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(Prima Parte) Il Primo Libro Della Teoria Dei Media

Il libro analizza la teoria dei media, evidenziando l'importanza di smontare le tecnologie e le ideologie sottostanti per comprendere il loro funzionamento. Propone tre convinzioni fondamentali: contrastare l'acquiescenza, conoscere le teorie dei media e ampliare il campo teorico includendo la filosofia dei media. Inoltre, esplora diverse famiglie di teorie, come la mediologia classica, critica, discorsiva e filosofica, per offrire una visione complessiva delle trasformazioni mediali contemporanee.

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(Prima Parte) Il Primo Libro Della Teoria Dei Media

Il libro analizza la teoria dei media, evidenziando l'importanza di smontare le tecnologie e le ideologie sottostanti per comprendere il loro funzionamento. Propone tre convinzioni fondamentali: contrastare l'acquiescenza, conoscere le teorie dei media e ampliare il campo teorico includendo la filosofia dei media. Inoltre, esplora diverse famiglie di teorie, come la mediologia classica, critica, discorsiva e filosofica, per offrire una visione complessiva delle trasformazioni mediali contemporanee.

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Il primo libro della teoria dei media

Come i ragazzi della metafora della caverna di Platone osservano le ombre e credono
erroneamente che esse siano la realtà, allo stesso modo facciamo noi con la nostra
immersione inconsapevole nei media.

3 convinzioni alla base del libro in esame:


1. Contrastare l’acquiescenza: “smontare” i dispositivi tecnologici, economici,
politici e linguistici dei media per comprenderne il funzionamento interno, per
passare da una visione bidimensionale (=insufficiente) ad una tridimensionale.

2. Conoscere le teorie dedicate ai media: la teoria dei media ha una storia ed è


importante riscoprire riflessioni storiche di molteplici pensatori che aiutano la
comprensione di cosa sono i media, di come funzionano, di come ci toccano e di
come ci trasformano, evitando di affidarsi solo a contenuti superficiali o riciclati.

3. Ampliare il campo teorico: includere la filosofia dei media, integrandola con


approcci sociologici e semiotici, per analizzare criticamente le trasformazioni dei
media contemporanei.

Il libro in esame:
 È strutturato in capitoli, ognuno dei quali presenta una trattazione autonoma,
come voci di un dizionario da consultare; tuttavia, vi è una rete di rimandi
reciproci tra capitoli (con “#”).
 Non parla di storia dei media, né di teorie della comunicazione, né di storia della
comunicazione, né di media specifici, o di mezzi di comunicazione, si focalizza sui
media intesi come strumenti di una comunicazione mediata
tecnologicamente, dalla loro nascita nella stampa ottocentesca ai giorni odierni.
 Affronta 3 questioni/problemi:
1. Separare o no la storia dei media con la storia delle riflessioni sui
media? Alcuni studiosi ritengono che le riflessioni teoriche siano radicalmente
legate alle differenti fasi storiche che i media hanno attraversato: fase
meccanica, elettrica, digitale-elettronica, algoritmica. Il libro assume, invece,
un’ottica continuista: le riflessioni sui media sono sicuramente nate a
contatto con fenomeni propri delle varie fasi della loro evoluzione, ma si sono
sviluppate tenendo presenti approcci, insieme di idee, metodi di più lunga
durata.
2. Definizione del termine “teoria”: una teoria dei media è una produzione
discorsiva che segue 4 passaggi fondamentali:
a) Parte dall’osservazione e descrizione dei fenomeni dei media, utilizzando
metodi specifici
b) Utilizza concetti, modelli e regole interconnessi per analizzarli
c) Cerca di descrivere, regolare o prevedere come si comportano questi
fenomeni
d) Riformulare eventualmente i metodi con nuovi per l’osservazione e raccolta
dei dati sui media
Questa definizione va oltre il campo accademico: include anche riflessioni
pratiche fatte da professionisti (es. nel settore pubblicitario); inoltre, considera
anche le opere artistiche o mediali come rappresentazioni che riflettono o
indagano criticamente i media stessi.
3. “Mappare” le teorie dei media, in modo da fornire una loro
rappresentazione unitaria, per quanto modulata e differenziata: il libro opta
per una suddivisione in 4 grandi famiglie di teorie, o 4 grandi territori, e per
ciascuna di esse caratteri salienti, temi centrali, discipline coinvolte, autori e
opere di riferimento, con dettagli approfonditi nei rispettivi capitoli.

1. La mediologia classica
Essa è cosi definita in quanto si occupa delle riflessioni sui media tradizionali,
come la stampa, e analizza principalmente 2 temi:
a) Le istituzioni mediali* (=aziende, enti pubblici, agenzie di regolazione) e il loro
funzionamento
b) Gli effetti dei media sui pubblici e sulla società

Le origini di questa prima famiglia di teorie nascono con Walter Lippman, che nel
1922 osserva come i media influenzino i pregiudizi civili e politici dell’opinione
pubblica. Mentre, Harold Lasswell (1927) collega i media alla propaganda,
sottolineandone il ruolo fondamentale nella Prima Mondiale.
Entrambi basano le loro idee sulla visione dei pubblici come masse facilmente
influenzabili, ispirandosi al comportamentismo psicologico. Nasce così la teoria
ipodermica o “del proiettile magico”, che vede gli effetti dei media come
immediati e diretti.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le teorie si raffinano: gli effetti dei media non
sono più considerati universali, ma filtrati da fattori individuali e sociali; da qui:
a) Pubblici differenziati: non una massa indistinta, ma gruppi diversi con bisogni
specifici
b) Paradigma degli usi e gratificazioni: indaga in base a quali bisogni personali
(naturali, individuali, sociali..) i pubblici si rivolgono ai media

Tuttavia, le teorie sugli effetti “forti” permangono, cambiando il concetto di “forza”:


gli effetti dei media sono riconsiderati come indiretti e cumulativi, per esempio:
 Teoria della spirale del silenzio (Noelle-Neumann, 1977): le opinioni non popolari
tendono a sparire dal dibattito pubblico
 Teoria della coltivazione (Gerbner): i media plasmano lentamente la percezione
della realtà
 “Agenda setting”: i media influenzano i temi considerati importanti
Con l’avvento della televisione e della rete digitale queste teorie si aggiornano per
affrontare nuovi fenomeni come fake news e pubblicità algoritmica.

Riguardo, invece, le riflessioni sulle istituzioni mediali*: negli anni ’50-’60, il


paradigma struttural-funzionalista di Talcott Parsons analizza il sistema dei
media in termini di funzioni e disfunzioni, considerando anche aspetti etici (es. la
accountability delle aziende).
Un eco dell’approccio funzionalista si ritrova nelle ricerche sul newsmaking
(=evidenziano le caratteristiche che determinano il valore di “notiziabilità” di un
fatto, promuovendone o scoraggiandone la messa in vetrina) e nei gatekeepers
(=selezionatori, soggetti che scelgono quali notizie far passare e quali bloccare).

Dagli anni ’80, il focus si sposta dalle aziende o istituzioni alle reti di
comunicazione, che diventano centrali per spiegare i cambiamenti sociali legati a
Internet e al Web.

Dunque, la mediologia classica ha tracciato l’evoluzione delle teorie mediali,


affrontando temi fondamentali come gli effetti dei media e il ruolo delle istituzioni,
adattandosi ai cambiamenti epocali indotti dalla tecnologia digitale.

2. La mediologia critica
La mediologia critica analizza i media per smascherare dinamiche nascoste come
manipolazione ideologica, propaganda politica, sfruttamento creativo,
concentrazione di capitali economici, sorveglianza generalizzata…
La mediologia critica vuole evidenziare tutti i fenomeni e i movimenti volti a proporre
e a mettere in atto modelli e comportamenti alternativi se non opposti a quelli
del sistema dei media: operazioni di contro-informazione, media “dal basso” e
interpretazioni alternative dei prodotti mediali. In questo approccio la ricerca non è
un “attore” neutrale ma un attivatore di trasformazioni e di affrancamenti.

Utilizzando strumenti di economia politica (soprattutto marxista), sociologia


culturale ed etnografica, si studiano sia le audience e le loro pratiche di consumo, sia
gli apparati di produzione mediali in relazione ai contesti culturali e ideologici*.
Confronto m. classica vs critica:
A differenza della mediologia classica, orientata su analisi amministrative
(=finanziate dalle istituzioni e dalle aziende) e media centriche (=focalizzate sulla
relazione media-spettatori), la mediologia critica adotta un approccio socio
centrico (=il cui orizzonte è la società nel suo complesso), denunciando l’ideologia
sottesa ai media.
Inoltre, la m. classica utilizza metodi per di più empirici e quali-quantitativi (es.
analisi di marketing), mentre la m. critica utilizza ricerche più filosofiche, che, se
applicate sul “campo”, risultato qualitative.
Infine, la m. critica privilegia il concetto di “cultura”*, componente centrale nella
spiegazione dei differenti fenomeni dei media.

Le radici della mediologia critica affondano nella Scuola di Francoforte con Adorno
e Horkheimer che, in Dialettica dell’illuminismo (1947), denunciano i media come
strumenti di oppressione culturale (economicamente e politicamente parlando),
piuttosto che di “coltivazione” ed emancipazione.
Seguendo questa linea, 3 filoni di riflessioni (1.politico, 2.culturologico, 3.sul
pubblico):
1. Guy Debord, in La società dello spettacolo (1967), descrive i media come
creatori di una realtà “spettacolarizzata”, di un “mondo-spettacolo”, che si è
oggettivato ed è divenuto la nuova forma di realtà.
Habermas vede nei media il luogo di formazione della sfera pubblica, dunque
della democrazia (lega l’idea di democrazia con quella di cittadinanza).
Negli anni Sessanta cambia il concetto di “cultura”: non è più intesa come
patrimonio di conoscenze, gusti e canoni propri di alcune élite sociali (i “colti”), non
si differenzia più in alta, media e bassa; ma in senso antropologico come l’insieme di
credenze, racconti, pratiche, valori, regole…, evidenziando la continuità di
espressioni della cultura popolare.
2. Raymond Williams, in Cultura e società: i media non abbassano il livello
culturale, anzi ne assicurano la diffusione, la riproduzione, spesso
l’omogeneizzazione, o il rinnovamento.
3. Il Centre for Contemporary Cultural Studies a Birmingham con John Stuart Hall
si concentra sullo studio dei pubblici (=audience): i messaggi dei media
vengono “codificati” dai produttori, mentre il pubblico può decodificarli, in
modo attivo e talvolta in modo opposito (=rifiutando e criticando il
messaggio).
Quest’idea viene dal pensiero di Michel de Certeau in L’invenzione del
quotidiano: egli usa la metafora del bracconaggio per spiegare che il pubblico
può utilizzare i contenuti dei media in modi non previsti o contrari alle intenzioni
dei produttori (=letture libere o devianti).

Con l’avvento della società delle reti, si diffonde il mito dei “prosumers”
(=users+producers): nuovi pubblici costantemente connessi e interconnessi,
capaci di condividere contenuti, idee, iniziative.
Tuttavia, allo steso tempo (tra gli anni 10 e 20 del XXI secolo) emerge il capitalismo
digitale, dove il potere delle piattaforme riduce la libertà degli utenti. Concetti come
“società delle piattaforme” e “capitalismo della sorveglianza”, sviluppati da
Shoshana Zuboff, descrivono dinamiche di controllo e sfruttamento dei dati
caratteristici dei media contemporanei.

Dunque, questo settore di studio aiuta a capire che i media non controllano
completamente l’audience: essa ha un ruolo attivo e può reinterpretare i messaggi in
modo personale o critico.

3. La mediologia discorsiva
La mediologia discorsiva studia i prodotti mediali (film, serie tv, pubblicità,
videogiochi…) e le loro strutture narrative, analizzandoli come testi o discorsi che
contengono significati culturali e ideologici, anche quando cercano di nasconderli.

La mediologia discorsiva nasce con la semiotica moderna, in particolare con il


saggio di Roland Barthes La retorica dell’immagine (1964), dove analizza una
pubblicità per mostrare come veicoli ideologie nascoste (mitologiche). Questo lavoro
ha aperto la strada a 2 filoni principali:
1. La socio-semiotica: si concentra su come i testi mediali diffondano
significati e valori nella società. Due concetti risultano rilevanti in questo
senso:
 La narrazione: ad esempio, secondo il semiologo Algirdas Julien Greimas i
racconti funzionano come “macchine” che diffondono valori, stabilizzandoli
nella cultura.
 L’enunciazione: il modo in cui un testo mediale guida l’interpretazione dello
spettatore (ad esempio, un film può “suggerire” allo spettatore come sentirsi
tramite le reazioni dei personaggi).
2. L’analisi critica del discorso: si concentra su come i discorsi mediali (ma anche
studi di culturale visuale sulle immagini) nascondano ideologie implicite.
Questo approccio cerca di “decostruire” i messaggi per svelare idee nascoste,
come il patriarcato, il sessismo o il razzismo.

Con i media digitali, la mediologia discorsiva ha ampliato i suoi studi per includere
nuovi fenomeni:
a) Narrazioni espanse: grandi franchise come Harry Potter o Star Wars sono visti
come “universi narrativi” che si sviluppano su + piattaforme (film, libri..); questi
fenomeni sono studiati con concetti come:
 Intertestualità: collegamento tra vari testi (es. un fumetto collegato a un film)
 Crossmedialità: diffusione di una storia su più media
b) Ipertesti: strutture narrative non lineari, tipiche dei videogiochi o della realtà
virtuale, dove l’utente sceglie il percorso.
c) Rimediazione: i media digitali “rimediano” quelli vecchi, cioè li integrano e li
trasformano. Ad esempio, il computer permette di leggere libri, guardare film,
ascoltare musica… combinando linguaggi diversi.

Dunque, la mediologia discorsiva analizza i prodotti mediali come strumenti che


trasmettono significati culturali e ideologici, studiando come funzionano e come
influenzano chi li fruisce, ed anche le nuove forme di comunicazione con l’avvento
dei media.

4. La mediologia filosofica
La riflessione filosofica sui media moderni inizia con Walter Benjamin e L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935-9),che analizza come i
media moderni creino nuove esperienze basate su immagini riproducibili; 2 domande
chiave emergono: come i media trasformano i criteri estetici e artistici? Come tali
esperienze influenzano la vita moderna?
Da qui 2 direzioni:
1. Idea di estetica come scienza del bello: Rudolf Arnheim con l’idea che la
tecnicità determina i criteri di specificità estetica di un’opera d’arte e fissa quindi
le regole della sua riuscita; + avanti, Rosalind Krauss contesta questa
“specificità mediale”, credendo invece che l’arte contemporanea reinventa i
media, ampliando le possibilità creative (es. digital art, net art, game art, realtà
virtuale).
2. Idea di estetica come disciplina dell’aisthesis: l’attenzione si sposta
sull’analisi dei processi esperienziali legati ai media con contributi significativi
delle scienze cognitive, delle neuroscienze e dell’antropologia filosofica.

Media come esperienza sensibile: l’estetica dei media si è evoluta da una


riflessione teorica sui mezzi a una teoria della mediazione sensibile con 3
principali incontri disciplinari:
1. Estetica e scienze della mente: negli anni ’50 la filmologia avvia un dialogo tra
psicologia sperimentale e percezioni cinematografica, ripreso negli anni ’90 con
le scienze cognitive classiche. + recentemente, l’approccio si è arricchito con
le scienze neuro-cognitive che studiano emozioni e dinamiche corporee dello
spettatore, come in Lo schermo empatico.
2. Estetica e antropologia filosofica: con autori come Edgar Morin si sottolinea
l’importanza delle immagini nella costruzione del rapporto tra reale e
immaginario. Questo approccio esplora aspetti “magici” e pre-razionali, come i
fenomeni di identificazione o il ruolo dei media nella memoria culturale (es. nella
rappresentazione della shoah).
3. Estetica e ontologia del reale: da Andrè Bazin a Jean Baudrillard(*), il
dibattito si concentra sulla relazione tra media e realtà, oscillando tra posizioni
che vedono i media come specchi del reale e teorie che li interpretano come
generatori di simulacri(*).

Le tecnologie recenti, come la realtà virtuale e aumentata, hanno spinto i filosofi a


riconsiderare il rapporto tra immagine e mondo reale. Autori, come Roberto
Diodato, vedono in queste tecnologie un mezzo per riflettere sull’essenza incarnata
e relazionale dell’esperienza del reale; dunque i media non annullano il reale ma
lo trasformano.

Infine, la m. filosofica incontra la filosofia della tecnologia: l’analisi della


tecnologia mediale ha radici nel pensiero di Marshall McLuhan, che vede i media
come estensioni sensoriali e cognitive dell’uomo. Successivamente, autori come
Friedrich Kitter studiano le reti tecnologiche come condizione per la cultura e il
sapere di ogni epoca.

La critica al determinismo tecnologico ha stimolato ricerche che enfatizzano il


ruolo di cultura, spazi e organismi nei processi di mediazione:
 Cultura: la tecnologia è inseparabile dal suo immaginario e dalle pratiche che la
costituiscono (Albera e Totajada).
 Spazi: i media creano ambienti mediali e ridefiniscono il rapporto con il reale
(Peters e Bruno)
 Organismi: i media come dispositivi che mediano tra spettatori e mondo (Casetti)

Dunque, la mediologia filosofica è un’ampia riflessione sui processi di mediazione


che ridefiniscono costantemente la nostra esperienza estetica, culturale e ontologica.

Arte e media di Elisabetta Modena


Nel 2021 l’artista Pak crea The Fungible Collection, una serie di opere di arte
digitale vendute tramite Sotheby’s su Nifty Gateway. Le opere, caratterizzate da
geometrie astratte in bianco e nero, comprendono edizioni limitate e pezzi unici. Tra
questi spicca The pixel, un unico pixel, reso visibile come quadrato grigio, venduto
per 1.355.555 dollari (l’intera serie supera i 16 milioni di dollari); tale opera è un
NFT (=Non Fungible Token) certificato tramite blockchain come autentica e unica,
dunque un’opera crypto art (0basata sul sistema delle cripto valute).
Tale fatto ha sollevato domande sull’unicità e autenticità nell’arte digitale e
dibattiti sul rapporto tra arte e media digitali.

Uno, centomila o nessuno: riproducibilità e autenticità dell’opera


d’arte
Ogni opera d’arte è legata a un medium, inteso come insieme di materiali, tecniche
e supporti. Con l’avvento di tecnologie come la fotografia, nel XIX e XX secolo l’arte
ha dovuto ripensarsi: la fotografia non solo replicava la realtà, ma era riproducibile
all’infinito, trasformando il concetto di autenticità. Walter Benjamin sosteneva
che l’arte perdeva l’hic et nunc, la sua “aura originale” per acquisire un
valore espositivo, accessibile a tutti.

Tuttavia, la moltiplicazione dei risultati ottenibili ne riduce il valore nel mercato,


in cui prevale il principio della scarsità. Nel tempo, il mercato ha introdotto
soluzioni come la tiratura limitata (= riproducibilità fino ad un certo numero) per
preservare il valore delle opere.

Con il digitale, la riproducibilità ha raggiunto livelli estremi, sollevando nuovi


interrogativi sull’originale e il suo rapporto con la copia: secondo Boris Groys
nel digitale l’originale non è visibile, ma è rappresentato dal file di base, cioè il
codice digitale che sta dietro l’immagine, ma che non possiamo vedere direttamente;
quello che vediamo sullo schermo, invece, è una copia generata da quel file. Tuttavia,
nel caso delle opere digitali, l’originalità non sta nel file in sé, ma nell’evento della
visualizzazione; ogni volta che l’opera viene mostrata, questa esibizione diventa
una sorta di “originale” (come nella musica la partitura non è l’opera finita, ma va
interpretata e suonata), e la sua “unicità” sta in come viene mostrata.

NFT: un gettone crittografato registrato su una blockchain e collegato a un’opera


d’arte digitale che, una volta comprato, certifica in modo condiviso la proprietà
dell’opera. Questi certificati garantiscono l’autenticità di opere digitali (come The
Pixel e il meme Nyan Cat) trasformandoli in oggetti collezionabili e attribuendo
valore a contenuti che prima sembravano privi di concretezza. Il fenomeno degli NFT
ha ridefinito il concetto di unicità nell’arte digitale, creando una “scarsità digitale
verificabile”.

Arte vs media: dalla “medium specificity” all’artista come deejay


Nell’Ottocento-Novecento (arte moderna), le avanguardie e il ready-made hanno
eliminato il legame tra a arte e abilità tecnico-artigianale. L’arte utilizza ogni tipo di
materiale (oggetti di vita quotidiana, persino escrementi e rifiuti), persino silenzio e
vuoto.

Alcuni teorici, come Rudolf Arnheim e Clement Greeberg, hanno elaborato la


teoria della specificità del medium: individuare le modalità con cui è possibile
operare artisticamente attraverso uno specifico medium (es. il cinema muto si basa
sulla vista, mentre la radio sull’udito). Tuttavia, queste teorie si sono rilevate
limitate, poiché l’arte contemporanea ha superato i confini tradizionali, integrando
spazio e tempo con istallazioni e opere multimediali.
Secondo Rosalind Krauss molti artisti hanno reinventato il medium, valorizzando
potenzialità nascoste di media di tipo diverso o usando materiali obsoleti; dunque, il
medium non è più al centro dell’arte.

Nicolas Bourriaud nota che dagli anni ‘80 gli artisti operano come DJ remixando
opere esistenti o materiali culturali preesistenti, dunque mixando o reinventando
medium ; ma allora come è possibile distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è?
La distinzione tra ciò che è arte e ciò che non lo è non dipende più dal
medium usato, ma dal contesto in cui un’opera è inserita. Ad esempio Arthur
Danto sostiene che un’opera come le Brillo Box di Warhol è arte perché è presentata
nel mondo dell’arte (“artworld”), dove una teoria artistica ne giustifica il valore.
Da qui, infatti, per esempio anche i videogiochi entrano nei musei (come il MoMa)
non come arte, ma come design culturale, dimostrando che anche l’intrattenimento
può avere valore culturale.

Arte e nuovi media


Per “new media” non si intende ogni medium nuovo/recente, ma l’integrazione tra
mass media +computer; questi strumenti rappresentano una forma di
multimedialità, dove immagini, suoni, video e testi si combinano, superando il
concetto di medium specificity.

Gli artisti che lavorano con i media digitali li usano come strumenti tradizionali, ma
la “new media art” si distingue perché esplora le potenzialità culturali, politiche ed
estetiche delle tecnologie mediatiche emergenti.
Altre locuzioni utilizzate per definire tali opere e artisti sono:
 “Media art” (=focalizzata sull’uso dei media elettronici)
 “Digital art” (=specifica sull’uso del digitale).
Alcune sottocategorie includono la “game art” e la “net art” (=prime pratiche in
rete).

Nonostante la loro innovatività, le opere dei nuovi media sono spesso rimaste
marginali rispetto al sistema dell’arte tradizionale; (2012) Claire Bishop in un
articolo su Artforum denuncia il fallimento delle aspettative secondo cui l’arte visiva
sarebbe diventata digitale, lamentando la mancanza di artisti in grado di affrontare
criticamente queste tecnologie.

(2010) Emerge la post-internet art, coniata da Marisa Olson, che rivendica la


necessità di un’arte profondamente influenzata dalla pervasività della rete e dal
digitale nella vita quotidiana.

La realtà virtuale, ann’60-‘70, è stata usata dagli artisti per le sue potenzialità
interattive (es. Ivan Sutherland con il “display definitivo” che riproduce la realtà
facendo immergere e interagire l’utente in un mondo-immagine a 360 gradi).
Dopo una fase di declino, la VR rinasce grazie alla start-up Oculus (2015), portando
artisti come Marina Abramovic a sperimentare con il medium ora più accettato
anche nei contesti istituzionali.
Le opere di VR e di realtà aumentata oggi vedono distribuzioni online gratuite e
presentazioni in contesti esclusivi, dove si cerca di attribuire loro un’aura artistica.

Media, New Media e storia dell’arte


Il rapporto tra arte e media digitali influenza anche la storia dell’arte e le sue
metodologie. Già in passato, tecnologie come fotografia e cinema avevano
apportato cambiamenti significativi (es. Buckhardt usava fotografie di opere d’arte
per scopi didattici; i Critofilm di Ragghianti).
Con l’avvento del digitale 2 approcci, Johanna Drucker distingue tra:
a) Digitized art history (=digitalizzazione di collezioni e archivi)
b) Digital art history (=uso di analisi computazionali accanto ai metodi
tradizionali).
Tuttavia, Claire Bishop critica l’approccio quantitativo della digital art history,
evidenziando il rischio di trascurare aspetti teorici e di piegarsi alle logiche delle
STEM. Simili questioni emergono nell’analisi automatizzata di grandi quantità di
testi e reti intertestuali visuali, che sfruttano intelligenza artificiale per creare mappe
sinottiche sulla produzione di un autore o di un’epoca.

Cittadinanza e partecipazione politica di Simone Carlo


La campagna elettorale del 2008 per l'elezione di Barack Obama fu cruciale non solo
per l'elezione del primo presidente afroamericano, ma anche per l'uso innovativo e
consapevole dei media digitali: per la prima volta i social network vengono utilizzati,
non solo x propaganda, ma per attivare e mobilitare i sostenitori, creando una
rete di partecipazione sia virtuale che reale. Da qui, i media si trasformano in
strumenti indispensabili per coinvolgere i cittadini e favorire la loro partecipazione.
Tuttavia, il dibattito sul rapporto tra media e cittadinanza si è evoluto anche in modo
più critico, evidenziandone i rischi.

Alle origini del rapporto tra media, partecipazione, dibattito


pubblico,
politica
Con l’emergere della società di massa (seconda metà 800) ha spesso suscitato
visioni pessimistiche sul rapporto tra media e società. Es. Herbert Blumer
considerava i media come cinema, radio e televisione capaci solo di creare una
"massa" anonima, facilmente influenzabile, incompetente e priva di
interazione e potere decisionale, anziché un "pubblico" razionale e colto tipico dei
media borghesi come i giornali.

Con la crescente mediatizzazione della società (= pervasività dei media nella vita
quotidiana e nelle relazioni sociali) la riflessione si è estesa alla politica,
evidenziando come i politici adottassero sempre più le logiche del sistema mediale.
Due posizioni principali:
a) Il modello deliberativo di Jurgen Habermas: i media e l’Internet sono
strumenti per migliorare la democrazia e offrire opportunità di discussione.
b) Critica ai media: osservano trasformazioni nel dibattito pubblico come la
spettacolarizzazione, la personalizzazione e la semplificazione dei temi e del
linguaggio.

Trasformazione della politica e ambienti digitali


Domandarsi se Internet è un luogo democratico deve tenere conto del contesto in cui
politica e Web si incontrano: in un periodo di crisi della democrazia, caratterizzato
dalla decadenza dei partiti tradizionali e dalla frammentazione operata dai social
media.

Boccia Artieri e Bentivegna individuano quattro fattori chiave nella


trasformazione politica legata agli ambienti digitali:
1. Overload informativo (=la sovrabbondanza di contenuti digitali e politici) rende
difficile per i cittadini orientarsi.
2. Mercato dell’attenzione: la competizione mediatica ha incentivato
sensazionalismo, spettacolarizzazione, fake news, post verità, messaggi che
toccano l’emotività… inquinando il dibattito pubblico e riducendo il potenziale
democratico della Rete.
3. Frammentazione delle audience: la proliferazione delle fonti ha eliminato
l’ambiente informativo comune, creando "echo chambers" autoreferenziali che
limitano il confronto tra opinioni diverse.
4. Selezione partigiana delle notizie: chi produce informazione politica tende a
promuovere contenuti aderenti agli interessi del pubblico, e allo stesso tempo il
pubblico tende ad esporsi a contenuti di cui condivide i punti di vista. Si riduce
così l’opportunità di entrare in relazione con opinioni alternative e a mettere in
dubbio le posizioni dominanti. Tale tendenza è rinforzata dagli algoritmi, che
producono così delle bolle comunicative (=filter bubble).

Nonostante il ruolo dei media digitali, gli autori invitano a considerare la crisi
politica e della rappresentanza come causa principale delle difficoltà
democratiche.

Internet e i social network sono democratici?


I social network e Internet, pur offrendo opportunità di socialità, partecipazione e
costruzione della cittadinanza, presentano caratteristiche ambivalenti rispetto ai
processi democratici. Il sociologo Christian Fuchs identifica sei tratti distintivi del
Web partecipativo:
1. Comunicazione: permette sia un flusso informativo “top-down” (es. politici verso
il pubblico) sia “many-to-many” (=flussi informativi orizzontali x dare voce agli
utenti).
2. User generated contents: gli utenti possono creare e condividere contenuti
facilmente, promuovendo fenomeni come il “citizen journalism”(=giornalismo
amatoriale).
3. Condivisione: la possibile diffusione virale di contenuti, sfruttata anche in ambito
politico.
4. Community e networking: le comunità online superano i limiti di spazio e
tempo, ma tendono a essere più effimere rispetto a quelle offline.
5. Azione collettiva: offre strumenti per coordinare movimenti e campagne
politiche (es. Obama nel 2008).
6. Collaborazione: favoriscono iniziative collettive, di sostegno ad una causa.

Vi è un ottimismo iniziale verso il potenziale democratico dei social media, condiviso


da studiosi come Derrick de Kerckhove, che ne sottolinea la decentralizzazione della
produzione di contenuti e l’interattività. Tuttavia, critici come Claudio Riva mettono
in guardia contro le concentrazioni di potere, le derive populistiche e i sistemi di
controllo e censura, che limitano la libertà personale e civile. (=ci sono pro e contro,
è necessario un equilibrio).

Internet, partecipazione politica, cittadinanza


I media digitali non sono solo strumenti di informazione, ma trasformano l'idea
stessa di democrazia e la partecipazione politica. La crescente disaffezione
verso le istituzioni tradizionali e la diminuzione della fiducia nelle forme
convenzionali di democrazia si intrecciano con nuove modalità di coinvolgimento
civico, che non sono necessariamente anti-politiche, ma riflettono un indebolimento
dei tradizionali mediatori politici, come partiti e sindacati.
L'impatto di Internet sulla partecipazione politica è dibattuto:
a) Esso sottrae tempo alla politica offline, considerata più efficace.
b) Esso favorisce la mobilitazione, semplificando la ricezione e condivisione di
informazioni.
c) La partecipazione politica online è selettiva: coinvolge chi è già politicamente
attivo.
d) Peter Dahlgren propone una visione più complessa: i media digitali creano una
nuova sfera pubblica dove la sorveglianza democratica può essere svolta dai
cittadini, fuori dai tradizionali processi giornalistici. Tuttavia, è necessario che
siano supportati da un ambiente culturale che incoraggi l'impegno civico
(=cultura civica), sia online che offline.

Il paradosso della democrazia


Il dibattito sul potenziale democratico di Internet:
a) Da una parte: la Rete, in particolare con il Web 2.0, offre nuovi spazi di
partecipazione e democrazia diretta, ampliando le opportunità di informazione e
potenziando il ruolo dei cittadini nei processi decisionali.
b) Dall’altra: focus sul rischio di eccessi populistici, demagogici e neo-tribali, con la
diffusione di informazioni false e irrilevanti che contaminano il dibattito pubblico.

Fausto Colombo propone una visione alternativa, rifacendosi al concetto di


parresia (=libertà di esprimere la verità, anche a rischio della propria vita),
sviluppato da Michel Foucault: dare a tutti la libertà di parola, pur essendo un valore
positivo, comporta anche rischi per la democrazia, poiché non tutti coloro che
parlano lo fanno con buone intenzioni; la vera questione, dunque, non è se
Internet sia democratico, ma se aumenti o diminuisca la qualità del dibattito
pubblico.
Colombo sottolinea che non tutti partecipano attivamente al Web, ma solo una
minoranza, che non corrisponde necessariamente alla migliore élite di pensiero.
Inoltre, un ampio attivismo online non implica una maggiore democrazia, poiché
l'opinione popolare non è sempre giusta o disinteressata. Ed ancora, i "cittadini
silenti" sul Web non sono automaticamente disinteressati politicamente; potrebbero
partecipare nella vita offline; non va quindi svalutato il loro silenzio.

In conclusione, Internet non può essere considerato per definizione più democratico
di altri spazi pubblici, ma può essere uno strumento utile di democrazia, con
alcune aree più democratiche di altre, che devono essere analizzate nel contesto
sociale per valutarne la capacità di promuovere partecipazione, socialità,
cittadinanza e efficacia politica.

Cultura, industria culturale, critica della società di Elisabetta


Locatelli
I media come cultura
Il termine "cultura" deriva dal latino colere (=coltivare): inizialmente associato alle
élite che praticavano il sapere; mentre, dalla seconda metà del Novecento, il
concetto di cultura si allarga anche alle altre classi sociali (es. operai), e
considerando la cultura in modo contestuale.

2 autori che hanno riflettuto sul rapporto tra media e cultura:


1. Raymond Williams: la cultura non è solo patrimonio del passato, ma anche una
produzione storica, accessibile a tutti, non solo alle élite.
2. Michel de Certeau: esplora la relazione tra consumo-cultura, sostenendo che
il consumo dei prodotti culturali avviene tramite azioni quotidiane che negoziano
l'autorità insita nei media, trasformando il significato di ciò che è ricevuto (es.
ogni lettura modifica il testo perché introduce una tensione fra il significato
letterale autorizzato dalle élite e il significato attribuito dall’autonomia del lettore,
che dipende a sua volta da una trasformazione dei rapporti sociali); dunque, dove
il potere sembra detenuto da una cultura dominante e i media, le persone possono
adattare e trasformare ciò che ricevono.

I media, quindi, sono visti come dispositivi che non solo mostrano ma modificano la
cultura. I cultural studies sono stati pionieri nell'analizzare i media come forme
culturali, esplorando come questi riflettano e costruiscano la realtà sociale. Questi
studi, nati al Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, hanno
portato a una lettura dei media come mezzi di conoscenza e interpretazione della
realtà, evidenziando il concetto di ideologia e di egemonia.
Stuart Hall, tra i principali teorici dei cultural s., sviluppa il modello
encoding/decoding, che descrive come i messaggi mediali siano codificati dai
produttori e decodificati dai consumatori, con 3 interpretazioni/letture:
 Preferita (=il destinatario decodifica il testo nello stesso modo in cui è stato
codificato)
 Negoziata (=il fruitore accetta la codifica, ma cerca di attuare interpretazioni
autonome)
 Oppositiva (=il destinatario comprende la codifica, ma cerca un interpretazione
diversa)
Questo approccio ha contribuito a considerare l’audience come attiva, aprendo la
strada ai cultural studies agli audience studies (=l’attenzione si sposta dai testi ai
pubblici e ai contesti di fruizione, studiati attraverso osservazioni dei partecipanti,
interviste e focus groups).

In tempi recenti:
 David Morley: ampliare lo studio dei media oltre una visione euro-americana,
considerando anche la digitalizzazione e l'influenza delle tecnologie nei contesti
economici, sociali e politici.
 Daniel Miller con l’approccio etnografico: ha analizzato l'uso dei social media
in diverse parti del mondo, studiando le pratiche culturali e le dinamiche di
appropriazione dei media.
 Post-colonial studies: sottolineano l'importanza di considerare il "Global South"
e la storia del colonialismo, contestando l’approccio deterministico degli studi
occidentali sui media e analizzando le disuguaglianze legate alla produzione e
smaltimento delle tecnologie (es. discariche di spazzatura elettronica in Asia).

L’industria culturale
Il concetto di "industria culturale" è stato introdotto da Max Horkheimer e
Theodor W. Adorno nel La dialettica dell’illuminismo (1947); i due sostengono
che la cultura sia stata ridotta a merce, meccanizzando la produzione culturale e
trasformandola in uno strumento di dominio sulle classi operaie, simile al
capitalismo, fascismo e comunismo sovietico.
In questa visione, l'intrattenimento diventa un mezzo per controllare le persone,
standardizzando le emozioni e impedendo qualsiasi forma di resistenza. Horkheimer
e Adorno propongono, dunque, una visione pessimistica e critica della cultura,
suggerendo che solo un cambiamento radicale possa restituire valore alla cultura.

(1967) Guy Debord sviluppa ulteriormente questa teoria, osservando che il


capitalismo ha creato una "società dello spettacolo", dove le immagini della realtà
sostituiscono la realtà stessa.

Oggi, autori come Christian Fuchs, riprendono la critica dei 2 per analizzare i
social media, visti come strumenti che riproducono lo sfruttamento e la
manipolazione dei consumatori, vendendo i loro dati a fini pubblicitari. Fuchs vede i
social media come una forma di "reificazione" del capitalismo, che sfrutta i media
per mantenere un dominio economico e ideologico.

Tuttavia, una visione più ottimistica è proposta da Edgar Morin, che riconosce il
lato creativo dell’industria culturale: sebbene l’industria culturale possa consolidare
stereotipi, essa offre anche al pubblico la possibilità di rielaborare e creare nuovi
significati, dando vita a una cultura che, pur essendo standardizzata, consente anche
l'invenzione e la costruzione dell’identità.

I media e la critica sociale


I media, come parte della cultura e della società, possono diventare strumenti di
critica sociale o alla cultura dominante: possono sfidare la cultura dominante,
creare nuovi immaginari e promuovere forme di attivismo (es. Squid Game: critica il
capitalismo e le disuguaglianze sociali, usando violenza e estetica per trasmettere un
messaggio).
I cittadini possono anche usare i media per formare nuovi immaginari e impegnarsi
in attivismo sociale: movimenti come #MeToo e Black Lives Matter hanno utilizzato
i social per denunciare abusi e razzismo, creando spazi di discussione e solidarietà.
Inoltre, i media vengono utilizzati in contesti artistici e critici, come nel caso di
progetti che esplorano i pregiudizi nei sistemi algoritmici (es. il progetto di Kate
Crawford e Trevor Paglen analizza come gli algoritmi di riconoscimento facciale
possono incorporare pregiudizi culturali). Questo mette in luce come le
tecnologie riproducano valori e dinamiche culturali attraverso le loro
decisioni.

Digitale, digitalizzazione, algoritmi di Elisabetta Locatelli


La digitalizzazione dei media
La digitalizzazione deriva dal termine latino "digitus” (=dito) e si riferisce alla
rappresentazione di contenuti con numeri discreti, contrapposta all’analogico basato
su grandezze continue. Essa si basa su 2 processi principali:
a) Numerizzazione (=conversione di contenuti in cifre numeriche)
b) Binarizzazione (=uso dei bit (0,1) che semplifica la rappresentazione digitale)
Questi processi hanno omogeneizzato il sistema mediale, riducendo le differenze tra
formati e modalità di produzione e fruizione. Oggi, film, libri, musica e programmi
televisivi possono essere prodotti, distribuiti e fruiti utilizzando dispositivi unici e
dati digitali.

Quattro dimensioni dei media digitalizzati (Simone Carlo e Fausto Colombo)


1. Tecnologica: include i dispositivi (es. smartphone) e le infrastrutture di rete per
distribuire i contenuti.
2. Istituzionale-normativa: regolamentazioni e leggi di ogni paese che guidano il
processo di digitalizzazione (es. passaggio alla televisione digitale terrestre)
3. Economica: attori e modelli di business che operano nel sistema dei media
digitalizzati.
4. Culturale: valori, pratiche d’uso e socializzazione mediale.
Questi aspetti sono strettamente interconnessi: la spinta normativa favorisce
investimenti economici; i contesti culturali e tecnologici si influenzano
reciprocamente (es. il ritardo iniziale nella diffusione delle videochiamate, superato
solo durante il lock-down per COVID-19 grazie a un cambiamento sinergico nelle
esigenze culturali e tecnologiche).

«User generated contents» e culture convergenti


Il processo di digitalizzazione dei media ha favorito la convergenza tra mezzi di
comunicazione interpersonali (=telefono), di massa (=radio) e strumenti informatici
interattivi (=computer), rendendo gli utenti sempre più attivi nella produzione e
diffusione di contenuti, essendosi democratizzato l'accesso alla creazione e
condivisione di questi; infatti, si passa da Web 1.0 (=utenti consumatori passivi)a
Web 2.0 (=utenti produttori attivi).
Tuttavia, alcuni studiosi hanno evidenziato che la retorica di partecipazione
democratica delle piattaforme è spesso più un discorso di marketing che una realtà,
poiché algoritmi e moderazione umana regolano la visibilità dei contenuti .
Henry Jenkins ha approfondito il concetto di convergenza dei media, che non solo
collega industrie diverse ma trasforma anche le audience in "ubique"(=ovunque),
capaci di passare da un medium all’altro. Egli introduce la nozione di "cultura
partecipativa", in cui non c’è + un confine tra produttori e consumatori.

Le grandi aziende mediali, pur mantenendo il potere, adattano i propri processi


creando sinergie tra media e franchise narrativi, favorendo il transmedia
storytelling (es. Harry Potter dimostra come una storia si espande su media diversi,
tra film, videogiochi e piattaforme online).
Sul versante degli utenti, le fan culture trovano nuovi spazi per rielaborare i
contenuti in cui intrecciano cultura mediale e popolare.
Questi fenomeni sollevano anche questioni sul copyright (= tutela dei prodotti
audiovisivi con la loro circolazione e reinterpretazione).

Ibridazioni e relazioni fra media


La digitalizzazione dei media ha trasformato le relazioni tra i media, di cui vi
sono + visioni:
a) Hybrid media system di Andrew Chadwick: vi è un ibridazione tra media
tradizionali (=tv) e social media (=twitter), nella quale flussi di comunicazione
decentralizzati ridefiniscono i rapporti tra élite e cittadini, professionisti e
amatori, creando nuove forme di potere (es. i dibattiti politici si svolgono sia in tv
che online, con le interazioni del pubblico sui social che influenzano i discorsi
politici).
b) “Accoppiamento strutturale” di Giovanni Boccia Artieri e Laura Gemini: vi
è una relazione di interdipendenza tra broadcast e social media; essi si
oppongono alla visione dell’ibridazione con un paradigma ecologico dove i media
conservano le proprie specificità pur relazionandosi tra loro (es. una
conversazione su twitter conserva le caratteristiche del mezzo anche quando
ripresa da media tradizionali).
c) Condizione post-mediale di Ruggero Eugeni: indica la fine della distinzione
tra dispositivi mediali, la loro "rilocazione" in spazi non convenzionali (es.
televisione mobile), e la loro integrazione con ambiti sociali non mediali (es.
medicina), rendendo indistinguibile ciò che è mediale da ciò che non lo è. Eugeni
individua tre tratti distintivi di questa condizione:
1. Naturalizzazione della tecnologia, che occulta la natura economica e la
spinta all’iper-consumo dei media.
2. Soggettivazione dell’esperienza: dai selfie al self-tracking.
3. Socializzazione delle relazioni, che accetta le logiche di potere intrinseche
al sistema.

La svolta algoritmica
La trasformazione dei contenuti in linguaggio binario ha reso necessaria la loro
gestione attraverso sistemi automatizzati, per far fronte alla crescente quantità di
dati prodotti nell'universo mediale; questa situazione ha provocato una vera e
propria “svolta algoritmica”, le cui proprietà sono:
 Gestione algoritmica: i contenuti sono regolati da algoritmi complessi che
considerano fattori legati al contenuto, al contesto e alle logiche di moderazione.
Tale gestione non è neutrale, ma riflette precise logiche di potere e priorità
economiche. Gli algoritmi non solo ordinano i contenuti ma applicano criteri che
includono una precomprensione dei valori da assegnare a essi (Andrew
Chadwick).
 Ruolo del machine learning (=intelligenze artificiali): algoritmi di
apprendimento automatico apprendono dai comportamenti degli utenti,
personalizzando ancora + i contenuti.
 Meccanismi che guidano le piattaforme (secondo Van Dijck, Poell e De Waal):
a) Selezione: filtraggio delle informazioni e dei contenuti generati dagli utenti.
b) Mercificazione: trasformazione delle interazioni in dati economici (es.
pubblicità).
c) Datificazione: codifica dei dati personali (es. localizzazione)
 Piattaforme di streaming on demand OTT (=Over The Top): x esempio
Netflix profila gli utenti per proporre contenuti personalizzati, creando audience
algoritmiche. Questo genera fenomeni come: “filter bubbles” (=bolle
informative che limitano la varietà dei contenuti) e “echo chambers” (=spazi in
cui le opinioni si rafforzano attraverso la personalizzazione delle reti sociali).

Dunque, i contro sono che:


 La selezione algoritmica, influenzata da interessi economici e logiche di mercato,
configura una nuova forma di capitalismo.
 La crescente datificazione solleva gravi questioni etiche, legate alla privacy e al
controllo sui dati personali.

Oltre gli algoritmi: un’intelligenza artificiale?


L’idea di macchine pensanti risale agli anni ’50 con il test di Turing, che misura la
capacità di una macchina di simulare l’intelligenza umana. Ad oggi, nessuna
macchina ha superato completamente questo test (si prevede che possa avvenire
entro il 2029).

La definizione stessa di "intelligenza" resta problematica: include il pensiero


razionale, l'emotività o altro? L’IA si avvicina ai meccanismi cerebrali umani
attraverso il reverse engineering (=analizzare nel dettaglio la progettazione di una
parte di prodotto, così da replicarla), ma siamo ancora lontani dal replicare
completamente il funzionamento del cervello.

Il filosofo Luciano Floridi propone 5 principi per guidare lo sviluppo dell’IA:


 Beneficenza (deve essere per il benessere umano e planetario)
 Non maleficenza (non deve nuocere la privacy e la sicurezza)
 Autonomia (l’uomo deve mantenere il controllo del potere decisionale)
 Giustizia (solidarietà, no disuguaglianze)
 Esplicabilità (il suo agire deve essere comprensibile)
Rimane irrisolta la questione centrale: le macchine potranno mai pensare davvero e
agire autonomamente, fino a rovesciare i ruoli tra uomo e IA? (come in The Matrix?)

Effetti dei media di Simone Carlo


Le teorie sugli effetti dei media nella nascente società di massa:
la teoria ipodermica
La teoria ipodermica, o dell'ago ipodermico, rappresenta la prima riflessione
sugli effetti dei media nella società di massa, tra la fine dell’800 e i primi
decenni del 900: un contesto di trasformazioni sociali, come il passaggio da una
società agricola e comunitaria ad una industrializzata e urbanizzata, caratterizzata
dall’emergere delle masse, percepite in modo pessimista: individui isolati,
ignoranti e facilmente manipolabili.

Secondo questa teoria, i media esercitano effetti forti, diretti e uniformi,


manipolando opinioni e comportamenti senza ostacoli intermedi. I messaggi dei
media agiscono come "proiettili magici", colpendo un pubblico passivo e indifeso.
Tale visione fu influenzata da eventi storici come la propaganda bellica durante la
Prima guerra mondiale, che mostrò il potere dei media nel condizionare l’opinione
pubblica fino a farle prendere i fucili in mano, e dalle teorie psicologiche
comportamentiste dello stimolo-risposta, che vedevano gli individui rispondere
agli stimoli in modo prevedibile e condizionato.

I media producono pregiudizi e stereotipi (=immagini mentali che vengono costruite


per semplificare la realtà e per renderla comprensibile). Gli stereotipi vengono
interiorizzati dai cittadini più deboli e malleabili, e producono reazioni e
comportamenti progettabili (es. lo stigma e la discriminazione nei confronti di etnie
considerate pericolose e inferiori).

La teoria ipodermica ebbe anche un’applicazione positiva, oltre che allarmista:


studiosi della Scuola di Chicago (es. Robert Park), videro nei media un potenziale
strumento di integrazione sociale, in grado di creare una memoria collettiva e
promuovere valori e comportamenti virtuosi (es. integrazione degli immigrati); tale
approccio pedagogico dei media è ancora presente in alcune forme di
comunicazione pubblica (es. campagne sanitarie o educative).

Il superamento della teoria ipodermica: le teorie dell’influenza


selettiva
A partire dagli anni ’20 furono condotte ricerche empiriche con l’obiettivo di
comprendere sul campo gli effetti dei media (e non + a posteriori); si iniziò a
studiare gli effetti a breve termine dovuti all’esposizione ai media, e tali studi
iniziarono a mettere in dubbio le premesse e i capisaldi della teoria ipodermica.
Si affermò l’importanza dello studio delle caratteristiche sociodemografiche e
psicologiche del pubblico, nonché dei contesti sociali e familiari in grado di
influenzare gli effetti dei media.
Con la fine della Seconda guerra mondiale e l’avvento della televisione (periodo
sereno), la visione negativa dei media si attenuò, favorendo studi più articolati,
soprattutto negli Stati Uniti, dove emersero le ricerche amministrative per scopi
pratici, come la progettazione di campagne pubblicitarie o elettorali. Questi studi
dimostrarono che il pubblico era meno malleabile del previsto, evidenziando i limiti
della teoria ipodermica.

Si sviluppano così le teorie dell’influenza selettiva, che si articolano in 2 approcci


principali:
1. Teoria della persuasione (=approccio empirico-sperimentale-laboratoriale,
psicologico): le variabili psicologiche e le differenze individuali intervengono nei
processi di ricezione dei messaggi persuasivi; dunque, quest’ultimi sì influenzano i
comportamenti degli utenti, ma non in modo uniforme, uguale per tutti, a causa
delle caratteristiche personali di ognuno.
2. Teoria degli effetti limitati (=approccio empirico sul campo, sociologico): gli
effetti dei media sono influenzati da variabili sociali (età, genere, reddito,
istruzione) e dalla comunicazione interpersonale, in quanto una persona è
determinata anche dalla sua rete sociale.

Il ritorno degli effetti forti dei media: teorie sugli effetti a lungo
termine
Negli anni ’60 si assiste a un ritorno delle teorie sugli effetti forti dei media, con
un focus sugli effetti a lungo termine prolungati dell’esposizione ai contenuti
televisivi. Le teorie sono:
a) La teoria della spirale del silenzio di Elisabeth Noelle-Neumann: i media
producono effetti indiretti, cumulativi e profondi (dunque si scorgono solo nel
tempo). La sua teoria evidenzia che gli individui, temendo l’isolamento, si
conformano alle idee dominanti, autocensurando le proprie se sono in minoranza.
I media aiutano a capire quali sono le dominanti, diventando il principale
"termometro" del clima di opinione e promuovendo il conformismo. Questo
processo crea una spirale sempre più silenziosa poiché sempre più difficile
l’immersione di voci discordanti.
b) La teoria della coltivazione di George Gerbner: egli vede la tv come una
macchina di costruzione della realtà sociale, in quanto essa fornisce una visione
semplificata e stereotipata della realtà, sostituendola a quella oggettiva.
Gli heavy users (forti consumatori di tv) o i bambini (che hanno una limitata
esperienza di vita vera) sono maggiormente influenzati e assimilano tali modelli e
stereotipi culturali e sociali (es. donna casalinga). La tv diffonde una visione
uniforme e limitante della realtà, che favorisce l’identificazione con schemi
precostituiti, riducendo la varietà di prospettive disponibili al pubblico.
Potere all’audience! Potere a Internet!
A partire dagli anni ’80, l'attenzione sugli effetti dei media si sposta verso
un'interpretazione più positiva, sottolineando la capacità del pubblico di negoziare e
contrastare i significati imposti dai media, anche grazie ai cultural studies*, con il
modello encoding/decoding* di Stuart Hall, e gli audience studies*, sviluppati in Gran
Bretagna. (*spiegati nei capitoli precedenti)
Con Internet, l’ecosistema mediale sembra offrire una comunicazione più
democratica, interattiva e decentralizzata rispetto ai media tradizionali. Si
immagina un ambiente policentrico e partecipativo, con effetti positivi sulla società.
Tuttavia, col tempo (soprattutto negli ultimi anni) emergono criticità: effetti negativi
nel breve e lungo temine su fasce vulnerabili (come i bambini), sfruttamento di dati
personali e problemi come la diffusione di fake news, bolle informative e
disinformazione, che frammentano e manipolano l'opinione pubblica; inoltre, la
mediatizzazione evidenzia come i media pervadano le dinamiche quotidiane e sociali,
rafforzando interrogativi sul loro potere.

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