[go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu
La rivalutazione del concetto di eros platonico nell'antropologia filosofica di Max Scheler (2008) Da: G. Cusinato, La Totalità incompiuta, Milano 2008, pp. 159-173. Cap. 11. La rivoluzione dell’eros come apice del processo di centricità 11.1. Alcuni spunti antropologici nel Simposio e nel Fedro Leggendo il Simposio è difficile non rimanere affascinati dal mito dell’uomo rotondo esposto da Aristofane, quello secondo cui la caratteristica di Eros consisterebbe nel portare all’eudaimonia e innalzare l’uomo alla divinità fondendo e integrando il proprio sé con la propria “metà”: in tale unione erotica l’uomo ritorna momentaneamente in quella condizione originaria in cui si trovava l’uomo rotondo, una condizione di estrema forza, tanto che Zeus, preoccupato dalla sua potenza, decise d’indebolirlo dividendolo a metà con il fulmine. Sembrerebbe che Eros sia atto a innalzare l’uomo fino al divino, ma se questo viene ottenuto nel completamento di se attraverso la propria metà mancante, qui s’arriva solo al tentativo di sostituirsi al divino (e ciò spiega anche la giusta ira di Zeus), dando origine a un processo di rafforzamento del soggetto. L’intervento di Agatone non cambia la prospettiva e si limita ad aggiungersi alla lunga serie di luoghi comuni su Eros che erano stati esposti negli interventi precedenti. È a questo punto che Platone disorienta facendo entrare in scena, attraverso Socrate, una donna: la sacerdotessa Diotima. Se relativamente ad Agatone Socrate trionfa senza 159 problemi con la potenza del suo ragionamento, ora è in difficoltà: tutto il dialogo fra Socrate e Diotima è come un dialogo rovesciato in cui è Socrate a essere l’allievo che viene preso per mano e liberato gradualmente da errori e false premesse attraverso la sapienza erotico-filosofica della donna. Sovente si tende a sminuire questa circostanza partendo dal presupposto che per Platone il dialogo erotico superiore possa avvenire solo fra due uomini. Giacché quello fra Socrate e Diotima rappresenta uno dei vertici dei dialoghi platonici, se ne conclude che quella donna debba essere necessariamente la maschera per qualcos’altro: un momento autocritico o un espediente per trasformare quello che altrimenti sarebbe stato un monologo in un dialogo. Diotima rappresenta probabilmente tutto ciò, ma l’interrogativo del perché Platone decida di assegnare questo ruolo proprio a una figura femminile non trova ancora risposta. Se poi Platone ha “rubato” a una donna uno dei momenti più alti della sua filosofia, perché allora dichiararlo? Il dichiararlo è già un segno di riconoscimento esplicito. Il ruolo e l’importanza di Diotima rappresenta un problema per molte interpretazioni del Simposio: forse è il momento di rimettere in discussione, più che il ruolo “femminile” di Diotima, queste interpretazioni stesse e il modo in cui Platone è stato prevalentemente letto nel XX secolo. Essenziale è che le parole di Diotima introducono nei fatti una sensibilità tutta femminile, la stessa che sfocia nella metafora centrale del partorire nel bello. Non è secondario che sia proprio tale nuova sensibilità a superare le durezze dualistiche del Fedone trasformando l’“imparare a morire” in un “imparare a vivere”, la filosofia della morte in una filosofia del parto in grado di spostare l’accento sulla fecondità, sulla nascita, sull’eros. Nei duemila anni successivi deve essere sembrata musica troppo leggera per le orecchie di filosofi abituati a infervorarsi solo per arie ben più gravi, inneggianti all’amor mortis e all’angoscia. Diotima rappresenta i misteri Eleusiaci, ma è prima di tutto colei che fa professione del divino, che rappresenta la figura dell’iniziazione e della purificazione. La violenza della sua critica è un’azione kathartica e autocritica verso le false premesse del Fedone: quelle che miravano dualisticamente all’eliminazione del corpo e delle passioni. La zavorra che occorre eliminare per disporsi ad andare oltre e per potersi incamminare sul suolo sacro, ove sorge l’oracolo, non è il corpo, ma l’atteggiamento autosufficiente dell’anima, l’incapacità di fissare e riconoscere i propri limiti. Il “conosci te stesso!” è in realtà una sfida, un quesito enigmatico la cui soluzione è: “per poter ascoltare fuori di te, poni un confine e una misura al tuo egocentrismo”. È su questo punto che Diotima ribalta la posizione dei primi quattro interventi: Eros non va considerato un moto che rafforza e accresce la propria identità riducendo l’altro al se stesso, piuttosto è febbre delirante, travaglio 160 rivolto a destabilizzare, trascendere, superare per portare alla luce qualcosa di nuovo. Se gli interventi precedenti avevano esaltato l’esperienza soggettiva tesa a divinizzarsi, Diotima rovescia la direzione: Eros non mira più a rafforzare il soggetto, ma piuttosto a metterlo in crisi. Ciò che accumuna gli interventi precedenti è la concezione autoreferenziale di Eros espressa dal mito dell’uomo rotondo: l’idea che fine di Eros sia quello di completare l’ego, riducendo l’alterità alla “propria metà” che manca, e che in tale combaciamento si possa toccare con dito la dimensione divina e autoredimersi. La definizione di Eros come desiderio di possesso non è che un corollario di tale senso comune: Eros diventa lo strumento con cui il soggetto s’impone ed estende il proprio potere sulle cose possedute, ma così facendo non produce nulla oltre se stesso. Ecco allora intervenire Diotima che purifica dalla sterilità, per esaltare invece ciò che in Eros fa generare e partorire qualcosa di nuovo: la fecondità. Ma come purificarsi dalla sterilità di un’intenzionalità volta al possesso? Diotima inanella una lunga serie di opposizioni mediate da Eros: brutto e bello, ignoranza e sapienza, apprendimento e dimenticanza, ma quella centrale si sviluppa attorno alla definizione di poiesis, si tratta di una delle più precise analisi di poiesis offerte dai dialoghi platonici: il concetto di poiesis si dice in molti modi, infatti è ogni tipo di causa che fa passare dall’essere indeterminato all’essere 1. In altri termini poiesis è tutto ciò che è causa di generazione. Ὥσπερ τόδε. οἶσθ' ὅτι ποίησίς ἐστί τι πολύ· ἡ γάρ τοι ἐκ τοῦ μὴ ὄντος εἰς τὸ ὂν ἰόντι ὁτῳοῦν αἰτία πᾶσά ἐστι [c] ποίησις, ὥστε καὶ αἱ ὑπὸ πάσαις ταῖς τέχναις ἐργασίαι ποιήσεις εἰσὶ καὶ οἱ τούτων δημιουργοὶ πάντες ποιηταί" (Simposio 205b-c). Di solito "me on" viene tradotto con “non essere”, ma in questo modo si finisce con l’interpretare Platone nel senso della creatio ex nihilo e, sulla scia di Heidegger, si arriva ad attribuire a Platone anche la nefasta paternità del nichilismo occidentale. Com’è noto il concetto platonico me on ricorre in un punto centrale anche del Sofista e ha dato luogo a interminabili discussioni filologiche. Per una sintesi della discussione relativamente all’interpretazione del passo del Sofista rinvio a L. Palumbo, Su alcuni problemi (e alcune soluzioni) relativi al Sofista di Platone, in: «Bollettino della SFI», 1999 n. 152. Mi discosto dalle usuali traduzioni rifacendomi all’autorità di Schelling. Se non sbaglio, finora ai filologi di Platone è sfuggito che all’interpretazione del me on Schelling dedica quattro pagine nella Darstellung des philosophischen Empirismus: secondo Schelling il nostro concetto di “nulla” in greco non è reso da "me on", che si riferisce invece a un essere indeterminato o potenziale, ma da oÙk ×n (Cfr. SW X, 283-286). Sulla stessa linea anche Paul Tillich distingue fra me on e oÙk ×n nel senso di 161 1 Eros è poiesis, un’equazione decisiva che negli interventi precedenti non era stata neppure presagita: la filosofia non è noàj poihtikÕj ma œrwj poihtikÕj. Poiesis è causa del passaggio all’esistenza, nascita, generazione di qualcosa, ma lo è nel senso dinamico: desiderio di nascita, desiderio di passare all’esistenza, e si trova in una situazione intermedia analoga a quella attribuita a Eros mediatore. La definizione di Eros come desiderio del possesso del bene si trasforma in quella di Eros come desiderio di esistenza. I vari passaggi sono chiari: Eros in generale è ogni desiderio per le cose buone e per l’eudaimonia (205d), è tendenza a possedere il bene per sempre, per l’eternità (206a). La determinazione “temporale” ha qui una connotazione esistenziale: per possedere il bene per sempre, devo esistere per sempre. Ora così come la poiesis è ciò che fa passare dall’indeterminato all’esistente, Eros è la tendenza a rendere irreversibile tale generazione, a rendere irreversibile l’opera della poiesis. Eros, angosciato dalla morte e dalla possibile reversibilità del passaggio poietico, è terrorizzato dalla possibilità di ricadere all’indietro nel non esistente, perciò cerca di bloccare, di rendere eterno, cioè irreversibile, il corso della poiesis verso l’esistenza e la vita. Tutti i passi successivi sono finalizzati a questa scena madre della filosofia: alla generazione della vita, al parto, alla nascita, alla fecondità come antidoto, come pharmakon contro la morte. Ne consegue l’inadeguatezza della definizione di Eros in termini di desiderio di possedere per sempre il bene. Diotima dimostra a Socrate che ciò che ci rende felici, l’accesso alla eudaimonia, non è una situazione statica, il possesso eterno di qualcosa, ma un’attività creativa, in quanto solo attraverso un’attività creativa è concesso all’uomo di partecipare all’immortalità. Di conseguenza Eros non è possesso del bene ma febbre delirante di eternità che può essere guarita solo dalla generazione nel corpo e nell’anima. Il parto dell’anima per l’individuo significa creare spazio all’esisten-za, permettere che la propria esistenza non ricada nella ripetizione, nell’identico, non scivoli lentamente, ma inesorabilmente verso il nulla, evitare che essa non lasci il segno, non lasci traccia di sé dopo di sé. Creare esistenza significa una trasformazione del proprio modo di vivere, la possibilità di costruirsi una nuova esistenza, di rinascere a vita nuova e camminare nel mondo guardando attraverso gli occhi della phronesis. È il rinascere nella forma di vivere secondo areté. Ma tale parto di se stessi è appunto tras-formazione, messa in discussione. Ritornano in discussione alcuni passaggi del Fedone: per rinascere a vita nuova, per condurre una vita secondo areté, devo prima purificarmi dal vivere dormendo, devo prima fare esperienza dell’abbandono e della morte del vecchio modo di vivere. La poiesis dell’Eros presuppone una fase Potentialität e reines Nichts (cfr. Systematische Theologie, Stuttgart 1958, Band II, 27). 162 kathartica in cui il soggetto mette in discussione la sua centralità e i suoi schemi, assume consapevolezza dei propri limiti per determinare uno spazio fecondativo oltre se stesso. L’esser gravido e “desideroso” di partorire spinge al contatto con la bellezza, al bisogno di costruire assieme a individui dal carattere “bello” una vita o un dialogo che aiutino maieuticamente a partorire, e tale unione crea legami fra questi individui in un’amicizia, in una famiglia, in una comunità. L’essere sterile al contrario isola e fa tornare indietro. Se l’interpretazione non estetica ma ontologica del bello e del brutto nel Simposio avviene in termini di fertilità e sterilità, nel Fedro avviene in riferimento all’accrescimento o rimpicciolimento dell’ala 2. Una metafora che può essere ripensata, nel senso di un’ontologia della persona, in termini di creatività nell’essere assieme all’altro e volta all’incremento della sfera dell’intensità esistenziale. Anche in questa prospettiva bello e brutto diventano i parametri di ciò che migliora o peggiora l’esistenza umana: il bello che rende fecondi e permette di generare, perché fa ingrandire e diventare più forti le ali dell’anima, diventa la fecondità come fioritura degli strati affettivi personali e di conseguenza come capacità di generare un’esemplarità esistenziale più intensa. Ma qual è il meccanismo che produce la crescita delle ali e permette l’innalzamento? O in termini compartecipativi: che cosa consente all’uomo di uscire dalla povertà della chiusura ambientale? Nel testo platonico la spiegazione dell’ascesa, a cui dà origine Eros, ruota attorno all’idea della bellezza: se l’idea della bellezza non fosse visibile a occhio umano, in che modo potrebbe rinvigorire le ali che permettono il processo di sublimazione? Il processo d’innalzamento è possibile solo mettendo in crisi la teoria di un mondo delle idee contrapposto dualisticamente alla sensibilità: l’idea della bellezza “funziona” unicamente nella misura in cui è visibile, solo nella misura in cui si riflette nella sensibilità. Così nel Fedro: «Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche dopo la nostra discesa quaggiù l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo» (Fedro, 250 d). L’idea della bellezza s’affaccia sul mondo sensibile, si riflette sul volto della persona amata, sui colori di un fiore, sui contorni e le sfumature di un paesaggio, sulle note di un motivo musicale, ma in tal modo comunica qualcosa al mondo sensibile, invia un messaggio preciso da decodificare, getta il ponte fra cielo e terra che viene percorso da Eros. 2 Su queste tematiche cfr. G. Reale, Eros dèmone mediatore, Milano 2005; inoltre: Id., Platone, Milano 1998. 163 Platone con una metafora ipotizza che il “messaggio in codice”, inviato dalla bellezza al mondo sensibile, sia decifrabile solo da chi possiede anamnesis, da chi ha visto nell’Iperuranio le idee. Si tratta di un aspetto centrale dell’antropologia platonica infatti «l’anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma d’uomo» (Fedro 249b). Solo l’uomo ha le chiavi, l’anamnesis, per decodificare il messaggio in codice inviato dalla bellezza, e ricordandolo metterà le ali. Qui l’anamnesis punta a qualcosa di più alto: non tanto una dimensione del ricordo sensibile, quanto di trascendenza e di apertura a una nuova dimensione. E tale dimensione precede l’anamnesis stessa nel cogliere i riflessi della bellezza nella sensibilità: vi è methexis e solo successivamente anamnesis. Anamnesis diventa la metafora di un particolare processo di methexis verso la trascendenza. Dunque nell’antropologia di Platone l’uomo è quell’essere che vive immerso nel mondo sensibile, nella quotidianità, ma che è idoneo a decodificare i riflessi sulla chiusura ambientale dell’idea della bellezza e così facendo di risvegliarsi. La visione di tali riflessi rende l’uomo improvvisamente consapevole della povertà dell’ambiente umbratile in cui viveva, diventa Sehnsucht, vaga intuizione di un livello di realtà più pieno. E tale è l’animo che guida il prigioniero oltre la chiusura ambientale della caverna. 11.2. Scheler e Platone In Die Stellung per vari motivi è assente il riferimento all’eros (il termine compare solo una volta e in nota), manca cioè un tassello decisivo di tutto il discorso dell’antropologia filosofica. Tale situazione cambia radicalmente se si considera anche il Nachlaß, e in particolare i due manoscritti dedicati al problema dell’antropologia filosofica 3. Prendendo in considerazione anche le pagine sull’erotismo, quello che in Die Stellung appare un brusco salto in una metafisica dualistica, si delinea invece come un percorso più graduale e rigoroso che inizia proprio dalla rivoluzione dell’eros. Rispetto all’eccedenza dionisiaca di Nietzsche l’eccedenza erotica di Scheler si caratterizza per rappresentare solo il primo passo dell’Umschwung che contraddistingue l’uomo, ma proprio in quanto il primo non può essere saltato. La presenza di Platone nell’opera di Scheler è costante ed esplicita in concetti come riduzione, filosofia, virtù; la stessa teoria dei valori e della Weltoffenheit richiama il tema platonico della fecondità ontologica della 3 Secondo la numerazione di Avé-Lallemant ANA 315 BI, 17 e BI, 2. Alcune pagine sono già state pubblicate da Frings nel 1987, ma altre, in cui si approfondisce il confronto con Nietzsche e il problema dell’eccedenza dionisiaca, sono tuttora inedite. 164 bellezza. Nell’atteggiamento di Scheler verso Platone si possono individuare tre fasi: 1) 1912-1915. Atteggiamento prevalentemente critico teso a mettere in luce la novità e la superiorità della concezione agapica cristiana nei confronti della teoria platonica dell’eros. Il progetto di Scheler si rifà direttamente ad Agostino, in grado di elevare a dignità filosofica le verità del cristianesimo, e in particolare di fondere il carattere creativo agapico con l’esperienza della persona. L’idea di un divino agapico è inserita sullo sfondo di una rivalutazione del concetto di persona, una centralità chiaramente assente in Platone: se l’aspetto essenziale della teoria platonica dell’eros è che esso fa uscire fuori di se stessi, è anche vero che la direzione non è verso la persona, bensì verso un Bene impersonale. L’interpretazione proposta da Scheler in questo periodo tanto risulta feconda nell’approfondimento filosofico del concetto di agape, quanto decisamente riduttiva relativamente alla teoria dell’eros platonica. 2) Da Vom Ewigen im Menschen a Wesen und Formen der Sympathie (19201922). Progressivamente Scheler riconosce un carattere creativo allo stesso eros platonico: la direzione non è più quella di una contrapposizione fra eros e agape, quanto di una loro convergenza. Vi sono inoltre delle analogie fra il testo platonico (ad es. il tema della katharsis e dell’uscita dalla caverna) e la riduzione scheleriana come uscita dalla chiusura ambientale. In questo periodo la lettura di Freud porta Scheler a ripensare il problema del Geist nei termini di una critica al nus poietikos. 3) Nell’ultimo periodo il confronto con Platone porta all’elaborazione di una teoria dell’eros come motore del disimpegno organico posto alla base dell’antropologia filosofica. Si può osservare che se le posizioni del primo periodo riscossero ampio successo, quelle del secondo hanno suscitato reazioni sostanzialmente negative, mentre quelle del terzo sono rimaste praticamente sconosciute. 11.3. La rivalutazione di Platone Paradossalmente l’interpretazione statica di Platone, quella che prevale anche nella prima fase di Scheler e che coincide con il platonismo della teoria delle idee, non solo non è stata contrastata dal cristianesimo, ma storicamente si è parzialmente saldata con esso, sfociando nella metafisica delle ideae ante res e rischiando di neutralizzare la portata filosoficamente rivoluzionaria implicita nel concetto agapico. È ciò di cui gradualmente si rende conto Scheler stesso: la rivalutazione filosofica del concetto agapico dovrà mirare a far convergere Platone e il cristianesimo, ma nella direzione contraria: verso una filosofia dell’atto creativo reso possibile dalle ideae cum 165 rebus. È in questa prospettiva che negli anni Venti Scheler rilegge Platone. La teoria dell’eros platonico non viene più intesa nei termini di una “prevalenza dell’anamnesis ripetitiva”, ma connessa alla “crescita delle ali”, allo slancio che caratterizza l’uomo: «egli lo chiama a volte “il movimento delle ali dell’anima”, altre l’atto dello slancio del nucleo della persona verso le essenze, ma non nel senso che queste essenze sarebbero oggetti a se stanti al di sopra di quelli empirici, quanto di uno slancio verso l’essenza d’ogni oggetto particolare. Ed egli caratterizza la dinamica interna alla persona e producente tale slancio [...] come la forma più alta e pura dell’eros» (GW V, 67). Qui non c’è più traccia della teoria canonica delle idee e l’attenzione viene piuttosto spostata verso la connessione fra filosofia, sublimazione ed eros: Platone affermando la necessità d’uno slancio capace di superare il piano sensibile e ancorandolo alla tendenza più generale dell’eros «ha aperto per sempre le porte della filosofia all’umanità» (GW V, 68). È la funzione intermediatrice di eros filosofo fra terra e cielo, fra uomo e divino, a fornire le basi alla teoria scheleriana della sublimazione esonerante dell’eros: eros dice di no a un valore vitale ma solo perché già attratto dalla bellezza d’un valore superiore, e nello spazio aperto da tale scarto, nella mancata reazione automatica d’appagamento d’uno stimolo, si muovono quelle energie alla base del vertere ai valori superiori: la gerarchia dei valori è concepibile solo presupponendo una spinta propulsiva in grado di differire energie verso livelli sempre meno ripetitivi, e capace di trascinare verso l’alto chi si trova in questa corrente. Ma l’innalzamento delle energie diviene possibile solo perché la bellezza si riflette sul piano sensibile in molteplici forme sempre più alte e gli occhi dell’eros inseguendole permettono a chi si trova in questa corrente di farsi trascinare verso l’alto. Qualcosa di simile si verifica anche in Scheler: la profonda crisi e ristrutturazione di senso determinata dall’uscita dalla chiusura ambientale non potrebbe avvenire se già nella sfera sensibile non fosse presente il riflesso di una logica diversa a cui appigliarsi. Rispetto a Platone Scheler introduce però una novità decisiva: secondo Platone il processo d’innalzamento fa abbandonare le illusioni (mondo sensibile) per dirigersi a ciò che è contemporaneamente il vertice dell’axiologia e della forza (l’idea del Bene), nello Scheler degli anni Venti invece il mondo sensibile non è solo un’ombra della vera realtà, ma diventa un livello ben determinato del reale e inoltre pur sempre la riserva d’energie per le sfere superiori, caratterizzate da fragilità ontologica. 11.4. Da Platone a Freud: l’impotenza dello spirito 166 La diversa concezione del “bene” è riconducibile in parte all’influsso di Freud. È da Freud che Scheler riprende l’idea secondo cui l’energia e la forza non afferiscono originariamente allo spirito e ai valori più alti, ma risiedono nelle pulsioni biologiche più primitive, nel Drang. L’impatto di tale influsso fu così violento da lasciare precise tracce dietro di sé: Scheler è costretto a negare nel 1924 quanto aveva scritto solo nel 1923: se in Wesen und Formen der Sympatie (1923) Scheler sostiene, in contrasto con Freud, che lo spirito è dotato di un’energia propria, che non gli deriva dalla libido4 in Probleme einer Soziologie des Wissens (1924) Scheler scrive qualcosa di molto diverso: «lo spirito in quanto tale non ha in sé originariamente una qualsiasi traccia di forza o efficacia» (GW VIII, 21). Tuttavia il perfetto rovesciamento della teoria platonica dell’eros attuato da Freud viene eseguito da Scheler solo a metà: se Freud ha ragione nell’individuare uno spostamento di energie verso l’alto, Platone è nel giusto quando sottolinea l’esistenza di una orientatività dall’alto verso il basso. Si tratta così di riaffermare l’impotenza dello spirito contro il nus poietikos, ma per riconoscere che il Drang in sé rimane in una situazione di disorientamento che lo spinge eroticamente a compenetrarsi con il Geist. Il processo di sublimazione presuppone un Ausgleich fra Geist e Drang, e non una contrapposizione dualistica quasi che un po’ di più di Geist significhi un po’ meno di Drang. Al contrario la sublimazione è da comprendere nel contesto della tesi secondo cui tutta la realtà è frutto della compenetrazione fra Drang e Geist a livelli d’autoreferenzialità sempre maggiori: le forze del Drang non vengono distrutte dal Geist, ma orientate nel senso platonico della persuasione (quella che poi Scheler chiamerà lenken e leiten) verso valori sempre più alti intesi essi stessi come Vorbilder. Il contrasto con Freud si sposta dunque di piano: l’autonomia del Geist non include più (come nel 1923) una sfera di energia originaria, ma si limita alla capacità di orientamento 5. Scheler rilegge Platone attraverso Freud, rovesciando l’assioma che più si sale nella gerarchia ontologica verso l’idea del Bene, maggiore sarà il grado di energia e forza. Ma rilegge pure Freud attraverso Platone, riconoscendo alla sfera della cultura uno statuto originario e una logica irriducibile a quella pulsionale. Traspare tuttavia in modo evidente un limite di fondo quando si 4 Precisamente: «Es kommt [...] allen Schichten unserer seelischen Existenz, von der sinnlichen Empfindung angefangen bis zu den höchsten geistigen Akten, ein selbständiges Maß von seelischer Energie zu, das durchaus nicht aus der Triebenergie der Libido entnommen ist» (GW VII, 207). 5 Così in un corso di lezioni del 1927/28 sulla Psychoanalyse Scheler dà ragione a Freud quando deduce ogni attività ed energia dello spirito da un processo di sublimazione dalle energie del Drang, ma afferma anche che Freud cade in un falso naturalismo quando deduce da tale processo di sublimazione non solo le energie, ma anche l’essenza stessa dello spirito (cfr. GW XII, 65). 167 ipotizza un Geist completamente impotente che risulta però capace ancora di orientare nel senso del lenken e leiten: in realtà anche il deviare la direzione di un moto richiede energia, di conseguenza a persuadere non può essere direttamente il Geist in sé. 11.5. Seidel e Gehlen: l’origine della morale e delle istituzioni Sul problema dell’irriducibilità della cultura dalla logica pulsionale Scheler si confronta direttamente, oltre che con Alsberg e Theodor Lessing, anche con Seidel. Nel 1925 A. Seidel, un giovane studente universitario della sinistra rivoluzionaria tedesca (oggi praticamente sconosciuto) concluse un’opera dal titolo Bewußtsein als Verhängnis 6 e dopo aver inviato il manoscritto a un amico, con la preghiera di occuparsi della pubblicazione, mise in atto un suicidio premeditato da tempo. Il testo comparirà postumo nel 1927, e pur essendo scritto senza grandi pretese, attirò subito l’interesse di Scheler ed esercitò successivamente una sottaciuta influenza pure su Gehlen 7. In quest’opera Seidel procede a una reinterpretazione della teoria freudiana della sublimazione proponendo l’importante tesi della “coscienza come destino ineludibile”: l’uomo sarebbe caratterizzato da una cronica “carenza dell’attività istintiva”, ma l’uscita dal comportamento istintivo avrebbe prodotto una situazione di “eccedenza pulsionale” capace di metterne a repentaglio l’esistenza, per cui trovandosi esposto ai pericoli di un’“eccedenza pulsionale” sfuggita al controllo dell’istinto l’uomo ha dovuto inventarsi un meccanismo artificiale d’inibizione: la morale e la coscienza. Muovendo all’attacco di tale ipotesi Scheler esplicita quella che può essere letta come una critica ante litteram a Gehlen: «Seidel trae da Freud la conclusione che tutta la nostra cultura umana (filosofia, scienza, religione, arte, istituzioni sociali e del diritto) sia solo un “surrogato” derivante dall’inadeguatezza del soddisfacimento pulsionale. Tuttavia perché l’uomo inibisce? Seidel risponde: poiché l’uomo ha un’eccedenza di libido il cui soddisfacimento lo condurrebbe alla rovina. No! solo attraverso il rifiuto sorge l’eccedenza» (GW XII, 66). Se l’eccedenza pulsionale fosse davvero sfuggita al controllo dell’istinto, come fa poi a correggersi ricorrendo nuovamente all’istinto di sopravvivenza? È un po’ quello che si può obiettare a Gehlen: se 6 A. Seidel, Bewußtsein als Verhängnis, Bonn 1927. Gehlen cita Seidel solo a partire dalla seconda edizione dell’Uomo. Il riferimento esplicito è invece a Herder secondo cui l’uomo è un Mängelwesen in quanto non vivendo più in un ambiente orientato dall’istinto, per sopperire a questa mancanza, ha dovuto creare una seconda natura, capace di sopperire all’istinto, e basata sul linguaggio e l’azione. 168 7 nell’uomo l’istinto non funziona più, non può certo essere l’istinto di sopravvivenza a spingere l’uomo all’auto-disciplinamento e all’invenzione della morale. Già Freud si rende conto che l’uomo non segue semplicemente la logica tesa a rafforzare il valore vitale e ponendosi “oltre il principio di piacere” si distacca da un puro riduzionismo naturalistico per ammettere una dialettica fra eros e thanatos. Nell’ipotesi scheleriana tale pulsione di morte si rovescia in qualcosa di positivo: diventa l’esigenza di trascendere il puro principio di piacere in direzione dei valori personali. Nel farsi uomo la vita è stata costretta a un salto mortale, ha dovuto eccedere se stessa, le proprie categorie, la propria logica, ma in questo salto, in cui ha rinunciato a essere orientata dai valori vitali, sarebbe sicuramente caduta nel nulla se non avesse improvvisamente scorto, al di là d’essi, una nuova classe di valori e con essa un nuovo punto di riferimento. La questione decisiva è che Freud, Seidel e Gehlen assumono come punto di partenza ciò che per Scheler è invece solo un punto d’arrivo, un risultato tutto da indagare e da capire: «La mancanza originaria di tutte le teorie negative dello spirito consiste nel fatto che esse non danno la minima traccia di risposta alla domanda fondamentale: che cosa dunque nega nell’uomo, che cosa dunque nega la volontà di vivere, che cosa reprime le pulsioni? E in base a quali diverse motivazioni fondamentali l’energia pulsionale repressa viene sublimata una volta in neurosi e un’altra in un’attività che dà forma alla cultura?» (GW IX, 48). Molte delle teorie antropologiche del primo Novecento, influenzate da Schopenhauer, teorizzavano che l’uscita dal comportamento istintivo fosse, dal punto di vista della vita, la conseguenza d’una malattia, d’un processo di degenerazione, brevemente: un “cancro della vita”, tuttavia se di malattia si tratta occorre individuare il virus o la causa che la scatena. Qui invece l’uscita dal comportamento istintivo viene assunta come un dato di fatto, un accadimento interno alla storia naturale che causa l’essere umano, ma senza essere a sua volta realmente spiegato. È questa però la scena madre che non può essere saltata e solo la risposta a tale domanda può far luce sull’uomo. 11.6. Il “vuoto del cuore”: dall’eccedenza pulsionale all’eccedenza di fantasia La molla di tutto il processo non può essere rappresentata, come ipotizzato da Seidel e Gehlen, dai pericoli impliciti nell’eccedenza pulsionale, per il semplice motivo che non esiste alcuna minaccia di uno straripamento patologico delle pulsioni oltre gli argini dell’istinto, a cui si rimedierebbe con la costruzione artificiale della morale e delle istituzioni: come ha dimostrato 169 K. Lorenz, con gli studi sull’aggressività umana, gli istintivi in realtà continuano a funzionare perfettamente anche nell’uomo. Già Freud del resto aveva distinto la sfera pulsionale (Trieb) dall’istinto (Instinkt), mettendo in luce come anche la sfera pulsionale abbia un proprio meccanismo autonomo d’autoregolazione. In altri termini: la pulsione non diventa pericolosa e incontrollata quando sfugge al controllo dell’istinto, per il semplice fatto che non è mai stata sotto il controllo dell’istinto! Che cosa significa poi eccedenza pulsionale? Quello che rappresenta un pericolo mortale non è l’eccedenza pulsionale, ma casomai l’eccedenza di sollecitazioni irrilevanti. È quello che ha messo in luce Luhmann, osservando che un sistema è tale se e solo se, in base alla propria chiusura operativa, è in grado di selezionare dall’immensa mole d’irritazioni irrilevanti che lo colpiscono unicamente gli stimoli rilevanti: la riduzione di complessità dell’eccedenza d’irritazioni ambientali non ha però nulla a che fare con l’eccedenza pulsionale. A questo punto il ragionamento di Gehlen va capovolto in quanto a ben vedere quello che caratterizza l’uomo è piuttosto un’eccedenza d’insoddisfazione rispetto a un’eccedenza di stimoli irrilevanti per gli strati affettivi più profondi: l’uomo, come osservava Scheler, è un essere il cui «inappagamento pulsionale risulta costantemente eccedente rispetto al suo appagamento» (Die Stellung, tr. it., 54-55). Punto di partenza non è l’eccedenza pulsionale (Triebüberschuß) quanto l’eccedenza di fantasia (Phantasieüberschuß): il rischio non consiste nel soccombere storditi da un’eccedenza di pulsioni, quanto nell’annoiarsi mortalmente nella povertà della chiusura ambientale, tanto che lo sperimentare sulla propria carne una sfasatura, uno iato incolmabile fra le proprie aspettative e la rilevanza pulsionale, spinge l’uomo a cercare oltre. La sofferenza nasce dall’esperire una non correlatività fra esistenza umana e fattualità, una ex-centricità della prima verso la seconda. Il Phantasieüberschuß va quindi interpretato in termini di Sehnsucht o “vuoto del cuore”. È il “vuoto del cuore” il luogo in cui si determina il capovolgimento dall’animale all’uomo: mentre l’animale vive completamente immerso nella realtà concreta del suo immediato presente, nell’uomo le aspettative pulsionali arrivano a eccedere ogni possibile soddisfacimento nella sfera della percezione sensibile, e soltanto allora si verifica quel fenomeno, assolutamente raro e specifico, della percezione del vuoto. 11.7. La teoria esonerante dell’eros È unicamente la spinta dell’insoddisfazione, derivante dall’esperien-za del vuoto, che consente all’uomo d’inibire l’ambito della percezione sensibile, per 170 cercare appagamento altrove: non trovando l’appaga-mento cercato nel qui e ora temporale dell’animale, l’uomo si guarda attorno, prolunga lo sguardo in avanti, nel tentativo di trovare nel futuro quel soddisfacimento che gli viene negato nel presente. È nell’impossi-bilità di soddisfare il proprio Phantasieüberschuß che l’uomo dimostra di essere, come dice Scheler, il Neinsager, l’eterno protestante nei confronti della semplice realtà, la bestia cupidissima rerum novarum sempre desiderosa d’infrangere i confini del suo qui-ora-così e di trascendere la realtà ambientale che la circonda. Ma chi è il motore del processo che permette la nascita del Phantasieüberschuß e con essa l’uscita dal comportamento istintivo? Nelle pagine del Nachlaß Scheler individua con sicurezza tale fattore nell’eros. Nel «liberarsi dagli impulsi del momento» (GW XII, 233), nel prolungamento dell’intervallo fra desiderio e appagamento, l’eros spezza definitivamente l’automatismo alla base della vita istintiva: nella sospensione dell’immediatezza, nello scarto essenziale fra stimolo e risposta, fa emergere una nuova logica eccedente lo stimolo stesso; nel differimento strappa l’appagamento dal controllo delle forze istintive e lo pone prima al servizio dell’intelligenza pratica e poi della persona. Il mestiere dell’eros è quella di creare uno scarto temporale, di consentire una presa di distanza, di darsi tempo in modo da posticipare nel futuro il soddisfacimento, mantenendosi nel contempo disponibile all’accoglimento di ulteriori stimoli, determinando così l’occasione per un’attività selettiva fra diverse opzioni; nel rinvio, nello iato temporale fra pulsione e reazione nasce una nuova logica temporale: l’«eros amplia i materiali dell’aspettativa e della mneme e anche qui conduce fino ai confini dell’anamnesi così come alla speranza oggettiva e al temere come modi dell’aspettativa» (GW XII, 232). Eros diventa padre della Sehnsucht (e quindi condizione per l’esperienza del vuoto) perché distoglie il desiderio dall’appagamento immediato prospettandogli davanti le immagini del Phantasieüberschuß. Nel trasferimento dell’appagamento al futuro si crea una nuova dimensione temporale e con essa un varco, uno spazio d’azione per un nuovo fenomeno: quello del preferire (cfr. GW XII, 233). Spostando continuamente in avanti un’infinità di desideri e di bisogni, la logica dell’eros esonera l’uomo dalla necessità di una risposta immediata, ma nel dilatare la temporalità nel futuro l’uomo scopre di poter organizzare una successione temporale all’interno dello stesso ordine di preferenza: ha la possibilità di sospendere un desiderio che si era presentato prima o che preme con una particolare urgenza riorganizzandolo secondo un diverso ordine di priorità. Una conseguenza rilevante per l’antropologia filosofica è che nel preferire l’uomo scopre di poter tracciare un percorso individuale: il tracciato delle preferenze diventa espressione inequivocabile della sua individualità, lo spazio 171 di libertà che ne rispecchia la fisionomia. Questo nell’animale non può accadere in quanto la pulsione e l’istinto, rimanendo in una logica binaria, non lasciano spazio a un percorso individuale, ma solo all’identità della specie. 11.8. Homo eroticus: la creazione del mondo visivo È Plotino a cogliere qui l’essenziale: eros è l’occhio nato dal desiderio «che permette all’amante di vedere l’oggetto desiderato, correndo egli stesso per primo dinanzi e riempiendosi di questa visione». Eros nasce «come occhio pieno, come visione che ha in sé la sua immagine» 8. Ed è forse in tale senso che si può intendere anche il verso di Schiller secondo cui esclusivamente attraverso il portale della bellezza s’accede alla terra della conoscenza: nella scansione temporale determinata dall’eros ciò che appaga viene distanziato e diventa un oggetto visibile aprendo per sempre le porte al mondo visivo e della conoscenza. Diffondendo una differente dimensione temporale, l’eros crea un nuovo orizzonte visivo, una nuova visibilità del mondo, laddove nella reazione automatica stimolo-risposta il sistema organico rimaneva cieco: associando immediatamente allo stimolo la propria possibile reazione, l’istinto “vede” solo il proprio appagamento interno e rimane completamente indifferente verso il contenuto con cui s’appaga. L’appagamento di un bisogno, che si consuma immediatamente senza intenzionare l’oggetto dell’appagamento, non lascia spazio all’erotismo: l’erotismo ha luogo unicamente quando il desiderio si nutre di un rinvio, di una diluizione del godimento. È nello spazio aperto da tale atto ascetico del posticipare e rinviare l’appagamento immediato del bisogno istintivo, che erompe il piacere erotico. Nell’espressione “non ci vedo dalla fame” si fa riferimento a una situazione dell’esser talmente storditi nel proprio bisogno da rimanere ciechi. Brutalmente quello che qui appaga non è neppure il cibo, ma qualcosa di ancora più primitivo: la cieca sensazione di riempimento dello stomaco, capace di annullare i “morsi della fame”. Nell’istinto non esistono occhi desiderosi di “guardare”: il raggio di rilevanza di tale sguardo è esclusivamente quello dell’utile e del dannoso, qui c’è unicamente l’“occhio dello stomaco” che scandaglia il proprio mondo-ambiente alla ricerca dei riflessi dei propri bisogni. Attraverso la rivoluzione dell’eros nasce l’occhio in grado di vedere l’oggetto del desiderio, là dove l’impulso e l’istinto vedono unicamente il proprio riflesso. 8 Plotino, Enneadi, tr. it. di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1992, III 5, 2-3. 172 Muovendosi in una direzione simile Scheler sottolinea come nel diverso modo di guardare dell’erotismo sia sottesa una nuova logica: l’eros rende visibile il mondo in quanto «distoglie il nostro sguardo dall’utilizzabilità dei beni a disposizione, anche se in un primo tempo la sposta solo in direzione dei valori estetici» (GW XII, 232). Dilazionando l’energia della pulsione sessuale e ponendola al servizio dell’attività percettiva, l’eros si palesa quale vero artefice dell’occhio umano 9. Lo spostamento d’interesse sull’immagine sottintende uno spostamento del campo di rilevanza dall’oggetto alla forma dell’oggetto. L’eros «è il Drang divenuto vedente» (GW XII, 236) che desidera percepire la forma. Questo concetto viene riassunto da Scheler in un passo del Nachlaß finora passato inosservato: «L’eros è energia pulsionale sessuale sublimata spostata nel sistema percettivo sensibile e nelle sue funzioni del vedere, udire, annusare ecc. Quando nell’uomo questa componente energetica cessa di porsi al servizio dell’atto puramente sessuale e riproduttivo e ravviva sempre di più le percezioni rendendole oscillazioni di rilevanza autonoma, soltanto allora diviene possibile guardare il mondo per le sue immagini e con un piacere funzionale allo sguardo stesso. […] Questo succede dapprima nel puro “godimento” del mondo come immagine, diventando un motivo originario dell’arte» (GW XII, 229-230). Solo nell’eros i Bilder riescono a spogliarsi dalla loro rilevanza puramente istintuale, cessano di essere il semplice indice di ciò che risulta dannoso o utile per la struttura pulsionale, e questo coincide con il superamento del comportamento istintivo e pulsionale e l’uscita dalla chiusura ambientale. Se la libido e la sessualità sono diffuse a tutta la natura, esclusivamente nell’uomo esse assumono la forma consapevole dell’eros, ed è questo a tracciare il vero confine fra l’uomo e le altre forme viventi 10. Nell’animale la percezione, la rappresentazione e le forme elementari d’intelligenza rimangono sempre confinate all’interno della logica dell’utile e del dannoso, quindi nei confini della chiusura ambientale «ma tali confini sono spessi come muri e gli chiudono l’ampiezza e la grandezza dell’universo» (GW XII, 130), l’uomo invece grazie all’eros rompe tali argini: il suo sguardo si rivolge ora liberamente al mondo senza più limitarsi a vedere unicamente un riflesso del proprio organismo 11. È solo l’erotismo che nell’uomo offre all’intelligenza e «Il fatto che l’uomo a differenza dell’animale sia capace d’una visione del mondo “disinteressata” relativamente agli impulsi organici [...], che possa in generale considerare il mondo come immagine, questo dipende esclusivamente dall’eros» (GW XII, 230). 10 «Il riflesso della grazia sorridente dell’eros irrompe nelle belle forme di tutta la natura. Ma solo nell’uomo egli […] diviene consapevole a se stesso» (GW XII, 236). 11 «Il motivo per cui negli esseri vertebrati superiori il pensiero mediato e l’atto di scelta rimangono materialmente così limitati e compiono percorsi così brevi è una 173 9 alla capacità di scelta, già presenti anche negli animali superiori, la possibilità di estendersi oltre la rilevanza biologica. conseguenza della mancanza dell’eros. L’eros è contemporaneamente ciò che obiettiva e nel contempo de-realizza» (GW XII, 232). 174