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122 dicembre 2014 SLEEPING BEAUTY Centanni / Grilli / Lollini / Oddo / Pirazzoli / Rimini / Tomassini Engramma. La Tradizione Classica Nella Memoria Occidentale • ISBN 978-88-98260-67-6 Engramma • 122 • dicembre 2014 La Rivista di Engramma • isbn 978-88-98260-67-6 Sleeping Beauty a cura di Fabrizio Lollini, Stefania Rimini Associazione Engramma • Centro studi classicA Iuav Engramma. La Tradizione Classica Nella Memoria Occidentale La Rivista di Engramma • isbn 978-88-98260-67-6 Direttore monica centanni Redazione elisa bastianello, maria bergamo, giulia bordignon, giacomo calandra di roccolino, olivia sara carli, claudia daniotti, francesca dell’aglio, simona dolari, emma ilipponi, silvia galasso, marco paronuzzi, alessandra pedersoli, daniele pisani, stefania rimini, daniela sacco, antonella sbrilli, linda selmin Comitato Scientifico Internazionale lorenzo braccesi, maria grazia ciani, georges didi-huberman, alberto ferlenga, kurt w. forster, fabrizio lollini, paolo morachiello, lionello puppi, oliver taplin this is a peer-reviewed journal Sommario • 122 6 Editoriale Fabrizio Lollini, Stefania Rimini 9 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli 22 I compianti, la Bella Addormentata Fabrizio Lollini 35 Appunti per un’analisi dello schema di Endimione in ambito grecoellenistico Maria Emanuela Oddo 61 I limiti dell’amore. Presentazione del libro Adone. Variazioni sul mito, Venezia 2014 a cura di Alessandro Grilli 66 Per un paio d’ali. Lettura di Maleficent (USA, 2014) Stefania Rimini e Monica Centanni 72 Une indication occulte: La Belle au bois dormant e il balletto in poche parole Stefano Tomassini Sleeping Beauty Editoriale di Engramma n. 122 Fabrizio Lollini e Stefania Rimini Dans un bois solitaire et sombre Je me promenais l’autr’ jour, Un enfant y dormait à l’ombre, C’était le redoutable Amour. J’approche, sa beauté me latte, Mais je devais m’en déier; Il avait les traits d’une ingrate, Que j’avais juré d’oublier. Il avait la bouche vermeille, le teint aussi frais que le sien, Un soupir m’échappe, il s’éveille; L’Amour se réveille de rien. Aussitôt déployant ses aîles et saisissant Son arc vengeur, L’une de ses lêches, cruelles en partant, Il me blesse au coeur. Va! va, dit-il, aux pieds de Sylvie, De nouveau languir et brûler! Tu l’aimeras toute la vie, Pour avoir osé m’éveiller. La Rivista di Engramma • 122 | 6 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Sleeping Beauty Fabrizio Lollini e Stefania Rimini L’accademico componimento di Antoine Houdart de la Motte dovette godere di grande popolarità, se fu musicato da Mozart nel 1778, in un brano tra i più routinier del grande compositore (K 308, Adagio-Allegro-PrestoAdagio). La bellezza addormentata, specie se è quella dello stesso Amore, non è detto che debba essere sempre risvegliata, pena la persecuzione del dio della passione capace di fare di chiunque di noi un eterno amante. Ai curatori di Engramma 122 piace partire da questo spunto, grazie a un suggerimento di Elisa Bastianello, come escamotage per ritornare sul tema della sleeping beauty, ma anche del rapporto tra sonno e morte, e dunque del risveglio come resurrezione alla vita, e all’amore che alla vita dà senso e colori. I contributi di questo numero, possono essere considerati aggiunte, o sequel, a interventi che abbiamo pubblicato nel precedente numero di Engramma 108 dedicato alla stesso tema. Nel suo saggio La vita nel cristallo, Elena Pirazzoli riprende il tema del corpo cristallizzato ed esposto, della ostensione e della valorizzazione come ricordo dell’oggetto bloccato in una still life, che è il termine che la storiograia anglofona usa per deinire quello che per noi è la ‘natura morta’. Sarà banale ma ci pare opportuno ricordare qui che la versione inglese della locuzione italiana ‘natura morta’ suona come ‘vita bloccata’ – a dire un’ipostasi, fermata in un momento assoluto, della vita: soltanto la consunzione semantica che deriva dall’uso frequente e dall’abitudine linguistica ci fa accettare in modo così tranquillo una discrasia tanto sconvolgente. Fabrizio Lollini nel suo contributo, I compianti, la Bella Addormentata e le altre riprende la questione del compianto scultoreo sul corpo morto del Cristo, e il nesso tra luogo e mito in funzione della tradizione favolistica, in un contributo che si presenta più come una serie di spunti visivi (quasi una galleria) che non un vero e proprio saggio. In gioco, una volta di più, è la ‘performatività’ del mito, la sua capacità di incarnare pose e attributi della contemporaneità senza perdere la grana originale. La iaba dimostra una vitalità non ovvia e produce fecondi inarcamenti; è quel che emerge dalle rivisitazioni cinematograiche del tema della ‘bella addormentata’, di cui scrivono Stefania Rimini e Monica Centanni, in speciico riferimento a Maleficent (USA, 2014): nella riedizione Disney, in particolare, si assiste a un lieve ma decisivo slittamento di prospettiva che determina la messa in campo della soggettività della fata Maleica e una suggestiva coloritura gender. La Rivista di Engramma • 122 | 7 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Sleeping Beauty Fabrizio Lollini e Stefania Rimini Variazioni sul mito: su questa scia sono anche i contributi di Alessandro Grilli, I limiti dell’amore. Presentazione di Adone (Marsilio 2014) e di Maria Emanuela Oddo, Appunti per un’analisi della schema di Endimione: cosa succede quando l’incantesimo di Eros piega la resistenza non solo della ‘bella principessa’ ma anche del ‘principe azzurro’? È possibile estendere il paradigma ‘sleeping beauty’ anche a fanciulli divini? Intrecciando parole e immagini, Grilli e Oddo tentano di imbastire un nuovo canovaccio che tiene conto di alcune signiicative ricorrenze (la codiicazione di nuove forme di pathos), da cui emerge la reversibilità di genere del plot, la sua permeabile ri-conigurazione in termini di scambio identitario. La porosità dei contributi pubblicati in Engramma 122 si coglie non solo in riferimento alle diverse coloriture gender ma anche alla molteplicità di codici espressivi presi in esame. Alle arti igurative, al cinema e alla letteratura fa da pendant – ed è un felice ritorno in Engramma – la danza, linguaggio ricco di implicazioni semantiche e visive. Stefano Tomassini, nel suo Une indication occulte: La Belle au bois dormant e il balletto in poche parole, sintetizza con grande eicacia un suggestivo caso produttivo che diviene sintomatico delle dinamiche e delle interferenze tra passato e presente. Il cortocircuito fra ideologia e tradizione non riduce la portata rivoluzionaria del paradigma, anche se invita a riconsiderarne le oscillazioni. Certi di proseguire – senza smarrirci – il cammino nel bosco delle iabe (e delle loro rivisitazioni), ci congediamo aidandoci alla levità della poesia di Sandro Penna, piccolo talismano per principi, fate, fanciulle e fanciulli innamorati, da risvegliare o da cullare nel loro sonno: Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita. La Rivista di Engramma • 122 | 8 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli 1. Dalle private camere delle meraviglie alle case di sogno della collettività Gli ‘appunti’ su Biancaneve e la cultura dell’Ottocento conluiti nel primo dossier dedicato alla sleeping beauty derivavano, nel mio caso come per l’articolo di Fabrizio Lollini, dall’incontro con Il Compianto, lavoro di PetriPaselli presentato alla Galleria Oltredimore nel 2011, allora all’interno di un ex negozio di arredamento non ancora restaurato (Lollini 2013). Nell’insieme di una collettiva intitolata Non tutto è in vendita, il duo artistico bolognese aveva realizzato un’installazione in uno spazio precedentemente utilizzato per ‘allestire’ l’arredo di una cameretta per bambini: sulle pareti ricoperte di carta da parati a iorellini erano state attaccate pagine strappate da diversi volumi illustrati della favola di Biancaneve, tutti riferiti allo stesso passo, ovvero la morte apparente della bella principessa, deposta in una bara di cristallo e vegliata dai nani. PetriPaselli, Il Compianto, 2011 La Rivista di Engramma • 122 | 9 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Un lavoro che ragionava in modo intelligente, sottile, ironico, sul tema dell’esporre e del collezionare: raccogliere gli oggetti per la loro bellezza, proteggerli, esibirli dietro a un cristallo. I PetriPaselli mettevano in scena il medium classico del mostrare, la teca, attingendo allo straordinario serbatoio di immagini della cultura occidentale (e non solo) fornito dalle favole. Ma allo stesso tempo, quel gesto di protezione e ‘ostensione’ conteneva qualcos’altro, qualcosa di profondamente legato alla cultura europea stratiicata nei secoli e trasformata in senso moderno nel corso dell’Ottocento. Alle spalle di quella bara di cristallo in cui giaceva la principessa, “bianca come la neve, rossa come il sangue e con i capelli neri come l’ebano”, senza perdere la propria bellezza e la propria freschezza, c’erano le reliquie delle sante incorrotte, le Wunderkammern dei principi tedeschi e le forme con cui l’Ottocento aveva fatto proprie quelle ‘meraviglie’, smussandone le asperità con il morbido velluto, addomesticando il perturbante. Ma il morbido può anche essere morbide, ‘morboso’, e l’unheimlich, ‘ciò-che-non-è-di-casa’, può essere in realtà costretto negli angoli più bui e remoti della casa stessa, nell’intérieur più profondo. Biancaneve, Schneewittchen nell’originale tedesco della favola – raccolta dai Grimm all’inizio del secolo, in una delle tante e difuse operazioni romantiche di recupero delle liriche e dei racconti popolari – diventava allora una possibile lente attraverso cui leggere sia il collezionismo del principe, creatore di una straordinaria camera delle meraviglie (naturalia o artificialia, ma comunque mirabilia) per il proprio privato piacere, sia la democratizzazione del fenomeno collezionistico che, a partire dalla seconda metà del Settecento, crebbe e caratterizzò il secolo successivo, creatore di musei e di dimore di sogno per la collettività. Tra le case di sogno della collettività spiccano in particolar modo i musei. A tale proposito andrebbe messa in risalto la dialettica con cui i musei vengono incontro da un lato alla ricerca scientiica, dall’altro all’”epoca trasognata del cattivo gusto”. “Quasi ogni epoca sembra aver sviluppato, in base alla propria disposizione interna, un determinato problema architettonico: il gotico: le cattedrali, il barocco: il castello, e il primo Ottocento, con la sua inclinazione, lo sguardo rivolto all’indietro, a lasciarsi permeare dal passato: il museo”. Sigfried Giedion, Bauen in Frankreich, p. 6. Questa sete di passato costituisce l’oggetto principale della mia analisi. Alla sua luce l’interno del museo si presenta come un’intérieur elevato a potenza. (Benjamin 1982 [2000], p. 455). La Rivista di Engramma • 122 | 10 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Così si esprimeva Walter Benjamin nel suo Passagenwerk, dove i passages, quelle particolari strutture architettoniche, “corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti rivestite di marmo, che attraversano interi caseggiati” che ospitano spazi per il commercio e generano luoghi per il passaggio nella Parigi ottocentesca (Guida illustrata di Parigi, 1852, citata in Benjamin [1982] 2000, p. 41), divengono lo spunto e la lente tramite cui osservare gli elementi fondamentali della cultura di quel secolo nella città che lo ha più rappresentato. Riprendendo e giocando con quella poderosa opera fatta di frammenti, rilessioni e citazioni – per via della prematura scomparsa di Benjamin, morto suicida durante la fuga dall’incalzante esercito nazista – il mio primo intervento a partire da Biancaneve si era risolto in una sorta di divertissement in cui la stessa favola, i frammenti linguistici, iconici e signiicanti che la compongono sono stati stati utilizzati come un prisma per guardare elementi della cultura europea secolare, rielaborata dalle trasformazioni modernizzanti dell’Ottocento. Quel secolo, infatti, ha preservato e raccolto le tracce del passato, sia quello privato che quello collettivo, quanto mai in precedenza. A livello pubblico è stata spesso la prospettiva tassonomicoscientiica a prevalere: si sono raccolti ed esposti tutti quegli elementi – della natura o artefatti umani (di nuovo, naturalia et artificialia) – che permettevano di mostrare (e, spesso, apprendere) cos’è l’uomo e il mondo che lo circonda. Ma la “sete di passato” propria, secondo Benjamin, dell’Ottocento portò a travalicare il limite del bello, dell’antico, del meraviglioso, per iniziare a raccogliere tutto ciò che veniva sentito ‘cosa afettiva’ con cui rendere caldo e identitario il proprio nido, il proprio guscio: la dimensione pubblica del museo continuò ad aiancarsi a quella privata del cabinet des curiosités – via via sempre più costituito di oggetti carichi di aspetti emozionali – che restò ad abitare, a volte sotto forma anche solo di piccole teche o campane di vetro, gli angoli più intimi delle dimore borghesi. Se questi sono elementi che caratterizzano la cultura occidentale, queste linee non possono essersi certo interrotte alla ine del secolo XIX: quali forme ha preso nel Novecento la tendenza a conservare – proteggendo e congelando – la meraviglia? E la dimensione perturbante del corpo apparentemente privo di vita ma forse solo ‘dormiente’? La Rivista di Engramma • 122 | 11 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli 2. Corpi imbalsamati, corpi dormienti La dimensione pubblica del corpo esposto è transitata attraverso le epoche arrivando ino al Novecento. Nell’ambito religioso il rito dell’esposizione della reliquia del corpo del santo si è ripetuta anche in tempi recentissimi nel caso di Padre Pio, oferto alla pubblica venerazione in una teca di cristallo tra il 2008 e il 2009. Invece gli eredi delle spoglie esposte dei re antichi, degli imperatori romani, dei sovrani francesi e inglesi dell’età medioevale ino agli zar, sono stati nel Novecento paradossalmente le igure che ne hanno guidato le rivoluzioni. Il primo ad avere questo destino di conservazione è stato, nel 1924, Lenin, che pure in vita si era pronunciato contro il culto della personalità (Piretto 2012, p. 103). Per ‘ragion di stato’, il suo corpo è stato oggetto di un processo di imbalsamazione (che deve essere ciclicamente rinnovato) e attorno alle sue spoglie santiicate è stato costruito un mausoleo di granito, necessario ai suoi successori per ribadire, attraverso i simboli, il senso di una rivoluzione sempre più lontana nel tempo. Un reliquia della rivoluzione che ora si vorrebbe seppellire ‘pensando sicuramente più alla rimozione dello scomodo inquilino che alla pace della sua anima’ (Piretto 2012, p. 103). Dopo Lenin, è stata la volta di Stalin, prima posto accanto al suo predecessore e poi rimosso, di nuovo per ragioni politiche; nel 1969 questo stesso destino è toccato a Ho Chi Minh, mentre nel 1976 a Mao Tse-tung. In Corea del Nord sono due i leader deposti – ed esposti – in una bara di vetro: Kim il Sung e Kim Jong-il. Per Hugo Chavez, scomparso nel 2013, è stato fatto un tentativo di imbalsamazione, ma non è stato possibile per motivi tecnici (o forse si è scelta una più semplice, e umana, sepoltura). Mao Tse-tung nella bara di vetro, 1976 La Rivista di Engramma • 122 | 12 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Ma se a livello socio-politico questa pratica antica sembra essere sopravvissuta solo per i ‘condottieri’, rivoluzionari, grandi timonieri o cari leader del Novecento, c’è un altro ambito in cui la pratica di esporre il corpo in una teca, con tutta la sua carica perturbante, viene in alcuni casi messa in atto: l’arte. È il 1995 quando alla Serpentine Gallery l’artista Cornelia Parker espone una serie di inte reliquie o cimeli privati appartenuti a personaggi storici: il cuscino e la coperta del lettino di Freud, la penna d’oca di Charles Dickens, il rosario di Napoleone, la macchina fotograica di Lee Miller, il cervello in formalina del matematico Charles Babbage... (Blazwick, Burcharth, 2001, pp. 79-81). Tra questi oggetti, spiccava la teca con all’interno un corpo, vestito e adagiato su un ianco: si trattava di una performance di Tilda Swinton, dormiente. he actress Tilda Swinton wanted to do a performance piece called he Maybe in which she appeared as Snow White asleep in a glass coin. I immediately thought of Wallis’s painting [Chatterton (1856)], partly because Tilda looks so Pre-Raphaelite. I thought that performing in costume would make it a piece of theatre, not art, so in the end Tilda wore her own clothes and lay there for eight hours a day asleep, or at least seeming to be. Sometimes people would whisper obscenities to her through the glass. It made Tilda feel vulnerable, and by the end she had shingles because of the stress. I felt bad because that wouldn’t have happened if she had been in costume. Because she was just being herself, people could project much more onto her. But that was the whole point. (Sooke 2013) Tilda Swinton/Cornelia Parker, he Maybe, 1995 La Rivista di Engramma • 122 | 13 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Henry Wallis, La morte di Chatterton, 1856 Il rimando culturale, e più precisamente iconograico, in questo caso è rivolto a un quadro prerafaellita di un giovane poeta suicida, adagiato sul proprio letto, che richiama nella postura e nel gesto il famoso Marat di David, che a sua volta risale alla Deposizione di Caravaggio. Ma nella teca con Tilda Swinton non c’è più solo quella Pathosformel, il gesto del corpo abbandonato alla morte. C’è, appunto, la teca. E il suo contenuto, che non è un corpo morto, ma still life, in senso proprio: una “vita immobile”, sospesa in un sonno che non sappiamo quanto durerà, protetta dal cristallo. La teca sposta verso una diversa immagine culturale, potremmo chiamarla forse ancora Pathosformel, in quanto contiene un aspetto emozionale: la dimensione perturbante di un interregno tra la vita e la morte, propria di Biancaneve, dei santi incorrotti, degli antichi re e imperatori e ripresa, per il suo potere evocativo, dagli entourage dei più recenti leader comunisti. La teca è molto più di un dispositivo per proteggere e mostrare: la teca circoscrive uno spazio inviolabile e sacralizzante in cui immergere una cosa fragile, vulnerabile. La Rivista di Engramma • 122 | 14 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Since the late 1960s artists have increasingly made use of the display case or the vitrine to present their work, and this practice has become a familiar one in galleries devoted to contemporary art. he vitrine was originally adopted by the Church for preserving and venerating the relics of saints – a practice which helped to enhance the powerful presence of the holy and the sacred. It embodies a very particular display aesthetic which has a singular ability to transform magically the most humble object into something special, unique and generally more attractive or fascinating. (Putnam 2001, p. 14) La presenza di una teca attorno a un oggetto, inoltre, innesca alcune conseguenze anche nell’occhio di chi guarda: l’attenzione si fa più viva e permette di guardare la “cosa” al di là del vetro godendo di una distanza da essa. La teca, infatti, funziona anche in direzione inversa, proteggendo l’osservatore dalla dimensione perturbante di ciò che è contenuto. Se già nell’ambito scientiico e in quello religioso la teca aveva già ospitato elementi corporei, gli artisti, subendo il fascino di quelle pratiche di conservazione e degli ‘oggetti’ in cui esse prendevano forma, hanno iniziato a usare le teche per esporre corpi umani, addirittura se stessi o le reliquie lasciate dai corpi, assenti. 3. L’intimità in vetrina Da Joseph Cornell a Duchamp, molti sono gli artisti che già dagli anni Quaranta hanno iniziato a usare le teche o le scatole come dispositivi signiicanti per il proprio lavoro. In particolare, per Joseph Cornell la scatola/vetrina (le sue sono scatole aperte verso l’osservatore) diventa lo spazio dove raccogliere e mostrare i suoi assemblaggi di objéts trouvés. he Physical Self, esposizione curata da Peter Greenaway presso il Boymans-Van Beuningen Museum di Rotterdam nel 1991 La Rivista di Engramma • 122 | 15 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli L’America è il luogo dove il Vecchio Mondo ha fatto naufragio. Il Paese è costellato di mercatini delle pulci e bancarelle improvvisate. Là c’è tutto quello che gli emigranti hanno portato nelle loro valigie e nei fagotti in su queste sponde, e che i loro discendenti hanno buttato via con la spazzatura. (Simic [1992] 2005, p. 42) Quegli oggetti privati scartati divengono i preziosi componenti delle scatole di Cornell, “reliquiari dei giorni in cui regnava l’immaginazione” (Simic [1992] 2005, p. 74). Il termine ‘reliquiario’ viene spesso utilizzato per deinire questi lavori che raccolgono i frammenti più minuti, banali e allo stesso tempo intimamente personali. Christian Boltanski ha in molti casi chiamato esplicitamente i suoi lavori vitrine o reliquaire, inventaire o réserve: contenitori in cui l’artista francese raccoglie frammenti con cui poter ricostruire una vita in mancanza dell’uomo che l’ha vissuta. Vetrine o scatole – ovvero teche oscurate, vetrine al negativo, capaci di proteggere, ma in voluta opposizione all’esporre – al cui interno vengono raccolti documenti, fotograie, abiti, ino ad arredi interi: nei lavori di Boltanski ciò che è contenuto nelle teche reca l’impronta di chi l’ha usato. Christian Boltanski, Inventaire des objets ayant appartenu à une jeune fille de Bordeaux, 1973–1990, CAPC - Musée d’art contemporain de Bordeaux La Rivista di Engramma • 122 | 16 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Ma ancor prima di Boltanski, l’artista che più ha fatto propria la vetrina come dispositivo del proprio lavoro artistico è Joseph Beuys. “Si trattava di un nuovo tipo di scultura-assemblage, un ibrido tra accumulazione di oggetti postsurrealista […] e la spazializzazione dell’estetica del readymade che di lì a poco sfociò nelle varie pratiche legate all’installazione” (Foster, Krauss, Bois, Buchloh [2004] 2006, p. 484). La prima Vitrine viene realizzata da Beuys nel 1964 ed è questa prima l’unica ad avere un titolo: Auschwitz Demonstration, nota anche come Auschwitz Vitrine (1956-1964). Al suo interno l’artista pone alcuni dei materiali relativi al concorso per il Memoriale di Auschwitz Birkenau del 1957, cui egli stesso aveva partecipato: un catalogo fotograico del campo e del suo assetto architettonico, un disegno sulla carta intestata del Comitato Internazionale del concorso raigurante una giovane donna. Accanto a questi materiali prendono posto invece “reliquie” di alcune recenti Aktionen dell’artista: blocchi di grasso su una piastra elettrica e salsicce, ma anche contenitori pieni di capelli e un metro spezzato al cm. 42, simboli cristiani come un pesce e un croceisso senza croce adagiato su un piatto (Kramer 1997, pp. 261-271, vedi anche Beuys 1997). Quindi spaziando dall’abbietto alla perturbante presenza della morte, dalla pomposità dei simboli cristiani alla farsa manifesta (per esempio un biscotto che giace come un’ostia in un piatto da tavola vicino all’immagine di Cristo), la Dimostrazione Auschwitz […] sembra essere un’opera – forse la prima della cultura visiva della Germania del dopoguerra – in cui sono pienamente articolate la necessità di ricordare e l’impossibilità di una rappresentazione adeguata (Foster, Krauss, Bois, Buchloh [2004] 2006, p. 485). La riduzione del corpo umano a mero materiale organico da sfruttare o smaltire come scoria: questo è racchiuso nella teca, in una condizione che si colloca fra la reliquia e il reperto di un esperimento scientiico. Ma, che sia reliquia o reperto, ciò che è contenuto in quella vetrina è perturbante, è das Unheimliche. È ciò cahe un tedesco di quel periodo storico, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, vuole allontanare da sé benché gli sia familiare, nel senso, spesso, di agito in famiglia o in prima persona. È una simbolizzazione di altre teche, immense, che in quello stesso periodo venivano realizzate nel Museo di Auschwitz, per proteggere ed esporre quelle abbacinanti accumulazioni di oggetti personali che i soldati sovietici avevano trovato all’interno dei depositi del campo nazista. La Rivista di Engramma • 122 | 17 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Le teche di Auschwitz, che raccolgono quello che resta di immani cumuli di capelli, abiti, scarpe, valigie, occhiali, protesi, dentiere, stoviglie... sono anch’esse un tentativo di dominare sia la quantità reale di quegli oggetti, che la carica perturbante di quella stessa quantità. In esse si cerca di cristallizzare un momento percettivamente irripetibile: l’ingresso dei soldati sovietici nel campo, quando “sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi” (Levi [1963] 1989, p. 157). Di nuovo, sono le reliquie a raccontare i corpi, portandone le impronte, nell’assenza di coloro che hanno indossato e usato quegli oggetti. Da ormai una decina di anni si pone una questione fondamentale su quegli oggetti: sono talmente fragili che ogni tentativo di pulirli, per mantenerli all’interno delle teche, è impossibile. A ogni movimento rischiano di dissolversi. Da più parti si sono levate voci che propongono di seppellire le scarpe e i capelli di Auschwitz (Caferri 2003). Seppellirle per dare loro riposo, non per dimenticarle: la loro immagine è diventata talmente difusa da essere nel fondo degli occhi quanto meno dell’Occidente. Stanislaw Mucha, cumuli di abiti nei depositi di Auschwitz, Museo di Auschwitz Stanislaw Mucha, cumuli di scarpe nei depositi di Auschwitz, Museo di Auschwitz La Rivista di Engramma • 122 | 18 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli 4. Secolarizzare e cristallizzare L’oggetto-ricordo è la reliquia secolarizzata. L’oggetto-ricordo è il complemento dell’”esperienza vissuta”. In esso si è depositata la crescente alienazione dell’uomo che inventaria il suo passato come un morto possesso. Nel diciannovesimo secolo l’allegoria ha abbandonato il mondo esterno per insediarsi in quello interiore. La reliquia proviene dal cadavere, il ricordo-oggetto di quell’esperienza defunta che, eufemisticamente, viene chiamata “esperienza vissuta”. (Benjamin [1939] 1997, p. 245) In questo frammento di Benjamin tratto da Zentralpark viene tradotto come “oggetto-ricordo” il termine tedesco Andenken, che ha il senso sia di oggetto a cui è legato il ricordo, che di ricordo oggettivato. Tramite il ricordo, carico afettivamente, l’oggetto diviene reliquia. In un certo senso, è come se l’aura dell’oggetto emanasse dalla sua sopravvivenza oltre alle esistenze che l’hanno costruito, usato, vissuto. Diviene una reliquia secolarizzata, non più religiosa, senza tuttavia perdere la propria natura sacrale: ciò che è ‘separato’, che è espressione di una realtà diversa, altra, che incute timore e fascinazione nell’uomo. Ma nella dimensione religiosa, la prospettiva è quella dell’eternità. Un’eternità che travalica i corpi, perché avrà il suo compimento alla ine dei tempi terreni. Sono due dimensioni temporali incompatibili. La prospettiva secolare attorno alle reliquie vorrebbe mirare anch’essa all’eternità, ma il suo tentativo è destinato al fallimento, proprio perché inserito in una dimensione temporale totalmente terrena. È questo cortocircuito a generare i tentativi di ‘cristallizzazione’, di mantenimento all’interno del cristallo in modo fermo e immutabile di ciò che invece è, per sua natura, fragile, vulnerabile, caduco, mortale. E quindi vivo. Roy Andersson, A Pigeon Sat On A Branch Relecting On Existence, still dal ilm, Svezia 2014 La Rivista di Engramma • 122 | 19 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli English abstract After a previous relection about Snow White and the culture of the 19th century, about the compulsion to collect and preserve, this paper tries to answer the question: how has this cultural line evolved in the 20th century? Which shape took the inclination to preserve, through a crystallization, the “wonder”? And the eerie dimension of the body apparently dead but maybe only sleeping? he main character of this cultural history is the vitrine: a physical object but, at the same time, a device, a metaphor, almost a Pathosformel. Because of its cultural use as device to preserve holy relics or precious objects, the vitrine was chosen for political, social or artistic reasons, to renovate and extend its power. “he vitrine was originally adopted by the Church for preserving and venerating the relics of saints – a practice which helped to enhance the powerful presence of the holy and the sacred. It embodies a very particular display aesthetic which has a singular ability to transform magically the most humble object into something special, unique and generally more attractive or fascinating” (Putnam 2001, p. 14). his power of the vitrine was exerted by several artists. But the vitrine has another power: to preserve the observer, outside the glass, from the eerie and disturbing quality of some objects, in particular the relics of the main catastrophe of the 20th century: the shoes and the personal efects discovered in the storehouses of Auschwitz. Bibliografia Benjamin [1939] 1997 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. Benjamin [1982] 2000 W. Benjamin, I “passage”» di Parigi [Das Passagenwerk, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main 1982], trad. di R. Solmi, A. Moscati, et al., Torino 2000. Beuys 1997 Eva, Wenzel und Jessyka Beuys, Joseph Beuys - Block Beuys, Schirmer/Mosel, Munchen 1997. Blazwick, Burcharth 2001 Iwona Blazwick, Ewa Lajer Burcharth, Cornelia Parker, Hopefulmonster, Torino 2001. Caferri 2003 Francesca Caferri, Auschwitz, battaglia sul restauro. Si sgretola la memoria dell’orrore, “La Repubblica”, 24 gennaio 2003. Levi [1963] 1989 Primo Levi, La tregua [1963], in Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989. Lollini 2013 Fabrizio Lollini, “I nani così sterminatamente piangenti. Biancaneve, Disney, i compianti padani del Quattrocento”, in Engramma, n. 108, luglio/agosto 2013. La Rivista di Engramma • 122 | 20 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 La vita nel cristallo Elena Pirazzoli Kramer 1997 Mario Kramer, Art nourishes Life. Joseph Beuys: Auschwitz Demonstration 1956-1964, in German Art from Beckmann to Richter. Images of a Divided Country, edited by Eckhart Gillen, DuMont, Köln 1997. Piretto 2012 Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo, Sironi, Milano 2012. Putnam 2001 James Putnam, Art & Artifact. he Museum as Medium, hames and Hudson, London 2001. Saletti, Sessi 2011 Carlo Saletti, Frediano Sessi, Visitare Auschwitz. Guida all’ex campo di concentramento e al sito memoriale, Marsilio, Venezia, 2011. Simic [1992] 2005 Charles Simic, Il cacciatore di immagini [1992], Adelphi, Milano 2005. Sooke 2013 Alastair Sooke, Hay 2013: Artist Cornelia Parker on five works and the pieces that inspired them, “he Telegraph”24 maggio 2013. La Rivista di Engramma • 122 | 21 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Il mio precedente intervento (Engramma n. 108), compreso nel numero dedicato al tema della Sleeping Beauty, tentava un incrocio tra tradizione alta e bassa, antico e moderno, religioso e favolistico. I commenti che ho ricevuto su quel contributo, e gli studi che si presentano ora in questa sede, nei loro contenuti afatto diversi, mostrano che non pochi studiosi incominciano a interessarsi al tema di come le forme di espressione del compianto - e dunque del dolore - o ancora quelle del sonno / morte che si incrocia al risveglio / resurrezione in forme che possono divenire contemplative e quasi museiicate seguano rotte solo in parte culturalmente consapevoli, e si basino piuttosto su forme assolute la cui continuità è dovuta sì a riprese coscienti, ma pure a tramandi sotterranei. A questo proposito, vorrei presentare qui due brevi suggestioni, a mo’ di postilla visiva - quasi una galleria - appena inquadrata da poche righe. Il ‘Maestro di Chaource’, ancora alla ricerca di un nome (pur se quello di Jacques Bachot è stato riproposto anche di recente), è l’autore più signiicativo nella storia della scultura della zona di Troyes, nello Champagne, nel XVI secolo, e uno dei maggiori del periodo di tutta l’area francese. La sua opera eponima rimane quasi unica, nella storia dei compianti, per la continuità di conservazione, che fa emergere forse ancor meglio che nel caso di Tonnerre quel rapporto tra racconto narrato e ambientazione, quel nesso - dunque tra spazio, racconto e fruitore visivo che tante volte postuliamo negli altri casi, invece rimaneggiati. Per riandare al più celebre degli esempi padani, quello di Niccolò dell’Arca, si pensi solo alle differenti ricostruzioni del grouping delle igure (con punti cruciali quali il punto di vista da cui si doveva percepire la “folle corsa” della Maddalena, o il ruolo di perno percettivo della igura avvitata di Giovanni, ino al bilanciamento speculare - nel caso, svanito - che sarebbe determinato dalla presenza della igura ora scomparsa); alle modalità di apparizione della scena nalla chiesa da cui venne spostato, e in cui poi è tornato (l’illuminazione da cui era toccato il gruppo, la possibilità di una sorta di ‘sipario’, la contestualizzazione nello spazio liturgico); alla possibilità dello spettatore di identiicarsi e di mischiarsi, quasi, alle immagini della scena sacra. La Rivista di Engramma • 122 | 22 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Qui, nella cappella sottostante l’area nordorientale del coro della chiesa di San Giovanni Battista nella piccola cittadina francese, anche oggi si attua un piccolo miracolo performativo. Si scendono gli stessi gradini, che fanno entrare il visitatore di oggi nel piccolo ambiente, in cui due inestrelle lasciano iltrare una luce indiretta che avvolge le igure, che tornisce i loro corpi e rende evidenti - ma senza estremizzarle - le campiture cromatiche che in parte ancora le arricchiscono; l’efetto è davvero quello della scena teatrale organizzata in cui si riesce a partecipare, aiancando il soldato che sorveglia la scena o confortando i dolenti, o magari prendendo il posto a ianco dei committenti, che sono inclusi nel gruppo, anche se collocati a parte, e in scala dimensionale ridotta rispetto agli altri personaggi, e fungono come da tramite tra il quando e il dove dell’episodio evangelico, da una parte, e, dall’altra, i tempi e i luoghi in cui viviamo. Sono vestiti come gli uomini del primo Cinquecento, e portatori delle caratteristiche distintive coeve del gruppo cui si deve percepire appartengano (come è il caso dell’annotazione sui peot della igura di Giuseppe d’Arimatea, se, come crediamo, coglie nel giusto). L’espansione naturalistica dello stile nei secoli del tardo Medioevo e della prima età moderna si misura infatti anche nel mimetismo del dolore; ma la volontà di compartecipazione che emerge dai ‘sepolcri’ è perenne, e per esempio già evidente in quello di Lazzaro ad Autun, realizzato nel XII secolo, a ospitare le presunte reliquie dell’uomo resuscitato da Cristo, prototipo di tutti coloro che si risvegliano. Il ‘mausoleo’ aveva la forma di una minuscola chiesa, nella zona presbiteriale della Cattedrale francese; decorato da rilievi narrativi, si schiudeva al pellegrino e a tutti i fedeli tramite due grandi porte lignee - vero limes tra vita e morte. Il visitatore si trovava di fronte a un ‘teatro vivente’ di pietra, in forme leggermente più ridotte rispetto alla scala naturale. Molto più in alto rispetto al livello del suolo un sarcofago di quattro o cinque piedi di lunghezza includeva una rappresentazione scolpita del corpo di Lazzaro gisant, avvolto in un sudario. Il coperchio del sarcofago era sostenuto da quattro ‘uomini’ [come li deiniscono le fonti] di cui non conosciamo afatto la taglia: erano come dei piccoli Atlanti collocati sui bordi della cavità sepolcrale, o piuttosto si mantenevano allo stesso livello dei protagonisti principali del dramma, nelle vesti di semplici spettatori? [forse avevano il compito di sollevare il coperchio della tomba, sulla base di confronti con rappresentazioni di sculture coeve]. Un motivo a scaglie di pesce, con tracce di pittura rossa, ornava il coperchio, che recava, sulle due facce, l’iscrizione Lazare veni foras. Ai piedi di Lazzaro, tre statue, di circa un metro e 25 cm: La Rivista di Engramma • 122 | 23 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini san Pietro, caratterizzato dalle chiavi, e sant’Andrea aiancavano Cristo, che recava un libro e levava in alto la mano destra nel momento preciso, epifanico, del miracolo della resurrezione. Solo un frammento del braccio destro di Cristo ci è pervenuto; è in marmo bianco, com’era anche la testa, mentre il resto della statua era in calcare dipinto. Alla testata del sarcofago, e forse adese alle pareti del mausoleo (il retro delle statue è infatti piatto), le statue della Maddalena e di santa Marta, quest’ultima raigurata mentre si copre il naso per proteggersi dall’odore di putrefazione proveniente dalla tomba aperta. Delle tracce cromatiche lasciano pensare che il gruppo dei cinque fosse in origine riccamente dipinto. In questo caso, possiamo immaginare che nella forte penombra dell’ambiente, rischiarato appena dalla ioca luce delle candele, la testa e il braccio del marmo bianco di Cristo doveva risaltare in modo drammatico”. Efetti speciali, di luce e di colore, di materiali e di collocazioni, accompagnavano il visitatore (che seguiva peraltro nella Cattedrale un percorso deinito, che iniziava dal portale laterale e si concludeva con l’uscita da quello maggiore), che in un’esperienza percettiva polisensoriale, in technicolor prendeva dunque parte diretta alle forme di un dramma sacro. Il gesto di coprirsi il naso per la puzza, lungi dal costituire uno scarto in senso naturalistico, è invece motivo topico ricorrente, che troverà una nuova vita con Giotto e i giotteschi, e che mostra appunto, come accennato sopra, che, se le forme dello stile mutano e implementano il senso mimetico, atti, posture e gesti parlanti rimangono gli stessi. Nell’editoriale del numero 108 di Engramma già citato, accennavamo al caso esemplare del bellissimo castello di Ussé, e dei suoi legami con Charles Perrault che avevano portato la tradizione a identiicarlo col maniero della Bella Addormentata. Da questa suggestione nacque l’idea di ospitare, nel cammino di ronda dell’ediicio, una serie di tableaux vivants della iaba (l’idea di ambientare scene interpretate da manichini è comunque estesa anche alla vita nobiliare reale, nei grandi saloni ai piani). Nella sua breve ma bella prefazione a una recente guida monograica su Ussé, il duca Casimir di Blacas, la cui famiglia possiede il castello (e vi risiede) dal 1885, annota che “c’est toujours un plaisir de voir le regard émerveillé des enfants lorsqu’ils visitent notre circuit de La Belle au bois dormant “. Ma lo sguardo meravigliato di tutti, non solo dei più piccoli, si espande in un altro spazio, quello dei sottotetti restaurati dell’ediicio. Qui mobili, oggetti domestici del passato, opere d’arte, fotograie, sono stati accatastati in un geniale progetto, che ha creato una vera e propria installazione site La Rivista di Engramma • 122 | 24 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini specific, in cui oggetti alla rinfusa acquisiscono nuovi signiicati grazie alla loro presenza in quella sede, dialogano con lo spettatore alla ricerca di mémoires, e soprattutto rimandano al sonno, alla stasi, della trama della iaba di Perrault, e ai cento lunghi anni passati dalla bella (e da tutta la sua famiglia, e dalla sua corte, e dalla sua casa). Tutto è impolverato, in attesa di un risveglio che ci auguriamo non avvenga mai, per non rovinare questo piccolo capolavoro di suggestione, quasi emblema dei temi che in questa sede si afrontano. Galleria Frammento dal Mausoleo di Lazzaro già nella Cattedrale di Autun, Autun, Musée Rolin, Sant'Andrea. Frammento dal Mausoleo di Lazzaro già nella Cattedrale di Autun, Autun, Musée Rolin, Santa Marta (particolare). La Rivista di Engramma • 122 | 25 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Frammento dal Mausoleo di Lazzaro già nella Cattedrale di Autun, Autun, Musée Rolin, Santa Maria Maddalena (particolare). Frammento dal Mausoleo di Lazzaro già nella Cattedrale di Autun, Autun, Musée Rolin, Santa Andrea. Chaource, San Giovanni Battista, Compianto. La Rivista di Engramma • 122 | 26 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Particolare dal Compianto di Chaource, Maria Vergine, Maria Salomè e San Giovanni Battista. Particolare dal Compianto di Chaource, Maria di Cleofa. Particolare dal Compianto di Chaource, Nicodemo. La Rivista di Engramma • 122 | 27 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Particolare dal Compianto di Chaource, Maria Salomè e Maria Maddalena. Particolare dal Compianto di Chaource, i donatori. Particolare dal Compianto di Chaource, Nicolas de Monstier. La Rivista di Engramma • 122 | 28 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Particolare dal Compianto di Chaource, armigero. Particolare dal Compianto di Chaource, particolare delle mani della Maddalena col vaso d’unguento. Particolare dal Compianto di Chaource, Nocodemo, retro. La Rivista di Engramma • 122 | 29 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Chaource, San Giovanni Battista, particolare del Compianto con Giuseppe d’Arimatea che sostiene il corpo di Cristo, con luce radente. Chaource, San Giovanni Battista, il Compianto nella sua collocazione spaziale. Ussé, Château. La Rivista di Engramma • 122 | 30 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Ussé, Château, la méchante fée Carabosse pronuncia il suo sortilegio. Ussé, Château, sottotetti. Ussé, Château, sottotetti. La Rivista di Engramma • 122 | 31 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Ussé, Château, sottotetti. Ussé, Château, sottotetti. Ussé, Château, sottotetti. La Rivista di Engramma • 122 | 32 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Ussé, Château, la famiglia della principessa e la fata Carabosse. Ussé, Château, il bacio del prince charmant. English abstract Following the suggestion of my previous contribution in n. 120, I would like to consider here a couple of examples connected to the iconography of the lamentation on a dead (or sleeping) body, and more in general to the diferent patterns of expression of pain - almost as visual footnotes. he Lamentation of the ‘Chaource Master’ almost still shows us now the original strategies of emotional engagement of the viewer, based on a strict connection between the images, the location, and the physical experience of the public. From the irst half of XVI century to late Romanesque period, with the astonishing project of Lazarus’ sepulchre in Autun cathedral. Ussé, in France, is, according to the tradition, the castle of the Sleeping Beauty (probably because Charles Perrault is in fact documented there). A recent restoration of the attics area of the building, where old objects and works of art are presented as left abandoned, evokes the idea of the waiting of something, possibly of an awekening. La Rivista di Engramma • 122 | 33 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I compianti, la Bella Addormentata e le altre Fabrizio Lollini Nota bibliografica Sul ‘Maestro di Chaource’, e sul suo compianto, cfr. H.H. Arnhold, Die Skulptur in Troyes und in der südlichen Champagne zwischen 1480 und 1540: stilkritische Beobachtungen zum Meister von Chaource und Seinem Umkreis, Freiburg 1992, ed. on line 2004, pp. 31-80 (per il gruppo qui considerato le pp. 46-64, oltre alle pp. 186-189 nel catalogo, ibidem); il compianto è datato 1515, e fu commissionato da Nicolas de Monstier e dalla moglie. Più di recente, si vedano tra gli altri i ripetuti interventi di V. Boucherat, nel catalogo Le Beau XVIe siècle: Chef-d’œuvre de la sculpture en Champagne, catalogo della mostra, Paris 2009 (alle pp. 165-173 soprattutto), L’atelier du Maître de Chaource: un art ouvert sur l’exterieur, «L’Object d’art - L’Estampille», 42, 2009, pp. 36-43, L’Art en Champagne à la fine du Moyen Âge. Productions locales et modèles etrangers (v. 1485 - v. 1535), Rennes 2005, pp. 157-173, e da ultimo Les références judaïques du Maître de Chaource et de son atelier, in Ars auro gemmisque prior. Mélanges en hommage à Jean-Pierre Caillet, a cura di C. Blondeau, B. Boissavit-Camus, V. Boucherat, Zagreb 2013, pp. 353-362. Molti contributi su questo scultore sono poi apparsi nella rivista «La vie en Champagne»: come C. Peltier, Regards croisés entre les productions du Maître de Chaource et de Juan de Juni, 71, 2012, pp. 24-29, e R. Fosset, Nouvelle approche da La Mise au Tombeau de Chaource, 2013, pp. 33-43. Precoce apprezzamento nella storia critica italiana è G. Marinelli, Aspetti della scultura francese alla fine del Medioevo: il Maître de Chaource, «Emporium», 139, 1964, pp. 3-8. Per la complessa vicenda del mausoleo di Lazzaro nella Cattedrale di Autun, le cui sculture intere rimasteci sono oggi magniicamente esposte al Musée Rolin della città (che ne conserva molti altri frammenti) vedi Le tombeau de Saint Lazare et la sculpture romane à Autun aprés Gislebertus, catalogo della mostra, Autun 1985, e soprattutto il fondante N. Stratford, Le Mausolée de saint Lazare à Autun, pp. 11-38 (il passo citato è una mia traduzione di parte delle pp. 16-17), ripubblicato assieme al Recueil des sources pour l’étude du Mausolée de saint Lazare in Studies in Burgundian romanesque sculpture, 1, London 1998, pp. 317-371. L’esame tecnico e materiale delle sculture e dei frammenti della struttura architettonica, che mette in evidenza straordinari efetti ottenuti dalla polimateritcità e dall’arricchimento pittorico, non pochi paragoni stilistici, l’analisi dell’impiego dell’en ronde bosse, e confronti iconograici, portano a collocare l’opera del Martinus monachus citato in un’epigrafe, e degli altri artisti che lavorarono al complesso, attorno al 1135-50, piuttosto che negli anni Settanta-Ottanta del XII secolo come si è pensato per molto tempo, in assenza di una documentazione dirimente. La struttura, con pochi o forse nessun vero paragone in area europea coeva, da una parte pare guidata da una ricerca protoilologica verso le forme presuntive dell’Antico (col solito sguardo globale con cui non si distingueva tra età classica, tardoimperiale e paleocristiana), e dall’altra, forse, da quell’idea di ‘replica funzionale’ dei siti e degli arredi dei luoghi santi gerosolimitani e delle altre città della Terra Santa che sappiamo attivissima nel XII secolo. Sul castello di Ussé, S. Lamirault-Sorin, Le Château d’Ussé, mémoire de maîtrise d’histoire de l’art, université François Rabelais (Centre d’études supérieures de la Renaissance), 1995; eadem, Entre gothique et Renaissance: la chapelle collégiale du château d’Ussé, «Art sacré», 14, 2001, pp. 62-73; oltre alla guida che cito nel testo, Château d’Ussé («Connaissance des Arts», h. s. 454), Paris 2010. Le immagini sono di chi scrive. La Rivista di Engramma • 122 | 34 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello schema di Endimione in ambito greco-ellenistico con una galleria iconograica* Maria Emanuela Oddo ‫ۺ‬ƷƸǀƼ݁Ʒ݃›Ƹǂ݇Dž݅ƿƽƸLJƴƾ݅ƿۭǃDž݉ۡƿNJۭ›ƼƽƸƽƾƴDŽ—ưƿƺ (Luciano, Dialog. Deor. 11.2) Endimione: mito e schema iconograico Le fonti letterarie grazie a cui ci è noto il mito di Endimione sono un numero ridotto rispetto alle corrispondenti fonti igurative. I frammenti narrativi a noi pervenuti testimoniano l’esistenza di almeno due tradizioni mitiche, successivamente conluite in una (Koortbojian 1995, 63-64). Nella più antica delle due, quella occidentale, non si fa menzione della nota vicenda amorosa tra il giovane e la dea lunare Selene, né il sonno eterno sembra essere l’unico esito possibile della vicenda dell’eroe, che pure appare sempre destinato a una ine straordinaria. Esiodo racconta, infatti, come Endimione, iglio del re dell’Elide, ricevette in dono da Zeus la possibilità di scegliere il momento della propria morte (Hes. Fr. 8); in un altro frammento lo stesso autore narra la salita del bel pastore all’Olimpo, da dove sarebbe stato scacciato per le sue insistenti proferte a Hera per le quali, secondo una versione più tarda, sarebbe stato condannato al sonno eterno. (Hes. Fr.11; Scholia ad heoc. 3,49-51a). La tradizione orientale, invece, ambientata in Caria, narra l’amore del bel pastore con la dea Selene, la quale, per poterlo incontrare tutte le notti, gli dona un sonno che, anziché essere mortifero, comporta l’eterna giovinezza. Tale versione del mito ebbe un certo successo sia letterario che iconograico (Sapph. Frag. 199; heoc. Idyllis III.48f; Herod. VIII.10; Apoll. Rhod. IV.57; Catullus LXVI.5f; Propertius II.15.15f ): le fonti igurative riferibili a essa sono molto numerose e caratterizzate da convenzioni iconograiche ricorrenti, soprattutto per quanto riguarda la igura di Endimione addormentato (Gabelmann, 1986,726-742). Così viene descritto per bocca della sua amante divina: La Rivista di Engramma • 122 | 35 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo ƧƸƾƱƿƺǃ ۭ—ǁ݇ —݃ƿ ƽƴ݇ ›Ưƿdž ƽƴƾǍǃ, ܷ ‫ۥ‬LJǂǁƷƲDžƺ, ƷǁƽƸ‫ޡ‬, ƽƴ݇ —ƯƾƼDŽDžƴ ‫ܞ‬Džƴƿ‫›ܦ‬ǁƵƴƾǍ—Ƹƿǁǃۭ›݇Dž‫ޓ‬ǃ›ưDžǂƴǃDž݅ƿLjƾƴ—ǎƷƴƽƴƻƸǎƷ‫ޑ‬ Dž‫ޔ‬ƾƴƼ‫݃—ޅ‬ƿ۱LjNJƿDž݁‫۝‬ƽǍƿDžƼƴ‫۽‬ƷƺۭƽDž‫ޓ‬ǃLjƸƼǂ݉ǃ‫›ܦ‬ǁǂǂưǁƿDžƴ, ‫ ۺ‬ƷƸǀƼ݁ Ʒ݃ ›Ƹǂ݇ Dž݅ƿ ƽƸLJƴƾ݅ƿ ۭǃ Dž݉ ۡƿNJ ۭ›ƼƽƸƽƾƴDŽ—ưƿƺ ۭ›Ƽ›ǂư›‫ ޑ‬Dž޾ ›ǂǁDŽǏ›޻ ›ƸǂƼƽƸƼ—ưƿƺ, ‫ ܚ‬Ʒ݃ ‫ ݉›ܦ‬Džǁް ‫›ܪ‬ƿǁdž ƾƸƾdž—ưƿǁǃ ‫۝‬ƿƴ›ƿư‫ ޑ‬Dž݉ ‫—۝‬ƵǂǍDŽƼǁƿ ۭƽƸ‫ޡ‬ƿǁ ۣDŽƻ—ƴ. (Luciano, Dialog. Deor. 11) Selene Mi sembra bellissimo, Afrodite! E ancora di più quando, gettato il mantello sulla roccia, vi giace sopra, e nella sinistra ha i dardi che ormai gli scivolano dalla mano, mentre la destra è ripiegata in alto, intorno alla testa gli incornicia il bel volto, ed egli vinto dal sonno emette questo respiro d’ambrosia. (traduzione di chi scrive) Nel dialogo di Luciano di Samosata risalente al II secolo d.C., il giovane pastore cario appare disposto nella medesima posa che lo contraddistingue nell’iconograia, secondo una modalità di narrazione ecfrastica tipica dell’autore (Mafei 1994, XV-XLVI). Infatti la posa recumbente col braccio intorno al capo sarà estremamente difusa in età ellenistica e romana per la rappresentazione di eroi di bell’aspetto addormentati, che attraggono con la loro avvenenza amanti divini (cfr. McNally 1985, 171-176). A ben guardare, tuttavia, questo schema iconograico – che chiameremo convenzionalmente ‘tipo Endimione’ – caratterizza diverse categorie di soggetti e copre un vastissimo arco temporale, costituendo un perfetto esempio di ciò che Aby Warburg chiamava Pathosformeln, laddove: Formel implicava sì issità e ripetizione di stereotipi, ma Pathos rimandava a nozioni di instabilità, movimento e istantaneità. Nella tradizione antica, pathos è – secondo la deinizione del trattato Sul Sublime (20.2) – “un’agitazione e un impeto dell’animo”; la formula che lo contiene e lo esprime è, al contrario, una convenzione espressiva destinata a perpetuarsi nel tempo, a passare di generazione in generazione, via via disseccandosi e irrigidendosi; ma potrà essere riconosciuta e rivitalizzata da un artista anche mille anni dopo (Settis 2008, VIII). Tracceremo qui di seguito l’evoluzione dello schema ‘tipo Endimione’ nell’arte greca mediante una galleria di immagini, che ci aiuti a formulare in chiusura una prima chiave di interpretazione della posa in questione. La Rivista di Engramma • 122 | 36 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Alle origini dello schema ig. 1 | Anceo sotto il cinghiale Calidonio, particolare del Vaso François, 570 a.C, da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Inv. 4209. Per quel che ci è noto, lo schema ‘tipo Endimione’ compare per la prima volta sul vaso François, il grande recipiente da mescita a igure nere realizzato in Attica intorno al 570 a.C. (bibliograia in Torelli 2007 e galleria fotograica in Shapiro, Iozzo, Lezzi-Hafter 2013). Nel registro superiore del collo del vaso viene rappresentata la caccia calidonia: Meleagro e Atalanta tendono l’arco contro il cinghiale di Calidone sotto le cui zampe giace il corpo supino di Anceo, con un ginocchio lievemente piegato e la testa circondata dal braccio sinistro [ig. 1]. Lo schema ‘tipo Endimione’ si ritrova anche in due vasi del ceramografo Lydos, databili alla metà del VI secolo a.C.: nell’oinochoe di Berlino viene rappresentata la contesa tra Ares e Eracle sul cadavere di Cicno, abbandonato al suolo tra i contendenti con un ginocchio piegato e il braccio intorno al capo [ig. 2]; la medesima posa caratterizza il corpo di un troiano ucciso ai piedi dell’altare su cui si rifugia Priamo nella scena di Ilioupersis dell’anfora di Berlino [ig. 3]. Lo schema in esame fa presto la sua comparsa anche su supporto lapideo, nella Gigantomachia del fregio settentrionale del tesoro dei Sifnii a Deli [ig. 4]. Da sinistra a destra: ig. 2 | Cadavere di Cicno, oinochoe attico a igure nere di Lydos, 540 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. F 1732; ig. 3 | Ilioupersis, anfora attica a igure nere di Lydos, 550-540 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. F 1685; ig. 4 | Gigante atterrato, particolare dalla Gigantomachia del fregio settentrionale del Tesoro dei Sifni a Deli, 525 a.C. Deli, Museo Archeologico. La Rivista di Engramma • 122 | 37 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Gli esempi qui riportati ci consentono di afermare che la posa, che sarà poi utilizzata in età ellenistica per rappresentare il sonno languido di giovani di bell’aspetto, nelle sue prime ricorrenze era applicata alla rappresentazione di corpi morti o morenti: è solamente dall’ultimo quarto del VI secolo a.C. che essa passa a caratterizzare, oltre ai cadaveri, anche alcuni personaggi addormentati, ben diversi dai bei giovinetti che saranno immortalati in questo schema nei secoli successivi: i dormienti distesi sulla schiena col braccio intorno al capo, nella pittura vascolare attica a igure nere, non sono necessariamente (e a volte niente afatto) belli. È infatti Polifemo il primo dormiente ad assumere la posa recumbente con il braccio intorno al capo, in uno skyphos beota collocabile intorno al 520 a.C. [ig. 5]. Perché connotare soggetti morti e dormienti con la medesima posa? Innanzi tutto è da ricordare che, come noto, in antico le nozioni e le conseguenti rappresentazioni del sonno e della morte sembravano godere di una peculiare contiguità (McNally 1985, 169; Mainoldi 1987; Kortbojian 1995, 100-114; Giudice 2003). In secondo luogo sarà utile osservare che in prima istanza lo schema ‘tipo Endimione’ viene applicato a una categoria particolare di dormienti: quelli che, secondo il mito, verranno lesi nella propria incolumità isica a causa dell’incoscienza del sonno (esemplari i casi di Polifemo e di Alcioneo). In questo senso la posa potrebbe avere valore prolettico e sintetizzare in un solo gesto il legame cognitivo, causale e temporale che nel racconto lega il sonno al vulnus (Connor 1984, 394). ig 5 | Polifemo addormentato, skyphos beota a igure nere della bottega del Pittore di Teseo, 520 a.C. Berlino, Antikensammlung, Inv. V. I. 3283. La Rivista di Engramma • 122 | 38 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo La ceramica a igure rosse ig. 6 | Simposiasti, stamnos attico a igure rosse di Smikros, 510-500 a.C. Bruxelles, Musées Royaux, Inv. A 717. Come noto, l’introduzione della ceramica a igure rosse costituisce una svolta innovativa, non solamente dal punto di vista della tecnica decorativa, ma anche per quanto riguarda i soggetti e le convenzioni iconograiche utilizzate per rappresentarli (Mertens 1988, 424-433). Questo scarto creativo risulta evidente anche nelle modalità di acquisizione e di utilizzo dello schema ‘tipo Endimione’ nei vasi attici a igure rosse: la posa in esame non viene più applicata solo a morti e dormienti, ma viene utilizzata anche per la rappresentazione di due nuove categorie di soggetti: gli amanti e i simposiasti [ig. 6]. Sembra dunque che questo schema iconograico esprimesse, nel linguaggio visuale antico, una condizione umana – un pathos – comune ai morti/ morenti, agli addormentati, agli amanti e ai simposiasti. Ne è prova il fatto che uno stesso ceramografo, il Pittore di Nikosthenes, utilizzi la posa recumbente col braccio intorno al capo per rendere tre diverse categorie di soggetti: il corpo di Sarpedonte sorretto da Hypnos e hanatos nella kylix del British Museum [ig. 7], Alcioneo addormentato prima di essere ucciso da Eracle nella kylix di Melbourne [ig. 8] e un uomo cui viene praticata una fellatio nel kantharos di Boston [ig.9]. È interessante notare, inoltre, che i simposiasti raigurati nello schema ‘tipo Endimione’ sono di norma in compagnia di un auleta, colti probabilmente nell’atto di cantare [igg. 6, 10, 11]. Questo particolare è riscontrabile a partire La Rivista di Engramma • 122 | 39 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Da sinistra a destra: ig. 7 | Corpo di Sarpedonte sollevato da Hypnos e hanatos, kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes, 510-500 a.C. da Vulci. Londra, British Museum, Inv. E 12; ig. 8 | Alcioneo addormentato, kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes, 510 a.C. da Vulci. Melbourne, National Gallery Victoria, Inv. 1730.4; ig. 9 | Fellatio, kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes, 520 a.C. da Vulci. Boston, Museum of Fine Arts, Inv. 95. 61 (dono di E. P. Warren). 10. Simposio, kylix attica a igure rosse del Pittore di Trittolemo, 480-470 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. 2298; 11. Simposio, kylix attica o beota a igure rosse, 470 -460 a.C. Londra, British Museum, 1895, 10-27. 2. da una kylix del British Museum [ig. 11] nella quale sono rappresentati due uomini sdraiati su una kline: uno dei due suona il doppio lauto, mentre l·altro porta il braccio dietro il capo e con la bocca dischiusa canta un verso di Praxilla, dipinto come un fumetto tra la sua bocca e il bordo (ܷ ƷƼƯ Dž‫ޓ‬ǃƻdžǂƲƷǁǃ, Praxill. Fr. 5). La condizione sensoriale espressa dalla posa recumbente con il braccio intorno al capo non è, dunque, semplicemente legata all’ebbrezza, ma piuttosto al peculiare stato estatico prodotto dalla combinazione di canto e consumo di vino (Catoni 2010, 223-251). Nella stessa ceramica a igure rosse, d’altro canto, lo schema ‘tipo Endimione’ continua a caratterizzare anche le igure di cadaveri e addormentati, oltre che le nuove categorie di banchettanti e amanti: la posa è applicata a un dormiente nella nota kylix di Pinthias, che raigura Alcioneo addormentato prima che Eracle gli sottragga la vita [ig.12]. La stessa posa è invece utilizzata per la raigurazione di un cadavere nello splendido tondo di kylix del Pittore di Brygos, dove il corpo morto di Aiace viene mostrato in tutta la sua imponenza, prima che Tecmessa lo copra col sudario (cfr. la successiva descrizione del velamento del cadavere di Aiace in Soph., Aj. 915-973) [ig. 13]. La grande difusione dello schema ‘tipo Endimione’ e il suo variegato utilizzo sarà probabilmente stato favorito dalla sua presenza in luoghi La Rivista di Engramma • 122 | 40 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Da sinistra a destra: ig. 12 | Alcioneo addormentato, kylix attica a igure rosse di Pinthias, 525-500 a.C. da Vulci. Monaco, Staatliche Antikensammlungen, Inv. 2590; ig. 13 | Cadavere di Aiace, tondo di kylix attica a igure rosse del Pittore di Brygos, 490 a.C. Malibu, Paul Getty Museum, Inv. 86 AE 286. ig. 14 | Guerriero atterrato, particolare dal fregio meridionale del Tempio di Athena Nike ad Atene, ca. 425 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. pubblici di grande valore rappresentativo, come l’Acropoli di Atene: tutte le proposte di ricostruzione dell’Amazzonomachia dipinta sullo scudo dell’Athena Parthenos di Fidia prevedono la presenza nella parte inferiore del tondo di un’Amazzone supina con la testa circondata dal braccio destro (cfr. Pl. HN XXXVI 18; Leipen 1971, 41-46; Simon, Hölscher 1976); la stessa posa viene inoltre usata per raigurare un guerriero sconitto nel fregio meridionale del tempio di Athena Nike [ig.14]. Lo schema ‘tipo Endimione’ viene adottato anche dalle botteghe magnogreche per i vasi a igure rosse, le cui produzioni di maggior pregio sono collocabili tra l’ultimo quarto del V secolo e la ine del IV secolo a.C. (cfr. Trendall 1989,15-16; Pontrandolfo, Rouveret 1992, 405-417). In quel contesto lo schema si applica per lo più a soggetti morti e dormienti, nel contesto di una vasta predilezione per temi tragici e miti di rara attestazione igurativa (Trendall 1989, 11-13; Roscino 2012; Pots & Plays 2012; Taplin 2007) [igg. 15, 16, 17]. La Rivista di Engramma • 122 | 41 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Da sinistra a destra: ig. 15 | Oreste presso l’omphalos ed Erinni addormentate, particolare da cratere apulo tipo Gnathia del Pittore di Konnakis, 360-350 a.C. da Ruvo di Puglia. San Pietrooburgo, Ermitage, Inv. B1743; ig. 16 | Guerrieri Traci uccisi, particolare da situla apula a igure rosse del Pittore di Licurgo, 355-345 a.C. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico, Inv. 81863 (H2910); ig. 17 | Mnesterofonia, cratere campano del Pittore di Issione, 340-320 a.C. da Capua. Parigi, Musée du Louvre, Inv. CA 7124. La medesima posa, d’altro canto, continua a essere utilizzata per la raigurazione di simposiasti accompagnati da suonatori (cfr. Napoli, Museo Archeologico Nazionale 85873; Lipari, Museo Archeologico Regionale 18431). Mancano, invece, a partire dall’età tardoclassica attestazioni dell’utilizzo dello schema in scene a tema sessuale, ma ciò dipende da una generale dismissione nel corso del IV secolo a.C. dei soggetti esplicitamente erotici, ai quali si preferiscono allusive scene di seduzione (cfr. Calame 1996; Baggio 2004, 117-217; Lynch 2009). L’età ellenistica: Sleeping Beauty In età ellenistica si può registrare un certo scarto rispetto all’uso che dello schema ‘tipo Endimione’ si era fatto in precedenza. È in questo periodo, infatti, che vanno collocate le sue prime applicazioni ai ‘belli addormentati’ – uomini e donne di bell’aspetto che nel languore del sonno attraggono l’attenzione di amanti divini. Si tratta in particolare di statue di Arianna e Endimione a noi pervenute per il tramite di copie di età romana [igg.18-19]: il braccio disteso a circondare il capo scopre le loro belle carni e dispone le membra in un atteggiamento di languido abbandono, esaltandone la bellezza ma anche la sottomissione impotente davanti al proprio amante divino. Anch’essi sono vittime di un vulnus, quello amoroso, secondo una metafora comune al sentire ellenistico, in cui l’amore è lotta, battaglia e, inine, sconitta (Murgatroyd 1975, 68-79; Rissman 1983). La Rivista di Engramma • 122 | 42 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Da sinistra a destra: ig. 18 | Arianna addormentata, marmo, copia romana da un originale greco di II secolo a.C. Roma, Musei Vaticani, Inv. 548; ig. 19 | Endimione addormentato, marmo, copia romana di un originale greco di II secolo a.C. Londra, British Museum, Inv. 1567 (già Townley Collection). ig. 20 | Guerriero morente, particolare dal Sarcofago di Alessandro. Marmo, ca. 310 a.C. da Sidone. Istanbul, Museo Archeologico, Inv. 370. Non mancano, d’altro canto, aspetti di continuità con la tradizione precedente: sul fronte del sarcofago di Alessandro [ig. 20] è raigurata una scena di combattimento e uno dei soldati sconitti, in basso al centro, tra i piedi degli altri combattenti, è disposto secondo lo schema ‘tipo Endimione’, col corpo arcuato e la testa gettata all’indietro, in una resa formale enfatica che ci ricorda le esasperazioni della postura rilevate in area magno-greca [cfr. ig. 16]. La Rivista di Engramma • 122 | 43 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Da sinistra a destra: ig. 21 | Gigante atterrato, marmo, copia romana dal Piccolo Donario Pergameno, metà III – metà II secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico, Inv. 6013 Farnese; ig. 22 | Dioniso, particolare dal Cratere di Derveni, bronzo dorato, ca. 330 a.C. da Derveni. Salonicco, Museo Archeologico, Inv. Derveni B1. Un’altra nota rappresentazione di combattente sconitto disposto nella posa recumbente col braccio intorno al capo è la statua di Gigante morto conservata a Napoli [ig. 21], probabilmente una copia romana dal Piccolo Donario Attalide (cfr. Coarelli 2014, con bibliograia). L’uso dello schema per la raigurazione dei banchettanti prende una piega alquanto singolare nel Cratere Derveni (cfr. Bandinelli 1974-1975; Grassigli 1999; Magnelli 2009), un grande recipiente in bronzo dorato e sbalzato, databile intorno al 330 a.C., sul quale è rappresentato il banchetto di Dioniso, che siede sulla kline con le ginocchia lievemente piegate e il braccio intorno al capo [ig. 22]. C’è da chiedersi come questa posa, altrove utilizzata per soggetti incoscienti o vulnerabili, possa applicarsi a un dio. Ma non a caso è proprio Dioniso l’unico soggetto divino a essere rappresentato secondo questo schema (cfr. anche la statua del Museo di Delo A 4121, la coppa a rilievo di Atene, Mus. Naz. 2345, la terracotta del Louvre Myr 180, N 1107: tutti manufatti databili intorno al II secolo a.C.). Per dare una lettura di questa particolare applicazione dello schema, sarj da considerare ² oltre all·evidente prossimitj tra le comuni igure di banchettanti e il dio del vino ² che Dioniso q un dio “vulnerabile” (Henrichs 1984). Com·qnoto, gli ۣƻƾƴdel dio ²cosucome sono narrati da Nonno di Panopoli (XIII 19-34) ² attraversano vicende di morte e di rigenerazione, e alcuni scoli all·Iliade riportano una versione del mito secondo la quale sarebbe ucciso da Perseo che ne getta il cadavere nella palude di Lerna (Scolii T ad Il. XIV 319). Bene attestata q anche la tradizione secondo la quale Dioniso sarebbe la reincarnazione di Zagreo, iglio di Zeus e Persefone, smembrato dai Titani per ordine di Era (Nonn. Dionysiaca VI). La partecipazione di Dioniso allo status umano di morte e La Rivista di Engramma • 122 | 44 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo di soferenza è forse una delle ragioni che inducono gli arteici antichi a disporlo secondo lo schema ‘tipo Endimione’: vedremo infatti di seguito come la nozione di vulnerabilità faccia parte del nucleo semantico che lo schema ‘tipo Endimione’ veicola nel linguaggio visuale antico. Morte, sonno, eros e simposio: uno schema per quattro concetti Brunilde Sismondo-Ridgway per prima ha tentato un’analisi organica della posa illustrata nelle immagini qui elencate. La studiosa, tuttavia, considera distintiva la sola posizione del braccio, tanto da denominare lo schema in esame “the Gesture of the Right Arm” e include nel medesimo gruppo l’Apollo Liceo, l’Amazzone di Policleto, i cadaveri dei vasi attici a igure nere, i simposiasti dei vasi a igure rosse, gli Endimione, le Arianne e le Rea Silvia dei sarcofagi romani [igg. 23-24-25]. Quanto all’interpretazione del gesto, la studiosa ritiene che il braccio rivolto indietro caratterizzi in età arcaica i cadaveri; dal III secolo a.C. esso sarebbe passato a rappresentare i dormienti, indotti al sonno dalla stanchezza, dal dolore, o dal vino; una successiva evoluzione avrebbe portato dal riposo dei dormienti al riposo da svegli, producendo le tipologie dell’Apollo Liceo e dell’Amazzone policletea (Sismondo-Ridgway 1974, 9-12). Questa analisi, che intenderebbe proporre una lettura organica della postura, presenta qualche punto debole. Da prendere in considerazione, innanzitutto, il fatto che il braccio destro sollevato sopra la testa, in varie gradature di posizione e in diverse accezioni di signiicato, è un elemento molto comune nell’iconograia antica e caratterizza una gamma di soggetti molto più ampia di quella esplorata dalla studiosa: esso si trova nei mourners del compianto funebre; nella pittura vascolare uomini e donne talora portano una mano al capo in segno di preoccupazione o spavento; inine una delle più comuni rappresentazioni della sposa coglie la donna nell’atto di togliere il velo dal capo davanti al marito nel gesto rituale dell’anakalypsis. Da sinistra a destra: ig. 23 | Endimione addormentato, particolare da sarcofago, III secolo d.C. New York, Metropolitan Museum of Art, Inv. 47.100.4a b (già Warwick Castle); ig. 24 | Arianna addormentata e corteo dionisiaco, sarcofago, ine II secolo d.C. Baltimora, Walters Art Gallery, Inv. 23.37; ig. 25 | Rea Silvia addormentata e Marte, sarcofago, II-III secolo d.C. Roma, Palazzo Mattei, Inv. 61. La Rivista di Engramma • 122 | 45 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Va considerato perciò che esiste un ampio repertorio di schemi iconograici che, nell’arte antica, prevedono che un personaggio porti una mano alla testa. All’interno di questi possiamo circoscrivere il nostro caso in cui il personaggio curva bensì il braccio sopra il capo in una particolare, languida, disposizione (senza battere la mano sulla testa, in segno di dolore) ma, al gesto, si associa anche una distintiva postura delle gambe e del busto: si tratta dei soggetti sdraiati o semisdraiati con una gamba piegata e il braccio rivolto indietro a circondare la testa. Lo schema iconograico, difatti, non è un gesto, ma una peculiare disposizione delle membra del corpo, considerate nel loro insieme (Catoni 2005, 1-7, 71-78): ovvero, una vera e proprio Pathosformel. In secondo luogo l’analisi della Sismondo-Ridgway non prende in considerazione soggetti quali i simposiasti e gli amanti, che sfuggono vistosamente alla categorizzazione proposta: l’attestazione di simposiasti in questa posa viene annotata ma non discussa dall’autrice (Sismondo-Ridgway 1974, 10 n. 59), mentre i soggetti erotici non vengono afatto menzionati. In contrasto con la Ridgway si pone Claudio Franzoni, autore di un lavoro che si ripropone di stabilire una tassonomia degli schemata dell’arte classica a partire dalla disposizione delle singole parti del corpo (Franzoni 2006). Anche Franzoni considera il gesto del braccio come caratteristica unica e connotante dello schema e inserisce le Amazzoni ferite e l’Apollo Liceo nella medesima categoria del ‘tipo Endimione’ ma, a diferenza della Ridgway, sostiene che non vi sia una variazione diacronica nel contenuto emotivo della posa: lo studioso italiano è persuaso che essa non veicoli afatto uno speciico pathos, ma ne comunichi piuttosto l’intensità. Perviene dunque alla conclusione che esso caratterizzi i soggetti che vengono soprafatti da un pathos, sia di tipo positivo – come l’amore e il vino – che di tipo negativo – come il dolore o la morte (Franzoni 2006, 160161). Nel merito dell’analisi che stiamo qui proponendo, il concetto di “abbandono” suggerito da Franzoni al termine del suo studio pare prezioso e molto convincente, anche se la galleria iconograica qui presentata depone a favore della variabilità diacronica del messaggio veicolato dallo schema ‘tipo Endimione’. Per tracciare una prima conclusione di questi “appunti per una galleria iconograica” possiamo afermare che gli esempi riportati hanno evidenziato che la posa recumbente con un braccio intorno al capo nasce originariamente per la rappresentazione dei morti e degli agonizzanti, ma si applica ben presto ad altri soggetti, apparentemente eterogenei: i dormienti, i simposiasti e gli amanti. Della contiguità di questi concetti ci La Rivista di Engramma • 122 | 46 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo sono testimoni le fonti letterarie antiche: hanatos e Hypnos, considerati fratelli sia nei poemi omerici (Hom. Il. XIV 231 ; XVI 671-682) che nella Teogonia di Esiodo (Hes. h. 211-213), nella narrazione epica condividono i medesimi epiteti formulari (—ƴƾƴƽǍǃ cfr. Dee 2002 s.v. ‫›ܨ‬ƿǁǃ B10, s.v. ƻƯƿƴDžǁǃ B9). La morte, inoltre, q talvolta connotata come “sonno bronzeoµ (LjƯƾƽƸǁǃ ‫›ܬ‬ƿǁǃ cfr. Dee 2002 s.v. ‫›ܨ‬ƿǁǃ B17) e Hypnos viene deinito nell·epos “colui che tutto vinceµ (›ƴƿƷƴ—ƯDžNJǂ Hom. Il. II 5; Od. IX 360), attributo che viene utilizzato anche in relazione alla morte nell’Antologia Palatina (Anth. Gr. XVI 213). L’ubriachezza, dal canto suo, viene assimilata da Aristotele al sonno e alla follia perché tutte queste condizioni causano una diminuzione delle facoltà razionali (Arist. Eth. Nic. 1146 b 31-1147 b 19). Anche Eros, inine, q accostato a Hypnos dall·epiteto “colui che scioglie le membraµ (ƾdžDŽƼ—ưƾƺǃ), utilizzato nell·epica per descrivere il sonno (cfr. Dee 2002 s.v. ‫›ܨ‬ƿǁǃ A1) e nella lirica per indicare il piacere sensuale (cfr. Sapph. Fr. 137; Archil. Fr. 118). Le fonti letterarie e iconograiche sembrano, dunque, concordare sulla convergenza di nozioni apparentemente dissimili come sonno, morte, ubriachezza e piacere sensuale. La condizione umana espressa dallo schema “di Endimione” è dunque uno stato percettivo che accomuna tutte queste categorie di soggetti, che nel loro insieme si può dire raigurino uno stato alterato della coscienza. I morenti perdono deinitivamente ogni facoltà isica e psicologica, i dormienti si trovano in un momento di sospensione della ragione, i simposiasti hanno rinunciato a un certo grado di lucidità intellettuale in cambio di un maggiore slancio immaginativo ed emotivo, le capacità razionali degli amanti sono dissolte da Eros nel momento del piacere. L’alterazione della coscienza razionale, tuttavia, rende il soggetto inattivo e provoca anche un drastico calo delle capacità difensive: il gesto del braccio che circonda la testa rende esplicita la vulnerabilità della igura, esponendo letteralmente il ianco all’attacco degli avversari. In età ellenistico-romana il contenuto della posa inizierà a includere una certa componente voyeristica: lo schema “di Endimione” verrà usato per rappresentare giovani seminudi addormentati di ambo i sessi, amanti di divinità. La perdita del controllo su sé stessi e la vulnerabilità dipenderanno, in questo caso, da una condizione emotiva, dal vulnus d’amore che rende i soggetti inermi, tanto più nella disparità tra il polo umano e quello divino della coppia. La Rivista di Engramma • 122 | 47 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo In epoca tardo-antica il tema dello sbilanciamento tra l’uomo e Dio verrà riproposto nei monumenti cristiani per l’iconograia di Giona, addormentato sotto il ricino alle porte di Ninive [ig. 26]. Intorno al VI secolo d.C. tuttavia le attestazioni di questo schema si aievoliscono sino a scomparire, ed esso rimane quiescente per circa otto secoli. Sarà il Rinascimento a riesumare questa posa, grazie all’imitazione dei monumenti antichi che vengono man mano riscoperti: non a caso il pathos sotteso alla ripresa moderna dello schema ‘di Endimione’ ricalca quello di età ellenistico-romana, ossia la combinazione di sonno e voyerismo [cfr. ig. 27]. Vengono tuttavia perse quasi del tutto le nozioni di vulnerabilità e di incoscienza, che facevano parte del nucleo semantico originario. Da sinistra a destra: ig. 26 | Giona addormentato sotto il ricino, particolare da sarcofago, ine del III secolo a.C. Roma, Santa Maria Antiqua al Foro Romano; ig. 27 | Il Baccanale degli Andrii, Tiziano. 1523-1526. Madrid, Museo del Prado. La Rivista di Engramma • 122 | 48 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Galleria Anceo sotto il cinghiale Calidonio. Particolare del Vaso François. 570 a.C. da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Inv. 4209. Cadavere di Cicno. Oinochoe attico a igure nere di Lydos. 540 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. F 1732. Ilioupersis. Anfora attica a igure nere di Lydos. 550-540 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. F 1685. La Rivista di Engramma • 122 | 49 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Gigante atterrato. Particolare dalla Gigantomachia del fregio settentrionale del Tesoro dei Sifni a Deli, 525 a.C. Deli, Museo Archeologico. Polifemo addormentato. Skyphos beota a igure nere della bottega del Pittore di Teseo. 520 a.C. Berlino, Antikensammlung, Inv. V. I. 3283. Simposiasti. Stamnos attico a igure rosse di Smikros. 510-500 a.C. Bruxelles, Musées Royaux, Inv. A 717. La Rivista di Engramma • 122 | 50 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Corpo di Sarpedonte sollevato da Hypnos e hanatos. Kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes. 510-500 a.C. da Vulci. Londra, British Museum, Inv. E 12. Alcioneo addormentato. Kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes. 510 a.C. da Vulci. Melbourne, National Gallery Victoria, Inv. 1730.4. Fellatio. Kylix attica a igure rosse del Pittore di Nikosthenes. 520 a.C. da Vulci (dono di E. P. Warren). Boston, Museum of Fine Arts, Inv. 95. 61. Simposio. Kylix attica a igure rosse del Pittore di Trittolemo. 480-470 a.C. da Vulci. Berlino, Antikensammlung, Inv. 2298. La Rivista di Engramma • 122 | 51 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Simposio. Kylix attica o beota a igure rosse. 470 -460 a.C. Londra, British Museum, 1895,1027.2 Alcioneo addormentato. Kylix attica a igure rosse di Pinthias. 525-500 a.C. da Vulci. Monaco, Staatliche Antikensammlungen, Inv. 2590. Cadavere di Aiace. Tondo di kylix attica a igure rosse del Pittore di Brygos. 490 a.C. Malibu, Paul Getty Museum, Inv. 86 AE 286. La Rivista di Engramma • 122 | 52 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Cadavere di Aiace. Tondo di kylix attica a igure rosse del Pittore di Brygos. 490 a.C. Malibu, Paul Getty Museum, Inv. 86 AE 286. Oreste presso l’omphalos ed Erinni addormentate, particolare da cratere apulo tipo Gnathia del Pittore di Konnakis. 360-350 a.C. da Ruvo di Puglia. San Pietroburgo, Ermitage, Inv. B1743. Guerrieri Traci uccisi, particolare da situla apula a igure rosse del Pittore di Licurgo. 355-345 a.C. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico, Inv. 81863 (H2910). La Rivista di Engramma • 122 | 53 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Mnesterofonia, cratere campano del Pittore di Issione. 340-320 a.C. Da Capua? Parigi, Musée du Louvre, Inv. CA 7124. Arianna addormentata, marmo, copia romana da un originale greco di II secolo a.C. Roma, Musei Vaticani, Inv. 548. Endimione addormentato, marmo, copia romana di un originale greco di II secolo a.C. Londra, British Museum, Inv. 1567 (già Townley Collection). Guerriero morente, particolare dal Sarcofago di Alessandro. Marmo, ca. 310 a.C. da Sidone. Istanbul, Museo Archeologico, Inv. 370. La Rivista di Engramma • 122 | 54 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Guerriero morente, particolare dal Sarcofago di Alessandro. Marmo, ca. 310 a.C. da Sidone. Istanbul, Museo Archeologico, Inv. 370. Dioniso, particolare dal Cratere di Derveni, bronzo dorato, ca. 330 a.C. da Derveni. Salonicco, Museo Archeologico, Inv. Derveni B1. Endimione addormentato, particolare da sarcofago, III secolo d.C. New York, Metropolitan Museum of Art, Inv. 47.100.4a b (già Warwick Castle). La Rivista di Engramma • 122 | 55 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo Arianna addormentata e corteo dionisiaco, sarcofago, ine II secolo d.C. Baltimora, Walters Art Gallery, Inv. 23.37. Rea Silvia addormentata e Marte, sarcofago, IIIII secolo d.C. Roma, Palazzo Mattei, Inv. 61. Giona addormentato sotto il ricino, particolare da sarcofago, ine del III secolo a.C. Roma, Santa Maria Antiqua al Foro Romano. Il Baccanale degli Andrii, Tiziano. 1523-1526. Madrid, Museo del Prado. La Rivista di Engramma • 122 | 56 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Appunti per un’analisi dello SCHEMA di Endimione in ambito greco-ellenistico Maria Emanuela Oddo English abstract Endymion – a beautiful shepherd loved by the goddess Selene, who made him sleep forever to preserve him from oldness and death – has always been considered the prototype of sleeping beauty. One of the most represented subjects in roman art, he is often shown in the same posture: laying on a rock, he sleeps with a knee slightly bent and an arm around his head. his iconographical schema is also used to represent other handsome human lovers of divinities, such as Ariadne or Rea Silvia. hough this posture is mostly known for sleeping beauties’ representations, it has a long lasting history, which goes back to the irst quarter of the 6th century B.C. and prosecute to the present day. he aim of this work is to trace the evolution of this schema through Greek art: by means of an image gallery I will show that in ancient times this posture was used to represent not only beautiful sleeping heroes, but also dead bodies, banqueting igures and lovers. Bibliografia Baggio 2004 M. Baggio, I gesti della seduzione: tracce di comunicazione non-verbale nella ceramica greca tra VI e IV secolo a.C., Roma 2004. Bianchi Bandinelli 1974 -1975 R. 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Per l’uomo della strada, insomma, Adone è semplicemente… un adone: il personaggio del mito, giunto a noi attraverso così tante e varie incarnazioni poetiche e igurative, tende a sparire dietro la preziosa antonomasia, da lungo tempo lessicalizzata, con cui l’italiano e altre lingue europee designano ogni ragazzo molto bello1. Se scaviamo appena oltre, vediamo che a questa bellezza si associano connotazioni disparate, se non contraddittorie: per alcuni, l’avvenenza di Adone è sinonimo di leggiadria efeminata e leziosa, e rimanda a un esausto repertorio classicistico o addirittura accosta il personaggio all’ideale pederotico2; per altri, al contrario, Adone è invece l’emblema di una bellezza maschile muscolosa e compiaciuta, fatta di palestra e di unguenti, che si realizza in una costruzione statuaria tanto perfetta quanto inaccessibile3. La Rivista di Engramma • 122 | 61 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I limiti dell’amore. Presentazione del libro ADONE. VARIAZIONI SUL MITO, Venezia 2014 Alessandro Grilli Com’è possibile che da uno stesso personaggio del mito procedano associazioni di idee così diverse, così contraddittorie? Per capirlo, è necessario tener conto di alcuni aspetti peculiari della igura mitica di Adone, e della sua frastagliata fortuna nelle culture antiche e moderne. Il dato senz’altro più importante è la frammentazione dei punti di irraggiamento: a diferenza di quanto succede per alcuni miti, soprattutto tragici, che possono contare su archetipi letterari di grandezza incontrastata (si pensi a Edipo o a Medea e alla loro dipendenza dai capolavori di Sofocle e di Euripide), in dall’antichità il mito di Adone non si cristallizza intorno a un modello poetico unico o comunque predominante. Questa peculiarità determina uno sviluppo disomogeneo della tradizione, che, pur muovendo da testi letterari anche importanti, lascia comunque ampio margine ad altri spunti disparati, che vanno dal trattato mitograico al dialogo ilosoico, dalla concreta prassi rituale al metadiscorso degli allegoristi. Questo fa di Adone una igura sospesa tra religione e poesia, tra mito e occasione festiva, e la tradizione adonia si conigura di conseguenza come un percorso tra i più complessi e tortuosi dell’intera mitologia greco-latina, con precedenti mediorientali (a partire dal III millennio a.C.) e propaggini che attraversano, dopo quella classica, tutte le culture dell’Occidente. Nel corso di una disseminazione così ampia e variegata Adone assume molti aspetti, ma curiosamente, a ogni tappa, sembra spogliarsi di qualche tratto speciico, inché di tutta la sua complessità primitiva resta, nella tradizione più recente, solo la bellezza, una bellezza tanto perfetta quanto vuota. «Adone, Adone, Adone»: così culmina, in un poema drammatico di Marcello Macedonio pubblicato nel 1614, lo strazio di Venere alla morte del ragazzo; ed è a mio parere proprio questo verso, un verso che siamo incerti ino in fondo se considerare pedestre o sublime, a esprimere nel modo più icastico la natura proiettiva, ecolalica, autoreferenziale del personaggio e della sua forma. L’Adone che la tradizione lascia giungere ino a noi è essenzialmente un vacuum, un’assenza, un silenzio («ma tu già taci Adone», lamentava appunto la Venere di Macedonio), un oggetto indeterminato del desiderio che ogni contesto culturale può risemantizzare di volta in volta a suo arbitrio. La Rivista di Engramma • 122 | 62 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I limiti dell’amore. Presentazione del libro ADONE. VARIAZIONI SUL MITO, Venezia 2014 Alessandro Grilli Non è un caso che, nelle principali versioni antiche del mito, Adone non parli mai: di lui non ci giungono le parole, e non solo perché per un buon tratto della vicenda a lui tocca la parte del morto, ma perché anche nel resto del tempo lo sospinge ai margini della scena la presenza molto più ingombrante della dea. Nelle Metamorfosi, ad esempio, Venere lo travolge sotto un mare di racconti, afabulazioni, consigli, e le parole del ragazzo non vengono nemmeno registrate, compresse in un’unica domanda: alla menzione dell’odio che oppone la dea alle bestie feroci, Adone «le chiede perché» (Quae causa roganti, v. 552), e quella richiesta, riportata per di più solo in forma indiretta, rimane l’unico suo contributo discorsivo registrato dall’autore. Anche quando i poeti moderni capovolgeranno la versione ovidiana del mito facendo di Adone un ragazzo la cui vita si rinnova ciclicamente, come il Keats nel II libro dell’Endymion (vv. 387-587), la rappresentazione del giovinetto sarà comunque muta: lì Adone si sveglia tra i iori, si stiracchia, sbadiglia, si mostra nella sua impareggiabile bellezza, ma sta zitto – mentre un amorino e poi Venere esaudiranno con dettagliatissimi ragguagli ogni curiosità di Endimione, che ha appena assistito allo spettacolo. Del resto che Adone non parli mai, o quasi, non è poi così incomprensibile, se si pensa che le uniche parole che la più antica tradizione letteraria gli attribuisce sono tre versi della poetessa Prassilla di Sicione4, in cui si immagina che Adone risponda ai morti che lo accolgono nell’oltretomba chiedendogli cosa rimpianga di più del mondo di sopra: La cosa più bella che lascio è la luce del sole, La seconda le stelle splendenti e il volto della luna E poi i meloni maturi, e le mele e le pere5. Non proprio una risposta memorabile… O meglio: memorabile sì, ma per la sua spiazzante ingenuità (si ricordi che il ragazzo era appena uscito dal letto di Afrodite…). E infatti queste parole ci sono tramandate non da un ammiratore di Prassilla, bensì da un raccoglitore di proverbi che cerca di spiegare l’origine di un modo di dire apparentemente ancora in uso in epoca bizantina: «più stupido dell’Adone di Prassilla»6. Insomma, per quanto si possano trovare giustiicazioni simboliche per quella singolare afermazione, sembra proprio che Adone sia solo un antecedente maschile La Rivista di Engramma • 122 | 63 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I limiti dell’amore. Presentazione del libro ADONE. VARIAZIONI SUL MITO, Venezia 2014 Alessandro Grilli di Jessica Rabbit, un corpo sommamente desiderabile senza (diciamo così…) una personalità troppo determinata. Molta di questa indeterminatezza, lo si può agevolmente dimostrare, è un rilesso della natura ideale e universale della bellezza adonia, e della sua posizione inerzialmente oggettuale, che la connota, di necessità, come uno spazio vuoto: la bellezza di Adone è quella che, di volta in volta, ogni epoca o ogni gruppo culturale sono disposti ad attribuirgli; meno tratti salienti marcano il personaggio, dunque, meglio è. Ma uno sguardo alla tradizione antica del mito – una tradizione che comunque si dispiega lungo un arco di molti secoli – permette forse di capire meglio quali rinunce abbia comportato cristallizzare la bellezza assoluta in un emblema, e soprattutto quali ampiezze di signiicato sottenda l’apparente stabilità semantica di quell’emblema. note 1 A un’analisi della igura di Adone come canone di bellezza corporea è dedicata la prima parte di un importante studio generale sulla bellezza: W. Menninghaus, Das Versprechen der Schönheit, Frankfurt/M., Suhrkamp, 2003, pp. 13-65. Una discussione critica delle tesi tutt’altro che convincenti di Menninghaus si trova nella mia recente monograia sulla fortuna del mito di Venere e Adone nella cultura europea: A. Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Milano-Udine, Mimesis, 2012, in particolare pp. 13-22. 2 Una tendenza piuttosto rara nei testi protomoderni (presente ad esempio nelle Stanze nella Favola di Adone, di Lodovico Dolce, pubblicate nel 1545), ma più frequente a partire dall’immaginario del decadentismo (un esempio emblematico, dei molti possibili, è una raccolta di liriche del conte Jacques d’Adelswärd-Fersen (L’Hymnaire d’Adonis: à la façon de M. le marquis de Sade, Paris, Vanier, 1902), che uno scandalo pederotico spinse a trasferirsi da Parigi a Capri pochi anni dopo la pubblicazione del volume. La valenza omoerotica di Adone prevale invece decisamente nel XX secolo, anche se non sempre in relazione a ideali pederastici (si vedano ad esempio la raccolta di liriche di Marc Almond, he Angel of Death in the Adonis Lounge, London, Gay Men’s Press, 1988). 3 Questa visione del personaggio forza in modo lampante la documentazione antica, che attesta un Adone talora sì valoroso (ad esempio nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli), ma pur sempre di bellezza efebica. Viceversa la cultura popolare novecentesca tende a immaginare Adone come amante di Venere, dunque bello e desiderabile, senza desumere i tratti di questa bellezza dalle indicazioni pur esplicite nelle testimonianze classiche. Ecco perché quando gli psichiatri Harrison, Phillips e Olivardia si sforzano di introdurre una nuova etichetta per deinire la dipendenza da anabolizzanti propria dei culturisti scelgono di chiamare il disturbo «complesso di Adone», ignari del rapporto semmai di antagonismo che sussiste tra la bellezza adonia e la corporatura erculea (sull’opposizione Adone/Eracle si veda in particolare P. Berrettoni, Il maschio al bivio, Torino, Bollati Boringhieri, 2007). La Rivista di Engramma • 122 | 64 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 I limiti dell’amore. Presentazione del libro ADONE. VARIAZIONI SUL MITO, Venezia 2014 Alessandro Grilli 4 Vissuta nel V sec. a.C.; i versi provengono da un Inno in onore di Adone, fr. 1 Page. 5 Ove non diversamente indicato, sono mie le traduzioni dei testi non compresi nella presente antologia. 6 Zenobio, Centurie 4.21, 1.89 Leutsch-Schneidewin. English abstract From its remote Near-Eastern origins to the present, the Adonis myth has assumed an extraordinary variety of meanings. Yet, in the course of its long history, spanning several millennia and a number of civilizations, the young lover of the great Goddess lost most of his peculiar traits to become a standard symbol of male beauty. Adonis’ beauty is weak and frail: its feminine nature, along with its perfection, easily makes it synonymous with lack of determination, therefore with inefable emptiness. In modern Western civilization this perfect, spotless, unmarked beauty is a hallmark of unfulilled love – its openness to continual resemantization an expression of the asymptotic curve of desire. La Rivista di Engramma • 122 | 65 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella addormentata Lettura di Maleficent (USA 2014) Monica Centanni e Stefania Rimini Il cinema non smette di rovistare tra soitte segrete di castelli incantati. Soltanto negli ultimi due anni ben quattro sono state le traduzioni ilmiche della iaba della Bella addormentata nel bosco, nelle varianti di Biancaneve o di Aurora/Rosaspina: le due interessanti, anche se non memorabili, versioni con Charlize heron e Julia Roberts nelle vesti della ammaliante ‘matrigna cattiva’ – Snow White and the Huntsman (GB 2012, di Rupert Sanders); Mirror Mirror (USA 2012, di Tarsem Singh) – alle quali si aiancano due declinazioni più colte e rainate: Blancanieves (ES, FR 2012, di Pablo Berger) e ora Maleficent (USA 2014, di Robert Stromberg). Blancanieves è un prezioso esercizio di retorica visuale, che mette in campo uno stile graiante, ricco di orpelli. La vicenda viene ambientata nell’Andalusia degli Anni Trenta, e immersa nella temperie surrealista; l’eccedenza dello sguardo avanguardista si coglie nei dettagli, negli scorci, e soprattutto nell’audacia di certe coloriture tematiche. Blancanieves è un ilm muto, in cui l’immaginario della iaba dei Grimm viene rivisto alla luce di un preciso orizzonte di senso: “Il patrimonio visionario dell’iconograia La Rivista di Engramma • 122 | 66 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella Addormentata Monica Centanni e Stefania Rimini martirologica del Barocco spagnolo, turgido e sovraccarico, grottesco come un inferno medievale” (Marelli 2013, 33). Lo slittamento dell’ambientazione produce una serie di irriverenti colpi di scena, fra cui la trasformazione dei sette nani in una compagnia di chartolada, mentre il inale sembra escludere il lieto ine: la fanciulla addormentata, esibita nella sua bara di cristallo ai baci degli sconosciuti, diviene “orribile attrazione di uno sgarrupato circo Barnum” (Marelli 2013, 34). Con Maleficent, invece, la riscrittura disneyana vira decisamente verso il registro di un’epopea fantasy, con qualche coloritura burtoniana, e spinge al massimo grado di intensità le nuances nero-gotiche già presenti nella precedente versione Disney del 1959. La lettura che ne diamo qui tiene conto del particolare gioco drammaturgico cui è sottoposto il plot della iaba – dal quale scaturisce una inversione assiale del discorso, con la ribalta della strega Maleica, e una lieve sfumatura gender della storia. (Ri)cucire il mito “Lasciate che di nuovo vi narri una vecchia storia e si vedrà quanto bene la conosciate”: stanno ancora silando i titoli di testa, che oltre alla funzione primaria di servizio hanno il compito di riallacciare visivamente, attraverso il logo graico del castello incantato, la nuova edizione della iaba (Disney 2014) all’animazione Sleeping Beauty dei “Grandi Classici” (Disney 1959), e la prima battuta della voce narrante fornisce una chiave importante per apprezzare la soisticata operazione di montaggio e riscrittura che Maleficent propone. Si tratta di una vera e propria drammaturgia del mito che rispetta il primo proilo di riconoscimento dei caratteri – il Re, la Regina, la bellissima Principessa, il Principe, la Fata malvagia – come pure i punti di snodo fondamentali del racconto – la maledizione mortifera come dono battesimale; l’età iniziatica dei sedici anni; il fuso; l’incantesimo del sonno come morte-in-vita; il risveglio possibile solo grazie a un “bacio del vero amore”. Rigorosamente rispettati sono, in particolare, nomi e strutture narrative della prima versione Disney – il Re ‘Stefano’, la Principessa ‘Aurora’, il Principe ‘Filippo’, la Fata ‘Maleica’ – poiché, come si è visto, ino a partire dai titoli di testa, lo spettatore è richiamato proprio a quel, a lui ben noto, antecedente. Le stesse tre fatine inette e pasticcione – Flora Fauna Serenella (Flora Fauna Merryweather) nella versione 1959, ora Giuggiola Verdelia Flittle (histlewit Knotgrass Flittle) – sono ancora vestite di rosso, di verde e di azzurro, con una marcatura del loro habitus La Rivista di Engramma • 122 | 67 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella Addormentata Monica Centanni e Stefania Rimini da zie rugose e inzitellite, e del loro animus piccino, non innocentemente egoista. Ma pur nella, ribadita e insistita, continuità con la versione precedente, senza ricorrere alla scorciatoia di smentire passaggi e dettagli cruciali del racconto, la fabula è sottoposta a una torsione mitograica: la manipolazione che agisce sulla postura emozionale, sulla declinazione del pathos dei personaggi. Perché se Maleica non è stata, da sempre, malvagia; se il viraggio al male del suo potere è causato dal trauma di un amore tradito e di una crudelissima violenza subita; e se l’animo di Maleica muta nel corso del racconto e il suo cuore, pieno di dolore e di vendetta, si addolcisce vegliando l’infanzia della bellissima Aurora; se Maleica si fa incantare dalla grazia che lei stessa ha dato in dono alla principessa; se Maleica nel corso della storia diventa la vera ‘fata madrina’, che qualsiasi cosa darebbe per ritirare la sua stessa, irrevocabile, maledizione – ecco che senza che nessun personaggio, nessuno snodo narrativo cambi, tutta la storia cambia. I personaggi inscenano un diverso teatro delle passioni, in cui Maleica primeggia per essere, insieme, ‘l’eroina’ e ‘la cattiva’ (come recita nelle ultime battute la voce narrante). Imprimere una diversa torsione alla materia mitica: è lo stesso dispositivo messo in atto dai fondatori del teatro, i tragediograi greci, rispetto al repertorio del mito. Lasciare più o meno intatti i nomi e il nucleo della trama mitica, ma far accadere in scena, in un modo del tutto diverso dall’atteso, la storia. Tutti sappiamo la storia di Agamennone, ucciso al ritorno da Troia – ma io (Eschilo) te la racconto in questo modo, in cui l’evento del regicidio è confermato ma l’assassino non è Egisto, ma Clitemnestra. Tutti sappiamo la storia di Medea – ma io (Euripide) te la racconto in questo modo, e la mia Medea compie la sua più radicale vendetta, uccidendo i suoi bambini. Tutti sappiamo la storia di Edipo – ma io (Sofocle) ti racconto che c’era la peste, e che lui non sapeva che Giocasta era sua madre, né di aver ucciso Laio, suo padre. Il dispositivo ingenera nello spettatore un doppio interesse, una doppia empatia: la rammemorazione (confortante) della “vecchia iaba”, e la sorpresa (spaesante e intrigante) di scoprire (ovvero di vedere inventati) retroscena inediti della storia che si crede di sapere. Nell’occhio della strega La potenza attanziale di Maleica emerge con forza in dalle prime inquadrature in cui compare Angelina Jolie: gli zigomi sporgenti, resi La Rivista di Engramma • 122 | 68 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella Addormentata Monica Centanni e Stefania Rimini taglienti dal trucco e dagli efetti speciali; lo sguardo profondo e magnetico; le corna incurvate e minacciose (citazione del proilo della Maleica di cartone del ilm Disney 1959), il mantello indossato, volteggiato, con sovrana grazia. Maleica è autorevole e potente, il suo carattere è iero e aperto. La superba bellezza – wide-awake Beauty – dell’attrice incarna in modo esemplare la complessa ambiguità del personaggio, le intermittenze di un destino che le impone severità e rigore, non senza lasciare spazio a squarci di profonda emozione. La sua malvagità è l’esito di una brutale amputazione, un colpo inferto a tradimento dal giovane Stefano, che era stato il primo “umano” conosciuto dalla fata potente quand’era bambina, il primo a farle vibrare il forte cuore, diventato poi per avidità di potere il pretendente al trono dell’altro regno, disposto a qualsiasi atrocità per conquistarlo. Stefano, approittando di un momento in cui la vigile presenza della fata dorme, illanguidita da amore – l’unico momento in cui è ‘bella addormentata’ – le risparmia la vita, ma la priva delle sue ali, quelle nere, forti ali “talmente grandi da farmi da strascico… che non hanno mai ceduto, neppure una volta. Mi idavo di loro”. L’oltraggio isico, la menomazione delle ali che erano l’organo e il simbolo della sua magia (“non è vero che tutte le creature magiche hanno le ali?”), si accompagna così al trauma della più violenta e cocente delusione d’amore. La ferocia della castrazione, oltre a suggerire piste ermeneutiche di impronta psicanalitica (che non seguiremo perché decisamente esplicite), determina la brusca inversione emotiva di Maleica e la conseguente conversione al male della sua potenza, ma nello stesso tempo rivela la resistenza del suo soma. Nonostante lo scandalo della ferita, il suo corpo di donna si ricompone, risorge, sublima l’impotenza del volo attraverso la igura ancillare di Fosco, ragazzo-uccello asservito alla causa della vendetta. L’aerea mobilità della fata in nero cede il posto a un passo lento ma perentorio, a una postura statuaria (ancorché assistita da un bastone). Al centro della scena è l’embodiment della malvagità nella carne, nel volto, nello sguardo dell’attrice, che domina sull’intera narrazione, mentre le ali perdute, isiche membra della sua libertà di azione, sono diventate un oscuro tesoro-feticcio, custodito in una teca nel cuore nero del palazzo del re Stefano – un re-Saturno tristo e ingrigito – inché Aurora, con gesto salviico, non sceglierà di restituirle a Maleica per propiziare la vittoria della sua ‘madrina’ sul padre malvagio. Pur con qualche ingenuità e qualche scorciatoia narrativa (l’incantesimo del sonno dura un attimo, prima dell’inevitabile, ma non scontato, bacio La Rivista di Engramma • 122 | 69 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella Addormentata Monica Centanni e Stefania Rimini risolutorio), la struttura portante del racconto sviluppa un incrocio eicace tra la persistenza dell’occhio di Maleica (sono davvero numerose le inquadrature in cui la protagonista è ripresa mentre guarda ciò che accade, in disparte ma mai fuori campo) e la voice of, che lo spettatore crede di poter attribuire a Maleica, salvo poi scoprire, negli ultimi istanti del ilm, che è Aurora a narrare la storia, per una sorta di conquistata onniscienza, lei che alla ine è ridiventata la Signora dei regni riuniti. Si tratta di uno slittamento fondamentale per cogliere la novità della riscrittura: solo apparentemente la Bella addormentata è posta ai margini del quadro, ‘schiacciata’ dalla (pre) potenza di Maleica; in realtà è il suo punto di vista (o meglio il suo ‘punto di voce’) a essere declinato, a scandire gli snodi della fabula. La rivelazione inale consente di riallineare il destino della fanciulla alla luce di una consapevolezza tutta femminile, che pare escludere gli uomini dall’esercizio del bene e coninarli dentro l’ossessiva coazione ai giochi di guerra, giochi al massacro. Lo sguardo di Maleica e la voce di Aurora costruiscono uno schema narrativo circolare, che avvolge i personaggi dentro uno spazio eroico che non esclude la cattiveria ma è capace di sublimarla, in virtù di una grazia femminile autenticamente contagiosa. La reciprocità del sentimento di Maleica e Aurora – è la piccola Aurora, non viceversa, che immaga la fata intesa a vegliare malignamente sul suo destino – è il messaggio più interessante dell’opera: la scoperta di un senso di appartenenza che scavalca i legami di sangue costituisce una bella variazione sul tema dell’amore e del materno. Il superamento del binarismo maschile/femminile, con la defaillance del bacio del principe (che, pur ridotto anch’egli allo status di ‘Bell’addormentato’, non riesce a sciogliere l’incantesimo: “Vero amore? La conosco appena, ci siamo visti una sola volta”), e l’innesto di una relazione casta ma potenzialmente ambigua tra la fata e la principessa, spingono il testo verso un modello di female insight, una visione profonda intuitiva e introspettiva che connota tutte le apparizioni di Maleica e Aurora. Non è un caso che ciò avvenga per mano di Linda Woolverton, autrice delle sceneggiature de Il re Leone e Mulan, cartoni animati in cui il tema della famiglia, della libertà e dell’onore vengono rivisti alla luce di nuove declinazioni identitarie: si pensi soprattutto alla vocazione eroica di Mulan, al suo travestimento da soldato, al conlitto con i genitori che avrebbero voluto destinarla a ruoli tradizionalmente femminili, e alla inale accettazione del suo desiderio d’azione. In Maleficent assistiamo alla costruzione di un rapporto sorprendentemente complice tra la vittima predestinata e la carneice, una relazione che ribalta La Rivista di Engramma • 122 | 70 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Per un paio d’ali. Variazioni sul mito della Bella Addormentata Monica Centanni e Stefania Rimini la storia, riscrive il disegno del plot originale mettendo in discussione le tradizionali funzioni della iaba. Il brand Disney non è ancora pronto per i gender troubles, ma forse poco manca. E, a chiudere ad anello con la battuta iniziale, Aurora ci ricorda: “Vedete! La storia non è come la conoscevate e io credo di saperlo, perché sono colei che chiamano la Bella addormentata”. È questo il gioco di memoria del mito e di variazione sul mito che siamo chiamati a giocare. English Abstract In the last two years, the tale of the ‘sleeping Beauty’ has been the subject for four ilm adaptations regarding the main variants of the central character, the princess named either Snow White or Aurora. In 2012 two interesting, although not memorable, versions have been released – the irst one with Charlize heron, the second with Julia Roberts, in the role of the bewitching wicked stepmother – Snow White and the Huntsman (UK, 2012); Mirror Mirror (USA, 2012) – to which other two learned and reined adaptations are now to be added: Blancanieves (ES, FR 2012, by Pablo Berger), and more recently Maleicent (USA 2014, by Robert Stromberg). With Maleicent, Disney Production turns towards the register of an epic fantasy, and brings to the highest intensity the black-Gothic hue already present in the ‘classic’ Disney animation picture (1959). he reading of the movie here suggested by Stefania Rimini and Monica Centanni highlights the dramaturgical twist that the tale has undergone, not in the fabula itself – i.e. in the actual events occurring according to the plot – but in the interpretation of the facts and the characters; the paper draws particular attention to the axial overturn that gives prominence to the witch Maleicent as a leading role, and colors the story with a slight ‘gender’ tinge. he device of this variant in narration generates a double involvement in the viewer, a double empathy: the (comforting) remembrance of the well-known fairy tale, and a (disorienting and intriguing) surprise in discovering (or seeing invented) an unpublished back-story of the tale, that inally is not the one we think we knew so well. La Rivista di Engramma • 122 | 71 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Une indication occulte: La Belle au bois dormant e il balletto in poche parole Stefano Tomassini In this supposed choreographic work there isn’t any sort of plot. It is summed up in a few words: they dance, fall asleep, and dance again. hey wake up and once again start dancing. here is no peripeteia, no development of the plot, no interest to seize the spectator, to force him to follow the play’s action. Peterburgskaya gazeta (5 gennaio 1890) Par la mise en scène de ce ballet, j’ai failli tuer mon entreprise théâtrale à l’étranger. Cette mésaventure me servit de leçon: je vois en elle une indication occulte, car toute notre vie est faite de ces indications, que ce n’est pas mon afaire et qu’il ne m’appartient pas de m’occuper de la reconstitution des triomphes d’antan! Serge Diaghilev La Rivista di Engramma • 122 | 72 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole È stato un dogma del modernismo. Oltre che una grande lezione di metodo: i trioni del passato non si dispiegano nel presente con la facilità dei ritorni. Il calcolo mette sempre in causa, almeno, l’aleatorietà dell’interesse. È questo un rischio capace di vaniicare tutto il proitto della riuscita quando l’impresa commerciale (“la reconstitution”), pur fastosa e prestigiosa, non è più che un’autoreferenziale ricorrenza della lontananza. Il nuovo, invece, ha da dialogare con il nuovo. È stato sempre questo il credo più vero, e ripagante, della ventennale vita creativa dei Ballets Russes (1909-1929), la più inluente e signiicativa compagnia di danza la cui esperienza è all’origine della nascita del balletto moderno (Garafola 1989 e 1998). La disavventura cui allude l’impresario Serge Diaghilev, qui nella seconda citazione d’apertura, ricorre per il revival del balletto La Belle au bois dormant che egli tentò nel 1921 a Londra, a partire dal 2 novembre presso l’Alhambra heatre, con un cast di vero rispetto. Comprendeva, oltre a Olga Spessivtseva (Aurora) e Pierre Vladimirov (Principe), addirittura Carlotta Brianza (1867-1930) nel ruolo della fata Carabosse, quest’ultima già interprete del ruolo di Aurora nella edizione pietroburghese di Marius Petipa per i Teatri imperiali (1890, dal racconto di Perrault, libretto e costumi del marchese Ivan Vsevolozhsky). Col titolo he Sleeping Princess, le coreograie furono aidate a Nikolai Sergeyev, regisseur proveniente dal Marinsky e che provò a ricostruire quelle originali di Petipa secondo le notazioni originali sugli spartiti ch’egli aveva portato con sé: si tratta delle notazioni nel sistema che Vladimir Stepanov, ballerino e pedagogo pietroburghese, ideò e che fu adottato dai Teatri Imperiali al ritiro di Petipa, per conservarne l’eredità e il repertorio. Il trasferimento di questo mateiale in Occidente, da parte di Sergeyev, permise per la prima volta una approfondita conoscenza dell’eredità del balletto imperiale in Occidente; le riprese londinesi di questo repertorio di classici russi da parte di Sergeyev sono all’origine della formazione del repertorio classico del Royal Ballet. E con la collaborazione coreograica di Bronislava Nijinska, appena rientrata dalla Russia, già non più imperiale, per le nuove parti integrate e le variazioni aggiunte. Le scene e i costumi, fastosi e ancóra imperiali, furono di Léon Bakst, e le musiche originali di Tchaikovsky furono orchestrate nelle parti non comprese nella partitura d’orchestra, e integrate in quelle mancanti, addirittura da Igor Stravinski. Tuttavia, l’intera operazione non ebbe un grande successo. E a dispetto delle sue centoquindici repliche, la produzione fu soprattutto un collasso economico. La Rivista di Engramma • 122 | 73 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole In termini culturali, non servì nemmeno a difondere sulle scene musicali europee l’opera di Tchaikovsky: “œuvre si lumineuse”, secondo Stravinski, la cui “écriture franche et sans artiice de sa musique” possedeva il raro dono “de la mélodie” (Igor F. Stravinsky à Diaghilev, Paris, 10 octobre 1921, in Diaghilev 2013, 430). Ma come scrisse Diaghilev, conosciuto e ammirato “trop tard en Europe” (Diaghilev 2013, 47). Troppo tardi, appunto. Alle attrattive aristocratiche della melodia erano già subentrati, nel baricentro dell’Europa di allora, i contrasti e le dissonanze delle masse. Lo si legge, in fondo già profeticamente, nella sorprendente testimonianza della stessa Nijinska: I started my irst work full of protest against myself. I had just come back from Russia in revolution, and after many a production of my own over there, the revival of the Sleeping Princess seemed to me an absurdity, a dropping into the past, mere nonentity (Nijinska 1937, 617). Quella “mera inesistenza” di un ritorno al passato era già l’assurdo prezzo, l’interesse appunto, da pagare per le rivoluzioni sociali e i conlitti armati che altrove avevano iniziato a contagiare il secolo ino poi a devastarlo. Così come l’”indicazione occulta” di cui scrive, più o meno consapevolmente, Diaghilev è forse proprio questa: anche nelle ricostruzioni di un balletto di repertorio, nell’idea di passato ch’esso si porta appresso, non esiste alcuna neutralità politica. Per la storia della Russia postrivoluzionaria, Christina Ezrahi, nel suo libro Swans of the Kremlin: Ballet and Power in Soviet Russia, descrive con precisione questa apertura dei bastioni dell’alta cultura imperiale zarista alle masse sovietiche, in cui però il balletto del vecchio repertorio (l’unico disponibile in epoca di guerra civile) non si trasforma in una esperienza di risveglio della coscienza socialista ma rappresenta soltanto una fuga dagli orrori della realtà rivoluzionaria. Nei primi anni dopo la rivoluzione, gli ex Teatri Imperiali sono spesso sotto minaccia di chiusura, sia perché considerati distanti e irrilevanti per la vita contemporanea e sia perché troppo costosi per il nuovo stato. Ma nel 1922 la loro chiusura risulta meno conveniente di un drastico taglio dei sussidi, e questo mantiene in vita anche la polemica ideologica sulla legittimità della loro sopravvivenza. Nel 1925 Anatoly Lunacharsky, responsabile della cultura, sostiene il ruolo fondamentale del balletto, sia artistico che sociale, nel futuro del socialismo: la preservazione della cultura prerivoluzionaria avrebbe accompagnato e favorito la nascita di una cultura autenticamente proletaria. Ma il controllo ideologico e la missione educativa che prevalsero nelle successive politiche La Rivista di Engramma • 122 | 74 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole culturali già si annivadano nell’inclinazione pluralista, ed essenzialmente religiosa, del credo di Lunacharsky: la cultura del passato, ora rivolta alle masse, si deve preservare come una sorta di training artistico su cui far progredire gli standard tecnici e costruire gli spettacoli di massa del futuro nuovo uomo socialista: “he harmony, precision of ballet movements, the full control over one’s body, the full control over the lively mass – here is the pladge of the great role that ballet can have in the organization of such performances” (cit. in Ezrahi 2012, 28). L’educazione delle masse attraverso la civilizzazione del passato passa così attraverso le insidie ideologiche della futura propaganda che ritrova nel balletto le armi per un nuovo disciplinamento. Con la campagna del 1936 contro ogni formalismo, su tutti Svetlyi rechei (he Bright Stream o he Limpid Stream) di Fyodr Lopukhov e Dmitri Shostakovich, il balletto diventa un ‘apprendista’ del dramma, e come risultato della negoziazione con l’estetica del socialismo reale nasce il genere del dramaticheskii balet o dramabalet: “During the era of drambalet, which lasted from the mid-1930s until the cultural haw in the 1950s, full-lenght narrative ballets became the only acceptable type of ballet production” (Ezrahi 2012, 32). La Rivista di Engramma • 122 | 75 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole La richiesta, dunque, di contenuto drammatico nel balletto socialista, con largo spazio ai valori di propaganda sociale ed educativa, sembrerebbe arginare ogni interesse per un racconto, invece, fantastico e d’evasione come quello proposto da La Belle au bois dorment. Eppure, dopo “the inal imperial production” del 1914, la prima produzione sovietica di Sleeping Beauty curata da Lopukhov è già del 1922, e rappresenta “an attempt to reinstate that legacy as Russia’s civil war ended and the new administration solidiied its power” (Scholl 2004, 103). Tim Scholl, nel suo fondamentale studio Sleeping Beauty, a Legend in Progress esamina il ruolo fondamentale di questo balletto nel plasmare la storia della danza russa e poi sovietica nel corso di un intero secolo, e come la stessa evoluzione di questo balletto sia stata inluenzata dalla storia di questa forma d’arte. A partire dall’edizione del 1890, come riportato dalla recensione citata per prima qui in apertura, la ricezione spesso critica di Sleeping Beauty ha riguardato quattro prevalenti piani: la natura sinfonica della musica, la banalità del plot ottenuto da un racconto per l’infanzia e per di più francese, il lusso e lo splendore ‘eccessivo’ dei costumi e del décor, la scelta di un genere basso (la iaba) e non nazionale per un balletto destinato alle scene dei Teatri Imperiali. Perché l’arte del balletto era considerata ‘cosa’ russa, cemento dell’identità patriottica ed emblema ‘splendente’ della natura gerarchica del potere zarista: “Like the balletomane’s objections to the music for Sleeping Beauty, their criticism of the fairy-plot – and its foreign origins in particular – highlight anxieties concerning the nationalism of the art form” (Scholl 2004, 12). Ma poiché, come abbiamo già visto, la lontananza non ha alcun diritto sulla propaganda quando il ritorno del passato rivela la sua natura politica, anche le riedizioni sovietiche di Sleeping Beauty reinscrivono e insieme conservano la tradizione in tutta la sua mobilità poetica con tutto il suo apparato ideologico, accompagnando di fatto la crescita della nuova burocrazia socialista. Negli anni cinquanta, infatti, alle banalizzazioni pseudorealistiche della danza pantomima che pervade il drambalet alcuni scrittori incominciano a contrapporre “the ability of symphonic music and classical dance to express profound but generalized truths that cannot easily be captured in words” (Scholl 2004, 113). Ecco allora che le ragioni di una danza autonoma, pura, contenuta nell’esile trama di un fairy tale si riafacciano, agli albori della guerra fredda. Si tratta delle riedizioni nel secondo dopoguerra, molto approssimative, date a Mosca nel 1944 e a Leningrado nel 1947. La Rivista di Engramma • 122 | 76 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole Ma soprattutto, poi, con pretese ilologiche meno cursorie anche se non meno confuse come ben dimostra Scholl, nell’edizione del 1952 curata da Konstantin Sergeyev per il Kirov di Leningrado, rimasta poi per tanto tempo esemplare. Ancóra: alla ine degli anni novanta del secolo scorso, quando la voga della cultura prerivoluzionaria riprende voce nella ri-nominata San Pietroburgo, la compagnia di balletto del(l’ex-Kirov) Maryinsky, grazie soprattutto a Sergei Vikharev e Pavel Gershenzon, “decided to reclaim another portion of its history: a reconstruction of the 1890 production of Sleeping Beauty, with sets and costumes built from the original designs and choreography revised from the choreographic notations recorded in the theater a century earlier”, la più parte oggi conservati presso la Harvard heatre Collection (Scholl 2004, VIII). Giustamente Tim Scholl considera i ritorni di questo balletto come esemplari per la conquista dell’autonomia della danza come arte, ma anche per ribadire tutti i tranelli di una identiicazione nazionalista del balletto nella continua rinegoziazione del suo illustre passato, svelandone insieme la più grande contraddizione: “the possibility for a discussion of the revived 1890 production and its merit elicited a brief ritual silence followed by a mass of contradictions” (Scholl 2004, 171). Forse perché di nuovo, insieme al rigore e all’ossequio della ricostruzione converge, ancóra qui, nel 1999, la superstizione di “une indication occulte”: riattivare il passato in tutta la sua documentata (e archiviata) grandezza coincide con la profezia già in atto di una presunta (voluta tale) nuova rinascita politica. La Russia di Putin. Il silenzio di cui scrive Scholl è forse eloquente. E non si potrebbe pretendere miglior inale. Tuttavia, per la danza contemporanea di oggi, afflitta dalle malìe delle (ri)costruzioni storiche, dai ritorni interessati al passato, dall’indistinta sovrapposizione tra verità ilologica e linearità della storia, quando non di baratto del presente, sentito come saturo e immobile, con lo splendore ideale, invece sempre disponibilissimo, del passato, viene forse da chiedersi: ma non è un po’ come credere di mettere al mondo il futuro battendo il ritmo con le mani sullo sterno di un cadavere? La Rivista di Engramma • 122 | 77 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 Stefano Tomassini UNE INDICATION OCCULTE: LA BELLE AU BOIS DORMANT e il balletto in poche parole English abstract he starting point of this review is the failure of Diaghilev to restaging the Imperial Ballet Sleeping Beauty (Petipa, 1890) in London on 1921. In this case, the past it’s not more than a self-referential recurrence of the distance, because there is not a present for the past beyond any political intent. Focusing on two books about the Ballet History in the Soviet and Post-Soviet age, like those of Christina Ezrahi (Swans of the Kremlin, 2012) and Tim Scholl (Sleeping Beauty, a Legend in Progress, 2004), all attempts to reconstruction of he Sleeping Beauty, especially for the 1922, 1952, and 1999 productions, lead always to great contradictions. At the end, the collision of the past with the present in the new and old ballet as an art form engendered a certain speechlessness. Bibliografia Nijinska 1937 Bronislava Nijinska, Relections About the Production of Les Biches and Hamlet in Markova-Dolin Ballets, in «Dancing Times», February 1937. Garafola 1989, 1998 Lynn Garafola, Diaghilev’s Ballets Russes, New York, 1989 e 1998. Scholl 2004 Tim Scholl, Sleeping Beauty, a Legend in Progress, New Haven and London, 2004. Ezrahi 2012 Christina Ezrahi, Swans of the Kremlin: Ballet and Power in Soviet Russia, Pittsburgh, 2012. Diaghilev 2013 Serge Diaghilev, L’art, la musique et la danse. Lettres, écrits, entretiens, édité par J.-M. Nectoux, I. S. Zilberstein et V. A. Samkov, Paris: Centre national de la danse, Institut national d’histoire de l’art, 2013. La Rivista di Engramma • 122 | 78 | dicembre 2014 • isbn 978-88-98260-67-6 pdf realizzato da Associazione Engramma e da Centro studi classicA Iuav progetto graico di Silvia Galasso editing a cura di Francesca Romana Dell’Aglio Venezia • dicembre 2014 www.engramma.org