Ventunesimo Secolo
Ventunesimo Secolo
Rivista di Studi sulle Transizioni
35
L’eredità di Margaret Thatcher
Anno XIV
Dicembre 2014
L’eredità di Margaret Thatcher
Rubbettino
Tariffa R:O:C.: Poste Italiane - Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N.46) Art.1, comma 1 - Autorizzazione DR/CBPA-SUD/ CZ/25/2006 valida dal 17/02/2006
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35
Copertina di Ettore Festa, HaunagDesign
€ 16,00
Antonio Masala
Introduzione.
L’eredità di Margaret Thatcher
Richard Vinen
Britain’s Thatcher.
La Gran Bretagna
di Margaret Thatcher
Andrew Gamble
Economia libera e Stato forte:
la politica economica
di Margaret Thatcher
Philip Booth
Margaret Thatcher e la rivoluzione
dei mercati finanziari
Rubbettino
Antonio Masala
Il thatcherismo tra Stato e libertà
Sebastiano Bavetta
L’eredità politica di Margaret
Thatcher e la costruzione
della società aperta
Tim Bale
In vita come in morte? Margaret
Thatcher (in)compresa
Cosimo Magazzino
Thatcherismo e austerità
Anno XIII - ottobre 2014
35
Rivista di studi sulle transizioni
Ventunesimo
Secolo
Direzione
Gaetano Quagliariello
Comitato scientiico
Elena Aga-Rossi, Roberto Balzani, Giampietro Berti, Eugenio Capozzi, Antonio Carioti,
Marina Cattaruzza, Roberto Chiarini, Simona Colarizi, Piero Craveri, Stefano De Luca,
Gianni Donno, Marco Gervasoni, Fabio Grassi Orsini, Lev Gudkov,
Juan Carlos Martinez Oliva, Mauro Moretti, Gerardo Nicolosi, Giovanni Orsina,
Roberto Pertici, Antonio Varsori, Paolo Varvaro
Caporedattori
Vera Capperucci, Christine Vodovar
Redazione
Michele Ainito, Emanuele Bernardi, Lucia Bonfreschi, Maria Elena Cavallaro, Michele Donno,
Gabriele D’Ottavio, Maria Teresa Giusti, Andrea Guiso, Marzia Maccaferri, Evelina Martelli,
Tommaso Pifer, Carmine Pinto, Luca Polese Remaggi, Andrea Spiri
Corrispondenti
Juan Eugenio Corradi (America Latina); Marc Lazar, Nicolas Roussellier, Olivier Wieviorka
(Francia); Kiran Klaus Patel (Germania); Carl Levy (Gran Bretagna); Abdòn Mateos (Spagna);
Christian Ostermann (Stati Uniti); Vladislav Zubok (Russia)
Rubbettino
Direzione e redazione
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Sommario
Gaetano Quagliariello
Editoriale
5
L’eredità di Margaret hatcher
Antonio Masala
Introduzione: L’eredità di Margaret hatcher
9
Richard Vinen
Britain’s hatcher. La Gran Bretagna di Margaret hatcher
19
Andrew Gamble
Economia libera e Stato forte:
la politica economica di Margaret hatcher
41
Philip Booth
Margaret hatcher e la rivoluzione dei mercati inanziari
61
Antonio Masala
Il thatcherismo tra Stato e libertà
79
Sebastiano Bavetta
L’eredità politica di Margaret hatcher e la costruzione
della società aperta
107
Nota
Tim Bale
In vita come in morte? Margaret hatcher (in)compresa
135
Cosimo Magazzino
hatcherismo e austerità
153
Testimonianza
John O’Sullivan
Ripensando al thatcherismo
181
Notizie sugli autori
203
Cosimo Magazzino
hatcherismo e austerità
Abstract - hatcherism and austerity
he objective of the paper is to compare the austerity policies of the hatcher governments with those of European governments. In fact, the situation of the United Kingdom
at the end of the seventies is, in many aspects, similar to what is currently happening in
many European economies: a crisis of productivity and growth, deterioration of public
accounts and poor conidence in policymakers. In this study we aim to demonstrate that
expansive austerity (i.e. tax and public expenditure cuts) has worked both in the case of
the governments led by Margaret hatcher and for those EU countries that have chosen
it as the strategy to overcome the crisis.
“Economics is the method;
the object is to change the heart and soul.”
Margaret H. hatcher (1925-2013)
Introduzione
La scomparsa di Margaret hatcher, baronessa per volontà della regina
Elisabetta II e prima donna a essere divenuta primo ministro britannico – incarico ricoperto dalla primavera del 1979 all’autunno del 1990 – è considerata
sia dai suoi ammiratori che dai critici come la potenziale ine di un’era che ha
riformulato il rapporto tra i governi e i loro cittadini1. La hatcher è restata al
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Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
n. 10 di Downing Street per il periodo più lungo di qualsiasi primo ministro
britannico nel XX secolo, guadagnandosi grande rispetto ma pure disprezzo
da parte del pubblico del Regno Unito a causa delle sue politiche dure e spesso
impopolari. Una manciata di leader politici sono talmente inluenti da avere un
“ismo” dopo il loro nome; ma nessuna ilosoia politica ha plasmato una nazione
in toto allo stesso modo del thatcherismo.
Il thatcherismo, ossia il modo in cui la hatcher ha tradotto nuove visioni
in politiche sostanziali – misto di liberismo in campo economico, conservatorismo sui temi sociali e individualismo dal punto di vista ilosoico – non ha
semplicemente rispolverato gli ideali vittoriani condensati nel motto “Dio, Patria
e Famiglia”, giacché rivoluzionando ogni aspetto della vita politica, si è erto a
sistema di pensiero. Il minimal State di Nozick, l’egoismo della Rand, l’individualismo (etico e metodologico) di von Hayek e von Mises, il tradizionalismo
di Scruton, il monetarismo di Friedman, l’ofertismo di Lafer, il metodismo di
Alfred Roberts (suo padre) sono stati opportunamente mescolati per mostrare
al Regno Unito e al mondo che una Weltanschauung diversa da quella oramai
consolidata per Tory e Labour fosse possibile; a distanza di qualche anno, abbiamo appreso che era anche credibile, se non addirittura auspicabile. D’altronde,
il Washington consensus non è altro che la riproposizione delle ricette con cui la
Iron Lady curò quello che nel 1979 veniva deinito “il Grande Malato d’Europa”,
e che nel 1978 aveva sperimentato l’“inverno dello scontento”, con i laburisti
alla guida del paese2.
In questo saggio cercheremo di chiarire le analogie e le diferenze tra l’austerity dei governi hatcher degli anni Ottanta e quella attuale di alcuni esecutivi
europei. Dopo questa breve Introduzione, nella sezione 2 vengono confrontati
il Regno Unito pre-1979 e l’Ue odierna. In seguito, nella sezione 3 si discutono
le politiche thatcheriane. Nella successiva sezione 4 si paragonano l’austerità
thatcheriana e quella europea. Inine, nella sezione 5 si traggono le conclusioni.
Le side: il Regno Unito prima della hatcher e l’UE oggi
La crisi che attanagliava l’economia del Regno Unito negli anni Settanta
aveva diverse radici: lo statalismo, l’elevata pressione iscale, l’abulia psicologica,
la politica del consenso (basata su concertazione e corporativismo), le nazionalizzazioni, le tensioni razziali, la montante disoccupazione, che si erano aggiunti
agli efetti dei due shock petroliferi.
Nel mondo post-bellico, il modello commerciale preferenziale del Commonwealth e l’area della sterlina – quale sua controparte inanziaria – stavano
progressivamente perdendo peso e centralità. L’economia britannica, gravata
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hatcherismo e austerità
da cospicui debiti esterni, vacillava da una crisi all’altra. E la svalutazione della
sterlina del 1967 evidenziò l’incoerenza tra le priorità economiche nazionali e
la credibilità internazionale di quella divisa, ciò che sarebbe stato impensabile
nel precedente regime monetario del gold standard3.
Durante il primo Governo conservatore del dopoguerra la disoccupazione
risultò in media pari a 330.000 unità, 500.000 sotto il Labour tra il 1964 e il 1970,
750.000 sotto i Conservatori nel periodo 1970-1974 e 1.250.000 sotto l’ultimo
Governo laburista. Andamento simile ebbe l’inlazione: l’incremento annuale
medio nei prezzi al dettaglio fu del 3,5% sotto i Governi Conservatori guidati
da Churchill, Eden, Macmillan e Douglas-Home nel periodo 1951-1964, 4,5%
sotto la prima amministrazione Wilson, 9% con quella Heath, e 15% durante
l’ultimo Governo laburista di Callaghan.
La situazione economica del Paese in quel tempo è stata eloquentemente
riassunta da Peter Clarke:
In cinque anni, Healey introdusse più leggi inanziarie che Gladstone in tutta la sua
vita, spesso due o tre all’anno, mentre lottava col susseguirsi di un’emergenza dopo
l’altra. La più grave di queste fu la crisi della sterlina del settembre 1976. La cosa
più demoralizzante era la permanenza simultanea di tanti allarmanti indicatori:
oltre 1.250.000 disoccupati, un deicit della bilancia dei pagamenti che siorava il
miliardo di sterline, l’inlazione annua al 16%, la sterlina scesa a 1,57 dollari, il tasso
di sconto salito al 15%, e la spesa del governo apparentemente fuori controllo, col
risultato di un deicit di bilancio record4.
Se col binomio conservatore Barber-Heath si creò il deicit di bilancio attraverso il declino delle entrate iscali, con quello laburista Healey-Callaghan tale
deicit si accrebbe, a causa dell’aumento della spesa pubblica. La recessione, inoltre, portò con sé il calo della produzione, la diminuzione del gettito erariale e un
aumento della spesa sociale, sotto forma di maggiori sussidi di disoccupazione.
Il governo tory capeggiato da Edward Heath aveva issato l’aliquota massima dell’imposta sui redditi personali al 75%5. Contemporaneamente i sussidi
elargiti dallo Stato crescevano, sino a raggiungere il valore di 1.282 milioni di
sterline inglesi nel 1974. Nel corso degli anni Settanta, il rapporto tra spesa
pubblica e pil aveva superato la soglia del 44%. In 75 anni – dal 1890 al 1965 – il
rapporto spesa pubblica/prodotto nazionale era passato dal 4,9% al 28,2%, quasi
sestuplicando in percentuale, con un aumento medio di circa lo 0,3% annuo6.
La spesa sociale britannica complessiva, alla ine degli anni Settanta, ammontava al 18% del pil, pari alla media dei principali Paesi dell’Oecd (17,98%)7.
Il problema centrale del Paese era costituito – a detta di autorevoli studiosi – dal livello decisamente basso della produttività del lavoro8. Dalla metà
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Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
degli anni Sessanta la disparità tra la crescita della produttività britannica e
quella registrata nelle altre economie avanzate (che variava tra un rapporto di
1:2 ed uno di 2:3) diede luogo ad un crescente declino dei redditi d’impresa, ad
una perdita dei tradizionali mercati di esportazione, ad un aumento generale
delle importazioni (aggravando la dipendenza commerciale dall’estero) e ad
un arretramento del settore manifatturiero, con distruzione di posti di lavoro9.
La questione dei lussi migratori ne apriva a sua volta un’altra in merito
all’appesantimento del Welfare state che veniva determinato da massicci alussi
di immigrati. Questa gente, infatti, avanzava forti richieste nel settore dei servizi
pediatrici e scolastici. Dalla ine degli anni Cinquanta i Conservatori avevano
fatto leva sul problema dell’immigrazione, tanto da portare allo slogan elettorale
“Se vuoi un negro per vicino di casa, vota laburista”, ideato da Enoch Powell10.
In aggiunta, tra il 1971 ed il 1973 la bilancia dei pagamenti si deteriorò,
passando da un surplus record di oltre un miliardo di sterline ad un deicit
record, pressoché dello stesso ammontare. L’inlazione in continuo aumento,
provocando una perdita di competitività di prezzo rispetto alle merci estere,
spingeva verso l’apprezzamento del tasso di cambio reale della divisa britannica,
il che stimolava le importazioni e disincentivava, invece, le esportazioni. Inoltre,
il disavanzo nei conti con l’estero frenava la crescita del prodotto nazionale, date
le esportazioni nette negative. A tutto ciò non giovò, peraltro, l’instabilità nei
mercati valutari mondiali. Crollato il 15 agosto del 1971 il gold exchange standard
con la celebre “dichiarazione di inconvertibilità” pronunziata dal Presidente statunitense Richard Nixon, la sterlina si svalutò costantemente rispetto al marco
tedesco. E soltanto la debolezza della divisa americana, dovuta alla guerra nel
Vietnam, fece sì che la sterlina non si svalutasse anche nei confronti del dollaro11.
Come ha sostenuto Roger Scruton:
Prima della hatcher c’era la convinzione in Inghilterra che il conservatorismo
fosse per gli aristocratici o i igli delle famiglie agiate. Essere conservatore era come
avere un impedimento linguistico. Margaret hatcher ha cambiato la politica in
Occidente, non soltanto nel Regno Unito. Fino al suo avvento al potere il socialismo aveva ancora qualche chance di illusione, vera o presunta. La hatcher lo ha
distrutto per sempre12.
L’idea che lo Stato potesse essere sostituito dai privati e il monopolio
dalla concorrenza prima di lei più che politicamente improponibile appariva
come il vezzo intellettualoide di individui isolati e piuttosto strambi. In Gran
Bretagna, quelle idee non camminavano su solide gambe neoclassiche, come
negli Stati Uniti dei Chicago boys. Qui, la iaccola della libertà economica la
custodiva un gruppo di economisti “austriaci”, ancora più lontani dall’orto156
hatcherismo e austerità
dossia. Michael Beesley, Stephen Littlechild, Colin Robinson, Eileen Marshall,
George Yarrow, Ian Byatt, e gli altri arteici della deregulation erano tutti igli
di von Hayek. Il quale aveva ricevuto il Premio Nobel per l’Economia nel
1974: ma l’aveva avuto da outsider. Geniale, ma outsider. Sicché, la vecchia
accademia remava contro.
Come ha sintetizzato la stessa hatcher nelle sue memorie:
Il laburismo spingeva l’Inghilterra verso un maggiore statalismo; i conservatori
non retrocedevano, e il successivo governo laburista spingeva il Paese più a sinistra.
I conservatori allentavano il busto al socialismo, ma non glielo toglievano mai13.
La situazione ricorda da vicino quella che purtroppo sta sperimentando
buona parte del Vecchio Continente in questi anni. Il Drat joint employment
report14, che fotografa la situazione sociale e occupazionale in Europa, indica
come a settembre 2013 nella UE vi fossero ormai quasi 27 milioni di disoccupati
(il 10,9% della popolazione attiva, ma secondo Eurostat sarebbero addirittura
il 12,2%). La crisi ha avuto un andamento diverso a seconda dei Paesi, rilettendo lo sviluppo dei rispettivi pil. Nei 12 mesi precedenti si registra infatti un
aumento del tasso di disoccupazione in 16 Paesi (in Grecia 4,1%, Cipro +4,3%,
Italia +1,7%, Paesi Bassi +1,4%) e una diminuzione negli altri 12, con un bel
risultato della Lettonia che vanta un -3,6%.
Si conferma quel che già si sapeva da tempo: la maggiore incidenza della
crisi si ha nel Sud-Europa, dove particolarmente penalizzati risultano i giovani
(che hanno raggiunto un tasso complessivo di disoccupazione del 23,5%), ma
non solo. La crisi pare aver intaccato di più i settori lavorativi tradizionalmente
maschili e meno quelli femminili; sono stati maggiormente colpiti i rapporti di
lavoro precari e le attività meno qualiicate; i lavoratori più anziani hanno visto
crescere del 3,3% il loro tasso di occupazione nell’ultimo anno. Continuano a
calare i lavori a tempo pieno, crescono stabilmente quelli part-time, soprattutto
per le donne. E proprio un’alta percentuale di part-time rischia di inquinare le
statistiche, rendendole meno desolanti.
Dal 2010 al 2014, la spesa pubblica totale sarà stata tagliata all’incirca del
40% del pil in Irlanda, del 20% nei Paesi baltici, 12% in Spagna, e 11,5% nel
Regno Unito. Diversamente da quanto profetizzato in un report della Oxfam15,
questi paesi, stando ai dati più recenti, sono quelli dove più robusta è la crescita
del pil e più vicina sembra la ripresa.
Molti paesi europei hanno apparentemente varato programmi di austerità
per aiutare la ripresa. L’austerità, come promossa dai conservatori e dal Fmi, e
come criticata e derisa dai keynesiani (guidati da Paul Krugman) è generalmente
deinita come tagli alla spesa pubblica e/o alle tasse, con conseguenti riduzioni
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Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
dei disavanzi pubblici. Utilizzando i dati di Eurostat, dal 2008 al 2012 i dati ci
dicono che solo otto dei trenta paesi dell’Ue hanno ridotto la spesa pubblica.
Di questi otto paesi, solo l’Islanda e l’Irlanda sono stati esempi di austerità
citate dai media (gli altri riguardano Bulgaria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Ungheria). I dati sulla crescita del pil relativo mostrano che
solo due degli otto paesi che hanno praticato l’austerità hanno fatto registrare
performance peggiori della media. Questi due paesi sono l’Islanda e l’Irlanda.
L’Islanda ha assistito al completo tracollo del suo sistema bancario, quindi è
chiaramente un caso speciale. Mentre in Irlanda è scoppiata una grande bolla
immobiliare, che ha contribuito a provocare una crisi bancaria e un disavanzo
pubblico enorme. Inoltre, i due paesi con la migliore performance relativa in
tutta l’Europa, la Polonia e la Lituania, sono entrambi nel gruppo di austerità,
e la Bulgaria registra il quarto miglior tasso di crescita del PIL relativo. Pertanto, questi dati suggeriscono come, per la maggior parte dei Paesi europei che
abbiano sperimentato l’austerità, essa abbia funzionato.
Se l’austerità funziona, la correlazione tra la crescita della spesa pubblica
e la crescita del pil dovrebbe essere negativa, perché ciò signiicherebbe che i
tagli alla spesa pubblica sono associati alla crescita positiva del pil. Se i keynesiani hanno ragione, invece, e la spesa pubblica contribuisce ad aumentare la
crescita economica, la correlazione dovrebbe essere signiicativamente positiva.
Possiamo testare queste ipotesi utilizzando i dati Eurostat per il quadriennio
2008-2011. La correlazione tra la crescita della spesa pubblica e la crescita del pil
relativo è, infatti, negativa. Con un valore pari a -0,14, l’analisi di correlazione
di certo non supporta le tesi anti-austerità.
Inoltre, in linea con quanto sostenuto da Bini Smaghi, non è l’austerità che
ha causato la bassa crescita, bensì è la bassa crescita che ha causato l’austerità.
In altri termini, i paesi che hanno sperimentato una bassa crescita potenziale,
a causa di profondi problemi strutturali, nel tentativo di sostenere il loro standard di vita e il loro sistema di welfare hanno accumulato, prima della crisi, un
eccesso di debito pubblico e privato, che poi, quando la crisi è scoppiata, si è
rivelato insostenibile e ha richiesto un brusco aggiustamento16.
L’austerità ha prodotto in alcuni paesi una bassa crescita, ma essa stessa può
essere il risultato di una crescita scarsa e squilibrata, a causa della mancanza di
riforme strutturali. Il rinvio di riforme che migliorassero il potenziale di crescita
ha lasciato i paesi con un’unica soluzione, l’austerità. L’austerità è così il risultato
dell’incapacità dei politici di prendere decisioni nel momento giusto, in altre
parole è il risultato della loro miopia.
La via di uscita dall’austerità non passa allora dalla riduzione delle misure
di austerità, ma da profonde riforme strutturali che aumentino il potenziale di
crescita e creino spazi di manovra per un aggiustamento iscale più graduale.
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hatcherismo e austerità
Le politiche thatcheriane
Nel marzo 1981, alcune centinaia tra i più prestigiosi economisti britannici
irmarono un manifesto anti-hatcher. La risposta migliore sta nel titolo di un
libro pubblicato 25 anni dopo, a cura di Philip Booth: I 364 economisti avevano
tutti torto?17 Domanda retorica, ovviamente. Un altro economista inglese, Dieter
Helm, certo non un suo fan, ha scritto:
Prese la preferenza per le soluzioni di mercato da Friedman; una visione più tollerante del monopolio da Schumpeter, secondo cui i proitti di monopolio avrebbero
fornito gli incentivi agli imprenditori ed erano tipicamente transitori; e il desiderio
di una forte cornice per i diritti di proprietà da von Hayek. Queste visioni vennero raforzate da un approccio molto più critico ai fallimenti del governo e i costi
della regolamentazione, che in ultima analisi derivava da Popper, e furono molto
inluenzate dal lavoro di von Mises sull’informazione18.
Ha scritto Andrew Gamble:
La vittoria dei Conservatori alle Elezioni Generali del 1979 portò a un Governo che
era determinato a porre ine al declino britannico e alla crisi dell’autorità statale in
virtù di una rottura politica e ideologica con la socialdemocrazia19.
Dunque, riassumendo: la hatcher, politica eclettica, trasformò il pensiero
di alcuni economisti eccentrici in una piattaforma politica. Contro ogni logica,
vinse le elezioni; e per tre volte consecutivamente. La vittoria non risiede tanto
nei numeri – che pure ci sono – quanto nello shock lessicale e politico sottostante. Una rivoluzione in attesa di scatenarsi, la descrive Helm. La hatcher
intercettò tutto ciò prima di altri leader politici. Fu così che un istituto di nicchia,
che produceva paper interessanti, divenne il mainstream. La hatcher era una
“conservatrice istintiva”, come l’ha deinita il Wall Street Journal, la cui ilosoia
economica derivava dalle osservazioni del padre nel gestire una drogheria. Era
autenticamente di destra, retrograda e ilistea nei comportamenti, nelle predilezioni, inanche nel linguaggio. Discordia era, per lei, motivo di progresso,
non già di stagnazione.
E il legame tra economia e società fu ben rimarcato in un passaggio del
discorso che la premier tenne alla conferenza del Partito conservatore a Brighton
il 10 ottobre 1980:
Senza un’economia sana non possiamo avere una società sana. Senza una società
sana l’economia non rimarrà sana a lungo. Ma non è lo stato che crea un’economia
159
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
sana. Quando lo stato diventa troppo pervasivo, la gente sente di contare sempre
meno. Lo stato impoverisce la società, non solo togliendole la sua ricchezza, ma
anche l’iniziativa, l’energia, la volontà di migliorare ed innovare. Il nostro scopo è
quello di far sì che la gente senta di contare sempre di più. […] Una società sana
non è creata dalle sue istituzioni20.
Agli scenari di politica economica keynesiana si opponeva un nuovo approccio thatcheriano, che sarebbe divenuto noto come Nuova macroeconomia
classica: si cercava di indurre uno shock positivo nell’economia, portando il
sistema verso un’acuta delazione, la quale avrebbe posto le imprese in diicoltà,
espellendo dal mercato quelle tra loro meno eicienti. Pertanto si sarebbero
moltiplicati i fallimenti, e un primo efetto sarebbe stato il rapido aumento del
tasso di disoccupazione. Ma ciò avrebbe prodotto un incremento nel livello di
produttività e di competitività dell’economia nel suo complesso. Le imprese
con un basso tasso di produttività sarebbero fallite per prime, mentre il livello
di produttività media totale sarebbe aumentato. Contemporaneamente, una
forte delazione avrebbe spinto il management a modiicare radicalmente il
processo produttivo riorganizzandolo, modiicando la capacità produttiva e
accelerando i ritmi di lavoro. La delazione avrebbe poi ridotto la resistenza
di operai e sindacati a simili mutamenti. D’altra parte il governo sarebbe stato
inlessibile, non salvando le imprese in diicoltà. Le liberalizzazioni e le privatizzazioni avrebbero incrementato il grado di concorrenzialità e di eicienza
del sistema economico. Mentre la legislazione anti-sindacale avrebbe iaccato
la resistenza di salariati e sindacalisti. Il canale di trasmissione delazionistico
principale sarebbe stato costituito dagli alti saggi di interesse reali. Inoltre, la
politica monetaria (aumentando il costo del credito) avrebbe rivestito – almeno
inizialmente – un ruolo più importante rispetto alla politica iscale. Quest’ultima
doveva sostanzialmente essere orientata verso il raggiungimento di obiettivi
monetari e non verso la stabilizzazione dell’occupazione e della produzione21.
In un’ottica neo-liberale, si invocava un minimal state, secondo una ilosoia
politica di non-interventismo nell’attività del meccanismo di libero mercato.
Alla politica di stop and go di derivazione keynesiana si sostituiva l’approccio
step-by-step di matrice thatcheriana22.
In particolare, si desiderava superare – nella lotta al male macroeconomico inlazione – la vecchia politica dei redditi, prevedendo la commisurazione
dei salari alla produttività del lavoro, in base alla “Regola fondamentale di
politica dei redditi”. Al suo posto doveva ergersi la supply-side economics,
operando tramite: a) politiche iscali “improntate al rigore” (riduzione e riqualiicazione della spesa pubblica, con tagli ai suoi capitoli tendenzialmente
improduttivi e con politiche “qualitative” di spesa; passaggio da imposte sul
160
hatcherismo e austerità
reddito da lavoro a imposte sulla spesa e sulle rendite petrolifere, che portassero maggiore neutralità nel sistema del prelievo); b) il ristabilimento di un
«equilibrio dei poteri nella struttura della contrattazione collettiva (attraverso
il ridimensionamento del potere delle Trade Unions); c) l’incoraggiamento
alle forze di mercato ad agire il più liberamente e lessibilmente possibile,
favorendo la lessibilità del mercato del lavoro e la mobilità degli input di
produzione (abolizione dei controlli su prezzi, cambi e dividendi); d) le politiche della concorrenza e delle privatizzazioni; e) le politiche di deregulation
e sempliicazione burocratica; f) le politiche energetiche, volte soprattutto ad
assicurare al sistema imprenditoriale un’adeguata e meno costosa disponibilità di energia, e g) il più generale arretramento dell’intervento pubblico in
materia di politica industriale (diminuendo l’intervento pubblico nel sistema
economico con la riduzione delle attività inanziate dallo Stato)23.
Gli strumenti utilizzati dal governo al ine di raggiungere i propri scopi
sembrarono rappresentare un ritorno ai baluardi della concezione macroeconomica classica precedente la Teoria Generale di Keynes, ritornando d’attualità il
“teorema di equivalenza” di Barro e Ricardo, il “principio del bilancio pubblico
in pareggio” della Scuola italiana di Scienza delle Finanze, la “teoria quantitativa
della moneta” di I. Fisher (secondo la quale il livello generale dei prezzi, e quindi
il valore reale della moneta, dipendono dalla quantità di moneta in circolazione),
il riequilibrio nel mercato del lavoro, la “legge degli sbocchi” di Say, la teoria
ricardiana della distribuzione (funzionale) del reddito24.
Nel giro di sei anni (1981-1987) furono privatizzate, con luci e ombre, la
“British Telecom” (nel 1984), la “British Gas” (1986), la “British Petroleum”, la
“Britoil” (1983), la “British Airways” (1987), la “British Aerospace”, la “British
Airport Authority”, la “National Freight Consortium”, la “Associated British
Ports”, la “Jaguar”, la “Rover”, la “Rolls-Royce”, la “British Leyland”, la “National
Bus Company”, la “British Sugar Corporation”, la “British Steel” (1988), la “British Rail Hotels”, la “Cable & Wireless”, “Amersham International”, “Ferranti”,
“Sealink Ferries”, alcune ferrovie e la produzione e distribuzione dell’acqua25.
In sostanza, potremmo dire che la strategia antinlazionistica del Governo
hatcher passava per i seguenti quattro punti cardine: 1) riduzione del tasso di
crescita dell’oferta di moneta (che il governo utilizzava per inanziare la spesa
pubblica); 2) contenimento del deicit e quindi del debito pubblico; 3) apprezzamento della sterlina; 4) convergenza del tasso di disoccupazione verso il suo
valore “naturale” (il Nairu)26.
Ha sostenuto Vito Tanzi:
La storia e i numeri dicono che il Regno Unito è diventato un modello di sviluppo
per gli altri paesi, dopo che soltanto pochi anni prima dell’arrivo della hatcher
161
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
aveva dovuto chiedere aiuto inanziario al FMI. Come ha fatto? Essenzialmente
passando da una politica di stampo ‘socialistico sot’in stile Prodi, con annessa la
ricerca del consenso a tutti i costi, a una politica più liberista in stile hatcherReagan, dirompente ma perlomeno creativa27.
L’era thatcheriana produsse, in economia, i seguenti risultati: tra il 1980 ed
il 1991 diminuirono il debito pubblico (dal 54,37 al 34,90%), la pressione iscale
(dal 35,49 al 35,17%), quella tributaria (dal 29,45 al 28,99%), i trasferimenti
correnti (dal 13,86 al 13,03%), il tasso d’inlazione (dal 17,97 al 5,85%, con un
minimo del 3,42% nell’86), le imposte dirette (dal 13,44% al 12,83%), le imposte indirette (dal 15,96% al 15,81%), la spesa per consumi inali (dal 21,67% al
21,19%) e il totale della spesa pubblica (dal 43,16 al 39,73%). Nel 1988 e nell’89
vennero raggiunti, inoltre, due accreditamenti netti di bilancio pubblico28.
Come mostrano le Figure 1 e 2 in Appendice, gli andamenti dei rapporti tra
entrate pubbliche e pil e tra spese e pil negli anni Ottanta ebbero un andamento
profondamente diverso nel Regno Unito rispetto all’Italia e alla Francia. Infatti,
nel primo caso la riduzione delle spese accompagnata da una riduzione meno
pronunciata del gettito permise un miglioramento dei saldi di bilancio pubblico
(Figura 3) e, conseguentemente, del rapporto tra debito/pil (Figura 4). Invece,
nel secondo caso l’aumento delle entrate non fu in grado di compensare completamente quello delle spese, provocando – soprattutto per quanto concerne
l’Italia – robusti deicit di bilancio e l’accumulazione di debito pubblico, che
avrebbe condizionato per decenni le politiche economiche nazionali, in virtù
dei precari equilibri di inanza pubblica e delle difuse ineicienze. Un rilesso
di tutto ciò si scorge nelle Figure 5 e 6, che sottolineano come le iniziali dosi di
austerità somministrate dalle amministrazioni hatcher e Reagan produssero
in una prima fase la recessione e l’impennata del tasso di disoccupazione, ma
già nel 1982 questi due trend mutarono marcatamente. Per converso, i tassi di
crescita reale italiano e francese furono sensibilmente minori, accompagnandosi a tassi di disoccupazione quasi costantemente in aumento. Mentre qualche
ombra alle politiche dei tre esecutivi hatcher la gettano le Figure 7 e 8, giacché
nell’ultima fase l’incremento del tasso di inlazione, recando con sé una perdita
di competitività di prezzo per i beni britannici, condusse a un forte peggioramento della bilancia commerciale.
Nell’arco degli anni Ottanta il pil pro-capite crebbe del 24% in termini reali.
Il contributo dell’imposta sul reddito alle entrate iscali complessive aumentò dal
55,9% al 58,2%. Il contributo del decile più ricco della popolazione britannica
giunse dal 35% al 42% del totale29.
La produttività del lavoro nel settore manifatturiero, tra il 1982 ed il 1990,
aumentò ad un tasso medio annuo del 4,9% (rispetto all’1,9% del periodo 1973162
hatcherismo e austerità
79). Ancora, la crescita del pil per occupato fu in media pari al 2,7% tra il 1982
e l’88, mentre era stata solo del 2,2% tra il 1973 e il ’7930. Nello stesso periodo
1982-88 la crescita media del pil per occupato fu negli Stati Uniti d’America
dell’1,0%, in Germania dell’1,9% e in Francia del 2,2%31.
Al tempo delle dimissioni del terzo gabinetto hatcher, il tasso di disoccupazione britannico era il più basso tra le maggiori economie della Comunità
Europea (6,2%), mentre in Germania era pari al 6,7%, in Francia al 9,0%, in Italia
all’11,0%32. Il tasso di occupazione, che nel 1984 era ancora al 65,94%, nel 1990
era pari al 72,48% (+6,54% in sei anni), tra i valori più alti mai registrati nel Paese,
frutto di rilevanti aumenti nei tassi occupazionali per il gruppo di età tra 15 e 24
anni (+9,41%), per quello tra 25 e 54 anni (+5,62%), e di un incremento più contenuto per quello tra 55 e 64 anni (+1,77%). Trascurabile fu, peraltro, l’incidenza
dell’occupazione part-time, che tra il 1983 ed il 1990 crebbe soltanto dell’1,68%,
mentre la disoccupazione di lungo periodo si ridusse del 16,80% tra il 1983 ed il
1991. Il tasso di disoccupazione tra il 1982 ed il 1990 diminuì del 3,21%33.
La crescita annuale del delatore del pil tra il 1980 ed il 1990 fu in media
del 7,64%; mentre nel periodo compreso tra il 1971 ed il 1979 era stata del
13,54% (+5,90%)34.
La crescita annuale del valore aggiunto reale nel settore primario (agricoltura, caccia, foreste, pesca), che tra il 1971 ed il 1979 era stata in media dell’1,78%,
nel periodo thatcheriano (1980-90) fu del 3,41% (+1,63%); quella nel settore
secondario (industria e artigianato) fu dell’1,81%, più alta dello 0,39% rispetto
a quella del periodo 1971-79 (pari all’1,42%); inine, la crescita media del valore
aggiunto reale nel terziario (servizi) fu del 2,60%, con un incremento dello 0,10%
rispetto agli anni 1971-1979 (pari al 2,50%)35.
Per ciò che attiene alla qualità della vita, l’aspettativa generale di vita alla
nascita nel 1970 era di 71,9 anni mentre nel 1990 era di 75,7 anni (+3,8). La mortalità infantile nel 1969 era del 18,6%, mentre nel 1990 era del 7,9% (-10,7%)36.
Come ha riassunto eicacemente Alan Greenspan,
Il Regno Unito ha vissuto una spettacolare rinascita da quando Margaret hatcher
ha bruscamente scatenato la libera concorrenza sul mercato britannico, nei primi
anni Ottanta. Il successo dell’operazione è stato nettissimo, al punto che perino
il New Labour, sotto la guida di Tony Blair e Gordon Brown, ne ha abbracciato i
principi liberisti, stemperando l’ethos di stampo fabiano con una rinnovata enfasi
sulle opportunità. La Gran Bretagna ha saputo accogliere gli investimenti stranieri
e non ha esitato a cedere aziende che erano ritenute una gloria del Paese. […]
Londra ha ricominciato a riconquistare il dominio sui mercati internazionali di
cui godeva nel XIX secolo grazie al “Big Bang” del 1986, la grande deregulation
inanziaria dalla quale il Paese non è più voluto recedere37.
163
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
Austerity thatcheriana vs. austerity europea
La crisi economico-inanziaria globale tuttora in corso rappresenta la
prima grande sida per l’euro quale valuta multinazionale38. L’eventuale collasso delle strutture economiche e inanziarie in alcuni paesi dell’area dell’euro
inluenzerebbe direttamente le economie degli altri paesi membri, conducendo alla perdita nella iducia nella moneta da parte degli investitori locali e
stranieri. Per mitigare tali efetti nei paesi più deboli, l’Eurogruppo ha varato
piani di salvataggio improntati all’austerità, con tagli alla spesa pubblica e
inasprimenti iscali.
Vi sono rilevanti analogie tra le attuali misure di austerità auspicate dall’Ue
e le politiche della hatcher nel 1980 in materia di privatizzazioni e relazioni
industriali. Il Manifesto del Partito Conservatore del 1979 suggeriva la riduzione della spesa pubblica attraverso la vendita di asset governativi39. I piani di
austerità dell’Ue per i paesi dell’Eurozona allo stesso modo incoraggiano la
privatizzazione delle imprese statali al ine di ridurre la spesa pubblica e rendere
l’erogazione dei servizi più eiciente.
I governi guidati dalla Signora hatcher hanno ridotto il potere dei sindacati
per stabilizzare l’economia e rinsaldare i diritti dei datori di lavoro. Così come
i piani di austerità dell’Ue solitamente contengono politiche per rendere più
facile licenziare i dipendenti in esubero, congelare gli stipendi dei dipendenti
pubblici, aumentare l’età pensionabile. Sembrano riecheggiare gli ammonimenti del premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps, secondo il quale la
concertazione priva i cittadini del diritto di votare per il sistema economico
che ritengono migliore40.
Come ha sostenuto nel suo libro, Memoirs Of A Tory Radical, Nigel Lawson:
Innanzitutto teneva molto alla relazione speciale con gli Stati Uniti, per lei molto
più importante del legame con l’Europa continentale. Poi agì come una sorta di
‘gaullista inglese’, sempre contraria a perdere indipendenza e sovranità del Regno
Unito democratico. Inine la Lady di Ferro era totalmente ostile all’idea di una
Unione economica e monetaria. Come poi la storia stessa ha dimostrato, sosteneva
che tale unione avrebbe nociuto innanzitutto alle economie dell’Europa. Un tale
sistema richiede infatti un’unione politica forte, diicile da formare. Altrimenti
si inisce per alimentare una disarmonia tra paesi, come sta avvenendo oggi41.
La politica economica seguita nel secondo dopoguerra dai governi britannici, tanto laburisti quanto conservatori, era imperniata sul pensiero keynesiano: deicit spending, non neutralità della moneta, centralità della politica
dei redditi, instabilità degli equilibri di mercato. In breve: Big Government. La
164
hatcherismo e austerità
hatcher fece cadere tutte queste prescrizioni nell’oblio, dimostrando quale
potente efetto potesse avere una politica monetaria restrittiva su di un’economia aperta in regime di cambi lessibili e con un elevato grado di mobilità
internazionale dei capitali, in accordo con le ipotesi del “modello di Mundell
e Fleming”. Occorreva invertire la sequenza e ristabilire la regola che il risparmio è la virtù che crea reddito, mentre l’espansione monetaria e iscale
“drogata”, anziché creare reddito, genera inlazione. Il canale di trasmissione
disinlazionistico principale furono, come detto, gli alti saggi di interesse reali.
Le liberalizzazioni e le privatizzazioni incrementarono il grado di concorrenzialità e di eicienza del sistema economico, e la City tornò a essere la prima
piazza inanziaria mondiale. Il Welfare state fu ridisegnato, abbandonando il
modello beveridgiano divenuto ormai insostenibile per le inanze pubbliche42.
La nuova politica industriale lasciò fallire le imprese ineicienti, togliendo
loro una volta e per tutte i sussidi statali. Inoltre, Mrs. TINA (“here is no
alternative!” soleva ribadire, comunicando la sua irrevocabile decisione)43 fece
in modo che il Paese diventasse una “democrazia di proprietari”, permettendo agli inquilini di acquistare le abitazioni di proprietà dei comuni, a prezzi
agevolati. Con il rebate (“I want my money back!”) impedì che la restrizione
dei conini dell’operatore pubblico sancita dai suoi governi fosse snaturata a
livello europeo e sovranazionale. Tuttavia, l’“economia da Cappellaio Matto”
degli euroburocrati la stava spingendo su sentimenti diversi rispetto a quelli
dell’opinione pubblica britannica, sempre meno euroscettica. L’altra mossa
che causò le sue dimissioni fu la poll tax (che lei preferiva chiamare Community charge), un’imposta di capitazione regressiva (una testa-una tassa).
Eppure, non fu solo cocciutaggine quella di Margaret hatcher, giacché la
teoria dell’economia pubblica mostra come l’unico tipo di imposizione che
non distorce il libero funzionamento del Mercato sia proprio la poll tax. Va
dunque inquadrata nel disegno thatcheriano complessivo di liberismo a tutto
tondo, anche a costo di perdere il potere44.
Margaret hatcher tra il 1979 e il 1990 ridusse, in rapporto al pil, il debito
pubblico dal 52 al 32%, il deicit dal 5 al 2%, le spese dal 45 al 39%, dimezzò
l’inlazione (dal 16 all’8%), mantenne costante il tasso di disoccupazione (6%), il
gettito complessivo (39%), le spese sociali (16%) e quelle in R&S (2%); ridisegnò
il sistema iscale, portando l’aliquota base dell’imposta personale sul reddito dal
33 al 25% e quella marginale dall’85 al 40%, e spostando parte del carico iscale
dal lavoro ai consumi. Inoltre, aumentarono la produttività totale dei fattori, il
tasso di crescita dell’economia e il saldo dei movimenti di capitale.
Da un punto di vista microeconomico, l’espulsione delle imprese marginali
dal mercato, le liberalizzazioni e le privatizzazioni condussero a una ripresa della
produttività, il principale male che aliggeva l’economia britannica pre-197945.
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Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
Nel bel mezzo della crisi greca, scriveva acutamente Francesco Forte:
Se la Germania o l’Unione Europea adottassero un programma di investimenti
pubblici capace di rianimare la domanda interna del mercato unico, il problema
greco si risolverebbe molto meglio che mediante il mero ricorso della Grecia a
un piano di austerità con lessibilità e manodopera a buon mercato, orientato al
rilancio della sua economia mediante l’alusso di capitali esteri e la crescita. In
altre parole, la Grecia, essendo nell’Eurozona non può svalutare la sua moneta.
Ma se è vero che uscendo da essa, la Grecia potrebbe risolvere gran parte di suoi
problemi grazie a una svalutazione, è anche vero che questa avrebbe eicacia solo
se si risolvesse nel taglio dei salari reali dell’economia e degli stipendi dei pubblici dipendenti. Quindi per la Grecia si tratta di adottare queste misure, senza la
inzione della svalutazione. Certo, tutto sarebbe più facile se al posto del premier
Papandreou ci fosse una signora hatcher46.
Benché nelle scienze economiche sia diicile operare confronti signiicativi
tra periodi diversi, ciononostante si osserva che la recessione che il Regno Unito
sperimentò nel corso della prima legislatura della hatcher fu la peggiore del
secondo dopoguerra, sebbene il reddito nazionale fosse cresciuto del 5% dal
1979. Nei cinque anni successivi all’avvio dell’attuale crisi economico-inanziaria
il reddito nazionale si è ridotto del 2%. E la crescita media annua prevista nel
decennio 2007-2016 è pari allo 0,8%, circa 1/3 del tasso di crescita medio registrato sotto la hatcher. E ciò senza considerare la durezza della recessione
dei primi anni Ottanta, con un picco dell’inlazione al 22% (nel 1980) e della
disoccupazione al 12% (1984)47.
Le teorie liberiste e Market-oriented, che Margaret hatcher e Ronald Reagan hanno reso mainstream, sono imputate di aver provocato la crisi in atto.
E il naturale sbocco di tali teorie viene individuato nell’austerità.
Oggi l’intero dibattito politico-economico sembra ruotare attorno a quanta
austerity sia opportuno applicare all’economia: la Germania è diventata l’aliere
delle politiche di austerità, che essa cerca di far adottare dai partner europei
spendaccioni come contropartita del sostegno alle loro economie, mentre nei
PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) si è andato formando un vasto movimento d’opinione, con adesioni trasversali, di resistenza all’austerità, e in difesa
di una spesa pubblica in deicit in funzione anticiclica di ispirazione keynesiana.
Purtuttavia, dal punto di vista della teoria economica, provare a correggere
i conti pubblici riducendo la spesa oppure, al contrario, aumentando le imposte
sono due strade profondamente diverse, anche in termini di risultati. L’una vede
il problema nell’eccesso di interposizione statale nella vita economica e non
ritiene ammissibile, per ragioni ideali prima ancora che pratiche, un’ulteriore
166
hatcherismo e austerità
dilatazione di sifatto intervento. L’altra mira a tappare i buchi nel modo più
semplice, ovvero non intaccando i privilegi consolidati dei politicamente ben
connessi tax consumers, ma piuttosto aumentando il fardello iscale dei politicamente disorganizzati tax-payers48.
Due ricette così antitetiche non riescono però a convivere sotto la stessa
etichetta. È vero che, nella realtà, tutti i governi hanno adottato un mix di entrambe le ricette, ma concettualmente esse restano opposte.
Paul Krugman ha sostenuto che gli Stati Uniti, nel biennio 2010-2011 abbiano attuato proprio quelle misure, nonostante un deicit annuo sopra l’8% del
pil e una spesa pubblica in crescita. In realtà, nel 2012 quasi tutti i Paesi spendevano di più, in termini reali, rispetto al periodo pre-crisi. È quindi legittimo
rigettare le tesi di Krugman: non sono stati i tagli selvaggi alla spesa pubblica
ad aver fatto ripiombare i Paesi europei in recessione.
Se non vi è stata quindi “austerità in senso stretto”, che dire però della sua
“deinizione allargata” che coniuga riduzioni di spesa e aumenti nell’imposizione iscale (il cosiddetto “approccio bilanciato”)? In questo senso, e solo in
quest’ultimo, si può afermare che i Paesi europei abbiano imboccato la via
dell’austerità, ma è una strada costellata di nuove tasse, non di tagli (un esempio
ci viene fornito dall’esperienza italiana del Governo tecnico guidato da Mario
Monti). Non dovremmo quindi stupirci se i Paesi che più hanno cercato di
risolvere i problemi di bilancio aumentando le entrate sono anche quelli che
ora hanno più diicoltà49.
In sostanza, le politiche di bilancio restrittive (ossia l’austerity) si possono
attuare tramite un innalzamento della pressione iscale o, al contrario, per via di
tagli alle spese pubbliche. Tuttavia, gli efetti possono essere diversiicati, sotto
vari aspetti. Innanzitutto, concernendo due moltiplicatori di grandezza diversa,
la letteratura economica insegna che a parità di efetto sul reddito aggregato, la
manovra sulle entrate richiede dei volumi maggiori rispetto a quella sulle spese,
giacché il moltiplicatore della tassazione è inferiore. Invece, a parità di volumi,
l’efetto sul reddito sarebbe meno pronunciato utilizzando la tassazione. Dal punto di vista del bilancio pubblico, l’aumento della tassazione – se non si innescano
meccanismi à la Lafer – migliora il saldo di bilancio deprimendo la crescita
economica; mentre i tagli di spese migliorano il bilancio, con efetti controversi
sulla crescita. Infatti, la scuola keynesiana considera le riduzioni di spesa come
possibili cause della recessione, al contrario delle recenti teorie dell’austerità
espansiva, secondo cui tagli alle spese possono promuovere la crescita. In ogni
caso, l’aumento della tassazione amplia le dimensioni dell’operatore pubblico,
devolvendo risorse a un operatore tendenzialmente meno eiciente (lo Stato);
invece, i tagli di spese riducono la Government size, restituendo risorse a un
operatore tendenzialmente più eiciente (il Mercato).
167
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
Ha concluso Francesco Giavazzi:
Tra il 1979 e il 1989 Margaret hatcher rivoluzionò l’economia inglese: ciò che
pochi ricordano è che la sua azione fu soprattutto sulla spesa, le liberalizzazioni e le
privatizzazioni, non sulle tasse. […] Da allora la Gran Bretagna cresce stabilmente
più del resto dell’Europa. Forse, anziché trascorrere le settimane a dibattere di una
riforma iscale inesistente, sarebbe più produttivo rileggere l’esperienza di Mrs. T.50.
Il problema è però che chi protesta contro le politiche di austerity in Europa, dalle piazze alle colonne del New York Times, lo fa contro i presunti tagli
alle spese, non contro le tasse; chiede più spesa pubblica, non meno. Utilizza
impropriamente i fallimenti europei per rilanciare il vecchio mantra keynesiano
per cui, in tempo di crisi, lo Stato deve colmare il vuoto di spesa creato dal calo
della domanda da parte del settore privato.
A ben vedere, i governanti europei e britannici oggi sono come ossessionati
dal raggiungimento di obiettivi preordinati e talvolta contraddittori: l’inlazione
deve essere mantenuta al di sotto della soglia del 2%; il disavanzo di bilancio pubblico deve essere ridotto a meno del 3% del pil; il debito pubblico deve convergere
verso il valore del 60% del pil, in maniera continuata e sensibile; le banche devono
essere ricapitalizzate in base alle decisioni di qualche norma sancita a Basilea.
Rischiando di sacriicare il benessere dei governati e le loro stesse prospettive di
carriere politica a dei totem numerici, i leader odierni cercando ispirazione nella
hatcher. Ma le lezioni da trarre dalla sua vita politica potrebbero essere diverse.
Nei vent’anni trascorsi nella Camera dei Comuni prima di divenire primo
ministro, la hatcher vide dapprima il governo guidato da Harold Wilson in
balia delle crisi valutarie e della militanza sindacale; poi Edward Heath osteggiato dagli scioperi dei minatori; e inine James Callaghan umiliato dalla crisi
della sterlina del 1976 e disarcionato dallo sciopero dei dipendenti pubblici.
Pertanto, non appena giunta al n. 10 di Downing Street si afrettò a mutare la
conduzione monetaria e le relazioni sul mercato del lavoro, guardando più alla
pragmaticità che alla retorica.
Un aspetto oggi davvero attuale è il legame tra thatcherismo, populismo
e autoritarismo. In un recente saggio, John Clark ha avanzato l’ipotesi che gli
aspetti populisti siano parte di un repertorio più ampio, che parla in particolare il linguaggio della necessità fatta virtù e dell’autoritarismo sociale. Questa
miscela di austerità, populismo e autoritarismo viene posta in connessione alle
analisi del passato sul thatcherismo e il “populismo autoritario” nel Regno Unito.
Inine, ci si è interrogati sull’enigma del populismo impopolare, evidenziando
come il populismo della Coalizione governativa del Regno Unito non sembri
riscuotere sostegno o consensi51.
168
hatcherismo e austerità
Anziché additarla a progenitrice dell’attuale crisi, forse i governanti attuali
farebbero bene a rileggere in chiave critica e non ideologica l’esperienza di
Margaret hatcher52. Alla ine della Seconda Guerra Mondiale molti economisti keynesiani (Paul Samuelson in testa53), preoccupati dalle attese di sottoconsumo associate a vecchi modelli di consumo, predissero scenari apocalittici
per l’economia se i governi avessero ridotto le spese ed eliminato il controllo
dei prezzi. Dal 1944 al 1948 il governo federale americano tagliò la spesa di più
del 60% abbassando contemporaneamente l’imposizione iscale e passando da
un deicit di più del 20% del pil a un surplus del 4%. Il risultato fu una crescita
economica spettacolare.
Del resto, come emerge dalle Figure 2-5 in Appendice, paesi come l’Italia e
la Francia che hanno reagito alla crisi economica in corso senza varare profonde
misure di austerità stanno sperimentando una recessione più acuta, impiegando
più tempo per risanare le proprie economie. Al contrario, paesi più virtuosi come
la Germania e il Regno Unito, riducendo in misura più pronunciata la spesa e
avendo dei rapporti tra debito pubblico e pil più sostenibili, fanno registrare
previsioni sui dati economici decisamente più incoraggianti.
Fino a non molto tempo fa vi era una risposta di prammatica alle domande
sul perché in Occidente il gap tra ricchi e poveri fosse fortemente aumentato
negli ultimi trent’anni, e la diseguaglianza tra l’1 per cento e il 99 per cento della
popolazione in Europa e Stati Uniti d’America sia sempre più evidente: tutta
colpa di Ronald Reagan e Margaret hatcher. Tuttavia, la tesi di un recente libro
scritto da due accademici, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, intitolato he
Second Machine Age, getta nuova luce sul dibattito54. A loro dire, la responsabilità di quanto avvenuto sarebbe da imputare più al progresso tecnologico – in
particolare alla rivoluzione digitale – che a reaganismo e thatcherismo. È un
argomento evidentemente di stretta attualità, a tal punto che commentatori
autorevoli come Martin Wolf e David Brooks sono intervenuti con degli editoriali sulle pagine del Financial Times e del New York Times, mentre le copertine
dell’Economist e del New Statesman hanno ripreso l’argomento.
Tra ine anni Settanta e inizio Ottanta il presidente repubblicano e la premier conservatrice, paladini del neo-liberalismo, tagliarono le tasse, ridussero
la spesa pubblica, avviarono la deregulation dei mercati inanziari, creando
economie più dinamiche ma apparentemente più diseguali. La spinta neo-liberista, sostanzialmente proseguita da Clinton e Blair, può avere contribuito alla
globalizzazione, che ha portato maggiore benessere a miliardi di persone nei
paesi in via di sviluppo, ma è indubbio che ha fatto indietreggiare la classe media
occidentale. Tuttavia la politica del laissez-faire reaganiano e thatcheriano non
è stata adottata in modo uniforme in tutto l’Occidente, notano Brynjolfsson e
McAfee; eppure, il gap ricchi-poveri è aumentato in maniera analoga pressoché
169
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
ovunque. Negli ultimi tre decenni la diseguaglianza è cresciuta in Svezia, Finlandia
e Germania più di quanto sia avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. L’indice
di Gini per la distribuzione del reddito disponibile alla metà degli anni Ottanta
era pari a 28,63, alla metà degli anni Novanta a 31,16, e nel 2000 a 32,56; pertanto,
possiamo desumere che tra la metà degli anni Ottanta e la ine del XX secolo nel
Regno Unito sia aumentata l’ineguaglianza, essendosi maggiormente concentrata
la distribuzione del reddito55. La stagnazione del reddito dei ceti medi, sostengono
i due economisti, in efetti non è cominciata nella Washington di Reagan o nella
Londra della hatcher, bensì in California, dove nel 1980 Bill Gates e Steve Jobs
muovevano i primi passi della rivoluzione digitale.
Rilessioni conclusive
Questo saggio ha inteso mostrare da una parte il parallelismo tra la situazione economica del Regno Unito alla ine degli anni Settanta e l’Ue oggi, e dall’altra
un confronto tra le politiche di austerità varate dai governi guidati da Margaret
hatcher e quelle intraprese da alcuni Paesi europei per contrastare l’attuale
crisi economico-inanziaria. Come argomentato in precedenza, si è cercato di
mettere in luce che le posizioni di alcuni economisti liberisti, i quali invocano
la c.d. austerità espansiva trovano conferme nei dati, giacché la riduzione del
perimetro dello Stato, tramite tagli simultanei alle imposte e alle spese – come
dimostrato dalle curve di Lafer e BARS56 – conduce a un miglioramento dello
stato dei conti pubblici, un aumento della produttività del sistema e, in ultima
analisi, a efetti positivi sulla crescita economica.
La hatcher, in diicoltà di attrazione del consenso per le sue politiche
(come testimoniato dai sondaggi dell’epoca), si riprese le Isole Falklands invase
dal regime dittatoriale argentino, risvegliando l’orgoglio patriottico a lungo sopito al grido di “Britain Strong and Free”. Contribuì – assieme al grande amico
Ronald Reagan57 e a Papa Giovanni Paolo II – a far cadere il muro di Berlino
(sebbene intravedesse i pericoli di una Germania riuniicata che avrebbe soggiogato l’Europa), spinse un riottoso George Bush Sr. a rendere giustizia al Kuwait
invaso dal raìs iracheno Saddam Hussein. Rese possibile la pace in Irlanda del
Nord, fu durissima col terrorismo dell’Ira, usò la forza contro la forza, piegò la
furia degli hooligans58, e se oggi c’è calma nell’Ulster è solo grazie a lei, poiché
disarmò i terroristi. In sostanza, capì che la minaccia principale del terrorismo
dell’Ira non era tanto alla sovranità britannica in Irlanda del Nord, quanto al
concetto stesso della regola della maggioranza.
Nessun personaggio pubblico del XX secolo ha subito una campagna di
denigrazione ideologica paragonabile a quella di cui fu oggetto la hatcher. Basti
170
hatcherismo e austerità
pensare che l’Università di Oxford e altre facoltà britanniche hanno assegnato
titoli onoriici a Bill Clinton, Robert Mugabe e alla moglie di Ceausescu, ma
non alla loro più nota laureata: Margaret hatcher.
Come ha riconosciuto Irving Stelzer:
Tutti riconoscono che il successo del thatcherismo nel convertire le imprese da
statali a private […] è stato un programma così radicale come concetto, e di esito
così felice nella pratica, che si è guadagnato la più alta forma di lusinga dalle altre
nazioni: l’imitazione59.
Il potere femminile, quello che non agisce dietro le quinte o dietro un uomo, ha trovato in Margaret hatcher il paradigma perfetto. Una donna-donna
in tailleur, la borsa Asprey, i tacchi, gli orecchini, le corsettine rigide, i capelli
cotonati e una inlessibilità prossima alla spietatezza. La stessa con cui poi la
esautorò il suo partito, riconoscendole così un brevetto che sicuramente poche
altre donne sono in grado di apprezzare: il diritto di essere trattata senza galanteria, perino nel paese dei gentlemen. Il caso della Lady di Ferro è da manuale
per capire il risentimento in democrazia. Quando gli ateniesi ostracizzarono
Temistocle nel 471 a.C., dimenticarono tutto quello che aveva fatto per loro. Le
democrazie hanno questa tendenza naturale a rivoltarsi contro i loro salvatori.
È successo a Churchill, a De Gaulle ed anche a Margaret hatcher.
La caduta di Margaret hatcher segnò un’epoca nella politica britannica.
Prima di lei, nel XX secolo, soltanto in tre casi un primo ministro era stato
costretto a dimettersi a metà mandato (Herbert Henry Asquith, Neville Chamberlain e David Lloyd George).
Come evidenziato da Paolo Viola,
La hatcher incarnava una moderna versione di destra del puritanesimo inglese:
il compenso individuale degli sforzi, del lavoro di ciascuno, il senso della durezza
della vita, la centralità del destino individuale. Allo stesso tempo rappresentava
l’Inghilterra benestante del Sud-Est, intorno a Londra60.
Ha chiosato Antonio Martino:
L’insegnamento che possiamo trarne è piuttosto semplice, e non molto incoraggiante: la signora hatcher deve il suo successo soprattutto alla rivoluzione intellettuale nelle teorie economiche. Non ha inventato nulla di nuovo: non c’era nulla
di innovativo o di originale nella sua politica economica. In ogni caso, queste idee
erano già presenti da molto tempo, ma non sono state tradotte in pratica politica
inché lei non è arrivata sulla scena. Sono state la sua leadership, il suo coraggio, la
171
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
sua determinazione e la sua integrità intellettuale che hanno permesso a quelle idee
di ispirare le politiche economiche efettive e il cambiamento in Gran Bretagna61.
Il suo eroismo e la sua determinazione sono stati ammirevoli, ma le sue
politiche hanno diviso il popolo e i loro costi sono stati talvolta non trascurabili. Ci potremmo chiedere: la sua carriera è stata magniica, ma era veramente
necessaria? Il Regno Unito ha pagato veramente un prezzo troppo elevato? E
lei stessa ha pagato un prezzo troppo elevato? Probabilmente, lei stessa avrebbe
risposto: “No! No! No!”62.
La memoria di un leader di quel tipo, un fatale e glorioso primo ministro
di una democrazia moderna, muore quando smette di dividere, di appassionare,
di fanatizzare persino, nel contrasto di idee e ino all’iracondia dei ricordi, i
sopravvissuti. Altrimenti è potenzialmente immortale.
Dopo di lei, il Labour mutò nome, Blair la ringraziò pubblicamente per
“aver fatto il lavoro sporco”, i Tory – sempre meno thatcheriani – trascorsero
14 anni all’opposizione. La sua maggiore eredità sta nell’aver mostrato che le
politiche incentrate sull’individuo, sul Mercato, sulla Libertà e sul lungo periodo
sono non soltanto attuabili, ma persino auspicabili. Da iera avversaria della
Rivoluzione francese ci ha spiegato – quasi giusnaturalisticamente – come la
Libertà si fondi sul diritto a essere diseguali. Da lunedì 8 aprile 2013 Margaret
Hilda hatcher, nata Roberts, baronessa di Kesteven appartiene, a buon diritto,
alla Storia, nel novero dei più grandi statisti del XX secolo.
In questo saggio abbiamo cercato di dimostrare come il suo esempio rimanga attualissimo: i governi europei, anziché continuare ad aumentare l’intervento pubblico nell’economia tramite incrementi di entrate e spesa pubblica,
in ossequio al vecchio principio keynesiano del deicit strutturale, dovrebbero
piuttosto restituire spazio al Mercato e ai privati: ne potrebbero beneiciare sia
le inanze pubbliche che la crescita economica.
172
hatcherismo e austerità
Appendice
Figura 1. Entrate pubbliche (% del pil, 1970-2013)
Figura 2. Spese pubbliche (% del pil, 1970-2013)
173
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
Figura 3. Saldo di bilancio pubblico (% del pil, 1970-2013)
Figura 4. Debito pubblico (% del pil, 1970-2013)
174
hatcherismo e austerità
Figura 5. Crescita economica (%, 1970-2008)
Figura 6. Tasso di disoccupazione (%, 1970-2013)
175
Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
Figura 7. Tasso di inlazione (%, 1970-2008)
Figura 8. Saldo della bilancia commerciale (%, 1970-2008)
176
hatcherismo e austerità
Figura 8. Produttività totale dei fattori (2005=100, 1970-2008)
Note
1 M. Appiah, EU Austerity Measures: Moving toward hatcherism?, «he Hague Institute
for Global Justice», venerdì 12 aprile 2013.
2 C. Magazzino, Tutti i numeri da record (non solo economici) della Lady di ferro, Il
Foglio, XVIII, 89, 1, martedì 16 aprile 2013.
3 R. Vinen, hatcher’s Britain, Pocket Books 2010; J. Campbell, Margaret hatcher. he
Iron Lady, Pimlico, London 2004; Id., Margaret hatcher. he Grocer’s Daughter, Pimlico,
London 2011.
4 P. Clarke, Hope and Glory. Britain 1900-2000, Penguin Books, London, 2004, trad. it.
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5 A. Boltho von Hohenbach, A. Graham, La signora hatcher ha cambiato l’economia
britannica?, «Rivista di politica economica», LXXIX, III, IV, aprile 1989..
6 G. Brosio (a cura di), La spesa pubblica, Giufrè, Milano 1987.
7 F. Zaccaria, La spesa pubblica in Italia tra espansione e controlli, FrancoAngeli, Milano
2005, p. 75.
8 R.W. Bacon, W. Eltis, Base produttiva e crescita economica: il caso inglese, ETAS, Milano
1976; A. Boltho von Hohenbach, A. Graham, La signora hatcher, cit..
9 J. Harrison, «Può funzionare la politica economica della hatcher?», in AA. VV., Crisi
dello sviluppo e politiche dell’oferta negli anni ’80, FrancoAngeli, Milano 1983.
10 P. Cosgrave, he Lives of Enoch Powell, Bodley Head, London 1989.
11 D. Smith, From Boom to Bust: Trial and Error in British Economic Policy, Penguin,
London 1993.
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Ventunesimo Secolo 35, ottobre 2014
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14 http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/2014/jer2014_en.pdf.
15 Oxfam, A Cautionary Tale: he true cost of austerity and inequality in Europe, «Oxfam
Brieing Paper», 2013, p. 174.
16 L. Bini Smaghi, Austerity and stupidity 2013, http://www.voxeu.org/article/austerityand-stupidity.
17 P. Booth (ed.), Were 364 Economists All Wrong?, Institute of Economic Afairs, London 2006.
18 D. Helm, Energy, the State, and the Market: British Energy Policy Since 1979, Oxford
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20 M. hatcher, he lady’s not for turning, «he Guardian» 2007.
21 C. Magazzino, La politica economica di Margaret hatcher, FrancoAngeli, Milano,
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22 R. Cockett, hinking the Unthinkable, HarperCollins, London 1994
23 Ivi, pp. 65-67.
24 F. Forte, Storia del pensiero dell’economia pubblica, 2 voll., Giufrè, Milano 1999.
25 C. Magazzino, La politica economica di Margaret hatcher, «Notizie di Politeia», n.
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26 M. hatcher, he Downing Street Years, HarperCollins, London, 1992; trad. it. Gli
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27 V. Tanzi, Government versus Markets, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
28 Dati Banca d’Italia, http://www.bancaditalia.it.
29 R. Mule, he Politics of Income Redistribution. Fractional Strife and Vote Mobilization
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33 Dati O.E.C.D., si consulti il sito http://www.oecd.org/statsportal.
34 Dati O.E.C.D., il consulti il sito http://www.oecd.org/statsportal.
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37 A. Greenspan, he Age of Turbulence: Adventures in a New World, he Penguin Press,
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crisi e modello di integrazione monetaria regionale, FrancoAngeli, Milano 2013.
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Studio Tesi – Edizioni Mediterranee, Roma 1983.
40 E. Phelps, Dynamic Capitalism, «he Wall Street Journal», martedì 10 ottobre 2006,
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41 N. Lawson, he View From No. 11: Memoirs Of A Tory Radical, Bantam Press, London
1992; M.V. Lo Prete, La valigetta della hatcher, «Il Foglio», martedì 16 aprile 2013.
42 C. Magazzino, Sul Welfare State, «MPRA Paper», n. 25528, 2009, http://ideas.repec.
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43 C. Berlinski, “here Is No Alternative”. Why Margaret hatcher Matters, Basic Books,
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44 C. Magazzino, Margaret hatcher, la Lady dei record, «Formiche», giovedì 25 aprile
2013, http://www.formiche.net/2013/04/25/margaret-thatcher-la-lady-dei-record/.
45 R.W. Bacon, W. Eltis, Base produttiva, cit.
46 F. Forte, Per risolvere presto la crisi greca ci vorrebbe una Margaret hatcher, «l’Occidentale», martedì 13 aprile 2010, http://www.loccidentale.it/node/89297.
47 S. Flanders, Margaret hatcher: he economy now and then, «BBC News-Business»,
mercoledì 10 aprile 2013, http://www.bbc.com/news/business-22101787.
48 M. Bollettino, Che cosa signiica “austerità” in Europa?, Centro Einaudi, giovedì 7
giugno 2012, http://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/1563-che-cosa-signiicaausterita-in-europa.html.
49 R. De Caria, Austerity, chi era costei?, Centro Einaudi, giovedì 7 giugno 2012, http://
www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/1564-austerity-chi-era-costei.html.
50 F. Giavazzi, Lobby d’Italia, Rizzoli, Milano 2005, p. 78.
51 J. Clarke, Austerità e autoritarismo: il populismo impopolare nel Regno Unito, «Rivista
delle Politiche Sociali» gennaio-marzo 2012.
52 S. Tamburello, L’economia è il mezzo per cambiare l’anima, Rizzoli-ETAS, Milano
2013.
53 P. Samuelson, «Full Employment ater the War», in Harris, S.E., (ed.), Postwar Economic Problems, McGraw-Hill, New York and London 1943.
54 E. Brynjolfsson, A. McAfee, he Second Machine Age, W. W. Norton & Company,
New York 2014.
55 C. Magazzino, La politica economica di Margaret hatcher, cit., p. 146.
56 F. Forte, C. Magazzino, Optimal Size Government and Economic Growth in EU
Countries, «Economia Politica – Journal of Analytical and Institutional Economics», n. 3,
2011.
57 N. Wapshott, Ronald Reagan and Margaret hatcher. A Political Marriage, Penguin,
London 2007; R. Aldous, Reagan and hatcher: he Diicult Relationship, W. W. Norton &
Company, New York 2012.
58 L. Longhi, Modello (inglese) hatcher, storia di una vittoria epocale, «Sky Sport»,
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59 I. Stelzer, he Neocon Reader, Grove Press, New York 2004.
60 P. Viola, Storia moderna e contemporanea. Il Novecento, Einaudi, Torino 2002, p. 476.
61 A. Martino, A lezione d’inglese, «Ideazione», luglio-agosto 2006, http://www.ideazione.com/new_2008/ideazione_vintage/thatcher/2006_04_martino.htm.
62 S. Magni, his Lady Is Not For Turning, IBL Libri, Torino 2013, p. 113.
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