La rivalutazione del concetto di eros platonico
nell'antropologia filosofica di Max Scheler
(2008)
Da: G. Cusinato, La Totalità incompiuta, Milano 2008,
pp. 159-173.
Cap. 11. La rivoluzione dell’eros come apice del
processo di centricità
11.1. Alcuni spunti antropologici nel Simposio e nel Fedro
Leggendo il Simposio è difficile non rimanere affascinati dal mito dell’uomo
rotondo esposto da Aristofane, quello secondo cui la caratteristica di Eros
consisterebbe nel portare all’eudaimonia e innalzare l’uomo alla divinità
fondendo e integrando il proprio sé con la propria “metà”: in tale unione
erotica l’uomo ritorna momentaneamente in quella condizione originaria in
cui si trovava l’uomo rotondo, una condizione di estrema forza, tanto che
Zeus, preoccupato dalla sua potenza, decise d’indebolirlo dividendolo a metà
con il fulmine. Sembrerebbe che Eros sia atto a innalzare l’uomo fino al divino,
ma se questo viene ottenuto nel completamento di se attraverso la propria
metà mancante, qui s’arriva solo al tentativo di sostituirsi al divino (e ciò
spiega anche la giusta ira di Zeus), dando origine a un processo di
rafforzamento del soggetto. L’intervento di Agatone non cambia la
prospettiva e si limita ad aggiungersi alla lunga serie di luoghi comuni su Eros
che erano stati esposti negli interventi precedenti. È a questo punto che
Platone disorienta facendo entrare in scena, attraverso Socrate, una donna: la
sacerdotessa Diotima. Se relativamente ad Agatone Socrate trionfa senza
159
problemi con la potenza del suo ragionamento, ora è in difficoltà: tutto il
dialogo fra Socrate e Diotima è come un dialogo rovesciato in cui è Socrate a
essere l’allievo che viene preso per mano e liberato gradualmente da errori e
false premesse attraverso la sapienza erotico-filosofica della donna. Sovente
si tende a sminuire questa circostanza partendo dal presupposto che per
Platone il dialogo erotico superiore possa avvenire solo fra due uomini.
Giacché quello fra Socrate e Diotima rappresenta uno dei vertici dei dialoghi
platonici, se ne conclude che quella donna debba essere necessariamente la
maschera per qualcos’altro: un momento autocritico o un espediente per
trasformare quello che altrimenti sarebbe stato un monologo in un dialogo.
Diotima rappresenta probabilmente tutto ciò, ma l’interrogativo del perché
Platone decida di assegnare questo ruolo proprio a una figura femminile non
trova ancora risposta. Se poi Platone ha “rubato” a una donna uno dei
momenti più alti della sua filosofia, perché allora dichiararlo? Il dichiararlo è
già un segno di riconoscimento esplicito.
Il ruolo e l’importanza di Diotima rappresenta un problema per molte
interpretazioni del Simposio: forse è il momento di rimettere in discussione,
più che il ruolo “femminile” di Diotima, queste interpretazioni stesse e il modo
in cui Platone è stato prevalentemente letto nel XX secolo. Essenziale è che le
parole di Diotima introducono nei fatti una sensibilità tutta femminile, la
stessa che sfocia nella metafora centrale del partorire nel bello. Non è
secondario che sia proprio tale nuova sensibilità a superare le durezze
dualistiche del Fedone trasformando l’“imparare a morire” in un “imparare a
vivere”, la filosofia della morte in una filosofia del parto in grado di spostare
l’accento sulla fecondità, sulla nascita, sull’eros. Nei duemila anni successivi
deve essere sembrata musica troppo leggera per le orecchie di filosofi abituati
a infervorarsi solo per arie ben più gravi, inneggianti all’amor mortis e
all’angoscia.
Diotima rappresenta i misteri Eleusiaci, ma è prima di tutto colei che fa
professione del divino, che rappresenta la figura dell’iniziazione e della
purificazione. La violenza della sua critica è un’azione kathartica e autocritica
verso le false premesse del Fedone: quelle che miravano dualisticamente
all’eliminazione del corpo e delle passioni. La zavorra che occorre eliminare
per disporsi ad andare oltre e per potersi incamminare sul suolo sacro, ove
sorge l’oracolo, non è il corpo, ma l’atteggiamento autosufficiente dell’anima,
l’incapacità di fissare e riconoscere i propri limiti. Il “conosci te stesso!” è in
realtà una sfida, un quesito enigmatico la cui soluzione è: “per poter ascoltare
fuori di te, poni un confine e una misura al tuo egocentrismo”.
È su questo punto che Diotima ribalta la posizione dei primi quattro
interventi: Eros non va considerato un moto che rafforza e accresce la propria
identità riducendo l’altro al se stesso, piuttosto è febbre delirante, travaglio
160
rivolto a destabilizzare, trascendere, superare per portare alla luce qualcosa
di nuovo. Se gli interventi precedenti avevano esaltato l’esperienza soggettiva
tesa a divinizzarsi, Diotima rovescia la direzione: Eros non mira più a rafforzare
il soggetto, ma piuttosto a metterlo in crisi. Ciò che accumuna gli interventi
precedenti è la concezione autoreferenziale di Eros espressa dal mito
dell’uomo rotondo: l’idea che fine di Eros sia quello di completare l’ego,
riducendo l’alterità alla “propria metà” che manca, e che in tale
combaciamento si possa toccare con dito la dimensione divina e
autoredimersi.
La definizione di Eros come desiderio di possesso non è che un corollario di
tale senso comune: Eros diventa lo strumento con cui il soggetto s’impone ed
estende il proprio potere sulle cose possedute, ma così facendo non produce
nulla oltre se stesso. Ecco allora intervenire Diotima che purifica dalla sterilità,
per esaltare invece ciò che in Eros fa generare e partorire qualcosa di nuovo:
la fecondità.
Ma come purificarsi dalla sterilità di un’intenzionalità volta al possesso?
Diotima inanella una lunga serie di opposizioni mediate da Eros: brutto e bello,
ignoranza e sapienza, apprendimento e dimenticanza, ma quella centrale si
sviluppa attorno alla definizione di poiesis, si tratta di una delle più precise
analisi di poiesis offerte dai dialoghi platonici: il concetto di poiesis si dice in
molti modi, infatti è ogni tipo di causa che fa passare dall’essere
indeterminato all’essere 1. In altri termini poiesis è tutto ciò che è causa di
generazione.
Ὥσπερ τόδε. οἶσθ' ὅτι ποίησίς ἐστί τι πολύ· ἡ γάρ τοι ἐκ τοῦ μὴ ὄντος εἰς τὸ ὂν
ἰόντι ὁτῳοῦν αἰτία πᾶσά ἐστι [c] ποίησις, ὥστε καὶ αἱ ὑπὸ πάσαις ταῖς τέχναις
ἐργασίαι ποιήσεις εἰσὶ καὶ οἱ τούτων δημιουργοὶ πάντες ποιηταί" (Simposio
205b-c). Di solito "me on" viene tradotto con “non essere”, ma in questo modo si
finisce con l’interpretare Platone nel senso della creatio ex nihilo e, sulla scia di
Heidegger, si arriva ad attribuire a Platone anche la nefasta paternità del
nichilismo occidentale. Com’è noto il concetto platonico me on ricorre in un punto
centrale anche del Sofista e ha dato luogo a interminabili discussioni filologiche.
Per una sintesi della discussione relativamente all’interpretazione del passo del
Sofista rinvio a L. Palumbo, Su alcuni problemi (e alcune soluzioni) relativi al Sofista
di Platone, in: «Bollettino della SFI», 1999 n. 152. Mi discosto dalle usuali
traduzioni rifacendomi all’autorità di Schelling. Se non sbaglio, finora ai filologi di
Platone è sfuggito che all’interpretazione del me on Schelling dedica quattro
pagine nella Darstellung des philosophischen Empirismus: secondo Schelling il
nostro concetto di “nulla” in greco non è reso da "me on", che si riferisce invece
a un essere indeterminato o potenziale, ma da oÙk ×n (Cfr. SW X, 283-286). Sulla
stessa linea anche Paul Tillich distingue fra me on e oÙk ×n nel senso di
161
1
Eros è poiesis, un’equazione decisiva che negli interventi precedenti non
era stata neppure presagita: la filosofia non è noàj poihtikÕj ma œrwj
poihtikÕj. Poiesis è causa del passaggio all’esistenza, nascita, generazione di
qualcosa, ma lo è nel senso dinamico: desiderio di nascita, desiderio di passare
all’esistenza, e si trova in una situazione intermedia analoga a quella attribuita
a Eros mediatore. La definizione di Eros come desiderio del possesso del bene
si trasforma in quella di Eros come desiderio di esistenza. I vari passaggi sono
chiari: Eros in generale è ogni desiderio per le cose buone e per l’eudaimonia
(205d), è tendenza a possedere il bene per sempre, per l’eternità (206a). La
determinazione “temporale” ha qui una connotazione esistenziale: per
possedere il bene per sempre, devo esistere per sempre. Ora così come la
poiesis è ciò che fa passare dall’indeterminato all’esistente, Eros è la tendenza
a rendere irreversibile tale generazione, a rendere irreversibile l’opera della
poiesis. Eros, angosciato dalla morte e dalla possibile reversibilità del
passaggio poietico, è terrorizzato dalla possibilità di ricadere all’indietro nel
non esistente, perciò cerca di bloccare, di rendere eterno, cioè irreversibile, il
corso della poiesis verso l’esistenza e la vita. Tutti i passi successivi sono
finalizzati a questa scena madre della filosofia: alla generazione della vita, al
parto, alla nascita, alla fecondità come antidoto, come pharmakon contro la
morte. Ne consegue l’inadeguatezza della definizione di Eros in termini di
desiderio di possedere per sempre il bene. Diotima dimostra a Socrate che ciò
che ci rende felici, l’accesso alla eudaimonia, non è una situazione statica, il
possesso eterno di qualcosa, ma un’attività creativa, in quanto solo attraverso
un’attività creativa è concesso all’uomo di partecipare all’immortalità. Di
conseguenza Eros non è possesso del bene ma febbre delirante di eternità che
può essere guarita solo dalla generazione nel corpo e nell’anima.
Il parto dell’anima per l’individuo significa creare spazio all’esisten-za,
permettere che la propria esistenza non ricada nella ripetizione, nell’identico,
non scivoli lentamente, ma inesorabilmente verso il nulla, evitare che essa non
lasci il segno, non lasci traccia di sé dopo di sé. Creare esistenza significa una
trasformazione del proprio modo di vivere, la possibilità di costruirsi una nuova
esistenza, di rinascere a vita nuova e camminare nel mondo guardando
attraverso gli occhi della phronesis. È il rinascere nella forma di vivere secondo
areté. Ma tale parto di se stessi è appunto tras-formazione, messa in
discussione. Ritornano in discussione alcuni passaggi del Fedone: per rinascere
a vita nuova, per condurre una vita secondo areté, devo prima purificarmi dal
vivere dormendo, devo prima fare esperienza dell’abbandono e della morte
del vecchio modo di vivere. La poiesis dell’Eros presuppone una fase
Potentialität e reines Nichts (cfr. Systematische Theologie, Stuttgart 1958, Band II,
27).
162
kathartica in cui il soggetto mette in discussione la sua centralità e i suoi
schemi, assume consapevolezza dei propri limiti per determinare uno spazio
fecondativo oltre se stesso.
L’esser gravido e “desideroso” di partorire spinge al contatto con la
bellezza, al bisogno di costruire assieme a individui dal carattere “bello” una
vita o un dialogo che aiutino maieuticamente a partorire, e tale unione crea
legami fra questi individui in un’amicizia, in una famiglia, in una comunità.
L’essere sterile al contrario isola e fa tornare indietro. Se l’interpretazione non
estetica ma ontologica del bello e del brutto nel Simposio avviene in termini
di fertilità e sterilità, nel Fedro avviene in riferimento all’accrescimento o
rimpicciolimento dell’ala 2.
Una metafora che può essere ripensata, nel senso di un’ontologia della
persona, in termini di creatività nell’essere assieme all’altro e volta
all’incremento della sfera dell’intensità esistenziale. Anche in questa
prospettiva bello e brutto diventano i parametri di ciò che migliora o peggiora
l’esistenza umana: il bello che rende fecondi e permette di generare, perché
fa ingrandire e diventare più forti le ali dell’anima, diventa la fecondità come
fioritura degli strati affettivi personali e di conseguenza come capacità di
generare un’esemplarità esistenziale più intensa. Ma qual è il meccanismo che
produce la crescita delle ali e permette l’innalzamento? O in termini
compartecipativi: che cosa consente all’uomo di uscire dalla povertà della
chiusura ambientale? Nel testo platonico la spiegazione dell’ascesa, a cui dà
origine Eros, ruota attorno all’idea della bellezza: se l’idea della bellezza non
fosse visibile a occhio umano, in che modo potrebbe rinvigorire le ali che
permettono il processo di sublimazione? Il processo d’innalzamento è
possibile solo mettendo in crisi la teoria di un mondo delle idee contrapposto
dualisticamente alla sensibilità: l’idea della bellezza “funziona” unicamente
nella misura in cui è visibile, solo nella misura in cui si riflette nella sensibilità.
Così nel Fedro: «Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassù
fra quelle essenze, e anche dopo la nostra discesa quaggiù l’abbiamo afferrata
con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è
il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo» (Fedro, 250 d). L’idea della
bellezza s’affaccia sul mondo sensibile, si riflette sul volto della persona
amata, sui colori di un fiore, sui contorni e le sfumature di un paesaggio, sulle
note di un motivo musicale, ma in tal modo comunica qualcosa al mondo
sensibile, invia un messaggio preciso da decodificare, getta il ponte fra cielo e
terra che viene percorso da Eros.
2
Su queste tematiche cfr. G. Reale, Eros dèmone mediatore, Milano 2005; inoltre:
Id., Platone, Milano 1998.
163
Platone con una metafora ipotizza che il “messaggio in codice”, inviato dalla
bellezza al mondo sensibile, sia decifrabile solo da chi possiede anamnesis, da
chi ha visto nell’Iperuranio le idee. Si tratta di un aspetto centrale
dell’antropologia platonica infatti «l’anima che non ha mai contemplato la
verità non potrà mai giungere alla forma d’uomo» (Fedro 249b). Solo l’uomo
ha le chiavi, l’anamnesis, per decodificare il messaggio in codice inviato dalla
bellezza, e ricordandolo metterà le ali. Qui l’anamnesis punta a qualcosa di più
alto: non tanto una dimensione del ricordo sensibile, quanto di trascendenza
e di apertura a una nuova dimensione. E tale dimensione precede l’anamnesis
stessa nel cogliere i riflessi della bellezza nella sensibilità: vi è methexis e solo
successivamente anamnesis. Anamnesis diventa la metafora di un particolare
processo di methexis verso la trascendenza.
Dunque nell’antropologia di Platone l’uomo è quell’essere che vive
immerso nel mondo sensibile, nella quotidianità, ma che è idoneo a
decodificare i riflessi sulla chiusura ambientale dell’idea della bellezza e così
facendo di risvegliarsi. La visione di tali riflessi rende l’uomo improvvisamente
consapevole della povertà dell’ambiente umbratile in cui viveva, diventa
Sehnsucht, vaga intuizione di un livello di realtà più pieno. E tale è l’animo che
guida il prigioniero oltre la chiusura ambientale della caverna.
11.2. Scheler e Platone
In Die Stellung per vari motivi è assente il riferimento all’eros (il termine
compare solo una volta e in nota), manca cioè un tassello decisivo di tutto il
discorso dell’antropologia filosofica. Tale situazione cambia radicalmente se si
considera anche il Nachlaß, e in particolare i due manoscritti dedicati al
problema dell’antropologia filosofica 3. Prendendo in considerazione anche le
pagine sull’erotismo, quello che in Die Stellung appare un brusco salto in una
metafisica dualistica, si delinea invece come un percorso più graduale e
rigoroso che inizia proprio dalla rivoluzione dell’eros. Rispetto all’eccedenza
dionisiaca di Nietzsche l’eccedenza erotica di Scheler si caratterizza per
rappresentare solo il primo passo dell’Umschwung che contraddistingue
l’uomo, ma proprio in quanto il primo non può essere saltato.
La presenza di Platone nell’opera di Scheler è costante ed esplicita in
concetti come riduzione, filosofia, virtù; la stessa teoria dei valori e della
Weltoffenheit richiama il tema platonico della fecondità ontologica della
3
Secondo la numerazione di Avé-Lallemant ANA 315 BI, 17 e BI, 2. Alcune pagine
sono già state pubblicate da Frings nel 1987, ma altre, in cui si approfondisce il
confronto con Nietzsche e il problema dell’eccedenza dionisiaca, sono tuttora
inedite.
164
bellezza. Nell’atteggiamento di Scheler verso Platone si possono individuare
tre fasi:
1) 1912-1915. Atteggiamento prevalentemente critico teso a mettere in
luce la novità e la superiorità della concezione agapica cristiana nei confronti
della teoria platonica dell’eros. Il progetto di Scheler si rifà direttamente ad
Agostino, in grado di elevare a dignità filosofica le verità del cristianesimo, e in
particolare di fondere il carattere creativo agapico con l’esperienza della
persona. L’idea di un divino agapico è inserita sullo sfondo di una rivalutazione
del concetto di persona, una centralità chiaramente assente in Platone: se
l’aspetto essenziale della teoria platonica dell’eros è che esso fa uscire fuori di
se stessi, è anche vero che la direzione non è verso la persona, bensì verso un
Bene impersonale. L’interpretazione proposta da Scheler in questo periodo
tanto risulta feconda nell’approfondimento filosofico del concetto di agape,
quanto decisamente riduttiva relativamente alla teoria dell’eros platonica.
2) Da Vom Ewigen im Menschen a Wesen und Formen der Sympathie (19201922). Progressivamente Scheler riconosce un carattere creativo allo stesso
eros platonico: la direzione non è più quella di una contrapposizione fra eros
e agape, quanto di una loro convergenza. Vi sono inoltre delle analogie fra il
testo platonico (ad es. il tema della katharsis e dell’uscita dalla caverna) e la
riduzione scheleriana come uscita dalla chiusura ambientale. In questo
periodo la lettura di Freud porta Scheler a ripensare il problema del Geist nei
termini di una critica al nus poietikos.
3) Nell’ultimo periodo il confronto con Platone porta all’elaborazione di una
teoria dell’eros come motore del disimpegno organico posto alla base
dell’antropologia filosofica.
Si può osservare che se le posizioni del primo periodo riscossero ampio
successo, quelle del secondo hanno suscitato reazioni sostanzialmente
negative, mentre quelle del terzo sono rimaste praticamente sconosciute.
11.3. La rivalutazione di Platone
Paradossalmente l’interpretazione statica di Platone, quella che prevale
anche nella prima fase di Scheler e che coincide con il platonismo della teoria
delle idee, non solo non è stata contrastata dal cristianesimo, ma
storicamente si è parzialmente saldata con esso, sfociando nella metafisica
delle ideae ante res e rischiando di neutralizzare la portata filosoficamente
rivoluzionaria implicita nel concetto agapico. È ciò di cui gradualmente si
rende conto Scheler stesso: la rivalutazione filosofica del concetto agapico
dovrà mirare a far convergere Platone e il cristianesimo, ma nella direzione
contraria: verso una filosofia dell’atto creativo reso possibile dalle ideae cum
165
rebus. È in questa prospettiva che negli anni Venti Scheler rilegge Platone. La
teoria dell’eros platonico non viene più intesa nei termini di una “prevalenza
dell’anamnesis ripetitiva”, ma connessa alla “crescita delle ali”, allo slancio
che caratterizza l’uomo: «egli lo chiama a volte “il movimento delle ali dell’anima”, altre l’atto dello slancio del nucleo della persona verso le essenze, ma
non nel senso che queste essenze sarebbero oggetti a se stanti al di sopra di
quelli empirici, quanto di uno slancio verso l’essenza d’ogni oggetto
particolare. Ed egli caratterizza la dinamica interna alla persona e producente
tale slancio [...] come la forma più alta e pura dell’eros» (GW V, 67). Qui non
c’è più traccia della teoria canonica delle idee e l’attenzione viene piuttosto
spostata verso la connessione fra filosofia, sublimazione ed eros: Platone
affermando la necessità d’uno slancio capace di superare il piano sensibile e
ancorandolo alla tendenza più generale dell’eros «ha aperto per sempre le
porte della filosofia all’umanità» (GW V, 68).
È la funzione intermediatrice di eros filosofo fra terra e cielo, fra uomo e
divino, a fornire le basi alla teoria scheleriana della sublimazione esonerante
dell’eros: eros dice di no a un valore vitale ma solo perché già attratto dalla
bellezza d’un valore superiore, e nello spazio aperto da tale scarto, nella
mancata reazione automatica d’appagamento d’uno stimolo, si muovono
quelle energie alla base del vertere ai valori superiori: la gerarchia dei valori è
concepibile solo presupponendo una spinta propulsiva in grado di differire
energie verso livelli sempre meno ripetitivi, e capace di trascinare verso l’alto
chi si trova in questa corrente. Ma l’innalzamento delle energie diviene
possibile solo perché la bellezza si riflette sul piano sensibile in molteplici
forme sempre più alte e gli occhi dell’eros inseguendole permettono a chi si
trova in questa corrente di farsi trascinare verso l’alto. Qualcosa di simile si
verifica anche in Scheler: la profonda crisi e ristrutturazione di senso
determinata dall’uscita dalla chiusura ambientale non potrebbe avvenire se
già nella sfera sensibile non fosse presente il riflesso di una logica diversa a cui
appigliarsi.
Rispetto a Platone Scheler introduce però una novità decisiva: secondo
Platone il processo d’innalzamento fa abbandonare le illusioni (mondo
sensibile) per dirigersi a ciò che è contemporaneamente il vertice
dell’axiologia e della forza (l’idea del Bene), nello Scheler degli anni Venti
invece il mondo sensibile non è solo un’ombra della vera realtà, ma diventa
un livello ben determinato del reale e inoltre pur sempre la riserva d’energie
per le sfere superiori, caratterizzate da fragilità ontologica.
11.4. Da Platone a Freud: l’impotenza dello spirito
166
La diversa concezione del “bene” è riconducibile in parte all’influsso di
Freud. È da Freud che Scheler riprende l’idea secondo cui l’energia e la forza
non afferiscono originariamente allo spirito e ai valori più alti, ma risiedono
nelle pulsioni biologiche più primitive, nel Drang. L’impatto di tale influsso fu
così violento da lasciare precise tracce dietro di sé: Scheler è costretto a
negare nel 1924 quanto aveva scritto solo nel 1923: se in Wesen und Formen
der Sympatie (1923) Scheler sostiene, in contrasto con Freud, che lo spirito è
dotato di un’energia propria, che non gli deriva dalla libido4 in Probleme einer
Soziologie des Wissens (1924) Scheler scrive qualcosa di molto diverso: «lo
spirito in quanto tale non ha in sé originariamente una qualsiasi traccia di forza
o efficacia» (GW VIII, 21). Tuttavia il perfetto rovesciamento della teoria
platonica dell’eros attuato da Freud viene eseguito da Scheler solo a metà: se
Freud ha ragione nell’individuare uno spostamento di energie verso l’alto,
Platone è nel giusto quando sottolinea l’esistenza di una orientatività dall’alto
verso il basso. Si tratta così di riaffermare l’impotenza dello spirito contro il
nus poietikos, ma per riconoscere che il Drang in sé rimane in una situazione
di disorientamento che lo spinge eroticamente a compenetrarsi con il Geist. Il
processo di sublimazione presuppone un Ausgleich fra Geist e Drang, e non
una contrapposizione dualistica quasi che un po’ di più di Geist significhi un
po’ meno di Drang. Al contrario la sublimazione è da comprendere nel
contesto della tesi secondo cui tutta la realtà è frutto della compenetrazione
fra Drang e Geist a livelli d’autoreferenzialità sempre maggiori: le forze del
Drang non vengono distrutte dal Geist, ma orientate nel senso platonico della
persuasione (quella che poi Scheler chiamerà lenken e leiten) verso valori
sempre più alti intesi essi stessi come Vorbilder. Il contrasto con Freud si
sposta dunque di piano: l’autonomia del Geist non include più (come nel 1923)
una sfera di energia originaria, ma si limita alla capacità di orientamento 5.
Scheler rilegge Platone attraverso Freud, rovesciando l’assioma che più si sale
nella gerarchia ontologica verso l’idea del Bene, maggiore sarà il grado di
energia e forza. Ma rilegge pure Freud attraverso Platone, riconoscendo alla
sfera della cultura uno statuto originario e una logica irriducibile a quella
pulsionale. Traspare tuttavia in modo evidente un limite di fondo quando si
4
Precisamente: «Es kommt [...] allen Schichten unserer seelischen Existenz, von
der sinnlichen Empfindung angefangen bis zu den höchsten geistigen Akten, ein
selbständiges Maß von seelischer Energie zu, das durchaus nicht aus der
Triebenergie der Libido entnommen ist» (GW VII, 207).
5 Così in un corso di lezioni del 1927/28 sulla Psychoanalyse Scheler dà ragione a
Freud quando deduce ogni attività ed energia dello spirito da un processo di
sublimazione dalle energie del Drang, ma afferma anche che Freud cade in un
falso naturalismo quando deduce da tale processo di sublimazione non solo le
energie, ma anche l’essenza stessa dello spirito (cfr. GW XII, 65).
167
ipotizza un Geist completamente impotente che risulta però capace ancora di
orientare nel senso del lenken e leiten: in realtà anche il deviare la direzione
di un moto richiede energia, di conseguenza a persuadere non può essere
direttamente il Geist in sé.
11.5. Seidel e Gehlen: l’origine della morale e delle istituzioni
Sul problema dell’irriducibilità della cultura dalla logica pulsionale Scheler
si confronta direttamente, oltre che con Alsberg e Theodor Lessing, anche con
Seidel. Nel 1925 A. Seidel, un giovane studente universitario della sinistra
rivoluzionaria tedesca (oggi praticamente sconosciuto) concluse un’opera dal
titolo Bewußtsein als Verhängnis 6 e dopo aver inviato il manoscritto a un
amico, con la preghiera di occuparsi della pubblicazione, mise in atto un
suicidio premeditato da tempo. Il testo comparirà postumo nel 1927, e pur
essendo scritto senza grandi pretese, attirò subito l’interesse di Scheler ed
esercitò successivamente una sottaciuta influenza pure su Gehlen 7. In
quest’opera Seidel procede a una reinterpretazione della teoria freudiana
della sublimazione proponendo l’importante tesi della “coscienza come
destino ineludibile”: l’uomo sarebbe caratterizzato da una cronica “carenza
dell’attività istintiva”, ma l’uscita dal comportamento istintivo avrebbe
prodotto una situazione di “eccedenza pulsionale” capace di metterne a
repentaglio l’esistenza, per cui trovandosi esposto ai pericoli di un’“eccedenza
pulsionale” sfuggita al controllo dell’istinto l’uomo ha dovuto inventarsi un
meccanismo artificiale d’inibizione: la morale e la coscienza.
Muovendo all’attacco di tale ipotesi Scheler esplicita quella che può essere
letta come una critica ante litteram a Gehlen: «Seidel trae da Freud la
conclusione che tutta la nostra cultura umana (filosofia, scienza, religione, arte,
istituzioni sociali e del diritto) sia solo un “surrogato” derivante
dall’inadeguatezza del soddisfacimento pulsionale. Tuttavia perché l’uomo
inibisce? Seidel risponde: poiché l’uomo ha un’eccedenza di libido il cui
soddisfacimento lo condurrebbe alla rovina. No! solo attraverso il rifiuto sorge
l’eccedenza» (GW XII, 66). Se l’eccedenza pulsionale fosse davvero sfuggita al
controllo dell’istinto, come fa poi a correggersi ricorrendo nuovamente
all’istinto di sopravvivenza? È un po’ quello che si può obiettare a Gehlen: se
6
A. Seidel, Bewußtsein als Verhängnis, Bonn 1927.
Gehlen cita Seidel solo a partire dalla seconda edizione dell’Uomo. Il riferimento
esplicito è invece a Herder secondo cui l’uomo è un Mängelwesen in quanto non
vivendo più in un ambiente orientato dall’istinto, per sopperire a questa
mancanza, ha dovuto creare una seconda natura, capace di sopperire all’istinto,
e basata sul linguaggio e l’azione.
168
7
nell’uomo l’istinto non funziona più, non può certo essere l’istinto di
sopravvivenza a spingere l’uomo all’auto-disciplinamento e all’invenzione della
morale.
Già Freud si rende conto che l’uomo non segue semplicemente la logica tesa
a rafforzare il valore vitale e ponendosi “oltre il principio di piacere” si distacca
da un puro riduzionismo naturalistico per ammettere una dialettica fra eros e
thanatos. Nell’ipotesi scheleriana tale pulsione di morte si rovescia in qualcosa
di positivo: diventa l’esigenza di trascendere il puro principio di piacere in
direzione dei valori personali. Nel farsi uomo la vita è stata costretta a un salto
mortale, ha dovuto eccedere se stessa, le proprie categorie, la propria logica,
ma in questo salto, in cui ha rinunciato a essere orientata dai valori vitali,
sarebbe sicuramente caduta nel nulla se non avesse improvvisamente scorto,
al di là d’essi, una nuova classe di valori e con essa un nuovo punto di
riferimento.
La questione decisiva è che Freud, Seidel e Gehlen assumono come punto
di partenza ciò che per Scheler è invece solo un punto d’arrivo, un risultato
tutto da indagare e da capire: «La mancanza originaria di tutte le teorie
negative dello spirito consiste nel fatto che esse non danno la minima traccia
di risposta alla domanda fondamentale: che cosa dunque nega nell’uomo, che
cosa dunque nega la volontà di vivere, che cosa reprime le pulsioni? E in base
a quali diverse motivazioni fondamentali l’energia pulsionale repressa viene
sublimata una volta in neurosi e un’altra in un’attività che dà forma alla
cultura?» (GW IX, 48). Molte delle teorie antropologiche del primo Novecento,
influenzate da Schopenhauer, teorizzavano che l’uscita dal comportamento
istintivo fosse, dal punto di vista della vita, la conseguenza d’una malattia,
d’un processo di degenerazione, brevemente: un “cancro della vita”, tuttavia
se di malattia si tratta occorre individuare il virus o la causa che la scatena. Qui
invece l’uscita dal comportamento istintivo viene assunta come un dato di
fatto, un accadimento interno alla storia naturale che causa l’essere umano,
ma senza essere a sua volta realmente spiegato. È questa però la scena madre
che non può essere saltata e solo la risposta a tale domanda può far luce
sull’uomo.
11.6. Il “vuoto del cuore”: dall’eccedenza pulsionale all’eccedenza di fantasia
La molla di tutto il processo non può essere rappresentata, come ipotizzato
da Seidel e Gehlen, dai pericoli impliciti nell’eccedenza pulsionale, per il
semplice motivo che non esiste alcuna minaccia di uno straripamento
patologico delle pulsioni oltre gli argini dell’istinto, a cui si rimedierebbe con
la costruzione artificiale della morale e delle istituzioni: come ha dimostrato
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K. Lorenz, con gli studi sull’aggressività umana, gli istintivi in realtà continuano
a funzionare perfettamente anche nell’uomo. Già Freud del resto aveva
distinto la sfera pulsionale (Trieb) dall’istinto (Instinkt), mettendo in luce come
anche la sfera pulsionale abbia un proprio meccanismo autonomo
d’autoregolazione. In altri termini: la pulsione non diventa pericolosa e
incontrollata quando sfugge al controllo dell’istinto, per il semplice fatto che
non è mai stata sotto il controllo dell’istinto!
Che cosa significa poi eccedenza pulsionale? Quello che rappresenta un
pericolo mortale non è l’eccedenza pulsionale, ma casomai l’eccedenza di
sollecitazioni irrilevanti. È quello che ha messo in luce Luhmann, osservando che
un sistema è tale se e solo se, in base alla propria chiusura operativa, è in grado
di selezionare dall’immensa mole d’irritazioni irrilevanti che lo colpiscono
unicamente gli stimoli rilevanti: la riduzione di complessità dell’eccedenza
d’irritazioni ambientali non ha però nulla a che fare con l’eccedenza pulsionale.
A questo punto il ragionamento di Gehlen va capovolto in quanto a ben
vedere quello che caratterizza l’uomo è piuttosto un’eccedenza
d’insoddisfazione rispetto a un’eccedenza di stimoli irrilevanti per gli strati
affettivi più profondi: l’uomo, come osservava Scheler, è un essere il cui
«inappagamento pulsionale risulta costantemente eccedente rispetto al suo
appagamento» (Die Stellung, tr. it., 54-55). Punto di partenza non è l’eccedenza
pulsionale
(Triebüberschuß)
quanto
l’eccedenza
di
fantasia
(Phantasieüberschuß): il rischio non consiste nel soccombere storditi da
un’eccedenza di pulsioni, quanto nell’annoiarsi mortalmente nella povertà
della chiusura ambientale, tanto che lo sperimentare sulla propria carne una
sfasatura, uno iato incolmabile fra le proprie aspettative e la rilevanza
pulsionale, spinge l’uomo a cercare oltre. La sofferenza nasce dall’esperire una
non correlatività fra esistenza umana e fattualità, una ex-centricità della prima
verso la seconda. Il Phantasieüberschuß va quindi interpretato in termini di
Sehnsucht o “vuoto del cuore”. È il “vuoto del cuore” il luogo in cui si
determina il capovolgimento dall’animale all’uomo: mentre l’animale vive
completamente immerso nella realtà concreta del suo immediato presente,
nell’uomo le aspettative pulsionali arrivano a eccedere ogni possibile
soddisfacimento nella sfera della percezione sensibile, e soltanto allora si
verifica quel fenomeno, assolutamente raro e specifico, della percezione del
vuoto.
11.7. La teoria esonerante dell’eros
È unicamente la spinta dell’insoddisfazione, derivante dall’esperien-za del
vuoto, che consente all’uomo d’inibire l’ambito della percezione sensibile, per
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cercare appagamento altrove: non trovando l’appaga-mento cercato nel qui e
ora temporale dell’animale, l’uomo si guarda attorno, prolunga lo sguardo in
avanti, nel tentativo di trovare nel futuro quel soddisfacimento che gli viene
negato nel presente. È nell’impossi-bilità di soddisfare il proprio
Phantasieüberschuß che l’uomo dimostra di essere, come dice Scheler, il
Neinsager, l’eterno protestante nei confronti della semplice realtà, la bestia
cupidissima rerum novarum sempre desiderosa d’infrangere i confini del suo
qui-ora-così e di trascendere la realtà ambientale che la circonda.
Ma chi è il motore del processo che permette la nascita del
Phantasieüberschuß e con essa l’uscita dal comportamento istintivo? Nelle
pagine del Nachlaß Scheler individua con sicurezza tale fattore nell’eros. Nel
«liberarsi dagli impulsi del momento» (GW XII, 233), nel prolungamento
dell’intervallo fra desiderio e appagamento, l’eros spezza definitivamente
l’automatismo alla base della vita istintiva: nella sospensione
dell’immediatezza, nello scarto essenziale fra stimolo e risposta, fa emergere
una nuova logica eccedente lo stimolo stesso; nel differimento strappa
l’appagamento dal controllo delle forze istintive e lo pone prima al servizio
dell’intelligenza pratica e poi della persona.
Il mestiere dell’eros è quella di creare uno scarto temporale, di consentire
una presa di distanza, di darsi tempo in modo da posticipare nel futuro il
soddisfacimento, mantenendosi nel contempo disponibile all’accoglimento di
ulteriori stimoli, determinando così l’occasione per un’attività selettiva fra
diverse opzioni; nel rinvio, nello iato temporale fra pulsione e reazione nasce
una nuova logica temporale: l’«eros amplia i materiali dell’aspettativa e della
mneme e anche qui conduce fino ai confini dell’anamnesi così come alla
speranza oggettiva e al temere come modi dell’aspettativa» (GW XII, 232).
Eros diventa padre della Sehnsucht (e quindi condizione per l’esperienza del
vuoto) perché distoglie il desiderio dall’appagamento immediato
prospettandogli davanti le immagini del Phantasieüberschuß. Nel
trasferimento dell’appagamento al futuro si crea una nuova dimensione
temporale e con essa un varco, uno spazio d’azione per un nuovo fenomeno:
quello del preferire (cfr. GW XII, 233). Spostando continuamente in avanti
un’infinità di desideri e di bisogni, la logica dell’eros esonera l’uomo dalla
necessità di una risposta immediata, ma nel dilatare la temporalità nel futuro
l’uomo scopre di poter organizzare una successione temporale all’interno
dello stesso ordine di preferenza: ha la possibilità di sospendere un desiderio
che si era presentato prima o che preme con una particolare urgenza
riorganizzandolo secondo un diverso ordine di priorità.
Una conseguenza rilevante per l’antropologia filosofica è che nel preferire
l’uomo scopre di poter tracciare un percorso individuale: il tracciato delle
preferenze diventa espressione inequivocabile della sua individualità, lo spazio
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di libertà che ne rispecchia la fisionomia. Questo nell’animale non può accadere
in quanto la pulsione e l’istinto, rimanendo in una logica binaria, non lasciano
spazio a un percorso individuale, ma solo all’identità della specie.
11.8. Homo eroticus: la creazione del mondo visivo
È Plotino a cogliere qui l’essenziale: eros è l’occhio nato dal desiderio «che
permette all’amante di vedere l’oggetto desiderato, correndo egli stesso per
primo dinanzi e riempiendosi di questa visione». Eros nasce «come occhio
pieno, come visione che ha in sé la sua immagine» 8. Ed è forse in tale senso
che si può intendere anche il verso di Schiller secondo cui esclusivamente
attraverso il portale della bellezza s’accede alla terra della conoscenza: nella
scansione temporale determinata dall’eros ciò che appaga viene distanziato e
diventa un oggetto visibile aprendo per sempre le porte al mondo visivo e
della conoscenza. Diffondendo una differente dimensione temporale, l’eros
crea un nuovo orizzonte visivo, una nuova visibilità del mondo, laddove nella
reazione automatica stimolo-risposta il sistema organico rimaneva cieco:
associando immediatamente allo stimolo la propria possibile reazione, l’istinto
“vede” solo il proprio appagamento interno e rimane completamente
indifferente verso il contenuto con cui s’appaga. L’appagamento di un bisogno,
che
si
consuma
immediatamente
senza
intenzionare
l’oggetto
dell’appagamento, non lascia spazio all’erotismo: l’erotismo ha luogo
unicamente quando il desiderio si nutre di un rinvio, di una diluizione del
godimento. È nello spazio aperto da tale atto ascetico del posticipare e
rinviare l’appagamento immediato del bisogno istintivo, che erompe il piacere
erotico.
Nell’espressione “non ci vedo dalla fame” si fa riferimento a una situazione
dell’esser talmente storditi nel proprio bisogno da rimanere ciechi.
Brutalmente quello che qui appaga non è neppure il cibo, ma qualcosa di
ancora più primitivo: la cieca sensazione di riempimento dello stomaco,
capace di annullare i “morsi della fame”. Nell’istinto non esistono occhi
desiderosi di “guardare”: il raggio di rilevanza di tale sguardo è esclusivamente
quello dell’utile e del dannoso, qui c’è unicamente l’“occhio dello stomaco”
che scandaglia il proprio mondo-ambiente alla ricerca dei riflessi dei propri
bisogni. Attraverso la rivoluzione dell’eros nasce l’occhio in grado di vedere
l’oggetto del desiderio, là dove l’impulso e l’istinto vedono unicamente il
proprio riflesso.
8
Plotino, Enneadi, tr. it. di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1992, III 5, 2-3.
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Muovendosi in una direzione simile Scheler sottolinea come nel diverso
modo di guardare dell’erotismo sia sottesa una nuova logica: l’eros rende
visibile il mondo in quanto «distoglie il nostro sguardo dall’utilizzabilità dei
beni a disposizione, anche se in un primo tempo la sposta solo in direzione dei
valori estetici» (GW XII, 232). Dilazionando l’energia della pulsione sessuale e
ponendola al servizio dell’attività percettiva, l’eros si palesa quale vero
artefice dell’occhio umano 9. Lo spostamento d’interesse sull’immagine
sottintende uno spostamento del campo di rilevanza dall’oggetto alla forma
dell’oggetto. L’eros «è il Drang divenuto vedente» (GW XII, 236) che desidera
percepire la forma. Questo concetto viene riassunto da Scheler in un passo del
Nachlaß finora passato inosservato: «L’eros è energia pulsionale sessuale
sublimata spostata nel sistema percettivo sensibile e nelle sue funzioni del
vedere, udire, annusare ecc. Quando nell’uomo questa componente
energetica cessa di porsi al servizio dell’atto puramente sessuale e
riproduttivo e ravviva sempre di più le percezioni rendendole oscillazioni di
rilevanza autonoma, soltanto allora diviene possibile guardare il mondo per le
sue immagini e con un piacere funzionale allo sguardo stesso. […] Questo
succede dapprima nel puro “godimento” del mondo come immagine,
diventando un motivo originario dell’arte» (GW XII, 229-230).
Solo nell’eros i Bilder riescono a spogliarsi dalla loro rilevanza puramente
istintuale, cessano di essere il semplice indice di ciò che risulta dannoso o utile
per la struttura pulsionale, e questo coincide con il superamento del
comportamento istintivo e pulsionale e l’uscita dalla chiusura ambientale. Se
la libido e la sessualità sono diffuse a tutta la natura, esclusivamente
nell’uomo esse assumono la forma consapevole dell’eros, ed è questo a
tracciare il vero confine fra l’uomo e le altre forme viventi 10. Nell’animale la
percezione, la rappresentazione e le forme elementari d’intelligenza
rimangono sempre confinate all’interno della logica dell’utile e del dannoso,
quindi nei confini della chiusura ambientale «ma tali confini sono spessi come
muri e gli chiudono l’ampiezza e la grandezza dell’universo» (GW XII, 130),
l’uomo invece grazie all’eros rompe tali argini: il suo sguardo si rivolge ora
liberamente al mondo senza più limitarsi a vedere unicamente un riflesso del
proprio organismo 11. È solo l’erotismo che nell’uomo offre all’intelligenza e
«Il fatto che l’uomo a differenza dell’animale sia capace d’una visione del mondo
“disinteressata” relativamente agli impulsi organici [...], che possa in generale
considerare il mondo come immagine, questo dipende esclusivamente dall’eros»
(GW XII, 230).
10 «Il riflesso della grazia sorridente dell’eros irrompe nelle belle forme di tutta la
natura. Ma solo nell’uomo egli […] diviene consapevole a se stesso» (GW XII, 236).
11 «Il motivo per cui negli esseri vertebrati superiori il pensiero mediato e l’atto di
scelta rimangono materialmente così limitati e compiono percorsi così brevi è una
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9
alla capacità di scelta, già presenti anche negli animali superiori, la possibilità
di estendersi oltre la rilevanza biologica.
conseguenza della mancanza dell’eros. L’eros è contemporaneamente ciò che
obiettiva e nel contempo de-realizza» (GW XII, 232).
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