attestazioni mostrano che necessitas sit vis quaepiam premens et cogens, mentre necessitudo dicatur ius quodam et vinculum religiosae coniunctionis. La questione, tra l’altro, è complicata dal fatto che in Noct. XVII.2.19, Gellio dice che sanctitudo ha una sfumatura di maggiore dignità rispetto a sanctitas (Vaahtera 1998, p. 159). Inoltre, i due suffissi non avevano la stessa produttività all’epoca di Gellio: mentre -tas compare spesso nei neologismi di Gellio, -tudo non compare mai (Marache 1957, pp. 165-9). Cfr. bibendi avidum P. Nigidius in commentariis grammaticis ‘bibacem’ et ‘bibosum’ dicit. (2) ‘bibacem’ ego, ut ‘edacem’ a plerisque aliis dictum lego; ‘bibosum dictum’ nondum etiam usquam repperi nisi apud Laberium, neque aliud est, quod simili inclinatu dicatur. (3) non enim silmile est ut ‘vinosus’ 64 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Certo, i mezzi tecnici che Gellio impiega per analizzare gli schemi di formazione dei nomi derivati sono diversi da quelli attuali e sono diversi anche da quelle che si trovano nei grammatici (cfr. § II.9). In genere, Gellio utilizza il participio passato come base di formazione per i derivati e tratta le nominalizzazioni un po’ come se fossero una parte della coniugazione verbale (così, ad esempio, avviene per i nomi in -tio, -tor e -bilis, cfr. Marache 1957, pp. 152, 156, 177, 180-1 e 256). Inoltre, Gellio, come già avveniva nel caso di Varrone, non sembra aver ancora elaborato una terminologia tecnica stabile per riferirsi alla derivazione o alle terminazioni, che sono indicate con un gran numero di termini formati a partire dai verbi inclino, fingo e produco o, in qualche caso più raro, da declino: si vedano, ad esempio, inclinatus (Noct. III.12.3; IV.9.2 e 12; VII.5.4; X.5.3); inclinatūs (Noct. III.12.2); inclinamentum (Noct. IV.9.12); fictura, che compare solo in Gellio (Noct. X.5.3); fictum e figura (Noct. XI.15.1-8); affigurare (Noct. IV.9.12); productum (Noct. VII.12.3); produco (Noct. XI.15.4), productio (Noct. XI.15.6 e 8); παραγωγή (Noct. XI.15.6); incrementum (Noct. IV.9.12); extremitas (Noct. XI.15.8); e particula extrema o postrema (Noct. XI.15.5, 6 e 8)55. Tuttavia è innegabile che Gellio dimostri un’attitudine assolutamente particolare per lo studio dei nomi derivati, un’attitudine che lo avvicina a Varrone e a Prisciano, ma di certo non lo avvicina a Isidoro di Siviglia che, diversi secoli dopo, nel VI d.C., avrebbe escluso tutti gli aspetti più propriamente “grammaticali” dall’etimologia dalle sue Origines seu etymologiae, a partire proprio dall’analisi formale dei nomi derivati (cfr. § III.2). Insomma, Gellio presenta alcune delle riflessioni più acute e più penetranti sui nomi derivati e sul significato dei suffissi che si trovano in tutta la letteratura antica. Certo, queste riflessioni hanno il carattere asistematico e desultorio tipico di tutte le riflessioni 55 aut ‘vitiosus’ ceteraque, quae hoc modo dicuntur, quoniam a vocabulis non a verbo inclinata sunt. Quest’ultimo termine è probabilmente un calco del termine stoico μόριον utilizzato da Dionisio Trace (per il -n efelcistico), ed è utilizzato da Gellio anche per i preverbi (Noct. II.19.3; VI.7.6; XV.3.8; XVI.5.6), che altrimenti sono detti praepositiones, o per le preposizioni, le congiunzioni e gli avverbi (Noct. II.17.6; X.29.1 e 4; XVII.13.1; XII.14.1). Si noti che, secondo Vaahtera (1998, p. 163 e n. 670) il termine declinatio in Gellio indica solo la flessione, ma in Noct. VI.17.5 è utilizzato per la coppia obnoxius vs. obnoxie. L’età classica 65 gelliane. Il quadro teorico e la terminologia al cui interno nascono queste riflessioni sono certamente più vicine al quadro teorico e alla terminologia di Varrone, di quanto non si avvicinino al quadro teorico e alla terminologia dei grammatici, anche se, dal punto di vista strettamente cronologico, Gellio è molto più vicino ad Apollonio Discolo e ai grammatici di quanto non lo sia a Varrone. 9. I grammatici Tra Varrone, Plinio e Cicerone – probabilmente grazie anche all’attività di Trifone56 – la terminologia tecnica dei grammatici greci entra anche a Roma. Varrone, ad esempio, usa già derivare, in qualche passo, e usa anche compositum e compositio. Gli stessi termini tornano in Cicerone, Plinio e Quintiliano e, con maggiore regolarità, nei grammatici. La distinzione tra i termini derivare, flectere e coniungere, infatti, si ritrova in Apollonio Discolo, Dionisio Trace, Probo, Donato, Carisio, Diomede e Prisciano. Di regola, i grammatici usano casus (gr. πτῶσις) o declinatio (gr. κλίσις) per indicare la flessione nominale, coniugatio (gr. συζυγία) o, più raramente, declinatio per la flessione verbale, e compositio (gr. σύνθεσις) per la composizione57. In qualche caso, il termine 56 57 I frammenti di Tirannione non presentano riferimenti alla derivazione (cfr. SLGL 3), mentre Trifone discute i nomi derivati in alcuni passi (Velsen 1853, pp. 58-62, fr. 83-93): i frammenti, però, sono troppi brevi e il contesto è troppo lacunoso per farsi un’idea compiuta del loro contenuto. Inoltre, è noto che Trifone scrisse un Περὶ τῆς ἐν κλίσεσιν ἀναλογίας e un Περὶ τῶν παρωνύμων (Velsen 1853, pp. 3 e 58), ma il termine παράγωγον non è attestato in nessuno dei suoi frammenti rimasti. Per il contrasto tra coniugatio/declinatio, si vedano Dionisio Trace, che definisce συζυγία come ἀκόλουθος ῥημάτων κλίσις ‘flessione regolare dei verbi’ (GG I/3.53.6), e Probo, che dice, ad esempio, quidam sic esse nominum declinationes numero quinque voluerunt, sicut verborum coniugationes tres (GL IV.3.3-5). Una distinzione lessicale simile si trova in Carisio (GL I.18.10. vs. 164.15), Donato (GL IV.373.7 vs. 381.26), Diomede (GL I. 301.32 vs. 359.10) e anche Prisciano (GL II.183.20 vs. II.369.16). Per l’utilizzo di declinatio/κλίσις in riferimento alla flessione verbale, si vedano Quintiliano (Inst. or. I.4.22), Apollonio Discolo (GG II/2.397.7), Dionisio Trace (GG I/1.53.6), Probo (GL IV.174.23), Carisio (GL I.169.11), Diomede (GL I.359.10) e Prisciano (GL II.442.18). Per altri esempi, si può consultare il lessico della Schad (2007, s.v.). 66 La morfologia derivazionale e il problema del tempo declinatio si riferisce all’insieme della derivazione e della flessione, seguendo quello che sembra essere un uso stoico, e il termine derivatio può funzionare come una etichetta-ombrello per indicare in generale qualsiasi tipo di alterazione dei nomi, a prescindere dalla differenza tra flessione, composizione e derivazione; i casi di questo tipo, però, nel complesso, sono pochi58. Nello stesso modo, i verbi orior, nascor e (de)duco (in genere al passivo), e tutti i loro derivati, possono essere utilizzati per indicare la formazione delle parole, sia nel campo della flessione, sia in quello della derivazione; anche in questo caso, però, il loro utilizzo non è particolarmente frequente (per una conferma, si veda Schad 2007, s.v.). 9.1 La classificazione degli accidenti Al di là della terminologia, che non è poi molto diversa da quella corrente anche oggi, il modo in cui i grammatici antichi guardano alla formazione delle parole è molto diverso da quello oggi abituale e rimanda alla stessa teoria dei πάθη τῆς λέξεως su cui si poggia l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati: durante la loro evoluzione, dopo la prima positio, le parole hanno subito delle affezioni che restano inscritte nella loro forma esterna, dopo che le parole stesse si sono ormai “concretate” e sono state immagazzinate nel lessico greco o latino una volta per tutte. Diversamente dagli etimologisti, però, i grammatici non cercano di ricostruire le modifiche che le parole hanno subito nel tempo a partire dalla loro prima positio, ma classificano le differenze formali prodotte da quelle modifiche nelle parole greche o latine “in sincronia”. Tutti gli studiosi antichi, in altre parole, ritengono che la parola sia non solo l’unità più importante dell’analisi grammaticale, ma anche 58 Per l’utilizzo di declinatio nel senso di ‘derivazione’, si veda Pompeo (invenimus enim varias declinationes, fons fontius fontanus, mons montius montanus, GL V.144.12). Per l’uso di derivatus nel senso di ‘flesso’, si vedano Carisio (sunt quaedam perfecta a diversis instantibus derivata, GL I.371.27), Diomede (GL I.377.21) e Prisciano (GL II.510.23 e 522.19). Per derivatio nel senso di ‘composizione’, si veda Probo (‘lucifer’…‘frugifer’… ‘signifer’ et siqua a ‘ferendo’ fuerint derivata, GL IV.14.13). In qualche caso, συζυγία si può riferire anche alla derivazione (pro)nominale (ad esempio, in Apollonio Discolo, GG II/2.137.1). L’età classica 67 la sua unità minima, indivisibile59. Proprio per questo, la grammatica greco-latina si può definire una “grammatica delle parole intere”, ovvero una grammatica che non descrive la formazione delle parole in quanto tale, dato che questo tema che riguarda l’etimologia e l’origine del linguaggio, ma descrive la forma delle parole immagazzinate nel lessico, che rappresentano il prodotto sincronico e lessicalizzato del processo diacronico-ontogenetico di derivazione (così già Vaahtera 1998, p. 170). Anche per i grammatici, quindi, tutte le parole presentano delle specifiche particolarità formali o semantiche che si sono prodotte durante la loro formazione-creazione ab origine linguae, e la descrizione di queste caratteristiche accidentali delle parole, che in greco si chiamano παρεπόμενα o συμβεβηκότα e in latino accidentia, rappresenta effettivamente il compito principale della grammatica nel suo insieme60. Gli accidenti delle parole sono principalmente di tre tipi. Nessuno dei grammatici descrive in astratto questi tre tipi di accidenti e le ragioni per cui è utile distinguerli, ma di fatto tutta l’architettura delle grammatiche antiche si poggia proprio sull’identificazione di questa differenza. Infatti, alcuni accidenti sono del tutto particolari, ovvero riguardano soltanto delle parole singole: si tratta, insomma, degli accidenti specifici che hanno colpito o, meglio, “corrotto” una parola specifica o un dato composto nel corso della sua creazio59 60 Si veda, ad esempio, la famosa frase di Varrone citata all’inizio del § II.6.1. La stessa idea è presente in Dionisio Trace (λέξις ἐστι μέρος ἐλάχιστον τοῦ κατὰ σύνταξιν λόγου, GG I/1.22.4) negli scoli alla grammatica di Dionisio Trace (GG I/3.212.8) e in Prisciano (GL II.53.8-10): dictio est pars minima orationis constructae. Per una conferma della concezione unitaria della parola nella grammatica antica, si vedano Robins (1970 [19671], p. 70), Taylor (1974, pp. 9 ss.) e Auroux (1994, p. 174), Lallot (2019) e Colombat (2019). Tra l’altro, i grammatici latini notoriamente interpretano l’integrità e l’indivisibilità della parola in modo più rigido di quanto non facevano i loro colleghi greci (Matthaios 1999, p. 264 n. 289 e p. 267; Dickey 2007, p. 122). Per la genesi filosofica, quindi, in sostanza, anche etimologica, di tutti gli studi linguistici, inclusi gli studi grammaticali, si vedano, con argomenti diversi, i lavori di Cavazza (1981, pp. 14 e 39), Gambarara (1984), Taylor (1987) e Desbordes (1990). Su rapporti tra retorica, analisi letteraria, grammatica e filosofia, si veda Swiggers (1997, pp. 10-31). Per la storia del termine accidens, dei suoi modelli greci παρεπόμενον o συμβεβηκός, e delle diverse accezioni con cui sono intesi questi termini nella grammatica antica, si vedano Barwick (1957, pp. 47-51), Holtz (1981, pp. 68-69), Vitale (1982), Lallot (2019b) e Colombat (2019b; 2019c). 68 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ne-formazione a partire dalla lingua originale. Donato, ad esempio, dice che i nomi composti possono essere formati da nomi ‘integri’ o ‘intatti’, come si vede nel caso di respublica ‘repubblica’, oppure da nomi ‘corrotti’, come si vede nel caso di municeps ‘cittadino’, che è formato da munus ‘dovere’ e capio ‘prendere’ (GL IV.377.6)61. Se si esclude qualche eccezione (che in genere riguarda i composti, cfr. sopra), però, questo tipo di accidenti particolari che riguardano solo parole singole, non rientrano nel campo di interesse della grammatica, ma rientrano piuttosto nel dominio dell’etimologia. Altri accidenti sono più generali e la loro descrizione rientra effettivamente all’interno della grammatica a pieno titolo. Tuttavia, non tutti gli accidenti generali riguardano davvero tutte le parole, nessuna esclusa. Alcuni accidenti, che potremmo definire semi-generali, riguardano soltanto uno specifico gruppo di parole, come il nome che è definito dal caso o il verbo che è definito dalla persona. Questo tipo di accidenti semi-generali è il più importante, perché effettivamente serve per dividere le parole in classi (le partes orationis) e, come è noto, la descrizione delle classi di parole e della loro flessione rappresenta la parte più importante di tutta la descrizione grammaticale per gli studiosi greci e romani. Oltre agli accidenti particolari che riguardano parole singole e agli accidenti semi-generali che riguardano un gruppo di parole ad esclusione di tutti gli altri, esistono anche accidenti generalissimi, che sono davvero comuni a tutte le parole (o, almeno, ad entrambe le classi principali di parole, il nome e il verbo). Come ha mostrato in parte Luhtala (2008, pp. 38 ss.), la descrizione di quest’ultimo tipo di accidenti può seguire nei grammatici due diverse tassonomie, la cui differenza era ben nota già agli antichi. In un passaggio importante, ma non molto citato (GL V.338.20 ss.), infatti, Consenzio distingue una divisio graeca ‘tassonomia greca’ e una seconda classificazione, che noi potremmo chiamare divisio latina ‘tassonomia latina’, rispetto al trattamento dei nomi derivati e alla definizione del nome (in particolare, in base alla differenza 61 Esempi simili sono comuni tra i grammatici. Per qualche esempio, si vedano Dionisio Trace (GG I/1.30.1-4), Apollonio Discolo (GG II/1.164.14), Carisio (GL I.16.29 ss.), Prisciano (GL II.177.20 ss.), Probo (IV.54.1 ss.), Servio (GL IV.408.22 ss.) e Cledonio (GL V.11.9 ss.). L’età classica 69 tra il nome proprio, il nome comune e l’epiteto) 62. Luhtala ha già esaminato l’importanza del contrasto tra le due divisiones per la definizione del nome, per il trattamento degli omonimi e dei sinonimi e, in generale, per il diverso influsso delle teorie filosofiche, soprattutto stoiche e neo-platoniche, che sono poco considerate nella divisio latina, ma sono accolte con una certa generosità nella divisio graeca. Nei prossimi paragrafi, quindi, ci concentreremo solo sulla diversa classificazione dei nomi derivati che è presente nelle due tassonomie63. 9.1.1 La divisio graeca La divisio graeca si trova nella Τέχνη γραμματική usualmente attribuita a Dionisio Trace e nelle Institutiones di Prisciano, e si può attribuire con ragionevole certezza anche ad Apollonio Discolo e al figlio Erodiano64. Possiamo escludere che questa classificazione si fosse già stabilizzata nella sua forma definitiva all’epoca di Aristarco, perché Aristarco stesso conosceva le εἴδη dei nomi patronimici, denominativi (gr. παρώνυμα) e comparativi, ma non conosceva gli altri tipi di nome che compaiono regolarmente nella divisio graeca tra Dionisio Trace e Prisciano (Matthaios 1999, pp. 293-4). Tra le due divisiones, quindi, la divisio graeca è la tassonomia attestata per prima (dunque, probabilmente la più antica) e risale al II-I seco62 63 64 Cfr. Consenzio (GL V.338.20): (divisio graeca magis sequenda est, quae fit in primam positionem et derivationem. prima positio dividitur in nomen proprium et appellativum et epitheton. derivativorum species sunt novem et specie manant), propria ab individuis. La differenza tra le due divisiones è confermata da Pompeo (GL V.139.33-5): in proprio nomine quattuor sunt species, in appellativo habemus vigιnti et semptem. has Graeci rettulerunt ad semptem speciem. habetis diligentissime in Apollonio tractatus de speciebus istis. Il contrasto tra la divisio graeca e la divisio latina nel trattamento dei nomi derivati è menzionato da Vaahtera (1994, pp. 60 n. 226, e 92-3) e Luhtala (2005, pp. 42-3), ma nessuno dei due autori lo analizza in modo specifico. È questa la visione tradizionale fin da Schneider (GG II/3.39.11 ss.), seguito da Lallot (1989, pp. 31-4) e Vaahtera (1998, pp. 76 ss.). Infatti, Apollonio identifica εἶδος e σχῆμα come accidenti del nome (come dice Cherobosco, GG IV/1.107.2) e anche del verbo (GG II/3.72.14 ss.); e trattava le species prima del genere dei nomi secondo gli scoli a Dionisio Trace (GG I/3.524.21), come effettivamente fa anche Prisciano (GL II.57.8); inoltre, Pompeo conferma che Apollonio trattava le specie in modo eccellente e le trattava secondo la tassonomia greca (cfr. n. 62 § II.9.1). 70 La morfologia derivazionale e il problema del tempo lo a.C., se si accetta l’autenticità della Τέχνη dionisiana, oppure al II secolo d.C., se si rifiuta l’autenticità della Τέχνη, al di là dei primissimi paragrafi, come fanno Di Benedetto (1958-59; 1973, 1999, 2000) e Luhtala (2002, 2005), e si accetta l’idea vulgata secondo cui Prisciano riproponeva effettivamente la stessa tassonomia che si leggeva in Apollonio Discolo (cfr. § II.9.3). Quale che sia la soluzione più corretta per la datazione della Τέχνη dionisiana, gli accidenti generalissimi comuni al nome e al verbo nella divisio graeca sono di due tipi: species (gr. εἶδος) e figura (gr. σχῆμα)65. Le species si possono dividere in due gruppi: i verba primitiva o primae positiones (gr. πρωτότυπα), come mons ‘monte’, e i verba derivata (gr. παράγωγα), come montanus ‘montano’66. I nomi derivati, in questo caso, formano una categoria sovraordinata di carattere generale che si oppone ai nomi semplici e include sette sotto-specie di nomi derivati in Dionisio Trace (GG I/1.24.6 ss.) e nove in Prisciano (GL II.60.5 ss.), ossia: il patronymicum (gr. πατρωνυμικόν), il possessivum (gr. κτητικόν), il comparativum (gr. συγκριτικόν), il superlativum (gr. ὑπερθετικόν), il deminutivum (gr. ὑποκοριστικόν), il denominativum (gr. παρώνυμον) e il verbale (gr. ῥηματικόν), a cui Prisciano aggiunge il nomen participiale e il nomen adverbiale67. Queste sette o nove specie dei nomi sono principalmente di natura semantica, ma possono anche essere definite dal punto di vista formale, almeno in parte. Oltre a queste specie, che sono le principali, se ne possono aggiungere anche altre, in numero variabile;le specî di quest’ultimo tipo, 65 66 67 L’uso grammaticale del termine σχῆμα con ogni probabilità risale a Teofrasto (Novokatko 2020). Le species verborum sono parallele alle species nominum, quindi anche queste includono i verba primitiva, come lego, e i verba derivativa, come lecturio (cfr. Prisciano GL II.427.10). La terminologia di Prisciano è problematica. Nel libro IV de denominativiis, Prisciano definisce denominativum come ‘denominale’ (denominativum appellatur a voce primitivi sic nominatum, non ab aliqua speciali significatione, sicut suprae dictae species. habent igitur generalem nominationem omnium formam, quae a nomine derivatur, cfr. GL II.117.20). Durante l’esposizione, però, include nel libro IV tutti i tipi di derivati, sia denominali che deverbali, come se denominativum e derivatum fossero effettivamente dei sinonimi (Kircher 1988, p. 202 e 199, che riporta le critiche a Prisciano degli scoliasti di Dionisio Trace, cfr. GG I/3.228.4 ss.). L’età classica 71 di norma, riguardano solo il nome, sono definite solo dal punto di vista semantico e possono includere nello stesso modo parole semplici o derivate: tra queste si possono ricordare, per fare alcuni esempi tra i molti possibili, i nomina corporalia, incorporalia, homonyma e synonyma per ciò che riguarda i nomina adpellativa; ma anche le classi del nomen gentile, patrium, interrogativum, infinitum, demonstrativum e molte altre per ciò che riguarda i nomina adiectiva. Le formae dei nomi, invece, comprendono tre classi: verba simplicia (gr. ἀπλᾶ), come mons ‘monte’; i verba composita (gr. σύνθετα), come magnanimus ‘magnanimo’ o inimicus ‘nemico’ (si noti che le preposizioni e i preverbi sono considerati alla stregua delle parole piene in tutta la grammatica antica, perché le preposizioni possono essere pronunciate in isolamento nelle frasi, come dice Apollonio Discolo, GG II/2.476.2 ss.); e i decomposita (gr. παρασύνθετα), ovvero i nomi derivati dai composti che, di conseguenza, sono nomi sia derivati che composti, come magnanimitas ‘magnanimità’68. Dato che i decomposita nomina rappresentano la somma di nomi derivati e composti, mentre i simplicia sono necessariamente anche primitiva (e viceversa), l’architettura logica della divisio graeca si fonda su una divisione a tre membri distribuita su due classi (species e figurae): nomi semplici, nomi derivati e nomi composti. Nella divisio graeca, quindi, le nozioni di derivazione e di composizione sono centrali, perché rappresentano le proprietà di primo livello utilizzate per classificare tutti gli accidenti delle parole e le nozioni di base su cui è imperniata tutta la classificazione delle parole in tipi. In schema, l’architettura logica della divisio graeca si può rappresentare all’incirca nel modo che segue (fig. 4): 68 La categoria dei nomi decomposti dipende, con ogni probabilità, da Teofrasto (Matthaios 1999, p. 262). La confusione tra parole derivate tramite preverbi e composti si trova già ad Aristarco (Schironi 2004, p. 115, fr. 10). La morfologia derivazionale e il problema del tempo 72 primitiva species derivata Accidenti generali figurae patronymicum possessivum comparativum superlativum deminutivum denominativum verbale participiale adverbiale simplicia composita decomposita Fig. 4, la struttura logica della divisio graeca (nella versione di Prisciano) 9.1.2 La divisio latina La seconda tassonomia presente nei grammatici può essere identificata come divisio latina in opposizione alla precedente, anche se Consenzio non utilizza mai questa etichetta, dato che, di fatto, è la tassonomia utilizzata in tutti i grammatici romani, con la sola esclusione di Prisciano. Più specificamente, la tassonomia “latina” si trova in Carisio (GL I.153.6), Donato (GL IV.373.11), Servio (GL IV.429.15), Cledonio (GL V.35.5) e Pompeo (GL V.139.33). A meno che non la si voglia attribuire a qualche lavoro perduto, quindi, questa tassonomia sembra stabilizzata a partire dal III secolo d.C., all’incirca un secolo dopo la divisio graeca69. In questa tassonomia latina, gli accidenti generalissimi che riguardano sia il nome sia il verbo sono tre, e non due, come avviene nella divisio graeca: genus, qualitas e forma. Il genus (gr. γένος) indica il genere nel caso del nome, ma la differenza tra forme verbali 69 I frammenti superstiti dell’ars di Remnio Palemone, pubblicati da Barwick (1922), non consentono di stabilire quale delle due divisiones fosse utilizzata nell’opera. L’età classica 73 finite e forme non finite nel caso del verbo70. La qualitas (calco del gr. ποιότης) riguarda la distinzione tra il nome proprio e il nome comune nel caso del nome, ma la diatesi nel caso del verbo. La figura (calco del gr. σχῆμα), infine, indica la differenza tra verba simplicia e verba composita, mentre la classe dei nomina decomposita, in questo caso, non rientra nella classificazione71. In questo secondo modello tassonomico, la differenza tra i nomi semplici e i nomi derivati è meno rilevante di quanto non fosse nella divisio graeca, dato che non rientra tra gli accidenti generali del nome. Tuttavia, i grammatici elencano comunque un numero ampio di diverse species del nome (in genere ventisette) tra le qualitates del nome comune. Queste species sono di natura prevalentemente semantica, ma possono anche essere formali, almeno in parte. Ad esempio, Donato cita le species seguenti (GL IV.373.11 ss.): nomina corporalia, incorporalia, primae positionis, derivata, deminutiva, graecae declinationis, nomi greci con flessione latina, nomi greci con flessione mista, in parte greca e in parte latina, homonyma, synonyma, possessiva, qualitatem significantia, quantitatem significatia, gentis, patriae, numeri, ordinis, nomi di relazione (ad aliquid), nomi di quasi-relazione (quasi ad aliquid), generalia, specialia, verbalia, nomi simili ai participi e nomi simili a verbi. Poiché la maggior parte di queste specie sono definite su base puramente semantica, al loro interno si possono elencare tanto dei nomi semplici, quanto dei nomi derivati senza alcuna particolare differenza72. 70 71 72 Si vedano Carisio (GL I.164.22), Donato (GL IV.359.6 e IV.381.14), Servio (GL IV.411.26), Sergio (GL IV.503.5), Cledonio (GL V.16.9), Pompeo (GL V.231.36) e Consenzio (GL V.367.8). Nella divisio graeca, invece, di norma il termine genus si riferisce solo al genere nominale. Diomede (GL I.344.27) e Servio (GL IV.411.26) usano forma come calco del gr. σχῆμα al posto di figura, seguendo la divisio graeca. Inoltre, Macrobio usa forma come sinonimo di species, invece che di figura (cfr. de formis sive specibus verborum in GL V.625.24). Per un trattamento simile delle species si vedano Servio (GL IV.429.15 ss.), Cledonio (GL V.35.5) e Pompeo (GL V.139.33). La definizione semantica dei nomina derivata chiaramente determina una certa ambiguità nella definizione dei diminutivi, che non si trova nella divisio graeca: Cledonio, ad esempio, dice che i verbi come sugillo ‘rimproverare, ammaccare’ e sorbillo ‘bere a piccoli sorsi’ (da sugo ‘succhiare’ e sorbeo ‘bere, sorbire’) possono apparire come dei diminutivi ma, nei fatti, sono dei derivati (GL V.54.33), e un problema simile è discusso, all’incirca nella stessa forma, da Pompeo (GL V.143.19-25). La morfologia derivazionale e il problema del tempo 74 In questa tassonomia, quindi, il contrasto tra nomi semplici e nomi derivati non è del tutto ignorato, ma è depotenziato attraverso la sua collocazione nel secondo ordine delle proprietà del nome (invece che nel primo, come nella divisio graeca). In questo modo, i nomi semplici e derivati appaiono come due delle moltissime tipologie possibili dei nomi e non come le due classi principali attorno alle quali ruota tutta la classificazione dei diversi tipi di nome. In schema, l’architettura logica della divisio latina si può rappresentare come segue (fig. 5): genus genere diatesi nomina propria Accidenti generali qualitas nomina communia figura simplicia composita nomina corporalia nomina incorporalia nomina primae positionis nomina derivata nomina deminutiva nomina graecae declinationis … … … Fig. 5, la struttura logica della divisio latina Chiaramente, la presenza di interferenze tra i due modelli è perfettamente possibile. Probo, ad esempio, segue la divisio graeca per la maggior parte, ma usa ordo al posto di species come calco del gr. εἶδος, e aggiunge i nomina deminutiva ai nomina primitiva e derivativa tra le species del nome, come fa anche Donato (GL IV.73.34, si veda anche la n. 71 § II.9.1.2 per un caso simile). Nello stesso modo, Diomede segue la divisio latina e inquadra i nomina L’età classica 75 derivata tra le qualitates dei nomi, ma poi elenca gli stessi sette tipi di nomi derivati che si trovano nella grammatica di Dionisio Trace (GL I.323.19 ss.). E gli scoliasti, in qualche caso, mescolano le due tassonomie, dato che gli Scholia Marciana a Dionisio Trace elencano ventiquattro specî del nome che sono quasi identiche alle ventisette specî che si trovano abitualmente nella divisio latina (GG I/3.384.22 ss.)73. Ciò nonostante, il contrasto strutturale tra le due divisiones è evidente: la divisio graeca è fondata sulla distinzione tra derivatio e compositio; nella divisio latina, la compositio gioca lo stesso ruolo, ma la derivatio rappresenta solo un accidente di livello inferiore, che non è ben distinto dalla semantica. 9.2 Termini tecnici e procedure di analisi Nonostante la differenza tra le due tassonomie, il modo in cui i grammatici guardano alla struttura interna delle parole è abbastanza uniforme. Come abbiamo detto, i grammatici non descrivono la formazione delle parole complesse (composte e derivate), come invece fanno gli etimologisti; ma descrivono la forma delle parole formate e immagazzinate nel lessico greco o latino una volta per tutte. Chiaramente, con ciò non si vuol dire che i Greci o i Romani ignorassero le stesse regolarità formali o semantiche che noi, oggi, utilizziamo per descrivere la formazione delle parole: però è vero che gli studiosi antichi descrivevano queste regolarità in un modo diverso da quello attuale. In entrambe le tassonomie, le parole complesse possono presentare una παραγωγή ‘derivazione’, una κατάληξις ‘terminazione’ o un τέλος ‘fine’, e questi termini ritornano nella tradizione latina grazie ai calchi terminatio o, più raramente, extremitas e finis74. Però, i 73 74 La sequenza con cui vengono elencati gli accidenti del nome è specifica di ciascuna grammatica. Prisciano, ad esempio, descrive le species e le figurae nominum prima del caso, ma le species e le figurae del verbo dopo la coniugazione verbale, mentre Donato e Carisio descrivono le specie del nome e del verbo sempre dopo la flessione (GL IV.373.7 e 381.16; GL I.153.6 e 164.13). Dionisio Trace, invece, descrive le le species e le figurae sia del nome che del verbo prima della flessione (GG I/1.25.3 e I/1.50.1), mentre Probo e Diomede descrivono le figurae nominum prima del caso, ma le figurae verborum tra la persona e il tempo (GL I.301.24 e 359.10; GL IV.51.21 e 155.21). Ciascuno di questi termini compare in Apollonio Discolo, ma non nei suoi predecessori. Per quanto riguarda τέλος, si vedano GG II/2.218.1 e 217.10 76 La morfologia derivazionale e il problema del tempo grammatici usano terminatio come sostantivo solo raramente. Il più delle volte, preferiscono dire che quel dato nome desinit o terminat in un certo modo, oppure usano desinentia come un participio (si vedano, ad esempio, i nomina in ‘us’ desinentia di Prisciano, GL II.119.5)75. Inoltre, anche se l’esistenza delle terminationes è accettata senza problemi dai grammatici, dal punto di vista concettuale la terminatio non si riferisce alla desinenza nel senso moderno del termine, ovvero non indica una unità autonoma e indipendente dalla parola in cui essa appare: piuttosto rappresenta la parte finale della parola, intesa pur sempre come unità indivisibile; quella parte della parola che deriva da una parola primitiva che si era unita con un’altra parola dopo la fase della prima positio e si era “corrotta” nel corso del tempo fino a diventare, appunto, una terminatio. In pratica questa parte finale della parola può coincidere con una desinenza nel senso moderno del termine, come nel caso della -a che si trova in rosa ‘rosa (nom.)’ o nel caso della -is che si vede in consulis ‘del console (gen.)’, ma può anche indicare l’insieme di un suffisso e di una desinenza, come nel caso di -tus in amatus (Prisciano, GL II.569.12, 77.9, 284.12 e 106.19-20). In qualche caso, inoltre, la terminatio può anche indicare semplicemente la parte destra di una parola, anche se questa parte non coincide esattamente con nessu- 75 in riferimento alla desinenza nominale -ος del caso retto; per κατάληξις, si veda GG II/2.387.2 con riferimento alla desinenza -ω della 1sg.pres.ind.; per παραγωγή, si vedano, tra i vari, GG II/2.259.1 ss. e 261.2 ss., con riferimento a casi come -νος in ὀψινός ‘tardivo’ da ὀψέ ‘tardi’ e -της in ποιητής ‘poeta’ da ποιέω ‘fare’ e la n. 14 § II.3. Per terminatio, si vedano Carisio (GL I 235.29), Prisciano (GL II.117.20, 122.17, 184.5) ed Eutiche, che usa anche finalitas (GL V.455.21, 460.24); per extremitas, si vedano Prisciano (GL II.3.16), Diomede (GL I.492.28), Carisio (GL I.50.7), Terenziano Scauro (GL VII.13.6), etc. Per finis, si vedano Prisciano (GL II.453.19), Servio (GL IV.409.1) e Pompeo (GL V.222.19). Si vedano anche i seguenti passi: in ‘es’ vero desinentibus, quorum genetivus Graecus in ‘ου’ desinit; e in ‘do’ desinentia derivativa tam a verbis quam a nominibus vel a participiis veniunt (Prisciano, GL II.66.6 e 122.10); quamvis forma sit possessivae haec, quae in ‘rius’ desinit, tamen diversae significationis nomina in hac quoque inveniuntur; e alia vero in ‘mentum’ desinunt (Prisciano, GL II.75.2 e 125.12); id est in ‘us’ masculinum, in ‘a’ femininum, in ‘um’ neutrum terminat (Prisciano, GL II.556.26). Il termine desinentia come sostantivo, infatti, non è mai attestato prima del Medioevo (Lindner 2012, p. 140) e il trattino che indica l’analisi morfemica quasi del tutto sconosciuto prima di Bopp (1816). L’età classica 77 na delle unità di analisi morfologica che oggi riteniamo accettabili, come si vede nel caso di -ar in lacunar ‘lacustre’ da lacus ‘lago’ e -as in civitas ‘città’ da civis ‘cittadino’ (Prisciano, GL IV.118.1 ss.)76. Nello stesso modo, i grammatici conoscono la nozione di thema (un prestito dal gr. θέμα) e di prima positio (un calco dal gr. πρώτη θέσις che si trova, ad esempio, in Dionisio Trace GG I/3.25.4). Neppure questo termine, però, indica esattamente la stessa nozione a cui ci riferiamo noi oggi con l’it. tema o l’ingl. stem: anche in questo caso, il tema non indica una unità indipendente dalla parola flessa in cui compare, ma indica solo la parola primaria imposta ab origine sull’oggetto in questione dal primo impositor nominum77. Questa parola primaria può essere la fonte ultima da cui discendono tutte le parole derivate e flesse comprese in una stessa famiglia di parole, ma in pratica rappresenta una parola intera flessa al nominativo, nel caso del nome, e una parola intera, flessa alla prima persona singolare del presente indicativo, nel caso del verbo, come dicono in modo molto chiaro sia Donato (GL IV.553.3), sia Prisciano (GL II.421.20)78. 76 77 78 La relazione tra una terminazione e una ex-parola è chiara in Apollonio, secondo il quale ciascun derivato (gr. παρηγμένον) sia esso nominale o verbale, può essere analizzato in un nome πρωτότυπον ‘primario’ unito a una parola che si riferisce allo stesso significato a cui si riferisce anche la sua terminazione (καθόλου πᾶν παρηγμένον ἀπό τινος ἀνάλυσιν ἔχει τὴν πρὸς τὸ πρωτότυπον μετὰ λέξεως τῆς σημαινούσης ταὐτὸν τῇ παραγωγῇ, GG II/3.326.11 ss.; per un commento a questo passo, si veda Householder 1981, pp. 38 e 163). Si veda, ad esempio, Prisciano (ipsius positio nominationis, GL III.119.18), che riprende un passaggio simile in Apollonio Discolo (ἡ…θέσις τοῦ ὀνόματος, GG II/2.24.2). L’idea del nominativo come caso generale parte da Aristotele e torna in Varrone (cfr. la n. 17 § II.4.1, la n. 22 § II.5 e, soprattutto, la n. 33 § II.6). Inoltre, la stessa idea si ritrova anche negli scoli a Dionisio Trace, che la attribuiscono anche a Apollonio Discolo e a Erodiano (GG I/3.546.6, 548.4), in Carisio (GL I.195.13), Probo (GL IV.56.35) e Prisciano, secondo il quale, il nominativo abusive casus nominatur, perché esso indica il casus generalis che facit alios casus, cadendo nelle varie positiones che si trovano in ciascun paradigma (GL II.172.6, 185.13). Per una discussione di queste teorie, si vedano Belardi & Cipriano (1990, pp. 117 ss. e 120 ss.) e Brandenburg (2020). Tra l’altro, l’uso di positio per indicare una parola intera è tradizionale: è utilizzato nello stesso modo da Apollonio Discolo (GG II/2.65.1, cfr. Lallot 1997: II, p. 45, ma anche GG II/2.137.9) e anche da Erodiano (cfr. Herbse, ad Ξ 171 e Σ 76, e Wackernagel 1979 [1876], p. 1438). 78 La morfologia derivazionale e il problema del tempo In qualche caso, specialmente (ma non solo), quando si discutono i diversi temi di un pronome, si può incorrere in un uso più tecnico della nozione di θέμα o positio, che tutto sommato è già abbastanza simile a quello attuale. Ad esempio, Prisciano ci dice che i temi del pronome di terza persona sono diversi (diversae sunt pronominis positiones in tertia persona, GL III.144.15) e Apollonio dice che la παραγωγή può cambiare la categoria del nome a cui si affigge, dal momento che il nome ποιετής è derivato dal verbo ποιέω (GG II/2.259.1)79. I passi di questo tipo, però, non sono per nulla frequenti, soprattutto prima di Prisciano (cfr. § II.9.3). D’altro canto, i passi in cui i grammatici analizzano più da vicino la struttura interna delle parole, in cui si legge qualcosa di davvero simile a ciò che noi oggi chiameremmo analisi morfologica o in cui si propone una regola di formazione di una parola non sono del tutto esclusi nei grammatici ma, certamente, rappresentano delle eccezioni. Inoltre, anche quando ci si imbatte davvero in passi di questo tipo, la forma di input per una regola di formazione di una parola è sempre una parola flessa, già provvista della sua desinenza, invece che un tema nel senso moderno del termine. Ad esempio, Diomede dice che i nomi in -a formano il diminutivo aggiungendo -ol-: galea → galeola (GL I.325.25). Nello stesso modo, Servio pensa che i nomi in -tor siano formati sostituendo il -tor all’ultima sillaba del supino, ut amatu amator (GL IV.430.279)80. E, discutendo i nomina agentis, Pompeo propone una regola generale secondo la quale i nomi derivati presentano un numero maggiore di sillabe rispetto ai nomi semplici da cui sono formati, come si vede nei diminutivi come in fons → fonticulus, dove il numero delle sillabe del derivato aumenta anche se il significato del derivato implica una “diminuzione” (quando sensus minuitur sa79 80 Passi simili comparivano già in Apollonio: αἱ δὲ προκείμεναι πρωτότυποι ἀντωνυμίαι θεματικώτερον ἐκλίθησαν (GG II/2.140.9-10, ma anche GG II/2.139.2, 229.14). Secondo la stessa logica, inoltre, Apollonio dice che la παραγωγή nei nomi è chiamata εἶδος, e che il nome acquisisce qualcosa di simile a una εἶδος nella modificazione della desinenza (ἡ μὲν ἐν τοῖς ὀνόμασι παραγωγὴ εἶδος καλεῖται. εἴδει γὰρ παραπλήσιόν τι παραδέχεται κατὰ τὴν ἑτεροίωσιν τοῦ τέλος, δι’οὗ γνωρίζεται, GG II/1.18.14). Una regola simile si trova anche in Cledonio (GL V.37.7-16) e Pompeo (GL V.149.1; V.148.8-18), secondo il quale, però, questo tipo di nomi si forma con l’aggiunta di -or al supino provvisto della -t-, non di -tor. L’età classica 79 epe crescit numerus syllabarum, GL I.325.25)81. Delle regole così dettagliate, però, sono piuttosto rare prima di Prisciano e sono utilizzate per stabilire la corretta forma dei nomi immagazzinati nel lessico ed evitare il barbarismo, più di quanto non siano utilizzate per descrivere il modo in cui i parlanti formano nuove parole (così già Vaahtera 1998, p. 92). Insomma, i grammatici descrivono molti dei dati che noi oggi esemplifichiamo nei capitoli dedicati alla formazione delle parole nelle nostre grammatiche sincroniche, ma usano le nozioni di positio e terminatio solo in modo molto limitato e le considerano solo delle parti di una parola o delle ex-parole, ma non le considerano delle unità significative autonome e indipendenti dalle parole intere in cui compaiono. In altre parole, i grammatici non ignorano affatto la formazione delle parole, ma la considerano soltanto un capitolo periferico all’interno della descrizione grammaticale sincronica, che riguarda soprattutto la flessione. La descrizione dei derivativa nomina, quindi, è quasi del tutto assente dalle regulae più semplici, è descritta in modo cursorio nelle Schulgrammatiken come la Τέχνη dionisiana, l’Ars minor di Donato e gli Instituta artium di Probo, dove i vari tipi di nomi derivati sono esemplificati, ma non sono discussi, ed è liquidata in circa 20 righe di testo in tutta l’Ars maior di Donato82. Solo Prisciano sembra, insomma, attribuire un’importanza particolare a questo tema. 81 82 I grammatici lamentano spesso questa discrasia tra forma e significato nei diminutivi, che come regola generale “diminuiscono” nel significato ma “aumentano” nella forma. Nello stesso modo, anche alcuni nomi come fabula, tabula, etc. sono definiti diminutivi sono, ma non sensu. Sul contrasto tra derivazione formale e derivazione semantica (o tra derivazione κατὰ φωνήν e κατὰ σημασία) si vedano la n. 19 § II.4.1, la n. 41 § II.6, il § III.2, le nn. 2324 § III.5.1 e i seguenti passi di Apollonio Discolo (GG II/3.39.31 ss.); degli scoliasti a Dionisio Trace (GG I/3.527.27 ss.); di Diomede (GL I.325.27 ss.); di Sergio (GL IV.429.22 ss.); di Servio (GL IV.429.23 ss.); di Pompeo (GL V.143.21 e 145.2 ss.) e di Consenzio (GL V.340.25 ss.). Per una discussione critica su questi passi, si vedano anche Biondi (2014, p. 144 e n. 31; 2018) e, in parte, Klink (1970, p. 26). Per la loro fortuna nel Medioevo, si veda Rosier-Catach (1992; 2008). Sulla classificazione delle diverse tipologie di grammatiche, si veda Law (1987, pp. 191 ss.). Per una interessante pratica di traduzione concernente il suffisso latino -īvus e il greco -ικός nella grammatica latina (ma scritta in greco) di Dositeo, si veda Benedetti (2018). 80 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 9.3 La posizione particolare dell’Ars Prisciani83 Prisciano, come tutti gli altri grammatici, descrive la forma delle parole immagazzinate nel lessico, piuttosto che la loro formazione. Tuttavia, si concentra sulla descrizione dei derivativa nomina molto più degli altri grammatici. Secondo Prisciano, infatti, tra gli scopi della grammatica c’è anche quello di spiegare […] quomodo derivantur, ex quibus primitivis i nomi patronimici e le terminationes dei nomi possessivi, ex qua ratione formantur, ex quibus positivis i comparativi e le loro extremitates, e quomodo nascuntur, ex qua primitivis i nomi denominativi (GL II.3.14 ss.). Inoltre, tutto il libro IV della sua ars, chiamato de denominativis, è dedicato allo studio delle parole derivate; e anche nei suoi lavori più piccoli, come le Partitiones, Prisciano si concentra sulla struttura interna delle parole più di quanto non sia abituale in tutte le altre artes. Nello stesso modo, Prisciano valorizza la nozione di terminatio più dei suoi predecessori, sia per identificare le classi flessionali dei nomi e dei verbi latini nei libri VI e VII, sia per descrivere la forma dei nomi e dei verbi derivati. Inoltre, elenca le terminationes più comuni dei nomi possessivi e dei diminutivi (GL II.69.20 ss. e II.102.5 ss.)84; discute le regole di formazione di alcuni tipi di nomi derivati, come i comparativi e gli avverbi in -ra, che cambiano -ra in -er prima di aggiungere -ior (cfr. extra → exterior, GL II.90.7)85; descrive in modo dettagliato il significato dei nomi derivati, come i nomi in bundus vero desinentia, che similitudinem habere significant (GL II.137.16 ss., che sembra quasi una replica a Gellio, Noct. XI.15.1-8, cfr. § II.8); analizza abbastanza di frequente i contrasti che si verificano tra la forma e il significato dei nomi derivati e non solo in riferimento ai diminutivi (si veda, ad esempio, il caso del nome Euripides 83 84 85 Il titolo tradizionale di Institutiones grammaticae trae la sua origine dal frontespizio dell’edizione di Keil, ma non è originale (De Nonno 1988, p. 279; 2009, p. 251). Lo stesso tipo di attenzione si trova anche in Dionisio Trace (GG I/1.25.3 ss.), che elenca i noi patronimici in -δης, -ων e -αδιος (cfr. Ἀτρείδης, Ἀτρείων e ῾Υρράδιος), i comparativi in -τερος, -ων e -σσων (cfr. ὀξύτερος, βελτίων e κρείσσων) e i superlativi in -τατος e -τος (cfr. ὀξύτατος e ἄριστος). Cfr. ab adverbiis vero derivata in ‘ra’ desinentibus mutant ‘ra’ in ‘er’, et accepta ‘ior’, faciunt comparativum, ut extra exterior… (GL II.90.7). L’età classica 81 che è un nome patronimico dal punto di vista formale, ma non lo è dal punto di vista semantico, o i nomi in -rius che non presentano un significato comune a tutti i membri della classe, dato che mensarium ‘tovaglia’ indica ciò che sta sul tavolo (quod in mensa est), mentre frumentaria è una legge che riguarda il grano (frumentum, cfr. GL II.63.4 e 75.1)86; si interroga sulla regolarità delle relazioni formali che legano i derivati dalle basi da cui sono formati, come, ad esempio, il contrasto tra la ā lunga in stāre ‘stare’ e la ă breve nel derivato stăbulum ‘stalla’ o la lunghezza variabile della vocale prima della terminazione -nus, cfr. Sullă ma sullānus, GL II.124.9 e 77.9)87. Chiaramente, le concezioni teoriche di Prisciano sono diverse delle nostre. Come ogni altro grammatico antico (ma anche come qualsiasi sostenitore moderno del lessicalismo à la Aronoff 1974 e Halle 197388), anche Prisciano pensa che la forma di input per costruire una parola derivata debba necessariamente essere un’altra parola già formata e provvista di una desinenza e che questa parola debba essere quella che formalmente è più simile alla parola derivata in questione, senza considerare la vocale tematica o gli aggiustamenti morfo-fonotattici del caso. Per Prisciano, ad esempio, i nomi possessivi in -cus come Cypricus o i nomi astratti in -tas come bonitas sono formati a partire dal genitivo singolare dato che, prima del suffisso, c’è effettivamente una -i- che, in apparenza, è identica alla -i del genitivo singolare; e i verbi iterativi come lecturio da lego si formano dal participio passato o dal supino, in modo che si possa giustificare la presenza della sequenza -tu- (GL II.69.25, 127.26 e 429.10). 86 87 88 Cfr. inveniuntur quaedam nomina formae patronymicorum significatione denominativa, ut Euripides, non Euripi filius sed a Euripo sic nominatus (GL II.63.2); et, quod iam supra diximus, sciendum, quod, quamvis forma sit possessiva haec, quae in ‘rius’ desinit, tamen diversae significationis nomina in hac quoque inveniuntur (GL II.75.1). Cfr. in a desinentia antecedente aliqua consonante seu vocali producta eadem a et accepta ‘nus’ faciunt derivativum supra dictae formae […], ut Sulla Sullānus (GL II.77.9); alia enim in ‘bulum’, quae forma assimilis est deminutivis, et veniunt a nominibus vel a verbis, ut ‘cuna cunabulum’ […]. et attendendo quod paenultima in omnibus corripitur, antepaenultima vero si i habeat, corripitur: vestĭbŭlum […], sin vero a, producitur: cunābŭlum […]; excipitur stăbŭlum, quod corripit a (GL II.124.9 ss.). Ovviamente, il lessicalismo antico non coincide con il lessicalismo generativista. Matthews (1993, pp. 92 e 106), però, ha mostrato che il postulato dell’unità della parola proviene in modo diretto dalla grammatica antica. 82 La morfologia derivazionale e il problema del tempo In qualche caso, dei ragionamenti filosofici di sapore stoico intralciano ancora il rigore dell’argomentazione linguistica. Nelle Partitiones, ad esempio, Prisciano si domanda se il verbo pre-esista al nome, o se non sia invece il contrario e il nome sia precedente al verbo, e si risponde che la questione dipende, in ultima analisi, da ipsa significatione et natura rerum. Coerentemente con questo approccio, quindi, Prisciano dice che il verbo armo ‘armare’ nasce dopo il nome arma ‘armi’, perché è impossibile armare qualcuno senza avere già un’arma a disposizione (GL III.462.35)89, ma altrove dice che i nomi cursus, cogitatio, cura e lector devono essere formati dai verbi currere, cogitare, curare e legere, perché una corsa, un pensiero o una cura o un lettore non possono esistere se prima non si accetta l’esistenza degli atti di correre, pensare, prendersi cura o leggere (GL III.480.5 e 463.4)90. In qualche caso, anche Prisciano indulge nelle derivazioni “creative”, come può essere la derivazione di fere ‘quasi’ da ferus ‘feroce’ (GL III.71.6-8, che segue un’idea tradizionale di Varrone, Ling. lat. VII.92), ma i passi di questo tipo sono eccezionali. Nel complesso, insomma, l’attenzione di Prisciano per i nomi derivati è effettivamente di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri grammatici, e la sua analisi più dettagliata e più efficace. È possibile chiedersi se questa attenzione per la derivazione fosse una caratteristica specifica del lavoro di Prisciano o, piuttosto, fosse una caratteristica tipica di tutta la divisio graeca. In generale, Prisciano non è l’inventore della teoria linguistica che utilizza; piuttosto, Prisciano adatta al latino un corpus di dottrine e di teorie grammaticali che erano state già sviluppate da Apollonio Discolo e che, con 89 90 Cfr. unde certum est, quando verbum a nomine et quando nomen a verbo nascitur? ex ipsa significatione et natura rerum. nam non possumus dicere armo nisi prius sint arma, quibus armemus aliquem (GL III.462.35). Cfr. et quaeritur verbum ex re an res ex verbo nascitur? et potius antecedit verbi actus, in hoc quo sine res esse non potest. nec enim cursus intellegi potest sine currente, nec cogitatio sine cogitante: sic ergo nec cura sine curante (GL III.480.5); contra autem a verbo nascitur nomen, quod non potest esse in aliquo, nisi prius actus verbi in eo intellegatur, ut, si dicas lector, intellego eum prius legere et sic ei id nomen do (GL III.463.4). Per questo tipo di derivazioni sensu, si vedano le nn. 17 § II.4.1, 41 § II.6, 81 § II.9.2; il § III.2 e le nn. 22-23 § III.5.1. Si noti che, in linea generale, per tutta la tradizione antica il nome è ontologicamente precedente rispetto al verbo (così già Apollonio Discolo, GG II/2.18.5). L’età classica 83 ogni probabilità, circolavano con una certa ampiezza, soprattutto tra i grammatici greci (così già Uhling GG II/3.iiii.1-3). L’attenzione alla derivazione, quindi, è probabilmente una caratteristica della divisio graeca in generale, una caratteristica che, con ogni probabilità, restava nascosta nella Τέχνη attribuita a Dionisio Trace per semplici ragioni di spazio (la Τέχνη, infondo, è un manualetto di poche pagine). Ciò detto, al di là dell’apprezzamento che Prisciano tributa ad Apollonio, maximus auctor artis grammaticae (GL II.548.6), e al figlio Erodiano (GL II.1.3 ss.), e al di là anche della oggettiva convenienza che Prisciano poteva trovare nell’utilizzare un modello descrittivo di tipo “greco” nei suoi insegnamenti di latino impartiti nella grecofona Bisanzio, poteva esserci anche un’altra ragione che suggeriva a Prisciano di privilegiare la divisio graeca91: nella tarda antichità si registra un interesse crescente per tutti gli aspetti etimologici, e la formazione delle parole era vista come la parte più recente dell’etimologia: Prisciano, che era il grammatico più attento alla formazione delle parole, forse non a caso è anche il grammatico che utilizza più frequentemente gli argumenta ab etymologia (si veda, tra i vari esempi possibili, il caso di coniugatio propter coniugatas consonantes, GL II.442.24)92. Prisciano, quindi, potrebbe aver adottato e, magari, rielaborato la divisio graeca anche per avvicinare la grammatica agli interessi etimologici tipici di quegli anni. 91 92 Si ricordi che Prisciano era nato in una famiglia latinofona della Mauritania; a causa dell’invasione vandala, si trasferì a Bisanzio con la famiglia e qui studiò e lavorò come docente di latino nell’università fondata da Teodosio II. Per quanto il bilinguismo greco-latino sia noto (si vedano, tra i vari, Adams 2003 e Mullen & James 2012), resta notevole che il testimone principale della divisio graeca sia il maggiore dei grammatici latini. Sulla vita di Prisciano, si veda Ballaira (1989, pp. 19, 29, 36). Sul suo ambiente linguistico, si veda Fortes (2009). Sulla sua relazione con i modelli greci, si vedano Holtz (1981, pp. 239 ss.), Lallot (2009) e Schmidhauser (2009). Sull’utilizzo del greco da parte dei grammatici romani, si vedano Desbordes (1988) e Basset et al. (2007). Il successo dell’etimologia nella tarda antichità è noto (Klink 1970; Amsler 1989, pp. 123 ss., 141 ss. e la n. 3 § III.2). Sulle etimologie dei grammatici in generale e, soprattutto, sulle etimologie di Prisciano, si vedano Amsler (1989, pp. 59 ss., 63 ss., 71 ss., 120 ss.) e Maltby (2009). Sullo “stoicismo” di Prisciano, si vedano Ebbesen (2009) e Luhtala (2009). Si noti che Prisciano, nella sua ars cita 49 volte Varrone, l’etimologista romano per eccellenza, mentre Donato cita Varrone solo 19 volte, Carisio lo cita 18 volte e Probo solo 3 volte (Collart 1954, pp. 343-4). La morfologia derivazionale e il problema del tempo 84 Insomma, è difficile immaginare come fosse percepita la differenza tra divisio latina e divisio graeca nel VI secolo d.C. o come venisse vista la particolare attenzione che Prisciano tributa all’analisi dei nomi derivati all’interno di questo contrasto. È probabile che, in questi secoli, Prisciano apparisse innanzitutto come un seguace della divisio graeca e che tutta la differenza tra divisio graeca e divisio latina apparisse, in primo luogo, come una differenza “geografica” (grammatica greca vs. latina), poi come una differenza filosofica (maggiore vs. minore attitudine filosofica), poi come una differenza cronologica (la divisio graeca è attestata più anticamente) e infine come una differenza pratica riguardante alcuni aspetti specifici della descrizione grammaticale (i.e. la divisione tra il nome comune, il nome proprio e l’epiteto; la classificazione degli accidenti comuni al nome e al verbo, etc.). Le grammatiche che adottavano la divisio graeca, in altre parole, potevano apparire come più in stile greco, più filosofiche, più antiche o anche solo più dettagliate nell’analisi dei nomi derivati; ma potevano anche apparire come grammatiche che includevano alcuni aspetti “etimologici” tipici di tutta la grammatica delle origini e, proprio grazie ad essi, potevano descrivere con maggiore precisione e maggiore generosità di informazione i dati sui nomi derivati. 10. I lessicografi Gli Alessandrini, per primi, si dedicarono all’esegesi delle parole che, per qualche ragione, richiedevano delle spiegazioni (λέξεις e γλῶσσαι), e organizzarono queste parole in λεξικά ordinati prima su base tematica, poi alfabetica93. Il loro scopo, in ultima analisi, era quello di registrare la forma corretta delle parole e, come accadeva anche in Gellio, l’etimologia era il principale criterio di scelta (Vaahtera 1998, pp. 101-3 e 108-115). 93 I primi lessici si limitavano alle parole omeriche, dialettali o gergali, ma a partire da Aristofane di Bisanzio si cominciarono a redigere anche i lessici degli oratori attici (Pfeiffer 1968, pp. 197 ss., Alpers 1990, pp. 20 ss.). Sia in Grecia che a Roma, inoltre, la pratica scolastica della διόρθωσις dei testi poetici incentivava la nascita della lessicografia (Degani 1998, pp. 1169 e 1185). Sulla lessicografia greca in genere, si veda Tosi (2015). L’età classica 85 Certo, in qualche caso, i lessicografi stabilivano la corretta forma di una parola anche solo ricorrendo all’analogia: atramentarium, non atramentale, ut lingnarium et armarium dice Flavio Capro nel De verbiis dubiis (II d.C., cfr. GL VII.108.3-4)94. Il più delle volte, però, i lessicografi seguono la pratica etimologica tradizionale e riportano le terminazioni alla forma “corrotta” di antiche parole. Per Paolo Diacono (VIII-IX d.C.), epitomatore di Festo (II d.C.), ad esempio, l’epiteto di Romolo Altellus era nato perché Romolo era altus in tellure, o perché tellurem sua aleret, o perché, chiamato da Tazio, re dei Sabini, alternis vicibus audierit locutusque fuerit; Altellus, quindi, doveva essere un diminutivo di alternus, come macellus lo era di macer e vafellus di vafer95. Questo tipo di spiegazione etimologica dei nomi derivati è la più frequente. Raramente i lessicografi si concentrano sulle terminazioni, se non nel caso di suffissi particolarmente frequenti o trasparenti (come i diminutivi, possessivi, comparativi, etc.). Paolo ex Festo, ad esempio, deriva avunculus dal nome avus, e dice: arca deminutivum facit arculam et arcellam, ut a porco porculum et porcellum, a mamma, mammula et mamilla (Linsday 1913, pp. 13 e 23). Solo in qualche caso si isolano dei veri e propri suffissi. In un frammento di Oro contenuto negli Ἐθνικά di Stefano di Bisanzio, ad esempio, si citano τὰ εἰς νος ἐθνικά, (Ἀσιανός, Ὀλβιανός etc.) e si discute la possibilità che i nomi in -νος si formino a partire dal genitivo singolare del nome corrispondente96. In qualche altro caso, ancor più raro del precedente, i lessicografi esaminano anche intere famiglie di parole, invece che parole 94 95 96 Lo stesso trattamento dei derivati si trova nei lessicografi greci. Oro (V d.C. ca.) dice che in ionico δημότης indica ‘una persona che viene dal popolo’, che in attico si chiama, invece, δημοτικός, mentre δημότης indica ‘una persona che viene dallo stesso demo’, così come φυλέτης indica ‘uno della stessa tribù’ da φυλή ‘tribù’ e λοχίτης ‘uno della stessa truppa’ da λόχος ‘truppa armata’ (SGLG 4, pp. 163-4, fr. 27). Cfr. Altellus Romulus dicebatur quasi altus in tellure, vel quod tellurem suam alaret; vel quod a Tatio Sabinorum rege postulatus sit in conloquio, et alternis vicibus audierit locutusque fuerit. Sicut enim fit diminutive a macro macellus, a vafro vafellus, ita a alterno altellus (Linsday 1913, pp. 6-7). Fr. 15.9 Meineke = α 33 Billerbeck, su cui anche Billerbeck (2011, pp. 4356): Ἄγκυρα […] τὸ ἐθνικὸν Ἀγκυρανός. Τὰ εἰς νος ἐθνικά, ἐαν ἀπὸ τῆς γενικῆς τοῦ πρωτοτύπου καθαρευούσης, τῷ α παραλήγει μακρῷ καὶ μιᾷ συλλαβῇ τῆς γενικῆς περιττεύει, οὐκ ἀναστρέφοντος τοῦ λόγου. 86 La morfologia derivazionale e il problema del tempo singole. Paolo ex Festo, ad esempio, riporta faculter, facile, facultas, difficultas e facilitas a facul; oppure riporta modicus, modestus, moderatio, commodus, commoditas, commodo, accommodo e modificatio a modus97. Non sempre, però, le parole riunite in una stessa famiglia sono davvero corradicali. Paolo ex Festo, ad esempio, riporta manis, mane e Matuta da mater, insieme con matrimonium, matertera, matrices, etc.98. Quindi, anche se in qualche caso i lessici discutono le terminationes o l’esistenza di famiglie di parole, non è in questo gruppo di opere che si trovano le notizie più rilevanti per la storia della derivazione, quanto meno per il periodo precedente al Medioevo (già Vaahtera 1998, p. 109). 11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del sapere e il problema del tempo nell’antichità greco-romana Cerchiamo di tirare le somme di quello che abbiamo detto fin ora. Le prime riflessioni linguistiche dei Greci precedono la distinzione tra linguistica e filosofia, quindi precedono anche la distinzione tecnica tra le nozioni di lingua e di linguaggio che è alla base di tutta la speculazione linguistica moderna. Omero, Esidio e gli Inni Orfici riflettono nello stesso tempo sull’origine delle parole greche, del linguaggio, del pensiero, e delle cose mondane, senza distinguere i tre piani in modo netto. Tra la fine dell’età arcaica e l’inizio dell’età classica cominciano a delinearsi due approcci distinti agli studi linguistici. In questa fase si tratta ancora di distinzioni minute e di sapore filosofico, ma coloro che accettano l’origine naturale del linguaggio e della lingua greca sono più interessati a studiarne l’origine, che viene percepita anche come la chiave per capirne il funzionamento in 97 98 Cfr. facul antiqui dicebant et faculter pro facile; unde facultas et difficultas videntur dicta. sed postea facilitas morum facta est, facultas rerum (Linsday 1913, p. 77); modo quodam id est ratione, dicuntur omnia ista: a modo fit commoditas, comodus, commodat, accommodat; modice, modeste, moderatio, modificatio (Linsday 1913, p. 155). Cfr. Mater Matuta, manis, mane, matrimonium, materfamilias, matertera, matrices, materiae dictae videntur, ut ait Verrius, quia sint bona, qualia scilicet sint, quae sunt matura, vel potius a matre, quae est originis Graecae (Linsday 1913, p. 155). L’età classica 87 atto, e considerano l’etimologia come lo strumento principale per tutta l’analisi linguistica. Coloro che credono nell’origine convenzionale del linguaggio, invece, si interessano di più a studiarne il funzionamento in atto, a prescindere dalle sue origini, ma si interessano poco all’etimologia. Nell’Atene del V secolo a.C. entrambi gli approcci vengono “fecondati” dal contatto con i dati linguistici empirici, ed entrambi gli approcci incrociano i dati empirici sui nomi derivati; ciascuno dei due approcci, però, descrive questi dati seguendo una prospettiva diversa. L’approccio etimologico offre, fin da subito, un quadro coerente per descrivere la genesi dei suffissi, un quadro che, in ultima analisi, è implicito nella teoria dei πάθη τῆς λέξεως (lat. accidentia nominum). Dopo la fase mitica della πρώτη θέσις (lat. prima (im) positio), le prime parole imposte dal Nomoteta sugli oggetti del mondo si sono unite tra loro in dei “proto-composti”; con il tempo, uno dei due membri di questi “proto-composti” – in genere il secondo – si è corrotto fino a formare quello che i grammatici più tardi chiamano “terminazione” (lat. terminatio, finis; gr. κατάληξις, τέλος o παραγωγή). Questo tipo di approccio “etimologico” all’analisi dei nomi derivati si vede già nel Cratilo di Platone e si ritrova, in termini tutto sommato simili, nei grammatici alessandrini, in Varrone, in Gellio e nei lessicografi. Se si esclude il De lingua latina di Varrone, però, nessuna di queste opere presenta un’analisi dettagliata dei nomi derivati, nessuna sembra aver sviluppato una specifica terminologia tecnica (che, in effetti, non è particolarmente sviluppata neppure in Varrone), e nessuna presenta una vera e propria classificazione dei nomi derivati simile a quella che compare nei grammatici. L’approccio “proto-sincronico” presenta un quadro più complesso. Tra la fine dell’età classica e l’età alessandrina, nelle sue opere poetico-retoriche, Aristotele inizia a identificare i diversi εἶδη ‘tipi’ di parole presenti nel λόγος, a prescindere dalla loro origine: in questo contesto, vengono identificati non solo il nome, il verbo, l’epiteto, la congiunzione e l’articolo, ma anche il nome ἀπλοῦν ‘semplice’, διπλοῦν o (συμ)πεπλεγμένος ‘composto’ e παρώνυμος ‘denominativo’ o solo ‘derivato’99. Questo approccio “retorico” 99 Per la congiunzione, si veda Rhet. 1407a21-26; per l’articolo, si veda Poet. 1456a6-10; per il nome e il verbo De int. 16a19; per l’epiteto Rhet. 1405a10 88 La morfologia derivazionale e il problema del tempo all’analisi dei nomi derivati doveva probabilmente comparire nei trattati greci di retorica e, di certo, si ritrova a Roma, con una terminologia già sostanzialmente vicina a quella dei grammatici, ma con pochi aspetti originali, nelle opere oratorie di Cicerone e Quintiliano; nel seguito della letteratura latina, però, l’analisi dei nomi derivati sembra uscire dagli interessi dei retori. Nella generazione successiva a quella di Aristotele, tutto l’insieme delle acquisizioni pratiche sulla lingua greca maturate a partire dall’antichità viene rielaborato in una nuova forma da Aristofane di Bisanzio e da Aristarco di Samotracia per “interpretare” al meglio i poemi omerici e, più in generale, il corpus letterario dell’età arcaica. In questo contesto, iniziano a comparire i termini che diverranno canonici per l’analisi dei nomi derivati: non solo εἶδος ‘specie’ e σύνθεσις ‘composizione’, che erano già in Aristotele, ma anche σχῆμα ‘forma’, παραγωγή ‘derivazione’ e συζυγία ‘coniugazione’. La scarsità delle testimonianze, però, non consente di stabilire se il sistema di classificazione dei nomi che si registra nei grammatici successivi si fosse già definito in questa fase; di certo, si può dire che l’approccio etimologico e l’approccio grammaticale all’analisi dei nomi derivati, in questa fase, avevano ancora diversi elementi di contiguità. Tra Dionisio Trace e la prima età imperiale, la grammatica, da scienza ausiliaria della filologia, si trasforma in scienza autonoma. Difficile dire quale fosse lo stato di avanzamento dell’analisi dei nomi derivati in questa fase, anche per l’enorme problema connesso con la datazione della Τέχνη generalmente attribuita a Dionisio Trace (cfr. n. 29 § II.5). Se si accetta l’autenticità della Τέχνη (come fa, anche se soltanto per ragioni pratico-espositive, Vaahtera 1998, p. 52) o, comunque, si ritiene che l’analisi dei nomi derivati della Τέχνη a noi pervenuta fosse simile a quella proposta da Dionisio Trace, allievo di Aristarco (come fa Matthaios 2004; 2008), già nel I-II secolo a.C. la classificazione dei nomi derivati doveva aver assunto un assetto abbastanza vicino a quello della divisio graeca; se invece, si rifiuta l’autenticità della Τέχνη, al di là dei suoi primissimi capitoli, non ci sono tracce di un ordinamento specifico dei nomi derivati fino ad Apollonio Discolo, nel II secolo d.C. Quale che sia la datazione più corretta della Τέχνη, e 1405b21-23. Per una analisi di questi passi, si veda Alfieri (2014). L’età classica 89 però, a partire almeno dal II d.C. è certo che i grammatici propongono un quadro teorico specifico al cui interno viene inquadrata tutta l’analisi dei nomi derivati. Innanzitutto, i grammatici distinguono, in modo abbastanza regolare, la derivazione (gr. παραγωγή, lat. derivatio) e la flessione (gr. κλίσις, lat. declinatio o inflexio), che può essere ulteriormente divisa in una flessione nominale (gr. πτῶσις, lat. declinatio, inflexio o casus) e una flessione verbale (gr. συζυγία, lat. declinatio, inflexio, coniugatio). Inoltre, i dati sui nomi derivati sono sempre descritti all’interno delle sezioni delle grammatiche dedicate alle partes orationis, nelle rubriche che si occupano di species (gr. εἶδος) o qualitas (gr. ποιότης) e figura (gr. σχῆμα) nominum. La classificazione dei nomi in queste rubriche, però, può seguire due tassonomie diverse. Nella divisio latina, che è meno aperta agli influssi filosofici e trova il suo massimo esponente nell’Ars maior di Donato, la derivazione è un argomento poco rilevante e poco considerato: in questo caso, si elencano diversi “tipi” di nomi, che sono definiti soprattutto (ma non solo) in chiave semantica, ma i derivativa nomina rappresentano solo una delle tante qualitates del nome, e le nozioni di terminatio e di positio vengono utilizzate poco e quasi soltanto in rapporto alla flessione. Nella divisio graeca, che è più aperta agli influssi filosofici, soprattutto di origine stoica e neo-platonica, e trova il suo modello principale nell’Ars di Prisciano, invece, tutta l’analisi dei “tipi” di nomi è incentrata sulla differenza tra parole semplici, derivate e composte; in questo caso, i dati sui nomi derivati sono descritti con più abbondanza di dettagli, le nozioni di terminatio e positio vengono impiegate con frequenza maggiore, sia nell’analisi della flessione, sia nell’ambito della derivazione, e alle categorie classiche dei nomina derivativa e dei nomina composita, si aggiunge anche la classe dei nomina decomposita (gr. παρασύνθετα). 11.1 Due approcci diversi all’analisi dei nomi derivati Alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo riesaminare il giudizio di Vaahtera citato all’inizio di questo capitolo (cfr. § II.1). Come abbiamo visto, secondo la studiosa, non è il caso di distinguere un approccio grammaticale e un approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati, perché le concrete pratiche di analisi di quei nomi sono all’incirca uguali nei due campi. 90 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Ora, in parte Vaahtera ha ragione. La divisione tra grammatica ed etimologia è un processo che muove i primi passi tra l’Atene del V secolo a.C. e l’età alessandrina, ma non è ancora concluso all’epoca di Varrone (così già Cavazza 1981, pp. 14 e 39) e, anche in seguito, i due campi hanno mantenuto molti punti di contatto: Aristofane e Aristarco, ad esempio, usano ampiamente gli argumenta ab etymologia nell’interpretazione omerica (cfr. § II.5); Varrone, nella sua opera etimologica, si occupa anche di argomenti tipicamente “grammaticali” come la definizione delle partes orationis (Ling. lat. VIII.11), la classificazione dei nomi derivati (cfr. § II.6) e la sintassi (che era discussa nell’ultima esade del lavoro, purtroppo perduta); e Dionisio Trace elenca l’etimologia tra i compiti della grammatica (cfr. GG I/1.5.4 ss.)100. Inoltre, il postulato dell’unità della parola e l’approccio “lessicalista” sono due assunti condivisi da tutti gli studiosi antichi, e questi due assunti informano tutte le concrete pratiche di analisi linguistica degli studiosi greci e romani, siano essi grammatici o etimologisti: quando si arriva all’analisi empirica di questo o di quel nome derivato, quindi, sia i grammatici sia gli etimologisti trattano le parole come unità sostanzialmente indivisibili, pur se dotate di una struttura interna. Inoltre, le attestazioni grazie a cui conosciamo l’approccio etimologico e l’approccio grammaticale all’analisi dei nomi derivati sono diverse tra loro per tipologia e cronologia, il che non facilita il confronto. L’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati affonda le sue radici in tutto il patrimonio sapienziale condiviso dai Greci fin dall’età arcaica e forma una linea di sviluppo sostanzialmente continua che percorre tutto l’arco dell’antichità, dal Cratilo di Platone alle Origines di Isidoro di Siviglia. Una linea di sviluppo continua, quindi, che, però, si è conservata in modo molto frammentario: se si escludono le note del Cratilo, le testimonianze indirette dei grammatici alessandrini, le riflessioni brillanti, ma asistematiche di Gellio e qualche nota, in genere di seconda mano, nei lessicografi, l’approccio etimologico allo studio dei nomi derivati ci è noto quasi solo grazie al De 100 La definizione della grammatica rientra nei primissimi capitoli della Tέχνη attribuita a Dionisio Trace; si tratta, quindi, della parte dell’opera più probabilmente autentica. Pur se originariamente databile tra il I e il II secolo a.C., però, questa definizione della grammatica doveva apparire attuale anche più tardi, visto che è l’unica parte dell’opera citata da Sesto Empirico tra il II e il III secolo d.C. (Adv. math. 57, 250). L’età classica 91 lingua latina, un’opera la cui reale originalità è notoriamente difficile da giudicare. L’approccio grammaticale all’analisi dei nomi derivati, invece, ci è nota grazie a un corpus di testi sostanzialmente uniformi (al netto della differenza tra la divisio latina e la divisio graeca) che è compreso tra la metà del II secolo a.C. e il VI secolo d.C., se si accetta l’autenticità della Τέχνη, o tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C. se la si rifiuta al di là dei primissimi capitoli (cfr. n. 29 § II.5). Tuttavia, ci sono delle buone ragioni per distinguere due approcci diversi all’analisi dei nomi derivati. La prima ragione è concettuale. Tanto i grammatici che gli etimologisti si occupano dei nomi derivati, ma arrivano a questo tema da due prospettive opposte. Mentre i grammatici classificano le parole registrate nel lessico in base alle loro “terminazioni”, gli etimologisti ricostruiscono l’origine delle parole e delle loro “terminazioni” a partire dalla loro prima positio101. La derivazione, insomma, per i grammatici, rappresenta la parte della grammatica più vicina all’origine del linguaggio e, per gli etimologisti, rappresenta la parte dell’etimologia più recente dal punto di vista ontogenetico-evolutivo (ossia, la parte più lontana dall’origine del linguaggio). Nel complesso, quindi, si tratta di due approcci che si confondono in un punto (l’analisi empirica dei nomi derivati), molto più di quanto non si tratti di un unico approccio. La seconda ragione per cui è utile distinguere l’approccio grammaticale e l’approccio etimologico all’analisi dei nomi derivati riguarda la terminologia tecnica. La diversità delle testimonianze grazie a cui ricostruiamo i due approcci, ovviamente, impone una buona dose di cautela sul tema. Ed è vero che, da Aristotele in poi, l’identificazione dei nomi composti è un patrimonio condiviso in entrambi gli approcci. La terminologia dei grammatici, però, ha già la stabilità tipica delle terminologie tecniche e si fonda su una distinzione abbastanza netta tra la derivazione (gr. παραγωγή, lat. derivatio) e la flessione (gr. κλίσις, lat. declinatio o inflexio). La 101 Anche la connessione tra derivazione e anomalia, così come le due classificazioni dei nomi derivati proposte da Varrone, non si trovano mai nei grammatici, neppure come semplici riferimenti. È vero, però, che queste due differenze possono dipendere dalla cronologia, più che dalla tipologia delle opere: la polemica tra analogisti e anomalisti si era ormai affievolita al tempo dei grammatici; ed è possibile che nel I secolo a.C., anche in ambito grammaticale, circolassero un numero maggiore di classificazioni dei nomi rispetto a quelle attestate nella divisio graeca e nella divisio latina. 92 La morfologia derivazionale e il problema del tempo terminologia degli etimologisti è meno stabile, e si basa su un’unica nozione di derivazione-flessione, che Varrone chiama declinatio, anche se poi divide la declinatio naturalis, simile alla nostra flessione, e la declinatio voluntaria, simile alla nostra derivazione. Inoltre, i termini positio e terminatio, pur senza essere frequenti, si trovano tra i grammatici, ma sono praticamente assenti nel De lingua latina, dove, invece, si trovano per la prima volta le nozioni di ‘radice’ (lat. radix, fons) e di ‘famiglia di parole’ (lat. societas, cognatio verborum), che sono ignote ai grammatici. Insomma, è possibile che queste differenze riguardino più la cronologia delle attestazioni che la tipologia dei testi. Però, mi pare improbabile che qualche diversità terminologica non fosse visibile, almeno in nuce, già all’epoca di Varrone, visto che i termini παραγωγή e παράγωγον sono attestati in Aristarco, derivatum si trova in Plinio il Vecchio, prima che nei grammatici, e la terminologia oscillante di Gellio ricorda quella di Varrone più che quella dei grammatici, anche se Gellio vive nel II secolo d.C., all’incirca nella stessa epoca di Apollonio Discolo. Con ciò non voglio dire che l’approccio grammaticale e quello etimologico allo studio dei nomi derivati siano diversi in tutto e per tutto. Al contrario. La riflessione grammaticale prende le mosse dalla stessa teoria dei πάθη τῆς λέξεως che è implicita nella teoria antica sull’etimologia ed è alla base di tutta la classificazione delle parole in tipi che si trova nei grammatici: per gli antichi, le parole sono formalmente simili, se hanno subito accidenti simili nel corso della loro evoluzione. Uno degli sforzi principali dei grammatici, quindi, è sempre stato quello di separare gli aspetti filosofico-etimologici della teoria dei πάθη dalle sue applicazioni empirico-descrittive. E questo sforzo è arrivato a risultati eccellenti in molti campi dell’analisi linguistica, a partire dalla flessione, fin dalla fine dell’età ellenistica o, al massimo, all’inizio dell’età imperiale. Lo studio dei nomi derivati e i termini tecnici utilizzati per questo studio, a partire dalle nozioni di positio e terminatio, però, rappresentano il campo del sapere linguistico in cui questa distinzione è stata più difficoltosa. Nell’analisi empirica dei nomi derivati, in altre parole, la distinzione tra grammatica ed etimologia effettivamente si perde un po’, come ha notato Vaahtera. Però, tenere distinti i due approcci dal punto di vista teorico e terminologico è, a mio avviso, cruciale sia per capire la teoria linguistica di tutta l’antichità classica, sia per spiegare il modo in cui sono stati trattati i nomi derivati tra il Medioevo e l’Età dei Lumi (cfr. cap. III). L’età classica 93 12. Il lascito della tradizione antica Se utilizziamo la mappa concettuale proposta nel § I.3 per descrivere la situazione in cui versava la storia della morfologia derivazionale tra la tarda età ellenistica e il VI secolo d.C. e, soprattutto, nell’ultima fase di questo arco temporale, all’incirca tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C., e, nello stesso tempo, accettiamo di distinguere un approccio “etimologico” e un approccio “grammaticale” nell’analisi dei nomi derivati, contro il giudizio tradizionale di Vaahtera, possiamo proporre una ricostruzione almeno in parte nuova della storia della morfologia derivazionale. In questi secoli, l’architettura del sapere linguistico si organizza attorno a due domini di ricerca principali: le opere etimologiche, che hanno un inquadramento di tipo “proto-diacronico” sull’asse del tempo, e le grammatiche, che hanno un inquadramento di tipo “proto-sincronico” sull’asse del tempo (per l’utilizzo del prefisso proto-, cfr. § II.12.1); i dati empirici sui nomi derivati sono descritti in entrambi i campi del sapere, ma sono descritti in modo diverso in ciascuno di essi. Gli etimologisti studiano l’origine delle parole e delle loro “terminazioni”; i grammatici (e, prima di loro, i retori) classificano i diversi tipi di parole che trovano nel lessico greco e latino anche sulla base delle loro “terminazioni”, ma a prescindere dalla loro origine. Se, quindi, riportiamo questi due gruppi di opere in una tabella analoga a quelle già proposte nel § I.3, otteniamo la figura seguente (fig. 6): Lingua-linguaggio Grammatiche Funzionamento Mutamento inquadramento: proto-sincronia derivatio: classificazione dei tipi di parole e delle loro terminazioni Opere etimologiche inquadramento: proto-diacronia derivatio: studio dell’origine delle parole e delle loro terminazioni Fig. 6, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e la derivazione tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C. 94 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Se confrontiamo questa architettura del sapere linguistico con quella vigente oggi, si vede chiaramente che tutte le riflessioni antiche sulle lingue e sul linguaggio nascondono due problemi teorici fondamentali e poco considerati che, pur se in modi diversi, ruotano entrambi attorno al “problema del tempo”: da una parte, la confusione (o, più precisamente, la mancata distinzione) tra le nozioni di lingua e di linguaggio (cfr. § II.12.1); dall’altra, l’inquadramento dei dati sui nomi derivati rispetto all’asse del tempo (cfr. § II.12.2). Poiché entrambi i problemi saranno centrali in tutto il seguito della storia della derivazione, è utile discuterli sin d’ora in modo esplicito. 12.1 La confusione tra lingua e linguaggio Ad un primo sguardo la confusione tra la lingua e il linguaggio ha poco a che fare con il problema del tempo. Eppure, questa confusione emerge con chiarezza se si considera l’inquadramento sull’asse del tempo tanto delle grammatiche, quanto delle opere etimologiche. Dal punto di vista moderno, infatti, le opere etimologiche si possono considerare “proto-diacroniche”, perché si occupano effettivamente dell’origine del linguaggio e della lingua greca o latina, come le grammatiche storiche attuali; tutta la teoria etimologica antica, però, confonde strutturalmente la dimensione pancronica, che oggi utilizziamo per studiare l’ontogenesi del linguaggio, e la dimensione propriamente diacronica, che oggi consideriamo necessaria per studiare la filogenesi delle famiglie di lingue o la storia delle singole lingue102. 102 La scarsa sensibilità degli antichi per la storicità delle lingue (i.e. per la diacronia distinta dall’ontogenesi) è nota. Già Muller diceva (1910, p. 226) che hinc igitur colligere possumus Varronem sensu historico maximopere ac saepissime caruisse; la stessa idea torna, più recentemente (e non solo in riferimento a Varrone) in Lallot (2011, pp. 249-50). Ovviamente, è possibile citare dei casi in cui gli studiosi antichi già si interessano alla storia, distinta dall’ontogenesi: Varrone, ad esempio, dice che consuetudo loquendi est in motu (Ling. lat. IX.17, cfr. Cavazza 1981, p. 158; Belardi 2002: II, pp. 322-3), e delle notazioni più o meno brillanti sulla diacronia del greco e del latino si trovano in alcuni passi di Platone (Lallot 2011); Cicerone (Adams 2007, p. 123 e Marotta 2018a; 2018b, pp. 407-9), Nigidio Figulo (Belardi & Cipriano 1990, Adams 2007, p. 174 e Mancini 2019a; 2019b), Quintiliano (Adams 2007, p. 194); Agostino e Consenzio (Löfstedt 1975; Adams 2007, L’età classica 95 Una confusione speculare si rileva in tutte le opere “proto-sincroniche”, pur se in modo meno evidente. In primo luogo, le speculazioni filosofiche di carattere più funzionalista, da cui nasce, in ultima analisi, l’interesse per la grammatica, si concentrano effettivamente sul problema del funzionamento, come le grammatiche sincroniche attuali, ma confondono la sincronia che serve per studiare una lingua con l’acronia che serve per studiare il linguaggio e il pensiero umano in assoluto (cfr. n. 4 § II.2). Questo tipo di confusione viene ereditato dalle grammatiche. È vero che, ad un primo sguardo, le grammatiche antiche si occupano del funzionamento di una lingua particolare (il greco o il latino), come le grammatiche sincroniche attuali. Però è anche vero che la grammatica antica si muove in una dimensione sostanzialmente monoglottica, e il monolinguismo non aiuta a distinguere le lingue e il linguaggio. È noto, infatti, che, per noi moderni, una delle prove più evidenti della differenza tra lingua e linguaggio è la diversità delle lingue: se le lingue sono molte e diverse tra loro, la facoltà del linguaggio rappresenta ciò che c’è di comune tra tutte, ma non coincide con nessuna. È altrettanto noto, però, che gli studiosi greci e romani trascurano proprio questa diversità103. Chiaramente, ciò non vuol dire che i Greci o i Romani negassero del tutto l’esistenza di lingue diverse dal greco o dal latino: già Omero, ad esempio, dice esplicitamente che le lingue sono diverse come le razze104. Se, però, tutto l’insieme dei non-grecofoni è visto come una massa amorfa di parlanti incomprensibili e un po’ ridicoli (βάρβαροι ‘balbuzienti’), come l’arciere scita delle pp. 192, 200; e Mancini 2001; 2002; 2005), Gellio (Mancini 2015) e Sergio (Loporcaro 2015, p. 20); più in generale, su questo tema, si vedano Fögen (2000) e Müller (2001). Le eccezioni, però, non mutano un panorama in cui, nel complesso, la confusione tra diacronia e ontogenesi era la norma. 103 Un giudizio di questo tipo sul monolinguismo antico si trova già in Pedersen (1962, p. 2) e Momigliano (1975), recentemente ripresi più recentemente da Werner (1989), Rochette (1995; 1997; 2007), Lambert (2009) e Gera (2003, p. 182), secondo cui “language and speech are virtually interchangeable concepts [sc. negli autori Greci]”: la stessa idea è ribadita per gli autori latini cristiani da Deneker (2017, p. 27). 104 Cfr. ἄλλη δ ἀλλῶν γλῶσσα πολυπερέων ἀνθρώπων (β 802); per un commento, si veda Gambarara (1984, pp. 39-73). Anche Varrone conferma l’esistenza di lingue “altre” dal latino quando dice che declinatio inducta in sermone non solum Latino, sed omnium hominum (Ling. lat. VIII.3). 96 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Tesmoforiazuse di Aristofane (vv. 1001 ss.), la diversità delle lingue è percepita a livello intuitivo, ma la sua importanza teorica di fatto è negata. Anche se riconoscono l’esistenza di lingue “altre” rispetto al greco e al latino, quindi, gli studiosi antichi si muovono in un orizzonte così inconsapevolmente – e, proprio per questo, così rigidamente – monolingue da avere sviluppato la tendenza a “universalizzare” qualsiasi affermazione sul greco o sul latino, intese come lingue particolari, per trasformarla in una affermazione sulla facoltà del linguaggio in generale, se non sul pensiero umano in assoluto105. La confusione tra lingua e linguaggio che è implicita nel monolinguismo che caratterizza tutta la cultura classica, a sua volta, determina o, almeno, contribuisce ad una certa confusione rispetto all’inquadramento delle grammatiche sull’asse del tempo. In altre parole, la sincronia, per noi moderni, è una nozione strutturalmente limitata nello spazio e nel tempo. Lo scopo dei grammatici, però, non è tanto quello di descrivere il funzionamento del greco o del latino in uno specifico luogo o in un dato momento storico, diverso dai precedenti e dai successivi, ma piuttosto quello di preservare l’ἑλληνισμός o la latinitas, per “proteggere” la lingua della tradizione aurea dal solecismo e dal barbarismo e, quindi, di fatto, per sottrarla dal suo divenire storico; lo stesso divenire storico che, per noi, rappresenta la dimensione più propriamente e più irriducibilmente “cronica” della lingua ma, per tutti gli antichi, rappresenta 105 Il modo in cui viene concettualizzato il rapporto tra latino e greco nell’antichità porta un’ulteriore conferma della sostanziale negazione della diversità delle lingue tipica della cultura classica. Per noi moderni, il greco e il latino sono lingue diverse. Se, però, la diversità delle lingue non è riconosciuta a pieno, allora è necessario ricondurre a unità la differenza tra le lingue classiche e, per farlo, si possono seguire due strade. Il latino e il greco possono formare un’unità genealogica, come dice Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. I.90.1 e I.33.4,) seguito da molti intellettuali greci attivi a Roma (più che dagli eruditi romani, cfr. De Paolis 2015), secondo il quale il latino discendeva dal greco eolico o dall’arcadico. Oppure le due lingue possono formare un’unità tipologico-culturale, come dice Macrobio quando parla di una coniunctissimam cognationem e un similem cultum che unisce il greco e il latino e li distingue, come unità, da tutte le altre lingue, che si esprimono solo per aneliti o sibili (aut anhelitu aut sibilo), non hanno le partes orationis, né le stesse componendi figurae, né le altre proprietà che definiscono le lingue classiche (GL V.631.5 ss.; per un commento su questo passo, si veda Desbordes 2007 [19951], pp. 220-21). L’età classica 97 solamente una progressiva “corruzione” nel tempo106. Le grammatiche dell’antichità, insomma, sembrano sincroniche, ma in realtà sono solo “proto-sincroniche”, perché confondono la sincronia necessaria per studiare il funzionamento delle lingue particolari e l’acronia necessaria per studiare il funzionamento del linguaggio in generale. 12.2 L’inquadramento dei dati sui nomi derivati Il secondo problema implicito nell’architettura del sapere ritratta nella fig. 6 riguarda l’inquadramento sull’asse del tempo dei dati sulla formazione delle parole. Per noi moderni, questi dati riguardano la sincronia, anche se la nozione di derivazione in quanto tale può essere intesa tanto in chiave sincronica, quanto in chiave diacronica, pancronica o acronica (cfr. § I.3). Per gli antichi, invece, la derivazione in quanto tale è primariamente una nozione proto-diacronica (i.e. pancronica, ontogenetica o etimologica), così come sono pancronico-ontogenetiche le nozioni di terminatio e positio grazie alle quali si analizza la struttura interna delle parole; i dati empirici sulla formazione delle parole, però, sono descritti, in modo tutto sommato simile, tanto nelle opere etimologiche, quanto nelle grammatiche. Inoltre, in nessuno dei due campi questi dati hanno un trattamento univoco: Varrone e Gellio descrivono i dati sui nomi derivati con una qualche abbondanza, ma lo stesso non si può dire degli altri etimologisti. Ugualmente, Prisciano descrive i dati sui nomi derivati con una certa generosità, ma lo stesso non si può dire di Donato, Carisio e, in generale, delle grammatiche che utilizzano la divisio latina. I dati sui nomi derivati, quindi, sono descritti sia nelle grammatiche, sia nelle opere etimologiche, ma non sono centrali in nessuno dei due campi del sapere; inoltre, in tutti e due i campi si registra una forte variabilità nel trattamento di questi dati, e certi autori se ne occupano assai più di quanto non facciano altri. 106 Le nozioni di ἑλληνισμός e latinitas indicano “ce qu’il y a de proprement grec dans le grec, de proprement latin dans le latin, indépendamment des temps, lieux, personnes qui les emploient” (Baratin & Desbordes 2000 [19861], pp. 77; sul tema, si vedano anche Holtz 1981, pp. 137 ss., Baratin 1989, pp. 350360, e Pagani 2014). Si tratta, quindi, di nozioni strutturalmente “acroniche”. 98 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Questa distribuzione dei dati sulla formazione delle parole è chiaramente problematica, e lo è per almeno due ragioni. La prima riguarda la divisione tra le opere etimologiche e le grammatiche. È chiaro che, se uno stesso “pacchetto” di dati viene descritto, all’incirca nella stessa forma o, comunque, in una forma simile, tanto nelle grammatiche proto-sincroniche, quanto nelle opere etimologiche proto-diacroniche, la distinzione tra proto-sincronia e proto-diacronia, si perde un po’, almeno per quanto riguarda l’analisi dei dati empirici sui nomi derivati. In altre parole, se la distinzione tra grammatica ed etimologia in generale è complessivamente stabile fin dalla prima età imperiale (o prima, se si accetta l’autenticità della Τέχνη dionisiana), l’inquadramento dei dati sui nomi derivati nell’uno o nell’altro campo del sapere, ancora nel VI secolo d.C., non si può dire che sia altrettanto chiaro: i dati sulla morfologia derivazionale, insomma, si trovano nel punto esatto in cui la proto-sincronia e la proto-diacronia si toccano, confondendosi tra loro. Un problema simile si verifica all’interno delle grammatiche, nel contrasto tra la divisio graeca e la divisio latina: se la derivazione in quanto tale è una nozione primariamente proto-diacronica, come credevano tutti gli antichi, più una grammatica descrive i dati sui nomi derivati, più questa grammatica inevitabilmente finisce per includere degli aspetti proto-diacronici nella descrizione grammaticale proto-sincronica. In altre parole, al di là dei suoi aspetti più semplicemente “geografici”, filosofici e pratici, la differenza tra le due divisiones nasconde due modalità opposte di gestire il contrasto tra la natura primariamente proto-diacronica della nozione di derivazione e l’inquadramento proto-sincronico della grammatica: la divisio latina propone un modello di grammatica meno informativo, perché esclude il più possibile i dati sulla formazione delle parole che per noi moderni riguardano la sincronia, ma anche più coerente, perché rispetta di più l’inquadramento proto-sincronico dell’analisi grammaticale sull’asse del tempo; la divisio graeca, al contrario, propone un modello di grammatica più informativo, perché descrive anche i dati sulla formazione delle parole, ma anche meno coerente nel suo inquadramento sull’asse del tempo, perché finisce per riunire all’interno di una sola opera sia dei dati schiettamente proto-sincronici, come quelli sulla flessione, sia i dati sulla derivazione che, almeno per gli antichi, sono primariamente proto-diacronici. L’età classica 99 Insomma, l’antichità lascia in eredità agli studi linguistici successivi due problemi teorici molto complessi da identificare, ma piuttosto rilevanti. Da una parte, la confusione tra lingua e linguaggio; dall’altra una sorta di “contesa” tra le grammatiche e le opere etimologiche e, all’interno delle grammatiche, tra la divisio latina e la divisio graeca sui principi di pertinenza che legano i dati sui nomi derivati ai diversi campi del sapere e, quindi, sul loro inquadramento rispetto all’asse del tempo. Apparentemente, entrambi i problemi sono anacronistici, perché nessuno dei due viene mai discusso in forma esplicita in questi secoli. Eppure, la percezione di questi problemi non è solamente moderna. Anzi, nei termini di Foucault (cfr. n. 2 § I.3), si può dire che le diverse risposte che gli studiosi attivi tra il Medioevo e l’Età dei Lumi daranno, ora alla confusione tra la lingua e il linguaggio, ora all’inquadramento dei dati sui nomi derivati rappresentano l’“a priori logico” e le “condizioni di possibilità” che determinano non solo tutta la storia successiva della nozione di morfologia derivazionale, ma più in generale, tutti i mutamenti che ha subito l’architettura del sapere linguistico tra l’antichità e Bopp. CAPITOLO III: DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ DEI LUMI 1. Introduzione La seconda questione storiografica di cui vorrei occuparmi per mostrare la relazione che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e il problema del tempo riguarda il periodo compreso tra il Medioevo e l’Età dei Lumi o, più precisamente, il periodo compreso tra il Medioevo e Adelung (1781; 1782; 1783). Anche in questo caso, la scelta di un lasso di tempo così ampio dipende da una questione di carattere generale che riguarda l’architettura del sapere linguistico comunemente accettata in questi secoli, ma che emerge in modo particolare se ci si concentra sulle grammatiche “filosofiche” prodotte tra la seconda parte del Medioevo e il XVIII secolo. Di norma, si ritiene che l’architettura del sapere linguistico vigente in questi secoli si articoli attorno a tre filoni di ricerca principali1: le grammatiche practicae; le grammatiche rationales; e gli studi sull’origo linguae. Secondo questa ricostruzione, che risale almeno a Jellinek (1913) e Padley (1976-1988), ma è accolta in modo più o meno esplicito, ma tutto sommato concorde, da tutti i manuali contemporanei di storia delle idee linguistiche, le grammatiche rationales formerebbero una linea di sviluppo sostanzialmente continua che comincia con le grammaticae speculativae dei Modisti pubblicate tra il XII e il XV secolo, prosegue nel XVI secolo con le grammatiche razionali di Ramo, Scaligero e Sanzio, e si conclude tra il XVII e il XVIII secolo, con le grammatiche generali francesi da una parte, e le grammatiche “razionalistiche” tedesche di Scottelio e di Adelung dall’altra. 1 Per la nozione di architettura del sapere in generale, si veda la n. 2 § I.1. Per l’analisi concreta dell’architettura del sapere linguistico tra la fine del Medioevo e l’Età dei Lumi, si vedano Dubois (1970), Tavoni (1990) e Simone (1990). 102 La morfologia derivazionale e il problema del tempo È facile trovare le tracce di questa idea vulgata nei manuali contemporanei. Padley (1976, pp. 58 ss.), ad esempio, riunisce in un unico capitolo Ramo, Scaligero e Sanzio, trascurando le differenze di approccio, anche profonde, che separano Ramo da una parte e Scaligero o Sanzio dall’altra. Nello stesso modo, Robins (1997, pp. 131 e 146) tratta Scaligero come un continuatore dei Modisti; Seuren (1998, pp. 46-7), seguendo Padley (1988, pp. 269 ss.), vede Arnauld e Lancelot come dei semplici eredi di Sanzio; Jellinek (1913, p. 66) e Padley (1985, pp. 224-231; 1988, pp. 267, 306 ss.) fanno rientrare i lavori di Scottelio e, in buona parte, anche di Adelung nel filone delle grammatiche “filosofiche”, “universalistiche” o “razionalistiche”, e così fa anche McLelland (2011), al netto di qualche precisazione. E Itkonen (1991, pp. 259 ss. e 271 ss.) semplicemente ignora le grammatiche di Scottelio e Adelung, circoscrivendo la grammatica “filosofica” a quel filone di studi che unisce i Modisti a Port Royal, passando per Scaligero e Sanzio. In certi casi, questa vulgata viene temperata distinguendo una tradizione latina e delle vernacular grammars che possono essere parzialmente diverse da paese a paese, come fa, ad esempio, Padley (1988). E non c’è dubbio che, tra le varie tradizioni “vernacolari”, spicca in modo particolare la grammatica tedesca, che sembra essere dotata di alcuni tratti specifici che non si lasciano facilmente ingabbiare nell’etichetta canonica di “grammatica pratica” né in quella di “grammatica razionale”2: alcuni studiosi, infatti, hanno proposto di vedere nell’opera di Scottelio e soprattutto nella sua teoria sui Wurzelwörter i tratti più salienti delle grammatiche “razionali” tedesche, anche se la “razionalità” della nozione di parola-radice e di queste grammatiche tedesche ha ben poco in comune con la “razionalità” della grammatica francese del XVII-XVIII secolo, al di là del termine “razionale” (così, ad esempio, Faust 1981 e Güzlaff 1989a; 1989b, la cui tesi è stata ripresa recentemente da McLelland 2010; 2011). 2 Qualsiasi storia delle grammatiche tedesche, come quelle di Jellinek (1913), Moulin-Frankhänel (2000) e, in parte, Gardt (1994; 1999), implica de facto la presenza di una qualche specificità della grammatica tedesca che non è riducibile alle categorie tradizionali di “grammatica generale” e di “grammatica pratica”. Ed è vero che il termine “generale”, se riferito alle grammatiche “generali” di Vater (1801; 1805) ha un senso molto diverso di quello che lo stesso termine ha se si parla di Arnauld e Lancelot (Spitzl-Dupic 2003). Dal Medioevo all’età dei Lumi 103 Nel seguito di questo capitolo, però, vorrei cercare di mostrare che non è tanto il caso di temperare una vulgata storiografica in sé sostanzialmente corretta, ma piuttosto di mostrare che tutta la vulgata opinio secondo cui l’architettura del sapere linguistico tra la fine del Medioevo e l’Età dei Lumi sarebbe composta da tre comparti di ricerca principali (i.e. grammatiche pratiche, grammatiche “filosofiche” o “razionali”, e opere sull’origine del linguaggio), ovvero che le grammatiche “filosofiche” esprimerebbero una linea di ricerca sostanzialmente continua e che le grammatiche vernacolari sarebbero divisibili su base primariamente geografica (i.e. Francia vs. Germania), dipende da un malinteso storiografico o, quanto meno, da una certa superficialità nell’analisi delle grammatiche “filosofiche”, del loro inquadramento sull’asse del tempo e, soprattutto, del modo in cui interpretano la nozione di derivatio. 2. Lessicografia, etimologia, ontologia e derivazione nel Medioevo Come abbiamo visto, quanto meno a partire dall’età imperiale tutta l’architettura del sapere linguistico si fonda su due domini di ricerca principali, le opere etimologiche e le grammatiche, e ciascuno di questi due gruppi di opere propone un diverso approccio allo studio dei nomi derivati: i grammatici classificano la forma delle parole presenti nel lessico sulla base delle loro terminationes, ma a prescindere dalla loro origine, e gli etimologisti si occupano dell’origine delle parole e delle loro terminationes. Questo tipo di organizzazione del sapere si continua senza grandi modifiche strutturali nell’alto Medioevo. Gli interessi etimologici che erano finiti un po’ in secondo piano durante l’età imperiale, però, nella tarda antichità trovano un nuovo vigore. Probabilmente, il nuovo interesse etimologico nasce in parte dalle pratiche etimologiche tipiche dell’onomastica sacra che circolavano nelle opere degli ebrei ellenizzati come Filone d’Alessandria o Giuseppe Flavio (Mancini 2018, p. 444), in parte dalla confusione tra pensiero e linguaggio tipica della teoresi medievale3. In un passo mol3 Il rinnovato interesse per l’etimologia che si verifica nel primo Medioevo è noto: si vedano, tra i vari, Klinck (1970) e Amsler (1989, pp. 59 ss., 63 ss., 71 ss.). Grazie agli argumenta ab etymologia, infatti, i Padri della Chiesa 104 La morfologia derivazionale e il problema del tempo to famoso del De interpretatione (De int. 16a3 ss.), Aristotele dice che le forme scritte (τὰ γραφόμενα) sono i simboli delle forme vocali (τὰ ἐν τῇ φωνῇ), e che a loro volta, le forme vocali sono i simboli delle passioni dell’anima (παθήματα τῆς ψυχῆς); però, se le forme scritte e quelle vocali sono diverse nei diversi luoghi del mondo, le passioni dell’anima sono all’incirca le stesse per tutti gli uomini. I commentatori medievali, che leggevano le opere di Aristotele in latino, alla luce dell’ontologia neoplatonica e della metafisica cristiana, intesero questo e simili passi come se Aristotele stesse sostenendo che la variabilità delle espressioni foniche e grafiche rappresentasse l’aspetto superficiale di una sostanziale identità tra il linguaggio, il pensiero e l’essere nell’anima dell’uomo, anche se, in realtà, Aristotele non aveva mai detto, né probabilmente mai pensato una cosa del genere4. Anche se filologicamente scorretta, l’identità tra pensiero, linguaggio ed essere che i commentatori attribuivano ad Aristotele, però, incentivava l’interesse per l’etimologia. Se, come diceva Ammonio, nomina quidam existentiam significant rerum (Comm. in Ar. de int. § 2, nella traduzione di Guglielmo di Moerbka, cfr. Verbeke 1961: 57), allora determinare l’origine di un nome poteva davvero svelare l’adeguatezza ontologica dell’oggetto nominato: dum videris unde ortus est nomen, citius vim eius intellegis (Isidoro, Or. I.29.4) e, specularmente, nisi enim nomen scieris cognitio rerum perit (Isidoro, Or. I.7.1). 4 riuscivano a trovare nei testi pagani quelle verità cristiane che gli antichi potevano esprimere soltanto in forma allegorica (Amsler 1989, pp. 87-93, 123 ss., 141 ss.). Il passo è il seguente: ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ. Καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φοναὶ αἱ αὐταί. Ὧν μέντοι πρῶτον, ταὐτά πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα, πρᾶγμα ἤδε ταὐτά. Sulla distinzione tra categorie dell’essere e categorie del linguaggio in Aristotele, si vedano Belardi (1975, pp. 38-61) e Itkonen (1991, pp. 175 ss.); per la loro confusione nei commentatori di Aristotele, si vedano Isaac (1956), Bursill-Hall (1971, pp. 133 ss.), Di Cesare (1980, pp. 160 ss.), de Rijk (1981), Arens (1984, pp. 71 ss., 171 ss.), l’antologia curata da Braakuis, Kneepkens et al. (2003) e Alfieri (2014). In particolare, l’idea secondo cui il discorso vocale sarebbe una copia imperfetta di un discorso perfetto che ciascuno agisce nella sua anima universale (il cosiddetto gr. ἐνδιάθετος λόγος, lat. verbum cordis) risale a Plotino (ὅ ἐν τῇ φωνῇ λόγος μίμημα τοῦ ἐν τῇ ψυχῇ, En. I.2.3), e torna in Ammonio e Agostino (Busse 1897, p. 57, Arens 1980 e Rosier-Catach 2009) e in Boezio di Dacia (Pinborg & Roos 1969, pp. 3-6). Sulla scarsa conoscenza del greco da parte degli autori latini medievali, da ultimo si veda la ricca analisi di Deneker (2017, pp. 13 ss.). Dal Medioevo all’età dei Lumi 105 Nonostante il rinnovato interesse per l’etimologia, però, l’analisi empirica dei nomi derivati non riscuote un particolare successo in questi secoli. Isidoro di Siviglia, ad esempio, tramanda al Medioevo tutto il patrimonio sapienziale di tipo “stoicheggiante” che faceva da sfondo all’etimologia antica, ma non include in questo patrimonio l’analisi empirica dei nomi derivati che, per Varrone, rappresentava un tassello irrinunciabile dell’etimologia. In altre parole, Isidoro cita l’opposizione tra nomina derivativa (o paragoga) vs. principalia (o prototypa) in tre o quattro passi delle sue Origines, ma si limita a citare le categorie classiche di species e figurae, senza darne alcuna analisi (i.e. Or. XVII.5.9 e XX.9.7). Tra l’altro, gli esempi di derivazione scelti da Isidoro per esemplificare species e figurae sono indicativi dello stesso cambiamento di prospettiva che si nota nei commenti ad Aristotele: oltre al caso tipico di montanus ‘montano’ da mons ‘monte’ (Or. I.7.8), che era uno degli esempi più tipici di derivazione già nei grammatici romani, Isidoro cita soprattutto dei casi di derivazione “semantica” (i.e. sensu e non litteratura, per dirla con Biondi 2014; 2018), ovvero dei casi in cui un nome “più specifico” viene derivato da un nome “più generale” per ragioni di adeguatezza ontologica dei rispettivi significati, anche se il nome primitivo, dal punto di vista formale, è “più lungo” del nome derivato corrispondente, come nei casi di a bonitate bonus et a malitia malus, ma anche di homo ab humanitate e di sapiens a sapientia (Or. II.26.4 e X.1, cfr. n. 19 § II.4.1, n. 41 § II.6 e n. 81 § II.9.2). Lo stesso tipo di approccio, più filosofico che grammaticale o, al massimo, più interessato all’adeguatezza ontologica dei referenti e all’etimologia remota, che all’analisi tecnica dei nomi derivati, si ritrova in quasi tutti gli studiosi del Medioevo. Nelle Categorie (1a12 ss.), Aristotele aveva definito il nome παρώνυμον, ossia il nome ‘derivato’ o ‘denominativo’, come γραμματικός ‘grammatico’ rispetto a γραμματική ‘grammatica’ e ἀνδρεῖος ‘coraggioso’ rispetto ad ἀνδρεία ‘coraggio’ (cfr. § II.4.1). Boezio, nel suo commento alle Categorie, traduce παρώνυμον con denominativum e dice che, perché ci sia effettivamente “partecipazione” del nome di base in un suo derivato, sono necessarie tre condizioni: partecipazione del nome derivato nella cosa significata, partecipazione del nome derivato nel nome (i.e. partecipazione alla stessa “radice”), e la presen- 106 La morfologia derivazionale e il problema del tempo za di un qualche tipo di cambiamento tra il nome e il suo derivato5. Anselmo d’Aosta traduce il denominativum di Boezio con sumptum e aggiunge che i nomina sumpta condividono la significatio con il loro nome di base ma non la loro appellatio: albus e albedo, in questo quadro, “significherebbero” la stessa cosa, ma la “appellerebbero” secondo un diverso modus (il termine come vedremo sarà fondamentale per lo sviluppo della successiva grammatica modistica, cfr. § III.5); inoltre, aggiunge Anselmo, poiché albedo ‘biancore’ indica una nozione più generale di albus ‘bianco’, è albus che è derivato da albedo e non viceversa (De gram. 14-5 = Schmitt 1946: 155-6). All’interno della disputa sugli universali, Abelardo riprende la questione sollevata da Anselmo e aggiunge che albedo indica la nozione di ‘biancore’ secondo la categoria della sostanza, mentre albus indica la stessa nozione di ‘biancore’ ma de forma adiacente (GSCat = Geyer 1919, p. 116.3 ss.), ovvero secondo la categoria della qualità accidentale, e conclude che i nomina sumpta, come grammaticus e albus sono derivati dalle qualità accidentali degli enti (GSPer IIII.1.3 = Geyer 1919, p. 311.14 ss.)6. L’idea di derivare nozioni “semanticamente” più specifiche da nozioni “semanticamente” più generali, anche a prescindere dalla forma effettiva dei significanti che veicolano queste nozioni, è perfettamente coerente con la nuova filosofia sostanzialista del Medioevo, ma è chiaramente diversa dall’idea che era alla base della definizione del nome παρώνυμον in Aristotele. Le Notae Dunelmenses, quindi, cercano di ricomporre il contrasto tra i due approcci, spiegando che Aristotele e i filosofi avrebbero derivato albus da albedo, respiciens ad causas rerum, ovvero tenedo presente la verità ontologica degli enti nominati, mentre Prisciano e i grammatici avrebbero derivato albedo da albus, respiciens quasi ad origines 5 6 Cfr. prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam nominis transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim quaedam fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis participationem, fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio, fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis terminantur (PL 64, 168A). Per un commento al passo, si vedano Henry (1964, pp. 80-82), Maierù (1972, pp. 54 ss.), Ebbesen (1988), Rosier-Catach (1992, pp. 78 ss.) e Kelly (2002: 82-3). GSPer III.1.3 (= Geyer 1919, p. 311.14): sumpta sunt a quibusdam proprietatibus non substantialibus ita nec eorum definitiones non secundum substantia facta sunt, sed secundum quasdam proprietates accidentales. Un’idea simile si ritrova in Guglielmo di Conches (Fredborg 1973, pp. 7-11; 1977, p. 36 n.). Dal Medioevo all’età dei Lumi 107 et informationes vocabulorum, ovvero considerando l’origine delle parole e la loro forma esterna (ad lii. 15, mss. Durham, Cathedral Library C.IV 29, cfr. Ebbesen 1988 e Rosier-Catach 1992, p. 85)7. La stessa idea torna, ancor più chiaramente, in Pietro Helia, che distingue in modo netto nomina derivata e nomina sumpta (aliud est derivari, aliud sumi): i nomina derivata riguardano i grammatici e dipendono dalla forma esterna dei nomi, mentre i nomina sumpta dipendono dal significato e, quindi, riguardano i filosofi; in altre parole, dal punto di vista grammaticale prudentia è derivato da prudens, perché ha più sillabe, ma dal punto di vista filosofico è prudens che deriva da prudentia, perché la qualità generale della prudenza necessariamente pre-esiste la presenza di un particolare uomo prudente (Summa super Priscianum = Reilly 1972, ad Il, 28, mss. Ars 711 f. 23rb, cfr. Rosier-Catach 1992, p. 85)8. L’eco di questo tipo di discussioni sulla differenza tra nomi derivati e nomi sunti, ovvero tra derivazione semantico-ontologica e derivazione linguistico-formale, emerge bene nella lessicografia medievale, dove però il problema acronico-metafisico della derivazione semantica si mescola con la prospettiva pancronico-ontogenetica tipica dell’antichità. Nell’Elementarium di Papia (XI d.C.), nel Liber derivationum di Osberno di Gloucester (XII d.C.), nelle Derivationes di Uguccione da Pisa (XII d.C.) e nel Catholicon di Balbi (XIII d.C.) tutta la lingua latina sembra essersi effettivamente costituita a partire da un certo numero di primae voces, che Uguccione da Pisa chiama, appunto, magnae derivationes. In questo quadro, la disciplina deri7 8 Cfr. Aristoteles enim dicit album denominari ab albedine, respiciens ad causas rerum, Priscianus vero albedinem ab albo, respiciens quasi ad origines et informationes vocabulorum. La tesi di Pietro Elia torna anche in Alain de Lille (Summa quoniam homines = Glorieux 1954, p. 150): Eorum vero quae per causam de Deo dicuntur, alia sunt principalia, alia sumpta. Principalia, ut misericordia, pietas, iustilia; sumpta ut pius, iustus, fortis. Principalia autem quia magis spectant ad simplicitatem quam sumpta, minus improprie dicuntur de Deo quam sumpta; unde minus improprie dicitur esse pietas quam pius. Quare in theologia sumpta exponenda sunt per principalia, ut pius id est pietas non pietas id est pius. In naturalibus vero, quia naturalia ad compositionem spectant, principale exponitur per sumptum, ut daunus est ipsum scelus, id est maxime sceleratus. Per un commento, si veda Rosier-Catach (1992, p. 82). 108 La morfologia derivazionale e il problema del tempo vationis rappresenta la scienza che consente di riportare ogni parola alla sua origine, riscoprendo le relazioni profonde che legano tra loro le primae voces e i loro derivati, ovvero i nomi e le cose di cui quegli stessi nomi sono rappresentazione9. Papia (Elem., s.v. derivatio), ad esempio, ci racconta che queste relazioni possono essere di tre tipi: sia formali che semantico-concettuali (i.e. litteratura et sensu), ut ab aur[e]o aureus; solo formali (i.e. littera e non sensu, ut a fero fere); oppure solo semantico-concettuali (i.e. sensu et non littera, ut ab uno semel). Chiaramente, il terzo tipo di derivazione apre un problema filosofico di un certo rilievo. Se è davvero possibile derivare sensu et non litteratura, allora è possibile trascurare la forma esterna delle parole per discutere la loro derivazione e sostenere, come facevano alcuni, che albus derivi da albedo, anche se albus ha una sillaba in meno di albedo o, addirittura, che mons derivi ab alto, come dice dubitativamente Balbi (1490 [12861], col. 68). Sia Papia che Balbi, in effetti, non si fidano completamente di queste derivationes, perché, secondo loro, qualsiasi tipo di derivatio, per essere legittima, deve tener presente sia la significatio, sia l’imago vocis, come dicevano già i grammatici latini10. Anche quando prende in considerazione l’imago vocis, però, tutta la disciplina derivationis 9 10 Il Catholicon unisce il lessico e una breve grammatica, mentre le altre opere citate sono dei lessici ordinati per parole primarie. Questa linea di studi fu condannata aspramente dagli Umanisti, a partire dal Valla, ma fornì i primi modelli per i vocabolari del ‘500. Sul tema, si vedano Sharpe (1996), Holtz (1996), Codoñer (1996; 1998), Senekovic (2006) e Loporcaro & Stoltz (2006). Per la definizione della disciplina derivationis, si veda ad esempio il grammatico irlandese Scottus (IX d.C., In Eut., 101, 86-90, cfr. Löftstedt 1977): sed hanc ob causam disciplina derivationis reperta est, propter scilicet cognitionem rerum. La stessa tesi torna in Balbi (1490 [12861], col. 1), secondo cui l’etimologia indica, come dice il nome stesso, il verus sermo nascosto in ogni termine. Papia dice esplicitamente che pars quae in numero syllabarum crescit ipsa deriuetur (Elem., s.v. derivatio) e la stessa tesi compare in Balbi (1490 [12861], col. 68) e nel grammatico irlandese Muretach (IX d.C., In Don. II, 61.43-59, cfr. Holtz 1977): omne diriuatiuum nomen plures habere debet syllabas quam primitiuum illius in modum riuuli decurrentis et crescentis a fonte. Papia, ripreso da Balbi, quindi, cerca di rimettere d’accordo derivazione sensu e litteratura dicendo che albedo derivava da albus, non perché albus è “più breve”, ma perché albus può applicarsi a più referenti (oggi diremmo: ha un significato più generale o una maggiore estensione semantica rispetto ad albedo). Dal Medioevo all’età dei Lumi 109 di questi secoli sovrappone derivatio ed etymologia, e identifica l’etimologia con l’etimologia remota, ossia con quella parte della teoria etimologica antica che, fin dalle origini, era più adatta a rappresentare una vera e propria “ontologia semantica”. In questo quadro, il termine derivatio può essere rubricato nei lessici sotto il nome rivus ‘torrente’ (per il tramite del verbo derivo) come fanno Osberno di Gloucester e Balbi, ma può essere rubricato anche sotto ruo ‘slanciarsi, correre verso’ come fa Uguccione, perché, in effetti, la derivatio rappresenta la formazione di una serie di parole-fiume che “si slanciano” da una parola-fonte. Se poi si volesse andare in cerca di una qualche differenza concettuale tra derivazione ed etimologia in questi secoli, si potrebbe dire, seguendo Balbi (1460 [12861], col. 67) – che, a sua volta, riprende Varrone – che tutti i nomi possono essere etimologizzati, ma non tutti possono essere derivati, perché le magnae derivationes non derivano da nessuna fonte, ma sono loro le fonti di tutte le parole latine11. I due tipi di derivazione-etimologia, però, non sono molto diversi nella pratica, dato che nei lessici di questi secoli compaiono fianco a fianco sia esempi di ciò che oggi chiamiamo derivazione, come derivatio da rivus, sia vere e proprie etimologie, come economus da eco ‘eco’ o da ycon ‘icona’ in Uguccione (Cecchini et al. 2006: II, pp. 26.2-4) o acetum ‘aceto’ da acidum o acquidum, perché l’aceto ha un sapore acido e si ottiene facendo fermentare una mescola di acqua e vino (Cath., s.v. acetum). Insomma, la teoria etimologica antica resta immutata nella sua architettura generale nei primi secoli del Medioevo. L’attenzione all’adeguatezza ontologica dei nomi e il problema delle derivazioni “semantico-ontologiche” , però, determinano un interesse rinnovato per l’etimologia “profonda” e una parallela riduzione di interesse per tutti gli aspetti ontogeneticamente più recenti dell’etimologia che coinvolgevano l’analisi empirica dei nomi derivati e che erano così centrali nell’opera di Varrone. 11 Sulla metafora fons/rivus per descrivere la derivatio nei grammatici medievali, oltre che sulla differenza tra derivare (da *de-rivo) ‘rivum de fonte ducere’ e dirivare (da *dis-rivo) ‘fontem in diversos rivos ducere’ in questi secoli, si veda Biondi (2014; 2018, pp. 50-3). 110 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 3. Grammatica e derivazione nel Medioevo Mentre i commentatori di Aristotele e i primi Padri della Chiesa recuperano gli interessi etimologici antichi all’interno di un nuovo quadro filosofico basato sulla sostanziale isomorfia tra nomi e cose, la frammentazione linguistica della Romània e l’affermazione dei regni romano-barbarici avrebbero potuto aprire uno spiraglio nel rigido monolinguismo dell’età classica. La forte somiglianza tipologica tra le lingue romanze e le lingue germaniche e l’idea della grammatica latina come “norma immutabile”, però, consentono agli studiosi di continuare ad utilizzare lo schema descrittivo messo a punto da Donato e da Prisciano senza apportarvi modifiche sostanziali. In generale, in questi secoli, l’autorità dei grammatici non è messa in discussione e gli studiosi si limitano a compilare glosse e commenti soprattutto sull’Ars maior di Donato, fino al VII secolo d.C., e soprattutto sulle Institutiones di Prisciano tra il VIII e il XII secolo d.C.12. L’analisi di species et figurae, quindi, resta un tema sostanzialmente marginale, in particolare se si guarda alle regulae più semplici e alle elementary grammars (nel senso di Law 1982, p. 52), che si limitano a insegnare quei primi rudimenti del latino che sono necessari per la lettura autonoma della Scritture. L’Ars breviata di Sant’Agostino (VI d.C., cfr. Weber 1861), ad esempio, liquida le figurae in 7 righe e omette completamente le species, mentre Isidoro, come abbiamo già ricordato, accenna appena a species e figurae nelle Origines (cfr. § III.2). Anche nell’alto Medioevo, quando Prisciano è più letto (ossia, più copiato) di Donato, l’analisi dei nomi derivati, fatta salva qualche eccezione, resta più vicina a quella donatiana, almeno rispetto alla quantità di informazioni fornite dai grammatici. Le Excerptiones de Prisciano (Porter 2002, pp. 88 ss.), ad esempio, descrivono con una certa cura i diversi tipi di nomi derivati, anche se non si 12 Se fino al VII secolo l’Ars maior di Donato è più copiata delle Institutiones di Prisciano e, anzi, di Prisciano si conosce quasi solo l’Institutio de nomine, tra il VII e il XII secolo il rapporto si inverte (Law 1982, pp. 53 ss.; 1997, pp. 60 ss., 136-140; Amsler 1989, p. 233). Anche nel Rinascimento, inoltre, si sono conservati assai più manoscritti delle Institutiones che dell’Ars (GL II.xxiii-xxiv; Padley 1976, pp. 16-39). Sulla fortuna di Donato nel primo Medioevo, si veda Holtz (1981, pp. 219 ss.). Dal Medioevo all’età dei Lumi 111 interrogano sui rapporti formali che legano i nomi primari e i loro derivati. E Balbi, nel Catholicon (1286), isola quasi tutte le terminationes del latino, descrive i tipi principali di nomi derivati e si interroga su quali siano, in pratica, le forme di base da cui si traggono i nomi derivati (p.es. il participio futuro in -rus dal supino, cfr. Balbi 1490 [12861], col. 67). Gli stessi dati, però, sono quasi del tutto assenti dalla grammatica anglosassone di Ælfric, che pure si fonda sulle Excerptiones de Prisciano (Zupitza 1880, pp. 11 e 211), e sono completamente esclusi da tutte le artes tedesche del XV-XVI secolo riportate nell’antologia di Müller (1882), come l’Exercitium puerorum grammaticale (1491) o il Tractatulus dans modum teutonisandi casus et tempus (1541, cfr. Müller 1882, pp. 19 ss. e 239 ss.). Insomma, l’analisi empirica dei nomi derivati è un argomento ormai tradizionale dato che compariva, pur se con una ampiezza diversa, sia nell’opera di Donato che in quella di Prisciano. Però, certamente non si tratta di un tema che attira l’attenzione degli studiosi del Medioevo in modo particolare; anzi, in qualche caso sembra che questo tema si possa escludere completamente dall’analisi grammaticale, come se si trattasse di un tema che non riguarda o che riguarda poco la descrizione linguistica sincronica. 4. Origine del linguaggio, etimologia e derivazione tra il Medioevo e il Rinascimento L’etimologia antica era una teoria “pancronica”, perché confondeva totalmente la genesi di una lingua e la genesi del linguaggio, ma era pur sempre una teoria “particolare”, nel senso che cercava di arrivare alla genesi del linguaggio attraverso l’analisi di questa o di quella parola specifica di questa o di quella lingua particolare. A partire già dal I secolo d.C. e, con frequenza maggiore, tra il III e il VI secolo d.C., però, anche il problema dell’origo linguae comincia a presentarsi agli studiosi del Medioevo sotto una luce “più generale”, che è molto diversa da quella antica, ma è perfettamente coerente con l’interesse medievale per tutti gli aspetti “profondi” dell’etimologia. Secondo il Genesi (II.1-9), Dio avrebbe dato un linguaggio perfetto ad Adamo, nomoteta e primo parlante della lingua originaria, 112 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ma avrebbe poi diviso le lingue in seguito alla rivolta scoppiata durante la costruzione della Torre di Babele13. Per i Padri della Chiesa, come Filone di Alessandria, Origene, San Girolamo, Agostino ed Eusebio, quindi, è perfettamente plausibile, se non quasi certo, che l’ebraico, che è la lingua della Bibbia, o anche qualche altra lingua semitica, come l’arabo o il siriaco, sia la lingua umana originaria dell’Eden da cui sono nate tutte le lingue umane, ed è possibile utilizzare la genealogia di Noè (Gen. X.1-32) come base per la classificazione di tutte le lingue parlate in Europa14. In questo quadro alcuni studiosi, invece di dedicarsi all’etimologia delle singole voces di una lingua particolare, iniziano a interrogarsi sull’origine del linguaggio in generale, quindi cercano di stabilire quale sia la lingua umana più antica, ovvero quella che conserva al suo interno la maggiore quantità di radices primigenie della lingua adamitica originaria. Due sono le ipotesi principali. Secondo Postel (1538a; 1538b, f. B1r, D5v-E1r, E5r ss.), Bibliander (1548, pp. 2-4, 36 ss., 142) e Gessner (1555, f. 2v, 3r), che seguono la tradizione dei Padri della Chiesa, è l’ebraico la lingua originale, sia perché l’ebraico è la lingua della Bibbia, sia perché si sa che le lingue semitiche hanno delle radici comuni, che probabilmente sono ciò che resta delle primae voces adamitiche. Già alla fine del ‘500, però, un’altra ipotesi si affianca alla “teoria semitica”: Goropio Becano (1569), Stevin (1586, pp. 67-79) e Scriechio (1614), cercano di dimostrare che non è l’ebraico la lingua 13 14 Sul Genesi si vedano Belardi (2002: I, pp. 470 ss.; II, pp. 213 ss.), Aarsleff (1984 [19821], pp. 132 ss.), Rosier-Catach (2016) e Deneker (2017, pp. 25 ss. e pp. 57 ss.). I primi riferimenti al mito babelico compaiono in Filone di Alessandria (I d.C.) e Origene (II-III d.C., cfr. Amsler 1989, p. 95), in San Girolamo (IV-V d.C., Lindner 2016a, p. 26), Agostino ed Eusebio (VI d.C.), ma gli autori latini cristiani sono ancora poco studiati (Deneker et al. 2012; Deneker 2017). Proprio grazie ad essi, però, il mito babelico arriva a Dante (Belardi 1985, pp. 261 ss.; 2002: I, pp. 392 ss.). Le Scritture non identificano mai l’ebraico con la lingua edenica. Tra i Padri della Chiesa, quindi, si verifica un dibattito tra chi identifica la lingua edenica con l’ebraico e chi la identifica con il siriaco o l’arabo (Droixhe 1978, pp. 3536 e Deneker 2017, pp. 57 ss.). L’utilizzo linguistico della genealogia di Noè compare in Flavio Giuseppe (Droixhe 1978, pp. 69 ss.), Cassiodoro (Amsler 1989, pp. 95 ss.), Bibliander (1548, p. 42) e Scaligero G.G. (1610, Bonfante 1953-4, p. 687). Si noti, però, che gli aggettivi semitico, camitico e giapetico per indicare delle famiglie linguistiche non sono attestati prima del XVIII secolo (Lindner 2016b). Dal Medioevo all’età dei Lumi 113 originale, ma una qualche lingue germanica, come il Flemisch, il Duytsch o addirittura una lingua belgica o “indo-scitica”, perché le lingue germaniche conservano più radici monosillabiche (grondwoorden) dell’ebraico, del greco e del latino, o anche perché queste lingue risalgono tutte alla mitica lingua gotico-cimbrica parlata da Gomer, figlio di Aschenaz e nipote di Noè15. All’interno di queste opere, che, nel loro complesso, rappresentano il primo nucleo della teoria “celtica” o “indo-scitica” sull’origine del linguaggio, compaiono alcune etimologie “remote” che concettualmente sono analoghe a quelle che si trovavano in Varrone ed Isidoro. Secondo Goropio Becano, ad esempio, il nome dei Sassoni sarebbe composto da due parole-radici fiamminghe, Sac e Gun, che si sarebbero ritrovate nei nomi germanici Sack ‘causa’ e Gunst ‘favore’ e, in origine, avrebbero significato ‘favorito dalla causa prima, favorito da Dio’, dato che i popoli germanici, in realtà, sono i più favoriti da Dio16. L’analisi empirica dei nomi derivati, però, almeno in questi primi secoli, non trova spazio nei lavori dedicati all’origo linguae. 15 16 Sulla genesi della teoria “celtica” o “(indo)scitica” si vedano Borst (195759, pp. 123 ss.), Metcalf (1974; 2013, pp. 34 ss.) e Droixhe (1978, pp. 69, 79 e 87 ss.). Il confine tra le etichette di “celtico”, “(indo)scitico”, “gotico”, etc., in questi secoli, è labile, come mostra il De lingua vetustissima Europae scythoceltica et gothica (1686), che viene tradizionalmente attribuito a Jäger (Metcalf 1966; 1974, pp. 252), anche se è un lavoro a quattro mani di Jäger e Kirchmejer (Considine 2008). In ogni caso, il lavoro riprende un’ipotesi di Boxhorn (1648) e Vossio (1666), secondo cui i termini scitico, celtico e gotico indicavano la stessa lingua originaria (Droixhe 1978, pp. 92, 97, 30). È impossibile trovare un esatto equivalente del termine Duytsch, che indica l’olandese insieme almeno al tedesco e, a volte, anche ad altre lingue germaniche. Le prime ipotesi sull’esistenza di parole-radice nelle lingue germaniche risale a Irenico (Germaniae exegesis, 1518), Batus Rhenanus (Rerum Germanicarum Libri Tres, 1531; cfr. McLelland 2010, p. 7) e Laurenzio Petri Gothus (Strategema Gothici exercitus adversus Darium, 1559; cfr. Swiggers 1984, p. 17). Per le teorie sull’origo linguae tra il 1480 e il 1580 in particolare, si veda Demonet (1992). Sul termine grondwoord in Stevin e sui suoi rapporti con la scuola di Leida, si veda McLelland (2011, pp. 49, 68, 107 ss.). Nelle opere successive, Stevin arriverà fino a elencare 2170 radici monosillabiche del Duytsch, 163 per il latino e 265 per il greco (McLelland 2010, pp. 10). Le etimologie di Goropio erano aspramente criticate da Leibnitz, che conia il verbo gropisieren ‘inventare strane etimologie’ (Droixhe 1978, p. 57 e Lindner 2016a, p. 28). 114 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 5. La grammatica speculativa dei Modisti Inizialmente l’idea di un’isomorfia tra l’essere, il pensiero e il linguaggio compare nei commenti ad Aristotele, negli argumenta ab etymologia delle grammatiche e nelle omelie dei Padri della Chiesa (cfr. n. 92, § II.9.3 e n. 3 § III.2). Nell’arco di alcuni secoli, però, la nuova metafisica pseudo-aristotelica e il complessivo isomorfismo tra essere, pensiero e linguaggio che era implicito in quella metafisica si diffonde anche nel campo dell’analisi grammaticale, dando vita a quella che Bursill-Hall (1971, p. 31) ha definito la grammatical revolution dei secoli XII-XIV. In quest’epoca, si definisce per la prima volta un nuovo filone di studi linguistici al cui interno “the only method of research was to derive and justify rules of grammar from systems of logic and metaphysical theories on the nature of reality” (Robins 1957, p. 57). Per Sigier de Courtrai (XIV d.C.), ad esempio, Dio ha stabilito le partes orationis in base alle proprietà ontologiche delle cose del mondo: rerum proprietatum partes orationis invicem distinguuntur (Wallerand 1913, p. 93)17. Altri studiosi, come Tommaso di Erfurt (XIV d.C.), Pietro Elia (XI-XII d.C.) o Robert di Kilwardby (XIII d.C.) credono che la corrispondenza tra le partes orationis e le cose del mondo non sia diretta, ma sia mediata dai modi significandi, ovvero dai modi con cui l’intelletto umano imperfetto significa le cose: non distinguuntur partes orationis secundum distinctione rerum, sed secundum modi significandi18. In entrambi i casi, il rapporto tra le parole e le cose, tra l’essere e il linguaggio viene percepito, se non come un’identità diretta, almeno come una 17 18 La stessa teoria torna nelle Notae Dunelmenses (XIII d.C., cfr. Hunt 1980, p. 19, n. 4). Sui legami tra la grammatica speculativa, la logica scolastica e la lessicografia medievale, si veda Bartòla (1996). Sulle Notae Dunelmenses si vedano, Grondeux & Rosier-Catach (2017). Sull’isomorfia tra nomi e cose che è alla base della grammatica speculativa del Medio Evo, si veda Itkonen (1991, pp. 232 ss.). La citazione proviene da In minore Prisciani di Robert di Kilwardby (Pinborg 1967, p. 48). Sulla teoria dei modi significandi, da cui viene il nome “Modisti”, si vedano Pinborg (1967, pp. 19 ss.), Rosier-Catach (1984, pp. 45 ss.) e Maierù (1990, pp. 117 ss.). Sulla grammatica speculativa in generale, si vedano Bursill-Hall (1971), Rosier-Catach (1983, 2010), Ambrosini (1984), l’antologia curata da Buzzetti & Ferriani (1987), Marmo (1994) e Kelly (2002). Sulla terminologia logica della tarda scolastica, si veda Maierù (1972). Dal Medioevo all’età dei Lumi 115 sostanziale isomorfia, e le tre partes orationis principali (nome, verbo e aggettivo) appaiono come la trasposizione linguistica (più o meno diretta) delle tre categorie ontologiche universali di sostanza, azione e qualità19. In questo quadro, che sembra puramente “aristotelico” ma in realtà è profondamente innovativo dal punto di vista filosofico, si sperimenta anche un nuovo tipo di opera grammaticale. Le grammaticae speculativae (o regulares) di questi secoli in apparenza descrivono il latino, come facevano le grammaticae practicae di Donato e Prisciano, ma in realtà si propongono di studiare tutto il meccanismo di funzionamento del linguaggio come facoltà universale, attraverso l’analisi empirica dei dati linguistici del latino. In altre parole, le grammaticae speculativae pubblicate tra il XII e il XV secolo, diversamente da tutte le grammaticae practicae (o particulares o (im)positivae) dell’età antica e tardo-antica, non mirano tanto a descrivere una lingua particolare, pur nella convinzione ingenua che tutte le lingue siano uguali secundum substantiam (cfr. § II.12.1), ma si propongono direttamente di identificare e di descrivere le proprietà universali di tutte le lingue – ovvero, la substantia universale del linguaggio – attraverso la descrizione di una lingua particolare (in questo caso, del latino)20. Le due prospettive, ad uno sguardo superficiale, possono sembrare simili, così come sono simili i dati empirici descritti dalle grammatiche pratiche latine dell’antichità e dalle grammatiche speculative. Ad uno sguardo più attento, però, i due tipi di opere 19 20 Questa tesi compare in Tommaso di Erfurt (Bursill-Hall 1972, p. 206), Pietro Elia (Thurot 1868, p. 124), nelle Glosule super Priscianum Maiorem (Hunt 1980, p. 126), Sigier de Courtrai (Wallerand 1913, p. 108), Michel de Marbais (Thurot 1868, p. 181) e Pietro Ispano (Hunt 1980, pp. 25, 27, 110); per un commento, si vedano Auroux (1988; 1989) e Alfieri (2014: 161 ss.). Questa tesi incontrò anche delle resistenze (come quelle di Abelardo, di Aurifaber e Rodolfo il Bretone, su cui cfr. rispettivamente Pinborg 1967, pp. 215 ss.; Maierù 1986, pp. 159 ss. e Alfieri 2006, pp. 88-91), ma rappresentò comunque la visione dominante per tutto il medioevo. La denominazione grammatica speculativa dipende dal titolo dell’opera di Tommaso di Erfurt, Grammatica speculativa seu de modiis significandi (Bursill-Hall 1972). Sulle denominazioni grammatica regularis e (im)positiva, si vedano Pinborg (1967, p. 105), Thurot (1869, p. 214) e Simone (1992, pp. 98-99). Sulla differenza tra grammatica speculativa e regularis si vedano i manoscritti editi da Thurot (1869, pp. 122, 125) e Simone di Dacia (Rosier-Catach 1983, p. 24). 116 La morfologia derivazionale e il problema del tempo presentano delle differenze, a dir poco, qualificanti. Innanzitutto, i modisti credono che omnia idiomata sunt una grammatica, come dice esplicitamente Boezio di Dacia (Mod. Sig. q. 92, p. 10.3-4), ripreso da Pietro Helia (Thurot 1868, pp. 124-5 e 127), proprio perché sanno che il loro scopo non è soltanto l’analisi del latino, ma lo studio della facoltà del linguaggio. Inoltre, rispetto alle grammaticae practicae dell’età antica, le grammaticae speculativae presentano un inquadramento sull’asse del tempo più nettamente e più consapevolmente acronico che fa da pendant al loro evidente universalismo. Come ricorda Nicola da Parigi, per descrivere il sermo ut quoddam abstractus a quodlibet sermone secundum generales virtutes, la grammatica deve essere universale, ovvero identica per tutte le lingue e immutabile nel tempo: quedam differentie et conditiones sunt impermutabiles et eedem apud omnes […]; et in hiis impermutabilibus consistit grammatica regularis21. Insomma, la differenza tra la grammatica practica e speculativa non riguarda tanto il tipo di dati empirici descritti, che sono i dati del latino in entrambi i casi, ma la prospettiva di ricerca, ora più generale, ora più particolare, attraverso la quale si affronta l’analisi dei dati. Dal punto di vista meramente pratico, quindi, le grammatiche speculative non mostrano delle differenze sostanziali rispetto alle grammatiche particolari dell’età romana. Tuttavia, al di sotto dell’apparente continuità, queste grammatiche presentano alcune innovazioni importanti nell’analisi delle partes orationis, nell’analisi sintattica e, soprattutto, nell’analisi della derivazione e del suo inquadramento sull’asse del tempo22. 21 22 La prima citazione proviene da un manoscritto anonimo del 1240 edito da Pinborg (1967, p. 26), la seconda è di Nicola da Parigi (1255 ca., cfr. Pinborg 1967, p. 27). Per un commento sul passo di Boezio di Dacia citato sopra, si vedano Pinborg & Roos (1969, pp. 65 ss.), Rosier-Catach (1983, pp. 317 ss.) e Marmo (1994, pp. 141). Sull’acronia della grammatica speculativa, si veda Simone (1992, pp. 98 ss.). Sulle innovazioni dei Modisti nella sintassi, cfr. Pinborg (1967, pp. 51 ss.), Bursill-Hall (1971, pp. 57 ss.), Rosier-Catach (1983, pp. 139-198), Benedini (1995), Grondeux (2000), Kneepkens (2000) e Cotticelli-Kurras (2014, 2016, 2021). Sulle innovazioni presenti nella teoria modistica delle partes orationis, si veda Alfieri (2014) e la bibliografia ivi citata. Dal Medioevo all’età dei Lumi 117 5.1 Il trattamento dei nomi derivati All’interno di questa nuovo tipo di grammatica, più nettamente e più consapevolmente acronica delle grammatiche dell’antichità, la nozione di derivatio non indica più il processo pancronico di formazione del linguaggio a partire dalla lingua umana originaria, ma viene completamente ridefinita in una chiave più compatibile con l’inquadramento acronico della grammatica nel suo insieme. Per i Modisti, infatti, il processo di derivazione non indica più la formazione delle parole nel corso del tempo, ma indica piuttosto la creazione dei concetti nella mente perfetta e immutabile di Dio, ovvero nell’anima individuale degli uomini che partecipa della stessa eternità di Dio. Per Pietro Elia che riprende la discussione sui paronimi vista in precedenza (cfr. § III.2), i lessemi albus ‘bianco’, albet ‘è bianco’ e albedo ‘biancore’ indicano un unico concetto nella mente di Dio e nella lingua incorrotta dell’Eden, dove i nomi e le cose coincidono. Dopo la rivolta babelica, però, Dio ha punito il genere umano dividendo le diverse modalità con cui si può significare il concetto unico ed eterno di ‘biancore’ nelle lingue imperfette degli uomini. Così sono nati i paronyma (cfr. le nn. 19 § II.4.1; 41 § II.6; 81 § II.9.2; il § III.2): i nomi che condividono la stessa appellatio del loro nome di base ma la significano secondo diverse modalità, come albus, albet e albedo che derivano tutti dall’unico concetto universale di ‘biancore’, ma si distinguono in base al loro modus significandi perché albet significa il biancore secondo il modo dell’essere, albedo significa il biancore secondo il modo della sostanza, e albus significa il biancore secondo la modalità dell’accidente o della qualità accidentale (Pietro Elia, Reilly 1975, pp. 121-2). In questo modo, la nozione antica di derivatio, che riguardava innanzitutto l’origine del linguaggio e l’etimologia, si trasforma in una nozione semantico-metafisica che riguarda la formazione-creazione dei concetti e la natura delle cose rappresentate da quei concetti, data la sostanziale isomorfia tra i nomi e le cose su cui si poggia tutta la metafisica medievale. Per Tommaso di Erfurt, ad esempio, i nomina primae positionis non indicano i nomi semplici, come mons, ma indicano i nomi che si riferiscono ai concetti primariae existentiae, ovvero ai concetti generali la cui esistenza non è vincolata a quella di altri enti, come mons ma anche come albedo, dato che il concetto “biancore” è il concetto generale, sovraordinato 118 La morfologia derivazionale e il problema del tempo rispetto ai concetti specifici significati da albus e albet. Sono, invece, secundae positionis, i nomi che indicano i concetti secudariae existentiae, i.e. i concetti la cui esistenza è condizionata a quella di altri enti di ordine più generale, come montanus ma anche come albus (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 176)23. All’interno di questa teoria semantico-ontologica si ritrovano le nozioni tradizionali di species e di figurae, ma queste nozioni sono ridefinite in accordo con il nuovo inquadramento acronico della derivatio. Species e figurae, insomma, non indicano più gli accidentia che le parole hanno subito nel corso della loro evoluzione, ma indicano le proprietà ontologiche degli oggetti significati da quelle parole: species non a voce sumitur […sed…] a proprietate rei (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 176). Le species nominum, quindi, sono cinque come le principali tipologie dei referenti dei nomi: la prima è la species del nome comune, i.e. dei nomi che si possono riferire a più oggetti; la seconda è quella del plurale, i.e. dei nomi che possono indicare più oggetti; la terza è quella del modus de altero discendentis, i.e. del patronimico, come Priamides; la quarta è quella del modus diminuti ab alio, i.e. del diminutivo, come lapillus; e la quinta, infine, è quella del nome che indica una collettività, come populus (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, p. 160)24. Chiaramente, all’interno della grammatica modistica, esistono anche posizioni più tradizionali sull’analisi dei nomi derivati. Ma anche quelle posizioni, in ultima analisi, confermano il quadro teorico delineato sin qui. Siger de Courtrai, ad esempio, condivide con Tommaso di Erfurt l’idea che il tratto qualificante dei nomi derivati sia quello di essere ontologicamente più specifici dei nomi da cui sono derivati, perché dipendono dalla proprietas determinandi vel a nullo (se sono primitivi) vel ab aliquo (se sono derivati), ma liquida 23 24 La confusione tra etymologia nominum e etymologia rerum, in parte, si trova già in Prisciano (GL II.2.462-3, cfr. § II.9.3), mentre la concezione semantico-ontologica dei nomi di prima e secunda positio risale a Porfirio (Pinborg 1967, pp. 37 ss. e 45 ss.). Per un commento su questa concezione semantico-ontologica della derivatio, si vedano Matthaios (1999, p. 259; 2004, p. 7), Kaltz (2004, pp. 24 e 34), le nn. 19 § II.4.1; 41 § II.6; 81 § II.9.2; e il § III.2. La stessa argomentazione è utilizzata per le figurae, che sono semplici o composte a seconda della natura della cosa nominata: figura sumitur a proprietate rei non vocis (Tommaso di Erfurt, Bursill-Hall 1972, pp. 182-4). Lo stesso tipo di interpretazione ontologica della species nominum, inoltre, viene riproposta per le species degli aggettivi e dei verbi (Bursill-Hall 1972, pp. 216 e 226). Dal Medioevo all’età dei Lumi 119 tutto il problema delle species nominum in poco più di una decina di righe e pochi esempi (Pinborg 1977, p. 4), perché come ha scritto giustamente Marmo (1994, p. 259) “un’analisi meramente morfologica dei modi di significare non rientra nell’ambito di interesse dei grammatici modisti”. 6. Le grammatiche “delle causae” I Modisti si proponevano di produrre una grammatica filosofica, ma in buona sostanza acronica. L’acronia, però, non è l’unico approccio possibile per una grammatica che tenga in considerazione istanze di tipo filosofico. Nella seconda metà del XVI secolo, infatti, Scaligero (1540) e Sanzio (1587) riprendono alcune istanze già presenti nella lessicografia medievale e nelle opere sull’origine del linguaggio e propongono quello che, retrospettivamente, si può considerare come il primo tentativo di produrre una grammatica contemporaneamente filosofica, ma pancronica. Ad un primo sguardo, il De causis di Scaligero (1540) e la Minerva di Sanzio (1587) non appaiono come opere particolarmente innovative. Se si esclude qualche aspetto minimo, la struttura di questi lavori coincide con quella delle grammatiche pratiche coeve (cfr. § III.7). Scaligero (1540), ad esempio, identifica la sintassi e lo studio delle figure retoriche (libro XII), dedica il libro III alla teoria della conoscenza e il libro XIII all’etimologia, mentre Sanzio (1587) esclude l’analisi delle lettere-suoni e dedica il libro IV allo studio di tutte le figurae, sia retoricae sia etymologicae. In entrambi i casi, però, la parte principale del lavoro riguarda le tre sezioni canoniche di ogni grammatica edita tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi: le lettere-suoni (libri I e II nel De causis), le partes orationis (libri IV-XI nel De causis, libro I nella Minerva) e la sintassi (libri II e III nella Minerva). Anche dal punto di vista contenutistico, inoltre, le grammatiche delle causae non brillano per originalità, ma si presentano come una summa di tutto il sapere linguistico accumulato tra l’antichità e il Medioevo. I dati linguistici analizzati coincidono con quelli descritti nelle grammatiche particolari; il quadro teorico di riferimento rimanda soprattutto all’aristotelismo medievale e alla sovrapposizione tra l’essere, il pensiero e il linguaggio sui 120 La morfologia derivazionale e il problema del tempo cui si basava tutto il pensiero dei Modisti25. Le teorie etimologiche riprendono la lezione dei filosofi Stoici, filtrata attraverso Origene, Isidoro e il racconto biblico sull’ebraico come lingua originalis. Infine, è anche vero che la teoria linguistica di Scaligero, come quella di Sanzio, è spesso “inclassable, et contradictoire” rispetto al gusto moderno (Colombat 2007, p. 395). Tuttavia, la concezione della grammatica che emerge da queste opere – il loro a priori logico, per dirla con Foucault – è più originale (e anche più coerente) delle singole teorie in esse contenute. Invece di concentrare la loro attenzione sul funzionamento del latino o del linguaggio, come fanno tutte le grammatiche precedenti, sia pratiche sia speculative, Scaligero e Sanzio si occupano di studiarne le causae: ovvero, da una parte l’origo delle forme linguistiche latine (che, in termini filosofici, rappresenta la loro causa originalis), dall’altra la ratio che ha portato quelle forme ad essere così come sono (che, negli stessi termini filosofici, rappresenta la loro causa finalis)26. Sia i Modisti, sia gli studiosi delle causae, quindi, guardano i dati linguistici da una prospettiva sostanzialmente filosofica e razionalistica; però, mentre i Modisti declinano la filosofia verso l’acronia della metafisica scolastica, Scaligero e Sanzio la dirigono verso la pancronia tipica degli studi (antichi, ma anche medievali) sull’etymologia27. 25 26 27 Le relazioni tra Sanzio e i Modisti sono note (Breva-Claramonte 1983, p. 4). Quelle tra Scaligero e i Modisti sono discusse da Jensen (1990, pp. 160 ss.), e si possono facilmente verificare sulla base dei passi seguenti: vox est nota, quae in anima sunt; nomen nota rei permanentis […] nomen est imago quaedam, qua quid noscitur […] quasi notamen; nomen est nota rerum (1540, pp. 2, 134, 137). Ciò non toglie che ci siano anche delle differenze: Scaligero crede nell’origine convenzionale del linguaggio (1540, p. 122) e nella funzione conoscitiva dei sensi (1540, pp. 114-5); Sanzio, invece, crede che il linguaggio abbia un’origine naturale (1587, p. 3) e i Modisti credono che il linguaggio sia stato creato da Dio e la conoscenza non provenga dai sensi. Sulla teoria linguistica di Scaligero, si veda Lardet (1990; 2003). Sul significato tecnico-filosofico dei termini ratio, causa e origo, si vedano Sanzio (1733 [1587], pp. 1-8) e Amsler (1989, pp. 141-6). Sul taglio filosofico implicito dello studio delle causae, si vedano Aarsleff (1974, pp. 105-9 ss.; 1984 [19821], pp. 198 ss.) e Breva-Claramonte (1983, p. 63 ss.). Sanzio nasce a Salamanca, dove c’era una fiorente comunità ebraica, traduce vari testi dall’ebraico (Breva-Claramonte 1983, pp. 18 ss.) e conosce discretamente la grammatica ebraica (1733 [1587], pp. 15-6). Poiché le prime opere dedicate interamente allo studio dell’origo linguae in generale sono opera di semitisti (si veda, ad esempio, Postel 1538b), è possibile che l’interesse di Sanzio per questo tema sia dipeso anche dai suoi legami con la cultura semitica. Dal Medioevo all’età dei Lumi 121 6.1 Il trattamento dei nomi derivati A sua volta, l’inquadramento pancronico di queste opere porta una nuova modalità di analisi per la derivatio. Come dice la Bibbia, Dio ha creato il linguaggio perfetto dell’Eden, le cui ultime tracce restano nell’ebraico; dopo la dispersione babelica, però, gli uomini hanno rinominato le cose del mondo in base alla loro intima natura, come crede Sanzio (nomina & etymologias rerum ab ipsa natura fuisse depromptas, 1733 [1587], p. 3), o in base alla volontà del primo inventore dei nomi, che è stata poi ratificata da una successiva pattuizione, come crede Scaligero (arte […] non natura; cum nomina a rerum natura non fluxerint, recte definimus, notam esse rerum Dictionem, ut libuit inventori, 1540, p. 122). In entrambi i casi, il processo di creazione-formazione del linguaggio post-babelico, che è chiamato, appunto, derivatio, comincia con la giustapposizione-composizione di due primitiva nomina, prosegue con la corruzione di uno dei due membri di questi proto-composti e la sua trasformazione in una terminatio, e si conclude con la definitiva concrezione della parola semplice, derivata o flessa e la sua registrazione nel lessico come un blocco unico indivisibile (compositionem […] quae pracedit ipsam concretionem, Scaligero 1540, p. 58)28. La concezione filosofico-pancronica della derivatio proposta da Scaligero e Sanzio non impedisce lo studio dei nomi derivati, ma determina alcune differenze notevoli rispetto alla sua analisi nelle grammatiche. Come avveniva già nelle grammaticae speculativae, anche in questo caso la nozione di derivatio si riferisce al processo di formazione dei nomi e rientra tra i compiti del filosofo, più che tra quelli del grammatico (Scaligero 1540, p. 2)29. Anche in questo caso, quindi, la derivatio nominum, i.e. la descrizione formale dei nomi derivati, appare secondaria rispetto alla derivatio rerum, ovvero alla derivazione di un concetto particolare a partire da un concetto più generale, e dunque più primitivo, a prescindere dai legami 28 29 Scaligero non descrive tutta la teoria della derivatio, ma vi si riferisce di scorcio in diversi passi (1540, pp. 58, 121, 146, 163, etc.). A rigore, le affectiones vocum generali sono tre: formatio, compositio e veritas. La formatio e la compositio riguardano il grammatico, ma la veritas riguarda solo il dialettico, ovvero il filosofo (Scaligero 1540, p. 2). 122 La morfologia derivazionale e il problema del tempo formali tra le parole che indicano i rispettivi concetti. Scaligero, infatti, deriva senza difficoltà a Iustitia: Iustus; ab albedine: album; a quantitate: quantum; e omnia verba a Deo, perché Deus è l’essere potissimus (1540, pp. 146, 168, 121)30. Diversamente da ciò che avveniva nelle grammatiche dei Modisti, però, il processo di derivatio a cui si riferiscono Scaligero e Sanzio non indica il processo acronico di creazione dei concetti nella mente di Dio, ma indica il processo pancronico di creazione del linguaggio a partire dai primitiva nomina31. Se ci si concentra sull’analisi di questo processo, e non sulle tracce che questo processo lascia nella forma esterna delle parole registrate nel lessico, la composizione, la derivazione, la flessione e l’etimologia appaiono solo come le diverse fasi logiche di un unico percorso evolutivo, ed è possibile passare dall’etimologia all’analisi della derivazione senza soluzione di continuità (Scaligero 1540, p. 121): Amaritudo duceretur ab Amaro; Amarum a Mari: Mare unde derivabitur? ab Hebraeo Marath32. Anche in questo caso è possibile riprendere le nozioni tradizionali di species e figurae nominum e discutere il ruolo delle terminationes (species est per declinationem nominis, hoc modo per ter30 31 32 Una conferma della confusione tra derivatio nominum e derivatio rerum proviene dalla sezione sui nomina decomposita (1540, p. 162): Scaligero si chiede se i nomi composti devono sempre essere nomi di oggetti doppi o possono anche indicare oggetti semplici, e conclude che, di norma, i composti indicano gli oggetti doppi, ma ci possono essere eccezioni, perché la compositio può sia essere vera (se è anche composizione di cose), sia non vera (se è una composizione solo di parole). Ugualmente, Sanzio dice che figura dicta est a fingendo, & fingere est exprimere imitatione rem veram (1733 [1587], p. 26). Sanzio e Scaligero non descrivono interamente la teoria della grammaticalizzazione-giustapposizione dei nomi, ma vi si riferiscono di scorcio in vari passi (p.es. Scaligero 1540, pp. 58, 121, 146, 163, etc.). Si tratta di un doppio gioco etimologico: Marath è il nome della Mara (ebr. ‫< מרה‬mrh>, che all’accusativo di direzione è ‫< מרתה‬mrth>, i.e. Marat-a), la località della Giudea che era stata raggiunta dagli Ebrei dopo la traversata del Mar Rosso ed era famosa per l’amarezza delle sue acque (ebr. ‫< מר‬mr>, i.e. mar, cfr. Es. 15, 23). Un altro passo da cui emerge la contiguità tra derivazione ed etimologia è il seguente: derivativum, quoniam ab nomen alterum a priore per eius vim derivaretur: ut ab Ilus, Iulus […]; ab Iulus, Iulius & Iulianus (Scaligero 1540, p. 160). La confusione tra derivazione e flessione (quindi, l’impossibilità di dividere la desinenza e il suffisso), invece, emerge da passi come: species est per declinationem nominis, hoc modo per terminationes (Scaligero 1540, p. 146). Dal Medioevo all’età dei Lumi 123 minationes, Scaligero 1540, p. 146); anche in questo caso, però, l’attenzione che viene dedicata a queste nozioni è, nel complesso, molto limitata: le sezioni su species & figurae occupano 2 pagine su 350 circa nel De causis (1540, pp. 160-2) e 2 pagine su 850 circa nella Minerva (1733 [1587], pp. 22-30)33. L’interpretazione delle nozioni di species e di figurae, inoltre, tiene conto del nuovo inquadramento proto-diacronico di queste grammatiche. Se l’inquadramento della grammatica è proto-diacronico, in altre parole, il fulcro dell’analisi è il processo di derivatio, non la forma dei nomi derivati registrati nel lessico; e, se il fulcro dell’analisi è il processo di derivatio, le sezioni su species e figuarae nominum, che erano divise nelle grammatiche latine, si possono unire, come fa Sanzio (e come avviene nelle grammatiche moderne), sia perché species & figurae, nel loro insieme, riassumono tutto il processo di formazione-creazione del linguaggio che precede la nascita della flessione, sia perché i nomina primitiva possono solo essere simplicia, ma non presentano altre figurae, dato che non possono essere composti né decomposti (Sanzio 1733 [1587], pp. 28). In questo caso, inoltre, la sezione su species & figurae si può semplificare, sia rispetto alla divisio latina sia rispetto alla divisio graeca, e può limitarsi a descrivere anche solo il contrasto tra i nomi semplici, i nomi derivati e i nomi composti, tralasciando tutte le altre species che comparivano nelle grammatiche latine (nomina patronymica, synonyma, omonyma, etc.), il cui ruolo effettivo nell’evoluzione del linguaggio, d’altra parte, non è chiaro. Infine, la sezione dedicata a species & figurae può anche restare di dimensioni limitate, come avveniva già nella divisio latina, ma deve comunque precedere, non seguire, l’analisi della flessione, come avviene nel lavoro di Sanzio (1733 [1587], pp. 22-30). E ciò sia perché le parole flesse sono più recenti delle parole derivate e composte dal punto di vista ontogenetico, sia perché species & figurae sono accidenti generalissimi che riguardano tutte le partes orationis, a dispetto delle loro differenze flessionali (Sanzio 1733 [1587], p. 22), sia perché tutti i processi di formazione del linguaggio, dalla derivazione (edurus : durus), alla flessione (rosă : rosā, sĕro : sēvi, etc.) fino all’etimologia (pratum, quia fuit paratum), avvengono pur 33 A rigore, le pagine in cui si tratta di derivazione sono 8, ma 6 di queste 8 pagine contengono il commento di Scoppius. 124 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sempre per mutationes literarum e il luogo deputato a descrivere le mutationes literarum che hanno portato le parole ad essere ciò che sono oggi è sempre la sezione sulle lettere-suoni che, appunto, precede l’analisi della flessione (Scaligero 1540, pp. 42, 45, 37)34. 7. Le grammatiche pratiche tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi Le grammatiche pratiche, che già nel Medioevo seguivano piuttosto da vicino lo schema organizzativo di Prisciano, ma descrivevano la derivazione con la stessa scarsa attenzione di Donato, non subiscono cambiamenti profondi nel periodo compreso tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Certo, la scoperta delle lingue “altre” delle Americhe e dell’Asia avrebbe potuto mettere in discussione la confusione tra lingua e linguaggio che era implicita nel monolinguismo della cultura classica (cfr. § II.12.1). È noto, però, che le grammatiche “missionarie” di norma si limitano a imporre lo schema descrittivo elaborato da Donato e da Prisciano sulle lingue “altre”, a prescindere dalla loro similarità o differenza tipologica rispetto al latino35. In altre parole, 34 35 Si noti che anche Ramo tratta species & figurae nominum prima della sezione partes orationis (1590, p. A1 intr.), e anche Melantone (1558) unisce le sezioni su species & figurae. Così già Jellinek (1913, p. 66), Padley (1988, p. 267), Simone (1990, p. 290), Zwartjes (2011, pp. 3, 11-2, 14 ss., 33 ss.) e, in forma più sfumata, Bossong (2009). L’imposizione dello schema descrittivo latino si vede in primo luogo nell’analisi delle partes orationis. Ad esempio, noi sappiamo che le lingue maya, come molte lingue del mondo, non hanno aggettivi, ma codificano le funzioni aggettivali attraverso una frase relativa formata a partire da un verbo che indica qualità. Nella sua Grammatica de la lengua çapoteca (1578), quindi, Padre Juan de Cordova si accorge che gli “aggettivi” zapotechi sono diversi dagli aggettivi latini, perché gli aggettivi zapotechi “siempre salen de los verbos o son verbos corrompidos” (Rojas Torres 2009, p. 260), ma crede comunque che lo zapoteco e il latino abbiano lo stesso sistema delle partes orationis, perché l’aggettivo, il nome e il verbo sono le categorie universali del linguaggio e del pensiero, quindi si trovano sempre e in tutte le lingue. L’universalità delle partes orationis in questi secoli è asserita esplicitamente dalle fonti primarie (Perotto & Guarino 1490, p. a4; Manunzio 1523, p. b3; Ceporino 1522, f. 8r; Nebrija 1492, p. 4; Melantone 1534, pp. 21-25; 1558, pp. 6-9; Ramo 1576, p. 88; Sanzio 1587, app. f. 1v; e Adelung 1781, p. 78), ed è discussa da Auroux (1988; 1989) e Plank (2001, p. 1404). Un altro aspetto da cui emerge l’idea di una “universalità” della grammatica è rappresentato Dal Medioevo all’età dei Lumi 125 come diceva Roger Bacon nella sua grammatica greca (1270 ca.), per tutti gli studiosi di questi secoli, sia che si occupino di grammatica speculativa, sia che si occupino di grammatica pratica, grammatica una et eadem est secundum substantiam in omnibus linguis, licet accidentaliter varietur (Nolan & Hirsch 1902, p. 27)36. Anche l’approccio “lessicalista” tipico di tutta l’analisi grammaticale greca e soprattutto latina non muta in modo sostanziale tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Anzi, il principio di unità-indivisibilità della parola viene applicato con più rigore rispetto a ciò che avveniva, in particolare, nella divisio graeca. Per tutti questi secoli la parola non rappresenta soltanto l’unità più importante del linguaggio in assoluto – der eigentlichste und wichtigste Theil der Sprache, come diceva Adelung ancora alla fine del XVIII secolo (1782, p. 121) – ma rappresenta anche un’unità minima e indivisibile: une totalité de sons o le signe d’une idée totale, secondo la famosa definizione che ne dava Du Marsais, ripreso da Beauzée nell’Encyclopédie Méthodique (1786: III, s.v. mot). Non è un caso, ad esempio, che in tutte le grammatiche di questi secoli i paradigmi sono trattati costantemente come un insieme di parole flesse, non come un tema invariabile che si affigge ad una serie di desinenze. Nello stesso modo, prima del XIX secolo, tutti i verbi che si utilizzano oggi per indicare la scomposizione delle parole in morfemi, come ted. zerteilen, indicano solamente la divisione 36 dai casi in cui le grammatiche francesi o inglesi attribuiscono i casi o i generi a queste lingue; per una disamina di questi casi, si vedano Gautier, Andrieu & Lahaussois (2019, pp. 149 ss. e 154 ss.). L’interpretazione della frase di Bacone non è scontata. Nel XII secolo si assiste a un dibattito sulla conciliabilità tra l’universalità della grammatica e la diversità delle lingue (Fredborg 1980, pp. 71-3) e Bacone rifiuta l’isomorfia tra i due piani proposta dai Modisti e da Boezio di Dacia (cfr. § III.5) (Rosier-Catach 1984; 1997; 2012). Hovdhaugen (1990) crede che la frase di Bacone serva a giustificare la sua scelta di descrivere la grammatica del greco in generale, invece di quella di un singolo dialetto greco, dunque che non si riferisca all’identità sostanziale della grammatica in tutte le lingue. Nel passo, però, Bacone parla dei rapporti tra il greco classico, i dialetti greci e il latino, come dice Hovdhaugen, ma solo per dire che lo studio della grammatica greca è utile quanto e forse più dello studio del latino, anche se linguam grecam nescit vulgus loqui, proprio perché grammatica una et eadem in omnibus linguis. Proprio perché fu inteso in questo senso, inoltre, il passo è spesso citato nelle grammatiche generali del XVII-XVIII secolo (cfr. Robins 1988, p. 472; Lépinette 2008, p. 307). 126 La morfologia derivazionale e il problema del tempo grafica delle parole nell’andare a capo (Jellinek 1913, pp. 108-9), mentre i termini affixum, suffixum e praefixum si trovano spesso nelle grammatiche delle lingue semitiche (dove, però, in genere, indicano i pronomi-suffisso), ma non compaiono praticamente mai nelle grammatiche pratiche delle lingue europee37. Se una tendenza specifica nelle grammatiche di questi secoli si può identificare, essa consiste proprio in un irrigidimento di quello schema di organizzazione dei contenuti che si era andato definendo tra Donato e Prisciano, ma che, come ha mostrato Jellinek (1913, p. 228), a partire dal Rinascimento, si trasforma in un vero e proprio Protokoll. In pratica, tutte (o quasi) le grammatiche pratiche di questi secoli sono divise in tre comparti tematici principali38. Un primo comparto, intitolato generalmente de voce, de litteris, de alphabeto o de sonis, è dedicato ai suoni della lingua o l’alfabeto. Un secondo comparto, intitolato de partibus orationis, de etymologia o de analogia, si occupa delle parole in isolamento, ovvero della flessione delle partes orationis (al cui interno si trattano anche species e figurae), e rappresenta la parte principale di ogni grammatica39. E un terzo comparto, in genere assai più breve del precedente e intitolato de 37 38 39 L’unità della parola tra il XVI e il XVIII secolo è un fatto noto fin da Hockett (1954), ed è discusso da Auroux (1994, p. 174), Law (1997, pp. 262 ss.) e Colombat (2019d). Il termine affixum, ad esempio, si trova nella grammatica ebraica di Reuchlin per indicare pronomi suffisso (1506, pp. 587, 787, 613). Più spesso, però, i pronomi suffisso delle lingue semitiche sono detti suffixa, come fa Junius (1580, pp. 32-33 = 1569, p. 64), seguito da Bustorfio (1609, pp. 91 ss.) e Crinesio (1611, f. C2r, cfr. Lindner 2012, p. 146). La divisione della grammatica in questi comparti è discussa da Melantone (1558, f. aa2), Arnauld & Lancelot (1660, p. 1-2), Bödiker (1746, p. 1) e Bel (1755, p. 1). Chiaramente, questo schema descrittivo è una continuazione di quello messo a punto da Donato e Prisciano, se si esclude il fatto che la sintassi, nelle grammatiche latine, non è ancora ben sviluppata e, spesso, è confusa con la stilistica o con lo studio delle figure retoriche. Sulla struttura delle grammatiche classiche, si vedano Blank (2000, pp. 412 ss.), Codoñer (2000, pp. 478 ss.) e Desbordes (2000, p. 469). Sulla sintassi nelle grammatiche romane, si vedano Baratin & Desbordes (1986) e Baratin (1989). L’utilizzo del termine etymologia per indicare l’analisi delle partes orationis dipende dal senso etimologico del gr. ἔτυμον ‘il vero’: poiché nel Medioevo, il “vero” di un oggetto indica ciò che esso è in sé, Tommaso di Erfurt usa etymologia per indicare la parte della grammatica che studiava le parole in sé, ossia in isolamento (i.e. la sezione sulle partes orationis), e la oppone alla diasynthetica, che sarebbe poi divenuta la moderna syntaxis (cfr. Cotticelli-Kurras 2016). Il termine analogia dipende dal fatto che la Dal Medioevo all’età dei Lumi 127 syntaxi, constructio o ordo verborum, descrive l’uso delle parole in combinazione, ovvero, da una parte il modo in cui le parole si combinano nelle frasi, che rientra a pieno nella moderna nozione moderna di sintassi, dall’altra lo stile, l’ornatus e le figurae retoriche, che noi oggi trattiamo nell’ambito della stilistica o della poetica. Chiaramente, è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto a questo schema. In qualche caso la sintassi può essere esclusa, perché, come dice Sanzio (1587, p. 13), syntaxis finis grammaticae; ergo non pars illius, oppure perché, come dice Manuzio (1493, pp. Gviii e Bi), la sintassi riguarda l’uso delle parole e l’uso si impara in pratica40. In qualche altro caso, ai tre comparti canonici descritti sopra si possono aggiungere delle sezioni de prosodia e de ortografia, anche se come dice esplicitamente Ludovico Dolce (1653, p. 23), queste sezioni sono delle aggiunte alla descrizione grammaticale in senso proprio, ma non rientrano nei temi canonici per ogni grammatica. Né si esclude qualche scelta più originale: la grammatica francese di Chiflet (1680 [16591]), ad esempio, tratta nel libro I le partes orationis (pp. 8-154) e la sintassi (pp. 154-197), e nel libro II l’ortografia (pp. 199-278), il genere dei nomi (pp. 278-288) e l’ordine sostantivo-aggettivo (pp. 288 ss.). Le eccezioni, però, sono tutto sommato infrequenti e, nel complesso, si presentano come semplici variationes rispetto a un Protokoll ampiamente condiviso, piuttosto che come delle ipotesi alternative di organizzazione dei contenuti all’interno delle grammatiche. 7.1 Il trattamento dei nomi derivati Come l’approccio lessicalista e l’organizzazione complessiva della grammatica, anche il trattamento della derivazione segue da vicino quello che si trovava già nei grammatici romani. Più precisamente, lo schema descrittivo generalmente adottato dai gram- 40 regolarità della declinazione è il migliore esempio di analogia già per i grammatici greci (Belardi 2002: II, pp. 15-41; Dickey 2007, p. 109). La sintassi non compare nelle grammatiche di Alberti (1438-41), Trissino (1529), Dubois (1531) e Régnier-Desmarais (1706), è trattata solo in breve in quelle di Perotto & Guarino (1490), Manuzio (1493), Ceporino (1520), Linacri (1550), Ramo (1559) e Berhardi (1797), e include anche lo studio delle figurae retoriche in quelle di Giambullari (1552), Melantone (1558, f. uu1) e Beauzée (1784: II, p. 570, s.v. méthode). 128 La morfologia derivazionale e il problema del tempo matici segue la divisio graeca nella sua architettura logica (i.e. si incentra sulla differenza tra parole semplici, derivate e complesse), ma segue la divisio latina nella scarsa attenzione che i grammatici attribuiscono a questo tema. Se si escludono due o tre eccezioni, insomma, le grammatiche pratiche di questi secoli si occupano poco dei nomi derivati e non mettono in discussione il principio dell’unità della parola41. Ad esempio, Manuzio, che pure era un ammiratore di Prisciano e accoglie la categoria priscianea dei nomina decomposita, non si occupa mai dei rapporti formali che legano le basi e i loro derivati e liquida tutta l’analisi delle species e delle figurae in cinque pagine su circa duecento (1493: II, pp. Ivii ss.), tre delle quali tra l’altro riguardano i patronimici, ossia quegli epiteti che, come dice lo stesso Manuzio, si trovano più in greco che in latino e riguardano più lo stile poetico che l’analisi grammaticale in senso pieno. Altri grammatici, come Linacri (1550), Bödiker (1746), Bel (1755) e Fränklins (1778) escludono completamente l’analisi di species e figurae dalle loro opere. Altri ancora accennano a questi temi in poche righe, ma nessuno dedica ai nomi derivati un’attenzione maggiore o anche solo uguale a quella che aveva dedicato a questo tema il Prisciano delle Institutiones. L’analisi di species e figurae, ad esempio, occupa cinque righe su centoquaranta pagine circa nella grammatica di Ludovico Dolce (1563, pp. 40 e 73); mezza pagina nella grammatica latino-francica di Ramo (1590, p. 32), nella grammatica castigliana Nebrija (1492: dv) e anche nella grammatica greca di Melantone (1534, p. bviii); una pagina su trecentoquaranta circa nella grammatica latina di Ramo (1559, p. 337); una pagina e mezza su poco più di centocinquanta nella grammatica greca di Ceporino (1522, p. ci ss.); quattro pagine su centocinquanta circa nella grammatica tedesca di Öllinger (1897 [15731], pp. 54-55 e 96-98), e così via. Poi, certo, a volte è possibile trovare delle informazioni più specifiche sulla formazione di questo o quel derivato. In qualche caso raro, ad esempio, i nomi derivati sono riportati ai nomi semplici da 41 Oltre alle Excerptiones e al Catholicon citati nel § III.2, le eccezioni riguardano solo tre casi che io sappia: la grammatica latina di Melantone (1558), la grammatica francese di Meigret (1550, cfr. Kaltz & Leclercque 2015, p. 28) e la grammatica inglese di Wallis (1668). Su queste opere cfr. § III.7.2. Dal Medioevo all’età dei Lumi 129 cui si sono formati (p.es. crinitus a crinis o Iulius a Iulus, oppure i participi al verbo, Manuzio 1493, pp. Avi, Bi, Iiii). In qualche altro caso, ancora più raro del precedente, si analizzano alcune delle diversità formali che distinguono i nomi semplici e i loro derivati. Ludovico Dolce, ad esempio, dice che i participi si formano dalla terza persona singolare del modo “dimostrativo” (i.e. l’indicativo), a cui si aggiunge la fine NTE, come in ama : amante; Ramo (1576, p. 23) discute la diversa lunghezza vocalica tra i nomi semplici e i nomi derivati corrispondenti; e Fortunio (1545, pp. 31 e 22) dice esplicitamente che i verbi della prima coniugazione “a mutano in e nel futuro tempo [i.e. ama → amerà]” e che “gli infiniti si formano regolarmente dalla terza persona singulare giongendogli questa sillaba re […] come ama, amare”. Questo tipo di informazioni, però, come si diceva, non è affatto abituale. La stessa fedeltà al modello latino si riscontra nell’utilizzo della nozione di terminatio, che non è di uso frequente in questi secoli e, anche quando viene utilizzata, non indica mai la desinenza distinta dal tema, ma indica soltanto la parte finale della parola, quella parte che serve per determinare il genere del nome o la classe flessionale del verbo, e non coincide esattamente con un morfema o una sequenza di morfemi. Secondo Manuzio (1493: I, p. Fvi; II, pp. Bii-iii), ad esempio, sono terminationes: -as, -avi e -atum rispetto al verbo amo ma anche -ras, -ravi e -ratum rispetto al verbo spero; -gis, -gi e -ctum rispetto a frango, ma anche -bis, -psi e -ptum rispetto a scribo42. 7.2 Alcune piccole eccezioni Anche in questo caso, ovviamente, è possibile trovare delle piccole eccezioni. Ad esempio, nel 1558, in Germania, dove il problema dell’origine del linguaggio è sentito con particolare forza (cfr. 42 Il concetto di terminatio compare in Ceporino (1522, p. bii), Melantone (1534, p. bvii), Fortunio (1545, p. 17), che lo chiama finimento, Dolce (1563, p. 41), che lo chiama fine, e Alvari (1598, p. 122), ma non si trova, ad esempio, in Perotto & Guarino (1490). Pastrana (1485 [?]) è probabilmente l’autore che ne fa più uso, perché isola le desinenze del genitivo e le utilizza come criterio diagnostico per identificare la classe flessionale del nome (Codoñer 2000, p. 64). Si noti che il termine desinentia risale al medio latino (Lindner 2012, p. 140), e si trova, ad esempio, in Balbi (1286), ma non è affatto comune tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. 130 La morfologia derivazionale e il problema del tempo § III.10), Melantone pubblica una grammatica latina che include un’analisi delle species nominum più originale della norma (lo stesso, però, non avviene nella sua grammatica greca, che praticamente non descrive la derivazione, cfr. Melantone 1534). Come i suoi colleghi, anche Melantone descrive i nomi derivati, e non descrive i processi di derivazione; però, unisce anche le sezioni su species e figurae nominum in un unico paragrafo che chiude la sezione sulle partes orationis (1558, pp. kk5-ll6), come facevano Scaligero e Sanzio; elenca tutte le terminationes presenti in latino e descrive spesso i rapporti formali che legano i derivati e i nomi semplici da cui sono formati. La nozione di terminatio, in questo caso, prende più spazio, ma indica comunque la parte finale della parola, quella parte che, se si esclude qualche errore formale nella divisione in morfemi, equivale alla somma del suffisso e della desinenza, come IA in audacia da audax ‘audace’, TIA in pudicitia da pudicus ‘pudico’, NA in officina da officium ‘dovere’, LE in ovile da ovis ‘pecora’, NIA precedente MO in castimonia da castus ‘casto’, STUS in honestus da honor ‘onore’, AS in bonitas da bonus ‘buono’, etc. Certo, la scelta per le forme di base per la derivazione è spesso fantasiosa: i nomi in NIA precedente MO, p.es., derivano dal genitivo maschile (i.e. dalla forma che finisce in -i: casti-monia), mentre i nomi in UM si formano dal verbo con l’espulsione della vocale del presente (regnum da regno ‘governo’, 1558: ll23). Un’analisi così dettagliata dei nomi derivati, però, è una scelta innovativa nel ‘500, e Melantone sente il bisogno di spiegarla in modo esplicito (1558, p. kk5): Ad etymologiam pertinet non solum discrimina et casus partium [sc. orationis] cognoscere, sed etiam a qua origine unumquidquid nascantur, videre. Diligenter autem adsuefacendi sunt pueri, ut origines et themata partium requirant atque inspiciant. Conducit enim haec res, et ad parandam copiam, et ad significationem ac vim verborum proprie ac recte intelligendam (“L’etimologia [sc. la parte della grammatica che discute le partes orationis] non si occupa solo di indagare le differenze e i casi delle parti [sc. del discorso], ma si occupa anche di vedere da dove nasca ogni parola. I giovani, quindi, vanno diligentemente istruiti a chiedersi e a studiare quali siano le origini e i temi delle parti [del discorso]. Questo argomento, infatti, porta all’abbondanza [sc. delle parole] e alla comprensione corretta e giusta del significato e della natura intrinseca delle parole”). Dal Medioevo all’età dei Lumi 131 Le dichiarazioni di Melantone lasciano trasparire, già a metà del XVI secolo, la presenza di una certa querelle sulla natura della derivatio, sulla sua posizione all’interno del Protokoll canonico delle grammatiche e sull’inquadramento della grammatica sull’asse del tempo. Per Melantone, la sezione delle grammatiche denominata etymologia tratta “i casi delle parti [sc. del discorso]” ma, come dice il nome stesso (cfr. infra n. 37 § III.7) e come diceva anche Isidoro (Or. I.29.1), serve anche per mostrare l’origine delle parole. Lo studio dell’origo nominum, infatti, non è solo un tema per filosofi e studiosi dell’origine del linguaggio, ma serve per conoscere la natura profonda delle parole e la loro verità intima, dunque il loro significato più esatto. Melantone, insomma, sembra dire che, anche se lo studio della derivatio è un tema filosofico, questo tema ha comunque delle ricadute fondamentali per i grammatici e deve, pertanto, essere incluso nella sezione delle grammatiche che si chiama etymologia proprio perché l’etymologia, come dice il nome stesso, indica l’origine di ogni parola. La proposta di Melantone, però, non raccoglie un grande successo e, se si escludono un paio di casi analoghi (i.e. Meigret 1550 e Wallis 1668), non è seguita dalle grammatiche pratiche più tarde43. Insomma, in apparenza l’analisi della derivatio all’interno delle grammatiche pratiche è simile a quella che si vedeva già nei grammatici romani: lo schema descrittivo utilizzato, almeno a partire dalla fine del Medioevo, segue il magistero di Prisciano, ma la quantità e il tipo di informazioni che vengono offerte ai lettori segue più da vicino l’esempio di Donato. In breve, la differenza tra nomi semplici, composti e derivati (a cui si aggiungono, qualche volta, i nomi decomposti) è citata da molti grammatici (seppur non da tutti) ma, al netto di qualche eccezione, questo tema non viene percepito come un argomento particolarmente rilevante per l’analisi grammaticale e, di norma, viene liquidato in pochi accenni. 43 La grammatica francese di Meigret (1550, Kaltz & Leclercque 2015, p. 28), ad esempio, descrive i nomi derivati nei cap. VIII-XIII; la grammatica inglese di Wallis (1668) descrive, anche con una certa precisione, le formazioni in -full, -some, -less, -th, -ly, -ship, dis-, mis-, etc. Nel complesso, però, si tratta di casi eccezionali. 132 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 8. Le grammatiche generali (soprattutto) francesi Gli anni che vanno dalla metà del XVI secolo alla metà del XVII sono fondamentali per la storia della derivazione. Anche se gli studiosi attivi in questi secoli non discutono mai questo tema in modo esplicito, tutta la grammatica filosofica del XVII-XVIII secolo si può vedere come un grande dibattito sul problema del tempo. Il dibattito prende le mosse da una contraddizione (cfr. § II.12.2). Se i nomi derivati sono i prodotti lessicalizzati dei processi diacronico-ontogenetici di derivatio, l’analisi delle species e delle figurae nominum che è abitualmente inclusa nelle grammatiche particolari, può essere utile in pratica, perché rende le grammatiche più informative, ma è incoerente rispetto al loro inquadramento sull’asse del tempo, perché introduce un frammento di “proto-diacronia” all’interno di opere che, nel complesso, sono “proto-sincroniche”. L’incoerenza teorica, ovviamente, non rappresenta un problema drammatico per le grammaticae practicae, che, come dice il nome, hanno una funzione prevalentemente pratico-didattica, ma intralcia le grammatiche filosofiche, che mirano ad essere non soltanto utili, ma anche secundum rationem. Per essere davvero “razionali”, in altre parole, le grammatiche filosofiche non possono esimersi dal cercare di comporre in qualche modo il contrasto tra la natura “proto-diacronica” della derivatio e l’inquadramento generalmente “proto-sincronico” della descrizione grammaticale. Due sono le strade possibili per raggiungere questo fine. In Germania, dove l’interesse per l’origo linguae è più forte e il magistero di Scaligero più presente, l’inquadramento pancronico proposto da Scaligero e da Sanzio riscuote un certo successo e lo studio della derivatio si ripropone all’attenzione degli studiosi (cfr. § III.9). D’altra parte, sia in Francia che in Germania, a partire dai primi anni del XVII secolo iniziano a comparire delle grammatiche dotate di una prospettiva acronica non molto diversa da quella proposta dai Modisti. A questi anni risalgono le prime opere che mostrano una certa attenzione per la ricerca di spiegazioni filosofiche universalistiche o “generali” per fatti linguistici particolari, come l’Allgemeine Sprachlehr di Ratke (1630), o per un metodo didattico universale adatto a far apprendere tutte le lingue, come la Didactica universalis di Hellvicus (1619), il Méthode Abregée Dal Medioevo all’età dei Lumi 133 di Jean Macé (1651 [ma 16351]) o il Methodo grammatical para todas as linguas di A. da Roboredo (1619)44. 8.1 Il trattamento dei nomi derivati In tutti i casi, più una grammatica aspira ad essere generale, più tende inevitabilmente verso un inquadramento sull’asse del tempo consapevolmente e rigorosamente acronico; e, più tende verso un inquadramento consapevolmente acronico sull’asse del tempo, più è il caso che armonizzi il suo inquadramento acronico con l’interpretazione dei dati sui nomi derivati. In altre parole, se la grammatica generale è acronica, ma la derivatio indica un processo pancronico, o si riformula la derivatio in chiave acronica, come facevano i Modisti, o si accetta l’inquadramento tradizionalmente diacronico-ontogenetico della derivatio che era abituale già nella grammatica antica, ma si esclude l’analisi di species e figurae dall’analisi grammaticale proto-sincronica. La prima soluzione (i.e. interpretazione della derivazione in chiave acronica) è quella seguita da Ratke (1630). Per lui la derivatio è un dono di Dio (1630: 176), perché assicura il legame tra le lingue umane e la lingua edenica, e la capacità degli uomini di manipolare i concetti presenti in mente Dei (1630, pp. 273, 276 ss.). Lo studio degli accidentia verborum (Wortbedeütungslehr), quindi, rappresenta innanzitutto uno studio semantico-ontologico e filosofico, che svela la “verità” delle parole, che è stabilita da Dio, e serve ad accrescere la copia verborum di ogni lingua, ma soprattutto del tedesco che supera per questo aspetto tutte le altre lingue europee (1630, pp. 276-7)45. 44 45 Sulle grammatiche “generali” che precedono la Grammaire, si vedano Jellinek (1916, pp. 95 ss.), Auroux & Mazière (2007) e McLelland (2010, p. 3). In particolare, il sintagma grammaire générale et raisonnée compare, per la prima volta, nel Méthode Abregée pour apprandre facilement la Langue Latine, pour parler puremant et escrire nettemant en François [sic] di Jean Macé (16512), alias S. Du Tertre, la cui prima edizione risale al 1635. Sulla sinonimia tra “generale” e “universale” nelle grammatiche di questo periodo, si vedano Auroux & Mazière (2007, pp. 136-7). Su Ratke (1612-15, 1619 e 1630), si vedano Paddley (1985, p. 112) e Kaltz (2004; 2005). La teoria semantico-metafisica di Ratke, tra il XVII e il XIX secolo, si ritrova nei lavori di alcuni studiosi tedeschi, come Gueinz (1641, cfr. Hundt 2000), Longolius (1715, cfr. Spitzl-Dupic 2004), Vater (1801; 1805, cfr. Spitzl-Dupic 2008) Reisig (1839, cfr. Schmitter 2004), ma non 134 La morfologia derivazionale e il problema del tempo La seconda soluzione (i.e. esclusione della derivazione dalla grammatica), invece, è quella perseguita da Irson che, nel suo Nouvelle Méthode (16561), esclude qualsiasi riferimento a species e figurae verborum, ma descrive le famiglie derivazionali francesi nel vocabolario che è stampato alla fine dalla grammatica (16622, pp. 212280). Il vocabolario, che si intitola Les Etymologie ou les origines & les derivez, è lemmatizzato per parole primarie: le parole primarie sono registrate nell’ordine alfabetico consueto, ma i derivati sono registrati al di sotto delle parole semplici da cui derivano (i.e. arçson, arçonner, desarçonner, arcade, archet sono tutti registrati solo sotto la voce arc ‘arco’). Secondo Irson, in altre parole, la derivatio non riguarda la descrizione grammaticale in senso proprio, neppure nella forma minima e ormai canonica delle species e delle figurae nominum, ma riguarda la lessicografia, perché è la lessicografia che ha il compito di studiare l’origine delle parole, sia che si tratti dell’origine prochaine, ovvero della formazione delle parole all’interno di quella lingua, sia che si tratti dell’origine éloignée, ovvero dell’etimologia, che si può cercare anche in altre lingue (1656, pp. 164-5)46. La soluzione di Irson è accolta, senza modifiche particolari, nella Grammaire di Arnauld e Lancelot (1660). In questo caso, la sostanziale isomorfia tra l’essere, il pensiero e il linguaggio proposta dai Modisti viene sostituita da un’isomorfia tra pensiero (i.e. logica) e linguaggio, a prescindere dall’essere47. Come le grammatiche dei Modisti, però, anche la Grammaire non si propone solo di descri- 46 47 ebbe gran seguito, perché contrasta con la teoria diacronico-ontogenetica della derivatio di Scottelio, che fu la teoria dominante in Germania. La soluzione di Irson era stata anticipata da Ramo (1590), che tratta pochissimo species e figurae, e da Hellvicus, che esclude l’analisi dei nomi derivati dalla grammatica greca e siriaca (non da quella latina) incluse nella Didactica (1619). Su Irson (1662), si vedano Delesalle & Mazière (2002). Sulle grammatiche francesi del XVII secolo, si vedano Auroux (1982, 2000) e Colombat (1999). A rigore, la Logique (Arnauld & Nicole 1661) e la Grammaire (Arnauld & Lancelot 1660) sono opere diverse, dunque la logica non coincide con la grammatica. Poiché, però, le partes orationis sono lo specchio linguistico delle categorie logiche universali di sostanza, azione e qualità (cfr. Arnauld & Lancelot 1660, pp. 30-4, ma anche Beauzée 1767, pp. vii e ix; 1786: II, pp. 402 e 411-3, s.v. language, cfr. Auroux 1988; 1989), si può dire che la grammatica e la logica siano isomorfe, ma non del tutto identiche, come credevano i Modisti (così già Serrus 1933) o, al massimo, che l’isomorfia si limita agli aspetti principali della grammatica, come le partes orationis. Dal Medioevo all’età dei Lumi 135 vere una lingua particolare, ma descrive le caratteristiche comuni a tutte le lingue – dunque, le caratteristiche del linguaggio in generale – attraverso l’analisi di una lingua particolare (in questo caso del francese, invece che del latino)48. Questa nuova grammatica filosofica e acronica segue lo stesso Protokoll che caratterizzava già in passato tutte le grammatiche particolari. La Grammaire, ad esempio, comprende le tre sezioni canoniche che formano ogni grammatica: le lettere e i caratteri della scrittura (1660, pp. 5-25), le classi di parole e delle loro forme (1660, pp. 26-140), la sintassi (1660, pp. 140-147). E lo stesso Protokoll torna nelle grammatiche generali del ‘700. Beauzée (1767) e de Sacy (1849 [17991]), infatti, riducono la differenza tra la sezione dedicata alla forma delle parole (1767: I, pp. 232-621; 1849, pp. 19-156) e la sezione dedicata alla sintassi (1767: II, pp. 3-620; 1849: pp. 157-223), ma non modificano l’architettura tripartita della Grammaire49. Nessuna di queste grammatiche, però, si occupa neppure di sfuggita delle species e delle figurae nominum, perché come dicono esplicitamente Arnauld & Lancelot si tratta di un tema più adatto a un dizionario che a una grammatica (1660, p. 105): On n’a point parlé, dans cette Grammaire, des mots dérivés ni des composés, dont il y aurait encore beaucoup de choses très-curieuses à dire, parce que cela regarde plutôt l’ouvrage d’un Dictionnaire général, que de la Grammaire Générale. (“In questa Grammatica non si è affatto parlato dei nomi derivati e dei composti, dove ci sarebbero 48 49 Nel sottotitolo della Grammaire, Arnauld e Lancelot dicono chiaramente che il loro scopo è descrivere les raiſons de ce qui eſt commune à tutes les langues, i.e. descrivere il linguaggio in assoluto, e la stessa tesi è ripetuta da du Marsais (Rosiello 1967, p. 274). Proprio per questo la Grammaire descrive di norma il francese, ma può descrivere altre lingue, se il francese non rispecchia la struttura universale del linguaggio (ad esempio, l’ebraico nella sezione sulle lettere o il latino nella sezione sul caso). Sull’approccio universalistico della grammaire si vedano Rosiello (1967, pp. 48, 106, 132, 167), Simone (1969, pp. xv-xix; 1992, pp. 95, 110 ss., 119 ss.; 1996) e Lépinette (2008). La riduzione della sezione sulla sintassi, inoltre, ha una ragione specifica: se la sintassi indica l’uso delle parole, e l’uso cambia da popolo a popolo, la sintassi rappresenta la parte meno “generale” della grammatica. Sul tema, si vedano Rosiello (1967, p. 140; 1987), Grondeux (2000) e, in parte, Auroux (2000). 136 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ancora da dire molte cose curiose, perché essa riguarda più il lavoro di un Dizionario generale, che di una Grammatica Generale”). L’idiosincrasia tra la grammatica generale e la descrizione della derivatio è confermata da tutte le grammatiche generali del XVIII secolo: l’analisi dei nomi derivati è completamente esclusa dalle opere di Buffier (1714), Beauzée (1767) e de Sacy (1799), e non compare neppure nelle grammatiche generali prodotte in Germania tra il XVIII e il XIX secolo, come quelle di Meiner (1781) e di Roth (1795, 1815). Nessun accenno a questo tema, inoltre, compare nella voce Grammaire curata da Beauzée per l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert (1751-65) e nelle voci grammaire e formation curate da Beauzée e Douchet per l’Encyclopédie Méthodique (1784: II, pp. 119 e 198), dove si dice in modo inequivocabile che la formation indica il processo di formazione del linguaggio a partire dalla lingua “naturale” originaria (cfr. infra § III.10.2) e che la dérivation è solo un aspetto dell’étymologie, la quale rientra, a sua vota, nella lexicologie. Una ulteriore conferma di questa visione si ricava, inoltre, dal Dictionnaire de l’Académie Française (1694), che ripropone lo stesso criterio di lemmatizzazione per parole primarie (racines) proposto da Irson50. Ovviamente, anche in questo caso è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto alla sostanziale idiosincrasia delle grammatiche generali per l’analisi della derivazione. Régnier-Desmarais, ad esempio, non esclude del tutto l’analisi dei nomi derivati dalla sua opera: infatti, dice che i nomi semplici sono quelli che ne tirent point leur origine d’un autre nom de la mesme Langue, mais qui doivent leur signification à la première institution de cette Langue (1706, pp. 179-181), e si accorge che spesso gli ipocoristici francesi presentano le terminaisons -ard (vieillard ‘vegliardo’), -aud (lourdaud ‘pesantone’), -u (barbou ‘barbuto’, 1706, p. 183). Anche in questo caso, però, le eccezioni sono rare e di poco momento: la sezione sui nomi derivati inclusa nell’opera di Régnier-Desmarais (1706, pp. 175 ss.), ad esempio, è comunque molto breve (solo due pagine su circa settecentocinquanta) ed è incentrata sulla definizione delle differenze semantiche che 50 Per un’analisi più approfondita del dizionario dell’Accademia di Francia, si veda Leclercq (2002). Dal Medioevo all’età dei Lumi 137 oppongono le diverse species nominum (i.e. i nomi appellativi, astratti, collettivi, diminutivi, accrescitivi, etc.), piuttosto che sulla descrizione formale dei vari tipi di nomi derivati che sono presenti in francese51. 9. Le grammatiche “pancroniche” tedesche Se i Modisti e i Signori di Port Royal cercano di superare il contrasto tra l’inquadramento “proto-sincronico” della grammatica sull’asse del tempo e la nozione “proto-diacronica” di derivatio ridefinendo la derivatio in chiave acronica o escludendola dall’analisi grammaticale “proto-sincronica”, in Germania, dove l’interesse per l’origine del linguaggio è più vivo e il magistero di Scaligero più presente, il problema della derivatio si impone all’attenzione degli studiosi con una forza certamente maggiore: in questo contesto, infatti, le grammatiche cercano di preservare il tradizionale inquadramento “proto-diacronico” della nozione di derivatio, ma finiscono per proiettare tutta l’analisi grammaticale nella “proto-diacronia”, ovvero nella pancronia dell’origo linguae, che da sempre rappresenta l’oggetto di studio della filosofia. Per comprendere la genesi di questa nuova idea di grammatica è utile fare un passo indietro. La lettura autonoma delle Scritture è uno dei capisaldi della dottrina luterana e Lutero pubblica una traduzione tedesca della Bibbia in 6 volumi tra il 1522 e il 153452. In que51 52 Su Régnier-Desmarais (1706) si vedano Kaltz & Leclerque (2015, pp. 2831). Tra le eccezioni parziali, è possibile ricordare un altro caso (Spitzl-Dupic 2008): la grammatica generale di Anton (1799) include una sezione sull’origine del linguaggio, come avviene nelle grammatiche “pancroniche” tedesche (cfr. § III.9), ma invece di descrivere la derivazione, come fanno Scottelio e Adelung, si concentra sulla formazione delle radici originarie del tedesco, ovvero sulla corrispondenza “naturale” tra i suoni che compongono queste radici e il loro significato, seguendo in sostanza la stessa strada tracciata da Fulda (cfr. III.10.1). Lutero pubblica il primo volume con il Nuovo Testamento nel 1522 e l’edizione completa in sei volumi nel 1534: l’invenzione della stampa da parte di Gutemberg (ultimata tra il 1449 e il 1455) dà alla Bibbia luterana la diffusione necessaria per il suo successo. Sull’importanza della traduzione della Bibbia in tedesco per la storia della grammatica tedesca, si veda Padley (1985, pp. 86 ss.; 1988, pp. 244 ss. e 250 ss.). Tra l’altro, Lutero era un discreto 138 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sto quadro, gli studi grammaticali si caricano di una nuova funzione patriottica, perché sono chiamati a fornire gli argomenti scientifici utili per confermare il prestigio del tedesco come lingua e dunque, indirettamente, anche per legittimare l’unità del popolo tedesco e la sua aspirazione a uno stato nazionale. Se la Bibbia può essere scritta in (alto) tedesco, però, il tedesco deve essere prestigioso, ovvero antico, quanto le tres linguae sacrae della cristianità: l’ebraico, il greco e il latino. Per un pregiudizio tipico di questi secoli, tuttavia, l’antichità di una lingua non si misura in base alla data delle sue prime attestazioni, ma dipende innanzitutto dalla quantità di radices e nomi derivati che si trovano in quella lingua, perché l’abbondanza di nomi derivati (copia verborum) mostra il legame tra quella lingua e la lingua originalis, ovvero la sua capacità di produrre parole nuove utilizzando gli stessi meccanismi formativi che hanno portato alla genesi di tutte le lingue53. Grazie al circolo vizioso logico secondo cui la legittimazione del tedesco come lingua di prestigio dipende dalla sua antichità e l’antichità di una lingua dipende dalla presenza di radici e nomi derivati, fiorisce tra Olanda e Germania, soprattutto attorno all’università di Leida e alla figura di Giulio Cesare Scaligero (il nipote di Giuseppe Giusto Scaligero citato in precedenza), un nuovo interesse per l’origine del linguaggio e delle lingue germaniche54. 53 54 conoscitore dell’ebraico e cita spesso la grammatica di Reuchlin (1506) nella sua versione annotata della Bibbia. I grammatici, in altre parole, sono chiamati a fornire i Legitimationsargumente (nei termini di Hundt 2000) necessari per giustificare la traduzione tedesca della Bibbia (Faust 1981, p. 366), svolgendo così un importante ruolo di positive heritage building e di legittimazione del tedesco anche in assenza di uno stato nazionale che potesse stare al pari con quello francese (Considine 2008). Si veda anche McLelland (2011, pp. 47 e 110) sul ruolo del nazionalismo negli studi grammaticali tedeschi tra il XVI e il XVII secolo. Per una conferma di questo quadro, si veda Albrecht (1573, pp. a3-a6) che, nella prefazione alla sua grammatica, dice esplicitamente che le grammatiche delle lingue antiche sono più utili delle grammatiche delle lingue moderne e, proprio per questo, è utile dimostrare l’antichità del tedesco e la presenza delle radici (1573, pp. C2-3). Nel 1593 insegnava a Leida G.G. Scaligero, autore della Diatriba (1599) e nipote di G.C. Scaligero; a Leida si erano formati Goropio e Stevin, ma anche Scottelio (McLelland 2011, pp. 68 ss.), e sempre a Leida si riuniscono nel XVII secolo i maggiori sostenitori dell’ipotesi “scitica”, come Mylio (1612, cfr. Metcalf 1953) e Scriechio (1614), Vossio (1666), Boxhorn (1648) e Jäger (1686). Il primo a sostenere esplicitamente l’idea del tedesco come lingua originale, in opposizione all’ipotesi “neerlandese” di Goropio è Albrecht Dal Medioevo all’età dei Lumi 139 Questo interesse si manifesta soprattutto in due forme. Inizialmente, già nella seconda metà del XVI secolo, Goropio Becano (1569) e Stevin (1586) avevano criticato la teoria tradizionale sull’origo linguae sostituendo il Flemisch o il Duytsch all’ebraico nel ruolo di lingua edenica originaria. Pochi anni dopo, studiosi come Scottelio (1641; 1663) e Adelung (1781; 1782; 1783) o, in misura minore, Albrecht (1573), Clajus (1578), Ritter (1616) e Aichinger (1741), riprendono l’impostazione pancronica delle opere di Scaligero e Sanzio, e propongono un nuovo tipo di grammatica, filosofica ma pancronica e particolare, che si occupi della derivatio in tedesco per dimostrare il rapporto privilegiato tra questa lingua e la lingua originalis del genere umano55. In una prima fase, la specificità di questa linea di studi grammaticali non è ancora ben delineata, ma si assiste alla creazione di una terminologia tecnica specificamente tedesca e, da Ratke (1619) in poi, alla sostituzione del latino con il tedesco come lingua veicolare della grammatica. Albrecht (1573) e Ritter (1616) usano ancora il prestito Grammatik, ma Ratke (1612-15) calca ars grammatica con Sprachkunst. Sempre Ratke (1619) traduce studium grammaticae con Sprachlehre e sostituisce i prestiti latini species, figura, accidentia ed etymologia che compaiono nella Sprachkunst (1612-15), con i calchi Art, Gestalt, Zufälle e Wortforschung. Infine, nella WortbedeutungsLehr (1630), Ratke sostituisce i nomi latini delle partes orationis con i calchi Nennwort ‘nome’, Vornennwort ‘pronome’, Sprechwort (Haubtwort in Scottelio) ‘verbo’, Theilwort ‘partici- 55 (1573), poi ripreso da Clajus (1587) e Ritter (1616), secondo cui il termine Deutsch sarebbe derivato con qualche permutationes literarum da de + Aškenaz, il nipote di Noè progenitore dei Goti (Padley 1985, p. 87). La stessa tesi torna anche in Zesen (1641, pp. iv-v), prima che in Scottelio (1641, pp. 75 ss.; 1663, pp. 16 ss. e 30 ss.). L’analisi delle fonti e delle citazioni contenute nella Ausführliche Arbeit (1663) compiuta da McLelland (2011, pp. 69 ss. e 298-348) mostra che Scottelio conosceva bene i lavori di Goropio, di Stevin e, in generale, degli studiosi della scuola di Leida, come pure la grammatica di Melantone. Anche la grammatica di Scottelio, quindi, si può considerare “razionalistica”, come fa McLelland (2010; 2011), perché anche Scottelio crede che ci sia una ratio universale nella lingua e che questa consista nell’analogia, come diceva Vossio (1635). Il “razionalismo” di Scottelio, però, è completamente diverso da quello di Port Royal, perché va di pari passo con l’approccio pancronico e con lo studio filologico della derivazione. 140 La morfologia derivazionale e il problema del tempo pio’, Vorwort ‘preposizione’, Fügwort ‘congiunzione’, Beywort ‘avverbio’ e Bewegwort ‘interiezione’. Da Scottelio in poi, però, la specificità di questo filone di ricerca emerge in modo evidente fin dall’indice delle grammatiche, che presenta un Protokoll molto diverso da quello usuale sia nelle grammatiche pratiche, sia in quelle generali. Infatti, la Teutsche Sprachkunst (1641) di Scottelio comprende tre libri: il libro I (Von der Uhralten der Teutschen Sprache, pp. 1-172) studia l’origine del linguaggio e della lingua tedesca; il libro II (Etymologia, pp. 174552) analizza i suoni della lingua e le partes orationis; e il libro III (Syntaxis, pp. 553-653) studia la sintassi. I dati sulla derivatio sono descritti due volte: i processi di derivazione e di composizione sono descritti nel libro I, insieme alle teorie sull’origo linguae (pp. 95104, 105-138); i prodotti della derivazione, ossia le diverse tipologie di nomi derivati e composti, sono descritti alla fine del libro II, dopo l’analisi della flessione (pp. 303-344, 345-395)56. L’utilizzo di un Protokoll diverso da quello delle grammatiche pratiche ha un’importanza particolare. Come tutti coloro che coltivano scienze empiriche, i grammatici non discutono in astratto gli assunti su cui poggia la teoria che utilizzano, ma applicano la teoria prescelta alla soluzione di un problema pratico, come la descrizione di una lingua, e lasciano che i lettori giudichino in modo indiretto la bontà della teoria proposta attraverso la sua capacità di descrivere la lingua prescelta nel modo migliore possibile. L’indice di una grammatica, in questo quadro, non è solo un comodo riassunto del lavoro, ma riunisce tutto l’insieme delle unità di analisi che sono utilizzate nel lavoro, pur senza essere discusse in modo esplicito57. Modificare il Protokoll di una grammatica, in altre parole, non vuol dire solo aggiungere o togliere dei dati, ma vuol dire modificare la ratio che è alla base dell’opera: in questo caso, vuol dire passare da un criterio ordinatore di tipo “proto-sincronico”, che si basa sulla nozione di parola formata e descrive prima le parti che compongono le parole (de litteris), poi la forma delle parole in isolamento 56 57 Lo stesso Protokoll compare in Adelung (1781), in Albrecht (1573), che però tratta la teoria sull’origo linguae nell’introduzione, e in Ritter (1616), che però descrive i nomi derivati prima della flessione e tratta solo di sfuggita l’origo linguae. Questa funzione dell’indice è stata identificata da Foucault (1988, pp. 9-13). Dal Medioevo all’età dei Lumi 141 (de partibus orationis) e infine l’uso delle parole in combinazione (de syntaxi), ad un criterio ordinatore di tipo sostanzialmente “proto-diacronico”, ossia pancronico, che descrive tutta l’evoluzione del linguaggio e del tedesco, dalla creazione-formazione delle parole, fino alla loro forma presente e al loro utilizzo in combinazione. 9.1 Il trattamento dei nomi derivati All’interno del nuovo Protokoll viene descritta, più diffusamente che in passato, la stessa teoria della derivatio che era implicita nelle grammatiche antiche ed era citata soltanto di sfuggita nelle grammatiche delle causae. Per Scottelio, le radici sono gli elementi formativi del linguaggio (die Fundament und die Grundsteine der Sprache, 1663, p. 1276), sono più antiche delle normali parole (1641, pp. 105) e contengono solo le lettere che sono rimaste immutate dopo che Dio ha confuso le lingue a Babele (1663, pp. 33). Queste lettere nascondono l’essenza ultima delle parole e, quindi, sono chiamate lettere sostanziali (Wesentlichstammbuchstaben, 1641, p. 89) o radicali (Stammletteren)58. Proprio per la loro antichità ontogenetica, le radici di norma sono monosillabiche (Die Stammwörter oder radices […] ensylbig sind, 1663, p. 1273), ma a volte possono essere bisillabiche (1663, p. 61) e si conservano soltanto nelle forme più semplici e antiche delle parole, come l’imperativo dei verbi (1663, p. 1274). Le parole flesse, derivate e composte si 58 I grammatici semitici dividevano le consonanti in ‘radicali’ (ar. ’aṣlīyya, da ’aṣl ‘radice’), se facevano parte della radice, e ‘servili’ (ar. zā’idīyya), se facevano parte degli schemi formativi dei nomi derivati: nel nome ar. madrasa ‘scuola’ (da d.r.s. ‘studiare’) è servile la m-, ma sono radicali d, r e s. La stessa distinzione è ripresa nelle grammatiche ebraiche e arabe stampate in Europa (Reuchlin 1506, pp. 7-8 e Postel 1539, p. Eiiir), da Adelung (1781, p. 57; 1782, pp. 198-9) e Albrecht che, però, preferisce parlare di syllabae radicales e adiectae (1573, p. E5, E9, C4). Si noti, però, che nelle grammatiche semitiche questa distinzione è una distinzione tecnica tra le “lettere” che fanno parte della radice e le “lettere” che si uniscono ad essa per formare i derivati. L’interpretazione “ontogenetica” di questa differenza, ad ogni modo, è evidente già in Ravio (1648), su cui si veda Alfieri (2017). L’idea che le radici possano anche essere bisillabiche, inoltre, è ripresa da Mäkze (1778: xxxix) in polemica con Fulda (1778, p. 31), secondo cui le radici erano necessariamente monosillabiche. La coincidenza tra radice e imperativo, infine, è un’idea che risale alla Germaniae exegesis di Irenicus (1518) ripresa da Scottelio (cfr. McLelland 2010, p. 7; 2011, p. 260). 142 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sono formate dalle radici a cui si sono unite nel tempo altre lettere, chiamate accidentali o servili, che sono diverse da lingua a lingua per via della maledizione babelica (1641, pp. 89-90)59. All’interno di questa teoria, si iniziano a descrivere gli stessi dati empirici che noi oggi utilizziamo per illustrare i processi sincronici di formazione delle parole. Come Sanzio, gli studiosi tedeschi progressivamente riducono l’analisi di species e figurae alla sola descrizione dei nomi semplici, derivati e composti, escludendo le species semantiche che si trovavano ancora ampiamente nelle grammatiche latine e, seguendo Scaligero e Sanzio, riuniscono tutti questi argomenti in un unico paragrafo dedicato a species & figurae nel loro insieme, come fa Albrecht (1573, pp. E3 ss.), oppure in due paragrafi contigui dedicati alla derivazione e alla composizione, come fa Scottelio (1641, pp. 95 ss. e 303 ss.)60. In entrambi i casi, come dice chiaramente Albrecht (1573, p. E6): species, figuris non incommode subiunguntur, cum sint coniugata accidentia. Indicant autem species, quanam origines quodlibet nomen nascatur (“le species e le figurae si possono unire utilmente, dato che rappresentano accidenti collegati. Infatti le species indicano da quali origini nasce ogni nome”). Anche solo dal punto di vista quantitativo, l’analisi della derivazione nelle grammatiche proto-diacroniche tedesche è molto più dettagliata di quanto non sia nelle grammatiche pratiche coeve: in Scottelio (1641), ad esempio, occupa cento pagine circa su seicentocinquanta, e lo stesso tema occupa uno spazio percentualmente solo di poco inferiore nelle grammatiche di Albrecht (1573) e Adelung (1781). 59 60 La stessa teoria sull’origo linguae è citata da Albrecht (1573, p.es. alle pp. C2-3 e E5) e da Ritter (1616, p. 47), ma è descritta più dettagliatamente da Adelung (1781, pp. 1 ss.; 1782, pp. xii ss.; 1783, pp. 27 ss.), dai lessicografi tedeschi che cercano delle radices della lingua originalis (cfr. § III.10.1) e dai filosofi francesi che studiano l’origo linguae (cfr. § III.10.2). Sulle analogie tra la linguistica francese e quella tedesca nel XVII-XVIII secolo, si veda Aarsleff (1984 [19821], pp. 19 e 227). Ritter e Adelung, invece, trattano la derivazione (i.e. le species o l’origo) prima della flessione (1616, pp. 47-52 e 101; 1781, pp. 55-71), ma la composizione (i.e. le figurae) dopo la flessione (1616, p. 151; 1781, pp. 376-400). Aichinger tratta species e figurae nei capitoli sul nome e sul verbo, come si usa nelle grammatiche pratiche, ma le tratta in due paragrafi continui (1754, pp. 136-168 e 268-272), come Scottelio. Dal Medioevo all’età dei Lumi 143 Rispetto alle grammatiche pratiche, inoltre, cambia il modo con cui gli studiosi trattano i dati sulla derivazione. Albrecht, Clajus, Scottelio e Aichinger elencano sistematicamente le terminationes che formano i nomi derivati tedeschi, come -heit, -keit, -er, -ig, -isch, -haft, -ung, -en, etc. e descrivono le tipologie morfo-semantiche dei nomi derivati che si formano con i diversi suffissi: -heit converte gli aggettivi in nomi astratti, -ig forma aggettivi di qualità a partire da nomi, etc. (Adelung 1783, p. 79)61. In molti casi, inoltre, gli studiosi non si limitano a descrivere i prodotti dei processi di derivazione (i.e. i nomi derivati), ma descrivono anche i processi di formazione dei nomi ex prima radice […] primum reperta a inventoribus linguis (Albrecht 1573, pp. E5 e E8): in tedesco, ad esempio, gli aggettivi toponimici si formano senza alcuna terminatio (Johannes Würzburg), con la terminatio -er (Johannes Römer), o con la terminatio -isch (Johannes Sächsich). 9.2 I termini tecnici e le procedure di analisi In questo quadro, si propongono le prime operazioni di scomposizione morfemica e le prime indagini sulla struttura interna delle parole. Albrecht nota che nel participio media syllaba sempre est radicalis, & thematis originem indicat (sag-en ‘dire’ → ge-sag-t ‘detto’, 1573, p. I5). Clajus indaga sistematicamente il rapporto tra il genere dei nomi e le terminationes con cui sono formati e descrive le modifiche che subisce il tema verbale (chiamato Wurzel) nella formazione della seconda persona singolare del presente, del passato e del participio (cfr. presente: ich schlaffe, du schleffest; imperativo: schlieff; participio: geschlaffen, 1587, p. 148). Scottelio nota che in tedesco il tema si trova nella seconda persona singolare dell’imperativo, e non nella terza persona singolare del presente indicativo, come dicevano prima Prisciano e poi i Signori di Port Royal (Die Gebietungsweise (modus imperativus) ist in Teutscher Sprache die Wurzel oder die Stammwort, 1663, p. 1274) e divi61 L’elenco sistematico delle terminationes è modellato su quello presente negli Excerpta e in Melantone (1558), e compare in Albrecht (1573, pp. E8 ss.), Clajus (1616, pp. 77 ss. e 78 ss.), Scottelio (1641, pp. 303-344; 1663, pp. 317-395), Aichinger (1754, pp. 136 ss.) e Adelung (1781, pp. 103 ss., 257 ss.; 1783, pp. 55 ss.). 144 La morfologia derivazionale e il problema del tempo de regolarmente le Haubtendungen der Abgeleiteten ‘suffissi (lett. le terminazioni dei derivati)’ dai temi a cui si affiggono (1641, p. 100). Adelung identifica l’Ablaut nella formazione dei plurali e dei preteriti (p.es. Vogel ‘uccello’ → pl. Vögel o bind ‘legare’ → pret. band, 1781, pp. 60 ss.) e inizia ad utilizzare con una certa frequenza il trattino (o i due trattini) di divisione morfemica che sarebbe divenuto comune nell’‘800 (ich lieb=e ‘io amo’, ich lebt=e ‘io amai’ e ge=wes=en ‘stato’, 1782, p. 204). Contemporaneamente nasce la terminologia tecnica sulla formazione delle parole a cui siamo tutti abituati. Nell’incipit della Sprachkunst (1641, pp. 22-3), Scottelio presenta una tavola di equivalenza tra i termini tecnici latini e tedeschi: radix e thema sono tradotti con Wurzel e Stammwort; terminatio con Endung, compositio con Doppelung, declinatio con Abwandelung e derivatio con Ableitung62. Il termine Wortbildung, a rigore, non compare prima di Fulda (1776), ma Scottelio (1641 e 1663) e Adelung (1781; 1782) usano già il sintagma Bildung der Wörter per indicare la formazione delle parole (per le prime attestazioni del termine Wortbildung, cfr. infra n. 76 § III.10.1). È vero che, in certi casi, la linea di confine tra la flessione, la derivazione e la composizione non è ancora del tutto univoca. Albrecht, ad esempio, definisce verba derivata aut coniugata tutte le parole non-semplici, siano esse dei nomi derivati o dei composti (1573, p. F5), quindi classifica il termine belligeratio come un derivato di bellum (1573, p. F5), e tratta le parole formate con preverbi come verstehen ‘capire’, ausgehen ‘uscire’ e aufstehen ‘alzarsi’ come dei composti, anche quando i preverbi non sono separabili (come verstehen, 1573, p. E4). E lo stesso fanno Ritter e Scottelio. Il primo divide le parole in due classi, simplex seu composita (‘semplici e complesse [i.e. derivate e composte]’, Ritter 1616, p. 1); il secondo, invece, dice che demonstrieren è un derivatum oder compositum; oppure che Mannshaft ‘umanità’ e Willigkeit ‘volontà’ sono dei composti di Mann e Willig, perché i suffissi -haft 62 La sezione sui termini tecnici torna senza modifiche nella Ausführliche Arbeit (1663, pp. 52-3). Per l’analisi della terminologia tecnica di Scottelio, si vedano Jellinek (1913, p. 137), Barbarić (1981) e McLelland (2011, pp. 49-50 e 70 ss.). È possibile che Scottelio abbia mutuato il termine Stammwort da Gueniz, che lo usa una volta (Barbarić 1981, pp. 1208-9); i termini Wurzel e Grundwort invece, risalgono l’uno al Teutsches Syllabierbüchlein di Sebastian Helber (1593), l’altro al termine grondwoord di Stevin (McLelland 2011, p. 49 n. 20). Dal Medioevo all’età dei Lumi 145 e -keit sono trasparenti quasi quanto delle parole autonome; o anche che il sintagma im Reiche ‘nel regno’, la forma flessionale Reiches ‘del regno’ e i derivati reich ‘ricco’ e reichsten ‘ricchissimo’ sono tutti Abgeleitete ‘derivati’ dello Stammwort Reich ‘regno’, perché tutti risalgono a questa radice (pur se in modi diversi); e sostiene che i verbi formati con i preverbi sono comunque dei composti, perché i preverbi hanno un’indipendenza fonetica simile a quella delle parole autonome (Scottelio 1641, p. 79; 1663, pp. 51 e 68)63. Nonostante qualche incertezza, però, da Scottelio in poi gli studiosi cominciano a distinguere, in modo tutto sommato regolare, le desinenze flessionali (zufällige Endungen) e i suffissi derivazionali (Hauptendungen); trattano sempre i temi derivati e i composti in sezioni diverse delle grammatiche; segmentano le parole nei morfemi che li compongono; riportano con facilità un certo numero di derivati e composti ai temi semplici da cui sono formati, soprattutto nel caso di suffissi evidenti formalmente e produttivi dal punto di vista funzionale (unverantwortlich ‘cui non si può dare risposta’ a Wort ‘parola’; Eigenthätlichkeit ‘attività’ a Thät ‘fatto’; Mannlich ‘umano’, Mannbar ‘nubile’ e Mannschaft ‘umanità’ a Mann, etc., Scottelio 1641, p. 103)64. In diversi casi, inoltre, gli studiosi colgono anche la relazione che lega la formazione delle parole e la dimensione che noi oggi chiameremmo “sincronica”: Aichinger, ad esempio, distingue derivazione e composizione in base alla loro produttività (1754, pp. 136 ss., 146 ss., 157 ss.): niemand [darff] leicht sich selber derivativa schmeiden ausser den Dichtern (‘nessuno può creare derivati, esclusi i poeti’), ma i normali parlanti hanno die Freyheit, alle Tage neue zusammen gesetze Wörter zu ma63 64 Sulla confusione di derivazione, composizione e flessione nel XVI secolo, si veda Jellinek (1913, pp. 90 ss.); su questa confusione in Scottelio, si veda McLelland (2011, pp. 49 ss.). Ancora nel XIX secolo, il termine Wortbildung indica spesso la flessione, e la derivazione si chiama, Wort- ma anche Stamm-bildung (così, ad esempio, in Miklosich 1876, p. 1, e Brugmann 1886, p. 15). Anche Paul è contrario a una divisione netta tra flessione, derivazione e composizione (1880, p. 348): la distinzione odierna tra Wortbildung ‘derivazione’ e flessione (Biegung, Inflexion, etc.) si stabilizza solo con Debrunner (1917, p. ix, cfr. Lindner 2012, pp. 94 e 140; 2015b, p. 41; 2016a, p. 93), dato che per tutto il XIX secolo, i termini Abstammung, Biegung, Ableitung e Wortbildung sono dei sinonimi. Un caso analogo si trova in Ritter (1616, p. 47), che dice vox prima, quae graeci thema, hebraei radicem appellant est quod non aliunde descendit, ut Liebe amor. Orta est quae aliunde originem ducit, ut lieblich amabilis. 146 La morfologia derivazionale e il problema del tempo chen (‘la libertà di creare nuovi composti ogni giorno’). E Adelung si accorge che è possibile formare parole nuove anche oggi: es lassen sich noch täglich neue Zusammensetzungen machen (1781, p. 395). Grazie alla loro analisi della derivazione profondamente innovativa, le grammatiche pancroniche tedesche di questi secoli sono più informative di tutte le altre grammatiche, generali e particolari, perché riescono a riportare all’interno della descrizione grammaticale i dati sincronici sulla formazione delle parole che, tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi, erano stati ingiustamente esclusi dalla descrizione grammaticale proto-sincronica, sia generale che particolare. La stessa descrizione della derivatio, però, rende queste grammatiche meno coerenti di tutte le altre. Dal punto di vista teorico, la mancanza di coerenza emerge nella profonda commistione tra proto-sincronia e proto-diacronia che caratterizza tutte queste grammatiche. Più in pratica, la commistione emerge in modo molto evidente nella profonda confusione tra i dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole e degli pseudo-dati, ovvero delle teorie filosofiche e pancroniche sull’origine del linguaggio scambiate per dati empirici e sincronici. Ritter, ad esempio, si accorge che in tedesco i nomi in -ung o in -keit sono femminili, perché – dal suo punto di vista – erano femminili le ex parole della lingua originale da cui sono nate le terminationes -ung e -keit; dunque immagina che tutte le parole tedesche, senza distinzione, siano divisibili in una radix e una terminatio, che è responsabile del genere di quella parola. Con questo criterio, Ritter ipotizza una serie di scomposizioni morfemiche arbitrarie e di pseudo-morfemi che servono per giustificare il genere delle parole, come -ab in Buchstab(e) ‘lettera’, -ad in Rad ‘consiglio’, -ld in Bild ‘immagine’, o -eib in das Weib ‘donna’, der Leib ‘corpo’, e die Scheib(e) ‘tipo di puleggi’ (1616, pp. 27 ss.)65. Nello stesso modo, per Scottelio il termine Wurzel indica sempre la parola della lingua originaria che si conserva in tedesco. In pratica, però, questa parola originaria può essere istanziata, di volta in volta: da un tema primario tedesco, come Welt ‘mondo’ o Fleisch ‘carne’ (1641, p. 89), che è un’unità empirica e 65 Questo tipo di analisi compare già in Clajus (1587, pp. 33 ss.). Il fatto che -eib sia compatibile con più generi è, per Ritter (1616, p. 23), l’inevitabile eccezione alla regola. Divisioni morfemiche arbitrarie ricorrono spesso in Mäkze (ad esempio Lan-d, f-lieg-en e sch-lag-en, 1779, pp. xl e xlvi), ma non in Scottelio. Dal Medioevo all’età dei Lumi 147 sincronica; da un tema primario comune a diverse lingue germaniche, come Tag: Dies, Thur: Porta, Stern: Stella, etc. (1641, p. 167), che è un’unità empirica ma diacronica; da un costrutto filosofico preconcetto sull’origo linguae scambiato per un’unità di analisi linguistica empirica, come le ipotetiche radici della lingua primigenia del tipo lett/litt ‘membrum’, che si conserva ancora nell’ingl. letter, nel ted. Letter (che ovviamente sono dei prestiti dal latino) e nel lat. littera, e che forse deriva dal celtico o dall’ebraico LID/LED (1641, pp. 77-8). Proprio questa confusione tra dati linguistici e teorie filosofiche, infine, determina una serie di mutamenti molto profondi nella struttura stessa del genere “grammatica”. Tra la Sprachkunst (1641) e la Ausführliche Arbeit (1663) non ci sono differenze teoriche particolari, soprattutto per ciò che riguarda la teoria della derivazione66. Ciò che cambia, e cambia in modo molto profondo, è la struttura delle due opere: la Sprachkunst è una grammatica, la Ausführliche Arbeit è un’enciclopedia che abbraccia tutto lo scibile sulla lingua tedesca, dalla sua origine al suo funzionamento in atto, fino al suo valore patriottico-politico o alla sua importanza antiquaria. Come ha scritto McLelland (2011, p. 170), il fil rouge che collega, pur labilmente, le diverse sezioni di questa enciclopedia sul tedesco è proprio la nozione di Wurzelwort, ovvero quella di derivazione, dato che le radici rappresentano la base per ogni tipo di processo di formazione delle parole67. In altri termini, è proprio la necessità di descrivere quei dati empirici sulla derivazione che sono esclusi dalle grammatiche generali e particolari che porta Scottelio prima a modificare il Protokoll canonico delle grammatiche pratiche; e poi, dato che i dati grammaticali proto-sincronici sono comunque in contrasto con i dati proto-diacronici sulla derivazione, lo porta anche a trasformare la grammatica in un’enciclopedia, che è un’opera strutturalmente onnicomprensiva e antiselettiva. In altre parole, la Ausführliche Arbeit riesce ad accogliere la totalità dei dati sulla lingua tedesca, inclusi i dati sulla derivazione, proprio perché rifiuta un criterio ri66 67 La seconda edizione dei libri I-III della Sparachkunst forma la prima parte della Ausführliche Arbeit (Scottelio 1663, p. 1 e Jellinek 1913, p. 130). Per McLelland (2011, p. 170) il concetto di Wurzelwort fornisce a Scottelio “the framework for discussing morphology”. Sembrerebbe opportuno, però, sostituire “morphology” con derivazione, visto che il concetto di morfologia come insieme di derivazione e flessione sarà definito solo da Schleicher (cfr. n. 75 § III.10.1). 148 La morfologia derivazionale e il problema del tempo gido di selezione dei dati, così come rifiuta quel criterio univoco di divisione tra i dati linguistici empirici e le teorie filosofiche che, fin dall’età alessandrina, caratterizzava il genere “grammatica”. 10. Le opere sull’origine del linguaggio tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi A partire dalla metà del XVII secolo, mentre l’ipotesi babelica rappresenta ancora la teoria dominante per quanto riguarda l’origine ultima del linguaggio, una nuova prospettiva di ricerca inizia ad affacciarsi nel panorama degli studi sull’origo linguae. Alcuni filosofi italiani, come Campanella (1638) e Vico (1744, §§ 431 e 434), e un certo numero di studiosi tedeschi, come Scottelio (1641, p. 89) e Zesen (1643, pp. iii-v, xxxiii), si oppongono alla teoria creazionista in nome di un’origine naturale del linguaggio68. In un primo momento, la teoria naturalista non riscuote un particolare successo. A partire dal XVIII secolo, però, questa teoria si diffonde tanto in Germania, grazie a Wachter (1737, § 4 e 10), Herder (1772, pp. 25, 42 ss.), Fulda (1776, pp. 368 e 386) e Adelung (1782, pp. 194 ss.), quanto in Francia, grazie a Condillac (1746, pp. 207 ss.), de Brosses (1765: II, pp. 175 e 481-88) e de Gébelin (1776: I, pp. 542), fino diventare una vulgata opinio che è accolta nell’Encyclopédie Méthodique (Beauzée 1784: II, pp. 403 ss. s.v. langage)69. Diversamente da ciò che sembrerebbe naturale pensare, per gli studiosi di questi secoli, la teoria creazionista e quella naturalista non si esclu68 69 Su Vico e Campanella si vedano Bossong (1992, pp. 10 ss.) e Plank (2001; 2007). Sulle radici filosofiche della teoria naturalista, si veda Eco (1993, pp. 98 ss.). Sui precursori antichi di questa teoria, si veda la n. 8, § II.3. Tra i fautori della tesi naturalista si possono ricordare anche Wilkins (Droixhe 1993), Leibniz e Rousseau (Aarsleff 1984 [19821], p. 134); per un elenco dei sostenitori di questa tesi nella Francia tra il XVI e il XVII secolo, si veda Demonet-Launey (1993, pp. 22-23). La teoria naturalista di Condillac arriva in Germania con Herder (Aarsleff 1974), a meno che Herder non mutuasse la stessa teoria da Scottelio (McLelland 2010, p. 12), da Zesen (1641) o dalle Réflexions philosophiques sur l’origine des langues et la signification des mots di Maupertuis (1740), che era emigrato da Parigi a Berlino nel 1748 (Aarsleff 1984 [19821], pp. 178-9). Si noti, infine, che la teoria creazionista, anche se minoritaria nel XVIII secolo, non è mai stata del tutto abbandonata: la si trova, ad esempio, in Bergier (1764) e Süssmilch (cfr. Aarsleff 1982). Dal Medioevo all’età dei Lumi 149 dono a vicenda (Eco 1993, pp. 56 ss.): per Scottelio (1641, pp. 75-8; 1663, pp. 30-34), Zesen (1643, pp. iii-iv), Fulda (1776, pp. 364-368 e 386) e Adelung (1781, p. 5; 1782, pp. 5-11; 1783, p. 37), gli uomini hanno sviluppato una lingua naturale nell’Eden per volere di Dio, ma questa lingua si è corrotta dopo la rivolta di Babele, dando origine all’ebraico; Wahl (1789, p. 88) crede che le radici semitiche siano composte da Naturlaute stabiliti da Dio o dalla Natura; e Scottelio (1663, p. 1003) dice che Dio e la Natura si sono uniti a Babele per dare origine al tedesco; e Beauzée crede che la Bibbia sia compatibile con l’origine naturale del linguaggio (1784: II, pp. 411-2 s.v. langage). Ad ogni modo, pur senza arrivare a una dottrina totalmente unitaria, tutti gli studiosi citati credono che il linguaggio si sia evoluto a partire dai versi inarticolati degli animali e dai gesti dei primi uomini, che si sarebbero trasformati prima in onomatopee e interiezioni, poi in monosillabi fonomimetici dal valore olofrastico dotati di una connessione naturale con i loro significati. Con l’evoluzione del pensiero, questi monosillabi avrebbero iniziato a fondersi tra loro in un generale processo di evoluzione del linguaggio che avrebbe portato a un aumento della complessità, dell’arbitrarietà e anche delle potenzialità espressive del linguaggio stesso e, infine, alla genesi della flessione, che, per tutti gli studiosi di questi secoli, rappresenta l’apice dell’evoluzione umana e delle capacità astrattive della Ragione. Per Beauzée (1784: II, p. 411 s.v. langage), ad esempio, le lingue prive di flessione come il cinese mancherebbero ipso facto di grammatica, dunque anche di logica, e, proprio per questo rappresenterebbero il tipo linguistico più vicino alla lingua originaria e il gradino più basso dell’evoluzione, se non proprio la lingua originaria dell’umanità, come dicevano, infatti, Webb (1669) e Vossio (1666)70. All’interno della teoria sull’origine del linguaggio compaiono tanto le prime ipotesi di classificazione genealogica delle lingue, quanto le prime ipotesi di classificazione tipologica delle lingue. 70 Sulla fortuna di questa teoria della “grammaticalizzazione” nel XVIII secolo, tra Condillac, Tooke e Humboldt, si veda Mancini (1995). Si noti, a margine, che in tempi recenti, Heine, Kaltenböck & Kuteva (2013) hanno proposto una teoria della “grammaticalizzazione” molto simile a quella descritta sopra per spiegare la genesi della grammatica. 150 La morfologia derivazionale e il problema del tempo In linea di massima, le prime ipotesi proto-genealogiche nascono all’interno della teoria “indo-scitica” (sia che questa ipotesi venga declinata in senso creazionista, sia che venga declinata in chiave naturalista)71; le prime ipotesi proto-tipologiche, invece, nascono all’interno della teoria naturalista, e non trovano accoglienza all’interno delle opere che accolgono la teoria creazionista72. In questi secoli, però, né le opere che si interessano della parentela genealogica tra lingue, né quelle che si interessano della diversità tipologica delle lingue si occupano dei dati empirici sulla formazione delle parole. Tuttavia, alcune notazioni interessanti sulla derivazione e sui nomi derivati compaiono nelle opere che si interessano più direttamente dell’origine ultima del linguaggio. In particolare, le notazioni sulla formazione dei nomi si ritrovano all’interno di due tipi principali di opere sull’origine del linguaggio: le opere lessicografiche tedesche che cercano le radici della lingua originaria rimaste sparse nelle lingue d’Europa (cfr. § III.10.1) e le opere filosofiche francesi 71 72 Sui precursori dell’ipotesi indoeuropea, si veda Metcalf (2013, pp. 33-57). Nel 1610, ad esempio, all’interno della teoria creazionista, Giuseppe Giusto Scaligero propone di riunire tutte le lingue d’Europa in quattro matrices principali (greco, romanzo, germanico e slavo). L’ipotesi di una parentela tra tedesco e greco, invece, compare, per la prima volta, in Bonaventura di Smets alla fine del XVI secolo (Bonfante 1953-4, p. 690 e Droixhe 1978, pp. 56-8), da cui passa a Méric (1650), per essere poi ripresa nell’Etymologicon Britannicum di Bernard, pubblicato in coda alla grammatica di Hickes (1689, cfr. Droixhe 1978, p. 83), e torna, infine, nelle opere di Kanne (1804, cfr. Koerner 1990), che estende la parentela anche al latino. Mylius (1612), Jäger (1686) e Wachter (1737), invece, collegano alcune voci tedesche con i loro equivalenti persiani; Stiernhielm (1671, p. 77, s.v. haba) riconosce le affinità nella flessione verbale tra il latino e il tedesco (Lindner 2016a, p. 39); Saumaise (1643: II, pp. 2-3), poi seguito da Leibniz, parla di una comune origine “scitica” per il tedesco, il persiano, il latino e il greco, anche grazie ad alcune somiglianze nella flessione verbale (Aarsleff 1982, p. 127, Droixhe 1978, pp. 72 e 90, Morpurgo Davies 1996, pp. 87 ss. e Gensini 1990, p. 41). A titolo di curiosità, si può ricordare che la prima ricostruzione di una radice “scitica” risale al De Hellenistica commentarius (1643) di Saumaise (Lindner 2016a, p. 34). All’interno della teoria naturalista nasce l’idea di usare i vari stadi attraverso cui era passata l’evoluzione del linguaggio per classificare la diversità delle lingue. Questa idea compare, ad esempio, in Adam Smith (cfr. Coseriu 1968; Plank 1987a; 1992; e Noordergraaf 1990), e torna in Lord Monoboldo (i.e. Burnett 1773-74) e in Schlegel (1808), ma è assente dai lavori di Mesgnien (1680) ed è rifiutata da Girard (1747, cfr. Plank 2001; 2007). Dal Medioevo all’età dei Lumi 151 che cercano di ricostruire un quadro teorico coerente per spiegare l’origine e la successiva evoluzione del linguaggio (cfr. § III.10.2)73. 10.1 La lessicografia tedesca Tra la seconda metà del XVII secolo e l’inizio del XVIII, dopo l’uscita del lessico di Irson (1656) e del vocabolario dell’Accademia di Francia, anche in Germania appaiono i primi vocabolari di una qualche ampiezza (Becher 1699, Kramer 1676-78 e, in modo particolare, Stieler 1691). Queste opere ripropongono lo stesso criterio di lemmatizzazione per parole primarie che si usava in Francia e che era perfettamente coerente anche con la teoria della derivazione di Scottelio. Stieler, ad esempio, lemmatizza kampieren ‘posizionare l’accampamento’ sotto la voce Kamp ‘campo’ e prima di Kampf ‘battaglia’74. Al di là del criterio di lemmatizzazione per Wurzelwörter, però, i lessici di questo periodo non presentano un trattamento innovativo della derivazione e non mostrano un particolare interesse per la genesi del linguaggio. Se un legame con l’origo linguae si può trovare in queste opere, esso consiste nel fatto che, in qualche caso, Becher (1669) e Stieler (1691) non elencano le parole tedesche primarie, ma elencano le parole semitiche da cui sono “derivate” le parole tedesche: ad esempio, i termini abbas ‘abbate’, abatissa ‘abatessa’ e abbatia ‘abbazia’ sono lemmatizzati sotto il sir. abba ‘padre’. È difficile stabilire, però, se questa scelta dipenda dal fatto che il ted. abbas sia interpretato come un prestito o se, per Stieler e Becher, il siriaco abba è una di quelle primae voces di origine semitica da cui sono nate tutte le parole di tutte lingue. 73 74 Come ha mostrato Aarsleff (1984 [19821], pp. 19 e 227), le opere francesi e tedesche sull’origine del linguaggio, anche se utilizzano approcci diversi, condividono lo stesso sostrato culturale. Non è un caso che Fulda (1776, p. 368) citi spesso Curt de Gébelin nel suo dizionario. Un criterio di lemmatizzazione intermedio tra quello alfabetico classico e quello per parole primarie compare in Kramer (1676-1678), che elenca separatamente le voci Binde ‘fascia’ e Binden ‘legare’, ma poi riporta Bindung ‘legame’ sotto la voce Binden (1676-1678, pp. 278-9). Sull’amicizia, anche personale, tra Stieler e Scottelio, si vedano Ising (1968, p. ix) e Padley (1985, p. 138). 152 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Certo è che a partire dal XVIII secolo, la lessicografia vira verso una dimensione filosofica molto più marcata. I lessici etimologici (Stamm-bücher) di Wachter (1727), Fulda (1776; 1778) e Mäkze (1779) non lemmatizzano le parole primarie del lessico tedesco, ma elencano tutte le ipotetiche radici della lingua originaria conservate in tedesco. Le pretese glottogoniche di questi lavori, però, indirizzano la speculazione verso l’analisi filosofica del legame naturale che unisce i suoni, la forma delle lettere e i significati delle radici, piuttosto che verso l’analisi linguistica dei dati sulla derivazione in tedesco. Fulda, ad esempio, distingue la Urwurzel originaria costituita da una sola vocale, che conserva il legame naturale e necessario con il suo significato, e il Wurzelwort monosillabico, che è la parola di uno stadio evolutivo seriore, e si conserva nell’accusativo dei nomi (acc. Weg ‘via’, nom. Weg-es; acc. Brenn ‘fonte’, obl. Brennen), più che nell’imperativo dei verbi, come diceva, invece, Scottelio (Wurzel sind Name und keine Zeitwörtern, 1778, p. 31)75. E Wachter deriva le parole tedesche da radici germaniche, greche, latine, celtiche o ebraiche senza differenza (1737, s.v. ABEND, ACH, ALL, RACH, RAD). Anche all’interno di queste opere, però, compaiono alcune note di un certo interesse per la storia della derivazione. Wachter, ad esempio, presenta un elenco dei suffissi più comuni in tedesco simile a quello di Scottelio (1737, Proleg. VI) e si accorge che in tedesco ci sono delle litterae & particulae praepositivae & postpositivae, che lui chiama praefixa e suffixa (1737, Proleg. V e VI), anche se gli sembra che i suffixa si utilizzino solo in derivando e i prefixa solo in componendo. Fulda introduce per la prima volta il termine Wortbildung (1778, p. 44) in linguistica, anche se parla di etymologische Wortbildung per intendere tutto il processo di formazione-creazione del linguaggio umano a partire dalle primae voces originarie76. Inoltre, sempre Fulda 75 76 La teoria di Fulda risale a Wachter (1737, § 5), mentre Mäkze (1779) fonde le nozioni di Urwurzel e Wurzelwort nell’etichetta di Stammwort. La teoria della connessione naturale tra suoni e significati è una communis opinio in questi secoli che compare in Scottelio (1641, pp. 88 e 91), Zesen (1643, pp. iii e xxxiii), Wallis (1668, p. 134), Adam Smith (1761, §§ 16 e 25), de Brosses (1765: II, p. 175), de Gébelin (1781: I, p. 481), Wachter (1737: §§ 4 e 10), Fulda (1776, pp. 53 ss.) e Adelung (1872, pp. 193 e 213). Scottelio e Adelung utilizzano Bildung der Wörter, ma non Wortbildung (Kaltz 2004, p. 36). Si noti, inoltre, che, la nascita del termine Wortbildung Dal Medioevo all’età dei Lumi 153 sostiene che le radici della lingua umana originaria aumentano progressivamente la loro complessità formale e semantica aggiungendo dei Nebenbegriffe ‘concetti accessori’ alla Grundbedeutung ‘significato di base’ (1776, pp. 52-8), come dirà qualche anno dopo Schlegel (1808), e comincia a citare le radici con un trattino alle fine, come si usa oggi (lieb-/lieb, 1776, p. 38). Mäkze, invece, ha il merito di aver generalizzato l’uso del trattino di divisione per separare, ad esempio, il tema verbale e la desinenza dell’infinito tedesco in -en o dell’infinito greco in -ein (1778, p. 89), anche se le divisioni morfemiche che propone sono spesso “fantasiose”, al pari delle sue etimologie: Land ‘terra’, fliegen ‘volare’ e schlagen ‘colpire’, ad esempio, sono segmentati come Lan-d, f-lieg-en e sch-lag-en (1778, pp. xl e xlvi). 10.2 La filosofia francese La stessa teoria sull’origo linguae che è implicita nei lessici tedeschi viene descritta in modo più esteso nelle opere filosofiche francesi sull’origine del linguaggio pubblicate negli stessi anni. Per Condillac (1746, p. 207) e de Brosses (1765: II, pp. 178 e 1845), le radici naturali della lingua umana originaria si sarebbero trasformate inizialmente in delle radici lessicali semi-opache e semi-arbitrarie, poi in delle terminaisons totalmente opache e arbitrarie che si sarebbero poi unite ad altre radici: è questo il caso, ad esempio, delle terminazioni -issime del superlativo, -ment degli avverbi e -tor dei nomi d’agente77. Ad oggi, però, le radici originarie da cui sono nate le parole e le terminazioni resterebbero visibili in alcune lingue più che in altre e in alcune forme linguistiche, come l’imperativo, più che in altre (de Brosses 1765: II, pp. 481-488 e 398). 77 precede la nascita del termine Morphologie di circa un secolo, visto che il termine Morphologie è stato introdotto in linguistica da Schleicher nella seconda edizione della vergleichende Grammatik (1876). Sul tema, si veda Salmon (1974, 2000). Secondo de Brosses (1765: II, p. 408), le terminazioni sono di tre tipi: quelle la cui origine è chiara (fr. -ment < lat. mente); quelle troppo opache per essere ricondotte a una radice (che, però, sono rare); e quelle che possono essere ricondotte solo a radici di lingue più antiche (fr. -er < lat. -are; fr. -oir < lat. -ēre). Su de Brosses, si vedano Benfey (1869, pp. 281-293), Droixhe (1978, pp. 23 e 201) e Rosiello (1987). Si noti che ancora Regner nell’introduzione al Jardin des racines grecque di Lancelot (ed. 1844, p. 1) chiama i suffissi les petit mots, proprio in riferimento a questa teoria. 154 La morfologia derivazionale e il problema del tempo In questo quadro, non compaiono notazioni di particolare rilievo per l’analisi empirica dei nomi derivati, ma si chiariscono alcuni aspetti concettuali importanti per la nozione di derivazione. Secondo de Brosses (1765: II, p. 461), ad esempio, la dérivation indica due processi distinti. Da una parte, c’è la dérivation philosophique, ossia il processo – noi diremmo acronico – di costruzione delle famiglie di parole o, più precisamente, di concetti (chant, chanter, chantant, chanson, etc.), che riguarda la filosofia e ci spiega come facciano gli uomini a manipolare i concetti astratti e universali. Dall’altra c’è la dérivation grammaticale, ossia il processo – noi diremmo diacronico/pancronico – di formazione delle parole, ossia la filiason d’un mot depius sa racine (de Brosses 1765: II, p. 461), o anche, come dice Beauzée (1784: II, p. 119)78: La manière de faire prendre à un mot toutes les formes dont il est susceptible, pour lui faire exprimer toutes les idées accessoires que l’on peut joindre à l’idée fondamentale qu’il renferme dans sa significations (“la maniera di far prendere a una parola tutte le forme di cui è suscettibile, per fargli esprimere le diverse idee accessorie che si possono unire all’idea fondamentale racchiusa nella sua significazione”). Se la derivazione indica la genesi di una parola, la radice non può che indicare quel mot primitif da cui si è formata un’altra parola, anche se le radici-parola della lingua originaria, in genere, sono delle unità monosillabiche e, quindi, sono più piccole delle normali parole (de Brosses 1765: II, p. 372)79. Come dice Beauzée (1786: III, p. 275, s.v. racine): 78 79 La teoria di Beauzée risale a de Brosses (1765: II, pp. 117 e 178), che oppone dérivation idéal e dérivation matérielle. Altrove Beauzée definisce la derivazione come: la liaison généalogique d’un mot avec un autre soit de la même langue soit d’un autre langue (1782: I, p. 591, s.v. dérivation). L’utilizzo del termine genealogia non deve trarre in inganno: per Beauzée (e i suoi contemporanei) genealogia e ontogenesi sono concetti affini. La coincidenza tra radice e parola è un’idea comune in questi anni, come mostrano la voce mot curata da Du Marsais per il X libro dell’Enciclopedia (Rosiello 1967, p. 97), la voce etymologie curata da Trugot (1784: II, p. 21) per l’Encyclopédie Méthodique edita da Beauzée e Marmontel, oppure la definizione di root come original primitive word che si legge nell’Oxford English Dictionary (nell’edizione del 1740). Sulla coincidenza radice-parola, si vedano Auroux (1990), Seuren (1998, p. 83) e Rosiello (1987, p. 260). Non mi pare che de Brosses usi la radice come “elemento formale e funzionale del Dal Medioevo all’età dei Lumi 155 On donne en générale le nom Racine à tout le mot dont un autre est formée, soit par dérivation ou par composition, soit dans la même langue, soit d’une autre langue (“In generale, si definisce Radice ogni parola da cui un’altra è formata, sia per derivazione, sia per composizione, sia nella stessa lingua sia da un’altra”). Insomma, sia che si ricostruisca l’origine del tedesco come fanno Scottelio e Adelung, sia che si raccolgano le radici della lingua originaria, come fanno Wachter, Fulda e Mäkze, sia che si ricostruisca l’origine del linguaggio dal punto di vista filosofico, come fanno Condillac, de Brosses e de Gébelin, la nozione di derivazione, in questi secoli, rimanda all’origine del linguaggio, e lo studio dell’origine del linguaggio, quale che sia il metodo scelto per indagare questo tema, comporta una certa confusione tra i dati linguistici empirici (e per noi sincronici) sulla formazione dei nomi derivati e gli pseudo-dati pancronici sull’etimologia, ovvero le teorie filosofiche sull’origo linguae e la loro applicazione nei lessici “per radici”. 11. La storia della morfologia derivazionale, l’architettura del sapere e il problema del tempo tra il Medioevo e l’Età dei Lumi Cerchiamo di tirare le somme di quanto abbiamo detto fin ora. Tra il VI e il XII secolo d.C., l’architettura del sapere descritta nel § II.12 non subisce delle modifiche strutturali: le grammatiche continuano a classificare i nomi derivati registrati nel lessico, e le opere che si interessano all’etimologia continuano a studiarne l’origine. Certo, in questi secoli, si registra un notevole aumento di interesse per le derivazioni di tipo “semantico-ontologico” (i.e. le derivazioni sensu, non litteratura), come quelle che sono discusse nei vocabolari di Papia, Osberno, Uguccione e Balbi, e per il problema filosofico dell’origine del linguaggio, che è riformulato alla luce dall’ipotesi creazionista del Genesi. I dati empirici sui nomi derivasistema morfologico”, come dice Rosiello (1987, p. 262). De Brosses, come tutti i suoi coetanei, confonde la derivazione e l’evoluzione del linguaggio. Anche se conosce il sanscrito grazie alla lettera dell’Abbate da Pons a Padre Halde (Rosiello 1987; Rousseau 1984a, p. 312) e intuisce la “precategorialità” della radice sanscrita, infatti, de Brosses crede che la radice sanscrita sia un’astrazione (1765: II, pp. 160-1 e 346). 156 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ti, però, non attirano l’attenzione degli studiosi: le grammatiche se ne occupano poco, sia quando seguono la divisio latina, sia quando seguono la divisio graeca; e lo stesso fa Isidoro nelle sue Origines, che privilegiano di gran lunga l’etimologia “remota” rispetto all’analisi pratica delle terminationes. Tra il XII e il XVI secolo si registrano dei cambiamenti più profondi. Il mutamento, però, non si vede nelle grammatiche pratiche, che restano fedeli all’approccio sperimentato nei secoli precedenti: al netto di un paio di eccezioni (cfr. § III.7.2), anche in questi secoli, i dati sui nomi derivati vengono descritti con un’attenzione minore di quella che gli attribuiva Prisciano nel VI secolo d.C. Tuttavia, tra il XII e il XIV secolo, in seguito alla riscoperta della filosofia aristotelica, nasce un nuovo tipo di opera grammaticale fondata sull’idea di una coincidenza tra pensiero, linguaggio ed essere. Le nuove grammaticae speculativae, in apparenza, descrivono il latino, come tutte le grammaticae practicae dell’età antica, ma in realtà cercano di descrivere tutto il meccanismo di funzionamento del linguaggio in generale attraverso l’analisi dei dati linguistici latini. Questo nuovo tipo di grammatica presenta un approccio più filosofico, più universalistico e più nettamente acronico di quello proposto da Prisciano e da Donato, e l’analisi dei nomi derivati è uno dei campi in cui la differenza emerge più chiaramente. In queste grammatiche, la derivatio non indica più il processo di formazione del linguaggio a partire dalla lingua originaria, ma indica il processo di formazione dei concetti nella mente di Dio o nell’anima degli uomini. Anche se reinterpretata in chiave acronica, però, l’analisi empirica dei nomi derivati non ha uno spazio particolarmente notevole all’interno di queste opere. Sempre tra il XII e il XVI secolo, aumenta l’interesse degli studiosi per il problema dell’origo linguae, che finisce per assorbire gran parte dell’attenzione che gli antichi riservavano all’etimologia. A partire dal XVI secolo, infatti, compaiono le prime opere interamente dedicate a questo tema. Le ipotesi principali sono, in sostanza, due: o si identifica la lingua originalis con l’ebraico, come dice la Bibbia, o la si identifica con una mitica lingua “celtica”, “indo-scitica” o “gotica”, che sarebbe la diretta antecedente delle lingue germaniche e la probabile “madre” di tutte le lingue d’Europa. All’interno delle opere sull’origo linguae e, in particolare, all’interno della teoria “indo-scitica” compaiono le prime ipotesi Dal Medioevo all’età dei Lumi 157 di parentela tra lingue; sempre all’interno di queste opere compaiono anche delle etimologie “remote” ma, almeno fino al XVI secolo, l’analisi dei nomi derivati non riscuote particolare successo in questo campo. D’altra parte, nel XVI secolo, Scaligero e Sanzio propongono una nuova riforma del genere “grammatica”. Invece di concentrarsi sul funzionamento del latino o del linguaggio, come tutte le grammatiche precedenti, sia quelle speculative, sia quelle pratiche, Scaligero e Sanzio cercano di studiarne le causae, un po’ come faceva, più di mille anni prima, Varrone. All’interno di questo nuovo tipo di grammatica, che è filosofica e razionalistica come quella dei Modisti, ma indirizza la speculazione verso la dimensione pancronica dell’origo linguae, l’analisi dei nomi derivati trova un nuovo spazio. In pratica, Scaligero e Sanzio descrivono gli stessi dati che sono descritti nelle grammatiche pratiche coeve; la loro interpretazione, però, è rivista in chiave pancronica: la derivazione coincide con l’etimologia e con l’origine del linguaggio o, più precisamente, con la parte più recente del processo di evoluzione del linguaggio. In questo quadro, la quantità di informazioni sui nomi derivati non è comunque molta, ma le sezioni su species e figurae nominum, che erano divise nelle grammatiche greche e latine, si possono unire all’interno di un’unica sezione, come facciamo noi oggi, dato che, nel loro insieme, la derivazione e la composizione rappresentano le fasi evolutive più recenti del processo generale di evoluzione del linguaggio. Tra il XVI e il XVIII secolo, una nuova ondata di cambiamenti investe l’architettura del sapere linguistico in generale e l’analisi dei nomi derivati in particolare. Anche in questo caso, le grammatiche pratiche si evolvono in continuità con quello che avveniva nei secoli precedenti. Due sono le modifiche più notevoli di questi secoli: da una parte si irrigidisce il Protokoll di organizzazione dei contenuti delle grammatiche che si era andato definendo nei secoli precedenti; dall’altra si riduce ancora lo spazio dedicato all’analisi dei nomi derivati che, in qualche caso, è completamente esclusa dalla descrizione linguistica sincronica. Una continuità simile si registra anche nelle opere sull’origine del linguaggio. A partire dal XVII e soprattutto nel XVIII, l’ipotesi creazionista è affiancata da una nuova ipotesi, secondo la quale il linguaggio avrebbe un’origine tutta naturale. Questa nuova teoria, 158 La morfologia derivazionale e il problema del tempo al cui interno nascono le prime ipotesi per la classificazione della diversità delle lingue, trova una buona accoglienza soprattutto in due tipologie di opere diverse, ma complementari: le opere lessicografiche tedesche, che cercano le radici della lingua originalis sparse nelle varie lingue del mondo, e le opere filosofiche francesi che cercano di ricostruire uno scenario plausibile per l’origine e l’evoluzione del linguaggio. In entrambi i tipi di opere, soprattutto a partire dal XVIII secolo, si trovano alcuni dati empirici sui nomi derivati; la quantità di dati descritti, però, è minima e la loro interpretazione ricalca quella che, già nel XVII secolo, si trovava nelle grammatiche “pancroniche” tedesche (cfr. infra). Tuttavia, anche in questo campo si registra una novità interessante: Fulda è il primo ad usare il termine Wortbildung, anche se, per lui, la Wortbildung indica l’etymologische Wortbildung che coincide in toto con l’evoluzione del linguaggio. Più complesso è lo scenario delle grammatiche filosofiche. Tra il XVI e il XVIII secolo, la prospettiva acronica proposta dai Modisti torna sia in Francia, sia in Germania. Come le grammaticae speculativae, anche le grammatiche generali di questi secoli cercano di descrivere la substantia universale del linguaggio attraverso l’analisi dei dati empirici di una lingua particolare (in questo caso, il francese). E come le grammaticae speculativae dei Modisti, anche le grammatiche generali armonizzano il trattamento dei nomi derivati e il nuovo approccio acronico-universalistico, seguendo due strade diverse: Ratke (1630), Gueinz (1641), Régnier-Desmarais (1706) e Longolius (1715) riprendono la teoria modistica della derivatio intesa come creazione dei concetti, ma descrivono poco i nomi derivati; Arnauld & Lancelot (1660), poi seguiti da tutte le successive grammatiche generali francesi da Beauzée (1767) a Sacy (1799), invece, accettano l’interpretazione proto-diacronica della derivazione tipica di tutte le opere dell’antichità ma, in linea con questa interpretazione, escludono completamente la descrizione dei nomi derivati dalla Grammaire. Negli stessi secoli, soprattutto in Germania, si ritrova la stessa prospettiva pancronica che caratterizzava le grammatiche delle causae. Un certo numero di grammatiche, che trova nei lavori di Scottelio (1641; 1663) e di Adelung (1781; 1782; 1783) le sue espressioni migliori, si propone di studiare l’origine del tedesco nella convinzione che l’origine del tedesco coincida con l’origine Dal Medioevo all’età dei Lumi 159 del linguaggio in assoluto. In questo quadro filosofico e pancronico, i dati sui nomi derivati tedeschi rappresentano le prove empiriche del legame privilegiato che lega il tedesco e la lingua originalis, e l’analisi della formazione dei nomi prende uno spazio maggiore di quello che aveva in tutti gli altri campi del sapere. In queste opere, la derivazione è distinta dalla composizione in modo abbastanza sistematico; i suffissi di derivazione e le desinenze di flessione, che prima erano conglobati nella nozione canonica di terminatio, vengono distinti con una certa frequenza; le parole cominciano ad essere divise in morfemi, anche grazie all’utilizzo del trattino di divisione che oggi è comune nelle pratiche di analisi morfemica. È vero che, in certi casi, la confusione tra i dati empirici sui nomi derivati e le teorie filosofiche sull’origo linguae tipiche di queste grammatiche determina la presenza di alcune scomposizioni morfemiche arbitrarie e di alcune etimologie “fantasiose”. Nel complesso, però, queste opere descrivono all’incirca gli stessi dati sui nomi derivati che noi oggi descriveremmo nella sezione dedicata alla Wortbildung di una qualsiasi grammatica sincronica contemporanea, anche se questi dati sono interpretati prevalentemente in chiave diacronico-ontogenetica. 11.1 Due tipi di grammatiche “filosofiche” Alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo riesaminare la teoria vulgata sull’architettura del sapere linguistico tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Secondo la vulgata, l’architettura del sapere linguistico in questi secoli sarebbe divisa in tre comparti principali del sapere (ovvero, le opere sull’origo linguae, le grammatiche filosofiche e le grammatiche pratiche); le grammatiche “filosofiche” formerebbero una linea di sviluppo sostanzialmente continua che dovrebbe andare dai Modisti, a Scaligero e Sanzio, fino a Scottelio e Adelung senza alcuna soluzione di continuità; e le grammatiche pratiche sarebbero divisibili, innanzitutto, su base geografica (ovvero, grammatiche pratiche francesi, inglesi, italiane o tedesche). Ora, tutte e tre queste idee sono effettivamente tradizionali e in ciascuna di esse c’è, per così dire, un granello di verità. I dati che abbiamo descritto fino ad ora, però, mi pare portino a rivedere diversi aspetti di questo quadro. 160 La morfologia derivazionale e il problema del tempo A partire dalla metà del XVI secolo e poi, soprattutto, per tutto il XVII e il XVIII secolo, le grammatiche filosofiche si possono dividere in due gruppi di opere profondamente diversi tra loro sia per l’inquadramento sull’asse del tempo, sia per la teoria della derivatio. Un primo gruppo di grammatiche filosofiche include prima le grammaticae speculativae del XII-XIV secolo e poi le grammatiche generali del XVII-XVIII secolo. Entrambi i tipi di grammatiche descrivono la substantia universale del linguaggio attraverso l’analisi di una lingua particolare (prima il latino, poi il francese), ed hanno un inquadramento sull’asse del tempo di tipo “proto-sincronico” (ossia, in apparenza “sincronico”, ma in realtà “acronico”). Entrambi i tipi di grammatiche, quindi, sviluppano un’interpretazione della derivazione compatibile con il loro approccio: i Modisti ridefiniscono la derivatio in chiave acronica, come il processo semantico-metafisico di creatio-formatio dei concetti nella mente universale degli uomini; i Signori di Port Royal, invece, accettano l’interpretazione proto-diacronica della derivatio tipica dell’antichità, ma escludono qualsiasi riferimento alla derivazione dalla grammatica, che è proto-sincronica, e trattano i nomi derivati nella lessicologia. Il secondo gruppo di grammatiche filosofiche include prima le grammatiche delle causae del XVI secolo, poi le grammatiche “storiche” (i.e. storico-diacroniche) tedesche del XVII-XVIII secolo. Entrambi i tipi di grammatiche si propongono di descrivere l’origo di una lingua particolare (prima il latino, poi il tedesco), nella convinzione che tutte le lingue abbiano la medesima origine. Entrambi i tipi di grammatiche, inoltre, presentano un inquadramento “proto-diacronico” (i.e. pancronico-ontogenetico), poiché descrivono tutto ciò che va dall’origine del linguaggio al funzionamento di una lingua, e propongono una teoria delle derivatio coerente con il loro approccio: Scaligero e Sanzio descrivono i processi di derivatio-formatio delle parole latine a partire dalle loro radici nella lingua originalis, ma confondono la derivatio e l’etimologia, e non analizzano i dati empirici sui nomi derivati più di quanto non facciano le grammatiche pratiche coeve; Adelung e Scottelio, invece, descrivono gli stessi dati empirici e sincronici sulla formazione delle parole in tedesco che descriveremmo noi oggi, ma interpretano questi dati solo sub specie originis linguae. Chiaramente, la differenza tra queste due linee di grammatiche filosofiche, così come la differenza tra le grammatiche filosofiche Dal Medioevo all’età dei Lumi 161 e le grammatiche pratiche in generale non va intesa in modo rigido. Ci sono delle grammatiche pratiche che trattano diffusamente i dati sui nomi derivati, quasi come le grammatiche pancroniche: è il caso di Meigret (1550), Melantone (1558) e Wallis (1668). Ci sono anche delle grammatiche particolari che escludono completamente i dati sui nomi derivati, come le grammatiche generali: è il caso di Linacri (1550), Bödiker (1746), Bel (1755) e Fränklins (1778). Ci sono delle grammatiche generali che si occupano di species e figurae, utilizzando la teoria semantica della derivatio dei Modisti: è il caso di Ratke (1630), Gueinz (1641), Régnier-Desmarais (1706) e Longolius (1715). E ci sono anche delle grammatiche filosofiche che sono dotate di una tensione speculativa modesta e sembrano intermedie tra il polo pratico e il polo filosofico: è il caso di Buffier (1714) in Francia o di Ritter (1616) e Aichinger (1741) in Germania. Infine, soprattutto prima della metà del ‘600, è facile trovare grammatiche intermedie tra il polo pratico e il polo filosofico acronico, come quella di Hellvicus (1616); tra il polo pratico e il polo pancronico, come quella di Clajus (1578); o tra tutti e tre questi poli, come quella di Ramo (1590). Tuttavia, mi pare che, tra il XVI e il XVIII secolo, il genere “grammatica” possa essere inteso secondo tre, e non due, modalità diverse: grammatiche pratiche, grammatiche filosofiche “acroniche” e grammatiche filosofiche “pancroniche”. Sarebbe riduttivo interpretare il contrasto tra le due diverse linee di grammatiche filosofiche come una semplice opposizione “geografica” tra le grammatiche francesi e le grammatiche tedesche. Certo, la linea di descrizione grammaticale acronica ha avuto più successo in Francia, e la linea di descrizione grammaticale pancronica ha avuto più successo in Germania, soprattutto a partire dal XVII secolo. Ci sono, però, grammatiche acroniche tedesche, come quelle di Ratke (1630), Gueinz (1641), Longolius (1715), per non dire della grammatica speculativa di Tommaso di Erfurt, e ci sono grammatiche francesi che, in qualche misura, tendono verso la pancronia, come quelle di Meigret (1550) e, in parte, di Ramo (1590), per non dire delle grammatiche di Scaligero, che era italiano, e di Sanzio, che era spagnolo. L’equazione acronia-grammatica francese vs. pancronia-grammatica tedesca, quindi, è preferenziale, ma non è assoluta. Tuttavia proprio il contrasto “geografico” tra la grammatica filosofica francese, che è preferenzialmente acronica, e la gramma- 162 La morfologia derivazionale e il problema del tempo tica filosofica tedesca, che è preferenzialmente pancronica, ha una rilevanza storiografica particolare. Questo contrasto, infatti, è alla base di quella peculiare “gara di prestigio” che si registra tra gli studiosi francesi e gli studiosi tedeschi tra XVII e il XVIII secolo. Gli studiosi francesi, che escludono la derivazione dalla grammatica, si concentrano sull’analisi della sintassi e cercano di dimostrare la superiorità del francese sulle altre lingue in base alla naturalezza del suo ordo verborum, che sarebbe stato analogue all’ordine “naturale” dei pensieri, come diceva Girard (1747). Gli studiosi tedeschi, che si concentrano sulla derivazione, invece, cercano di dimostrare la superiorità del tedesco sulle altre lingue per la sua maggiore copia verborum80. Se, però, ci rivolgiamo a questa particolare gara di prestigio tra lingue con la giusta distanza storica – e con un filo di ironia –, ciò che resta è solo un contrasto tra due modi strutturalmente diversi di intendere la grammatica “filosofica”: l’uno preferenzialmente francese e acronico, che descrive solo (o quasi solo) dati empirici reali, ma non descrive tutti i dati empirici che noi oggi riteniamo pertinenti per l’analisi grammaticale sincronica, dato che esclude i dati sulla derivatio; l’altro preferenzialmente tedesco, pancronico e incentrato sull’analisi della derivatio, che, però, confonde ampiamente dati empirici sui nomi derivati e teorie filosofiche sull’ontogenesi del linguaggio proprio in virtù della comune interpretazione di quei dati e di quelle teorie solo sub specie originis linguae. 12. Il lascito della linguistica “premoderna” Insomma, nonostante il giudizio tradizionale, io direi che tra il XVI e il XVIII secolo, l’architettura del sapere linguistico include quattro, e non tre, domini di ricerca principali e ciascuno di questi domini è definito da un suo inquadramento sull’asse del tempo e da un diverso modo di descrivere i nomi derivati. In schema (fig. 7): 80 Sulla presenza di questa “gara di prestigio” tra studiosi francesi e tedeschi, si veda McLelland (2011, pp. 2, 47 e 110). Su Girard, si vedano Plank (2001) e Rosiello (1987). Dal Medioevo all’età dei Lumi 163 Lingua-Linguaggio Grammatiche generali francesi generale inquadramento: proto-sincronia derivatio: esclusa dalla grammatica Funzionamento Grammatiche particolari particolare inquadramento: proto-sincronia derivatio: analisi (minima) dei nomi derivati Opere sull’origo linguae generale inquadramento: proto-diacronia derivatio: formazione-creazione di tutte le lingue Grammatiche “pancroniche” tedesche Origine particolare inquadramento: proto-diacronia derivatio: formazione-creazione delle parole tedesche Fig. 7, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e la derivazione tra il XVI e il XVIII secolo Probabilmente, per gli studiosi di questi secoli, i tratti definitori principali di questi quattro gruppi di opere sono lo scopo della ricerca (funzionamento vs. origine); il metodo della ricerca (più empirico-descrittivo quello delle grammatiche pratiche; più filosofico-speculativo quello delle opere sull’origine del linguaggio; intermedio tra i due poli quello delle grammatiche filosofiche); e il tasso di universalità della ricerca (più particolare quello delle grammatiche pratiche e delle grammatiche pancroniche tedesche; più generale quello delle grammatiche generali francesi). Dal nostro punto di vista, però, è vero che ogni gruppo di opere è definito anche o, forse, soprattutto da un suo specifico inquadramento sull’asse del tempo e da uno specifico trattamento della derivatio. Se confrontiamo l’architettura del sapere linguistico nella fig. 7 con quella vigente oggi (cfr. § I.3), si vede chiaramente che gli stessi due problemi che affliggevano l’architettura del sapere linguistico nell’antichità si continuano senza trovare una soluzione definitiva anche tra il Medioevo e l’Età dei Lumi (i.e. la confusione tra 164 La morfologia derivazionale e il problema del tempo le nozioni di lingua e linguaggio, e l’inquadramento dei dati sulla derivazione). Il modo in cui gli studiosi rispondono a questi due problemi, però, è profondamente diverso da quello che si era verificato nell’antichità greco-romana. Anche tra il VI e il XVIII secolo, le nozioni di lingua e di linguaggio sono confuse. La confusione è fuor di dubbio nelle opere proto-diacroniche, che continuano a sovrapporre totalmente la diacronia di una singola lingua e l’ontogenesi del linguaggio, né più né meno di quanto facevano gli etimologisti antichi. Ma, in questi secoli, la confusione diventa evidente anche nelle grammatiche proto-sincroniche: è assolutamente lampante nelle grammatiche filosofiche, che studiano la substantia eterna ed universale del linguaggio attraverso i dati di una singola lingua; ma emerge in modo abbastanza chiaro anche nelle grammatiche pratiche, che finiscono per imporre lo stesso Protokoll descrittivo elaborato sul latino su tutte le lingue a prescindere dalla loro tipologia, perché gli studiosi sono convinti che la substantia eterna e universale del linguaggio sia uguale in tutte le lingue e che questa substantia, in ultima analisi, coincida con la grammatica della lingua latina. Anche le grammatiche di questi secoli, generali o particolari, quindi, hanno un inquadramento, in apparenza sincronico, ma di fatto acronico: più consapevolmente acronico quello delle grammatiche “filosofiche”, ma sostanzialmente acronico anche quello delle grammatiche pratiche. Anche tra il VI e il XVIII secolo, la distribuzione dei dati empirici sui nomi derivati comporta diversi problemi. In una prima fase, tra il VII secolo e il XVI circa, i dati empirici sulla formazione delle parole si squadernano tra tutti i campi del sapere, ma non sono centrali in nessuno, un po’ come avveniva nell’antichità, e in ciascuno di questi campi sono confusi con dei dati o delle teorie molto diverse tra loro: sono confusi con i dati lessicografici nelle grammaticae practicae; sono confusi con le teorie metafisiche sulla formazione dei concetti nelle grammaticae speculativae; sono confusi con l’etimologia nelle grammatiche delle causae e nelle opere sull’origo linguae. Tra il XVI e il XVIII secolo, però, i dati empirici sulla formazione delle parole vengono progressivamente espulsi da tutte le grammatiche proto-sincroniche, sia generali che particolari, e iniziano ad aggregarsi nelle grammatiche proto-diacroniche tedesche. Proprio in queste opere comincia a delinearsi quel comparto dell’analisi grammaticale che tutti oggi chiamiamo “morfologia de- Dal Medioevo all’età dei Lumi 165 rivazionale”, anche se fino a tutto il XVIII, e ancora per una buona parte del XIX secolo, i dati descritti in questo comparto sono interpretati solo in chiave diacronico-ontogenetica. La nuova prospettiva da cui viene affrontata l’analisi dei nomi derivati in questi secoli determina una confusione tra proto-sincronia e proto-diacronia molto diversa da quella che si verificava già nell’antichità, ma non meno profonda. In altre parole, nel VI secolo d.C., la derivazione appariva come una nozione sostanzialmente proto-diacronica, ma i dati empirici sui nomi derivati erano distribuiti su tutti i campi del sapere senza particolari differenze. Invece, nel XVIII secolo, la derivazione continua ad apparire come una nozione sostanzialmente proto-diacronica, ma i dati sui nomi derivati sono sostanzialmente espunti da tutte le opere proto-sincroniche, che non presentano un inquadramento sull’asse del tempo coerente con quello che gli studiosi attribuiscono alla derivazione. Tra l’antichità greco-romana e la linguistica “premoderna”, quindi, i dati empirici sulla formazione delle parole sono stati prima dei dati ambigui, tanto proto-sincronici, quanto proto-diacronici, e poi sono diventati dei dati esclusivamente proto-diacronici, ma non sono mai stati considerati dati puramente sincronici, come lo sono per noi moderni. A questo punto è chiaro che quella che tutti noi, con una formulazione anacronistica e post-saussuriana, chiamiamo la “confusione tra la sincronia e la diacronia” è l’effetto risultante di due confusioni diverse che interagiscono, ma restano logicamente distinte: da una parte c’è la confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio (quindi, a fortiori, quella tra la sincronia e l’acronia, e tra la diacronia e la pancronia); dall’altra c’è l’inquadramento della derivatio sull’asse del tempo e la sua analisi nelle grammatiche. Chiaramente, gli studiosi di questi secoli non hanno consapevolezza di nessuna di queste due confusioni nella stessa forma in cui le inquadriamo noi oggi. Tuttavia, è difficile sostenere che entrambi i problemi non fossero presenti, almeno in qualche forma, alla consapevolezza degli studiosi del XVIII secolo. La divisione delle opere “proto-sincroniche” e delle opere “proto-diacroniche” in due filoni di ricerca, uno di carattere più generale e uno di carattere più particolare, infatti, rappresenta il primo nucleo a partire dal quale verrà elaborata la distinzione tra le nozioni di lingua e di linguaggio. Certo, ancora nel XVIII secolo, questa 166 La morfologia derivazionale e il problema del tempo distinzione rappresenta una distinzione “di secondo livello”, che è subordinata a quella che oppone le opere che studiano il funzionamento della lingua-linguaggio e le opere che studiano l’origine della lingua-linguaggio; è difficile, però, negare che la necessità di distinguere un approccio generale e un approccio particolare all’analisi linguistica fosse presente agli studiosi a partire almeno dal XVI secolo e poi ancora di più nel XVII e nel XVIII secolo, sia nel campo della proto-sincronia, sia nel campo della proto-diacronia. Lo stesso discorso vale per l’inquadramento della derivazione sull’asse del tempo. A partire dal XII secolo nelle grammatiche speculative, e poi in modo sempre più evidente tra il XVI e il XVIII secolo, gli studiosi cercano prima di interpretare i dati sui nomi derivati in chiave acronica, per poterli descrivere nelle grammatiche filosofiche proto-sincroniche, poi accettano l’interpretazione proto-diacronica tradizionale della derivazione, ma escludono i dati sui nomi derivati dalle grammatiche proto-sincroniche e li descrivono solo all’interno delle grammatiche proto-diacroniche, che confondono questi dati con le teorie filosofiche sull’origo linguae. Certo, in questi secoli, i dati sui nomi derivati non appaiono mai come dati empirici e sincronici, come li consideriamo noi moderni oggi; però, è evidente che anche gli studiosi attivi in questi secoli, proprio come noi, sentivano la necessità di “armonizzare” l’inquadramento sull’asse del tempo scelto per la grammatica in generale e l’inquadramento sull’asse del tempo dei dati sui nomi derivati. CAPITOLO IV: LE GRAMMATICHE SANSCRITE TRA IL BAROCCO E BOPP 1. Introduzione La terza questione storiografica di cui vorrei occuparmi per mostrare la relazione che intercorre tra la storia della morfologia derivazionale e il problema del tempo riguarda le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra il Barocco e gli anni ’30 del XIX secolo (ovvero, in buona sostanza, fino alle grammatiche sanscrite di Bopp 1827; 1832; 1834). Esistono diverse ragioni per studiare il modo in cui la morfologia derivazionale è trattata in queste grammatiche. Innanzitutto, Lindner (2015a) ha mostrato che le grammatiche pratiche delle lingue classiche e, più in generale, le grammatiche pratiche delle lingue europee, iniziano a presentare un capitolo specificamente dedicato all’analisi della Wortbildung solo nei primi anni del XIX secolo, proprio in virtù del fatto che un capitolo analogo si trovava già nella Vergleichende Grammatik di Bopp (1833). È noto, però, che il principale modello per la Vergleichende Grammatik di Bopp, almeno come struttura e come ordinamento dei materiali, è costituito proprio dalle grammatiche sanscrite scritte da Bopp stesso (1827; 1832; 1834). Non sarebbe sorprendente, quindi, se le grammatiche sanscrite di Bopp rappresentassero il modello principale anche per l’analisi dei dati sulla morfologia derivazionale. Inoltre, è noto che la morfologia derivazionale sanscrita è particolarmente produttiva, anche più di quanto non lo sia quella del greco antico o del tedesco. Non rappresenterebbe un dato inatteso, quindi, se i primi indianisti avessero cercato un modo per descrivere questa caratteristica specifica e piuttosto evidente della lingua sanscrita. Nel cap. III, però, abbiamo visto che il modo in cui è descritta la morfologia derivazionale nelle grammatiche pubblicate tra il Medioevo e l’Età dei Lumi non dipende tanto 168 La morfologia derivazionale e il problema del tempo dalla produttività che la morfologia derivazionale ha in questa o in quella lingua, ma dipende soprattutto dall’approccio utilizzato in questa o in quella grammatica. In altre parole, la morfologia derivazionale tedesca è meno produttiva di quella del greco omerico, ma le grammatiche del greco sono grammatiche pratiche, quindi presentano un approccio di tipo proto-sincronico, seguono un Protokoll di tipo “lessicalista”, trattano poco i dati sui nomi derivati e non descrivono mai i processi di formazione delle parole ma, al massimo, descrivono i prodotti lessicalizzati dei processi “proto-diacronici” di formazione delle parole (i.e. i nomi derivati e composti). Le grammatiche “filosofiche” tedesche, invece, presentano un inquadramento “proto-diacronico”, descrivono ampiamente i dati sulla derivazione e, spesso, descrivono anche i processi di derivazione, ma interpretano tutto ciò che ha a che fare con la derivazione solo sub specie originis linguae. È quindi naturale chiedersi come si collochino le grammatiche sanscrite rispetto a questo quadro. Inoltre, una simile domanda può risultare tanto più interessante, quanto più si incrocia con una caratteristica peculiare della filologia indiana e del processo di “grammaticizzazione” (nel senso di Auroux 1994) del sanscrito. Mentre le lingue classiche e poi le altre lingue europee sono sempre state descritte attraverso l’utilizzo di un modello di analisi di tipo “lessicalista”, il sanscrito è stato descritto prima attraverso le lenti della grammatica indiana autoctona, che ha un’impostazione totalmente “non-lessicalista” (cfr. infra) e, solo dopo, attraverso le lenti della grammatica europea a base greco-latina. La quantità e il tipo di dati sulla morfologia derivazionale che si trovano nelle prime grammatiche sanscrite pubblicate in Europa, e anche l’interpretazione di questi dati, quindi, sono il frutto di una mediazione complessa tra la produttività della morfologia derivazionale sanscrita, il modello descrittivo totalmente “non-lessicalista” tipico della grammatica indiana nativa, il Protokoll descrittivo ampiamente “lessicalista” di tutte le grammatiche “proto-sincroniche” europee, sia generali, sia particolari, e la concezione “proto-diacronica” della derivazione tipica delle grammatiche pancroniche tedesche. A queste ragioni storiografiche di ordine generale, se ne aggiunge un’altra di ordine più specifico, che riguarda la storiografia della filologia sanscrita. La critica, da Martineau (1867, Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 169 p. 309) a Leskien (1876, p. 144), fino a Law (1993) e Rocher (2002), ha sempre visto le grammatiche sanscrite di Bopp come il principale punto di svolta tra l’indologia “militante” o “missionaria” degli studiosi soprattutto inglesi dei primi anni del XIX secolo, che dipende in modo notevole dalla tradizione grammaticale indiana, e l’indologia “accademica” degli studiosi soprattutto tedeschi del pieno XIX secolo, che si è emancipata da quella tradizione1. In genere, da questa valutazione, in sé inoppugnabile, si fa discendere in modo automatico una seconda idea, secondo la quale, grazie a Bopp, “the time-honoured framework of Greek grammar […] had been superimposed to Sanskrit” (Law 1993, p. 245). Ora, in parte, questa seconda idea è ragionevole: se si confronta la grammatica sanscrita di Bopp con quelle di Carey (1804) o di Colebrooke (1805), è evidente che la grammatica di Bopp non solo è molto simile alle grammatiche di sanscrito contemporanee, ma soprattutto non richiede alcuna conoscenza pregressa di grammatica indiana autoctona per essere letta e compresa, mentre le grammatiche di Carey e di Colebrooke – per fare due esempi tra i vari possibili – sono ben poco comprensibili se non si ha qualche familiarità con la teoria grammaticale indiana. Il processo di adattamento del sanscrito al Protokoll delle grammatiche pratiche europee, quindi, si conclude davvero con la Ausführliches Lehrgebäude der Sanscrita-Sprache di Bopp (1827). Tuttavia, io non direi che grazie a Bopp il modello delle grammatiche a base greco-latina è stato “imposto” sul sanscrito. Anzi, al contrario, nel seguito di questo capitolo, vorrei provare a dimostrare che, proprio grazie a Bopp, the framework of Greek-Latin grammar è stato modificato in modo sostanziale per consentire l’analisi della formazione delle parole, che rappresenta una caratteristica fondamentale del sanscrito come lingua e uno dei temi più studiati nella grammatica indiana nativa. 1 Sul contrasto tra indologia “militante-missionaria” soprattutto inglese e indologia “accademica” soprattutto tedesca, e sul diverso valore attribuito ai grammatici indiani nativi nei due approcci, si vedano Rocher L. (1979, p. 8), Staal (1972), Law (1993), Rocher R. (2002) e Rocher & Rocher (2013, p. 8). Sulle prime grammatiche europee di sanscrito, si vedano Adelung (1832), Wilson (1865, pp. 285 ss.), Gipper & Schmitter (1979, pp. 32 ss.), Law (1993), Muller (1986; 1993) e Milewska (2003). 170 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 2. La teoria grammaticale indiana Come si è visto nel cap. III, il Protokoll descrittivo utilizzato tanto nelle grammatiche pratiche, quanto nelle grammatiche generali, si fonda sull’assunto che la parola sia un’unità minima e indivisibile, che la descrizione grammaticale richieda un solo livello di analisi (i.e. il livello delle parole formate), che i processi di formazione delle parole siano esclusi dalla descrizione grammaticale in senso proprio, perché riguardano l’origine del linguaggio, e che la descrizione grammaticale di ogni lingua debba comprendere tre sezioni principali: i suoni della lingua, la flessione delle partes orationis e la sintassi. I grammatici indiani nativi, invece, fin dal V-IV secolo a.C., hanno sviluppato un modello di descrizione linguistica di incredibile raffinatezza e di altrettanto notevole precisione che è perfettamente adeguato per descrivere la struttura della lingua sanscrita, ma si basa su degli assunti teorici completamente diversi, se non addirittura opposti, rispetto a quelli su cui si fonda il Protokoll descrittivo a base greco-latina che si usa nelle grammatiche “proto-sincroniche” europee, sia generali sia particolari2. In India, la scienza grammaticale si divide in tre comparti principali: śīkṣa ‘fonetica’, nirukta ‘etimologia’, vyākaraṇa ‘analisi grammaticale’. Lo śīkṣa si occupa dei suoni e delle loro combinazioni; il nirukta, che trova la sua massima espressione nel Nirukta di Yāska (V a.C. circa), si occupa dell’analisi semantica dei nomi e della loro adeguatezza ontologica, ma non della loro formazione (Nir. II.1). Il vyākaraṇa si occupa di analisi linguistica in senso stretto (vy-ā-kr̥- ‘dividere, analizzare’) e trova la sua massima espressione nell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini (lett. ‘Trattato in otto lezioni’, generalmente attribuito al V-IV a.C., cfr. Cardona 1997a: 4). L’opera di Pāṇini è composta da circa 4000 sūtra ‘aforismi’ o, più semplicemente, ‘regole’, che sono dotate di una tale brevità e 2 Per una descrizione introduttiva del modello di analisi linguistica utilizzato in India, si vedano Pineault (1989), Itkonen (1991, pp. 1-85) e Aussant (2019). Sull’importanza che la derivazione ha in questo modello, si veda Brocquet (2008). Sulla diversità tra il sistema grammaticale indiano e il modello di analisi linguistica tradizionale europeo, si vedano Misra (1966, p. 66) e Cardona (1997b, p. 232). Sulle analogie tra il modello indiano e i modelli anti-lessicalisti Item and Arrangment e Item and Process dello strutturalismo americano, si veda Blevins (2016, pp. 14 ss.). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 171 una tale densità concettuale da essere difficilmente comprensibili senza l’ausilio di specifici commenti, come i Vārttika ‘glosse’ di Kātyāyana (III a.C. circa) e il Mahābhāṣya ‘Grande commento’ di Patañjali (II a.C. circa). L’Aṣṭādhyāyī, insieme ai Vārttika e al Mahābhāṣya forma il trimunivyākaraṇa ‘la grammatica dei tre saggi’, che rappresenta l’auctoritas grammaticale assoluta in India. A sua volta, l’insieme di queste tre opere, che sono effettivamente complesse alla lettura, è volgarizzata all’interno delle prakriyā ‘trattati pratico-didattici’, che rappresentano la base dell’insegnamento pratico del sanscrito in tutta l’India, come il Rūpāvatarā di Dharmakīrti (XI d.C.), il Mugdhabodha di Vopadeva (XIII d.C.), la Prakriyā-kaumudī di Rāmacandra (XIV d.C.) e la Siddhānta-kaumudī di Bhaṭṭoji Dīkṣita (XVII d.C.)3. La differenza principale tra la grammatica di Pāṇini e i suoi volgarizzamenti successivi consiste nell’approccio: mentre Pāṇini insegna a formare le parole della lingua sanscrita a partire dalle unità minime del lessico (i.e. radici e suffissi), Vopadeva insegna ad analizzare, ossia a segmentare e scomporre, le parole della lingua sanscrita nei loro elementi formativi (Pontillo 2003a, 2003b)4. Nonostante questa differenza di prospettiva, però, tutte le opere di vyākaraṇa si propongono di descrivere le operazioni (kārya) necessarie per formare o per analizzare tutte le parole (pada) che potrebbero formare una qualsiasi frase sanscrita (vākya) a partire dagli elementi minimi della lingua, ossia le basi lessicali (prakr̥ti) e i suffissi (pratyaya). Queste unità, per gli indiani, nascono dall’immaginazione (kalpanā) dei grammatici, dunque non sono propriamente delle unità “reali” in senso forte (Sharma 2002: I, p. 4), ma rappresentano comunque le unità di base di tutta la teoria linguistica indiana, una teoria linguistica che non tratta la parola come un’unità indivisibile, ma la vede come un aggregato complesso che è forma3 4 Sull’insegnamento della grammatica in India, si vedano Gerow (2002), Scharfe (2002) e Tull (2015). Le prakriyā contaminano l’approccio formale di Pāṇini con l’approccio semantico del Nirukta, come facevano già Patañjali e Kātyāyana, e si concentrano sulla discussione degli esempi, che non sono mai citati da Pāṇini. In genere, vy-ā-kr̥- è glossato ‘dividere, analizzare’, ma non è escluso che il termine, già in origine, possa far riferimento a un processo di creazione (scr. kr̥- ‘fare’) delle unità linguistiche. Per una discussione sul tema, si vedano Thieme (1982-3, pp. 11 e 23-4) e Cardona (1997a, pp. 565-471). 172 La morfologia derivazionale e il problema del tempo to produttivamente a partire da un elemento fondamentale, il dhātu ‘radice’ (lett. ‘fondamento, elemento di base’)5. La diversa concezione della parola determina un’organizzazione dei contenuti molto diversa nel vyākaraṇa e nelle grammatiche europee. L’Aṣṭādhyāyī, ad esempio, include VIII libri. Se si escludono i libri I-II, che trattano temi miscellanei (i.e. le regole interpretative generali, l’analisi della flessione attiva e media, la sintassi dei casi, la composizione e la funzione delle desinenze flessionali), l’Aṣṭādhyāyī comprende tre comparti tematici e ciascun comparto è definito dalla presenza di una diversa unità di input per le regole di formazione previste nel libro stesso. I libri III-VII riuniscono le regole che elaborano una base lessicale (prakr̥ti). Le basi lessicali sono di due tipi, il dhātu ‘radice’ e il prātipadika ‘tema nominale’, e ogni tipo di base può essere primaria o derivata. Il libro III, quindi, riunisce tutte le regole che hanno una radice (dhātu) primaria o derivata come forma di input e producono un verbo (tiṄ) o un tema nominale derivato tramite un suffisso primario (kr̥t) come forma di output. I libri IV-V, invece, riuniscono tutte le regole che richiedono un tema nominale (prātipadika) primario o derivato con un suffisso kr̥t come forma di input e producono un tema nominale derivato con un suffisso secondario (taddhita), un tema di femminile (ṄīP) o un nome flesso (sUP) come forma di output6. I libri VI e VII 5 6 L’utilizzo del dhātu come forma di base per la derivazione delle parole è canonizzato da Pāṇini, ma non è nato ex nihilo (Chatterji 1964, p. 64-5; Pontillo 1994 e 2003b, p. 110). Nell’Aitareya Brāhmaṇa (V a.C. circa), ad esempio, si usa il participio passato del verbo presente in una stanza come mezzo per citare tutta la stanza; nella Śatapatha Brāhmaṇa (VIII a.C. circa) VII.4.1.10, la connessione tra due forme corradicali è indicata attraverso la terza persona singolare del presente indicativo. In altri casi, sempre nell’Aitareya Brāhmaṇa, è possibile trovare il participio passato unito al suffisso -vat (mahad-vad o jāta-vat per indicare le radici mah- e jan-), ma anche il participio presente, l’imperativo, il nome d’agente o il nome d’azione (per una disamina dei passi salienti, si veda Scharfe 1977, pp. 81-82). Le lettere maiuscole indicano gli it (o anubandha): si tratta di elementi funzionali che si elidono nel processo di derivazione dopo aver indotto delle modifiche formali sulle unità a cui sono affissi (i.e. letters that are rejected in inflection […], the rejection of a letter being equal to a grammatical rule, nella definizione di Carey 1806, p. v). In pratica, gli it si usano per gli scopi più disparati. Ad esempio, una P unita alle desinenze verbali determina il grado guṇa: i- ‘andare’ + tiP → eti ‘va’, e una K unita a un suffisso kr̥t implica il grado zero: budh- ‘svegliarsi’ + Ka → budha- ‘sveglio’. Pāṇini descrive le Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 173 descrivono le modifiche formali che subiscono tutte le basi che precedono un suffisso (aṅga), siano esse dei dhātu o dei prātipadika. Il libro VIII, infine, riunisce le regole che riguardano i pada ‘parole formate’. In schema (fig. 8, cfr. Sharma 2002: I, p. 166, lievemente adattato)7: prātipadika ṄīP taddhita (+ṄīP) prakr̥ti sUP kr̥t (+taddhita (+ṄīP)) dhātu TiṄ Fig. 8, la struttura dell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini Ora, l’organizzazione della grammatica di Pāṇini non si fonda propriamente su una teoria dei livelli di analisi nel senso occidentale del termine8. Ciò nonostante, tutte le regole descritte 7 8 regole d’uso degli it in Aṣṭ. I.3.2-9 e VII.2.114 ss. Per le funzioni degli it, si vedano Misra (1966, pp. 65 ss.) e Devasthali (1967); per un’utile introduzione sull’utilizzo degli it, si veda Itkonen (1991, pp. 16 ss.). Sulla struttura della grammatica di Pāṇini si veda Cardona (1997a; 1997b). Le prakriyā hanno una struttura simile, ma antepongono la sezione sui suffissi nominali a quella sui suffissi verbali (Scharfe 1977, p. 174; Sharma 2002: I, pp. 24 e 30; Aklujkar 2008, p. 197); inoltre, in diverse prakriyā, come la Siddhānta-kaumudī di Bhaṭṭoji Dīkṣita (cfr. Vasu 1995), i sūtra sono ordinati in base alla parte del discorso a cui si riferiscono (i.e. nome, verbo, etc.), invece che in base al livello di analisi considerato (cfr. Aussant 2019, p. 494). Secondo alcuni studiosi, nella grammatica indiana manca la sintassi: Pāṇini, però, descrive l’assegnazione dei casi nella sezione sui kāraka che, per noi occidentali, riguarda la sintassi dei casi. Inoltre, il fine dell’Aṣṭādhyāyī è quello di insegnare a formare una qualsiasi frase sanscrita, anche se la formazione della frase è descritta solo in forma indiretta, insegnando a formare le parole che comporrebbero qualsiasi frase (Scharfe 1977, p. 98; Sharma 2002: I, pp. 41-56). In effetti, nella fig. 8, gli elementi sulla stessa “linea” appartengono a “livelli” diversi, ed elementi dello stesso “livello” si trovano su “linee” diverse: le prakr̥ti sono primarie e derivate; tiṄ, kr̥t, taddhita e ṄīP sono sulla stessa linea, ma 174 La morfologia derivazionale e il problema del tempo nell’Aṣṭādhyāyī richiedono almeno due livelli di analisi, uno per le unità di input della derivazione (prakr̥ti o aṅga), l’altro per le unità di output del processo di derivazione (prakr̥ti derivate o anche pada). Come la teoria dei livelli, così anche la teoria indiana delle unità minime è molto diversa da quella greco-latina. I grammatici indiani non utilizzano un solo livello di analisi (i.e. il livello delle parole formate) diviso in tre classi (nome, verbo e aggettivo) ma due livelli di analisi divisi in due classi ciascuno. Le unità minime del livello dei pada si dividono in due classi: nāman o subanta ‘nome’ e ākhyata o tiṅanta ‘verbo’, a cui si possono eventualmente aggiungere upasarga ‘preverbo’ e nipata ‘particella’ (o, nei termini di Pāṇini, avyaya ‘invarianti’). Le classi di subanta o tiṅanta sono delle classi flessionali come dice il nome stesso (lett. ‘ciò che finisce [anta ‘fine’] con una desinenza nominale [sUP]’ e ‘ciò che finisce [anta ‘fine’] con una desinenza verbale [tiṄ]’) e sono simili alle partes orationis della grammatica latina (Sharma 2002: I, p. 165)9. In India, però, la flessione è un’operazione stem-, non word-based, perché il pada è l’unità di uscita dell’elaborazione flessionale, ma non 9 tiṄ indica una parola flessa, kr̥t indica un derivato primario, taddhita indica un derivato secondario, e ṄīP indica un nome primario, un derivato primario o un derivato secondario; d’altra parte, tiṄ e sUP rientrano entrambi nella classe dei pada, ma sono collocati su linee diverse; e qualsiasi unità può essere un aṅga, se è seguito da un suffisso. La grammatica indiana, quindi, è organizzata attorno al concetto di “dominio”, più che a quello di “livello” (Sharma 2002: I, p. 165). Alcuni studiosi, invece, credono che Pāṇini utilizzi gli stessi “livelli” di analisi del generativismo: semantica, sintassi astratta (i kāraka), sintassi superficiale e fonetica (Kiparsky & Staal 1968; Kiparsky 1982). Per una critica di questa tesi, però, si vedano le considerazioni di Sharma (2002: I, pp. 56-9). Pāṇini non usa il termine nāman, ma usa ākhyata. Il termine avyaya è definito in Aṣṭ. I.1.37; i termini subanta e tiṅanta sono definiti in Aṣṭ. I.4.14. Il termine sUP indica l’insieme delle desinenze nominali (elencate in Aṣṭ. IV.1.2) e il termine tiṄ l’insieme delle desinenze verbali (elencate in Aṣṭ. III.4.78). L’insieme delle desinenze è indicato per metonimia, citando solo il primo elemento della serie: la -s del nominativo singolare e la -ti della terza persona del presente indicativo. Le lettere -UP- e -Ṅ- sono it (cfr. n. 6 § IV.2): -U- indica che le desinenze richiedono il sandhi; -P- che sono enclitiche; -Ṅ- che possono indurre l’apofonia. Nella teoria indiana, inoltre, l’aggettivo non è una parte del discorso diversa dal nome: per gli equivalenti funzionali dell’aggettivo nella grammatica indiana, si vedano Pontillo & Candotti (2011). Per la teoria indiana delle parti del discorso in generale, si vedano Radicchi (1973-4), Cardona (1997a; 1997b) e Aussant (2019). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 175 è l’unità a cui si affiggono le desinenze, che è solo il prātipadika ‘tema nominale’. I grammatici indiani, infatti, non trattano la desinenza (vibhakti) come la parte finale di una parola, come implica il termine lat. terminatio, ma la immaginano come la parte che viene separata o divisa dal tema (vi-bhaj- ‘dividere’); nello stesso modo, i grammatici indiani non vedono i paradigmi come un insieme di parole flesse, ma li vedono come il prodotto dell’affissione di un certo numero di desinenze ad un tema semplice10. Se il livello dei pada prevede le due classi sintattico-flessionali di nome e verbo, le forme di input che servono per costruire i pada non sono in sé stesse né nomi né verbi, ma sono prakr̥ti ‘basi lessicali’ che, a loro volta, sono divise in due classi: dhātu ‘radice’ e prātipadika ‘tema nominale’. I pada, che rappresentano le unità di output del processo di derivazione, sono classificati in base all’occorrenza delle desinenze nominali e verbali; le prakr̥taya, che sono le unità di input della derivazione, invece, sono classificate attraverso l’utilizzo dei suffissi. I suffissi (descritti a partire da Aṣṭ. III.1.1) sono divisi in due classi; i suffissi primari (kr̥t) che si uniscono alle radici (Aṣṭ.III.1.93) e formano i kr̥danta ‘derivati che terminano con un suffisso kr̥t’, come vác-as- ‘parola’ da vac- ‘parlare’; e i suffissi secondari, o taddhita, che si uniscono ai prātipadika (Aṣṭ. IV.1.1 e IV.1.76) e formano i taddhitanta ‘derivati che terminano con un suffisso taddhita’, come áśva-vant- ‘che possiede cavalli’ dal nome primario áśva- ‘cavallo’ e táras-vant‘veloce’ da tár-as- ‘velocità’, che è un derivato kr̥t della radice tr̥ - ‘passare attraverso’11. La lessicografia indiana è coerente con una teoria delle parti del discorso che distingue in modo sistematico elementi primari ed ele10 11 Sulla nozione indiana di flessione, si veda Ronzitti (2014). I termini kr̥t e taddhita possono indicare sia i suffissi con cui si formano i derivati, sia i derivati stessi (Chatterji 1964, pp. 102 e 108-11). La distinzione kr̥t/taddhita è stata alle volte messa in dubbio per alcuni errori dei grammatici indiani (Burrows 1955, p. 119): ad esempio, il nome udrá‘lontra’ è tradizionalmente considerato un derivato kr̥t della radice ud- ‘bagnare’ (i.e. ud-ra-); ma, si tratta di un derivato taddhita: udr-á- ‘[animale] acquatico’ formato dal nome *udar- ‘acqua’ (gr. ὕδωρ, lat. unda < *ud-na-), che, a sua volta, è un derivato kr̥t della radice ud-. Se si esclude qualche errore, però, la divisione tra suffissi kr̥t e taddhita è generalmente accolta dalle grammatiche sanscrite europee (MacDonell 1910, p. 138; Whitney 1924, p. 418; Burrows 1955, p. 288). 176 La morfologia derivazionale e il problema del tempo menti derivati. La lessicografia più antica non raccoglie i pada, ma le radici. I dhātu sono raccolti nel dhātupāṭha ‘lista di radici’ (path‘recitare’, dato che il dhātupāṭha veniva declamato ad alta voce dagli studenti nelle scuole brahmaniche), che probabilmente risale a Pāṇini stesso12. I temi nominali formati con i suffissi kr̥t, invece, sono raccolti nel gaṇapāṭha ‘lista di temi gruppi’, che forse risale anch’esso a Pāṇini, mentre gli avyutpanna ‘elementi inderivabili’ e gli uṇādi ‘nomi formati con il suffisso -uṆ-, etc.’, i.e. i nomi formati secondo regole ad hoc, che seguono schemi formali irregolari o non del tutto produttivi, sono elencati in una sezione specifica della grammatica di Pāṇini, gli uṇādisūtra (Aṣṭ. III.3.1). La lessicografia più tarda, che si sviluppa a partire dalla fine del V secolo d.C. con l’Amarakoṣa di Amarasiṃha, invece, elenca i pada dividendoli per campi concettuali, ma non usa un criterio strettamente alfabetico e non registra tutto l’insieme delle parole sanscrite, come fanno i vocabolari latini. Insomma, nella teoria grammaticale indiana le parole sono il risultato di un processo di formazione che parte dai morfemi semplici (radici e suffissi), e la classificazione delle unità minime della lingua non richiede un livello di analisi diviso in tre classi, ma due livelli divisi in due classi ciascuno (dhātu e pratipādika sul livello della prakr̥ti, sUP e tiṄ sul livello del pada)13. La parte principale di ogni grammatica indiana, quindi, è dedicata a descrivere le regole produttive di derivazione che i parlanti possono utilizzare per formare o, al massimo, per analizzare le parole sanscrite. 12 13 Sull’attribuzione di dhātupāṭha, gaṇapāṭha e uṇādisūtra si vedano Scharfe (1977, p. 102) e Sharma (2002: I, p. 37 ss.). Diversamente dal dhātupāṭha, il gaṇapāṭha non contiene solo temi nominali, ma contiene tutti i “gruppi” di parole diversi dalle radici verbali, come i temi nominali, ma anche i numerali, i pronomi o alcune particelle invariabili (ad esempio, ca ‘e’ che inizia il gruppo nr. 85 del gaṇapāṭha nell’edizione di Böhtlingk). Per un esempio di dhātupāṭha moderno, si veda Werba (1997). Sulla storia del dhātupāṭha, si vedano Paustian (1977) e l’antologia di Staal (1972). Sulla storia della lessicografia indiana, si veda Vogel (1979; 1999). Secondo Yāska e gli etimologisti tutte le parole indiane sarebbero derivate dai dhātu senza eccezioni (Nir. I, 12); per i grammatici come Pāṇini, invece, molte parole sono derivate ma esistono anche nomi primari. Sul tema, si vedano Katre (1968-69: II, p. 399), Scharfe (1977, p. 81) e Pontillo (2003b, pp. 110 ss.). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 177 3. Le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa tra Roth (1660-1668) e Bopp (1827, 1832, 1834) Vasco de Gama approda nelle Indie Orientali nel 1498. A metà del XVI secolo, i gesuiti Franz Xavier, Filippo Sassetti e Francesco de Nobili organizzano la prima missione cristiana a Goa. Le prime traduzioni di testi sanscriti, però, risalgono solo alla metà del XVIII secolo, quando il missionario Abraham Rogers traduce gli aforismi di Bartr̥ hari in un lavoro sulla religione e sulla cultura indiana (De Open-Deure tot het verborgen Heydendom, Leida 1651). Negli stessi anni il frate carmelitano Roth, di stanza ad Agra, pubblica la prima grammatica sanscrita scritta da un europeo (1660-1668), che però resta sostanzialmente ignota in Europa. Alla generazione successiva risalgono la grammatica di Hanxleden (1712-1732), che era allievo di Roth, e la lettera sul sanscrito dell’Abbate da Pons a Padre du Halde, che è la fonte principale per la conoscenza del sanscrito da parte di Brosses, dell’Abbate Cœrdoux e degli Enciclopedisti14. Nel XVIII secolo, l’India è sotto il dominio inglese e i funzionari britannici sentono la necessità di un approccio diretto alle leggi indiane, la cui interpretazione finisce spesso per essere manipolata a proprio piacimento dai pandit. Nel 1773, Warren Hastings, Governatore del Bengala, incarica Nathanel Brassey Halhed di redigere un codice di leggi basato sui testi indiani. L’opera, A Code of Gentoo Laws (1776), è una collazione di various originals in the Sanskrit language (Halhed 1776, p. x) e fornisce un impulso per lo studio del sanscrito da parte dei ceti dirigenti inglesi di stanza in India15. Negli stessi anni compaiono diverse traduzioni di testi sanscriti in Europa, come la Bhagavad Gītā di Wilkins (1785), la 14 15 Sulle prime traduzioni di testi indiani si vedano Müller (1892: I, pp. 192 ss.) e Windisch (1917, pp. 2-3). Sulla conoscenza del sanscrito da parte di de Brosses e degli Enciclopedisti, si vedano Rosiello (1986) e Swiggers (1988-90); su Cœurdoux e la lettera dell’Abbate da Pons si vedano Gipper & Schmitter (1979, p. 35), Mayrhofer (1983), Staal (1972, pp. 30-31) e Belardi (2002: I, pp. 227 e 273); su entrambi i temi, si veda Rocher (2002). Sull’importanza di Roma e dell’Italia per gli studi sanscriti nel XVIII secolo, si veda Marazzini (1987; 1990). Si noti che, nella sua grammatica di bengalese (1778), Halhed include varie note sul sanscrito e si accorge della somiglianza tra sanscrito e greco prima di Jones (Law 1993, p. 239). Sulle ragioni che spinsero gli Inglesi a studiare il sanscrito, si veda Rocher (1993, p. 235). 178 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Śakuntalā di Jones (1789) e la Oupnek’hat di A.H. Anquetil-Duperron, la traduzione francese delle Upaniṣad che fu resa famosa da Schopenauer. In questa prima fase, però, l’interesse per il sanscrito come lingua è limitato e non si hanno strumenti didattici specifici. Gli studiosi europei, come Wilkins, Jones, Colebrooke e Wilson, quindi, devono rivolgersi direttamente ai pandit indiani per imparare la lingua, che viene insegnata agli Europei seguendo il modello descrittivo indiano16. Il Third Anniversary Discourse tenuto da William Jones alla Royal Asiatic Society nel 1786 e la fondazione di Fort Williams a Jahre nel 1800 da parte di Richard Wellesley, con l’istituzione della prima cattedra di sanscrito ricoperta da un europeo, l’inglese H. Th. Colebrooke, aprono una fase nuova dell’indologia. Negli stessi anni, nascono le prime cattedre di sanscrito in Europa, come quella dell’East India College (o Haileybury College) fondato nel 1804, dove insegnano Hamilton a partire dal 1806 e poi Wilkins, oppure quella del College de France, dove insegna Chezy a partire dal 181417. Proprio l’istituzione di queste cattedre segna l’inizio della progressiva divaricazione tra la grammatica indiana nativa e lo studio del sanscrito in Europa. Il definitivo divorzio tra la filologia sanscrita europea e la grammatica indiana, però, avviene con l’istituzionalizzazione delle 16 17 Su Duperron si veda Schwab (1984, pp. 161-63). Quasi tutti i lavori sul sanscrito usciti sulle Asiatick Researches di questi anni rimandano a due nomi: Wilkins e Jones (Tull 2015, pp. 217 e 242 n. 7). L’utilizzo dei pandit come docenti, soprattutto nella prima fase degli studi sanscriti, è perfettamente noto (Windisch 1917, p. 1; Rocher 1995, pp. 235-40; 2002; Franklins 2011, p. 34 e le testimonianze dirette di William Jones 1771, pp. xviii); ed è altrettanto noto che la prima base per l’insegnamento grammaticale dei pandit era la grammatica di Pāṇini: un monaco buddhista cinese del VII secolo d.C., ad esempio, racconta che l’educazione tradizionale indiana iniziava a sei anni; a otto anni, il futuro pandit imparava a memoria tutta l’Aṣṭādhyāyī e impiegava gli anni successivi a cercare di dare un senso al testo che aveva memorizzato attraverso lo studio dei commenti (Staal 1972, pp. 11-17). Diverse testimonianze dirette, inoltre, confermano che questo metodo era utilizzato ampiamente ancora nel XX secolo (Ingalls 1959, p. 5 e Itkonen 1991, pp. 12-13). Hamilton vive in India tra il 1783 e il 1797, studia con un pandit e pubblica una traduzione dell’Hitopadeśa, con un’analisi grammaticale e una lista dei termini grammaticali indiani (Rocher 1968, pp. 5-10 e 72-79), ma non scrive una grammatica. Chezy segue a Parigi le lezioni di Sacy insieme a Bopp e, con Anquetil-Duperron, legge la lettera dell’Abate da Pons che lui stesso ha ritrovato nella Bibliothèque du Roi (Staal 1972, p. 30). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 179 cattedre di sanscrito nelle università tedesche a partire dagli anni ’20 del XIX secolo, dopo il successo dell’ipotesi indoeuropea di Bopp18. Insomma, le primissime grammatiche sanscrite che sono state pubblicate dagli studiosi europei rappresentano il contesto ideale per verificare in che modo gli studiosi europei abbiano mediato tra la produttività della morfologia derivazionale sanscrita, la grammatica indiana nativa che è incentrata sulla descrizione della formazione delle parole, il Protokoll canonico delle grammatiche europee e l’interpretazione proto-diacronica della derivazione abituale delle grammatiche filosofiche tedesche del XVII e XVIII secolo. 3.1 La grammatica di Roth (1660-1668) La prima grammatica della lingua sanscrita realizzata da uno studioso occidentale è la Grammatica linguae sanscretanae del Padre carmelitano Heinrich Roth, composta ad Agra tra il 1660 e il 1668 e pubblicata solo negli anni ’80 del XX secolo (Camp & Muller 1988)19. L’influsso della grammatica indiana è molto evidente nell’opera di Roth, a cominciare dalla terminologia, che proviene tutta dalla tradizione indiana. Roth, ad esempio, divide la flessione del nome in due classi, come fanno i grammatici indiani: svāraṁta ‘che finisce in vocale (svāra)’ e hasaṁta ‘che finisce in consonante (hasa)’; divide le radici nei gruppi seṭ ‘radici con (sa-) -i-’ e aniṭ ‘radici senza (an-) -i-’, a seconda del modo in cui ciascun gruppo di radici forma l’infinito (bhāvi-tum da bhū- ‘essere’, ma bhar-tum da bhr̥ - ‘portare’); utilizza i termini 18 19 Sull’istituzionalizzazione del sanscrito nelle università europee, si vedano Morpurgo Davies (1996, pp. 28 ss.) e Tull (2015, p. 277). L’opera ebbe una storia editoriale travagliata. Era nota a Kircher, che da qui trasse le notizie sul sanscrito incluse nella sua China illustrata (1670, cfr. Thumb-Hauschild 1955-56) e a Lorenzo Hervás (1787), che, nei primi anni del XIX secolo, ne trovò una copia nella biblioteca romana del Collegio di Propaganda Fide; subito dopo, però, l’opera fu smarrita e riapparve solo negli anni ’50 del secolo scorso nel Fondo dei Manoscritti Orientali della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (mss. 171 e 172). Il mss. 171 contiene la grammatica e il mss. 172 contiene il Pānca-tattva-Prakāśa di Veṇīdatta, un dizionario di metrica composto nel 1664, e il Vedāntasāra di Sadānanda, un’introduzione alla filosofia dei Vedanta composta tra il 1490 e il 1660 (Gonda 1963: II, p. 91). Per la storia dell’opera, si vedano Wüst (1929, pp. 9, 29, 71, 119), Thumb-Hauschild (1955-56; 1958: I.1, pp. 168 ss.), Muller (1986) e Camp & Muller (1988, pp. 6 ss.). 180 La morfologia derivazionale e il problema del tempo parasmaipadī e ātmanepadī (lett. ‘parola [pada] per altro [para]’ e ‘parola per sé stesso [ātmane]’) per indicare la flessione attiva e media; usa i nomi sanscriti dei casi (prathamī ‘primo caso, nominativo’, dvitīya ‘secondo caso, accusativo’, etc.)20; cita le desinenze in isolamento, divise dal tema, e unite agli it previsti dalla teoria indiana, etc. L’influenza delle prakriyā indiane emerge anche nella struttura generale dell’opera, che non segue il Protokoll tradizionale delle grammatiche pratiche. L’opera di Roth comprende cinque capitoli (per 48 fogli manoscritti) e una breve antologia. Il cap. I (ff. 3r-11v), descrive l’alfabeto, i suoni della lingua e il sandhi (ossia, le regole di aggiustamento fonotattico tra i morfemi all’interno delle parole o tra le parole all’interno delle frasi). I cap. II, III e V trattano la flessione del nome (ff. 12r-21v), la flessione del verbo (ff. 22r-36r) e la sintassi (ff. 32v-47r). Il cap. IV tratta i nomi “deverbali” formati con i suffissi kr̥t (De verbalibus seu kr̥daṃta, ff. 37v-41r). Anche se la descrizione della flessione occupa la parte principale della grammatica (capp. II e III, 24 fogli su 48) e i paradigmi flessionali sono descritti come un insieme di parole flesse, come si usa nelle grammatiche europee (si veda, ad esempio, il paradigma di devaḥ in f. 13r), l’opera di Roth rappresenta comunque la prima grammatica particolare che include un capitolo a sé dedicato all’analisi della derivazione. Tuttavia, le modalità con cui Roth descrive la derivazione sono quelle tradizionali delle grammatiche pratiche. Roth descrive le species nominum nel cap. II dopo la flessione del nome; le species verborum nel cap. III dopo l’analisi della flessione verbale; i composti nel cap. V, dopo la sintassi dei casi; i nomina verbalia nel cap. IV. Inoltre, anche se elenca gli augmenta con cui sono formati i nomi derivati (i.e. -eya, -in, -āya, -ka, -īya, -īna per i derivati denominali del cap. II, o -ta, -tum, -tvā per i derivati kr̥t del cap. IV), Roth non descrive mai i processi di formazione dei nomi. Solo quando analizza i composti o i processi di derivazione più vicini alla flessione, Roth si avvicina alla nozione di derivazione-processo tipica della grammatica indiana: i nomi femminili, ad esempio, sono descritti come dei nomi maschili 20 Nella teoria indiana i casi non hanno nomi “parlanti” come quelli che si usano nella teoria greco-latina (cfr. De Mauro 2005 [19651], con le precisazioni di Belardi 1985, pp. 167 ss., Belardi & Cipriano 1990 e Ronzitti 2014, pp. 149 ss., in particolare le pp. 172 ss.), ma si nominano in base al loro numero nell’ordinamento tradizionale: i.e. il nominativo è il ‘primo caso’, l’accusativo è il ‘secondo caso’, lo strumentale è il ‘terzo caso’ e così via. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 181 quae feminina fiunt [al presente!] additis his augmentis (f. 17v) e i composti testimoniano la fertilitas ‘fertilità’ della lingua brahmanum. 3.2 Le grammatiche di Hanxleden (1712-1732) e Pons (1739-1771) Il modello descrittivo “composito” utilizzato Roth non viene seguito dai suoi immediati successori. La Grammatica Grandonica del gesuita Johann E. Hanxleden, composta tra il 1712 e il 1732 ad Ambalakad nel Kerala centrale (e in alfabeto malayāḷam), segue l’ordinamento tradizionale delle grammatiche pratiche europee e contiene quasi soltanto delle tavole di flessione corredate da poche, stringatissime regole (Van Hal & Vielle 2013)21. La grammatica di Hanxleden comprende cinque parti: la prima si occupa della flessione del nome (al cui interno sono descritti i paradigmi nominali, ff. 2v-14r; l’uso dei casi, f. 14v; il genere, f. 15r-v; e i composti, ff. 15v-18v); la seconda si occupa della flessione del verbo (f18v-35v); la terza della sintassi dei casi (ff. 37r-40r); la quarta del sandhi (ff. 40r-42v); la quinta degli avverbi (f. 42r-v). La parte sull’alfabeto non è pervenuta. La terminologia grammaticale indiana è ignorata quasi del tutto e il sistema di casi latino è proiettato sul sanscrito senza adattamenti. Per Hanxleden, i paradigmi rappresentano un insieme di parole flesse, come è abituale in Europa, e non un tema fisso unito a una serie di desinenze alternanti, come si usa nella teoria grammaticale indiana; e il sanscrito ha tre casi ablativi (f. 2r): ablativus I (i.e. lo strumentale); ablativus II (i.e. ablativo) e ablativus III (i.e. locativo). Il termine radix non è mai citato e la derivazione non è descritta. Solo nel paragrafo sulla composizione, Hanxleden nota che in sanscrito è comune formare degli aggettivi dai sostantivi (est communissimum in hac lingua facere [al presente!] ex substantivis adjectiva, f. 17r), come si vede da citrāḥ gāvo yasya ‘le cui vacche sono belle’, che può essere trasformato nel composto citraguḥ. 21 Hanxleden era allievo e confratello di Roth. Si accostò al sanscrito grazie all’aiuto di due bramini e allo studio della Siddharūpa, la prakriyā più comune nel Kerala del XVIII secolo, che è la fonte principale della sua grammatica. Hervás (1787) consulta una copia anche di questa grammatica nella biblioteca del Collegio di Propaganda Fide, ma subito dopo l’opera si perde. Recentemente una copia del lavoro è stata trovata nel convento di Monte Compatri, in provincia di Roma (Van Hal 2010, Van Hal & Vielle 2013, pp. 2-14). 182 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Un discorso analogo, si può fare per la breve grammatica contenuta nella lettera di Padre Jean-François Pons al Padre du Halde pubblicata nelle Lettres édifiantes et curieuses (1743). La lettera contiene la sintetica descrizione della letteratura indiana e una breve grammatica (edita recentemente da Filliozat 2020), di cui si serviranno sia l’Abbate Cœrdoux nel suo studio dei manoscritti sanscriti della Bibliothèque Du Roi di Parigi, sia Friedrich Schlegel durante il suo soggiorno parigino (Maggi 2002, pp. 517-518; 2008, pp. vii-x e). La grammatica consiste in un breve riassunto del Mugdhabodha di Vopadeva ed è divisa in due manoscritti: il primo, in latino e in caratteri devanāgarī, è del 1739 e comprende alcuni testi e una trattazione dell’alfabeto e della flessione delle parti del discorso (pronomi, nomi e verbi), oltre a un estratto dell’Amarakośa e un dhātupāṭha; il secondo manoscritto è un complemento del primo, ma è in francese e in caratteri telugu-kannaḍa; fu chiesto da Duperron a Cœrdoux nel 1771 e contiene una breve descrizione della sintassi dei casi, dei composti e delle particelle. Nel complesso, la grammatica di Pons segue il Protokoll canonico di tutte le grammatiche pratiche europee – e, in particolare, quello della grammatica latina di Alvari (Filliozat 2020, pp. 92-3) – e contiene soprattutto delle tavole di flessione dei paradigmi nominali e verbali. Pons si accorge che il sanscrito presenta une variété fort grande de participes et de verbaux, che jamais langue ne fut si abondante en synonimes et si riche en mots composez (lettera del 27.12.1729, Filliozat 2020, p. 55) e sa bene che la grammatica indiana insegna a combinare gli elementi semplici della lingua per formare parole (lettera del 23.11.1740, Filliozat 2020, p. 68), ma non include una sezione specificamente dedicata alla formazione dei nomi. Tuttavia Pons, diversamente dall’uso delle grammatiche latine dell’epoca, elenca le desinenze di persona e di caso come elementi autonomi rispetto alle parole in cui compaiono (cap. 3, f. xvii e cap. 4, f. xvi, Filliozat 2020, pp. 131 e 145), e descrive brevemente le nozioni indiane di tema nominale (nomen abstractum ab omni declinatione, cfr. cap. 3, f. xvii, Filliozat 2020, pp. 129-130) e di radice, anche se, per lui, la radice coincide con un verbo (verbum dicitur dhāt[u], cfr. cap. 4, f. xxv, Filliozat 2020, p. 143). Inoltre, all’interno del capitolo sulla coniugazione verbale, si trova una brevissima sezione de verbalibus, al cui interno Pons cita alcuni dei suffissi più comuni per la formazione di quelli che lui chiama “participi” (i.e. i derivati primari deradicali), come -tavya, Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 183 -anīya, -ya, -tr̥, -aka, -ta, etc. (cap. 4, f. xxix-xxx, Filliozat 2020, pp. 152-4). Tuttavia, la sezione contiene esempi di parole formate con questi suffissi, piuttosto che regole di formazione delle parole. 3.3 La grammatica di Paolino da San Bartolomeo (1790) La grammatica di Hanxleden è la fonte principale per la Sidharubam seu grammatica samscrdamica dal frate carmelitano Paolino da San Bartolomeo (1790), al secolo Johann Philipp Wesdin, docente di lingue orientali presso il Collegio di Propaganda Fide di Roma tra il 1770 e il 1776 e inviato di Papa Pio VI in Kerala tra il 1776 e il 1789 (come ci dice Paolino stesso nel suo memoriale del 1796)22. La grammatica di Paolino segue il Protokoll tradizionale delle grammatiche pratiche europee23. Anche in questo caso, la nozione di derivazione non trova spazio, perché, per Paolino (1790, pp. 64 e 65), la grammatica insegna solo a coniugare e a declinare le parole (omnia vocabula […] declinare et coniugare), dunque comprende solo i tres libros classicos grammaticales, ovvero i capitoli sulle 22 23 Paolino dice di aver visto la grammatica di Hanxleden dopo la pubblicazione del suo lavoro, ma si tratta di una notizia falsa (Van Hal & Vielle 2013, p. 12). La reale conoscenza del sanscrito da parte di Paolino è oggetto di dibattito: secondo i più (Windish 1917: I, p. 22; Rocher 1968, p. 19 e Van Hal & Vielle 2013, p. 13), Paolino, non è un buon conoscitore del sanscrito (che, per lui, in effetti sembra potersi chiamare ugualmente Hanscret, Samscroot, Samscroutam, Samscroudam, Sanskretan, Samscretan, Sanscreet, Sanskrit, Shamskrit, Samscrit, Sanscrit, Samskrdam, Samskrda, Grantha e Grandon – gli ultimi due nomi derivano dal nome delle foglie di palma (scr. grantha) con cui erano rilegati i libri sacri). Non si può escludere, però, che Paolino avesse qualche conoscenza di Pāṇini, come dice lui stesso nell’introduzione della sua seconda grammatica sanscrita, la Vyàcarana (cfr. Mastrangelo 2018, pp. 51-57 e 70 ss.). L’opera di Paolino è stata ristampata da Rocher (1977). Sui rapporti tra Paolino e William Jones, si veda Rocher (1977, p. xxiii). Sulla ragione dei giudizi aspri ricevuti da Paolino dai suoi contemporanei, si veda Županov (2006). L’indice della sua grammatica è il seguente: dopo una lunga dissertazione (cap. I, pp. 1-81) sugli alfabeti utilizzati in India (pp. 1-14), sull’eleganza del sanscrito (pp. 14-25), sulla sua origine (pp. 25-28), sulle divinità indiane (pp. 28-32), sull’antichità, dunque il prestigio, del sanscrito (pp. 32-78), Paolino descrive l’alfabeto (cap. I, pp. 81-85); la flessione (cap. II, pp. 87-117), i pronomi, gli avverbi, il genere e i composti (cap. II, pp. 86-132); la coniugazione (cap. III, pp. 133-150); la sintassi (cap. IV, pp. 151-168), che include una sezione sulla metrica (pp. 158-168); i numerali (pp. 168-170) e un’antologia della Bhagavadgītā (pp. 171-186). 184 La morfologia derivazionale e il problema del tempo lettere, sulle parti del discorso e sulla sintassi24. Paolino, però, nota che, nella tradizione indiana, i nomi e i verbi si citano nella loro forma nuda, priva di desinenze, che lui chiama radix (1790, p. 16): Nomina et verba abstractive a quacunque declinatione aut coniugatione, ac solum prout in radices spectentur (“i nomi e i verbi si considerano a prescindere da qualsiasi declinazione o coniugazione, solo in quanto radici”)25. Per Paolino, però, la radix è un concetto diacronico-ontogenetico, mistico e magico, più che un’unità di analisi linguistica. La presenza delle radices vocum (1790, pp. 9, 64, 11) dipende dalla prossimità del sanscrito alla lingua originaria degli antichi saggi indiani (1790, p. 3), dato che il sanscrito è un idioma sacrum, scientificum, literale, divinum (1790, p. 4), la cui origine è incerta e misteriosa (incerta & fabulosa, 1790, p. 25) e risale addirittura al “secolo pitagorico” che precede la nascita di Cristo (1790, p. 22). Proprio per la sua antichità, il sanscrito presenta un’immensa abbondanza di parole (immensa paene & infinita nominum & verborum copia, 1790, p. 16) e ha sviluppato ex se solo quasi tutte le parole pensabili (omnia fere vocabula excogitabilia) e, soprattutto, tutti quei termini religiosi e metafisici che noi europei non siamo riusciti a produrre in proprio, ma abbiamo preso in prestito dai Greci (1790, p. 16). Pertanto – conclude Paolino – il sanscrito dev’essere, in qualche modo, la madre e la fonte della lingua “latina” 24 25 La suffissazione non è affrontata neppure nella seconda grammatica di scritta da Paolino, la Vyàcarana (1804), che doveva essere un’epitome del Rūpāvatāra di Dharmakīrti; alla fine di quest’opera, però, compare un dhātupāṭha in stile indiano (Mastrangelo 2018, p. 93). Una definizione del tema-radice simile a quella di Paolino si trova già nella grammatica bengalese di Halhed (1778, p. 52) A Sanskrit noun, on its first formation from the general Root, exists equally independant of case as of gender. It is neither Nominative, nor Genitive nor Accusative, nor is impressed with any other of those modifications, which marks the relation and connection between several members of the sentence. In this state it is called an imperfect or crude noun. Thus jkTkUk raajon [scr. rājan] means Monarch; but implies neither a Monarch, of a Monarch, to a Monarch, nor any other predicament in which a Monarch can be supposed to stand. To make a nominative of this word, the termination must be changed, and a new form supplied as jkTkk raajaa [scr. rājā] a King jkUkh raanee [scr. rājñī] a Queen.. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 185 di Italia, Spagna e Portogallo, oltre che delle altre lingue “malabriche” e delle varie nazioni dell’India (1790, pp. 33 e 39)26. 3.4 La grammatica di Carey (1804) Certamente più dettagliata della grammatica di Paolino, è la Grammar of the Sungskrit language (1804 e 18062) del missionario battista William Carey, docente di bengalese a Fort Williams27. Carey si rivolge ai funzionari inglesi di stanza in India che studiano il sanscrito con i pandit locali e si propone di facilitare questa modalità d’apprendimento offrendo ai suoi lettori un’opera che possa aiutarli anche in assenza del loro pandit. Proprio per questo, Carey cerca di accommodate the work as much as possible to the European system of grammar, that a person may be able to study the language successfully without a master (1806, p. v). L’influsso della grammatica indiana nativa, però, è molto evidente nell’opera, che comprende cinque libri, e un’appendice. I libri I, II, III e V trattano gli argomenti descritti in ogni grammatica pratica (alfabeto, flessione e sintassi), anche se la sezione sulla sintassi è breve (libro V, pp. 854-903) e la presenza degli esercizi (che sono inclusi nel cap. V) 26 27 Cfr. ex quo sane infertur quaemadmodum lingua latina Italicae, Hispanicae, Lusitanicae, ita linguam Sanscrdamicam reliquarum indicarum linguarum & nationum matrem & fontem esse. Sulla comparazione linguistica in Paolino, si vedano Rocher (1961) e Van Hal (2004-05) e Mastrangelo (2018: 13). In particolare, Paolino era autore di due pamphlet dedicati alle affinità tra sanscrito, avestico e germanico (De antiquitate et affinitate linguae Zendicae, Samscrdanicae et Germanicae, Padova 1798) e alle affinità tra sanscrito e latino (De latini sermonis origine et cum orientalibus linguis connexione, Roma 1802). Il nome Malabar (o Melibar, Manībār e Malībār) probabilmente deriva dall’ar. ma‘bar ‘guado’, termine utilizzato dai mercanti arabi e cinesi del XIII-XIV secolo per indicare la costa del Kerala e del Tamil Nadu. Carey era un calzolaio divenuto un missionario di successo (Myers 1887 e Walker 1980): fondò la prima università inglese dell’India, il Serampore College (1818), tradusse il Nuovo e il Vecchio Testamento in bengalese (1801 e 1808), sanscrito (1808 e 1818), marati (1808 e 1820) e punjabi (1815); tradusse l’Hitopadeśa insieme a Colebrooke (1804) e fu autore di una grammatica di bengalese (1806) e una di marathi (1806). Carey traslittera con <u> (i.e. <Sungskrit>), il scr. /a/ che oggi si pronuncia [ɐ], [ʌ] o [ɑ] a seconda delle zone dell’India. La difficoltà che gli Europei incontravano con i metodi didattici dei pandit indiani è ben descritta da Ballantyne (1849) e Law (1993, pp. 241-2). 186 La morfologia derivazionale e il problema del tempo non è scontata28. Il libro IV (derivative words, pp. 569-853), invece, descrive la derivazione kr̥t (pp. 569-624), la derivazione taddhita (pp. 625-755), la composizione (pp. 764-843), gli indeclinabili (pp. 755-764) e il genere dei nomi derivati (pp. 843-853), mentre l’appendix (pp. 1-108) spiega le funzioni degli it e riporta un dhātupāṭha. Carey usa ampiamente i concetti e i termini grammaticali indiani: cita spesso Pāṇini e Vopadeva (cfr. § IV.2) e ringrazia i pandit indiani di Fort Williams che lo hanno aiutato nello studio del sanscrito (1806, p. iv); usa regolarmente gli it (1806, p. v), i nomi indiani dei tempi e dei modi, delle persone e dei casi, isola le desinenze nominali e verbali, etc. Soprattutto, Carey inserisce un’intera sezione dedicata alla derivazione; poiché, però, tra la prima e la seconda edizione del lavoro, Colebrooke aveva pubblicato una nuova grammatica sanscrita (1805), in cui l’analisi della derivazione era completamente esclusa, nell’introduzione alla seconda edizione della sua grammatica, Carey spiega le ragioni della sua scelta (1806, p. iii): Instead of including every word of the language in their dictionaries, the Hindoo lay down the grammatical rules for forming them from the roots. Their treaties on grammar are hereby rendered more prolix, and the difficulty of acquiring the language is increased. Although this may first appear a disadvantage, the student who makes himself thoroughly acquainted with the different rules for forming derivative words, will be amply compensated by a rich store of etymological knowledge, useful not only in the Sungskrit but in all the colloquial languages of India. (“Invece di includere ogni parola della loro lingua nei loro dizionari, gli Hindù descrivono le regole grammaticali necessarie per formarle dalle radici. Per questo i loro trattati sulla grammatica sono molto più prolissi, e la difficoltà di apprendere la lingua aumenta. Anche se questo può inizialmente sembrare uno svantaggio, lo studente che familiarizzi a dovere con le diverse regole per formare parole derivate sarà compensato ampiamente da una ricca messe di conoscenze etimologiche utili non solo per il sanscrito ma per tutte le lingue dell’India”)29. 28 29 Il libro I (pp. 1-29) analizza i suoni, l’alfabeto e il sandhi; il libro II (pp. 35129) la declinazione di nomi, aggettivi e pronomi; il libro III (pp. 130-568) la coniugazione verbale. Lo stesso concetto è ribadito a p. vii: The necessity of the fourth book may in time be superseded, or the number of rules greatly reduced, by a good dictionary; but in the present state of the language this part cannot be dispensed with. An etymologist will always found it useful in tracing out the origin not only of Sungskrit words, but of those which compose all other languages of India. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 187 In sostanza – dice Carey – la derivazione non è affatto un problema sincronico, come credono i grammatici indiani, che la includono nelle loro grammatiche eccessivamente complesse, ma è un problema etimologico, dunque diacronico-ontogenetico, come sappiamo bene noi Europei. Poiché, però, non c’è ancora un good dictionary che elenchi tutte le parole sanscrite, sia quelle primarie sia quelle derivate, è necessario descrivere la derivazione per consentire allo studente di leggere i testi antologizzati nel cap. V, anche se la derivazione, a rigore, non riguarda la grammatica sincronica. L’utilizzo della grammatica indiana consente a Carey di descrivere la morfologia derivazionale sanscrita in modo più preciso e più dettagliato di come non facessero i suoi predecessori. Carey, ad esempio, non descrive le parole derivate registrate nel lessico, ma descrive i processi di derivazione (the rules for forming derivative words, come dice il titolo del libro IV) e, per farlo, utilizza sempre formule che utilizzano verbi attivi e al presente: i verbi derivati are produced by affixing the above syllables [i.e. i suffissi di desiderativo, causativo, etc.] (1806, p. 132); the adverbial past participle is formed by affixing DRokp~ [KtvāC] to the dhatoo (1806, p. 155)30; nouns of agency are formed by affixing r`.k~ [trṆ] and .d [Ṇka] (1806, p. 580)31; i composti are formed by rejecting the terminations of the case in all members (1806, p. 764); [they] are formed with the greatest facility (1806, p. iii). Tuttavia, la contaminazione tra il Protokoll europeo e la grammatica indiana produce qualche difficoltà descrittiva. Ad esempio, Carey segue il criterio semantico utilizzato nelle prakriyā per classificare i nomi derivati, che non aiuta la chiarezza dell’esposizione: i derivati kartr̥ ‘agente’ e kāraka ‘azione’, ad esempio, sono descritti tra gli agency nouns (1806, p. 580), perché i suffissi -tar- e -ka-, in genere, formano nomi di agente; kāraka ‘azione’, però, è evidentemente un nome di azione. Inoltre, Carey, come Pāṇini, introduce i termini tecnici indiani e stila le regole per stabilire l’utilizzo di quei termini, ma non fornisce degli esempi delle regole che propone. Nella sezione sulla derivazione, ad esempio, 30 31 Il suffisso di formazione del gerundio sanscrito, che Carey chiama participio passato avverbiale, è solo -tvā indeclinabile: pac- ‘cuocere’ → paktvā ‘avendo cotto’; K e C sono it. Anche in questo caso, i suffissi sono -tar- e -ka-, mentre Ṇ è un it. 188 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Carey introduce i termini pacādi e grahādi (1806, p. 580), che indicano le radici il cui elenco – inserito all’interno di una sezione specifica del dhātupāṭha indiano – comincia con pac- ‘cuocere’ e grah- ‘prendere’ (scr. ādi vale ‘eccetera’ nel suo uso grammaticale), e dice che la classe pacādi forma i nouns of agency con il suffisso -an, anche se the n is rejected, mentre la classe grahādi li forma con il suffisso -ṇin, anche se the ṇ is rejected, ma non cita i nomi grāhin- ‘colui che prende, il prendere’ e paca- ‘il cuocere’, che rappresentano evidentemente gli esempi concreti a cui alludono queste regole. Proprio la scarsa chiarezza descrittiva connessa con l’utilizzo della teoria grammaticale indiana, però, rendeva la grammatica di Carey poco appetibile per gli studiosi europei (Law 1993, p. 242). Per Schlegel (1820, p. 10; 1832, p. 124), Carey era sehr weitläufig ausgefallen rispetto al suo obiettivo dichiarato di adattare il sanscrito all’European system of grammar; per Burnouf (1825, p. 310), la grammatica di Carey aveva tutte le oscurità delle grammatiche indiane senza averne la precisione; per Woolaston (1835, p. xii) si trattava della nearest approximation to the native plan (sc. of grammatical description); e per Wilson (1844, p. 18) era una compilation of great merit che, però, era inutile per gli studenti per via del suo adhering so closely to the native technicalities. 3.5 La grammatica di Colebrooke (1805) Tra la prima e la seconda edizione della grammatica di Carey (1804 e 1806), Henry Thomas Colebrooke, docente di sanscrito a Fort Williams dal 1801 e giudice della Corte di Appello del Bengala, pubblica a Calcutta A grammar of the Sanskrit language (1805)32. Colebrooke è un ottimo conoscitore dell’India. Legge i testi sanscriti di filosofia, di legge, di matematica, di astronomia e, soprattutto, di grammatica, tanto da essere definito un Pânini in Englisher Sprache (Lassen 1842, p. 242); descrive le principali prakriyā nel lavoro On the Sanskrit and Prakrit Languages del 1803, è il primo studioso europeo a cimentarsi in una traduzione dell’Aṣṭādhyāyī, anche se il lavoro non fu mai concluso, e traduce l’Amara Kośa di 32 Sulla vita e sull’opera di Colebrooke si vedano Benfey (1869, pp. 345 ss.), Windisch (1917, pp. 23 ss.), Law (1993, pp. 224 ss.) e Rocher & Rocher (2013). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 189 Amarasiṁha, il più noto lessico sanscrito dell’epoca (Colebrooke 1807). Nell’introduzione alla grammatica, inoltre, cita i maggiori grammatici indiani (Pāṇini, Kātyāyana e Patañjali, Bhaṭṭoji Dīkṣita, Rāmacandra e Vopadeva, 1805, pp. ix-xvi); usa le loro teorie fonetiche (1805, p. 11), gli it (1805, p. v), i concetti di aṅga ‘tema’ (1805, p. 12), pratyaya ‘affisso’ (1805, p. 13), i nomi indiani dei casi, dei tempi e dei modi; presenta le desinenze divise dai temi a cui si affiggono e unite con i loro it (1805, pp. 31, 134 e 146-7); discute spesso i sūtra di Pāṇini (1805, p. 37); non stampa i paradigmi in forma tabellare, come fanno gli studiosi europei, ma li colloca nel corpo del testo, stampando un caso di seguito all’altro, come si usa abitualmente nelle prakriyā. Anche se conosce molto bene la grammatica indiana, però, Colebrooke organizza la sua grammatica seguendo il Protokoll canonico delle grammatiche europee (alfabeto e flessione, oltre a un dhātupāṭha), senza includere una sezione dedicata alla sintassi, né tanto meno una sezione dedicata alla derivazione33. Nel testo, Colebrooke cita appena le nozioni di dhātu ‘crude verb’ (1805, p. 129) e di prātipadika ‘crude noun’ (1805, p. 12), e dice chiaramente che in sanscrito all nouns without exception say some grammarians, and with few according to others may be deduced by rule of etymology from some crude verb (1805, p. 11); l’analisi dei nomi derivati, però, non ha nessuno spazio nella sua grammatica. Nonostante la scelta “europeizzante” di escludere tutti i dati sulla derivazione, però, l’influsso della grammatica indiana su Colebrooke apparve comunque del tutto eccessivo ai suoi immediati successori. Come scrisse Wilson (1844, pp. 19-20): the technical language of his rules, as those of Carey’s grammar, is startling and perplexing to a European student, and almost incomprehensible without the aid of an interpreter34. 33 34 La grammatica di Colebrooke è così composta: l’alfabeto, i suoni della lingua e il sandhi (capp. 1-3, pp. 1-30); la flessione di nomi, pronomi e numerali (capp. 4-12, pp. 31-108); il genere e la formazione dei femminili (capp. 13-14, pp. 108-119); le particelle indeclinabili (cap. 15, pp. 120-128); la coniugazione dei verbi (capp. 16-19, pp. 129-180); la declinazione del verbo “essere” (cap. 20, pp. 181-200), il dhātupāṭha (capp. 21-22, pp. 200-396). La sintassi sarebbe dovuta rientrare in un secondo volume, che, però, non fu mai pubblicato. Dei giudizi simili da parte di Humboldt (in una lettera a Bopp del 29.5.1829), Lassen (1842, p. 242) e Benfey (1869, p. 349) sono riportati da Law (1993, p. 243). 190 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 3.6 La grammatica di Wilkins (1808) Molto diversa da tutte le grammatiche precedenti è la Grammar of the Sanskrĭta language di Charles Wilkins (1808). L’opera non fu redatta per i dirigenti inglesi di stanza in India che avevano accesso alle lezioni orali dei pandit, ma fu pensata come manuale per gli studenti europei dell’Haleybury College, dove Wilkins fu impiegato a partire dai primi anni del XIX secolo come Visiting Professor e Keeper of the Oriental Manuscripts35. Il mutamento nel pubblico di riferimento è evidente nella terminologia: Wilkins sostituisce tutti (o quasi tutti) i termini grammaticali indiani con i rispettivi calchi inglesi. Il termine sandhi diventa permutation of letters; i nomi indiani dei casi e dei tempi non sono citati (1808, p. 37); la flessione è organizzata in otto declinazioni, raggruppando le desinenze in base alle loro somiglianze formali (1808, pp. 36-7), come facevano Donato e Prisciano; i paradigmi sono presentati nella forma tabellare tipica delle grammatiche europee; e gli it sono utilizzati il meno possibile (i.e. solo nella forma di citazione delle desinenze e nell’analisi delle classi verbali, 1808, pp. 37-8, 126 e 123). Anche dal punto di vista stilistico, inoltre, Wilkins non organizza la sua grammatica intorno a delle regole che governano l’applicazione di termini tecnici, come facevano i grammatici indiani, ma presenta dei paradigmi che facciano da esempio per un’intera classe di parole, come si usa nelle grammatiche occidentali (1808, pp. 37-8). Il rifiuto dei termini tecnici e dello stile descrittivo indiano, però, non implica il rifiuto della teoria grammaticale indiana in toto. Nel 1815, infatti, Wilkins pubblica un dhātupāṭha e, nella sua grammatica, oltre alle sezioni canoniche che compongono qualsiasi grammatica europea (i.e. suoni della lingua, flessione e sintassi), include 35 Wilkins inizia a studiare il sanscrito nel 1778, su consiglio di Halhed, leggendo tre prakriyā molto diffuse in India nei primi anni del XIX secolo: la Sārasvataprakriyā di Anubhūtisvarūpācārya, il Mugdhabodha di Vopadeva e la Ratnamālā di Puruṣottamadeva. Per aiutarlo, il suo pandit gli prepara un’edizione della Sārasvataprakriyā su due colonne, una per il testo sanscrito e l’altra per la traduzione inglese (l’opera è conservata nei mss. 2809 [795] e 2834 [800] dell’India Office Library ma non è mai stata pubblicata). Nel 1786, dopo aver insegnato il sanscrito a Jones e Colebrooke, Wilkins torna in Inghilterra e cerca di completare una grammatica che aveva iniziato anni prima collazionando varie fonti indiane (Wilkins 1808, pp. xii ss.), probabilmente senza aver mai letto i lavori di Carey e Colebrooke (Law 1993, p. 246 n. 16). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 191 dei paragrafi specifici dedicati all’analisi della derivazione kr̥t (On the formation of participles and participial nouns, pp. 407-492), all’analisi della derivazione taddhita (On the formation of derivative words, pp. 493-536), e allo studio della composizione (On the compound words, pp. 556-594)36; accetta le nozioni indiane di tema nominale o crude state (sc. of the noun, cfr. 1808, p. 36) e di radice o primitive verb (1808, p. 120); e descrive le regole per la formazione dei nomi, non solo la forma dei nomi derivati registrati nel lessico: ad esempio, the participle of the common form of the present tense is made by affixing the termination vu~ [an] to the verbal root (1808, p. 407); v [a] […] is used to form a variety of substantive nouns (1808, p. 469); words attributive of ancestry, tribe, race, family &c. are derived from their primitives (1808, p. 494); there are two way of forming compounds of this species (1808, p. 569), etc. Nonostante la scelta “indianizzante” di includere la derivazione nella grammatica, però, la ricerca di uno stile descrittivo compatibile con quello europeo fu apprezzata dagli studiosi successivi (Law 1993, p. 247), come mostrano i giudizi positivi espressi sul lavoro di Wilkins da Hamilton (1809, p. 367), A. Schlegel (1820, p. 10), Burnouf (1825, p. 311), Adelung (1830, p. 36), Wilson (1844: 23-4) e Woollaston (1835, p. iii). 3.7 La grammatica di Forster (1810) Nel 1804, Henry Pitts Forster presenta il suo Essay on the Principles of Sanscrit Grammar al Consiglio del College di Fort Williams, ma l’opera sarà pubblicata solo nel 1810, dopo la pubblicazione delle grammatiche di Carey, Colebrooke e Wilkins37. 36 37 L’ordinamento del lavoro di Wilkins è il seguente. La prima parte del lavoro (pp. 1-36) descrive l’alfabeto (Of the elements, pp. 1-6) e il sandhi (Orthography, pp. 17-35). La seconda parte analizza la flessione dei nomi (Declension of nouns, pp. 36-106), dei pronomi (Declension of pronouns and pronominals, pp. 107-119) e dei verbi (Conjugation of verbs, pp. 120-406). La terza parte analizza la derivazione kr̥t (On the formation of participles and participial nouns, pp. 407-492), la derivazione taddhita (On the formation of derivative words, pp. 493-536), le particelle (Indeclinable words, pp. 537-555), la composizione (On the compound words, pp. 556-594), il genere (Gender of nouns, pp. 595-618) e la sintassi (Syntax, pp. 619-655). Forster entra nella Compagnia delle Indie Orientali nel 1783, dirige la zecca di Calcutta, pubblica un vocabolario e una grammatica di bengalese, e pro- 192 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Forster non ha un’alta opinione del modello grammaticale indiano, che per lui è un confused, complex system (1810, p. vi) dotato di numerosi defects in the mode of teaching and abstruseness (1810, p. x). Per questo, Forster raccoglie alcuni trattati grammaticali indiani che cerca di methodize and arrange on a plan, more congenial to that observed by European grammarians, as being more simple and perspicuous (1810, p. vi), evita la moltitude of rules tipica delle prakriyā (1810, p. 83), e traduce in inglese vari termini grammaticali indiani (il termine sandhi, ad esempio, è reso con mutation of letters, 1810, p. 15). A dispetto delle dichiarazioni di principio, però, l’influsso della grammatica indiana è molto evidente nel suo lavoro. Ad esempio, Forster utilizza gli it, i nomi indiani dei tempi e dei modi, e la nozione di radice che, per Forster, non coincide con nessuna nozione nota alle grammatiche europee38. Inoltre, dopo aver descritto, le lettere, l’alfabeto e il sandhi (capp. I-II, pp. 1-80), nel cap. III, presenta una lunga serie di tavole che riuniscono gli elementi semplici della lingua (pp. 81-431), come le radici, i suffissi e le desinenze, e discute le regole necessarie per combinare questi elementi tra loro (pp. 432-440)39. Solo a p. 441 comincia la grammatica nel senso europeo del termine; e anche in questo caso Forster unisce ai dati canonici sulla flessione e sulla sintassi (capp. IV, VIII e XI-XII), dei capitoli specificamente dedicati ai nomi formati con i suffissi kr̥t (cap. V, pp. 461-509); alle radici derivate causative, desiderative, etc. (cap. VI, 38 39 muove l’utilizzo di questa lingua nelle corti di giustizia indiane che, fino ai primi anni del XIX secolo, utilizzavano il persiano (soprattutto nel Nord del paese). Le date di consegna e di pubblicazione dell’Essay sono testimoniate da Forster stesso (1810, p. xi). Cfr. Forster (1810, p. 81): In rendering the Roots into any other language, a considerable difficulty arises from there being no such corresponding element of words preserved for, in fact they are not words themselves, as their very name implies; they merely convey the abstract idea of things, actions and quality; but when organized they no longer differ from words in any other language. In the limited choice of rendering them as verbs or nouns, I should prefer the latter, as being less subject to misinterpretation of their sense, even when converted into verbs. Più specificamente, le tavole di Forster elencano: le radici (pp. 86-186), le desinenze verbali (pp. 187-244), i suffissi kr̥t (pp. 245-287), le radici derivate (pp. 288-333), le forme irregolari della coniugazione (pp. 334-383), le desinenze nominali (pp. 384-421) e i pronomi (pp. 422-431). Forster, inoltre, utilizza regolarmente gli it e i nomi indiani dei tempi e dei modi. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 193 pp. 510-539); ai verbi denominali (cap. VII, pp. 540-460); ai nomi derivati con i suffissi taddhita (cap. IX, pp. 574-639) e ai composti (cap. X, pp. 642-676). La derivazione è descritta secondo il modo indiano, come processo produttivo. Forster, infatti, descrive i principles of formation of nouns (1810, p. 575), non soltanto la forma dei nomi derivati registrati nel lessico, perché, come dice lui stesso, il sanscrito è una lingua founded on actual etymology (1810, p. v). I verbi con cui Forster descrive i processi morfologici, quindi, sono sempre verbi attivi e al presente, che alludono alla produttività in atto delle regole di formazione delle parole: I have shewn their [sc. of the roots] capacity of forming a new series of Modified Roots, which like the Simple Roots, are convertible either into verbs or nouns (1810, p. 81); each of these roots […] forms as many verbal nouns, participles, and the like, that is above sixty thousand (1810, p. vii); the root takes a certain suffix, or takes a different form, makes a form a derivative (1810, p. 461). Troppo perché i sanscritisti del XIX secolo potessero apprezzare realmente la sua grammatica, come mostrano i giudizi, piuttosto sferzanti, che Bopp (Lefman 1891: I.1, p. 111) e A. Schlegel (1832, p. 125) riservarono all’opera di Forster40. 3.8 La grammatica di Yates (1820) Nel 1820, William Yates, scolaro e collega di Carey alla Missione Battista di Serampore, pubblica a Calcutta A Grammar of the Sunscrit Language on a new plan, un plan, che, come dice Yates nel sottotitolo della seconda edizione del lavoro (1845), era pensato per essere similar to that most commonly adopted for the learned languages of the West. Yates ritiene che il sanscrito sia simile al greco (1820, pp. xviii-xxi) ed è, quindi, naturale che si utilizzi lo stesso plan per descrivere entrambe le lingue (1820, p. xxii). Inoltre, crede che nella brevità tipica delle regole grammaticali indiane there is a danger 40 Gli sferzanti giudizi su Forster di Bopp e A. Schlegel sono discussi da Law (1993, p. 244 n. 13). Ciò non toglie, però, che agli occhi di Bopp il lavoro di Forster doveva avere anche dei pregi: una lista delle desinenze sanscrite analoghe a quella di Forster appare tra i desiderata di Bopp (1818, p. 470) e fu poi inclusa, pur se in forma semplificata, nella sua grammatica (1827, p. 98). 194 La morfologia derivazionale e il problema del tempo of becoming obscure (1820, p. vi) e che le grammatiche sanscrite pubblicate fino ad allora siano confessedly too voluminous and in many particulars too abstruse (1820, p. vi). Per questo, anche se rende omaggio a Vopadeva (1820, p. xxiii), evita i termini tecnici indiani, a cominciare dagli it, che gli sembrano calculated rather to exercise the patience than to improve understanding (1820, p. ix)41; e riporta i paradigmi dei nomi, dei verbi e degli aggettivi in forma tabellare, come si usa nelle grammatiche europee (1820, pp. xii-xiii). Anche l’ordinamento dei materiali segue il Protokoll tradizionale delle grammatiche pratiche: l’ortografia (pp. 1-31), l’etimologia (pp. 31-266), che include due paragrafi molto brevi dedicati alle parole derivate (pp. 251-262) e composte (pp. 263-87), e la sintassi (pp. 267-341), oltre a un capitolo sulla prosodia (pp. 342-402). Un’appendice pensata for the convenience of those who may have to converse with learned natives elenca i termini tecnici indiani, spiega le regole del sandhi e l’utilizzo degli it, e presenta le desinenze in isolamento, alla maniera indiana (pp. 403-423). La principale novità del new plan di Yates, insomma, consiste in parte nell’esclusione dei termini tecnici indiani, in parte nell’assenza di un capitolo specifico dedicato all’analisi della formazione delle parole. Anche in questo caso, la scelta di escludere completamente l’analisi della derivazione è spiegata da Yates nell’introduzione della sua opera (1820, p. xiii): A singular plan by which Sunskrit grammar have been rendered exceedingly prolix, has been that of laying down rules to account for the formation of almost any derivative word. In most cases derivative words may be traced by the respective roots with the greatest facility; in particular instances, where the origin is doubtful, the methods of tracing them are so fanciful, that little dependence can be placed upon them. Moreover, as this is a subject which belong to the Dictionary and not to a Grammar, and as a minute investigation of this is rather amusing than essentially necessary, no apology is deemed requisite for not having discussed it more extensively. (“L’unico aspetto che è stato trattato in modo troppo prolisso nella grammatica sanscrita è quello di stabilire le regole di formazione di quasi ogni parola derivata. In molti casi le parole derivate possono essere ricondotte alla loro radice rispettiva con la 41 Yates, però, utilizza comunque gli it per descrivere la divisione delle radici nelle dieci classi di presente (1820, p. 97), come faceva Wilkins. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 195 massima facilità; in casi particolari, quando l’origine è dubbia, i metodi attraverso cui sono derivate sono così fantasiosi da non potersi basare seriamente su di essi. Inoltre, poiché questo è un argomento che riguarda il Dizionario e non la Grammatica e dato che uno studio dettagliato di questo tema è più divertente che davvero necessario, non c’è bisogno di scusarsi per non averlo trattato in modo più particolareggiato”). Nel 1820, l’assenza di un good dictionary lamentata da Carey non rappresentava più un problema: nel 1807, Colebrooke aveva pubblicato l’Amhara Kośa; nel 1819 Wilson aveva dato alle stampe un nuovo dizionario con l’aiuto dei pandit di Fort Williams, e Yates stesso stava lavorando alla stesura di un dizionario che sarebbe stato pubblicato di lì a poco (Yates 1846). Il miglioramento degli strumenti lessicografici, insomma, consentiva di escludere la derivazione dalla grammatica, dato che la derivazione, in sé, riguarda il lessico, più che la descrizione grammaticale in senso proprio, come dice Yates. Le formule che Yates utilizza per descrivere la flessione, infatti, rimandano sempre a processi conclusi: ad esempio, the second conjugation has all the terminations united immediately with the root (1820, p. 125); the third conjugation has the first syllable of the root reduplicated (1820, p. 131), the fourth conjugation has ; [ya] united with the root (1820, p. 138), etc.42. La prospettiva lessicalista di Yates, però, non aiuta la descrizione della derivazione. Per Yates, i verbi derivati causativi, desiderativi, etc., come i derivati nominali, si formano dai verbi semplici corrispondenti (1820, p. 206): in sanscrito, però, sia i verbi derivati che i nomi derivati si formano a partire dalla radice pura, non dai temi di presente, che nella maggior parte dei casi includono dei suffissi che non compaiono nei derivati (i.e. pacyati ‘cuoce’ da pac- ‘cuocere’, participio passato pakta- ‘cotto’, non **pacyata-, e nome d’agente paktar- ‘colui che cuoce, cuoco’, non **pacyatar-); nello stesso modo, secondo Yates l’infinito, come yācitum ‘cercare’ da yāc-, si formerebbe dal “futuro” yācitā sostituendo la -ā del suffisso con 42 Però, la derivazione taddhita e la composizione, in qualche caso, sono descritte come processi produttivi: patronymics are formed from the original word by lengthening the first syllable of it by vriddhy (1820, p. 251); gentiles are formed in the same manner as the above, by lengthening the first syllable of the word (1820, p. 253), they [sc. compounds] are formed by uniting two or more words together and inflecting the last (1820, p. 263), etc. 196 La morfologia derivazionale e il problema del tempo -um (1820, p. 188), dato che il futuro include già la -t- che si trova nell’infinito; però, la sequenza yācit- non è un tema semplice né un tema derivato, visto che il suffisso del “futuro” è -tar- e quello dell’infinito è -tu-43. Nonostante l’utilizzo di un plan simile a quello delle grammatiche pratiche coeve, però, la grammatica di Yates non ottenne un grande successo (Law 1993, p. 249), forse anche per la concorrenza delle grammatiche più dettagliate e precise di Wilkins (1808) e di Bopp (1827), ma fu comunque utilizzata come manuale per l’apprendimento del sanscrito da parte dei missionari e dei funzionari inglesi di stanza in India (come conferma la ristampa che ebbe il volume nel 1845). 3.9 La grammatica di Frank (1823) Se si esclude l’opera di Wilkins (1808), tutte le grammatiche indiane stampate fino agli anni ’20 del XIX secolo sono prodotte da studiosi che si sono formati in India e si rivolgono a funzionari inglesi di stanza in quel paese. La Grammatica Sanskrita (1823) di Frank, invece, è interamente pensata per le università europee44. Frank è consapevole della diversità di approccio tra la grammatica europea e indiana (1823: x), ma si propone di emanciparsi da entrambe e di rifondare le basi filosofiche della grammatica rivol43 44 La forma yācitā non è il futuro “standard” del sanscrito, che è yākṣyāmi, ma il cosiddetto futuro perifrastico, che si diffonde a partire dalla prosa tardo-vedica ed è è formato da un nome d’agente in -tar- e una copula (che può essere omessa) e yācitā (asmi) ‘cercherò’, lett. ‘sono cercatore’. Sulla genesi e la diffusione del futuro perifrastico in sanscrito, si vedano Lazzeroni (1995) e Lowe (2017). Frank si forma tra Londra e Parigi, dove frequenta le lezioni di Chézy insieme a Bopp (Law 1993, p. 251). Nel 1821 ottiene la cattedra di sanscrito e persiano nell’università di Würzburg e nel 1826 passa all’università di Monaco. Il suo interesse per il sanscrito nasce dall’interesse romantico per lo Spirito, la religione e la mitologia indiana, come mostrano le sue opere mistico-phaosofiche (Frank 1809) e il suo tentativo di spiegare la struttura sintattica della frase sanscrita sulla base dei principi yogici (Frank 1823, p. xii). La sua personalità sprezzante (testimoniata, tra l’altro, dall’aspro rifiuto opposto da Frank alla possibilità di uno scambio epistolare con Rückert, scolaro di Bopp, cfr. Law 1993, p. 250), e la mescola di filologia e religione non favorirono il successo della grammatica di Frank che fu recensita (probabilmente da Bopp) in modo notevolmente ostile sul Jenaische Allgemeine Literatur-Zeitung (Law 1993, p. 252 n. 26). Oltre ad una grammatica, Frank pubblicò anche una Chrestomathia Sanskrita (1820). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 197 gendosi verso quei principiis indico-philosophicis (1823, p. xii) che consentono di svelare l’intima spiritus natura attraverso lo studio del sanscrito (1823, p. 30). Il sanscrito, infatti, è una lingua maximi momenti, specie nell’etymologia (1823, p. ix); ha un’origine divina (1823, p. xi). Dal punto di vista tecnico, però, il radicale rinnovamento teorico vagheggiato da Frank si risolve in un approccio fortemente eclettico, che mescola senza un ordine specifico elementi della teoria grammaticale indiana rivisti alla luce delle teorie yogiche, tratti tipici delle grammatiche particolari europee e istanze provenienti dalle grammatiche storiche delle lingue germaniche. L’architettura generale della grammatica di Frank è quella tipica delle grammatiche pratiche europee: il Libro I (De litteris sanscritis scribendis et pronuntiandis, pp. 1-29) descrive l’alfabeto, il Libro II (De vocabulis formandis. Partes orationis, pp. 30-179) tratta le partes orationis e Libro III (Syntaxi, pp. 181-222) si occupa della sintassi. L’analisi dell’alfabeto, però, unisce teorie articolatorie indiane, il concetto europeo di vis litterarum e delle considerazioni mistico-cosmogoniche di ascendenza yogica (1823, pp. 4 ss. e 10 ss.)45. La descrizione della flessione riprende la teoria indiana dei kāraka (1823, pp. 35 ss.), ma i paradigmi sono stampati nella forma tabellare tipica delle grammatiche europee. Il titolo del Libro II (De vocabulis formandis), infine, richiama il processo storico-ontogenetico di formazione delle parole, mentre l’ordinamento del libro stesso, che inizia con la flessione, passa alla derivazione e finisce con la composizione, sembra ripercorrere a ritroso l’evoluzione dello Spirito dalle voces simplices originarie, come facevano le grammatiche storiche tedesche46. Come avveniva nelle grammatiche filosofiche tedesche, l’utilizzo di una prospettiva di tipo diacronico-ontogenetico facilita la 45 46 I grammatici romani ritenevano che ogni lettera fosse definita da tre proprietà, nomen, vis (o potestas) e figura (Prisciano, GL II.1.7 e II.9.2 e Desbordes 1990, pp. 113-132): il nomen indica il nome della lettera; la potestas indica il suono, e la figura indica la forma grafica. Nel Medioevo, però, gli studiosi europei trasformano l’idea di una potestas di ogni lettera dell’alfabeto (e soprattutto dell’alfabeto semitico) in una sorta di potere magico di quella lettera, una vis che, se scoperta, potrebbe chiarire il mistero della lingua originaria (così, ad esempio, Postel 1538, pp. Eii-iii, seguendo un’idea che, in ultima analisi, era già implicita in Prisciano GL II.1.8, cfr. Rodríguez Estrella 2002). Le categorie flessionali (caso, numero, persona, tempo, etc.), infatti, sono trattate come altrettante tappe nella storia del progressivo sviluppo cognitivo dello Spirito (1823, pp. 32 ss.). 198 La morfologia derivazionale e il problema del tempo descrizione della derivazione. Frank, infatti, descrive la nozione di tema (prātipādika) in un paragrafo a sé (1823, p. 37), identifica la natura root-based della derivazione indiana, sia per la formazione dei presenti (1823, p. 80), sia per la formazione dei causativi, dei desiderativi (1823, p. 137), e dei derivati kr̥t (1823, p. 154)47. I nomi derivati dalle radici, inoltre, sono chiamati radicalia e sono distinti dai nomi derivati dai verbi già derivati (causativi, desiderativi, etc.), che sono chiamati verbalia, e sono divisi dai nomi derivati da altri temi nominali già derivati (diminutivi, patronimici, aggettivi di relazione, etc.), che sono chiamati denominalia (1823, p. 154). Come avveniva nelle grammatiche filosofiche tedesche, però, il miglioramento empirico si unisce a un certo peggioramento teorico. Frank descrive la derivazione attraverso verbi che rimandano a processi produttivi (si veda, ad esempio, superest enim derivare ex ipsis radicibus nomina cum substantiva tum attributiva, 1823, p. 154). Questi processi, però, anche se produttivi, sembrano dei processi diacronico-ontogenetici, dato che le linguae radices sono le matrices fecundae e monosyllabae, da cui si derivano paene omnia vocabula sanskrita (1823, p. 30) e, per questo, hanno il significato vagus et infinitus tipico delle ideae primitivae, come i geroglifici egizi o i vocabula informa del cinese (1823, p. 31), e non indicano dei nomi, dei verbi o delle altre parti del discorso (nec substantivum denotat solum, nec verbum modo, aut alia orationis partem, 1823, p. 30), ma rappresentano la materia prima significativa e la natura ultima della lingua (Hindi in ipsis materiam primam significativa, linguae naturam çd`fr [prakr̥ti] sitam dicunt, 1823, p. 30). 3.10 Le grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834) Come le grammatiche di Wilkins e di Frank, la Ausführliches Lehrgebäude der Sanscrita-Sprache (1827) di Bopp è pensata come un Leherbuch da utilizzare nei corsi di sanscrito che Bopp stesso tiene, a partire dal 1825, presso l’università di Berlino48. 47 48 In qualche caso, però, Frank tratta comunque i causativi come derivati dei verbi semplici corrispondenti, invece che dalle radici (1823, p. 87). Bopp si accosta allo studio delle lingue orientali sotto la guida di Windischmann, ammiratore di Schlegel e Adelung. Tra il 1812 e il 1816, risiede a Parigi, dove studia il persiano e le lingue semitiche con Sacy, conosce Chézy e Hamilton, oltre ai fratelli Schlegel, e incomincia lo studio dei manoscritti Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 199 Nell’introduzione all’edizione del 1845, Bopp spiega la genesi del lavoro. Le precedenti grammatiche sanscrite sono tutte molto simili tra loro e si distinguono quasi solo per il modo con cui “traducono” die Indische Lehrbücher: Forster è il traduttore più ricco e più accurato; Wilkins è il più chiaro e Colebrooke è il più fedele, ma il suo lavoro è talmente oscuro che non si può usare come manuale pratico per l’apprendimento (1845, pp. iii-iv). Diversamente dai suoi predecessori, però, Bopp non vuole tradurre i manuali indiani, ma si propone di fornire un’analisi autonoma della lingua per sé stessa (eine Kritik der Sprache selbst), una sua Naturbeschreibung e un’indagine scientifica sul suo innere Organismus (1827, p. v)49. 49 sanscriti della Biblioteca Imperiale raccolti dall’Abbate Da Pons e da Hamilton. Tra il 1816 e il 1818, si trasferisce a Londra, dove risiede Hamilton, che lo presenta a Colebrooke e Wilkins; qui Bopp conosce Humboldt, a cui insegna i primi rudimenti di sanscrito. Grazie alla sua intercessione, nel 1821, Bopp ottiene la cattedra di Orientalische Literatur und allgemeine Sprachkunde nell’università di Berlino: la stessa cattedra che sarà rinominata vergleichende Sprachwissenschaft und Sanskrit nel 1825 e sarà tenuta da Bopp fino alla fine della vita, nel 1867. Secondo Lefman (1891, p. 18), Leskien (1876, p. 142) e Rocher (1968, p. 51), Bopp avrebbe imparato il sanscrito da autodidatta, ohne alle fremde Hilfe (come lui stesso dice in lettera a Windischmann del 24.4.1818, cfr. Gipper & Schmitter 1979, p. 50), perché keine Lehrstuhl war dafür (lettera a Schlegel del 17.10.1821, cfr. Sternemann 1984, p. 12). Secondo Martineau (1867, pp. 306 ss.), però, Bopp aveva frequentato le lezioni di Chézy a Parigi, dove risiedeva anche Hamilton. Si può, quindi, supporre che Bopp abbia appreso i primi rudimenti di sanscrito da Chézy, giovandosi anche di qualche indicazione di Hamilton, anche se nessuno dei due teneva dei corsi regolari (Neumann 1967, p. 13). Sulla vita di Bopp, oltre a Lefman (1891-97), Martineau (1876) e Leskien (1876), si vedano Guigniaut (1877), Wüst (1955) e Koerner (1984). Per rapporti tra Bopp e Windischmann, si vedano Windisch (1917, pp. 67 ss.) e Maggi (1986, p. 142). A Londra, Bopp frequenta le lezioni di grammatica pāṇiniana di Colebrooke che probabilmente seguiva il Mugdhabodha di Vopadeva, più che l’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini, ma non si addentra mai in profondità in questo studio (Lefman 1897, p. xxi). I rapporti tra Bopp e i grammatici indiani sono descritti da Windisch (1917, p. 77), Pontillo (2003b, p. 107) e Bologna (1992, p. 37). La grammatica sanscrita è preceduta dal Nalus (1819), il primo Sanskrit reader d’Europa, ed è seguita da una seconda edizione latina della stessa grammatica (Bopp 18322) e dalla terza edizione tedesca (Bopp 18343), ristampata nel 1845 e nel 1863. Le tre edizioni non presentano grandi differenze, se si escludono alcune questioni discusse esplicitamente da Bopp stesso (1832, p. xiv, e 1836, p. xiii). Dal 1830, inoltre, le grammatiche sono affiancate da un Glossarium sanscritum (1830). L’idea di una descrizione della lingua durch sich selbst è ribadita in una lettera a A. Schlegel del 26.05.1829 (Windisch 200 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Nella pratica, Bopp sostituisce all’incirca tutti i termini grammaticali sanscriti con i rispettivi calchi tedeschi (Anuswāra è tradotto con Nachlaut; sandhi con Wohllautsregeln; guṇa e vr̥ddhi con Vokal-Verstärkungen, etc.)50; con la stessa logica, Bopp cerca sempre di utilizzare la teoria grammaticale latina, in particolare nell’analisi della flessione; e, anche quando segue in sostanza la teoria indiana, la rielabora in base al gusto e allo stile descrittivo europeo: ad esempio, impiega i nomi e gli ordinamenti latini dei casi, delle persone, dei tempi e dei modi; divide i nomi in sei declinazioni a seconda della somiglianza formale delle desinenze, invece di avere una sola declinazione e varie regole di aggiustamento fonotattico, come fanno i grammatici indiani (1827, p. vi); divide i verbi in 4 “coniugazioni”, invece che nelle 10 classi abituali dei presenti sanscriti (1827, p. 161); evita tutti gli it, anche quelli affissi alle desinenze che Wilson aveva mantenuto; tratta i paradigmi come insiemi di parole flesse e li stampa nella forma tabellare tipicamente europea, anche se le desinenze sono elencate in isolamento (1827, pp. 98 e 158); anche quando utilizza delle regole per descrivere il sanscrito (1827, pp. vi e 160), inoltre, evita la brevità estrema della grammatica indiana, e correda le regole con tutti gli esempi del caso, come farebbe qualsiasi studioso europeo. Il Protokoll della grammatica di Bopp, però, non coincide affatto con quello tipico delle grammatiche latine. Oltre ai dati canonici su lettere e suoni (capp. 1-2, pp. 1-27 e 28-70), sulla flessione (capp. 4-5, pp. 83-155 e 156-267) e sulle particelle indeclinabili (capp. 8, pp. 333-340), Bopp introduce tre capitoli inattesi, uno sulle radici (cap. 3, pp. 71-82), uno sulla Wortbildung (cap. 6, pp. 268-309) e uno dedicato ai composti (cap. 7, pp. 310-332), perché, come dice lui stesso (1827, p. vii), la derivazione è una delle caratteristiche più tipiche della lingua sanscrita e una delle meglio studiate dai grammatici nativi51. All’interno di questo Protokoll, 50 51 1919, p. 77). Come nota Bologna (1992, p. 38), la parola Kritik nell’ambiente berlinese dell’epoca indica necessariamente una teoria di carattere generale. Chiaramente, restano alcuni prestiti, come Atmanêpadam e Parasmaipadam, Wisarga o i nomi dei composti (Bopp 1827, pp. 155, 13 e 310 ss.), ma non si tratta di molti casi. Die Wortbildung ist derjenige Gegenstand der Sanskrita-Sprache, welche von den eingeborenen Grammatiker am befriedigendste behandeln worden ist. Il termine Wortbildung include la composizione (cfr. Bopp 1827, p. viii). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 201 che già in sé è molto diverso da quello tipico delle grammatiche europee, Bopp inserisce una teoria dell’analisi linguistica che, in sostanza, ricalca quella indiana, pur se rielaborata attraverso il gusto europeo. 3.10.1 La teoria dei livelli di analisi Come le prakriyā indiane, anche Bopp divide l’analisi linguistica su più livelli. Il primo livello è quello del lessico, che è formato dalle radici e dai preverbi descritti nel cap. 3, che i grammatici indiani chiamano dhātu e upasarga e non possono essere pronunciati in isolamento, senza legarsi ad altri lessemi (1827, p. 71)52. Al di sopra del livello del lessico, si trova il livello delle parole flesse e delle particelle (interiezioni, congiunzioni, etc.), che i grammatici indiani chiamano pada e nipāta e che, diversamente dai preverbi e dalle radici, si possono pronunciare anche in isolamento. L’analisi delle parole occupa i capp. 4-7 ed è organizzata in modo diverso nel caso del verbo e del nome. La flessione dei nomi è descritta nel cap. 4 ed è divisa dalla formazione dei nomi, che è trattata nei capp. 6-7. La formazione dei verbi, invece, è descritta insieme alla flessione dei verbi nel cap. 5. In sanscrito, in generale, le parole non sono primarie, ma si formano a partire dalle radici e dai suffissi (1827, p. 268)53. Tra il lessico primario e la flessione, quindi, si colloca la morfologia derivazionale, che si occupa della formazione dei vari tipi di nomi derivati e del passaggio degli elementi dal livello del lessico alla flessione. I primäre Derivativa, che Bopp chiama anche primitive Wörter o semplicemente primitiva, indicano i nomi e gli aggettivi formati con 52 53 Lo spazio dedicato alla derivazione, inoltre, guadagna terreno nel corso tempo e passa dal 9% circa nell’edizione del 1827 al 16% circa e al 17% circa nelle edizioni del 1845 e del 1863 (rispettivamente 40 pagine su 350 circa, 60 pagine su 370 circa e 80 pagine su 460 circa). Bopp sa bene che il lessico sanscrito include anche nomi o aggettivi derivati da radici ormai perdute o di origine oscura (1845, pp. 56-7). I grammatici indiani, però, credono che tutte le parole derivino dalle radici e questa idea, dal suo punto di vista, è sufficientemente vicina al vero da potersi utilizzare come criterio ordinatore della grammatica. Die Wort-bildung geschieht fast ausschließlich durch Anfügung von Suffixen (1827, p. 268). In vedico si trovano dei nomi radice (búdh- ‘risveglio’ da budh- ‘svegliarsi’, bídh- ‘distruttore’ da bidh- ‘spaccare’), ma in sanscrito queste Wurzelwörter sono rare (Bopp 1827, pp. 268 e 310). 202 La morfologia derivazionale e il problema del tempo i suffissi di tipo kr̥t, che sono elencati alla fine della prima parte del cap. 6 (1827, pp. 278-9). I verba primitiva, che nelle edizioni tedesche della grammatica sono chiamati solo Verba, invece, indicano tutti i temi temporali e modali che si formano dalla radice e sono descritti nel cap. 4 (1827, pp. 160 ss. e 190 ss.)54. Come i nomi, anche i verba primitiva sono formati con dei suffissi, ma i suffissi verbali, diversamente da quelli nominali, sono chiamati soltanto Syllbe. I sekundäre Derivativa o abgeleitete Wörter sono le parole derivate da altri temi nominali o verbali già derivati con dei suffissi secondari. Bopp chiama taddhitanta o nomina derivativa i nomi che sono derivati da altri temi nominali grazie ai suffissi di tipo taddhita ed elenca i taddhita-Suffixe nel cap. 6 (1827, pp. 300 ss.)55. Chiama, invece, verba derivativa i verbi causativi, intensivi, desiderativi o denominativi che sono formati da altri temi verbali o nominali e sono descritti alla fine del cap. 5 (1827, pp. 233 ss.). I Composita sono i nomi formati da due o più temi nominali. Come nella grammatica indiana, il passaggio dall’uno all’altro di questi livelli di analisi è descritto tramite regole. I verbi che si riferiscono alle regole di elaborazione morfologica indicano normalmente dei processi e sono coniugati al presente, sia quando descrivono la flessione, sia quando descrivono la derivazione primaria, la derivazione secondaria, o la composizione; Das v [a] der erste Conjugation geht vor die Kennzeichen e~ [m] oder o~ [v] in vk [ā] über; vr~ [at] Diese Suffix bildet das Part.pres.parasm.; Viele taddhita-Suffixe, und alle diejeinige, welche Patronymica bilden, erfordern Wriddhi des ersten Vokals des Primitivs; ein schliessendes _ [r̥] geht vor iq= [putra] Sohn und Verwandtschaftwörtern auf _ [r̥] in vk [ā] über, z.B. firkiq=© [pitāputrau] Vater und Sohn (cfr. rispettivamente, Bopp 1827, pp. 161, 268, 298 e 312). 3.10.2 La teoria delle unità minime La classificazione delle unità minime muta a seconda del livello di analisi considerato. Le radici sono le uniche unità minime del les54 55 Il sintagma verba primitiva è utilizzato nell’edizione del 1832 (1832, p. 140). Bopp chiama i suffissi kr̥t e taddhita rispettivamente Kridanta-Suffixe e taddhitanta-Suffixe (1827, p. 268), anche se i termini krdanta e taddhitanta, a rigore, indicano i derivati che finiscono con un suffisso kr̥t o taddhita (scr. anta- ‘fine’), non i suffissi di tipo kr̥t e taddhita. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 203 sico, ma non sono parole e non rientrano in nessuna delle classiche partes orationis (1827, pp. 71-2): Die Wurzeln sind die Urelemente der in der Sprache vorkommende Elemente [Wortformen, 1845, p. 53; 1863, p. 69], und woraus sowohl Verba als Nomina gebildet werden. Sie selber kommen als solche [als Wurzeln 1845, p. 53] in der Sprache nicht vor, sondern sind blos [sic] aus ihren Abkömmlingen erkennbar, denen sie als gemeinschaftlicher Stamm zum Grunde liegen. […] Es ist unpassend diese Wurzeln Verbal-Wurzeln zu nennen, da sie mit eben so großem Rechte NominalWurzeln genannt werden könnten, denn von einen jede Wurzel geht ein Verbum und eine große Anzahl von adjective und substantive Nomina aus, die sich durch die verschiedenen Ableitung-suffixe unterschieden, wodurch sie zu besonderen Klassen von Nomina gestempelt werden. Diese Nomina Verbal-Nomina zu nennen, scheint ebenfalls unpassend, da sie zu dem von gleicher Wurzel abstammenden Verbum in einem verschwisterten, und nicht in einem Abkömmlingsverhältinsse stehen, wie dieses auch von den indischen Grammatiker anerkannt wird; denn sie leiten kein einziges Nomen von einem Verbum ab, sondern blos von der gemeinschaftlichen Wurzeln (“Le radici sono gli elementi originari degli elementi [le parole] presenti nella lingua, e quelli da cui sono formati sia i Nomi che i Verbi. Le radici stesse non appaiono nella lingua come tali [come radici], ma sono riconoscibili solo dai derivati, di cui formano il tema comune. […] Non è corretto definire queste radici “radici verbali”, perché con la stessa ragione le si potrebbe definire “radici nominali”, dato che da ciascuna radice viene un verbo e un gran numero di nomi aggettivi e sostantivi, che differiscono grazie ai diversi suffissi di derivazione, tramite i quali sono inquadrati in specifiche classi di nomi. Ugualmente non è corretto definire questi nomi [sc. i nomi radice come yudh ‘battaglia’ e bhī ‘paura’ citati poco prima] “nomi (de) verbali”, perché essi stanno in un rapporto di fratellanza con il verbo derivato dalla medesima radice e non in rapporto di derivazione, come è noto già ai grammatici indiani; dunque [sc. i grammatici indiani] non derivano nessun nome da un verbo, ma solo dalla radice comune”)56. Il termine Urelemente, come il suo calco latino elementa primitiva (1832, p. 63), allude alla diacronia-ontogenesi del linguaggio. Per Bopp, le radici sono gli elementi “il cui significato è costituito 56 La seconda parte del passo compare nell’edizione del 1827 e del 1832, ma non in quelle del 1845 e del 1867 (Verburg 1950, p. 447). Nella versione latina, si trovano i calchi stirps vel fudamentum per il ted. Stamm ed elementa primitiva per il ted. Urelemente (1832, p. 63). 204 La morfologia derivazionale e il problema del tempo da un’idea astratta indeterminata rispetto alla sua funzione come parte del discorso” (Antinucci 1975, p. 156), perché sono ontogeneticamente originarie. Dal suo punto di vista, quindi, la diversità funzionale tra le parole e le radici dipende dalla recenziorità storico-ontogenetica delle radici rispetto alle parole, ma è anche una delle caratteristiche più evidenti del modo in cui funziona la lingua sanscrita in sincronia57. Se il lessico presenta una sola classe di elementi lessicali pieni, le radici, il livello delle parole è diviso nelle stesse tre classi che si trovano in latino: il nome, il verbo e l’aggettivo. Le desinenze nominali, chiamate Casusendungen o Casuszeichen, e le desinenze verbali, dette Personalziechen, Personalendungen o Personzeichen sono elencate a prescindere dai temi a cui si affiggono (1827, pp. 98 e 115). Oltre alla radice e alla parola, Bopp definisce una terza unità significativa, il tema. La definizione del tema, però, cambia nel caso del nome e del verbo. Il tema nominale, che i grammatici indiani chiamano prātipadika, è definito nell’incipit del cap. 4 (1827, p. 83): Die Indische Grammatiker fassen die Nomina (sowohl Substantive, als Adjective, Pronomina und Zahlwörter) in ihrem absoluten, von allen Casusverhältinssen unabhängigen, und von allen Casuszeichen entblößten Zustande auf, und nehmen daher eine Grund- oder Stammform an, zu welcher der Nominativ und die obliquen Casus der drei Zahlen sich als abgeleitet verhalten. Diese Grundform [Grundform (Stamm, Thema), 1863, p. 81] kommt sehr häufig in zusammengesetzten Wörter vor… (“I grammatici indiani prendono i nomi (sia sostantivi, sia aggettivi, pronomi e numerali) nel loro stato assoluto, indipendente da tutti i rapporti di caso e da tutti i segni di caso, e adottano quindi una forma di 57 Per tutto il XIX secolo l’aggettivo historisch ha un significato molto vicino a quello di empirisch, perché si oppone soprattutto a philosophisch e a teoretisch, più che a synchronisch, che, prima di Saussure, non è un termine conosciuto. Sul significato di historish ‘empirico’ in Bopp, si vedano Windischmann (in Bopp 1816, p. ix), Lefmann (1891: I.1, p. 52), Telegdi (1966, p. 227) e Sternemann (1984, p. 13). Nell’ordinamento scolastico vigente alla fine del XVIII secolo, ad esempio, era di prammatica la divisione tra scienze filosofiche (o logico-razionali) e scienze storiche (o empiriche, cfr. Diderichsen 1976, p. 19); la sinonimia tra storico ed empirico, inoltre, è ben evidente, ad esempio, quando A. Schlegel, in una lettera a Bopp, critica aspramente un’ipotesi definendola konjektural, ohne historische Grundlage (Lefman 1891: I.1, p. 144). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 205 base o tema, a cui i grammatici riportano il Nominativo e i casi obliqui come derivati. Questa forma di base (detta Stamm o tema) spesso si trova nelle parole composte…”)58. Nell’edizione latina del 1832 il sintagma Grund- oder Stammform è tradotto con thema, da cui dipende il fr. thème che Bréal usa nella sua traduzione della vergleichende Grammatik di Bopp, mentre Schleicher (1876, p. 228) utilizzerà (Wort)stamm, che entrerà nel lessico tecnico tedesco. Nell’edizione del 1863, inoltre, Bopp emenda il passo e stampa Grundform (Stamm, Thema), con l’intento di stabilizzare una terminologia che, evidentemente, si era andata diffondendo tra gli anni ’20 e gli anni ’50 XIX secolo, ma che nel 1827 non era ancora del tutto accettata. 3.10.3 L’inquadramento della grammatica sull’asse del tempo Grazie al nuovo Protokoll, Bopp riesce a descrivere gli stessi dati che descriviamo anche noi nelle grammatiche sanscrite attuali, a partire dai dati sulla derivazione. Il contrasto tra la concezione sincronica e produttiva della derivazione tipica dei grammatici indiani e la concezione proto-diacronica della derivazione degli studiosi europei, però, effettivamente confonde un po’ l’inquadramento della grammatica di Bopp sull’asse del tempo. In altre parole, se la derivazione riguarda la proto-diacronia, come credono gli studiosi europei, la grammatica sincronica descrive la forma delle parole registrate nel lessico, ma esclude i processi di derivazione; il lessico indica l’insieme delle parole formate, non gli elementi formativi delle parole; la produttività non è una proprietà significativa, quindi i suffissi produttivi (kr̥t e taddhita) e quelli non-produttivi (uṇādi) possono essere trattati insieme, perché entrambi i tipi di suffissi, in ultima analisi, riguardano l’etimologia; e, all’interno delle grammatiche, i dati sono ordinati in base all’uni58 La versione latina del passo è (1834, p. 73): indici grammatici, ubi nomina (substantiva, adjectiva, pronomina et numeralia) extra sermonis contextum memorant, non Nominativum sing. sed thema eorum i.e. formam nudam ab omni casuum terminatione vacuam proponunt […]. In sermone tamen plurimarum vocum thema nunquam apparet, nisi in nominibus compositis, quorum prius membrum, pronominibus exceptis, semper nudam vocis stirpem exhibet. Il sintagma verbi thema, invece, è utilizzato regolarmente solo a partire almeno dal Glossarium Sanscritum (1847, p. v; 1867, p. v). 206 La morfologia derivazionale e il problema del tempo tà di output del processo di derivazione (i.e. la parola formata), e le parole derivate sono descritte insieme alle parole semplici appartenenti alla stessa classe (i nomi semplici o derivati nella sezione sul nome, i verbi semplici o derivati nella sezione sul verbo, etc.). Se, invece, la derivazione è vista come una nozione proto-sincronica, come avviene nella teoria indiana, il lessico indica l’insieme delle radici da cui si formano le parole; la grammatica descrive i processi di formazione delle parole; l’analisi dei suffissi produttivi (kr̥t e taddhita) è rigidamente divisa dall’analisi dei suffissi opachi (uṇādi), che sono improduttivi; e i dati grammaticali sono ordinati in base all’unità di input del processo di derivazione, perché i processi che richiedono un dhātu come forma di input (i.e. la derivazione con i suffissi kr̥t e la flessione dei verbi) sono divisi dai processi che richiedono un prātipadika come forma di input (i.e. la derivazione con i suffissi taddhita e la flessione dei nomi). Bopp mescola i correlati pratici dell’una e dell’altra concezione della derivazione senza un criterio specifico. Come i grammatici indiani, descrive i processi di derivazione; nelle edizioni del 18271 e del 18322 (non nelle altre) divide i suffissi uṇādi, che non sono produttivi, dai suffissi kr̥t e taddhita, che sono produttivi; e tratta il lessico come un insieme delle radici quando incarica il suo allievo Rosen (1827) di redigere un dhātupāṭha aggiornando quelli che si trovavano alla fine delle grammatiche di Carey (1804) e di Forster (1810)59. Come gli studiosi europei, però, Bopp ordina i materiali in base alla classe dell’unità di output del processo di derivazione, dato che descrive tutti i nomi (primari e derivati) nel cap. 4 e tutti i verbi nel cap. 6; crede che la radice sia ontogeneticamente più arcaica della parola; nelle ed. del 18453 e del 18673 fonde l’analisi dei suffissi kr̥t e quella dei suffissi uṇādi (1845, pp. 284 ss.), come se non ci fosse differenza tra suffissi produttivi e non produttivi; e nel Glossarium (1847) propone un lessico formato tanto dalle radici quanto dalle parole formate, seguendo l’esempio di Wilson (1919)60. 59 60 Il lavoro di Rosen sarà ripreso da Westergaard (1841), che rappresenterà la fonte principale per lo studio del dhātupāṭha fino a Whitney (1885). Come dice Bopp stesso: continetur hoc libro omnes linguae sanscritae radices et vocabola (1847, p. v). Ad esempio, Bopp lemmatizza sia la radice kr̥- ‘fare’, sia i derivati kr̥ta- ‘fatto’, kartr̥- ‘agente’, karman- ‘azione’, kārya‘che va fatto’, etc. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 207 Insomma, Bopp innesta lo stile descrittivo, la terminologia e, in buona parte, l’analisi della flessione tipica del modello di descrizione grammaticale a base greco-latina che si usa nelle grammatiche pratiche europee, su una teoria delle unità minime e una teoria dei livelli di analisi molto simili a quelle della grammatica indiana. Il Protokoll che emerge da questa fusione è molto diverso da quello che si usa nelle grammatiche pratiche europee, e anche dai modelli descrittivi utilizzati nelle precedenti grammatiche sanscrite, ma assomiglia al modello descrittivo utilizzato nelle grammatiche “pancroniche” tedesche di Scottelio e di Adelung, e diventerà il modello indiscusso per tutte le grammatiche sanscrite pubblicate in Europa dagli anni ’20 del XIX secolo in poi, oltre che per la vergleichende Grammatik di Bopp e tutte le successive grammatiche comparative delle lingue indoeuropee. 4. La storia della morfologia derivazionale nelle grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp Cerchiamo di tirare le somme di quello che abbiamo detto fino ad ora. Le grammatiche sanscrite comprese tra Roth (1660-1668) e Bopp (1827; 1832; 1834) rappresentano le fonti principali per studiare quello che Law ha definito il process of assimilation della grammatica indiana nativa nella teoria grammaticale europea (Law 1993; Rocher 2002). Le grammatiche descritte in questo capitolo, infatti, si possono dividere in due gruppi, a seconda della loro vicinanza alla teoria grammaticale indiana: le grammatiche prodotte per i funzionari inglesi o i padri missionari residenti in India, che hanno un accesso diretto all’insegnamento orale dei pandit e alle prakriyā indiane, e attingono ampiamente alla teoria grammaticale indiana (i.e. Roth 1660-1668, Hanxleden 1712-1732, Pons 17391771, Paolino 1790, Carey 1804, Colebrooke 1805, Forster 1810 e Yates 1820) e le grammatiche prodotte per gli studenti europei d’Europa, che non hanno accesso né ai pandit, né alle prakriyā, e non usano la teoria indiana in modo particolare (i.e. Wilkins 1808, Frank 1823 e Bopp 1827). In linea generale, le grammatiche del primo gruppo sono state fortemente criticate dalla successiva generazione di sanscritisti; le seconde hanno ricevuto giudizi più positivi. 208 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Ovviamente, esistono delle piccole eccezioni rispetto alla situazione descritta sopra. La grammatica di Yates (1820) utilizza la teoria indiana molto meno delle altre grammatiche del suo gruppo, ma è comunque pensata per gli inglesi della Missione Battista di Serampore e ha comunque ricevuto giudizi assai poco lusinghieri da parte degli studiosi successivi. E la grammatica di Frank (1823) usa poco la teoria grammaticale indiana, come le altre del suo gruppo, ma è così piena di speculazioni mistico-filosofiche da aver comunque suscitato giudizi poco lusinghieri da parte degli studiosi successivi. Al netto di queste eccezioni, però, il quadro complessivo è chiaro: tra Wilkins (1808) e Bopp (1827), l’indologia “militante” (o “missionaria”) soprattutto inglese del XVII e del XVIII secolo, che attinge ancora a piene mani alla teoria grammaticale indiana, cede il passo all’indologia “accademica” soprattutto tedesca del XIX secolo, che si è ormai quasi del tutto emancipata da quella teoria61. In genere, però, da questa constatazione, in sé perfettamente ragionevole, si deduce che, grazie a Bopp, il framework della grammatica europea a base greco-latina è stato “imposto” sul sanscrito (Law 1993, p. 245). Ora, la teoria grammaticale indiana comprende moltissimi aspetti e non è detto che tutti abbiano lo stesso destino. Effettivamente, se si guarda allo stile descrittivo “indiano” (i.e. il cosiddetto sūtra-style), all’utilizzo dei termini tecnici indiani (a partire dagli it), alla teoria dei kāraka, all’ordinamento dei casi, alla definizione delle declinazioni e delle coniugazioni, alla distinzione tra sostantivi e aggettivi, etc. il giudizio di Law è completamente condivisibile. Se, però, si guarda specificamente al trattamento della formazione dei nomi, che rappresenta comunque una delle differenze più profonde tra la teoria grammaticale indiana e la teoria grammaticale “europea”, lo stesso giudizio risulta meno convincente. 61 Il contrasto tra le due anime della primissima indologia, nel complesso, è vero (cfr. Rocher 1979, p. 8; Law 1993; Rocher 2002; Rocher & Rocher 2013, p. 8), ma non va esagerato. Il primo a rifiutare in toto il sistema indiano degli it (cfr. n. 6 § IV.2) è effettivamente il tedesco Bopp (Wilson 1865, pp. 285-6), ma la prima grammatica sanscrita redatta secondo i canoni occidentali è quella dell’inglese Wilkins (1808) ed è l’inglese Yates a descrivere il sanscrito secondo a plan similar to that most commonly adopted for the learned languages of the West (18452 ma 18201). Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 209 Anche se ci si concentra sull’analisi della derivazione, infatti, le grammatiche sanscrite prodotte tra Roth (1660-1668) e Bopp (1827; 1832; 1834) si possono dividere in due gruppi, ma i due gruppi sono molto diversi dai precedenti. Un primo gruppo di grammatiche, che include i lavori di Hanxleden (1712-1732), Pons (1739-1771), Paolino (1790), Colebrooke (1805), Yates (1820) e Frank (1823) è redatto seguendo il Protokoll canonico delle grammatiche europee, generali e particolari (i.e. suoni della lingua, flessione delle partes orationis e sintassi), e non presenta una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione, quindi descrive poco i nomi derivati e, anche quando li descrive, li tratta come nomi già formati e già registrati nel lessico una volta per sempre, senza descriverne le regole di formazione. Un secondo gruppo di grammatiche, che comprende le opere di Roth (1660-1668), Carey (1804), Wilkins (1808), Forster (1810) e Bopp (1827), invece, modifica il Protokoll tradizionale delle grammatiche generali e particolari europee introducendo una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione, quindi descrive più abbondantemente i dati sui nomi derivati e, in linea di massima, propone delle vere e proprie regole di derivazione, come fanno i grammatici indiani nativi. Anche in questo caso, è possibile trovare delle piccole eccezioni rispetto alla bipartizione descritta sopra: la grammatica di Roth (1660-1668), ad esempio, presenta una sezione dedicata unicamente all’analisi dei nomi derivati, ma la sezione è breve e, in genere, non presenta regole di derivazione. La grammatica di Frank (1823), di contro, non include una sezione specificamente dedicata ai nomi derivati, ma descrive delle regole di derivazione. Anche in questo caso, però, la situazione, nel complesso, è abbastanza chiara. Grazie alle grammatiche del secondo gruppo e, soprattutto, grazie alla grammatica di Bopp, il processo di assimilazione del sanscrito alla teoria grammaticale europea non si è realizzato attraverso la semplice imposizione del Protokoll di descrizione grammaticale europeo sul sanscrito, ma ha comportato una sostanziale modifica di quel modello descrittivo, che è stato rimodulato per consentire la descrizione di tutti quei dati empirici sulla formazione delle parole che sono fondamentali nella lingua sanscrita e che erano descritti ampiamente nella grammatica in- 210 La morfologia derivazionale e il problema del tempo diana nativa, ma erano completamente esclusi da tutte le grammatiche proto-sincroniche europee, generali e particolari. Certo, la modifica non è stata né semplice né lineare. Le grammatiche che descrivono i dati sulla formazione dei nomi in sanscrito sono più informative delle altre, perché trattano più ampiamente i dati (per noi) sincronici sulla Wortbildung che sono omessi o trascurati nelle altre grammatiche. L’ingresso di questi dati nel Protokoll tradizionale europeo, però, ha prodotto anche dei contraccolpi non del tutto positivi. Nelle grammatiche di Wilkins (1808), Forster (1810) e Carey (1808), il contraccolpo principale consiste nell’eccessiva dipendenza dalla teoria grammaticale indiana e nella sovrabbondanza dei tecnicismi grammaticali indiani, che risultavano poco comprensibili agli studiosi europei. Nella grammatica di Frank (1823), invece, l’intralcio dipende innanzitutto da un apparato mistico-filosofico ingombrante e ampiamente gratuito. Nelle grammatiche di Bopp (1827, 1832, 1834), infine, il problema è dato da un inquadramento un po’ ambiguo della grammatica rispetto all’asse del tempo (cfr. § IV.3.10.3). Gli studiosi successivi si resero conto perfettamente dei primi due problemi, ma non si resero conto del terzo altrettanto chiaramente, perché per tutto il XIX secolo la formazione dei nomi, in Europa, continuò ad essere considerata come un problema sostanzialmente diacronico (Lindner 2015a). Quale che sia il contraccolpo prodotto dall’ingresso dei dati empirici sulla formazione dei nomi all’interno del Protokoll tradizionale delle grammatiche europee, però, è chiaro che tutte le grammatiche sanscrite che includono una sezione specifica dedicata all’analisi della derivazione non si limitano a imporre il modello descrittivo europeo canonico sul sanscrito, ma modificano la struttura di quel modello cercando una mediazione tra quel Protokoll, la produttività della derivazione nella lingua sanscrita, la descrizione di questi dati da parte dei grammatici indiani nativi e l’utilità pratica di questi dati per i lettori delle grammatiche, sia che si trattasse di funzionari inglesi e di missionari residenti in India, sia che si trattasse di studenti europei. Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 211 5. Il lascito delle grammatiche sanscrite pubblicate tra il Barocco e Bopp Come abbiamo mostrato nel cap. III, tra il XVI e il XVIII secolo, l’architettura del sapere linguistico è articolata attorno a quattro gruppi di opere principali: le grammatiche generali e particolari, che hanno un inquadramento di tipo proto-sincronico; le opere sull’origine del linguaggio e le grammatiche pancroniche tedesche, che hanno un inquadramento di tipo proto-diacronico. La derivazione, in questa architettura, è una nozione “proto-diacronica”: i dati empirici sui nomi derivati, infatti, si trovano nelle grammatiche pancroniche tedesche e, in subordine, nelle opere sull’origine del linguaggio, ma sono assenti o, comunque, sono poco presenti nelle grammatiche generali e particolari. Dal punto di vista retrospettivo, una simile architettura del sapere linguistico si poggia su due malintesi teorici che abbiamo già messo in evidenza nei capitoli precedenti (cfr. § II.12 e III.12): da una parte, la confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio; dall’altra l’inquadramento “proto-diacronico” della derivazione. A sua volta, il secondo di questi problemi produce un effetto collaterale importante nelle grammatiche sanscrite prodotte in Europa tra il XVII e i primi anni del XIX secolo. Per noi, le grammatiche sanscrite sono delle grammatiche sincroniche – chiaramente, sincroniche nel senso di old-time synchrony definito da Janda & Joseph (2003, p. 21, cfr. § I.3), ma pur sempre delle grammatiche sincroniche. Queste grammatiche, inoltre, descrivono i dati empirici sui nomi derivati per due accidenti storici ovvero, da una parte per la produttività che la morfologia derivazionale ha nella lingua sanscrita, e dall’altra per il fatto che gli stessi dati sono descritti dai grammatici indiani. Tra il XVII e il XVIII secolo, però, la derivazione e l’analisi morfemica sono nozioni strutturalmente “proto-diacroniche”. Tutte le grammatiche che descrivono la formazione delle parole, quindi, finiscono per essere circondate da una sorta di aura di “proto-diacronia”; in altre parole, finiscono per avere un inquadramento sull’asse del tempo un po’ ambiguo, che oscilla tra la dimensione “proto-sincronica” abituale per la descrizione linguistica e la dimensione “proto-diacronica” abituale per l’analisi della formazione dei nomi. Se, quindi, riportiamo le grammatiche sanscrite su uno schema simile a quelli utilizzati nei §§ I.3, II.12 e III.12, otteniamo lo schema seguente (fig. 9): La morfologia derivazionale e il problema del tempo 212 Lingua-Linguaggio Grammatiche generali francesi generale inquadramento: proto-sincronia derivatio: esclusa dalla grammatica Funzionamento Grammatiche particolari particolare inquadramento: proto-sincronia derivatio: analisi (minima) dei nomi derivati Grammatiche sanscrite inquadramento: ambiguo derivatio: formazione-creazione delle parole sanscrite Grammatiche “pancroniche” tedesche particolare Origine generale inquadramento: proto-diacronia derivatio: formazione-creazione delle parole tedesche Opere sull’origo linguae inquadramento: proto-diacronia derivatio: formazione-creazione di tutte le lingue Fig. 9, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo, la derivazione e le grammatiche sanscrite nei primi anni del XIX secolo Ovviamente, non è detto che Roth, Carey, Forster o Wilkins sentissero un particolare legame tra la derivazione e la “proto-diacronia”: forse, l’analisi dei nomi derivati compariva nelle loro grammatiche solo perché questi temi erano centrali nell’insegnamento orale dei pandit e nelle prakriyā indiane. I missionari e i funzionari inglesi residenti in India, in altre parole, potevano anche non essere aggiornati rispetto agli studi grammaticali europei e alla concezione “proto-diacronica” della derivazione che si era andata definendo sempre più chiaramente tra il XVII e il XVIII secolo. Ma è difficile che Bopp non fosse consapevole del legame tra derivazione e “proto-diacronia”: il Barone A. S. de Sacy, maestro di Bopp per le lingue semitiche e il persiano, era autore di una grammatica generale che escludeva del tutto i dati sui nomi derivati (Sacy 1799), ma gli Le grammatiche sanscrite tra il Barocco e Bopp 213 stessi dati erano centrali nella grammatica di Adelung (1781), che era nota a tutti i tedeschi colti dell’epoca. Inoltre, un’aura di particolare antichità e, quindi, di vicinanza con l’origine del linguaggio, aleggiava nelle grammatiche sanscrite fin dal discorso di William Jones alla Asiatic Society of Bengal (1786) e si ritrovava sia nella grammatica di Paolino (1799), sia nel lavoro di Schlegel (1808). Infine, nel Conjugationssystem (1816), Bopp stesso aveva usato l’analisi morfemica e la formazione dei temi verbali in latino, greco, sanscrito e germanico per dimostrare la parentela delle lingue indoeuropee, rinsaldando ulteriormente il legame tra la derivazione e la “proto-diacronia” (cfr. infra § V.2). Insomma, quale che fosse la ragione originale per cui Roth, Carey, Forster o Wilkins avevano incluso una sezione specificamente dedicata all’analisi della derivazione nelle loro grammatiche, nell’Europa dei primi anni del XIX secolo, soprattutto dopo la dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea e la pubblicazione della grammatica sanscrita di Bopp, la presenza di questa sezione non poteva che apparire come connotata in senso “proto-diacronico”. Certo, la connotazione “proto-diacronica” che si nota nelle grammatiche sanscrite è minore di quella che si nota nelle grammatiche pancroniche tedesche: Bopp descrive il funzionamento del sanscrito, ma non cerca di dimostrare che il sanscrito è la lingua originale dell’umanità nella grammatica, come facevano Scottelio e Adelung rispetto al tedesco. L’inquadramento delle grammatiche sanscrite sull’asse del tempo, quindi, non è pancronico in senso stretto, ma è comunque un inquadramento almeno in parte ambiguo, che oscilla tra la proto-sincronia e la proto-diacronia, e oscilla tra queste due dimensioni soprattutto nell’analisi dei nomi derivati. CAPITOLO V: CONCLUSIONE 1. Friedrich Schlegel e la storia della morfologia derivazionale Le fasi della storia della morfologia derivazionale immediatamente successive a quelle descritte nei cap. III e IV sono tutto sommato note o, comunque, sono abbastanza facili da ricostruire seguendo le orme già tracciate da Lindner (2015a; 2015b) e, in misura minore, da Kastovsky (2006). Per raggiungere questo scopo, però, è utile fare un passo indietro rispetto alle date di pubblicazione delle grammatiche sanscrite di Bopp e tornare al 1808, quando Schlegel dimostra per la prima volta la parentela delle lingue indoeuropee nel suo lavoro Über die Sprache und die Weisheit der Indier. La dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea di Schlegel si poggia principalmente su due elementi1. Da una parte, Schlegel propone una teoria filosofica sull’origo linguae, al cui interno le diverse fasi di sviluppo del linguaggio coincidono con altrettanti “tipi” linguistici, e la genesi delle lingue indoeuropee rappresenta la fase finale, ontogeneticamente più recente, di questa evoluzione pancronica del linguaggio. Dall’altra parte, Schlegel identifica delle concordan1 Schlegel impara i primi rudimenti della lingua sanscrita da Hamilton, che ospita a Parigi tra il 1802 e il 1805, e da Chèzy, che gli insegna il persiano; non possiede, però, una grammatica sanscrita e la sua conoscenza del sanscrito dipende dallo studio di alcuni manoscritti della Biblioteca di Parigi, oltre che dalle lezioni di Hamilton e Chèzy. Fin dai tempi del circolo di Jena, inoltre, Schlegel segue il dibattito sull’origine del linguaggio che si tiene nell’Akademie der Wissenschaften di Berlino e si chiude con il saggio di Herder (1772, cfr. Aarsleff 1974, pp. 94-4 e 109-115; 1984 [19821], pp. 175-180). Sul periodo parigino di Schlegel e i suoi rapporti con Hamilton e Chèzy, si vedano Windisch (1917, p. 57), Rocher (1968, pp. 34-63 e 97-101), Schwab (1984, p. 68), Plank (1987b) e Tull (2015, p. 227). Sul pensiero linguistico di Schlegel, si vedano Nüsse (1962), Formigari (1977a; 1977b) e Timpanaro (1977); sui rapporti tra Schlegel e la linguistica indoeuropea, si vedano Rosiello (1967, pp. 95 e 167 ss.), Gipper & Schmitter (1979, p. 19), Muller (1984), Schreyer (1984), Rousseau (1984b) e Swiggers (1993). 216 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ze oggettive, ma tutto sommato non particolarmente estese, tra le lingue indoeuropee più anticamente attestate (il latino, il greco, il sanscrito e il germanico) al livello delle radici lessicali (ted. Wurzeln) e di quella che Schlegel (1808, p. 27) chiama grammatische Struktur e che, in sostanza, indica le desinenze di flessione (ted. Endungen, cfr. rispettivamente Schlegel 1808, pp. 3-16 e 27-43)2. In altre parole, l’analisi della derivazione, che era fondamentale nelle grammatiche pancroniche tedesche del XVII e del XVIII secolo e nelle grammatiche sanscrite pubblicate in Europa prima del 1808, viene completamente esclusa dalla vergleichende Grammatik di Schlegel3. 2. Franz Bopp e la storia della morfologia derivazionale Nel 1816, Bopp riprende la tesi di Schlegel e dimostra nuovamente la parentela delle lingue indoeuropee sulla base di una serie di concordanze, ben più estese, sistematiche e regolari di quelle identificate da Schlegel, nella formazione dei temi verbali in latino, greco, sanscrito, germanico e, in parte, persiano. Il metodo grazie a cui Bopp descrive la struttura interna dei temi verbali indoeuropei – la sua Zergliederugnkunst –, come ha scritto giustamente Sternemann (1984, p. 24), è un synchron-kombinieren- 2 3 In un caso, la Endung di Schlegel indica il suffisso nd dei participi germanici (1808, pp. 29-30), e in un altro paio di casi indica una “terminazione” nel senso latino del termine, i.e. l’insieme di suffisso e di una desinenza (cfr. il comparativo sanscrito taro o le Endsylben scr. tvan e ted. thun, che formano i nomi astratti, 1808, pp. 18, 29 e 32). Se si escludono questi casi, però, la grammatische Struktur di Schlegel indica solo la flessione. Sulla sinonimia tra i termini Flexion, Grammatik e Organismus nei primi anni del XIX secolo, si vedano Lefman (1891: I.1, p. 44), Timpanaro (1977, p. xvi) e Sternemann (1984, p. 30). L’utilizzo del sintagma vergleichende Grammatik in Schlegel non è del tutto nuovo. A metà del XVIII secolo, de Gébelin aveva usato grammaire comparative per indicare la comparazione tipologica (Savoia 1986, p. 68) e il calco vergleichende Sprachlehere era stato usato con lo stesso significato da Herder e Vater (Ramat 1974), seguiti da A. Schlegel nella sua recensione alla Sprachlehre di Bernhardi (1803, cfr. Koerner 1990, p. 242). Nel 1808, F. Schlegel modifica vergleichende Sprachlehre in vergleichende Grammatik. Conclusione 217 der Vergleich einzelsprachlicher Erscheinungen4. In pratica, Bopp, per prima cosa, individua i suffissi sanscriti già descritti dai grammatici indiani e dai primi sanscritisti europei; poi sviluppa gli strumenti tecnici necessari per rendere evidente la presenza di questi suffissi, come il trattino di divisione morfemica, che era stato utilizzato da Mäkze (cfr. § III.10.1), ma che, con Bopp, diventa del tutto abituale5; infine, Bopp utilizza i suffissi sanscriti così identificati come una guida per individuare i suffissi analoghi presenti nelle altre lingue indoeuropee6. Grazie a questo metodo, Bopp riesce ad isolare regolarmente tutti i moduli che compongono la parola indoeuropea (radice, suffisso e desinenza), e dimostra che la parentela tra le lingue indoeuropee coinvolge tutti i principali schemi di formazione delle parole e molte delle concrete unità di lingua che entrano in questi schemi. Il suffisso -tum dell’infinito scr. tap-i-tum, ad esempio, si ritrova nel suffisso tāf-ten dell’infinito persiano, che è l’accusativo di un no4 5 6 Sulla natura sincro-diacronica la Zergliederungkunst di Bopp, oltre a Sternemann, si vedano Orlandi (1962), Antinucci (1975) e Morpurgo-Davies (1996, p. 191). Si vedano scr. tan-i-tum, bhav-i-tum; lat. posse < pot-se e fu-ero; got. sokj-a; pers. ber-em, etc. (1816, pp. 43, 54, 57, 58, 66, 107 e 117). Probabilmente, il modello per l’utilizzo del trattino è la grammatica greca di Thiersch (1808, cfr. Lefman 1891: I.1, p. 57; I.2, p. 32; Rousseau 2001, p. 1199). Però, anche i lavori di Mäkze (cfr. § III.10.1) e quelli della Schola Hemsterusiana (i.e. la scuola olandese di filologia classica) citata da Lefman (1897, p. iv) e Verburg (1950, p. 461) potrebbero aver contribuito. Grazie alla sua Zergliederungkunst sincro-diacronica, Bopp dimostra la parentela dei suffissi indoeuropei, ma non ricostruisce le proto-forme indoeuropee dei suffissi. La tecnica di comparazione sincro-diacronica di Bopp, in altre parole, gli consente di dimostrare la parentela tra le lingue indoeuropee e di indagare la diacronia recente, ma gli preclude la diacronia remota della ricostruzione indoeuropea (così già Orlandi 1962, p. 545). Infatti, Bopp non usa mai l’asterisco ricostruttivo (Graffi 2001b), che risale al Glossarium der Gothischen Sprache di Gabelentz & Loebe (1843, cfr. Koerner 1977) o a Pott (1833, p. 180 ss., cfr. Lindner 2016a, p. 60), anche se qualche asterisco si trova già in Stiernhielm (1671) e Hickesius (1689, cfr. Lindner 2016a, p. 60); la canonizzazione dell’asterisco negli studi indoeuropei, invece, si deve a Schleicher (1861, p. 11, n. **; 1876, p. 12, n. *). L’utilizzo del sanscrito come “lente attraverso cui guardare a tutte le altre lingue” è noto (Orlandi 1962, pp. 542-3 e 548-9; Sternemann 1984, pp. 15, 18). Proprio il katalysierende Stellung der Sanskrit (als Metasprache), identificato da Sternemann (1984, p. 35 n. 14) conferma il “sanscritocentrismo” di Bopp (cfr. Lefman 1895: II.1, p. 190 e Mayrhofer 1983, p. 115). 218 La morfologia derivazionale e il problema del tempo men actionis in -tu- analogo a quello dei nomi astratti latini del tipo actus, -us ‘l’agire’ (1816, pp. 53, 71-3 e 135); il suffisso -sja- (i.e. -sya-) del futuro indiano è analogo al suffisso -εσω del futuro greco del tipo μαχ-έσω ‘combatterò’ da μάχομαι ‘combatto’; i suffissi dei nomina agentis in sanscrito, latino e greco sono uguali (1816, p. 26); la sequenza -ant- del got. sokj-and-s si ritrova nel suffisso -antdei participi sanscriti e la desinenza -s del nominativo latino appare come -h (i.e., nella trascrizione moderna, -ḥ) in sanscrito (1816, p. 135); la -s- dei desiderativi latini del tipo fac-so da facio è analoga alla -s- dei desiderativi indiani (1816, pp. 62 e 66); i suffissi in -ndelle classi V, VII e IX del presente sanscrito sono paragonabili agli infissi nasali del gr. δείκνυμι ‘mostro’ (aor. ἔδειξα) o κρίνω ‘giudico’ (aor. ἔκρισα, 1816, pp. 17 e 62), etc. La dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea di Bopp, in altre parole, ha l’effetto di riportare l’analisi della formazione dei nomi al centro degli interessi di tutti gli studiosi di lingue indoeuropee, offrendo una conferma almeno apparente ai legami tra la formazione delle parole e la “proto-diacronia” che erano emersi nelle grammatiche filosofiche tedesche del XVII e del XVIII secolo, ma che erano stati completamente esclusi dalla dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea proposta da Schlegel (1808). Negli anni ’20 del XIX secolo, mentre approfondisce i suoi studi di sanscrito (cfr. n. 48 § IV.3.10) e precisa le caratteristiche più importanti del suo metodo di vergleichende Gliederung grammatischer Formen (1820, pp. 1-9; 1824, pp. 117-124), Bopp riprende il Protokoll di descrizione grammaticale che compariva, da una parte nelle grammatiche sanscrite di Carey (1804), Wilkins (1808) e Forster (1810), dall’altra nelle grammatiche tedesche di Scottelio (1641) e di Adelung (1781), ed elabora un nuovo Protokoll che include una sezione specifica dedicata all’analisi della formazione dei nomi. Questo nuovo modello descrittivo, in prima istanza è utilizzato per descrivere la lingua sanscrita (Bopp 1827; 1832; 1834), ma nel giro di pochi anni è applicato anche allo studio della parentela delle lingue indoeuropee nella vergleichende Grammatik di Bopp stesso (1833-52), che viene subito accolta come il nuovo manuale per lo studio della genealogia delle lingue indoeuropee fino al Compendium di Schleicher (1867)7. Nella 7 La vergleichende Grammatik esce in tre edizioni (1833-521; 1857-612; 1868713), la prima e più breve delle quali comprende 6 volumi e circa 1500 pagi- Conclusione 219 vergleichende Grammatik di Bopp, quindi, lo studio dei suffissi di derivazione (ted. Suffixe) rappresenta un tema fondamentale, che è trattato in un capitolo a sé, collocato dopo l’analisi della flessione, come avveniva nella sua grammatica sanscrita (1833-52: cap. 5, Wortbildung, pp. 1072-1490), e come avviene ancora oggi nella maggior parte delle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche e moderne8. Anche il modo con cui Bopp descrive i suffissi presenti nelle lingue indoeuropee antiche è sostanzialmente analogo a quello che si userebbe oggi in ogni grammatica. In altre parole, nella sua vergleichende Grammatik, Bopp in qualche caso si limita a identificare un suffisso in una lingua e a verificare che lo stesso suffisso compare anche in altre lingue. Ma, in molti casi, finisce proprio per descrivere la formazione delle parole che contengono questo o quel suffisso. Si veda, ad esempio, dasselbe Suffix, welches das Part. der Gegenwart bildet [sc. *-nt-], fügt sich im Sanskrit und Zend auch an das Thema der Auxiliarfuturums; da mehrere Participialsuffixe nicht selten auch zur Bildung abgeleitete Wörter verwendet werden; die Form mana (mna) bildet gleichsam den Übergang zum Griech. μενο und Lat. minu […] und ist identisch mit Altpreuſs. mana…; auch Abstracta werden durch dieses Suffix [sc. scr. -ma-] gebildet (1833-52, p. 1081, 1097, 1104, 1121). Certo, per Bopp, la formazione delle parole in quanto tale riguarda principalmente la diacronia delle lingue indoeuropee, che è pur sempre la fase finale dell’ontogenesi del linguaggio; le procedure di analisi attraverso cui Bopp descrive la morfologia derivazionale, però, sono ormai sostanzialmente analoghe a quelle che utilizzerebbe qualsiasi studioso contemporaneo. 8 ne. Le tre edizioni sono simili, ma tra l’una e l’altra cambia il numero delle lingue ascritte alla famiglia indoeuropea. Ad esempio, le lingue iraniche sono quasi del tutto assenti dalla prima edizione; lo slavo compare solo dal vol. II dell’edizione del 1833-521; e l’armeno dalla prefazione all’edizione del 1857-612. Oltre a questo, le maggiori differenze si notano nel progressivo aumento di dimensioni dei cap. I (Schrift- und Laut-System) e II (Von den Wurzeln), che passano rispettivamente da 104 pp. a 196, e da 27 pp. a 47. Già Lefman (1895: II.1, pp. 276 e 270 ss.) notava che il capitolo sulla Wortbildung della vergleichende Grammatik di Bopp era modellato sul capitolo analogo della sua grammatica sanscrita. 220 La morfologia derivazionale e il problema del tempo 3. Lo studio della formazione delle parole dopo Bopp Il successo dell’ipotesi indoeuropea di Bopp e della sua Zergliederungkunst incentiva lo studio della formazione delle parole che, a partire dai primi anni del XIX secolo, si diffonde a partire dalla vergleichende Grammatik e della grammatica sanscrita verso le grammatiche sincroniche di tutte le altre lingue indoeuropee antiche, a cominciare dal greco (Lindner 2015a; 2015b). Già nel 1790, infatti, la grammatica greca di Trendelenburg (1790), includeva una brevissima sezione sui verbi preverbati; la stessa sezione è ripresa da Buttmann nelle prime tre edizioni della sua grammatica all’interno di un paragrafo dal titolo Zusammensetzung (18083 [17921], pp. 266-268). Nella quarta e, soprattutto, nella quinta edizione del lavoro, Buttmann modifica il titolo del paragrafo in Wortbildung, ne ampia notevolmente la portata e lo divide in due parti: la Wortbildung zur Endungen (18105, pp. 399-419), che è dedicata ai nomi derivati, e la Wortbildung zur Zusammensetzung (18105, pp. 420-428), che è dedicata ai nomi composti e ai verbi o ai nomi formati con le preposizioni. Come riconosce lo stesso Buttmann, la scelta di trattare i nomi derivati all’interno di un paragrafo autonomo è inusuale e richiede una giustificazione, perché, secondo la communis opinio di quegli anni, la Wortbildung è un tema diacronico-ontogenetico, sostanzialmente esterno alla descrizione grammaticale in senso stretto (18105, p. 399, il passo è citato da Lindner 2015a, pp. 38-9): Die Wortbildung in volle Verstande des Wortes liegt außerhalb der Grenzen der gewöhnlichen Sprachlehre. Denn da die Analogien in dem älteren Theile des Wortvorrathes durch die Zeit und durch die Vermischung der Stämme vielfältig zerrissen und verdunkelt sind […], [wird daher] eine gewisse Masse von Wörtern lexikalisch voraus[gesetzt] […]. Gewisse Arten von Ableitung jedoch, von welchen man eben deswegen annehmen kann, daß sie neuer sind, haben sich so vollständig und innerhalb gewisser Grenzen durchgehend erhalten, daß sie mit Sicherheit zusammen gestellt werden können; und diese Vereinigung derselben unter einem Gesichtspunkt erleichtert und beschleunigt die Kenntnis der Sprache (“La derivazione, nel senso stretto del termine, cade al di fuori della grammatica ordinaria. Dal momento che nella parte più antica del vocabolario le analogie, a causa del tempo e della mescolanza dei temi, si sono sfibrate in modi diversi Conclusione 221 e sono ormai opache […], un certo numero di parole sono presupposte nel lessico […]. Però, alcuni tipi di derivazione che a buona ragione si possono considerare più giovani si sono preservate in modo così pieno e completo, entro certi limiti, che possono essere unite senza dubbio; e la loro unione da un dato punto di vista rende la conoscenza della lingua più semplice e più rapida”). L’idea di Buttmann di inserire nella sua grammatica greca una sezione specificamente dedicata all’analisi della formazione delle parole è seguita pochi anni dopo da Tiersch, che riunisce i dati sui nomi derivati in un paragrafo dal titolo Von der Herleitung der Wörter aus Einander (1812, pp. 110-14). La grammatica di Tiersch, però, viene stroncata da una pessima recensione anonima uscita sulla Wiener Allgemeine Literatur-Zeitung 74 (1814), pp. 118-9 (Lindner 2012, p. 127; 2015b, p. 248). Anche nel lavoro di Buttmann, inoltre, il capitolo sui nomi derivati non rappresenta il quarto comparto tematico della grammatica, oltre all’alfabeto, alla flessione e alla sintassi, almeno fino all’edizione del 184115, né tanto meno rappresenta un livello di analisi autonomo e distinto sia dalla flessione, sia dalla sintassi: i dati sui nomi derivati, infatti, sono trattati in un paragrafo collocato alla fine della grammatica e sono mescolati insieme ad altri materiali miscellanei, come la descrizione della nozione di anomalia, l’analisi delle particelle e della prosodia e, più in generale, di tutto ciò che non trova spazio nelle tre sezioni canoniche che formano ogni grammatica pratica europea. Solo alcuni anni dopo la pubblicazione del Conjugationssystem di Bopp (1816), grazie soprattutto ai lavori sulle lingue germaniche di Grimm (1819-1837), e ai lavori sul greco di Kühner (1834-5) e di Curtius (1842; 1852), che sono entrambi allievi, diretti o indiretti, di Bopp e sono convinti dell’importanza della nuova linguistica comparata anche per lo studio delle lingue classiche, la presenza di una sezione autonoma dedicata alla descrizione della Wortbildung diviene la norma, almeno nelle grammatiche del greco, del latino e delle lingue germaniche9. Negli stessi anni, inoltre, compare un capitolo sulla derivazione anche nel secondo volume della Romani9 La comparsa del capitolo sulla derivazione nelle grammatiche di Curtius e Kühner segue di poco la comparsa delle prime monografie sulla derivazione, come quella di Becker (1824) sul tedesco (Jankowsky 2004) o quella di Curtius (1842) sul greco classico, che è dedicata al suo maestro Bopp. 222 La morfologia derivazionale e il problema del tempo sche Grammatik di Diez (1882 [18381]: 219 ss., cfr. Lindner 2015a). A partire da queste grammatiche il Protokoll descrittivo che, tra il Medioevo e l’Età dei Lumi era abituale per tutte le grammatiche “proto-sincroniche”, sia generali, sia particolari, viene superato in modo definitivo per accogliere i dati sulla formazione dei nomi. La morfologia derivazionale ormai è abitualmente descritta in un paragrafo autonomo e tutt’altro che breve all’interno della Formenlehre (Kühner 1834-5: I, pp. 255-336; Curtius 1852, pp. 193-203), come si usa anche ai nostri giorni. 3.1 La terminologia tecnica e le procedure di analisi Una evoluzione analoga a quella descritta sopra si registra per la terminologia tecnica relativa alla formazione delle parole e, in generale, per le pratiche di analisi morfemica, che si diffondono nelle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche a partire dai primi anni del XIX secolo, immediatamente dopo la dimostrazione dell’ipotesi indoeuropea da parte di Bopp (Lindner 2012, pp. 124 ss.; 2015a; 2015b; 2016a, pp. 84). Nei primi anni del XIX secolo, infatti, Buttmann utilizza le nozioni di Stamm, Thema o Wurzel ma, in molti casi, il tema, il suffisso di derivazione e la desinenza di flessione non sono divisi in modo coerente: secondo Buttmann, ad esempio, i nomi greci della I e della II declinazione vanno segmentati λόγ-ος, λόγ-ου, senza distinguere la desinenza e la vocale tematica; i composti, sarebbero formati con una ex desinenza di caso ormai opacizzatasi (che è definita Deklinir-Endung, Nominal-Endung o Bindenvokal), come la -o- che si trova in λογ-ο-ποιός ‘logografo’; e il verbo κολακ-εύω sarebbe formato a partire da κόλακ-ος, genitivo singolare di κόλαξ ‘adulatore’, data la presenza della -k- nel tema del verbo (Buttmann 1805, pp. 52, 112; 18115, pp. 74, 173, 418). Nello stesso tempo, Buttmann inizia a utilizzare regolarmente la nozione di Endung per riferirsi alle desinenze di caso, ma ancora non distingue la Endung nel nostro senso moderno di ‘desinenza’ dalla ‘terminazione’ nel senso latino del termine, dato che considera Endungen anche le sequenze -της dei nomi d’agente, -αινα dei nomi femminili, -ιδης dei patronimici, etc. (18115, pp. 418 ss.). L’abitudine di scomporre le parole in morfemi, necessaria per descrivere la formazione dei nomi, torna nella grammatica greca di Thiersch che, per la prima volta, concettualizza abitualmente la Conclusione 223 parola (Wort) come l’insieme di un tema (Wortstamm) e delle lettere o sillabe (Buchstaben oder Syllben) che indicano die Grammatik, ossia la flessione (1812, p. 25)10. L’analisi morfemica delle parole, però, non incontra i favori degli studiosi contemporanei, tanto che un anonimo recensore della grammatica di Tiersch definisce la scomposizione del gr. ἐλπίς, -ίδος come ‘un peccato contro il loro [sc. dei Greci] Genio’ (eine Versündigung an ihrem Genius) e, per di più, come un peccato dovuto a un eccesso di speculazione filosofica, dato che i temi non sono altro che forme vuote (Luftformen), inventate dai grammatici. La segmentazione delle forme linguistiche proposta da Tiersch, inoltre, è spesso arbitraria, un po’ come era quella dei grammatici tedeschi del XVII e del XVIII secolo, dato che, per fare un esempio tra i tanti possibili, il gr. λαμβάνω ‘prendo’ viene segmentato alternativamente come λαβ-, λα-νβ-αν e λα-μβ-αν. Anche in questo caso, insomma, è solo dopo la monografia di Curtius sulla derivazione in greco (1842), che è dedicata al suo maestro Bopp, e la pubblicazione delle grammatiche greche di Kühner (1834) e di Curtius (1842, pp. 3, 7 e 16; 1875 [18521], pp. 17, 20 e 193), che gli studiosi europei cominciano ad accettare davvero la concezione stem-based della flessione che era corrente nelle grammatiche sanscrite fin dal XVIII secolo e iniziano a dividere abitualmente la parola in una radice (radix, Stamm, Stammwort), un suffisso di derivazione (suffixum, Wortbildungsendung) e una desinenza di flessione (terminatio, Endung)11. Le grammatiche scolastiche e le grammatiche delle lingue europee “vive”, però, non accolgono il concetto di tema e l’idea della scomponibilità della parola almeno fino all’affermazione definitiva della grammatica comparativa nella seconda metà del XIX secolo (Lindner 2015b, p. 251). La prima distinzione coerente tra 10 11 Su Thiersch e il suo influsso su Schleicher, si vedano anche Rousseau (2000) e Odoul & Samain (2019, p. 84). L’identificazione del tema nel primo membro dei composti fu probabilmente ̥ la parte filologicamente più dibattuta per l’accettazione della nozione di tema nella filologia classica, dato che Curtius stesso non aveva del tutto rinunciato al concetto di Bindenvokal nei composti (1875 [18521], p. 151, cfr. Lindner 2012, pp. 128-133). Soprattutto in Germania, inoltre, c’è anche stato chi, come Mehlhorn (1845, p. 130), divideva Endung ‘desinenza’ e Ausgang ‘terminatio’ (Lindner 2012, p. 138). 224 La morfologia derivazionale e il problema del tempo le nozioni di Wurzel ‘radice’, Grudwort ‘tema primario (formato da una radice)’, e Stamm ‘tema flessionale (che può essere formato da una radice o da un tema primario già derivato)’, infatti, compare, per la prima volta, nella grammatica di Reimnitz (1831, pp. 31-2, cfr. Lindner 2016a, p. 80). 4. Dalla concezione “proto-diacronica” alla concezione diacronica della derivazione Mentre le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche iniziano a far spazio all’analisi della formazione dei nomi e alle pratiche di analisi morfemica, a partire almeno dalla metà del XIX secolo, la vergleichende Grammatik si distacca progressivamente dalla sua originaria prospettiva pancronica, che includeva tipologia e genealogia come due momenti successivi dell’evoluzione del linguaggio, e si specializza nel ruolo di grammatica storico-diacronica, ma per nulla ontogenetica, delle lingue indoeuropee12. Come ha mostrato Robins (1990, p. 89), infatti, a partire da Steinthal (1850), il sintagma historisch-vergleichende Grammatik (der indogermanischen Sprachen) si affianca a quello ormai divenuto canonico di vergleichende Grammatik. Alla fine del secolo, quindi, la comparazione è ancora il metodo che caratterizza qualsiasi tipo di approccio scien- 12 Il mutamento dalla concezione tipologica della vergleichende Grammatik alla sua concezione genealogica, è noto. Per Schlegel, la comparazione serviva a studiare tutta l’evoluzione del linguaggio, dalla sua origine ultima fino alla storia delle lingue indoeuropee. Bopp accoglie la concezione di Schlegel in teoria (infatti, inizia la sua vergleichende Grammatik con una sezione sulla tipologia delle lingue e afferma esplicitamente che studiare l’origine delle lingue indoeuropee è il modo migliore per studiare l’origine del linguaggio, cfr. Bopp 183352: I, pp. 112-3 e III, pp. iii-iv). In pratica, però, Bopp si occupa esclusivamente della comparazione delle lingue indoeuropee. Lo stesso avviene in Schleicher, che ancora descrive la tipologia nell’introduzione al suo Compendium (1867, pp. 2 ss.). Qualsiasi riferimento alla tipologia delle lingue, però, scompare dai successivi manuali di linguistica indoeuropea, come la Einleitung di Delbrück (1884) e il Grundriss di Brugmann (1886-1916). Sul passaggio dalla concezione anche tipologica alla concezione solo genealogica della vergleichende Grammatik si vedano Ramat (1974), Antinucci (1975, pp. 170 ss.), Morpurgo Davies (1975, p. 657), Timpanaro (1977, p. xxxiii), Sternemann (1984, pp. 14, 20 e 24), Auroux (1990) e Koerner (1990). Conclusione 225 tifico allo studio del linguaggio ma, ormai, il Vergleich riguarda soltanto la genealogia delle lingue indoeuropee. In questo modo, nel corso di XIX secolo, la diacronia delle lingue indoeuropee viene distinta per la prima volta in modo netto dalla pancronia che serve per studiare l’origine del linguaggio13. La derivazione, però, rappresenta ormai una parte fondamentale della grammatica storico-comparativa delle lingue indoeuropee. Nel corso del XIX secolo, quindi, si disarticola il legame originario tra la derivazione e lo studio dell’origine del linguaggio, ma la derivazione continua ad avere un legame, se non proprio esclusivo, almeno preferenziale con la diacronia delle lingue indoeuropee. Ancora Kühner, ad esempio, considerava nomi “derivati” tutti i nomi greci dotati di un’etimologia indoeuropea, come il gr. χεῖρ, che, secondo lui, era formato a partire dalla radice sanscrita hr̥- ‘prendere’14; e, con la stessa logica, Perthes sosteneva che il termine Wortstamm dovesse essere escluso da ogni grammatica latina perché indicava solo un’astrazione diacronica estranea alla consapevolezza dei parlanti (1876, pp. 49 ss.). Già nel 1805, però, Buttmann (1805, p. 112 n.) intravede il problema costituito dai rapporti tra la derivazione e la diacronia quando dice che utilizzerà il termine Stammwort oder Wurzel solo nel senso (per noi sincronico) di Konjugationswurzel, come φονεύrispetto a φονεύω ‘uccido’ e τιμά- rispetto a τιμάω ‘onoro’, ma non nel senso più tradizionale della etymologische Wurzel, come φον- e τιμ- rispetto a φονεύω e τιμάω15. Nonostante le precisazioni di Buttmann, però, il legame tra la diacronia e la morfologia derivazionale non verrà mai realmente messo in discussione nel XIX 13 14 15 L’origine ultima del linguaggio continuò a rappresentare un tema ampiamente discusso fino alla metà del XIX secolo, come mostrano, tra i vari, i lavori di Grimm (1851) e Steinthal (1850), ma fu comunque messo al bando nel 1866 dalla Société di Linguistique di Parigi (cfr. n. 6 § I.3.1). L’etimologia di Kühner è citata polemicamente da Curtius (1842, p. 1) ed è rifiutata dalla lessicografia attuale: il gr. χεῖρ deriva da *ĝhes-r- (NIL 170: cfr. arm. jer̄ n, alb. dorë), mentre il scr. hr- deriva da *ĝher- (LIV2 177). Su Perthes, si veda Lindner (2015b, p. 249). Ugualmente, Buttmann distingueva nel gr. σῶμα, -τος, il Biegungstamm σωματ- (i.e. der Stamm eines Wortes in Absicht auf Biegung) e il Wortstamm σωμ- (i.e. der Wortstamm in Rücksicht der Etymologie, 1810, pp. 73; 1819, p. 162; 1830, p. 159). Per una disamina di questi termini, si vedano Lindner (2012, p. 125) e Eichner (1993, p. 39). 226 La morfologia derivazionale e il problema del tempo secolo; anzi, come hanno mostrato Kastovsky (2006) e Lindner (2015a), una certa aura di diacronia continuerà a caratterizzare tutti gli studi sulla morfologia derivazionale fino almeno agli anni ’70’80 del XX secolo, quando la scoperta della nozione di produttività determinerà la definitiva distinzione tra i suffissi opachi (o, al massimo, ancora trasparenti ma improduttivi), che vanno descritti nel lessico o spiegati in diacronia, e suffissi produttivi che, invece, vanno trattati nell’ambito della morfologia derivazionale, poiché possono essere utilizzati produttivamente dai parlanti per formare delle nuove parole. 5. Il lascito dell’originaria concezione “(proto-)diacronica” della derivazione È perfettamente noto che l’ipotesi indoeuropea ha rappresentato un immenso spartiacque nella storia della linguistica del XIX secolo. Il lavoro di Schlegel (1808), infatti, non contiene solo la prima formulazione dell’ipotesi indoeuropea, ma propone un rinnovamento radicale di tutta l’architettura del sapere linguistico accettata tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi. Il rinnovamento non riguarda le grammatiche pratiche, che continuano il loro corso senza particolari scossoni, ma investe tutti gli altri campi del sapere. Al posto della divisione tra grammatiche filosofiche pancroniche, grammatiche filosofiche acroniche e opere sull’origine del linguaggio, Schlegel propone un unico tipo di “grammatica”, che sia contemporaneamente filosofica, ma anche empirica (quindi, storica) e comparativa, e che abbracci con un unico sguardo tutto ciò che va dall’origine ultima del linguaggio, alla classificazione tipologica delle lingue del mondo, fino alla parentela delle lingue indoeuropee16. Almeno in questa prima fase, però, l’analisi della Wortbildung è completamente esclusa dalla vergleichende Grammatik. 16 In questo modo, si realizza quello che Rosiello ha definito il “trapasso dagli universali metodologici [sc. della grammatica generale] agli universali storici [sc. della nuova vergleichende Grammatik]” (Rosiello 1967, p. 176). Si noti, però, che questo trapasso non è stato immediato: tra il 1795 e il 1850 si stampano più di 51 grammatiche generali in Francia e circa 20 in Spagna; la frequenza di queste opere inizia a decresce dagli anni ’30 del XIX secolo, fino quasi a esaurirsi dopo la metà del secolo (Lépinette 2008). Conclusione 227 A partire da Bopp, però, la vergleichende Grammatik pancronica proposta da Schlegel si specializza nell’analisi diacronica delle lingue indoeuropee; nello stesso tempo, i problemi dell’origine ultima del linguaggio e della tipologia delle lingue vengono progressivamente esclusi dalla nuova Sprachwissenschaft, che continua a essere fondata sulla comparazione, ma ormai solo in chiave diacronica e indoeuropea. Alla metà del XIX secolo, quindi, l’architettura del sapere linguistico è divisa in due domini principali, la grammatica storico-comparativa delle lingue indoeuropee, che ha un inquadramento ormai diacronico (e non più “proto-diacronico”), e la grammatica pratica, che presenta lo stesso inquadramento “proto-sincronico” che aveva nei secoli passati. L’analisi dei nomi derivati è un tratto distintivo del primo campo di ricerca, ma non si trova o si trova poco nelle grammatiche pratiche e, anche quando si trova, si limita all’analisi dei diversi tipi di nomi derivati registrati nel lessico, senza descrivere le regole di formazione di quei nomi. In una posizione intermedia tra questi due domini del sapere, si trovano le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche. Tutte queste grammatiche descrivono il funzionamento di una lingua particolare (come il sanscrito, il greco, il latino o qualche lingua germanica), ma includono anche gli stessi dati (almeno apparentemente) diacronici sulla formazione delle parole che si trovano nella vergleichende Grammatik. In altre parole, vuoi per il fatto che descrivono lingue molto antiche, vuoi per il fatto che sono prodotte e utilizzate soprattutto da indoeuropeisti, vuoi per il fatto che descrivono i dati (apparentemente) diacronici sulla formazione delle parole, le grammatiche delle lingue indoeuropee più antiche finiscono per essere attratte nel campo di influenza della vergleichende Grammatik e, proprio in virtù di questa “attrazione”, finiscono anche per avere un inquadramento sull’asse del tempo che oscilla tra la “proto-sincronia” delle grammatiche pratiche e la diacronia della vergleichende Grammatik. Se riportiamo su una tabella, l’architettura del sapere linguistico abituale tra la metà e la fine del XIX secolo, otteniamo la figura seguente (fig. 10): 228 La morfologia derivazionale e il problema del tempo Lingua(-Linguaggio) Grammatiche pratiche Funzionamento inquadramento: proto-sincronia derivatio: esclusa o comunque poco descritta Grammatiche delle lingue indoeuropee antiche inquadramento: ambiguo derivatio: formazione-etimologia delle parole Historisch-vergleichende Grammatik Origine inquadramento: diacronia derivatio: formazione-etimologia delle parole Fig. 10, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo, la derivazione e le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche nei primi anni del XIX secolo L’architettura del sapere ritratta nella fig. 10 presenta dei problemi teorici simili a quelli già messi in luce nei capitoli precedenti. Però, cambia la forma in cui si manifestano questi problemi e cambia anche la forza del loro impatto sulle concrete pratiche di analisi linguistica. Anche l’architettura nella fig. 10, in altre parole, presuppone una certa confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio; in questo caso, però, la confusione si limita al campo della “proto-sincronia”, perché la diacronia che serve per studiare la genealogia delle lingue indoeuropee è stata ormai distinta in modo netto dalla pancronia che serve per studiare l’origine del linguaggio. In modo simile, anche l’architettura nella fig. 10 presuppone un inquadramento diacronico per tutti i dati sulla formazione dei nomi e, quindi, presuppone un inquadramento almeno in parte diacronico anche per le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche che descrivono questi dati, come avveniva già all’inizio del secolo per le grammatiche sanscrite. Entrambi i problemi teorici descritti sopra (i.e. la confusione tra le nozioni di lingua e linguaggio, e l’inquadramento diacronico dei dati sulla morfologia derivazionale) sono ormai risolti nel sapere linguistico contemporaneo. La loro soluzione, però, ha seguito logiche e tempistiche diverse. La confusione tra lingua e linguaggio è stata Conclusione 229 risolta in modo, direi, definitivo tra la seconda metà del XIX secolo e gli anni ’20 del XX secolo, con l’elaborazione della nozione di sincronia limitata nello spazio e nel tempo da parte di Saussure (1916) in Europa, e con la pubblicazione della tipologia di Sapir (1921) in America. L’inquadramento diacronico dei dati sulla formazione dei nomi, invece, è rimasto tale più a lungo, dato che, come hanno mostrato Kastovsky (2006) e Lindner (2015a), la formazione delle parole è stata comunque avvolta da una certa aura di diacronia fino agli anni ’70-’80 del XX secolo, quando la scoperta della nozione di produttività ha confermato la natura sincronica dei processi di formazione delle parole (cfr. n. 1 § I.2 e, per un esempio pratico, il lavoro di Grossmann & Reiner 2004 sulla formazione delle parole in italiano). Tuttavia, almeno due tracce dell’inquadramento originariamente “proto-diacronico” che avevano i dati sulla formazione delle parole restano visibili ancora oggi, se non proprio nella teoria linguistica, almeno nella pratica di descrizione grammaticale a noi contemporanea. La prima di queste tracce riguarda la posizione che la sezione sulla formazione delle parole ha nelle grammatiche delle lingue indoeuropee “vive”. In origine, il Protokoll canonico delle grammatiche pratiche aveva un andamento bottom-up: si partiva dai suoni della lingua, si passava alle parole in isolamento e si chiudeva con le parole in combinazione; la formazione delle parole era esclusa dalla descrizione grammaticale proprio perché riguardava la “proto-diacronia”. Quando l’analisi della formazione delle parole è stata inserita nel Protokoll, però, il capitolo sulla Wortbildung è stato collocato dopo la flessione e prima della sintassi, perché, appunto, si trattava di un’aggiunta alla sezione sulle parole in isolamento. Questa posizione, però, è incoerente rispetto all’originario andamento bottom-up che avevano le grammatiche pratiche, dato che la flessione riguarda anche le parole derivate, ma la derivazione non riguarda le parole flesse. La posizione che la sezione sulla morfologia derivazionale ha in molte grammatiche a noi contemporanee, in altre parole, ci ricorda che questa sezione, originariamente, era estranea alla descrizione grammaticale in senso proprio, e le era estranea, proprio perché la formazione delle parole è sempre stata considerata come un problema “proto-diacronico”17. 17 Alcune grammatiche moderne, in effetti, “correggono” questa anomalia e spostano la sezione sulla formazione dei nomi prima della flessione: così 230 La morfologia derivazionale e il problema del tempo La seconda traccia dell’originario inquadramento “proto-diacronico” della formazione delle parole riguarda il modo in cui è descritta la formazione delle parole soprattutto nelle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche. Di norma, ancora oggi, queste grammatiche descrivono la forma dei nomi derivati registrati nel lessico, non le regole di formazione di quei nomi. In altre parole, l’analisi della morfologia derivazionale che si trova abitualmente nelle grammatiche greche, latine o gotiche (meno in quelle sanscrite) segue un approccio di tipo lessicalista e si fonda sulla nozione di trasparenza morfotattica, più che su quella di produttività. In pratica, le grammatiche di queste lingue elencano in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui compare un certo suffisso, sia quelli in cui il suffisso è produttivo, sia quelli in cui il suffisso è trasparente ma non produttivo, sia quelli in cui il suffisso è un relitto ormai fossilizzato che si può identificare soltanto grazie all’etimologia. Schwyzer, ad esempio, tratta insieme (1939: I, pp. 504 ss.) tutti i nomi in *-ti- > gr. -σι-, sia quelli che sono formati produttivamente in greco, come λύσις ‘scioglimento’ da λύω ‘sciolgo’, sia quelli che sono ancora trasparenti, ma sono il prodotto di una regola produttiva, come πίστις ‘fiducia’ da πείθω ‘persuadere’ (cfr. il più recente πεῖσις ‘persuasione’), sia i relitti indoeuropei fossilizzati e ampiamente opachi già in Omero, come μῆτις ‘saggezza’, che non può essere formato da nessun verbo greco (e non presenta l’esito atteso *-ti- > gr. -σι-), ma continua un proto-gr. *meh1-ti(da *meh1- ‘misurare’, cfr. anche gr. μέτρον ‘misura’, scr. māti‘misura’ e mi-mā-ti ‘misurare’, ags. mǣd ‘misura’ e lat. mētior ‘misurare, stimare’)18. L’abitudine di riunire in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui compare un suffisso, a prescindere dalle differenze di produttività, è perfettamente comprensibile dal punto di vista pratico. Il greco non è una lingua “viva”: chi studia il greco non parla con una comunità di persone che vive in uno specifico cronotopo, ma legge 18 avviene, ad esempio, nella grammatica greca di Schwyzer (1939) e in molte grammatiche recenti di lingue “esotiche”, come la grammatica di kalaallisut (groenlandese occidentale) di Sadock (2003) o la grammatica di jamul tiipay (hokan) di Miller (2001). La mancata assibilazione del suffisso *-ti-, in genere, è spiegata come un tratto arcaico che denuncia l’origine eolica (o, forse, dorica), della parola (cfr. EDG, s.v.). Conclusione 231 i testi prodotti durante un lungo arco di secoli; e, in linea di massima, chi legge Omero legge anche Platone, Polibio o Luciano di Samosata, anche se tra Luciano e Omero ci sono circa dieci secoli di differenza. In questo caso, quindi, è molto più comodo produrre una grammatica che aiuti a leggere tutti i testi greci, anche se tra un testo e l’altro la produttività di questo o quel suffisso è cambiata. Però, per quanto comprensibile sul piano pratico, l’abitudine di riunire in un solo paragrafo tutti i lessemi in cui compare un certo suffisso, senza curarsi delle differenze di produttività e delle regole di derivazione, implica una piccola negazione della differenza tra la sincronia e la diacronia: in questo caso, infatti, i derivati formati sulla base di regole di formazione produttive e i nomi derivati dal punto di vista etimologico ma ormai immagazzinati nel lessico come un tutto unico sono inevitabilmente confusi insieme. 6. Conclusione Insomma, nel 2004, Kaltz giustamente lamentava un certo ritardo negli studi sulla storia della morfologia derivazionale. Negli ultimi trent’anni, infatti, gli storici della linguistica hanno prodotto una discreta quantità di materiali utili per ricostruire la storia di quel particolare comparto dell’analisi linguistica che noi oggi chiamiamo morfologia derivazionale e che trattiamo, di norma, nelle nostre grammatiche descrittive (ovvero, sincroniche) dopo la sezione dedicata alla flessione dei nomi, e prima della sezione dedicata alla sintassi. Nei lavori dedicati alla storia della morfologia derivazionale pubblicati fino ad oggi, però, era rimasto un po’ in ombra un problema che a me è sembrato piuttosto importante, ovvero il rapporto tra la morfologia derivazionale e quello che con una formula un po’ semplicistica ho chiamato “il problema del tempo”. La formula è semplicistica perché “il problema del tempo” è il prodotto di due problemi diversi e interrelati: da una parte la sovrapposizione tra le nozioni di lingua e di linguaggio, che determina la confusione sincronia/acronia e diacronia/pancronia tipica di tutto il sapere linguistico comunemente accettato tra Platone e Bopp; dall’altra un inquadramento di tipo primariamente “proto-diacronico” per tutti i dati empirici sulla formazione delle parole, che, a sua volta, produce una certa confusione nell’identificazione di quella 232 La morfologia derivazionale e il problema del tempo linea ideale che separa la “proto-sincronia” e la “proto-diacronia”. Anche se semplicistica, quindi, la formula che ho proposto spero possa effettivamente aiutare a mettere in luce una caratteristica interessante della storia della morfologia derivazionale: questa storia, in ultima analisi, è la storia del modo in cui gli studiosi attivi tra Platone e Bopp hanno gestito i due problemi citati sopra, ovvero da una parte la confusione tra le nozioni di lingua e di linguaggio, e dall’altra l’inquadramento dei dati sulla formazione dei nomi rispetto all’asse del tempo. In altre parole, noi moderni, dopo aver diviso in modo netto la lingua e il linguaggio, dividiamo il “pacchetto” dei dati sulla derivazione in due “sotto-pacchetti”: i dati empirici e sincronici sui suffissi produttivi e sulle regole di formazione delle parole, che trattiamo nel capitolo sulla morfologia derivazionale all’interno delle grammatiche sincroniche, e i dati sui suffissi di derivazione trasparenti ma non produttivi o, addirittura, i dati sui suffissi opacizzati, che riguardano il lessico e l’etimologia, ovvero la diacronia. Proprio questa divisione dei dati sulla formazione delle parole in due “pacchetti”, uno sincronico e uno diacronico, però, era completamente estranea a tutto il pensiero antico. Anzi, si può dire che tutti gli studiosi attivi tra Platone e Bopp siano sempre partiti dal presupposto che questi due gruppi di dati formassero un unico “pacchetto” di dati, ma si sono spesso interrogati sul modo in cui questo “pacchetto” di dati, sempre inteso come un’unità, dovesse essere gestito all’interno delle diverse architetture del sapere che si sono succedute nel corso dei secoli. Più specificamente, in un primo tempo, che coincide grossomodo con l’antichità greco-romana, questo “pacchetto” unitario di dati è stato descritto ugualmente e in una forma simile, sia nelle opere etimologiche “proto-diacroniche”, che descrivevano la genesi delle parole e dei loro suffissi, sia nelle grammatiche “proto-sincroniche”, che classificavano le diverse tipologie di parole presenti nel λόγος anche in base alla presenza dei diversi suffissi di derivazione. A partire dal Medioevo, però, e soprattutto tra il Rinascimento e l’Età dei Lumi, tutti i dati empirici sui nomi derivati sono stati espulsi dalle grammatiche “proto-sincroniche”, sia generali, sia particolari, e si sono andati progressivamente aggregando solo all’interno delle grammatiche “proto-diacroniche” tedesche. In questo modo, tutto il “pacchetto” dei dati empirici sui nomi derivati si è andato legando Conclusione 233 in modo sempre più stretto con la “proto-diacronia”, ovvero con l'etimologia e l’origine del linguaggio. Proprio questo legame tra i dati sui nomi derivati e la “proto-diacronia”, però, ha finito per confondere l’inquadramento sull’asse del tempo di tutte le grammatiche che descrivevano la formazione delle parole: in primo luogo, l'inquadramento delle grammatiche “filosofiche” tedesche, che sono strutturalmente pancroniche proprio perché descrivono la formazione delle parole tedesche; poi, l’inquadramento delle grammatiche sanscrite, che sono grammatiche sincroniche e descrivono i dati sui nomi derivati perché questi dati erano descritti dai grammatici indiani autoctoni; e, infine, l’inquadramento delle grammatiche di tutte le altre lingue indoeuropee antiche, a partire dal latino, dal greco e dalle lingue germaniche, che descrivono questi dati perché gli stessi dati, grazie a Bopp, erano stati descritti nella vergleichende Grammatik delle lingue indoeuropee. La storia della morfologia derivazionale, in altre parole, si può effettivamente vedere come la storia di una grande contesa; una contesa che si è protratta per secoli senza mai essere stata identificata come tale e che ha riguardato l’inquadramento dei dati sulla formazione delle parole rispetto all’asse del tempo e, quindi, almeno indirettamente, l’identificazione di quella linea ideale che divide la proto-sincronia dalla proto-diacronia. Poiché, però, entrambi i domini del sapere, nel corso del tempo, si sono andati definendo e ridefinendo varie volte e in forme diverse, la storia della morfologia derivazionale non si può raccontare se non in relazione alle diverse forme che ha assunto l’architettura complessiva del sapere linguistico comunemente accettata nel corso delle diverse epoche. Proprio per questo, ricostruire la storia della morfologia derivazionale è certamente un obiettivo importante in sé, come diceva già Kaltz, ma può anche aiutare a rivalutare alcuni aspetti, secondo me rilevanti, della storia del pensiero linguistico in generale. Certo, questa rivalutazione non riguarda primariamente il periodo antico: la divisione tra le grammatiche e le opere etimologiche, anche se poco valorizzata da Vaahtera, era ben nota anche prima di questo lavoro. Però, è vero che identificare due diversi approcci all'analisi dei nomi derivati fin dal periodo antico aiuta a comprendere la differenza tra grammatica ed etimologia. Inoltre, la distinzione tra due tipologie di grammatiche filosofiche (i.e. le grammatiche filosofiche “acroniche” soprattutto francesi e le grammatiche filosofiche “pan- 234 La morfologia derivazionale e il problema del tempo croniche” soprattutto tedesche) è difficile da identificare, se non si tiene conto del trattamento della derivazione e del problema del tempo; e, senza questa distinzione, è molto difficile superare l’idea vulgata, secondo cui l’architettura generale del sapere linguistico tra il Rinascimento e Bopp sarebbe fondata solo su tre gruppi principali di opere (i.e. le grammatiche pratiche, le opere sull’origine del linguaggio, e le grammatiche filosofiche, considerate come un insieme uniforme). Lo stesso discorso vale per l’inquadramento delle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche rispetto all’asse del tempo: se non si tiene nel giusto conto la storia della morfologia derivazionale e i suoi legami con il problema del tempo, diventa difficile o, forse, impossibile comprendere come e perché sia nata quella confusione tra old-time synchrony e diacronia che, effettivamente, si nota nelle grammatiche delle lingue indoeuropee antiche prodotte nel XIX secolo, né si capisce perché qualche piccolissima traccia di quella stessa confusione sia visibile ancora nelle grammatiche di latino, greco o delle lingue germaniche antiche che tutti noi utilizziamo anche oggi. Ovviamente, molto lavoro resta ancora da fare. In particolare, sarebbe utile ricucire il legame tra la storia della nozione di derivazione e la storia della nozione di radice, soprattutto per quello che riguarda l’analisi delle grammatiche sanscrite (per qualche indizio in questa direzione, si veda Alfieri 2014a; 2013). Inoltre, nonostante gli importanti lavori di Biondi (2014, 2018), il periodo compreso tra Prisciano e i Modisti è ancora oggi poco noto (anche per la mancanza delle edizioni critiche di molti dei testi fondamentali per quei secoli), anche se è stato un periodo fondamentale sia per lo studio della derivazione, sia per tutta la riorganizzazione del sapere linguistico. Nello stesso modo, sarebbe utile estendere l’indagine alle grammatiche “missionarie”: è noto, infatti, che in alcuni casi queste grammatiche rispettano il Protokoll canonico delle grammatiche delle lingue europee e non descrivono la formazione delle parole; però, in altri casi, soprattutto quando si trovano di fronte a lingue polisintetiche, i Padri Missionari descrivono le regole di formazione delle parole anche più di quanto non facciano gli studiosi di lingue europee. Infine, sarebbe assolutamente auspicabile estendere l’indagine alle nozioni di radice e di derivazione nelle grammatiche delle lingue semitiche, sia arabe, sia ebraiche, pubblicate in Europa tra il Rinascimento e la vergleichende Grammatik di Bopp. Queste Conclusione 235 grammatiche, infatti, presentano almeno due aspetti di notevolissimo interesse per la storia della morfologia derivazionale: in primo luogo, anche queste lingue, come il sanscrito, sono state descritte inizialmente da studiosi autoctoni che utilizzavano un modello di analisi linguistica non lessicalista, strutturalmente simile al modello di analisi linguistica utilizzato in India (ma prodotto in modo indipendente); inoltre, è noto che le grammatiche delle lingue semitiche e, soprattutto, le grammatiche ebraiche sono state il primo modello da cui Scottelio ha mutuato le nozioni di radice e di derivazione che tanta parte avrebbero avuto nella successiva storia linguistica europea, e che proprio in queste grammatiche si nasconde una parte ancora poco nota della confusione tra diacronia e origine del linguaggio abituale in tutta la linguistica premoderna. Insomma, il ritardo nello studio della storia della morfologia derivazionale lamentato da Kaltz, in parte dipende dal fatto che la morfologia derivazionale, in ordine di tempo, è effettivamente stata l’ultimo comparto di analisi ad essere stato accettato nelle nostre grammatiche sincroniche. In parte dipende dalla particolare complessità che caratterizza la morfologia derivazionale e, quindi, anche la sua storia. I dati sulla formazione delle parole, infatti, si trovano nel punto esatto in cui da sempre si confondono la linguistica, intesa come una scienza empirica, e la filosofia, intesa come una scienza speculativa; e, anche una volta distinti questi due piani, i dati sulla morfologia derivazionale insistono comunque nel punto in cui da sempre la “(proto-)sincronia” si confonde con la “(proto-) diacronia”. La morfologia derivazionale, in altre parole, rappresenta il comparto di analisi linguistica in cui la confusione tra linguistica e filosofia e, all’interno della linguistica, la confusione tra la sincronia e la diacronia è stata più complessa, più pervasiva ed è durata più a lungo. Certo, come si diceva, molto lavoro resta ancora da fare per recuperare tutti gli effetti che queste due confusioni intrecciate tra loro hanno prodotto nel corso dei secoli. Ma spero che questo lavoro possa rappresentare un contributo utile per ricostruire alcuni aspetti della storia della morfologia derivazionale che erano rimasti se non ignoti, certamente un po’ in ombra nei lavori sul tema pubblicati negli ultimi anni. Soprattutto, spero che questo lavoro possa mostrare che la storia della nozione di derivazione, comunque la si voglia interpretare nei suoi aspetti minuti, non può essere ricostruita in modo soddisfacente se non si includono nell’orizzonte della 236 La morfologia derivazionale e il problema del tempo ricerca tanto l’architettura complessiva del sapere linguistico, al cui interno da sempre si dibatte la confusione tra linguistica e filosofia, quanto “il problema del tempo”, al cui interno si può dibattere la confusione tra sincronia e diacronia. BIBLIOGRAFIA Aarsleff, Hans 1982 From Locke to Saussure. Essay on the Study of Language and Intellectual History, University of Minnesota Press, Minneapolis; tr. it. di M. Ciotola, 1984, Sornicola R. (ed.), Da Locke a Saussure. 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INDICE DELLE FIGURE Fig. 1, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, § I.3 Fig. 2, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo e il problema del tempo, § I.3 Fig. 3, l’architettura del sapere linguistico contemporaneo, il problema del tempo e il trattamento della derivazione, § I.3 Fig. 4, la struttura logica della divisio graeca (nella versione di Prisciano), § II.9.1.1 Fig. 5, la struttura logica della divisio latina, § II.9.1.2 Fig. 6, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e la derivazione tra il II secolo d.C. e il VI secolo d.C., § II.12 Fig. 7, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo e la derivazione tra il XVI e il XVIII secolo, § III.12 Fig. 8, la struttura dell’Aṣṭādhyāyī di Pāṇini, § IV.2 Fig. 9, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo, la derivazione e le grammatiche sanscrite nei primi anni del XIX secolo, § IV.5 Fig. 10, l’architettura del sapere linguistico, il problema del tempo, la derivazione e le grammatiche delle lingue indoeuropee antiche nei primi anni del XIX secolo, § V.5 Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 da Puntoweb s.r.l. – Ariccia (RM)