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Medioevo n. 329, Giugno 2024

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MEDIOEVO n. 329 GIUGNO 2024

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IL NOVELLIERE MATRIMONI E TRADIMENTI

IL MEDIOEVO? SANTI IN ARMI UN MILLENNIO LA SPADA DI MATTEO L’ESATTORE DI ABBRACCI

Mens. Anno 28 numero 329 Giugno 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ISLANDA NELLA TERRA DEL FUOCO

E DEL GHIACCIO ANNIVERSARI 1224-2024

FEDERICO II E LA NASCITA DELL’UNIVERSITÀ DI NAPOLI

GRANDI MOSTRE I CATARI NEL MIRINO DEL PAPA 40329 9

771125

689005

www.medioevo.it

€ 6,50

BIBLIOTECA DI VERONA ABBRACCI MATRIMONI E TRADIMENTI UNIVERSITÀ FEDERICO II CATARI CARESTIE DOSSIER ISLANDA

MEDIOEVO VISIONARIO UMANI EL’INTERVISTA TRANSUMANI

IN EDICOLA IL 4 GIUGNO 2024



SOMMARIO

Giugno 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Tutti i vincoli della memoria di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Manoscritti da primato

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MOSTRE Quando la Cina diventò vicina

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ARCHEOLOGIA Quelle scosse fatali

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

14

62 52

ISLANDA Nella terra del fuoco e del ghiaccio

L’INTERVISTA Non solo per amore...

24

testi di Luigi De Anna, Maria Cristina Lombardi e Nicoletta 73 Onesti Francovich

24

COSTUME E SOCIETÀ IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/3 Senza corazza c’è piú gusto di Corrado Occhipinti Confalonieri

40

CALEIDOSCOPIO MOSTRE Catari È pura eresia!

a cura della Redazione

62

STORIE

Università di Napoli

Quando Federico spalancò la porta del sapere di Fulvio Delle Donne

52

110 112

Dossier

STORIE incontro con Virtus Zallot, a cura di Andreas M. Steiner

LIBRI E MUSICA Lo Scaffale La Discoteca

STORIE, UOMINI E SAPORI Liberaci dalla peste... ma anche dalla fame! di Sergio G. Grasso 96 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Un quartetto misterioso di Paolo Pinti 106


IO TE CA

TE SO RI

VE R IN O BIB N L A

MEDIOEVO n. 329 GIUGNO 2024

MEDIOEVO www.medioevo.it

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Mens. Anno 28 numero 329 Giugno 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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MEDIOEVO VISIONARIO UMANI EL’INTERVISTA TRANSUMANI

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Luigi De Anna è professore emerito di lingua e letteratura italiana all’Università di Turku, in Finlandia. Fulvio Delle Donne è professore ordinario di letteratura latina medievale e umanistica all’Università degli Studi della Basilicata. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Maria Cristina Lombardi è professoressa ordinaria di lingue e letterature nordiche all’Università di Napoli L’Orientale. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Nicoletta Onesti Francovich è stata professoressa ordinaria di filologia germanica all’Università degli Studi di Siena. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

IN EDICOLA IL 4 GIUGNO 2024

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21/05/24 16:23

MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 329 - giugno 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 46/47, 58, 74/75, 80, 80/81, 85, 88, 91, 108 – Doc. red.: pp. 5, 47, 52/53, 56, 60/61, 73, 75, 76 (basso), 77, 78-79, 82/83, 84, 89, 90, 92-95, 97, 99, 102/103, 106 (basso) – Cortesia Ufficio stampa Clab Comunicazione: p. 7; Carolina Zorzi: pp. 6, 9 (basso); Ivan Rossi: pp. 8, 9 (alto) – Cortesia Ufficio stampa Fondazione Musei Civici di Venezia/Studio Esseci: Irene Fanizza: pp. 10-11 – Cortesia Università di Bologna-Ufficio Stampa: p. 12 – da: Un Medioevo di abbracci, il Mulino, Bologna 2024: pp. 24-38 – Mondadori Portfolio: Electa/Antonio Quattrone: pp. 40/41, 98/99; Fototeca Gilardi: p. 43; Album: pp. 44-45; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 48/49; AKG Images: p. 96; Album/Collection Jonas/Kharbine-Tapabor: p. 100; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 100/101; Fine Art Images/Heritage Images: p. 104; Electa/Sergio Anelli: p. 107 – Stefano Mammini: p. 42 – Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett: Jörg P. Anders: pp. 54/55 – Cortesia degli autori: pp. 55, 57, 106 (alto) – Cortesia Alambret Communication: Mairie de Toulouse/Musée des Augustins: pp. 62/63; Archives nationales de France: p. 64; Musée Clément Ader: p. 65; E. Grimault: p. 66 (alto); D. Molinier: p. 66 (basso); DRAC Occitanie: pp. 66/67; Bibliothèque municipale de Lyon: p. 67; D. Martin: p. 68 (alto e basso); C. Lauthelin: p. 69 (alto); Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge: p. 69 (basso); Archives municipales de Toulouse: p. 70 (alto); J.-F. Peiré: p. 70 (basso) – Cortesia Tenuta il Capitolo, Frazione Quarto Inferiore (Asti): p. 109 – Cippigraphix: cartina a p. 76.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina una spettacolare eruzione del vulcano Fagradalsfjall, nella penisola di Reykjanes (Islanda).

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente scoperte

I Longobardi nel Trentino

costume e società

Sercambi e la saggezza delle donne

dossier

L’arte dell’Islam


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

GIUGNO

Tutti i vincoli della memoria

N

el 380, per effetto dell’editto di Tessalonica, il cristianesimo divenne religione di Stato e la Chiesa cominciò a sostituirsi all’impianto pagano su cui sino ad allora si era retto l’impero romano. Già i Romani celebravano nel periodo estivo importanti festività e cosí nel mese di giugno furono collocate ricorrenze legate ad alcune tra le principali figure della cristianità. Ecco allora che la nascita del Battista si festeggia il 24 del mese, mentre il 29 agosto se ne ricorda il martirio: il Battista è peraltro l’unico santo del quale, come nel caso della Vergine, si festeggino sia la nascita che la morte. Sappiamo da sant’Agostino che la festa della nascita del Battista, nella Chiesa delle province d’Africa, era antichissima: essa andava a sostituirsi al vicino solstizio d’estate (21 giugno), da intendersi come simbolo di collegamento fra il mondo terreno e quello ultraterreno. Pochi giorni piú tardi, il 29 giugno, fu collocata la festa dei santi Pietro e Paolo, il principe degli Apostoli e il piú grande evangelizzatore della cristianità: vuole la tradizione che i due fossero stati martirizzati nello stesso giorno, anche se in anni diversi. La spiegazione piú convincente, invece, è legata al fatto che in quel giorno Roma festeggiava, nel tempio del dio Quirino, i gemelli Romolo e Remo, fondatori della città, che furono sostituiti dai fondatori della Chiesa cristiana a Roma, creando una festa analoga. Dei due santi patroni dell’Urbe si conservano molte reliquie e memorie. Nel luogo in cui fu sepolto Pietro, papa Anacleto (76-89 d.C.) edificò un piccolo mausoleo, seguito dal cosiddetto Trofeo di Gaio, i cui resti sono stati rinvenuti nella prima metà del Novecento. Nel sepolcro furono rinvenute in realtà poche ossa, appartenenti a una sola persona, di sesso maschile, di età avanzata e di corporatura robusta. Alcuni resti di porpora e d’oro, riservati solo all’imperatore, hanno avvalorato l’ipotesi che si trattasse proprio del principe degli Apostoli. Il corpo fu presto smembrato e molte reliquie sono sparse tra varie chiese: un dito è ancora nella Basilica Vaticana; un braccio e un dente a S. Croce in Gerusalemme; la testa si trova, assieme a quella di san Paolo, sopra l’altare della Basilica Lateranense. Di Pietro e Paolo si possiedono poi le catene che li avrebbero tenuti in carcere: le prime si trovano in S. Pietro in Vincoli, le seconde nella basilica di S. Paolo. Quando Paolo giunse nell’Urbe, nel 61 d.C., trascorse un paio di anni agli arresti domiciliari, legato al suo carceriere tramite la catena ancora conservata in Basilica, proprio sopra il suo sepolcro, riportato alla luce nel 2006, dove furono rinvenuti frammenti ossei rivestiti anch’essi da un manto purpureo con filamenti d’oro, a confermare la dignità del piú grande evangelizzatore.

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In alto le catene che sarebbero state utilizzate per la carcerazione di san Pietro. Roma, S. Pietro in Vincoli. In basso San Pietro in carcere visitato da san Paolo, particolare dell’affresco di Filippino Lippi nella Cappella Brancacci della chiesa di S. Maria del Carmine, a Firenze. 1482-1485 circa.

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MEDIOEVO


il medioevo in

rima

agina

Manoscritti da primato

MUSEI • Valorizzate da

installazioni multimediali che coniugano antico e contemporaneo, due nuove sale espositive arricchiscono il percorso di visita della Biblioteca Capitolare di Verona, la piú antica al mondo ancora in attività 6

È

il primo giorno di agosto dell’anno 517 e, nello scriptorium della cattedrale di Verona, un chierico di nome Ursicino porta a termine la trascrizione delle vite di Martino di Tours e di Paolo, monaco nella Tebaide, su un volume in pergamena. Alle fine del testo inserisce una dedica nella quale riporta il proprio nome e la data: non può certo saperlo, ma quel gesto è destinato a fare del manoscritto una testimonianza di valore inestimabile, poiché, conservatosi per oltre quindici secoli, il libro è, a tutt’oggi, il piú an-

Particolare di un codice miniato contenente la storia di Roma di Tito Livio (Historiarum ab Urbe Condita). XV sec. Verona, Biblioteca Capitolare.

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In questa pagina immagini dell’allestimento dei nuovi spazi della Biblioteca Capitolare di Verona. L’apparato esplicativo si avvale anche di supporti multimediali (vedi foto in basso, a destra).

tico esempio del genere e, parallelamente, è la prova concreta dell’esistenza della Biblioteca Capitolare di Verona già a quella data. Un istituto, dunque, ricco di storia, che ha da tempo avviato un importante progetto di trasformazione e rinnovamento, nel quale, dopo l’inaugurazione del del salone monumentale e delle sale affrescate, si inserisce adesso l’apertura al pubblico di due sale inedite. I nuovi spazi allargano la prospettiva sul patrimonio, estremamente vasto e di grande rilevanza, custodito all’interno della Biblioteca, e,

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oltre alla pannellatura classica, i visitatori possono compiere un viaggio nel tempo e ripercorrere le storie dei testi antichi grazie ai nuovi lettori digitali multilingua.

Doni per persone importanti Nella prima sala è allestita la teca con il già citato manoscritto di Ursicino, accanto al quale è esposta la tavoletta (valva) in avorio, datata anch’essa 517, con la rappresentazione del console Anastasio. La valva venne acquistata dall’intellettuale veronese Scipione Maffei

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(1675-1755) e fu in seguito donata alla Biblioteca. Si tratta di un oggetto che i consoli donavano a familiari e personaggi importanti durante la cerimonia di elezione, in ricordo dell’evento, ma anche come manifesti di propaganda imperiale. Nella sala attigua sono esposti importanti manoscritti, tra i quali spicca il celebre Indovinello Veronese (fine VIII/inizio IX secolo; vedi box qui accanto), noto al grande pubblico, perché rappresenta la prima testimonianza scritta della lingua volgare ai suoi albori. La terza sala è dedicata interamente ai tesori dei canonici, collezione che comprende arredi liturgici, dipinti, sculture e reperti archeologici di diverse epoche e fatture, donati al Capitolo da parte degli stessi canonici o di benefattori privati, o provenienti dalle chiese e dagli ambienti a esso legati. Tra i tesori, la teca dedicata ai manoscritti corali della Cattedrale guida il visitatore in un’esperienza immersiva tramite touch screen e filodiffusione. La terza, e ultima, fase del piano di riallestimento interesserà

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L’aratro bianco e il seme nero «Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba». Questa riga e mezza di scrittura, vergata in Italia tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo sulla prima pagina di un codice di orazioni proveniente dalla Spagna e conservato a Verona, battezza non senza enigmi la lingua e la letteratura italiana. Mari di inchiostro versati dagli studiosi su questa goccia di testo non ne hanno infatti del tutto risolto i problemi di interpretazione. La traduzione che gode di maggiori consensi è questa: «Spingeva buoi davanti a sé, arava campi bianchi e teneva un aratro bianco e seminava seme nero». Quel che è certo è che si tratta di un enigma relativo alla scrittura, dello stesso genere di quelli che gli enigmisti altomedievali amavano dedicare agli strumenti del loro lavoro come la penna, la pergamena, l’inchiostro. Va inoltre rilevato che, come accade nelle prove documentali e nei manoscritti di origine italiana fino all’XI secolo, non vi è separazione tra le parole dell’Indovinello, cosí come risulta minimale la punteggiatura: elementi che ribadiscono quanto a lungo sia durata in Italia la lettura in scriptura continua, facilitata anche dall’affinità del linguaggio vernacolare quotidiano con le tradizioni di uso comune del latino scritto.

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DOVE E QUANDO principalmente lo spazio lungadige e vedrà in futuro l’installazione di ulteriori sistemi multimediali, monitor digitali e teche espositive.

Un nuovo polo culturale L’orizzonte della Fondazione Biblioteca Capitolare è però piú vasto e include la progettazione, già avviata, di un hub culturale. Il Polo culturale sorgerà nell’edificio a tre piani che affaccia su piazza Duomo. L’obiettivo è quello di farne un centro di eccellenza internazionale per lo studio integrato del libro e per il sostegno alla ricerca basata sulle collezioni, riunendo la cultura scritta, la tecnologia contemporanea e le persone, per favorire l’accesso e la comprensione del patrimonio intellettuale a livello locale e mondiale. Il progetto prevede collaborazioni con altre realtà e iniziative legate ai manoscritti in tutto il mondo, incontri internazionali, fellowship e borse di studio finanziate. La Capitolare vedrà i propri spazi riadattarsi a queste esigenze, con la presenza di sale studi e spazi per eventi e workshop internazionali, seguendo una mission precisa che mette al centro la valorizzazione dei beni artistici e documentari e la ricerca scientifica, grazie all’attiva e costante collaborazione con numerose università europee e statunitensi. L’allestimento espositivo e multimediale delle

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giugno

Biblioteca Capitolare Verona, piazza Duomo 13 Orario da giovedí a lunedí, 10,00-18,00; chiuso martedí e mercoledí Info e-mail: info@bibliotecacapitolare.it; www.bibliotecacapitolare.it

In alto e nella pagina accanto il salone monumentale della Biblioteca Capitolare di Verona. A sinistra manoscritti facenti parte del ricco patrimonio della biblioteca veronese, la cui attività è attestata già nel 517.

nuove sale è stato realizzato dallo studio NEO (Narrative Environments Operas), grazie al contributo di Cartiere Saci di Verona. (red.)

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ANTE PRIMA

Quando la Cina diventò vicina MOSTRE • Nel

settecentesimo anniversario della morte, Venezia rende omaggio a uno dei suoi figli piú illustri: Marco Polo, il mercante grazie al quale l’Oriente si fece meno lontano e sconosciuto In alto un particolare dell’allestimento della mostra «I mondi di Marco Polo», visitabile in Palazzo Ducale, a Venezia.

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A

llestita in Palazzo Ducale, la mostra «I mondi di Marco Polo» è nata dalla volontà di condividere le suggestioni raccontate dal mercante e viaggiatore veneziano nel Milione: opera che è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione per studiosi ed esploratori di ogni epoca. La parabola di Marco Polo si riverbera nel racconto della straordinaria geografia storica, culturale, politica e umana dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Asia del Duecento che contribuí a far conoscere. Un patrimonio incredibile di abitudini, usi, costumi e idee che, grazie a lui, circolò nella Venezia del XIII secolo quale

inestimabile fonte di strategiche informazioni per quanti ne seguirono le orme. Un viaggio nel viaggio, per ricordare gli incontri, reali, inventati, talvolta omessi, con un excursus nei Paesi visitati dall’illustre veneziano e dalla famiglia in oltre vent’anni, attraverso oltre 300 opere provenienti dalle collezioni civiche, dalle maggiori e piú importanti istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei dell’Armenia, Cina, Qatar, per condividere, nel modo piú esaustivo possibile, i mondi di Marco Polo.

Dalla casa di Marco Un percorso che non può che partire da Venezia e dalla sua casa, nell’area di san Giovanni Crisostomo, dal sotoportego, corte seconda, ponte del Milion, con la restituzione degli inediti reperti, frutto di scavi e studi condotti nell’area del Teatro Malibran che permettono oggi di giugno

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DOVE E QUANDO avere un’idea piú precisa della loro casa-fondaco dei Polo. Protagonisti sono, perciò, anche una Venezia cosmopolita e i suoi cittadini, che al viaggio dovevano la propria esistenza e sopravvivenza; come testimoniato dalle diverse incursioni nella cartografia e dalle maestose decorazioni della Sala dello Scudo negli Appartamenti del Doge che riproducono, oltre ai possedimenti della Repubblica nel Cinquecento, le regioni lontane esplorate da Veneziani e dalla stessa famiglia Polo e che il pubblico, in occasione della mostra, può nuovamente ammirare. Un’incursione nella vita e nelle parole di Polo, con l’esposizione del suo testamento, un lascito materiale e morale, tra gli oggetti, le monete del tempo

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Altre immagini della mostra veneziana realizzata in occasione del settecentesimo anniversario della morte di Marco Polo. che il mercante avrà maneggiato, i tessuti, le ceramiche e le spezie che non manca mai di nominare; un salto nel mito e nell’opera letteraria, nel racconto preciso e verosimile di un viaggio di vent’anni, nato dall’incontro con Rustichello da Pisa nelle prigioni genovesi, scaturito dalla memoria precisa e prodigiosa di Marco Polo unito alla ricchezza della scrittura del letterato.

La fortuna di un memoriale Cardine di una delle sezioni è proprio Il Milione, che consegna la vita di un comune mercante

«I mondi di Marco Polo» Venezia, Palazzo Ducale fino al 29 settembre Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info https://palazzoducale. visitmuve.it/ veneziano alla storia, alla fama, all’immortalità. Un testo che attraversa i secoli, proliferando in traduzioni e diverse versioni; una guida di viaggio con consigli e curiosità ante litteram e modello per celebri opere letterarie, dal Viaggio al centro della terra di Jules Verne a Le città invisibili di Italo Calvino. Sono solo alcuni dei tributi, omaggi ed esempi di fortuna critica che seguí Il Milione e Marco Polo per tutto l’Ottocento e il Novecento, una fama che prosegue nei decenni con rivisitazioni in chiave pop, fonte di ispirazione per artisti moderni e contemporanei, esposti in mostra. (red.)

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ANTE PRIMA

Quelle scosse fatali ARCHEOLOGIA • Svelato il mistero

dell’abbandono del villaggio di El Castillejo, in Andalusia: i suoi abitanti furono messi in fuga da un terremoto, nella prima metà del XIII secolo

C

ostruito sulla cima di una collina e circondato da mura, il villaggio fortificato di El Castillejo, in Andalusia, fu un importante centro islamico che, secondo ricerche condotte in passato, fu occupato tra l’XI e la metà del XIV secolo. Prima della sua dismissione definitiva, fu repentinamente abbandonato nel XIII secolo, ma le cause dell’evento erano rimaste senza spiegazione. Lo svolgimento di nuove indagini da parte di una missione internazionale della quale fa parte l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna sembra ora suggerire la soluzione dell’enigma: con ogni probabilità la fine prematura di El Castillejo è stata causata da un forte terremoto. A confermarlo è la presenza di muri danneggiati o collassati, fratture negli edifici, pavimenti e tetti crollati, oggetti domestici rotti e tracce di incendio. Si tratta peraltro della piú antica testimonianza a oggi nota di un sisma nella regione di Granada e la scoperta potrebbe fornire informazioni utili anche per la prevenzione di nuovi simili episodi nella zona. «La nostra indagine – spiega Paolo Forlin, Marie Curie Fellow e assegnista di ricerca all’Università di Bologna – ha combinato l’analisi dei danni sismici presenti nelle strutture con una serie di scavi stratigrafici mirati e l’utilizzo di aggiornate tecniche di datazione assoluta. L’insieme di queste rilevazioni ci ha permesso di concludere che la

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In alto foto da drone di El Castillejo con il villaggio di Guàjar Faragüit sullo sfondo. In basso resti di edifici colpiti dal terremoto nella parte occidentale del sito.

zona di El Castillejo è stata colpita da un terremoto avvenuto con ogni probabilità in un momento compreso tra il 1224 e il 1266».

Un’area fortemente sismica L’area dell’Andalusia in cui si trovano i resti dell’antico insediamento islamico è una delle piú sismicamente attive in Europa. L’ultimo grande terremoto registrato, risalente al 1884, ha interessato una zona di 14 000 chilometri quadrati, distruggendo numerosi abitati e causando circa mille vittime. I documenti storici sui terremoti nella regione sono però scarsi e non ci sono testimonianze precedenti al XV secolo. «Sebbene si trovi in un’area fortemente sismica – continua Forlin –, El Castillejo è in una posizione particolarmente remota e isolata, e questo potrebbe spiegare l’assenza di

testimonianze scritte sul terremoto che abbiamo rilevato. Inoltre, l’area su cui sorgeva l’abitato restò sotto il controllo della dinastia islamica nasride fino al 1492, e quando la zona venne conquistata dai cristiani migliaia di manoscritti furono bruciati a Granada, cancellando con ogni probabilità i documenti che parlavano del sisma». La presenza di oggetti di uso domestico e di tracce di incendio, provocato probabilmente da bracieri o candele cadute durante le scosse, sono un elemento fondamentale per concludere che El Castillejo era abitato al momento del terremoto. Testimonianze di epoca successiva suggeriscono che il centro è stato poi in parte ripopolato dopo il sisma, ma solo pochi edifici sono stati ricostruiti con materiali di recupero e di bassa qualità. (red.) giugno

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

Mostre BOLOGNA STREGHERIE. ICONOGRAFIA, FATTI E SCANDALI SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Palazzo Pallavicini fino al 16 giugno

Dopo essere stata proposta con successo a Monza, «Stregherie» giunge a Bologna, in una nuova e piú ricca edizione. Alla collezione di stampe e incisioni di Guglielmo Invernizzi, famoso «collezionista dell’occulto», si aggiungono nuove opere

a cura di Stefano Mammini

streghe piú utilizzato dalla Chiesa, che indicava, caso per caso, i supplizi e le pene da infliggere a chi era accusato di stregoneria, del quale si può ammirare la seconda edizione, stampata nel 1520. Il progetto espositivo mira a ricostruire una cultura dispersa e oppressa, ma che risorge continuamente, partendo dalle sue origini e raccontandone la storia attraverso una ricerca iconografica rigorosa, che ne attesta tutti gli aspetti. info www.stregherie.it PARIGI LA ARTI IN FRANCIA SOTTO CARLO VII (1422-1461) Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 16 giugno

d’arte, provenienti da collezioni private, italiane ed estere, e oggetti legati al mondo della stregoneria, concessi in prestito dal Museum of Witchcraft and Magic in Cornovaglia, e dal Museo delle Civiltà di Roma, che per la prima volta presenta la sua straordinaria collezione di amuleti in argento ottocenteschi, veri e propri gioielli, utilizzati dalle donne definite streghe o, piú spesso, contro di loro. Accanto alle opere d’arte, sono stati riuniti per l’occasione preziosi manuali di esorcismo e trattati storici imprescindibili in un percorso dedicato alla stregoneria. Fra tutti, spicca il Malleus Maleficarum, il manuale sulla caccia alle

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Dagli anni Venti del Quattrocento, mentre ancora si combatte la guerra dei Cent’anni (1337-1453), il regno di Francia subisce profonde mutazioni politiche e artistiche. Nel Nord, occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, emergono molteplici centri artistici. Quando il delfino Carlo riesce a riconquistare il suo trono, grazie soprattutto a Giovanna d’Arco, e successivamente il suo regno, si creano le condizioni per un rinnovamento. Grandi committenti, come Jacques Cœur, richiamano una nuova generazione di artisti. Questi si convertono al realismo fiammingo, definito «ars nova», in pieno sviluppo soprattutto con Jan van Eyck, mentre attraverso l’influenza italiana si impregnano dell’eredità antica sviluppata da artisti come Filippo Brunelleschi, Donatello o Giovanni Bellini. La creazione artistica si distacca progressivamente dal gotico internazionale e si orienta verso una nuova visione della realtà, preludio

del Rinascimento. Il percorso espositivo documenta dunque la multiforme produzione artistica fiorita durante il regno di Carlo VII. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti miniati, dipinti, sculture, opere di oreficeria, vetrate e arazzi, che comprendono opere eccezionali, come il baldacchino di Carlo VII, il manoscritto delle Grandi Ore di Rohan o l’Annunciazione di Aix di Barthélémy d’Eyck, pittore del duca Renato d’Angiò che realizzò le miniature per il suo Libro dei tornei. Infine, un’intera sezione è dedicata a Jean Fouquet, autore del ritratto dipinto su legno di Carlo VII, presentato nel giusto contesto nell’esposizione. info musee-moyenage.fr BASSANO DEL GRAPPA RINASCIMENTO IN BIANCO E NERO. L’ARTE DELL’INCISIONE A VENEZIA (1494-1615) Bassano del Grappa, Museo Civico fino al 23 giugno

Protagoniste della mostra sono

le «felicissime linee nere» dell’incisione veneziana e la rivoluzione mediatica rappresentata dalla nascita e dalla diffusione della stampa. Un fenomeno epocale, che investí l’Europa e trasformò Venezia in un imprescindibile crocevia di esperienze artistiche, generando alcune delle piú affascinanti realizzazioni di tutto il Rinascimento. L’esposizione propone oltre 180 capolavori grafici, circa 90 opere per sede, appartenenti al ricco corpus grafico delle raccolte civiche di Bassano del Grappa e a rilevanti collezioni giugno

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pubbliche e private. La selezione comprende capolavori di artisti italiani ed europei del XVI secolo che rivoluzionarono il modo stesso di guardare alla realtà: Andrea Mantegna, Albrecht Dürer, Jacopo de’ Barbari, Tiziano e le botteghe dei suoi incisori, Tintoretto, Veronese, Benedetto Montagna, Ugo da Carpi, Domenico Campagnola, Agostino Carracci e Giuseppe Scolari. Il percorso, cronologico-tematico, trasporta i visitatori nell’universo monocromatico della stampa grazie anche a un allestimento che conduce alla scoperta di un’arte raffinata e sorprendente, ricercata da tutti i collezionisti, volano per la diffusione delle piú importanti novità artistiche del tempo, e lo fa svelando i segreti delle sue differenti tecniche e l’articolazione delle botteghe di stampatori dell’epoca. info www.museibassano.it FORLÍ PRERAFFAELLITI. RINASCIMENTO MODERNO Musei San Domenico fino al 30 giugno

Tra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’arte storica italiana, dal Medioevo al Rinascimento, ha un forte impatto sulla cultura visiva britannica, in particolare sui preraffaelliti. Questo movimento artistico, nato nell’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento a opera di alcuni artisti ribelli – William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti – aveva lo scopo di rinnovare la pittura inglese, considerata in declino a causa delle norme eccessivamente formali e severe imposte dalla Royal Academy. Attraverso circa 300 opere – dipinti,

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sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – l’esposizione forlivese racconta questa storia, affiancando per la prima volta alle opere britanniche, grazie ai generosi prestiti concessi dai musei europei, in particolare inglesi e italiani, nonché americani, una consistente rappresentanza di modelli italiani, tra cui opere di antichi maestri; ma anche dipinti di artisti italiani della fine dell’Ottocento ispirate ai precursori britannici.

forma di puzzle, iscrizioni, allegorie e scene mitologiche che riflettevano il carattere dei soggetti, cosí come il piú ampio contesto culturale in cui le opere erano state realizzate. Firmate da maestri italiani e del Nord Europa – quali Hans Memling, Lucas Cranach, Lorenzo Lotto e Tiziano –, i dipinti scelti per la mostra rappresentano i momenti salienti del ritratto rinascimentale insieme ad alcune delle immagini piú originali del periodo. Si possono dunque ammirare dittici incernierati, pannelli a doppia faccia presumibilmente

come strumenti di propaganda a quelli progettati per nascondere le identità degli amanti, pensati come segni di affetto o di fedeltà politica. info www.metmuseum.org

legati a un gancio e una catena, dipinti provvisti di coperture scorrevoli, scatole e medaglie. Gli oggetti hanno varie funzioni: dai ritratti intesi

meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450), l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione

MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni,

info www.mostremuseisandomenico.it

NEW YORK VOLTI NASCOSTI: RITRATTI COPERTI DEL RINASCIMENTO The Metropolitan Museum of Art fino al 7 luglio

Tema della nuova esposizione proposta dal Met è una tradizione affascinante, ma ancora poco indagata, della pittura rinascimentale: quella che consisteva nel realizzare ritratti progettati come oggetti a piú lati in cui le immagini dei soggetti erano nascoste dietro una copertura incernierata o scorrevole, all’interno di una scatola oppure adottando il formato recto/verso. Il retro e le coperture di questi ritratti erano ornati con emblemi a

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trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della

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mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it LONDRA MICHELANGELO: LE ULTIME DECADI British Museum fino al 28 luglio

È dedicata agli ultimi tre decenni della vita e della carriera di Michelangelo Buonarroti – il periodo piú significativo e forse piú impegnativo della vita dell’artista – la mostra proposta dal British Museum, che si concentra su come la sua arte e la sua fede si siano evolute attraverso la comune sfida dell’invecchiamento in un mondo in rapido cambiamento. Per l’occasione, dopo l’intervento di restauro di cui è stata fatta oggetto nel 2018, viene esposta per la prima volta la monumentale Epifania (alta oltre 2 m): databile fra il 1550 e il 1553, è il solo cartone completo sopravvissuto di Michelangelo ed è una delle piú grandi opere rinascimentali su carta. Il disegno è peraltro affiancato al dipinto realizzato sulla sua base dal biografo di Buonarroti, Ascanio Condivi. Tornano in esposizione dopo oltre vent’anni anche molte altre opere della collezione permanente del museo londinese, fra cui alcuni disegni preparatori per il Giudizio Universale, che illustrano come Michelangelo avesse elaborato una nuova visione di come la forma umana sarebbe stata

rimodellata alla fine del mondo. info britishmuseum.org BERLINO IL FASCINO DI ROMA. MAARTEN VAN HEEMSKERCK DISEGNA LA CITTÀ Kulturforum fino al 4 agosto

dunque un’occasione da non perdere per ammirare vedute panoramiche e vedute della città, cosí come studi di rovine e sculture. Per motivi di conservazione, la rilegatura del cosiddetto primo album romano, rinnovata negli anni Ottanta, è stata aperta, cosí che 66 pagine del taccuino con le loro 130 pagine disegnate sul recto e sul verso possono essere mostrate al pubblico per la prima volta. Il secondo album, contenente solo venti fogli di Van Heemskerck, viene invece esposto in forma rilegata e le pagine potranno essere sfogliate. info www.biblhertz.it, www.smb.museum ROMA FILIPPO E FILIPPINO LIPPI. INGEGNO E BIZZARRIE NELL’ARTE DEL RINASCIMENTO Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 25 agosto

Lo straordinario caso di un padre e un figlio, entrambi pittori e disegnatori di eccezionale talento, è protagonista della mostra in programma ai Musei Capitolini, nelle sale di Palazzo Caffarelli. L’esposizione illustra l’epoca d’oro del Rinascimento italiano tra Firenze e Roma. I dipinti selezionati per l’occasione Il pittore e incisore olandese Maarten van Heemskerck (1498-1574) soggiornò a lungo a Roma, tra il 1532 e il 1538 e affidò la memoria di quegli anni a studi e disegni poi confluiti in due album, che complessivamente riuniscono oltre 150 opere e sono oggi conservati presso il Kupferstichkabinett di Berlino, che li acquisí nel 1886 e nel 1892. Da allora, le due raccolte non sono mai state esposte nella loro interezza e la mostra in programma al Kulturforum è giugno

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raccontano del talento di Fra’ Filippo Lippi (1406-1469), uno degli artisti piú importanti della stagione fiorentina di Cosimo de’ Medici, e di quello del figlio Filippino (1457-1504), che eredita dal padre l’ingegno e diventa l’interprete del gusto nella Roma della fine del Quattrocento. Si possono ammirare alcuni capolavori su tavola di Filippo, come la Madonna Trivulzio del Castello Sforzesco di Milano, e opere di Filippino, tra cui l’Annunciazione dei Musei Civici di San Gimignano. info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali selezionati si possono ammirare sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X

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secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it

BOLOGNA CONOSCENZA E LIBERTÀ. ARTE ISLAMICA AL MUSEO CIVICO MEDIEVALE DI BOLOGNA Museo Civico Medievale fino al 15 settembre

Nata da un progetto di ricerca scientifica tra Musei Civici d’Arte Antica del Settore Musei Civici Bologna e SOAS University of London, l’esposizione intende valorizzare la collezione di materiali islamici, rari e di altissima qualità, appartenenti al patrimonio del Museo Civico Medievale, e promuovere la riscoperta di vicende e percorsi che, da secoli, costituiscono una parte significativa della storia culturale di Bologna e non

FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre

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AGENDA DEL MESE

solo. Il patrimonio artistico islamico presente in Italia è ricchissimo e tra i piú rilevanti al mondo, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, a testimonianza di un interesse per le civiltà e arti del mondo islamico che si mantiene vivissimo e duraturo dal Quattrocento al Settecento. Bologna, con la sua antica Università fondata nel 1088, partecipa pienamente al clima di apertura internazionale, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione di opere d’arte e nelle relazioni con le terre islamiche tra il XV e il XVIII secolo. Situata al confine tra lo Stato imperiale e quello papale, la città fu in grado non solo di costruire solidi legami commerciali e alleanze geopolitiche, ma divenne un importante centro di mecenatismo artistico e culturale. La cospicua presenza di oggetti islamici nelle collezioni costituite da illustri personaggi bolognesi fin dalla seconda metà del XVIII secolo testimonia ancora oggi, nella loro ricchezza e varietà,

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annotazioni. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene descritto Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano, dove realizzò due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. Nella mostradossier sono inoltre esposti resoconti dell’eccezionale restauro e confronti fondamentali, grazie a riproduzioni digitali. In particolare, quello con la cosiddetta «pala gemella», realizzata per l’altare maggiore della chiesa degli osservanti di

info tel. 0721 887845-847; e-mail: museocivico@comune. fano.pu.it; museocivico.comune. fano.pu.it

Senigallia. Un confronto accattivante, con elementi didattici e scientifici di straordinaria importanza, che ci portano dentro le grandi botteghe artistiche del tempo.

dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta

ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso

una straordinaria lungimiranza e ampiezza di orizzonte culturali. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @museiarteanticabologna; X: @MuseiCiviciBolo FANO PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano, sala Morganti fino al 15 settembre (prorogata)

È stata prorogata la mostra che Fano dedica al ritorno in città della Pala di Durante, conosciuta anche come Pala di Fano dipinta da Pietro Perugino, il piú grande maestro del suo tempo. Per l’occasione, l’opera, che è stata oggetto di un importante intervento di restauro, può essere ammirata, eccezionalmente, ad altezza d’uomo, cosí da poterne apprezzare i dettagli, compreso il retro della tavola centrale, che conserva significative

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provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre

opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso una selezione di oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle

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L’esposizione racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe» di Civezzano esposti assieme per la prima volta. Una mostra nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il

offre infatti un’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». Ciò che venne ritrovato a Civezzano nell’Ottocento, quando il Trentino era parte dell’Impero asburgico, è conservato al Ferdinandeum di Innsbruck; ciò che venne invece rinvenuto all’inizio del secolo successivo e acquistato dal museo imperiale di Vienna, è giunto al Castello del Buonconsiglio, dopo l’istituzione del Museo trentino. La mostra unisce idealmente i due musei proprio nel momento in cui quello trentino festeggia il primo centenario della sua istituzione e il Ferdinandeum ha appena concluso le celebrazioni del bicentenario. Una ricerca che parte dalla scoperta nella località piemontese di Testona sul finire dell’800 di una necropoli i cui

reperti furono attribuiti a popolazioni germaniche, oggetti che servirono a identificare quelli rinvenuti a Civezzano nella tomba «principesca» nel 1885. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it PARIGI IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria

Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, l’importante istituzione enipontana che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un rapporto di grande collaborazione. La rassegna

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AGENDA DEL MESE d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (1185-1240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del

priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande

respiro, distribuita in due sedi: il Musée Saint-Raymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord,

il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

APPUNTAMENTI • La Festa del Rinascimento, XXV Edizione Acquasparta 8-23 giugno info tel. 347 6503053; e-mail: info@ilrinascimentoadacquasparta.it; www.ilrinascimentoadacquasparta.it

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a ventata di innovazione portata in vari campi del sapere dal periodo rinascimentale, che ha lasciato tracce marcate ad Acquasparta, trova il suo momento di massima celebrazione in occasione della XXVesima edizione de «La Festa del Rinascimento», che, come sempre, propone un variegato calendario di iniziative storiche, rievocative, culturali, ma anche ludiche e gastronomiche, volte a celebrare l’arrivo in città di Federico Cesi detto il Linceo, che si trasferí nella città umbra poco dopo il matrimonio con la giovane Artemisia Colonna, avvenuto

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nel 1614. Tema portante dell’edizione 2024 della manifestazione, attorno al quale si sviluppa un fitto calendario di proposte culturali tra incontri, conferenze e approfondimenti, sono le «Rivoluzioni», filo conduttore che coglie un aspetto qualificante della stagione rinascimentale, considerata un’epoca di rottura rispetto ai secoli precedenti e di grandi innovazioni. Due gli avvenimenti determinanti: la scoperta delle Americhe a opera di Cristoforo Colombo nel 1492, che stravolse gli assetti e gli equilibri esistenti in campo geopolitico, economico, militare, commerciale, ma anche agricolo e gastronomico, con l’importazione di nuove piante, verdure e frutti commestibili, e l’affermarsi della teoria eliocentrica copernicana, punto di partenza della rivoluzione scientifica, sostenuta con forza, tra gli altri, da Galileo Galilei, unito da solidi rapporti di amicizia con Federico Cesi e con l’Accademia dei Lincei. giugno

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MEDIOEVO NASCOSTO

LUOGHI · STORIE · ITINERARI PARTE II: ITALIA CENTRO-MERIDIONALE

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ontinua il viaggio alla scoperta del «Medioevo nascosto» italiano, di quello straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». All’ombra dei grandi monumenti medievali, dei celeberrimi TO 2 OS I/ SC AR NA ER gioielli delle città d’arte conosciuti in O N V OE TI DI I I ME OV tutto il mondo, la nostra Penisola è U N infatti costellata da centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni, protagonisti della nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di MEDIOEVO vederli da vicino. La seconda tappa si snoda attraverso le regioni del LUOGHI STORIE Meridione e le isole del Paese, dal ITINERARI PARTE II: ITALIA CEN TRO-MERIDIONAL E Lazio alla Sardegna. Da Sutri, tappa obbligata per i pellegrini diretti a Roma, ma anche luogo di sosta e soggiorno di re, papi e imperatori, si scende fino all’estrema punta dello stivale, nel borgo calabrese di Pentedattilo, la città delle «cinque dita», arroccata sul Monte Calvario e che fu a lungo un importante presidio strategico. E da dove ci si può idealmente imbarcare per raggiungere la vicina Sicilia e poi risalire fino alle coste sarde. Un percorso ricco di storie e di sorprese, nel quale brillano come gemme di una collana luoghi che hanno contribuito a scrivere la storia del millennio medievale e che di quella stagione conservano testimonianze illustri. RI. PARTE II ITALIA

STO. I NUOVI ITINERA

MEDIOEVO NASCO

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Una veduta del borgo di Pacentro (L’Aquila), sul quale domina il profilo turrito del castello, costruito nel punto piú alto dell’abitato.

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N°62 Maggio/Giu gno 2024 Rivista

Bimestrale

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l’intervista virtus zallot

Non solo per

amore...

incontro con Virtus Zallot, a cura di Andreas M. Steiner

«L’abbraccio è un gesto relazionale universale, nel quale due o piú esistenze si incontrano scambiandosi un’impronta emotiva, talvolta indelebile». Inizia cosí l’ultimo libro della storica dell’arte Virtus Zallot, pubblicato per i tipi de Il Mulino, dal titolo Un Medioevo di abbracci. Non solo d’amore, non solo umani. Un’indagine a tutto campo su un fenomeno in apparenza da sempre connaturato agli esseri umani, ma che proprio nell’età di Mezzo gode di una straordinaria fortuna narrativa e iconografica. Ma cosa ci rivelano questi abbracci – reali e metaforici – di madri, amanti, bambini, amici, peccatori e santi, elargiti a persone, animali e perfino a cose? Ne abbiamo parlato con l’autrice

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erché, tra i tanti elementi caratterizzanti l’iconografia medievale, per il tuo nuovo libro hai scelto il motivo dell’abbraccio? Gli abbracci sono vistosa espressione di una necessità emotiva ed esistenziale, del desiderio di incontrarsi, accogliersi e trattenersi. L’abbraccio è dunque una sorta di messa in scena corporea della relazione tra persone. Nelle storie narrate o illustrate del Medioevo, dove i sentimenti e i gesti sono plateali ed eclatanti, assume infatti un ruolo di particolare importanza.

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erché il sottotitolo «Non solo P d’amore, non solo umani»? Ho notato che la maggior parte delle persone a cui anticipavo l’argomento del libro pensava subito e soprattutto agli abbracci tra innamorati – ai quali ho, naturalmente, dedicato un capitolo corposo – ma non sono certo gli unici. Gli abbracci, infatti, suggellano tutt’una serie di altri affetti, instaurano e consolidano relazioni, accolgono e accomiatano, proteggono o costringono, sono privati o pubblici, intimi o sociali, spontanei o rituali, sinceri o interessati, veri o metaforici. L’immaginario medievale con-

In alto Virtus Zallot è storica dell’arte e docente di storia dell’arte medievale all’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia. Studia l’arte e l’immaginario medievali come comunicazione e come testimonianza storica e sociale. Scrive per il Giornale dell’Arte. Per il Mulino ha già pubblicato Con i piedi nel Medioevo. Gesti e calzature nell’arte e nell’immaginario (2018) e Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli (2021). Nella pagina accanto Strage degli Innocenti (particolare), dipinto su tavola di Matteo di Giovanni di Bartolo. 1482. Siena, Santa Maria della Scala. giugno

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Miniatura raffigurante Marie de France che lavora alla sua raccolta di favole, l’Ysopet (una compilazione di traduzioni dei racconti di Esopo da lei stessa eseguite), da un’edizione in francese antico delle opere della poetessa. 1285-1292. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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l’intervista virtus zallot Stratagemmi d’amore

L’abbraccio come trappola Nei racconti medievali molte donne abbracciano o si fanno abbracciare per vanità, interesse o appetito sessuale. Che le loro braccia potessero diventare trappola è sentenziato in Qoelet (7, 26): «Trovo che amara piú della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso». Lo conferma Odino nell’Edda, raccomandando di «non dormire sul petto di una maliarda, / ché non ti serri tra le sue braccia». Istruendola all’amore, nel Fiore (un poemetto non concordemente attribuito a Dante, n.d.r.) la smaliziata Vecchia insegna alla giovane ad abbracciare e farsi abbracciare, ma anche a compiacere l’amante fingendo la gioia dell’abbraccio. Per ingelosirlo, alcune complici avrebbero riferito all’uomo la (finta) presenza di un pretendente piú ricco e bello; la giovane le avrebbe allora zittite esclamando: «Se Dio mi benedica, tropp’ò del su’ quand’i’ l’ò tra·lle braccia». Mentre si dichiarava cosí appagata, avrebbe tuttavia fatto «sott’al mantel la fica». Ancora la Vecchia consigliava di non concedere baci e abbracci se l’uomo «non iscioglie prima la maletta», cioè se non apre prima la borsa. Visitazione, particolare dell’altare di Ratchis, fatto realizzare dall’omonimo duca (e poi re) per il padre Pemmone. 737-744. Cividale del Friuli, Museo Cristiano del Duomo. Nella pagina accanto Il giovane sedotto dalla meretrice, particolare degli Esiti positivi e negativi dell’iniziazione amorosa di un giovane, ciclo affrescato da Memmo di Filippuccio nella «Camera del Podestà». 1303-1310. San Gimignano, Musei Civici, Palazzo Comunale.

templa, inoltre, l’abbraccio ad animali, cose e immagini; e attraverso l’abbraccio – talora persino un abbraccio sensuale – vive e racconta l’incontro con il divino. Il primo capitolo è dedicato

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proprio agli abbracci d’amore. Puoi segnalarci alcuni esempi – visivi e letterari – che ne esemplificano le tipologie? Nel libro esamino per primo il «desiderio di abbracciare», che alcuni poeti celebrano piú dell’abbraccio stesso. Esso muove e determina la trama di molte storie: per abbracciare l’altro, l’innamorato è infatti disposto ad affrontare ostacoli logistici e sociali che paiono insormontabili. Cosí, per esempio, nella storia di Tristano e Isotta, la stessa bugia di Isotta, diventata proverbiale, è legata a un abbraccio. I piú narrati sono gli abbracci illeciti e adulteri, certo piú interessanti di quelli coniugali: proibiti e ostacolati, sono eroicamente perseguiti e, in

quanto fattore destabilizzante le relazioni personali, familiari e sociali, modificano il corso degli eventi. Sono, inoltre, ricercati e goduti senza sensi di colpa, con una disinvoltura che stupisce. Nel Medioevo, cogliere gli amanti che dormono abbracciati era flagranza di reato, tale da innescare crudeli vendette. Per questo, sapendo di essere spiati, Tristano e Isotta fingono di giacere separati ponendo tra sé una spada. Nel Decameron, dopo averli scoperti a letto nudi e abbracciati, re Federico di Sicilia condanna Gianni e Restituta al rogo. a valenza del termine e la sua L riproduzione illustrata è, dunque, ambigua e molteplice… giugno

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…dal semplice gesto di cingersi con le braccia arriva a segnalare l’amplesso, evocando dunque ciò che non era conveniente descrivere o raffigurare in modo esplicito. Esito di alcuni abbracci era infatti la gravidanza, come nei rilievi sulla torre angolare di San Donnino a Fidenza, dove quello di Milone a Berta (pur in piedi e vestiti) raffigura il concepimento dell’eroe Ronaldino. Altri abbracci perseguivano invece la massima intimità corporea, ma senza comportare l’amplesso: cantata dai trovatori, tale pratica non offendeva Dio e preservava la buona reputazione della donna, rispettandone l’eventuale verginità e evitando il rischio di gravidanze. i contro a tanta disinvoltura, D la morale cristiana richiedeva di astenersi anche dagli abbracci piú casti… …nonostante l’indubbia propensione godereccia di monaci, monache e chierici (basti pensare ad alcuni racconti del Decameron), gli abbracci erano condannati da predicatori e moralisti, che li consideravano peccaminosi in sé e premessa di ulteriori e piú gravi colpe. A dimostrarne la pericolosità, oltreché ricorrere al prototipo biblico della moglie di Putifarre che tentò di sedurre il giovane Giuseppe, venivano proposti numerosi esempi di irreprensibili monaci tentati (invano) dall’abbraccio di una donna, in grado di accendere anche in loro il desiderio di abbracciare. Proprio per denunciare il peccato di lussuria, in epoca romanica abbracci dai tratti talvolta esplicitamente sessuali venivano scolpiti all’esterno e all’interno delle chiese: l’effetto è strano perché, invece di derubricarli, li «pubblicizzavano». Ma gli abbracci da parte delle donne non inducevano solo al peccato: assoggettavano anche gli uomini a capricci e pretese, fino ad approfittarne: «quando un giovanotto

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ha di che dare, / smaniano tutte per abbracciarlo, / per raggirarlo e tormentarlo», considerava sconsolato il narratore di un fabliau. È, poi, quanto capita al protagonista della storia illustrata da Memmo di Filippuccio nella Camera del Podestà di Palazzo del Popolo a San Gimignano, dove un ingenuo giovane viene sedotto da una mezzana che, abbracciandolo, gli ruba i denari (vedi foto in basso). I bambini piú piccoli erano tenuti in braccio e, qualche volta, anche abbracciati… Ho potuto appurare che, per gran parte del Medioevo, nelle immagini e nei racconti dedicati all’infanzia di Gesú, il divino figlio di Maria riceve ben pochi abbracci materni, e ancor meno paterni. Ho quindi analizzato il significato e le trasformazioni della tipologia iconografica denominata Madonna della Tenerezza, nella quale il bambino Gesú e la madre, invece, si abbracciano (vedi foto a p. 30). In generale, emerge l’attitudine femminile all’abbraccio affettuoso, riservato ai bambini anche nelle evenienze piú drammatiche (come, per esempio, nelle raffigurazioni della Strage degli innocenti; vedi foto a p. 25). Colpiscono, inoltre, gli abbracci affettuosi delle donne che, per motivi diversi, subentrano alle madri, eve-

nienza nel Medioevo tutt’altro che rara. Nell’ex Spedale di Santa Maria della Scala a Siena, per esempio, l’affresco di Domenico di Bartolo che illustra l’accoglienza e la cura dei bambini abbandonati mostra una balia abbracciare teneramente quello che le è affidato, che le restituisce l’abbraccio. Di contro, nell’immaginario come nella realtà, raramente le braccia maschili trasportano bambini e ancor meno li abbracciano: Leon Battista Alberti le considerava addirittura inadeguate perché «dure». olti incontri raffigurati o M narrati nel Medioevo sono sottolineati da abbracci calo-

effusioni virtuali

A letto con la pergamena Nel Romanzo di Flamenca (fine del XIII secolo), Flamenca riesce invece a far baciare le figure di sé e del suo amante senza ricorrere a incantesimi. Fu l’ignaro marito a recapitarle la pergamena su cui il cavaliere Guglielmo aveva trascritto un salut d’amor e tracciato un loro ritratto: Flamenca si riconobbe e lo riconobbe. Per questo la portava ogni sera a letto e «sull’immagine di Guglielmo depone mille baci e altri mille quando ripiega il “saluto” in modo che una figura sembra che baci l’altra; riesce infatti a far coincidere cosí ingegnosamente le due immagini ch’esse danno l’impressione di abbracciarsi».

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l’intervista virtus zallot

Bambini dimenticati

Miracoli per mare e per terra Particolare intensità assumevano gli abbracci ai cari creduti morti e, ancor piú, a coloro che ritornavano in vita. Gautier de Coinci (1177-1236) narra dei sopravvissuti a un naufragio che, vedendo riemergere un compagno inghiottito dalle acque ma soccorso dalla Vergine, «sulla spiaggia, sulla sabbia / lo baciano e abbracciano con tanto trasporto / che per

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poco non lo uccidono». La Legenda aurea narra invece del bimbo preservato in vita da san Clemente. La madre lo aveva dimenticato presso il sepolcro subacqueo del santo, accessibile solo una volta all’anno quando le acque del mare di Azov si scostavano miracolosamente per consentire di raggiungerlo. Ritornata a cercarlo, lo ritrovò e «credette che fosse morto ma quando si accorse che ancora dormiva giugno

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Accoglienza ed educazione dei gettatelli e matrimonio di una figlia dello Spedale, particolare di uno degli affreschi eseguiti da Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio del Santa Maria della Scala, a Siena. 1442-1443.

rosi, alcuni dei quali diventati esemplari e famosi. Quale funzione assumono? Dichiarando l’accettazione dell’uno all’interno dello spazio emotivo ed esistenziale dell’altro, spesso producono un’accelerazione verso la felice conclusione di una storia. Nelle traduzioni iconografiche sono per questo scelti come «fermo immagine» significativo. Alcuni sono stati illustrati e commentati innumerevoli volte, come quello (nella scena denominata Visitazione) tra Maria ed Elisabetta, oppure quello tra i santi Paolo Eremita e Antonio Abate. Tra le molte Visitazioni, mi piace segnalare quella dell’altare di Ratchis, dove ad aumentare la forza espressiva dell’abbraccio, le braccia sono diventate lunghissime, visivamente e concettualmente dominanti (vedi foto a p. 26). nche quelli che appaiono in A copertina del tuo volume sono abbracci di accoglienza? L’immagine riproduce un settore del Giudizio universale di Giovanni di Paolo presso la Pinacoteca Nazionale di Siena. Vi è illustrato l’arrivo dei beati in paradiso, accolti con umanissima gioia da chi li ha preceduti o dagli angeli (vedi foto alle pp. 32/33). Abramo stesso, che in un’altra raffigurazione medievale del paradiso accoglie in seno le animule, spesso le cinge con tenerezza; nel rilievo all’ingres-

subito lo svegliò e lo sollevò tra le braccia onde tutti i presenti potessero vederlo». (...) La traduzione iconografica aggiunge al mero «sollevò» una componente affettuosa, mostrando prima la donna china sul bambino che la reclama tendendo le braccine, quindi entrambi teneramente abbracciati. (...) Nel Trattato dei miracoli (1250 circa)

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so di Saint-Pierre a Moissac per esempio, abbraccia delicatamente quella del povero Lazzaro che un angelo ha recato in cielo. li abbracci di accoglienza G piú calorosi segnano però non tanto «l’incontrarsi» quanto il «ritrovarsi», soprattutto di coloro che pensavano – o temevano – di non rivedersi piú… Il caso iconografico piú ricorrente è quello che illustra l’abbraccio tra i genitori di Maria presso la Porta Aurea, quando il padre Gioacchino ritorna dalla moglie Anna: cacciato dal tempio, si era ritirato presso i pastori e Anna già si piangeva vedova. Nel ciclo giottesco nella Cappella degli Scrovegni i due anziani coniugi si stringono con delicatezza, avvicinando i visi al bacio (vedi foto a p. 35). Il ritrovarsi di due coniugi maturi è reso anche in una scultura del XII secolo conservata presso il Musée Lorrain di Nancy, che raffigura il ritorno di un crociato. L’abbraccio li rende un corpo unico; la perentorietà e sintesi formale del romanico traduce in solidità materica la fermezza del loro amore. Ma forse, nelle narrazioni e immagini medievali, i ri-abbracci piú clamorosi sono quelli che riguardano chi ritorna miracolosamente in vita: soprattutto quelli elargiti dalle madri ai figlioletti morti per malattia o infortunio, i quali, risollevandosi, li reclamano a braccine tese.

Tommaso da Celano riferisce del bambino caduto da una finestra. Il padre e tutti i presenti invocarono san Francesco e, «terminata la preghiera, il fanciullo cominciò a poco a poco a sbadigliare, ad alzar le braccia e a rialzarsi. Accorre la madre e abbraccia il figlio; il padre non sa contenersi per la gioia, e tutta la folla, piena di ammirazione, magnifica Cristo e il suo Santo con altissime grida».

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l’intervista virtus zallot Madonna della Tenerezza, affresco di Giovanni Pietro da Cemmo. 1491-1493. Esine (Brescia), S. Maria Assunta. Nella pagina accanto Madonna della Misericordia, olio su tavola di Piero della Francesca. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico.

ra gli abbracci di commiato T sono particolarmente strazianti quelli definitivi, ovvero quelli riservati a un caro che muore o al suo corpo morto... Recentemente, il premio World Press Photo del 2024 è stato assegnato alla fotografia di Mohammed Salem che ritrae una donna palestinese con il corpo della nipote bambina in braccio. L’efficacia dell’immagine è potenziata anche dalla nostra memoria visiva. Lo schema iconografico è infatti quello della Pietà, che presenta Maria con, in braccio, il figlio calato dalla croce. L’esempio piú famoso è quello scolpito da Michelangelo, in S. Pietro a Roma, ma anche Picasso lo cita nel suo Guernica. La figura della Madonna che abbraccia il figlio morto è il prototipo del dolore di tutte le donne (del passato come del presente) che piangono una morte violenta e ingiusta. L’intensità dell’abbraccio di commiato segnala l’autenti-

letteratura

Quando gli innamorati si lasciano Piú che gli arrivederci, la letteratura medievale celebra gli addii, struggenti commiati tra amanti che temono, intuiscono o sanno di abbracciarsi per l’ultima volta. In Lancillotto del Lago (XIII secolo), per esempio, Ginevra congeda Lancillotto che si avvia a combattere: «lo prese fra le braccia, lo baciò con immensa dolcezza e poi gli allacciò lei stessa l’elmo, raccomandandolo a colui che fu messo in croce affinché lo proteggesse dalla morte e dalla cattura». Disperata è Crimilde nei Nibelunghi (1200 circa), quando Sigfrido parte per la caccia nel corso della quale sarà ucciso a tradimento. Pur ignaro del destino che lo attende,

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egli bacia la moglie e chiede a Dio di rivederla. Crimilde è angosciata e vorrebbe trattenerlo, poiché un sogno infausto le fa temere di perderlo. Sigfrido «accolse tra le braccia la sua splendida donna. / Di baci amorosi coprí il suo bel corpo. / Poi prese congedo e senza indugio partí. / Ed ella non lo vide, vivo, mai piú». Ancora nei Nibelunghi, gli abbracci di commiato tra amanti sono pretesto narrativo ed emotivo per anticipare il destino degli uomini in partenza verso il regno di Attila. Il poeta avverte che non torneranno. Venuta l’ora, «non indugiavano piú. / Chi aveva tra le braccia l’amata, strinse ancora il suo corpo». Ma «a tutto questo pose fine la moglie di Attila, con molto dolore». giugno

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l’intervista virtus zallot Giudizio Universale (particolare), tempera su tavola di Giovanni di Paolo. 1445 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. Il dipinto è forse la predella di un grande polittico.

cità e la profondità degli affetti infranti. Nella letteratura laica, sono strazianti gli abbracci all’amato morente o al suo corpo morto. Mi piace ricordare quello, commosso e commovente, di Argia, nel racconto sia di Boccaccio che di Christine de Pizan. Disubbidendo all’editto che vietava di avvicinar-

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si al campo di battaglia per seppellire i morti, la donna cerca quello del marito e, pur trovandolo quasi irriconoscibile e imputridito, lo bacia e stringe a sé. a l’abbraccio era anche gesto M pubblico… L’abbraccio di pace, che accompa-

gna e predispone al bacio di pace, era un antichissimo gesto di perdono, oppure dichiarazione della volontà di condividere ideali e intenti. Quello tra san Pietro e san Paolo, per esempio, è stato ripetutamente raffigurato quale invito alla comunione entro la Chiesa, con significato non dissimile giugno

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da quello scambiato, nel 1964, tra papa Paolo VI e il patriarca di Gerusalemme o, di recente, tra papa Francesco e il grand imam di al-Azhar. Aveva valenza pubblica e politica il doppio abbraccio dei quattro tetrarchi, nel gruppo in porfido murato sul cantonale esterno della basilica di S. Marco a

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Venezia (vedi foto a p. 34). Un gesto che si ripete anche nel presente, come dimostrano gli abbracci tra politici di cui riferisce la cronaca quotidiana (e che, purtroppo, il piú delle volte si rivelano essere degli abbracci «di Giuda»). U n abbraccio corale e forte-

mente simbolico è quello della Madonna della misericordia… L’abbraccio offre anche conforto e protezione, al corpo e all’anima. Rifugio e sostegno tanto fisico che emotivo, in alcuni racconti è scudo umano che sacrifica sé per salvare l’altro. Nella Madonna della Misericordia l’abbraccio che protegge è

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Magnanimità imperiale

Investimenti per l’anima Per l’imperatore bizantino Michele IV abbracciare i miseri era investimento per l’anima. Secondo la cronaca di Michele Psello (XI secolo), egli ospitava a palazzo i filosofi che disprezzavano il mondo e «detergeva i loro piedi impolverati, li stringeva tra le braccia, li baciava con trasporto; in segreto s’avvolgeva nei loro stracci». E, continua il cronista: faceva ancora qualcos’altro di stupefacente (...) Mentre infatti la gente è solita rifuggire la promiscuità coi lebbrosi, egli aveva la magnanimità non solo di render loro visita, ma di apporre il proprio volto sulle piaghe dei loro corpi e baciarli, abbracciarli, accudirli al lavacro, di porsi quasi in qualità di schiavo di fronte a padroni.

Nella pagina accanto il gruppo in porfido dei tetrarchi, proveniente da Costantinopoli e collocato nella facciata sud della basilica di S. Marco, a Venezia. In basso Anna e Gioacchino presso la Porta Aurea, particolare degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. 1303-1305.

ampliato dal mantello, per accogliere i fedeli come sotto una tenda. L’esempio piú famoso è forse quello di Piero della Francesca a Sansepolcro (vedi foto a p. 31), ma il tema conobbe grande diffusione, con variazioni nella tipologia dei protetti in relazione ai contesti e alla committenza. proposito di soccorso e proA tezione, il tuo libro affronta anche il tema dell’abbraccio «agli ultimi»… Abbracciare un bisognoso era espressione di carità che alcuni tradussero in operatività; ultimo tra gli ultimi era il lebbroso. San Francesco inaugurò la propria vita di santità abbracciandone uno: superando il ribrezzo che pur gli suscitava, capí di poter rinunciare a sé per dedicarsi totalmente agli altri. Abbracciò un ripugnante lebbroso san Martino; e santa Radegonda, che li accudiva personalmente, suscitava riprovazione e sconcerto. L’immagine dell’abbraccio a un povero sollecitava alla misericordia: nel Pran-

misericordia divina

In segno di perdono Un Dio che perdona e abbraccia è evocato da Dante nel Purgatorio, dove Manfredi dichiara: «Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sí gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei». In uno degli Esempi di Jacopo Passavanti (1300 ca.-1357) una pubblica meretrice cambia vita avendo appreso da un predicatore che la misericordia divina tanto è grande da perdonare anche le mancanze piú gravi, poiché il Signore «stava colle braccia aperte a ogni peccatore che volesse tornare a penitenzia».

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l’intervista virtus zallot Dalla passione alla sopraffazione

Cronache di ordinaria violenza Specchio delle convenzioni e degli usi sociali, l’appagamento del desiderio non corrisposto era perseguito dalle donne con la seduzione, dagli uomini con la forza. Impressionante, nella cronaca di Gregorio di Tours (VI secolo), è il racconto della violenza subita dalla ragazza di cui Amalone si era invaghito. Allontanata la moglie, il duca chiese ai servitori di recapitargliela a letto, dove giunse con il naso sanguinante per le botte subite. Solo «dopo averla picchiata a pugni, a schiaffi e con altri colpi, riuscí a prenderla tra le braccia». Avendo molto bevuto, Amalone non andò oltre e si addormentò; la ragazza ne approfittò per sferrargli il colpo che lo uccise. Anche altrove gli abbracci fungono da morsa, trattenendo e immobilizzando la donna come fosse una preda.

In alto capitello scolpito raffigurante la lotta tra Giacobbe e l’angelo. XII sec. Aosta, S. Orso, chiostro. A sinistra rilievo raffigurante una scena di lotta. XII-XIII sec. Fornovo di Taro (Parma), S. Maria Assunta, facciata.

Nei Carmina Burana (XII-XIII secolo), per esempio, un uomo celebra il trionfo sulla fanciulla che gli negava «l’ultima e piú dolce meta dell’amore». Compiaciuto, restituisce il resoconto della sua violenza: «L’abbraccio stretta fermandole le membra, le stringo i polsi e la bacio con passione; cosí la reggia di Venere si apre». E conclude: «La gioia degli abbracci fu qui moltiplicata e i desideri miei e della fanciulla vennero allora realizzati; ottenni per la mia vittoria la palma degli amanti e il mio nome venne lí subito esaltato».

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Pranzo dei poveri, particolare di uno degli affreschi eseguiti da Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio del Santa Maria della Scala, a Siena. 1442-1443.

zo dei poveri di Domenico di Bartolo, nel Pellegrinaio dell’ex Spedale di Santa Maria della Scala a Siena, il rettore abbraccia un misero storpio con grazia e sollecitudine, come a rimarcare la sincera carità dell’Istituzione che rappresenta. an Francesco ritorna spesso S nel tuo libro: lo definisci, infatti, il «santo degli abbracci»… I racconti delle Vite di san Francesco sono pieni di abbracci: offerti, ricevuti, sollecitati e anche in seguito censurati, come quello che ricevette da Jacopa de’ Settesoli sul letto

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di morte. Ma l’abbraccio era anche cifra gestuale dei primi francescani. Significativo è un episodio riportato nei Fioretti, dove si narra di frate Egidio che riceve re Ludovico di Francia senza proferire parola, ma con ripetuti abbracci. Egli stesso spiega: «se noi avessimo voluto esplicare con voce quello che noi sentivamo nel cuore, per lo difetto della lingua umana (...) ci sarebbe stato piuttosto a sconsolazione che a consolazione». oi vi sono anche abbracci di P segno opposto: non gesti di affetto, protezione e conforto, ma

francesco petrarca

Un poeta in balia dell’amore Francesco Petrarca si rammaricava di non saper rinunciare a ciò che la morte avrebbe disperso velocemente («quel ch’un’ora sgombre»), pur consapevole che meglio sarebbe stato «’l ver abbracciar, lassando l’ombre». In un’altra canzone, in balía dell’amore annotava: «et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio» (Canzoniere, canzone 264).

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Calvario (o Crocefissione con san Domenico), affresco del Beato Angelico. 1439-1445. Firenze, convento di S. Marco.

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morsa per trattenere, trascinare, violentare e uccidere… Tra i molti, cito due esempi abbastanza curiosi, quello di Guglielmo il Maresciallo e della principessa fortissima di cui narra Marco Polo: entrambi sconfiggevano i nemici abbracciandoli per poi trascinarli via. L’abbraccio è anche una particolare postura durante la lotta, come mostrano le molte raffigurazioni dello scontro tra Giacobbe e l’Angelo, ma anche le scene di anonimi lottatori esibite a esemplificare la violenza del male. i è poi il tema dell’abbraccio V al divino… Dio stesso viene immaginato con braccia che accolgono per consolare e perdonare. Ma viene abbracciato soprattutto il Crocifisso, raffigurato nella cornice del racconto della crocifissione ma, ancor piú, in contesti estrapolati da quella storia e da quel luogo. Tale abbraccio assumeva valore simbolico, indicando l’adesione al Cristo e allo stesso cristianesimo. Nella versione figurata, l’atto è spesso interpretato da san Francesco e da san Domenico, quello a san Domenico, per esempio negli affreschi

Da leggere Virtus Zallot, Un Medioevo di abbracci. Non solo d’amore, non solo umani, il Mulino, Bologna 2024

di Beato Angelico in S. Marco a Firenze. Gli abbracci al divino vissuti e narrati da alcune mistiche sono intensamente sensuali, quasi scandalosi. Il godimento corporeo dell’incontro amoroso era infatti utilizzato per restituire l’intensità della gioia spirituale. n capitolo è dedicato alla deU scrizione degli abbracci ad animali. Qui ritorniamo, naturalmente, a san Francesco… …che abbracciava fisicamente le bestiole in quanto dono del Creatore. Altrove tale abbraccio era un rimando simbolico: come per il piccolo san Giovanni Battista che abbraccia l’agnello o, per citare un esempio noto universalmente, per la Dama con l’ermellino di Leonardo. I l Medioevo riporta anche immagini di abbracci «surrogati» o, addirittura, impediti…

Dalla Terra Santa al Galles

Abbracci miracolosi Tecla abbracciò una pietra, ma quale improvvisato surrogato del figlioletto che non riusciva ad avere. Secondo una leggenda popolare, recatasi a omaggiare il piccolo Gesú scoprí che l’accesso era riservato alle madri. Avvolse allora un sasso entro un panno e, abbracciandolo come fosse il suo bambino, si presentò. Commossa, la Vergine le chiese di allattarlo. Tecla scoprí allora che la pietra si era trasformata in Stefano, il futuro martire che proprio le pietre avrebbero ucciso. Come il sasso di Tecla, in uno dei racconti del Mabinogion (raccolta di testi gallesi in prosa, n.d.r.) un ceppo sostituisce una persona. Quando la moglie del pastore corse felice incontro a Culhwch e ai suoi compagni: Kei afferrò un pezzo di legno dalla catasta e, nel momento in cui ella si trovava davanti a loro per abbracciarli, le pose il ceppo tra le mani. Ella lo strinse sí bene ch’esso divenne come un rotolo di corda ritorta. «Ah! donna» esclamò Kei «se mi avessi stretto in tal guisa, nessuno sarebbe stato tentato di donarmi il proprio amore: è ben pericoloso il tuo affetto!».

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Si abbracciavano le sacre icone o il ritratto dell’amato: Tristano quello di Isotta, la regina Candace quello di Alessandro Magno. Con scarsa soddisfazione, anche nella versione medievale dell’antico racconto, Pigmalione abbracciava la statua che egli stesso aveva scolpito: quando Venere le donò la vita, gli abbracci diventarono finalmente caldi e condivisi. Nell’immaginario medievale vi sono statue gelose che impediscono a uno sposo di unirsi alla sposa e statue della Madonna che prestano il bambino ad abbracci di donne vere o che lo riabbracciano dopo che era stato loro tolto e restituito. In altre storie ancora si abbracciano gli amanti dipinti: in Lancillotto del Lago quelli effigiati sul magico scudo che la Dama del Lago aveva inviato alla regina Ginevra. n paragrafo analizza una tipoU logia del tutto singolare, quella degli abbracci a corpi evanescenti.... …sono quelli vissuti sognando l’amata o l’amato, che al risveglio svanisce; o quelli alle ombre, evenienza citata in antico e che Dante riscrive nella Divina Commedia. Non dimentichiamo, infine, che «abbracciare le ombre» era anche considerato figura di attaccamento alle cose vane. F

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Senza corazza c’è piú gusto

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Un corteo nuziale sfila nelle vie della città, particolare del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena, tra il 1338 e il 1339. La sposa veste uno sgargiante abito di colore scarlatto e ha sul capo una corona.


Messer Renaldo sposa la bella (e ingenua) Ginevra, alla quale insegna un modo davvero singolare di consumare il matrimonio... L’inganno ha però vita breve, perché, in assenza del marito – partito per lavoro –, la giovane scopre i piaceri del sesso grazie a Chimento: e, al rientro del consorte, tutti vivranno ancor piú felici e contenti!


il novelliere di giovanni sercambi/3

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ella novella VII della raccolta di Giovanni Sercambi a cui è dedicata questa serie, la brigata di Lucchesi che si sposta di città in città per sfuggire alla peste lascia Firenze alla volta di Siena, ma il viaggio è lungo e «assai increscevole» e perciò il gruppo si ferma in una locanda a Incisa, nel Valdarno. Per alleviare le fatiche dei viaggiatori, il narratore (lo stesso Sercambi) racconta la storia di Renaldo Bondalmonti, un giovane cavaliere fiorentino. Sebbene la vicenda appartenga alla tradizione orale, lo scrittore cita una nobile famiglia di Firenze per darle un tocco di veridicità. Renaldo è «assai ricco e bello e gran vagheggiatore [seduttore], che piú giovane vergini per la sua astusia avea condutte a fare la sua volontà, e simile a molte maritate avea fatto puoner a’ loro mariti le corna in capo, e dizonestamente molte vedove e monache avea aute». Già all’epoca per definire l’adulterio si utilizzava l’espressione «corna», che, secondo un’interpretazione ricorrente, potrebbe alludere alla mitologia: il Minotauro era il frutto dell’unione adulterina della regina di Creta, Pasifae, con il toro cretese fornito di corna; il popolo rammentava il fatto a re Minosse attraverso il tipico gesto della mano con indice e mignolo sollevati e da qui ne deriverebbe il collegamento con l’adulterio.

Un altro particolare dell’Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo raffigurante una donna affacciata alla finestra, affresco di Ambrogio Lorenzetti e aiuti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico.

Bellissima e onesta

I parenti rimproverano Rinaldo di continuo per questo comportamento libertino e pericoloso e insistono perché prenda moglie: «E doppo molti parlari, il ditto messer Renaldo volendo alla volontà de’ parenti consentire e, dubitando che a lui non fusseno poste le corne [corna in lucchese dell’epoca] come ad altri le avea già poste, disse: “Poi che vi piace che io prenda moglie, io la vo’ prendere a mio senno”». I familiari acconsentono, la prescelta è Ginevra, figlia di Lanfranco Rucellai, altra celebre famiglia fiorentina: «Bene ch’ella [Benché ella] sia povera, ella è ben nata e onesta fanciulla; che io so quello mi dico, tante n’ho provate in questa terra [in questa città]. Ginevra «era bellissima e onesta e simplici, che mai domestichessa di persona acea auto [aveva avuto], né mai di casa uscita non era, e quazi non pensava fusse in Firenze altri che ’l padre e lla madre, perché mai non si puose a finestra e poche persone in quella casa entravano; e cosí puramente s’era stata: parendo a messer Ranaldo poterla a suo modo condurla». Nel Medioevo le donne stavano alla finestra per farsi ammirare dai passanti e Renaldo ritiene una dote che Ginevra non lo faccia, poiché è segno della sua mancanza di vanità e di malizia. In questo passaggio notiamo anche la presunzione del giovane cavaliere, il quale, ritenendo di conoscere il mondo femminile, sceglie una sposa casta e ingenua perché pensa di gestirla al meglio per evitare di essere tradito. I parenti di Renaldo si recano da messer Lanfranco, che, vista la differenza di censo tra le due famiglie, qua-

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si non crede alle proprie orecchie quando gli viene fatta la proposta di un matrimonio tanto vantaggioso per la figliola, ma i familiari dello sposo insistono: «Sí messer Renaldo l’ha demandata , che se sete [siete] contento non vi date impaccio di niente: lui la vuole prestamente [al piú presto] e noi abiamo da lui di poterla fermare [e noi abbiamo l’incarico di volerla impegnare per il fidanzamento]». Il padre di Ginevra «contento, distese la mano; e impalmegiatola [impalmare in segno di promessa di matrimonio] li parenti di messer Renaldo si partirono e tornoron [tornarono] a messer Renaldo dicendo ch’ella era ferma». In questo brano scopriamo come il termine «impalmare» nel Medioevo si riferisca alla stretta di mano fra parenti che sanciva la promessa matrimoniale. giugno

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A destra allegoria della Forza, rappresentata da una donna in armatura associata a un leone, da un manoscritto del Traité sur les vertus cardinales. 1510 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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il novelliere di giovanni sercambi/3

Appresa la lieta novella, la madre di Ginevra è talmente contenta del matrimonio che insiste affinché Lanfranco cerchi subito un notaio, perché «il matrimonio si fermi [venga sancito dall’accordo scritto], pensando che messer Renaldo si pentisse». Rucellai si precipita da messer Renaldo, lo abbraccia e gli riferisce «quello che la donna l’avea imposto». Il giovane cavaliere «contento, trovato li suoi parenti e uno notaio e preso un bellissimo anello, a casa di messer Lanfranco n’andarono, dove quine messer Lanfranco con alcuni suoi parenti e alcune donne trovarono. Venuto il notaio e fatto lo contratto, messer Ranaldo li mise l’anello; e prima che quine si partissero, dienno ordine che ’n dí XX ferraio [febbraio], che venir dovea in domenica, la volea menare [voleva

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ammogliarsi]; e cosí ordinato, li panni si fenno tagliare [si prendono le misure della sposa e si tagliano i tessuti per il suo vestito nuziale] e ogni altra cosa, in presensia di tutte le donne, prima che di quine neuno si fusse partito».

Un corredo insolito

Tuttavia, per Renaldo la prudenza non è mai troppa e, dopo aver fornito i tessuti tagliati al sarto, decide che gestirà la sposa in modo tale che la gente non potrà beffarsi di lui per eventuali tradimenti. Per questo motivo prende le misure del busto, delle braccia e delle gambe di Ginevra e, senza dire niente a nessuno, le porta a un armaiolo, ordinandogli: «Io voglio una barbuta [elmo senza visiera], e un paio di giugno

MEDIOEVO


Sulle due pagine miniature raffiguranti coppie di amanti nelle loro alcove, da un codice delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

bracciali e guanti, corassa e gambiere, e una spada che tra ogni cosa pesi libre V, lustranti [splendenti], belle e atte che chi se l’arà a mettere in dosso per sé solo le possa vestire sensa alcuno aiuto». Renaldo si reca anche da un sarto specializzato e sempre con le misure di Ginevra gli commissiona un «giubetino all’arnalda [foggia di vesti maschili molto stretti, da una moda proveniente dalla provincia del Hainaut, in Belgio] e una camicia corta poer poter sopra quelle metter l’armadura e simile calse». Una volta ottenuti la corazza, l’elmo, la spada e i vestimenti, il cavaliere «nascostamente alla casa sua portò (... ) e in uno scrigno le misse, serrato a chiave, la chiave messasi al lato». Terminata la festa di nozze, «la madre della sposa quella messa in camera e amaestratola che ubidisca in tutte le cose messer Renaldo, pregandola non facesse motto né a persona dicesse quello che messer Renaldo li facesse, la fanciulla simplici disse: “Madre mia, io farò tutto ciò che mi comandate e quello che mi comanderà messer Renaldo”. La madre lieta la misse in ne letto». Dopo aver salutato gli ospiti, Renaldo serra l’uscio e le finestre di casa, sale in camera e chiede a Ginevra di alzarsi dal letto che «in camicia, simplici, si leva e va a messer Renaldo. Messer Renaldo trattoli la camicia, ella rimane nuda che pareva come neve». Il giovane sposo fatica a non cedere alla passione, ma «cavato fuori la camicia, il giubettino e le calse, a Ginevra le fé mettere, e dapoi l’arme, colla spada in mano. E poi preso un doppioncello [piccolo candelabro a due bracci] acceso, e in mano lel [glielo] mes-

MEDIOEVO

giugno

se e disse: “Ginevra, stà in capo di scala, in su l’uscio della camera” e insegnòli il modo e Ginevra tutto fece». Renaldo scende la scala, la risale, prende in braccio la moglie, la posa e «avendosi cavato le mutande e avendo lo ’ngannatore ritto [membro virile], li salío in sul petto e isverginòla». Ginevra «sentendo alquanto misse un pogo di voce»: il coniuge è contento, perché ne deduce che era illibata.

Notti (e giorni) pieni di dolcezza

La notte prosegue con lo stesso rituale per tre volte, fino a quando Ginevra si toglie l’armatura e si corica assieme al marito con reciproca soddisfazione. La mattina seguente la madre di Ginevra le chiede se le nozze sono state consumate: «Tanta dolcessa ho sentito, benché un poco, di prima, mi paresse fatica. E di vero io sono contenta che m’avete maritata tanta dolcessa ho sentita stanotte». Al termine della festa di nozze, Renaldo ordina a Ginevra di mettersi l’armatura e fanno l’amore per quattro volte seguendo lo stesso rituale dell’elmo, dell’armatura, della spada e del candelabro. Qualche giorno dopo il marito, vedendo Ginevra «sperta della notte, pensò farla sperta del dí. E uno giorno li disse avendo chiuso le finestre maestre [le finestre principali che si affacciavano sulla strada] “Ginevra àrmati”». La sposa appare sorpresa della richiesta: «O armansi le giovane lo dí?». Alla risposta affermativa di Renaldo, Ginevra va in camera, indossa l’armatura, prende il candelabro, accende la lampada a olio e si

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il novelliere di giovanni sercambi/3

mette sull’uscio in attesa di Renaldo: «De dí non bizogna lume», le dice perché in camera al primo piano le finestre sono aperte. Dopo aver fatto l’amore due volte, Ginevra è estasiata: «Se di notte fu dolce il fatto» con la luce del giorno lo è ancora di piú e si riveste, ormai «bene ammaestrata». Trascorso qualche tempo in questo insolito ménage matrimoniale, Renaldo riceve una bella notizia: è stato richiesto come podestà di Perugia con un ottimo salario. Dal Duecento, i comuni dell’Italia centro-settentrionale sperimentano una nuova forma di governo: trasferiscono il potere a un unico magistrato, definito appunto podestà, che rimane in carica sei mesi oppure

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un anno. Si tratta di un personaggio appartenente a una famiglia nobile, di solito cavaliere, come nel caso di Renaldo, competente in materie giudiziarie e in problematiche militari, ma, soprattutto, deve essere forestiero. In questo modo le città affidano le questioni giuridiche a un’autorità super partes che porta con sé giudici e notai di fiducia, con la speranza di mettere fine alle fazioni cittadine e alle lotte familiari che minano il buon governo e la pace. I familiari di Renaldo insistono affinché accetti la carica «perché era onorevile officio». Ormai il futuro podestà si fida della moglie: «Ginevra mia, io vado a Perugia, là u’ io guadagnerò de’ denari per fare una bella palangiugno

MEDIOEVO


Sulle due pagine le copie delle statue bronzee del leone e del grifone che sormontano il portale che immette nella Sala dei Notari del Palazzo dei Priori di Perugia, cuore amministrativo della città umbra nel corso del Medioevo. Gli originali delle sculture sono custoditi nell’atrio interno dell’edificio. A destra Palazzo Pretorio (particolare), olio su tela di Federico Zandomeneghi. 1865. Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Il dipinto immagina una scena di vita quotidiana nel Palazzo del Bargello di Firenze che, tra i vari usi, ebbe anche quello di sede del podestà.

dra [veste larga e lunga]. Tornerò presto: fa che si’ savia». La giovane sposa «ch’era simplici sensa malisia, disse che era contenta» e Renaldo l’affida all’anziana zia che vive con loro. Durante il periodo di lontananza il giovane scrive lettere e invia qualche gioiello alla moglie. Un giorno Ginevra si trova alla finestra, quando «Uno giovane chiamato Chimento [Clemente], nato di un artifici [artigiano, artista] di bassa mano [di bassa condizione] vedendo costei sí bianca s’innamorò di lei in tal modo che doppo molti dí si misse sul letto malato». La madre di Chimento è molto preoccupata per lo stato di salute del figlio e gli chiede perché soffra; superata l’iniziale ritrosia, il ragazzo finalmente confessa la sua pena:

MEDIOEVO

giugno

«Madre mia, Ginevra di messer Renaldo mi fa morire». La mattina seguente, la madre di Chimento si reca alla chiesa di S. Reparata, dove a volte ha visto Ginevra, la incontra con la zia e chiede loro se hanno notizie di Renaldo: «Ogni dí e sta molto bene».

Una scelta tormentata

Quando la zia si allontana per le preghiere, la madre di Chimento entra in argomento con Ginevra: «Figliuola, l’anima tua andrà in nel ’nferno per uno che fai morire». La fanciulla appare sgomenta: «Oimé, o chi fo io morire?», l’anziana donna risponde: «Uno mio figliuolo dolcissimo». Ginevra è sbigottita, chiede il motivo di tale sofferenza alla donna: «Perché non le [gli] vuoi donare il tuo amore». Ginevra è sempre piú perplessa: «Giammai nol viddi». La madre di Chimento insiste: «Elli hae ben veduto e dice che tu se’ la piú bella giovana di Firense e se tu volessi che stasera venisse a dormire teco [con te]». Dopo qualche titubanza, pensando a cosa penserebbe il marito lontano «Ginevra, udendo che andare’ in nello ’nferno, per paura disse che era contenta e che la sera venisse per modo che altri non se ne accorgesse». L’accondiscendenza della giovane è mossa dal timore di andare all’inferno, segno della sua immaturità morale, perché è passata dalla stretta tutela dei genitori a quella del marito, ma anche dal desiderio sessuale inappagato di quei mesi.

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La sera Ginevra, pensando che «Chimento la vorrà godere come la godea il marito», entra in camera, si infila l’elmo e l’armatura; poi con la spada sguainata in una mano e il piccolo candelabro nell’altra aspetta il giovane in cima alla scala, come era abituata a fare col marito. Quando Chimento «veduto la sera fatta e l’uscio aperto, subito sagliendo le scale e in un salto alsando li occhi vidde quello armato» si precipita giú dalle scale terrorizzato, scappa a casa tutto tremante, chiede alla madre che gli dia tutti i panni che ci sono e se li mette addosso per placare i brividi di paura. Intanto Ginevra, non capendo i motivi della fuga del giovane, chiude l’uscio di casa, si toglie l’armatura e se ne va a dormire. Dopo essersi riscaldato, Chimento confessa alla madre di aver visto la morte in faccia: «Un uomo con una spada nuda in mano, tutto armato, mi volse dare in sulla te-

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sta. E se non che io mi gittai giú dalla scala, m’are’ fesso fine a’ denti». Il giorno seguente, la donna incontra Ginevra in chiesa, le si siede accanto e le dice: «Or ben veggo che l’anima tua andrà in inferno, ché [perché] vuoi che ’l mio figliolo muoia». La giovane si giustifica dicendo che aveva aspettato Chimento inutilmente e «però prima che io voglia che l’anima mia vada in inferno, diteli che stasera vegna a me». Calato il sole, il giovane va da Ginevra un po’ piú tardi, «sonato la grossa», sperando cosí di non incappare nel cavaliere armato. Dopo il tramonto, l’espressione «sonato la grossa» si riferisce al terzo rintocco della campana piú grande, quando a Firenze come in altre città medievali era vietato uscire di casa fino al giorno successivo. Questa volta va ancora peggio a Chimento: «Montato quazi le scale e alsati li occhi, vidde quello armato e di paura tutta la giugno

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Esiti positivi e negativi dell’iniziazione amorosa di un giovane (particolare), ciclo affrescato da Memmo di Filippuccio sulle pareti della «Camera del Podestà». 1303-1310. San Gimignano, Musei Civici, Palazzo Comunale.

scala cadde e quasi non si fiaccò [ruppe] il collo e uscío fuori e piú cattivo [impaurito] alla madre tornò». La donna è furibonda, non aspetta altro che la mattina per recarsi a casa di Ginevra a cantargliele di santa ragione: è convinta che la ragazza sia a letto con il misterioso cavaliere. Quando invece la trova sola che sbriga le faccende domestiche, le chiede spiegazioni: «Veracemente [Veramente] il vostro figliuolo m’ha voluta motteggiare [si è fatto beffe di me]» per la seconda volta. La madre di Chimento è incredula: «O figliuola mia, chi ci verre’ [chi ci verrebbe] tenendo tu omini armati in casa?». Ginevra scoppia in una risata: «Or ben veggo che elli è giovano, ché in verità in quel modo che io spetto messer Renaldo, aspetto il vostro figliuolo», ma la donna non riesce ancora a capire; Ginevra va in camera, indossa l’armatura e si presenta cosí bardata, con la spada in

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giugno

mano, per mostrarle come fa l’amore con il marito. Finalmente la donna si rende conto della situazione: «Ginevra, messer Renaldo t’inganna», le spiega che le altre donne non indossano la corazza quando fanno l’amore e aggiunge: «Fa un poco a mio senno: stasera quando il mio figliuolo verrà a te, aspettalo in una giubba di seta e quello ti dice farai; e vedrai se io ti dico il vero».

La scoperta del piacere

La sera Chimento si reca da Ginevra che lo aspetta in cima alle scale finalmente senza armatura e «abracciata e basciòla». La giovane sposa «che ancora non avea assagiato la dolcessa del bacio, disse che volea dire. Chimento postola in sul letto e fattala nuda spogliare, lui per fretta li panni si straccia e nudo rimane, in camicia, abracciare [ad abbracciare] Ginevra e piú volte fenno la dansa amorosa». La ragazza «sentendo lo caldo dell’uomo piú che di prima piacendoli, disse: “O messer Renaldo, questo non sapete voi che sa Chimento!”». Gli incontri amorosi proseguono per diversi mesi, fino a quando Renaldo torna a casa da Perugia e «sensa cavarsi gli stivali» dice a Ginevra di «armarsi». Dal dettaglio che Renaldo non si toglie gli stivali appena entrato in casa, si capisce come fosse una consuetudine levarsi le scarpe fangose e indossare degli zoccoli per non sporcare i pavimenti delle abitazioni. Ginevra gli risponde: «Messer Renaldo, armatevi pure voi!». Nonostante le insistenze, Ginevra non vuole indossare l’armatura e il marito le chiede il motivo del rifiuto: «Uno giovane non m’ha voluta armata. E sòvi dire che troppo è piú dolce l’esser nuda in braccio al giovano che armata sotto voi». Renaldo, conoscendo l’ingenuità della moglie, si fa raccontare tutta la storia: «Ingiumai [Ormai] non t’armare piú e sono contento quanto posso di quello hai fatto; e per l’avenire segue pure il modo dell’altre». I due coniugi si spogliano e fanno l’amore, poi Ginevra dice: «Or non vel dissi io bene che piú dolce è nuda che armata?», Renaldo annuisce: è consapevole che Ginevra lo ha tradito a causa sua e da allora faranno l’amore sempre cosí. La brigata apprezza molto questa novella esemplare di Sercambi, perché Ginevra rende «pan per focaccia» a Renaldo; le donne del gruppo si consolano: la semplicità di Ginevra è anche la loro. In realtà, la corazza assume il significato simbolico di obbedienza della donna nei confronti dell’uomo; il rifiuto di Ginevra d’indossarla riequilibra il rapporto in funzione paritaria. Il maggior piacere reciproco senza l’utilizzo dell’armatura fa capire come il sesso matrimoniale nel Medioevo non fosse un dovere finalizzato alla procreazione come stabilito dalla Chiesa ma anzi un piacere condiviso anche dalla donna. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Saggezza femminile

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storie università di napoli

Quando

Federico

spalancò la porta del

sapere «A A

di Fulvio Delle Donne

Sono passati ottocento anni da quando lo Stupor mundi fondò una università «statale» nella città di Napoli. Un provvedimento di eccezionale rilevanza, perché, per la prima volta, veniva sancito il principio secondo il quale è lo studio a rendere nobili. E l’imperatore in persona scrisse a tutti i giovani del regno perché si dedicassero senza indugi alla propria formazione 52

d scientiarum haustum et seminarium doctrinarum» («Alla fonte delle scienze e al vivaio dei saperi»): è questo il motto che chiunque può leggere entrando nell’Università di Napoli. Parole tratte dalla lettera circolare (generales litterae) con cui, esattamente otto secoli fa, Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore, istituí la prima università «statale» della storia. Le poche precedenti università (o Studi, come si chiamavano piú comunemente) si erano costituite come aggregazioni o corporazioni spontanee di studenti (universitas scholarium) o di maestri (universitas magistrorum): connesse con le scuole delle cattedrali, dipendevano dalla protezione vescovile. A Napoli, invece, viene creata dal nulla da un re, cioè dal detentore e rappresentante del potere «pubgiugno

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Particolare della facciata del Palazzo dell’Università degli Studi di Napoli Federico II: sotto il frontone corre il motto tratto dalla lettera scritta dall’imperatore agli studenti nel 1224.

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storie università di napoli

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Sulle due pagine miniatura di scuola bolognese raffigurante Aristotele che tiene una conferenza agli studenti, da un codice del Liber Ethicorum di Henricus de Alemannia. Seconda metà del XIV sec. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett. A destra la pagina del manoscritto della Chronica di Riccardo di San Germano nella quale è riportato il passo della lettera di Federico II agli studenti contenente l’indicazione «mense iulii». Bologna, Archiginnasio.

blico» e «laico», da uno degli uomini di governo piú potenti della terra. È concepita come il fulcro di un articolato sistema amministrativo di tipo statale: costituisce un dirompente atto di indirizzo, al contempo ideologico e culturale. L’Università di Napoli nasce e rimane per secoli emanazione diretta di un sovrano: questo è l’elemento critico implicitamente connesso con il suo statuto iniziale. A lungo i rettori coincidono con i cancellieri del regno; eletti e stipendiati dal re sono i «lettori» (cioè i professori) ordinari, incaricati di tenere i corsi principali; le lauree sono conferite esclusivamente con diploma regio. Insomma, i professori sono sudditi del re, al quale devono giurare fedeltà; il rettore è un «familiare» (cioè consigliere) del re; gli studenti godono dei diritti (non minori che altrove) graziosamente concessi loro. La peculiarità, l’elemento distintivo è, dunque, tutto qua: nella mancanza esplicita di autogoverno. Ma questo – come pure talvolta si è affermato – non è certamente un «vizio» d’origine: non ne esistono nella storia.

Giugno o luglio?

La data di nascita dell’ateneo napoletano è un piccolo giallo. Era il 1224, su questo non c’è dubbio. Ed è una cosa non scontata: sono davvero pochissime le università

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altrettanto antiche che possono vantare una data di istituzione certa e non ricostruita in maniera piú o meno fantasiosa. Anche il giorno è sicuro: il 5. Qualche dubbio, invece, c’è sul mese, giugno o luglio: un tocco di giallo rende piú intrigante ogni storia. Non possediamo un vero e proprio diploma di fondazione: ciò che lo spietato filtro della storia ci ha lasciato è solo la lettera circolare con la quale Federico invita tutti gli studenti a venire a Napoli entro il 29 settembre (festa di san Michele), data canonica per l’inizio dell’anno accademico (dal XVII secolo, invece, sarà il 18 ottobre, festa di san Luca evangelista; vedi box a p. 59). Quella lettera ha una tradizione testuale complicata: attribuita solitamente a Pier della Vigna, è innanzitutto trasmessa, senza datazione, dalla diffusissima collezione delle epistole di colui che tenne «ambo le chiavi del cor di Federigo» (per dirla con Dante, Inferno, XIII). Ma la riporta anche una cronaca, quella del contemporaneo Riccardo di San Germano, notaio del regno di Federico, che fornisce sí la data, ma in maniera equivoca. Nella versione maggiore della sua cronaca, trasmessa da un manoscritto di Bologna (Archiginnasio, A 144, foll. 134v-135v), introduce il

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storie università di napoli

documento con queste parole (fol. 134v): «Nel mese di luglio (mense iulii) l’imperatore nostro signore invia una lettera generale al Regno (generales per Regnum licteras)». Nel foglio successivo, però, dopo averlo trascritto, inserisce questa data: «Siracusie, V iunii, XII indictionis», cioè «Siracusa, 5 giugno [1224], XII indizione [l’indizione è un ciclo di 15 anni imposto dall’imperatore Costantino a partire dal 313 d.C.]». La confusione tra iunii (giugno) e iulii (luglio) è certamente un banale errore di copia facilmente spiegabile. Ma qual è il mese corretto? Nella cronaca, la notizia sull’università è inserita dopo un’altra relativa al 29 giugno: la sequenza cronologica, dunque, lascerebbe pensare al 5 luglio. Tuttavia, dal punto di vista amministrativo, un termine di circa quattro mesi (dal 5 giugno al 29 settembre) è coerente con quello previsto per altri docu-

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menti simili. Insomma, il problema è aperto, ma una soluzione ci sarebbe: perché non festeggiare la speciale ricorrenza per un mese intero, dal 5 giugno al 5 luglio? È un genetliaco imperiale, dopo tutto…

Come sarà la nuova Università di Napoli verso il Corso Umberto I, a compimento totale dei lavori or ora cominciati, tavola dell’architetto Pietro Paolo Quaglia pubblicata da L’illustrazione popolare, Fratelli Treves Editori, Milano, 1898.

Un invito straordinario

Ma non offriva alcuna garanzia effettiva. Il nipote Federico II, invece, insiste sulla sicurezza e sulla comodità. E questo è solo l’inizio. Mentre altrove erano gli studenti a pagare i maestri, a Napoli i professori piú illustri sarebbero stati stipendiati direttamente dall’imperatore; gli studenti, poi, solitamente sottoposti a vessazioni di ogni tipo, a Napoli sarebbero stati protetti e tutelati, tanto che quelli meritevoli avrebbero potuto godere di prestiti d’onore o, se vogliamo, di borse di studio; e sarebbero stati messi a loro disposizione gli alloggi migliori a prezzi (segue a p. 61)

Nella lettera con cui li invita a venire a Napoli, Federico prospetta agli studenti il vantaggio di non allontanarsi da casa, evitando le insidie di viaggi lunghi e insicuri, durante i quali si rischia sempre di perdere gli averi e finanche la vita. Non è cosa da poco. Circa settant’anni prima (nel 1155) il nonno, Federico I, il Barbarossa, nella sua costituzione Habita (con la quale riconosceva alcuni diritti agli studenti di Bologna), si limitava solo a lodare l’abnegazione di quanti si facevano esuli e poveri «per amore della scienza», esponendo la propria vita a pericoli di ogni genere.

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La lettera di fondazione dell’Università di Napoli in un manoscritto che contiene il cosiddetto epistolario di Pier della Vigna. Roma, Biblioteca Vallicelliana.

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La lettera agli studenti

Siate felici e pronti a imparare Ecco il testo della lettera con cui Federico II invitò gli studenti a Napoli per il 29 settembre 1224: «Col favore di Dio, grazie al quale viviamo e regniamo, cui offriamo ogni nostro atto, cui dedichiamo ogni nostra azione, desideriamo che in ogni parte del nostro Regno molti divengano savi e accorti attingendo alla fonte delle scienze e al vivaio di saperi (...) Disponiamo perciò che nell’amenissima città di Napoli siano insegnate tutte le arti e siano coltivati tutti gli studi, cosí che i digiuni e gli affamati di sapere trovino nel nostro Regno di che soddisfare i propri desideri e non siano costretti, per cercare la conoscenza, a peregrinare e a mendicare in terra straniera. Intendiamo provvedere al bene di questo nostro Stato mentre, con la grazia del nostro speciale affetto, curiamo i vantaggi dei sudditi, i quali, come si conviene, divenendo edotti, possano essere animati anche da una magnifica speranza e attendere con prontezza grandi vantaggi. Infatti, non può essere sterile l’acquisizione della bontà, cui fa seguito la nobiltà, cui sono aperti gli uffici dell’amministrazione, cui tengono dietro le ricchezze, cui si accompagnano il favore e la grazia dell’amicizia. Inoltre,

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Restituzione grafica del sigillo utilizzato da Federico II negli anni della fondazione dell’Università di Napoli e, in basso, il logo dell’ateneo che ne è stato ricavato. Nella pagina accanto la statua di Federico II nella facciata del Palazzo Reale di Napoli.

concedendogli grandi meriti e lodi, invitiamo al nostro servizio chiunque desidera studiare e senza dubbio gli affideremo il governo della giustizia, una volta divenuto abile nell’assiduo studio del diritto. Siano dunque felici e pronti a ricevere insegnamenti gli studenti che li desiderano (...) Lasciandoli sotto lo sguardo dei genitori, li liberiamo da molte fatiche, li sciogliamo dalla necessità di compiere lunghi viaggi, che somigliano a pellegrinaggi, li proteggiamo dalle insidie dei briganti. Chi, mentre percorreva lunghi tragitti, finora veniva spogliato dei beni e delle ricchezze, ora gioisca, perché, grazie alla nostra liberalità, potrà studiare con minori spese e fatica, facendo meno strada (...) Vogliamo e ordiniamo che nessuno studente si arrischi a varcare i confini del Regno, né osi apprendere o insegnare in altro luogo che non sia Napoli. Chi studia all’estero torni entro la prossima festa di san Michele. Le condizioni che offriamo sono queste. In primo luogo, a Napoli ci saranno dottori e maestri in ogni

facoltà. Gli studenti (...) siano sicuri di soggiornare (...) I migliori alloggi della città saranno dati in affitto agli scolari per una somma non superiore a quella stabilita sulla base di una stima fatta da due cittadini e due studenti. Gli studenti, in funzione delle loro necessità, riceveranno prestiti, offrendo in pegno i loro stessi libri, che saranno subito restituiti, fin quando serviranno, su garanzia degli altri studenti (...) Nelle cause civili tutti dovranno comparire solo dinanzi ai loro maestri e professori. Per il grano, il vino, la carne, il pesce e gli altri alimenti di cui necessitano gli studenti, non stabiliamo alcuna norma, dal momento che la provincia ha abbondanza di tutto, e tutto sarà venduto alle stesse condizioni previste per gli altri residenti. Invitandovi, dunque, a cosí grande e lodevole opera e impegno di studio, vi promettiamo di rispettare le condizioni proposte, di onorare le vostre persone e di pretendere universalmente che da tutti siate onorati. (traduzione di Fulvio Delle Donne)

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storie università di napoli La vera nobiltà non è quella che discende dall’eredità e dal sangue, ma è quella dello spirito

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Miniatura raffigurante una lezione universitaria, da un manoscritto della Novela super Sexto di Jean André. XIV sec. Cambrai, Bibliothèque municipale.

Da leggere La porta del sapere è uno degli ultimi libri di Fulvio Delle Donne, professore ordinario, medievista tra i massimi specialisti dell’imperatore svevo. Nel volume si parla con completezza dello straordinario rinnovamento ideologico e culturale di cui fu artefice Federico II di Svevia. La sua corte fu polo attrattivo di tradizioni culturali multiformi e centro propulsore di innovazioni letterarie e scientifiche. L’università da lui fondata a Napoli nel 1224 offre, per la prima volta nella storia, una dirompente rappresentazione dello studio: è una principesca scalinata che conduce al sapere, unica porta di accesso alla vera nobiltà. Fulvio Delle Donne, La porta del sapere. Cultura alla corte di Federico II di Svevia, Carocci editore, Roma ISBN 978-88-430-9502-5; www.carocci.it

calmierati. Sul cibo non c’era bisogno di soffermarsi, perché il clima della città lo rendeva economico e abbondante. E non è finita qui. Per la prima volta nella storia Federico II dichiara in maniera ufficiale un principio che a noi ora può sembrare scontato, ma che all’epoca non lo era affatto: è grazie allo studio che si può acquisire la nobiltà. La vera nobiltà non è quella che discende dall’eredità e dal sangue, ma è quella dello spirito. Solo grazie allo studio si può ascendere a una classe sociale superiore e si può ambire a una professione appagante. È un principio enunciato otto secoli fa, ma sorprendentemente attuale!

Formare i funzionari

Lo Studio di Napoli serví certamente a fornire personale amministrativo esperto di diritto e fidato, formato nel regno, non a Bologna, dove sarebbe stato piegato alle rivendicazioni comunali e pontificie. Del resto, fu esplicito e costantemente ribadito il divieto per i sudditi di andare a studiare all’estero; contemporaneamente furono interdette tutte le restanti simili istituzioni del territorio. Insomma, lo Studio serví a innervare gli apparati dello Stato con funzionari

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preparati. Ma anche gratificati con la promessa di premi: innanzitutto quello della nobiltà, che non rimane solo sul piano astratto e ideale. «Non può essere sterile l’acquisizione della virtú, cui fa seguito la nobiltà, cui tengono dietro le ricchezze», afferma Federico a chiare lettere. La nobiltà, la vera nobiltà è, cosí, per la prima volta connessa esplicitamente con la conoscenza. Si tratta di una rivoluzione copernicana! È solo su questa base che, mezzo secolo dopo, Guido Guinizelli, nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, può arrivare a equiparare al fango la nobiltà di sangue, al sole la nobiltà d’animo. Siamo di fronte a una trasformazione straordinaria nel modo di pensare. Ora sembra un concetto scontato, ma all’epoca non lo era affatto. All’origine di questa paradigmatica mutazione culturale si colloca proprio la fondazione dell’Università di Napoli, destinata a permanere nei secoli come il prodotto piú duraturo del genio di Federico II. Nata per formare funzionari competenti e perfettamente istruiti, aprí a tutti la «porta del sapere», la porta che conduce alla vera, autentica nobiltà. Quella che si acquisisce con lo studio e con l’applicazione.

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È pura eresia!

a cura di Stefano Mammini

a cura della Redazione

Fra loro si chiamavano, semplicemente, «buoni uomini» e «buone donne», ma la storia li ricorda come «catari», un termine mutuato dal greco e poi dal latino medievale, con il significato di «puro». Professavano un rigoroso dualismo e ponevano all’origine dell’universo il conflitto tra Dio e Satana, tra spirito e materia. Per loro, la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la separazione dell’anima dal corpo. Ce n’era dunque abbastanza perché la Chiesa li bollasse come eretici, arrivando perfino a bandire, nel 1208, una crociata contro la piú attiva delle loro comunità, quella degli Albigesi. Una vicenda a tinte fosche, rievocata da una mostra allestita a Tolosa, città che fu epicentro del fenomeno L’agitatore della Linguadoca, olio su tela di Jean-Paul Laurens. 1887. Tolosa, Musée des Augustins. L’opera fa parte di una serie di dipinti dedicati a Bernard Délicieux, un francescano nato a Montpellier nel 1260, che si pose alla testa di un movimento di contestazione contro gli inquisitori e i loro sostenitori durante la repressione dell’eresia catara e fu per questo dichiarato nemico e condannato al carcere a vita. Nella Francia dell’Ottocento la sua vicenda venne evocata nel corso dello scontro tra attivisti del secolarismo e difensori del partito clericale.

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ià capitale del regno d’Aquitania, Tolosa fu retta dall’849 da una dinastia che ebbe come capostipiti Fredelone e poi suo fratello Raimondo I e che rimase al potere per poco piú di quattro secoli. A segnarne il declino fu la scelta del conte Raimondo VI (in carica dal 1194 al 1222) di schierarsi al fianco degli Albigesi, i sostenitori di un movimento religioso che ebbe notevole diffusione nella Francia centrale e meridionale e di cui la città di Albi fu una delle culle principali, circostanza che ne spiega la denominazione. Contro di loro, sostenitori di un rigoroso dualismo, papa Innocenzo III lanciò dapprima una campagna di predicazione, per poi bandire, nel 1208, una vera e propria crociata. Un’iniziativa che dunque coinvolse anche Tolosa, al centro di lotte convulse, assediata e presa da Simone di Montfort. A distanza di otto secoli, la città francese – oggi capoluogo del dipartimento dell’Alta Garonna e della regione dei Midi-Pyrénées – rievoca quei fatti con un’eposizione allestita negli spazi del Musée Saint-Raymond e del Convento dei Giacobini. Una mostra che, oltre a documentare i principali avvenimenti e ricostruire i profili dei loro protagonisti, è l’occasione per illustrare le caratteristiche del movimento albigese, che si inserisce nel piú vasto ambito del catarismo.

Essere «cari a Dio»

L’opinione comunemente condivisa è che quest’ultimo fosse giunto in Occidente grazie ai bogomili (termine derivante dall’antico bulgaro bogumil, cioè «caro a Dio»), una setta presente in Tracia e in Bulgaria fin dal X secolo. Tra l’XI e il XIII secolo attecchí in Europa, trovando un terreno di coltura nei fermenti sociali e religiosi che accompagnarono l’ascesa delle nuove classi urbane: dapprima a Colonia e in Renania, poi nella Francia settentrionale (Borgogna e Champagne), nelle Fiandre e nella Francia meridionale, quindi in Dalmazia e in Italia settentrionale, dove i catari furono detti patarini perché ritenuti continuatori della pataría milanese. Nel 1167 gli eretici provenzali e italiani tennero un vero e proprio concilio a Saint-Félix-deCaraman, presso Tolosa, in cui si posero le basi per la Chiesa catara, organizzata in vescovati e diocesi. Come i manichei, i catari, cioè i puri (dal greco katharòs e poi dal latino medievale catharus), ponevano all’origine dell’universo due princípi antitetici: Dio e Satana, spirito e materia e, di conseguenza, la salvezza

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dell’uomo era possibile solo a patto della separazione dell’anima dal corpo. La svalutazione del mondo materiale li portò, fra l’altro, alla negazione della validità dei sacramenti, a cui i catari contrapponevano l’unico rito iniziatico spirituale del consolamentum (imposizione delle mani e dei Vangeli e tradizione del Pater noster), al quale talvolta faceva seguito la prassi dell’endura (morte volontaria per fame o per mano dei familiari di chi aveva ricevuto il consolamentum). Si fecero altresí fautori di un ascetismo severo, che comportava l’astensione dal matrimonio e dai cibi carnei e la rigorosa separazione dalla sfera mondana, con il disprezzo per la potenza e le ricchezze, il rifiuto di prestare giuramento o usare la violenza. Una simile visione del mondo non poteva non entrare in rotta di collisione con la strada imboccata dalle autorità ecclesiastiche del tempo. Tra l’XI e il XIII secolo, infatti, i papi avevano promosso una serie di riforme volte a unificare la Chiesa cattolica: iniziative volte a controllare l’intera società cristiana, a uniformare le regole del culto, ma anche a rafforzare la disciplina e la moralità del clero. Una riorganizzazione di ampio respiro, attraverso la quale si voleva giugno

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Simone di Montfort, olio su tela di François Louis Dejuinne. 1834. Muret (Alta Garonna), Musée Clément Ader. Il dipinto propone il ritratto, immaginario, di uno dei protagonisti principali della crociata contro gli Albigesi. Nella pagina accanto sigillo di Raimondo VI, conte di Tolosa. 1204. Parigi, Archives nationales de France. Il nobiluomo è in sella al suo cavallo, al galoppo, con la lancia in resta.

garantire l’indipendenza della Chiesa rispetto ai laici che intendono partecipare agli affari religiosi e, quindi, qualsiasi comunità che fosse sfuggita al controllo dell’autorità ecclesiastica avrebbe inevitabilmente suscitato pesanti sospetti. Quasi paradossalmente, si potrebbe affermare che anche la repressione fu figlia di questa ventata riformatrice. Sulla scia del rinnovamento della vita religio-

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sa, fiorirono infatti numerose esperienze spirituali, che condividevano gli ideali propugnati dalla Chiesa, ma, in piú di un caso, predicavano una morale evangelica rigorosa, chiedendo al clero di adottare un comportamento esemplare. Istanze che le gerarchie ecclesiastiche lessero come minacce e alle quali reagirono con il tentativo di eliminare queste voci dissidenti con tutti i mezzi possibili e moltiplicando le accuse di eresia in

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mostre catari A sinistra fermaglio in rame e smalto champlevé decorato con una Visitazione. XIV sec. Tolosa, Musée des Arts précieux PaulDupuy. L’accessorio era destinato a chiudere i lembi di un piviale. A destra la cosiddetta «Pietra dell’assedio». Primo terzo del XIII sec. Carcassonne, basilica dei Ss. Nazario e Celso. La scena raffigura il tentativo di assaltare una città fortificata ed è stata da alcuni interpretata come la rappresentazione dell’assedio di Tolosa da parte di Simone di Montfort nel 1218.

A destra reliquiario in rame e smalti di sant’Esuperio, che, agli inizi del V sec., fu vescovo di Tolosa. XIII sec. Tolosa, Musée des Arts PrécieuxPaul Dupuy.

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e la Chiesa cattolica locale: coloro che dichiaravano di frequentarli continuavano a recarsi regolarmente anche in chiesa, non smisero di fare donazioni e fra di loro vi furono membri del clero cattolico. A bollare come eretiche le comunità albigesi furono dunque i promotori della riforma e dell’unità della Chiesa, Cluniacensi, Cistercensi e funzionari pontifici. Del resto, gli eretici contro i quali si scagliavano le gerarchie ecclesiastiche del Medioevo non erano diversi da quelli condannati dai Padri della Chiesa durante la tarda antichità. I chierici eruditi dei secoli XII e XIII copiarono quindi i primi trattati anti-eretici per confutare i dissidenti del loro tempo. Nel farlo, proiettarono sui catari dell’Occitania un discorso slegato dalla realtà: come i devianti della tarda antichità tardiva, essi avrebbero dato vita a una vera e propria contro-Chiesa, che aveva In basso pagina di un manoscritto del Nuovo Testamento tradotto in lingua occitana e seguito dal Rituale cataro di Lione. Lione, Bibliothèque municipale. Si tratta di un documento di eccezionale importanza, poiché le 14 pagine finali riportano elementi delle predicazioni, regole di comportamento e, soprattutto, prescrizioni rituali destinate agli «uomini buoni», cioè a coloro che detenevano l’autorità in seno alle comunità considerate eretiche dalla Chiesa. È peraltro significativo rilevare come il termine «cataro» non compaia mai all’interno del testo.

tutto l’Occidente. E poiché nel Midi francese, le resistenze alla riforma della Chiesa furono piú forti che altrove, questi territori furono messi sotto stretta osservazione da parte dei funzionari papali. Salito al soglio pontificio nel 1198, Lotario dei conti di Segni, che assunse il nome di Innocenzo III, impresse un’accelerazione decisiva all’attività repressiva nei confronti dei movimenti eretici, facendosi promotore di una legge che assimilava il crimine di eresia a quello di lesa maestà e rendeva passibili della pena di morte gli eretici e i loro protettori. Come già ricordato, una decina d’anni piú tardi, lo stesso Innocenzo bandí la crociata contro gli Albigesi, ma, fino a quel momento, quale atmosfera si era respirata nelle regioni francesi maggiormente interessate dal fenomeno cataro?

Una convivenza pacifica

Prima della data fatidica del 1209, i «bons hommes» («buoni uomini») e le «bonnes femmes» («buone donne») dell’Occitania (come si chiamavano tra loro) non si consideravano eretici, e non erano nemmeno percepiti come tali dalla popolazione. Erano anzi ritenuti cristiani esemplari, che vivevano la loro fede senza nascondersi e organizzandosi in comunità nelle loro case. Tanto da suscitare approvazione e rispetto per la semplicità del loro stile di vita. Né sembra esistesse un confine netto tra il mondo dei bons hommes

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mostre catari Mattone con l’immagine di un salmone. XIII sec. Tolosa, Musée Saint-Raymond. Pesce migratore che frequenta le acque della Garonna, il salmone era una prelibatezza e veniva consumato fresco sulle tavole dei signori. In basso la lastra tombale di Bernard At de Gardouch. Inizi del XIV sec. Tolosa, Musée des Augustins.

I catari propugnavano l’astensione dal matrimonio e dai cibi carnei, nonché la rigorosa separazione dalla sfera mondana

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le sue origini in Oriente. Al pari dei manichei denunciati da sant’Agostino, i catari venivano dunque visti come sostenitori di una dottrina dualista. In realtà, come è stato ormai ampiamente dimostrato, le persone accusate di eresia in Occitania non erano adepti di un’antica religione proveniente dall’Oriente, ma erano cristiani. Fu quindi la Chiesa cattolica medievale a inventare la minaccia di una vasta contro-Chiesa dualista. Cosí, denunciando il pericolo di un’eresia che andava saldamente radicandosi, il papa e i Cistercensi poterono accusare i vescovi del Midi di lassismo e quindi sostituirli, attuando un disegno che mirava ad acquisire il controllo delle diocesi, che per Innocenzo III era una questione di primaria importanza.

Documenti preziosi e reperti inediti

In alto frammento del sepolcro di Filippo III di Francia. 1344. Narbona, Tesoro della cattedrale dei Ss. Giusto e Pastore. A destra testa del gisant (figura giacente) di Giovanna di Tolosa, figlia del conte di Tolosa Raimondo VII. Dopo il 1271-intorno al 1285? Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

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Tutti questi temi vengono ampiamente sviluppati nei percorsi espositivi delle due sedi della mostra, per la cui realizzazione sono stati selezionati oltre 300 oggetti, che vanno dai documenti d’archivio – fra i quali spiccano importanti prestiti concessi dalla Bibliothèque nationale de France e dagli Archives nationales – a numerosi reperti archeologici mai esposti prima d’ora, da opere di scultura e pittura a un ricco repertorio di ricostruzioni di costumi e armi del tempo. Materiali illustrati da un apparato esplicativo che comprende anche numerose installazioni multimediali. Grande risalto viene dato, com’è logico, all’episodio-chiave dell’intera vicena, ovvero alla crociata contro gli Albigesi, che, come viene spiegato, potrebbe in realtà aver costituito il culmine di un conflitto di matrice politica e di piú antica data. A partire dal XII secolo, infatti, i principi e i signori del Midi avevano cominciato ad accusarsi regolarmente e reciprocamente di eresia. Nel 1145, il conte di Tolosa si scagliò contro il suo rivale, il visconte di Trencavel, spingendo il cistercense Bernardo di Chiaravalle a lanciare una campagna di predicazione nella città di Albi. Un ventennio piú tardi, nel 1163, si svolse un concilio a Tours, i cui dibattimenti furono dominati da un rivale del conte di Tolosa, Enrico II Plantageneto (re d’Inghilterra e duca d’Aquitania), e, nell’occasione, la città sulla Garonna venne indicata come infestata dall’eresia. Nuovi attriti si ebbero nel 1177, quando il

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mostre catari A destra cartulario della città di Tolosa. 1205. Tolosa, Archives municipales. Nel febbraio 1205, il notaio Guilhem Bernard cominciò a copiare in due registri settantuno privilegi e altre franchigie concessi, tra il 1120 e il 1204, in favore della città e dei suoi abitanti. Nel capolettera miniato «I» (In nomine Domini), compaiono tre uomini entro medaglioni: dall’alto, il conte di Tolosa, Alfons Jourdain, il primo principe ad aver concesso privilegi alla città; il suo rappresentante, incaricato di far rispettare la giustizia, come indica la spada che tiene nella mano destra; in basso, un personaggio che commenta la legge riportata in un registro aperto e che può essere identificato come un rappresentante del collegio consolare della città. In basso crocifisso in legno policromo detto «di san Domenico». Prima metà del XIV sec. Tolosa, basilica di S. Saturnino.

conte di Tolosa sostenne che l’artefice primo delle difficoltà incontrate dalla città era il visconte di Trencavel e si appellò direttamente al re di Francia affinché intervenisse contro gli «eretici». Sul finire del secolo i figli dei contendenti giunsero a una tregua, ma la cessazione delle ostilità non risolse la questione dell’eresia e le mire del neoeletto papa Innocenzo III sul Midi furono la fonte di nuovi contrasti.

Parole di fuoco

Una situazione esplosiva che finí con il deflagrare all’indomani della quarta crociata. La spedizione, lo ricordiamo, si era conclusa nel 1204 con un sostanziale fallimento: bandita dallo stesso Innocenzo III con l’obiettivo di riconquistare Gerusalemme, la missione si era invece risolta negli assedi e nei saccheggi di Zara e Costantinopoli. Cosicché, nel 1208, memore di quello smacco, Innocenzo lanciò il suo appello con particolare veemenza, chiamando per la prima volta i crucesignati a mobilitarsi in territorio cristiano: «Avanti, cavalieri di Cristo! Avanti, valorose reclute dell’esercito cristiano! (...) Applicatevi a distruggere l’eresia con tutti i mezzi che Dio vi ispirerà (...) Per quanto riguarda il conte di Tolosa (...), cacciatelo, lui e i suoi complici (...). Spogliateli delle loro terre, in modo che abitanti cattolici siano sostituiti agli eretici eliminati...». E cosí fu. Nel 1209 furono prese Béziers e Carcassonne, mentre nel 1211 fu Tolosa a subire il primo assedio. Lo scontro campale decisivo si consumò il 12 settembre 1213, a Muret, e, nonostante l’inferiorità numerica, si concluse con la vittoria dei crociati guidati da Simone di Montfort che apparve a tutti come l’eletto di Dio e che, nel biennio

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Dove e quando «Catari». Tolosa alla crociata Tolosa, Musée Saint-Raymond e Couvent des Jacobins fino al 5 gennaio 2025 Info saintraymond.toulouse.fr; jacobins.toulouse.fr successivo (1214-1216), divenne conte di Tolosa. Tra il 1217 e il 1218 la città fu assediata per la seconda volta e i combattimenti, durante i quali Simone di Montfort viene mortalmente ferito, procedono a fasi alterne, fino a che il figlio primogenito di Simone, Amalrico VI, non rinunciò all’impresa. Un terzo assedio venne portato nell’estate del 1219, ma ancora una volta non fu risolutivo e, negli anni successivi, si continuò a combattere. Finalmente nel 1228, il trattato di Meaux-Paris sancí la fine della crociata: molti signori occitani preferirono sottomettersi al re di Francia e vent’anni di guerra avevano esasperato la popolazione, inducendo il conte di Tolosa ad aprire trattative di pace. Tacquero le armi e fu cosí messa a tacere la voce dei catari. F giugno

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testi di Luigi De Anna, Maria Cristina Lombardi e Nicoletta Onesti Francovich

ISLANDA

Nella terra del fuoco e del ghiaccio Isola dai violenti contrasti, dove lava e gelo lambiscono le coste del mare, l’Islanda rimase a lungo pressoché sconosciuta nel resto d’Europa. Fino a quando all’orizzonte non comparvero, minacciose, lunghe navi, con le prue a forma di drago...

Particolare della statua dell’esploratore islandese Leifr Eriksson (970 circa-1020 circa), posta di fronte alla chiesa di Hallgrímskirkja, a Reykjavik. Il monumento è stato donato nel 1930 dagli Stati Uniti d’America all’Islanda, per la celebrazione del millenario dell’Althing, il primo parlamento del Paese, fondato nel 930 a Thingvellir (il «luogo dell’assemblea»). Sullo sfondo il vulcano islandese Hekla in eruzione. Secondo un’antica tradizione, nel monte era situata la porta per l’inferno.


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nche l’Europa ha le sue scoperte. Ci sono regioni nel nostro Continente che per molti secoli sono rimaste ignote alla cultura coeva. Troppo lontane per essere avvistate dai marinai o per essere conquistate dagli eserciti, ma anche troppo vicine per suscitare, piú tardi, il fascino esercitato dai Mondi Nuovi. Sono le regioni settentrionali del nostro Continente, la Siberia, la Lapponia, una parte della Fennoscandia, le isole del Nord Atlantico. E, tra queste, la piú grande e la piú affascinante: l’Islanda. Terra sconosciuta, tanto da identificarsi spesso con la misteriosa Thule, terra dai violenti contrasti, dove il fuoco dei vulcani arde tra i ghiacci eterni. Dove lava e lingue di ghiaccio lambiscono le coste del mare. Centocinquanta vulcani, di cui trenta attivi in epoca storica, capaci di far nascere dalle viscere dell’Oceano nuove isole, come accadde negli anni Sessanta del Novecento quando in superficie apparve l’isola di Surtseyn, diedero all’«isola dei ghiacci» la fama di essere una delle porte dell’inferno, tanto che qui Jules Verne fece

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iniziare ai suoi eroi la loro discesa verso il centro della Terra. Eppure, il clima marittimo, piú mite che in altre terre collocate alla medesima latitudine (l’Islanda è toccata dal Circolo Polare Artico), permette non solo l’agricoltura, ma anche una vita tutto sommato non piú difficile di quella che si ha sotto climi piú meridionali, per lo meno nella fascia costiera, l’unica parte del Paese a essere abitata.

I primi coloni

Qui si stabilirono, nel Medioevo, i primi coloni, arrivati nell’isola con il norvegese Ingólfr Arnarson nell’874. Qui dal 930 si riuní quello che viene considerato il primo parlamento d’Europa, l’Allting e qui, nell’anno Mille, il cristianesimo conseguí una delle sue piú importanti vittorie sugli ultimi pagani d’Europa. L’avvento del cristianesimo, se da una parte segnò la fine del periodo vichingo, dall’altra inserí l’Islanda nella koiné cristiana, facendone una terra che era ormai parte della ecclesia, in sostanza del mondo cosiddetto civile. Nel XIII secolo non solo vi venivano costruite chiese

che nulla avevano da invidiare al resto dell’Europa settentrionale, ma vi erano raccolte le saghe che hanno reso famosa questa terra di duri guerrieri e di appassionati poeti. Il Duecento è però anche il secolo della decadenza politica e della fine dell’indipendenza. Prima la Norvegia e poi la Danimarca, imporranno il proprio governo a un popolo ormai non piú di pirati e avventurieri, ma di contadini e di allevatori. Nel 1602 i Danesi decretarono il monopolio dei traffici marittimi. L’Islanda, ancora una volta, tornava a essere «terra incognita». Ma quando era stata scoperta? È difficile stabilirlo con sicurezza. Molti hanno voluto riconoscerla in Thule, la mitica terra citata da autori greci e latini. Questa identificazione non può però essere affermata con sicurezza, essendo Thule non solo un luogo geografico, ma anche un concetto della geografia, un luogo della mente del viaggiatore, un qualcosa che esiste ma che si sposta col progredire della conoscenza geografica. Un mistero che si vuole svelare ma che dispiace sia rivelato, perché i misteri ben si adattano

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In alto l’Islanda in una carta pubblicata nell’atlante Theatrum Orbis Terrarum, composto da Abraham Ortelius e stampato il 20 maggio del 1570, ad Anversa. Sulle due pagine una spettacolare aurora boreale su una laguna glaciale islandese.

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ai grandi oceani dall’estensione Stretto di Danimarca Mare di Norvegia incommensurata e incommensuRaufarhöfn rabile per l’uomo dell’Antichità e Bolungavik del Medioevo. «Islanda» è invece Ísafjördur Sigl gluufjöördur rdu dur urr Siglufjördur Ólafsfjördur nome relativamente moderno, co- Sudhureyri Súdhavik Húsavik niato dagli Scandinavi, l’isola del Höfdhakaupstadur Dalvik Thingeyri Vopnafjördur Hólmavik ghiaccio, nome che ne indica la Saudhárkrókur Blönduós Vatneyri peculiarità in un mondo che pur Akureyri tsa Ho Hvammstangi sempre i ghiacci li conosceva bene. Seydisfjördur Un nome che non dovette agevolaNeskaupstadur re la colonizzazione programmata Stykkishólmur t Eskifjördur Hellissandur Eiríksstadhir fljo ar da Arnarson, tanto che i suoi sucag L Ólafsvik cessori, quando si spinsero oltre Hofsjökull Djúpivogur Borgarnes l’Islanda, chiamarono la nuova Langjokull terra che incontrarono «l’isola veri vis Akranes Vatnajökull ak Thingvellir de, Grönland», nella speranza di ald Reykholt Höfn K Reykjavik attrarvi altri coloni, o forse perché Hekla Hafnarfjördur ingannati dal colore dei ghiacci che N Selfoss Hella Grindavik vi vanno alla deriva. Stokkseyri Hvolsvollur 0 50 Km Myrdals Numerose leggende si racconEyjafjallajökull Jökull tano sull’inventio Islandae, e molti Vik Oceano Atlantico ritengono che il primo a intraveVestmannaeyjar derla sia stato Pitea il Marsigliese che, verso la metà del IV secolo l’autenticità, si parla però di una lomeo, nel II secolo d.C., menzioa.C., intraprese una coraggiosa Thule abitata da un popolo. na un’isola realmente esistente del esplorazione del Nord Atlantico. Poiché non abbiamo notizia di Nord Atlantico, dove il giorno estiNegata dagli storici e dai geografi una colonizzazione islandese tan- vo e la notte invernale raggiungogreci e latini, oggi sappiamo che to antica, seppur eventualmente no la lunghezza di venti ore. Chi ne la sua spedizione ebbe veramente scomparsa, dobbiamo piuttosto abbia riportato notizia nel Mediterluogo. Nella sua relazione, di cui supporre che il marinaio greco ab- raneo non è facile da ipotizzare, e sono rimasti solo frammenti ripor- bia raggiunto soltanto le Shetland, le monete romane trovate in Islantati proprio da chi, come Strabo- dove raccolse notizie su terre piú da non possono certo testimoniare ne o Polibio, ne intendeva negare settentrionali. Anche Claudio To- contatti diretti tra coloni dell’isola ä F

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L’abate irlandese (e poi santo) Brandano e i suoi monaci celebrano la messa sul dorso di Iasconio, fantastica creatura marina simile a una balena, incisione del XVII sec. tratta da una miniatura di epoca medievale.


L’abate Brandano e i suoi monaci avvistano Giuda legato a uno scoglio in mezzo al mare, da una traduzione in tedesco della Navigatio Sancti Brendani. 1476 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.


Dossier Sulle due pagine coperte con decorazioni in smalto di Limoges di un evangeliario, dalla chiesa di Grund, in Islanda. XIII sec. Copenaghen, Museo Nazionale.

(ma di chi si tratterebbe?) e l’impero romano, ma piuttosto le rapine dei Vichinghi, impossessatisi dei beni tesaurizzati in epoca piú tarda in varie parti d’Europa. Con tutta probabilità le prime, vere notizie sull’Islanda risalgono all’VIII secolo. Ben nota è l’epopea esplorativa degli Irlandesi, e soprattutto dei loro monaci che, come raccontano le leggende legate a san Brendano, si spingevano su fragili imbarcazioni ricoperte di pelle verso le isole ancora deserte dell’Atlantico settentrionale.

Ai confini del mondo

Il desiderio di trovare terre dove il cristianesimo non era ancora arrivato, o di fondare eremi ai limiti del mondo, o semplicemente i racconti di naufraghi o di marinai vittime delle terribili tempeste boreali, spinsero questi monaci a sfidare l’immensità del cupo mare a nord dell’Irlanda. La misteriosa Thule ricompare, infatti, questa volta piú facilmente identificabile, nel racconto del monaco Dicuil attorno all’825, che non si limita a ripetere le leggende tramandate dagli autori classici, ma le integra e corregge con informazioni raccolte nell’ambiente monastico del proprio Paese d’origine. Secondo Dicuil (Liber de mensura Orbis Terrae) nel 795 alcuni Irlandesi erano rimasti in Thule per un periodo di sei mesi. È dunque probabile che la colonizzazione norvegese dell’Islanda fosse stata preceduta da quella di monaci irlandesi, i quali però si erano ritirati al primo apparire delle navi dalla testa di drago. Altre notizie sull’Islanda ci vengono fornite nella Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo (Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum) di Adamo di Brema

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(1040?-1081?), canonico della diocesi piú settentrionale della cristianità, il quale riprende leggende di epoca classica sull’esistenza di un mare concretum. La sua Thule si trova a nove giorni di navigazione dalla Britannia. Poiché alla sua epoca l’Islanda era già nota con

questo nome, ne dobbiamo dedurre che Adamo di Brema non se la sentí di cancellare la menzione fatta dagli auctores alla mitica Thule e ne sovrappone le caratteristiche all’isola al suo tempo già colonizzata e cristianizzata. Nel capitolo che Adamo dedica all’Islanda giugno

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Dossier Il Dittamondo di Fazio degli Uberti

«Uomini e femine magiche» Fazio degli Uberti († dopo il 1368?) scrisse il Dittamondo, poema in terzine diviso in sei libri, tra il 1345 e il 1367. Mentre Dante visita il mondo ultraterreno, Fazio descrive quello terreno, immaginando di aver compiuto un viaggio attraverso i Continenti allora conosciuti. L’iter inizia per esortazione della Virtú, che dà a Fazio il coraggio di vincere l’Ignavia. Il poeta incontra poi Tolomeo che gli fornisce preziose indicazioni e infine la sua guida, Solino, l’autore di una delle piú celebri enciclopedie dell’antichità. La parte settentrionale del mondo è descritta nel IV libro. Qui compaiono la «Sizia», dove, tra gli altri popoli straordinari, vivono le Amazzoni e dalla quale provengono i Normanni, la Scandinavia, molto popolata ma dal clima gelido, una volta sottomessa a re Artú e l’Islanda, situata a nord della Norvegia. L’Islanda, dice Fazio, è famosa per il bel cristallo di rocca che vi si trova e qui «i bianchi orsi sotto il ghiaccio sale / pescano in mare il pesce che vi cova» (IV, 11, vv. 85-90). In Islanda «uomini e femine magiche sono / ch’a’ marinai col fil vendono il vento / e quanto piace a loro aver ne pono» (ibidem, vv. 91-97). Qui Fazio riprende una leggenda di magia tempestaria viva in ambiente marittimo nordatlantico, che però altri avevano riferito agli abitanti della Winlandia citata da Bartolomeo Anglico, vista come la «terra del vento», che però in realtà sarebbe da identificarsi con la Lapponia norvegese.

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Una femmina di orso polare sulla banchisa. Nella pagina accanto, in basso un frammento di ghiaccio dalla forma simile a quella di un orso polare sulla spiaggia di Breiðamerkursandur (detta anche Diamond Beach), sulla costa meridionale dell’Islanda.

non possono quindi mancare i riferimenti tratti da Orosio (380 circa-420) e Beda il Venerabile (morto nel 735), attribuiti a una terra ora chiamata Island: «Questa Tule è ora chiamata Islanda dal ghiaccio che rinserra l’Oceano» (IV, 36-35). L’opera di Adamo di Brema è dunque la prima fonte di lingua latina in cui compaia il nome scandinavo dell’Islanda. Adamo di Brema tramanderà la leggenda del ghiaccio ardente d’Islanda («Di essa raccontano anche un’altra cosa notevole, che cioè questo ghiaccio appare per l’antichità cosí nero e secco da bruciare se acceso»), portento che ben si adattava a quanto l’immaginario medievale aveva narrato delle terre piú settentrionali d’Europa. Col progredire dei contatti tra Islanda e il resto della comunità cristiana d’Occidente, l’isola non è piú terra incognita. A essa dedica un capitolo nella sua enciclope-

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dia Bartolomeo Anglico, che tra il 1230 e il 1250 scrive una popolarissima opera in cui raccoglie molte informazioni, anche originali, sulle terre settentrionali. Accanto a Thule, che continua la sua esistenza nella cultura medievale, troviamo la Iselandia, «l’ultima regione d’Europa». Questa si trova a nord della Norvegia ed è stretta da una morsa di ghiaccio, infatti «è detta Islanda, come dire terra dei ghiacci». La sua popolazione, continua Bartolomeo Anglico, vive di pesca, di caccia e principalmente di agricoltura che però, aggiunge, a causa del clima, può essere sfruttata solo limitatamente (Trattato sulle proprietà delle cose, De genuinis rerum coelestium, terrestrium et inferarum proprietatibus libri XVIII; XV, 174). Secondo Giraldo di Cambrai (nato nel 1146 o 1147-1222), autore della Topographia Hibernica, la Yslandia è «la piú grande delle isole settentrionali» (I,1).

Contaminazioni

In Occidente, l’inventio dell’Islanda resta opera di ecclesiastici. Infatti, la Hyslandia era comparsa nella Storia dei re di Norvegia (Historia de Antiquitate Regum Norwagiensium, XII, 9 e 11), compilata attorno al 1180 da un certo Thjodrik, forse del monastero di Nidarholm nella diocesi di Nidaros (Trondheim) che, comunque, sulla scorta di Beda, la identifica con Thule. Questa commistione tra cultura classica e nuove informazioni è evidente nella grande opera geografica dell’arabo di Sicilia al-Idrisi (1099/1100-1162 circa), il quale nella sua Geografia menziona Gazirat Islanda, raffigurata come una lunga striscia di terra a nord della Scozia e a nord-ovest della Norvegia, avendo egli forse voluto sovrapporre la vecchia Thule (una delle Orcadi o delle Shetland) alla nuova inventio nordatlantica. Restarono invece sconosciuti

nell’Occidente latino i testi norreni, nei quali le avventure dei colonizzatori islandesi trovavano la piú avvincente delle narrazioni. Ugualmente rimangono inaccessibili alla cultura laica le documentazioni contenute negli archivi pontifici o in quelli dell’arcivescovato di Amburgo, cui spettavano i diritti nominali sui vescovati di Danimarca, Svezia, Norvegia, Fær Øer, Groenlandia, Islanda e dei Paesi slavi. La Chiesa di Roma mantenne infatti un rapporto continuato e assiduo con le piú lontane terre del Settentrione, dall’Islanda alla Lapponia alla Groenlandia. Gli ecclesiastici islandesi ricevevano a Roma il pallio già a partire dal XII secolo e tra i numerosi itineraria del pellegrino medievale, alcuni iniziano proprio da quest’isola. Chi fu il primo Italiano a mettere piede in Islanda? È impossibile rispondere, ma comunque sappiamo che verso la fine del Duecento rappresentanti delle compagnie fiorentine degli Spiliati e degli Alfani si recavano in Norvegia per riscuotere le somme che la locale Chiesa inviava a Roma. Nel 1290 alcuni di questi Fiorentini furono attaccati dai pirati e uccisi. Non è da escludersi che, magari in conseguenza di una tempesta, qualcuno di questi mercanti italiani abbia fatto scalo in Islanda. Noto, e assai controverso, è il caso dei veneziani fratelli Zeno, che agli inizi del XV secolo avrebbero raggiunto l’Islanda, o una terra vicina, in conseguenza di un naufragio. La spedizione dei fratelli Zeno venne resa celebre dal loro discendente, Nicolò, che nel 1558 ne pubblicò la relazione, falsa o autentica che sia. La strada settentrionale verso i Nuovi Mondi era stata aperta da poco. L’inventio Islandae aveva dato i suoi frutti e nuove terre incognite si profilavano oltre di essa. Il mistero, del resto, comincia sempre un passo piú in là. Luigi De Anna

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UNA REPUBBLICA VICHINGA di Maria Cristina Lombardi

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imasero dunque lí finché non si riunirono i giudici. Allora Sámr convocò i suoi uomini e si recò alla Montagna della Legge, dove la corte era riunita in assise. Si presentò coraggiosamente dinanzi al tribunale e cominciò subito a chiamare i suoi testimoni; poi espose la sua causa contro il godhi Hrafnkell in piena conformità alla legge islandese,

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senza mai sbagliarsi e con una magnifica arringa. Subito dopo arrivarono i figli di Thjóstarr con un grande seguito di uomini. Tutti quelli dei fiordi occidentali li appoggiarono e fu evidente che i figli di Thjóstarr erano molto popolari. Sámr continuò a sostenere la sua causa davanti alla corte finché Hrafnkell non fu invitato a difendersi, a meno che non ci fosse lí presente qualcuno disposto ad

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assumerne la difesa legale secondo la corretta procedura giuridica... Hrafnkell balzò subito in piedi, riuní i suoi uomini e andò in tribunale... Aveva intenzione di scoraggiare quella gentaglia dall’intentare procedimenti legali contro di lui. Pensava di interrompere l’assemblea con la forza e di costringere Sámr ad abbandonare il processo. Ma non ne ebbe la possibilità. C’era un tale affollamento che non riuscí a farsi largo da nessuna parte per raggiungere la corte... Sámr invece portò avanti la sua causa in assoluta conformità alla legge, tanto che Hrafnkell a quell’assemblea fu condannato a essere proscritto».

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La Saga di Hrafnkell (testo anonimo, scritto nel XIII secolo, che narra avvenimenti del X) offre un interessante spaccato della società islandese medievale: un mondo rurale dove non c’erano città e le fattorie costituivano i principali nuclei aggreganti. Il mondo descritto dalla saga risale al periodo immediatamente successivo alla colonizzazione dell’isola, avvenuta nella seconda metà del IX secolo, in seguito alla politica unificatrice del re norvegese Araldo Bellachioma che si concluse nell’871. Molti jarlar, signorotti locali fino ad allora indipendenti, preferirono l’esilio

I Norvegesi sbarcano in Islanda nell’872, olio su tela di Oscar Wergeland. 1877. Collezione privata. L’isola di ghiaccio, secondo i racconti delle saghe, venne colonizzata nel IX sec. da comunità in fuga dal regno di Norvegia.

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alla sottomissione all’assolutismo monarchico. Ed è proprio per ricostruire una società dove conservare le antiche istituzioni sociali ormai perdute in patria, che essi colonizzarono l’Islanda, dando vita a una repubblica regolata da un corpus di leggi molto sofisticato. La sua peculiarità viene notata già da Adamo di Brema (XI secolo) che, nella sua opera storica, rileva con una certa meraviglia: «Tra loro [gli Islandesi] non c’è nessun re, ma solo la legge». E nella Saga di Hákon Hákonarson (XIII secolo) si legge

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che un cardinale romano inviò in Norvegia una missiva in cui sosteneva che nel Paese era assolutamente necessario un re, come in tutte le altre terre del mondo.

Un modello innovativo

Si tratta di un modello sociale innovativo e insieme arcaico perché conserva un mondo altrimenti scomparso nel resto del Nord. Talvolta viene descritto addirittura come primitivo, soprattutto nel primo periodo, intorno cioè al 930, anno in cui fu istituito l’Althing

(assemblea generale), una sorta di parlamento cui partecipavano tutti i capi dell’isola e che si distingueva dai vari Thing, assemblee locali. Effettivamente il ruolo della vendetta nella composizione delle dispute, l’assenza di città e una serie di altri elementi legati alla sfera giuridica indicano un modello di società molto arcaica dove la cellula basilare era la famiglia, intesa in senso lato: consanguinei, amici, parenti acquisiti, servitori. L’organizzazione sociale islandese si basava infatti su unità territoriali guidate da capi locali, i godhar, che si riunivano e discutevano in assemblea secondo un antichissimo costume germanico perpetuatosi e – seppure in parte modificato – eccezionalmente conservatosi nel corso dei secoli. Commerci e scorrerie erano risorse fondamentali per un Paese come l’Islanda, con un territorio scarsamente produttivo e poco adatto all’agricoltura. Lava e ghiaccio che si estendevano per centinaia di chilometri al suo interno e il clima freddo non permettevano un grande sviluppo dell’agricoltura. La pesca divenne un’importante fonte di guadagno solo dal XIV secolo in poi. La mancanza di alberi (all’epoca della colonizzazione ancora ce n’erano alcuni, ma poi scomparvero) in un primo momento fu considerata un elemento favorevole poiché consentí una piú agevole creazione dei primi stanziamenti, poi però si rivelò un grosso limite e il legname dovette essere importato dalla Norvegia ad alti costi. L’allevamento del bestiame e la pastorizia, assieme alla produzione di latticini, rappresentavano la principale risorsa dell’isola, come si evince anche dalle saghe che ci forniscono un’ampia documentazione di controversie sorte in questo ambito. Nel 930 in Islanda c’erano circa trentasei godhar. Essi esercitavano sui loro seguaci un’autorità sia civile che religiosa; poi, dopo il giugno

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Un tipico paesaggio nel Parco Nazionale di Thingvellir. Nella pagina accanto una pagina di una trascrizione cinquecentesca dello Jónsbók, il codice di leggi portato in Islanda dai Norvegesi. Reykjavik, Istituto per gli Studi Islandesi Árni Magnússon. Al margine del foglio è disegnata una nave, perché questo passo del testo si riferisce alle norme sulla movimentazione delle merci.

1000, con l’introduzione del cristianesimo, la sfera religiosa venne eliminata dalle loro competenze. La godhord (autorità di godhi) era un’entità sia morale che geografica e i seguaci del godhi, i thingmenn, si univano volontariamente al capo che garantiva loro la sua protezione e li rappresentava all’assemblea, in cambio di servigi militari e fedeltà. I godhar, come già accennato, prima della cristianizzazione assolvevano anche a funzioni sacerdotali. Erano infatti incaricati dalla comunità di compiere il blót, «sacrificio propiziatorio». Dopo l’uccisione delle vittime sacrificali, si passava alla consultazione degli auspici, seguita da un banchetto in cui si beveva birra e si mangiava la carne degli animali uccisi. La godhord divenne col tempo un’entità territorialmente compatta (precedentemente, infatti, si potevano affidare alla protezione di un godhi anche liberi proprietari terrieri che abitavano in zone lontane dalla residenza del godhi), fino a divenire nel XIII secolo una semplice suddivisione amministrativa su basi territoriali.

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L’Althing aveva compiti sia giudiziari che legislativi, rispettivamente assolti da un tribunale e da un’assemblea alla quale si recavano tutti gli uomini liberi, e aveva luogo una volta all’anno, in genere verso la metà di giugno. Si teneva nella pianura di Thingvellir, un luogo dove una parete di lava fungeva da cassa di risonanza per la voce dell’oratore, il lögsögumadhr, che parlava dalla Montagna della Legge. Prima della cristianizzazione, in Islanda non si conosceva la scrittura, cosí il lögsögumadhr recitava tutte le leggi, in modo che nessuno le potesse ignorare. Successivamente guidava il dibattito nella discussione delle varie cause e prendeva in genere misure di ordine legislativo.

Alleanze strategiche

Un dato particolarmente interessante è costituito dal fatto che in Islanda non esisteva alcun organo di potere esecutivo: era lo stesso vincitore del processo a dover fare eseguire la sentenza pronunciata contro l’avversario. Essenziale era quindi stringere alleanze strategiche con personaggi autorevoli che

assicurassero un valido appoggio non solo per il successo della propria causa in tribunale, ma anche per l’applicazione delle sanzioni decretate dall’Althing. L’assemblea generale costituiva anche un momento molto importante della vita sociale e politica dell’isola, poiché era un’occasione di incontro dove si concludevano accordi di tipo economico: si decidevano affari, viaggi, matrimoni, alleanze, ecc. Ci si scambiavano notizie e ci si raccontavano fatti avvenuti in Islanda e all’estero. I lavori dell’Althing duravano circa due settimane, periodo in cui i partecipanti alloggiavano nei dintorni, in accampamenti allestiti per l’occasione. La sua apertura era ritenuta sacra, tanto che diversi testi tramandano l’usanza, all’inizio della seduta, di deporre le armi, evidentemente sentite come una minaccia di violazione. Queste informazioni che troviamo nelle saghe degli Islandesi vengono confrontate in genere con documenti ritenuti storicamente piú affidabili. Uno è l’Íslendingabók, (segue a p. 88)

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Dossier il matrimonio vichingo

L’acquisto della sposa Il matrimonio era l’atto piú importante della società vichinga e non era mai lasciato al caso. Era un affare, come eloquentemente indica il termine che lo definiva: «acquisto della sposa». Non si trattava però solo di un contratto economico, ma anche e soprattutto dell’unione di due clan familiari. A proporre l’unione era in genere un mediatore, solitamente un parente stretto dello sposo. Alcune saghe tramandano la consuetudine di chiedere il consenso dei due futuri sposi, in particolare alcuni testi pongono l’accento sull’importanza dell’accettazione o meno del marito da parte della donna. In realtà, la decisione non spettava ai due interessati, ma ai loro padri e al mediatore, che si preoccupava di consolidare patrimoni e autorità politica dei proprietari terrieri. In accordo con il padre dello sposo, il mediatore consultava prima i responsabili legali della sposa e stabiliva la data della cerimonia del fidanzamento, durante la quale scritto tra il 1122 e il 1133 da Ari Thorgilsson, cronista e uomo di chiesa: è la prima opera storica in lingua volgare. Probabile sunto di una piú vasta opera precedente, narra di fatti e personaggi compresi in un arco di tempo che va dalla colonizzazione dell’Islanda all’epoca in cui fu scritto. L’altra fonte, decisiva per le nostre conoscenze sul Medioevo islandese, è senz’altro l’anonimo Landnámabók (Libro

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parenti e amici si riunivano e brindavano bevendo «la birra del fidanzamento». Era necessario che tra le due parti sussistesse assoluta parità di rango e ricchezza. Le trattative sui termini materiali del contratto di nozze si svolgevano davanti a testimoni: la sposa doveva portare in dote beni di vario tipo, di pari valore ai beni forniti dal marito, il quale doveva inoltre aggiungere una donazione extra fissata dalla legge. Dopo il matrimonio lo sposo amministrava l’insieme dei beni, ma la moglie restava proprietaria della propria dote e, in caso di separazione, si riprendeva anche la donazione aggiuntiva. Il periodo dell’anno in cui si celebravano le nozze era tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Era la ragazza che si trasferiva in casa dello sposo alla vigilia del matrimonio, giorno in cui si preparavano ghirlande di foglie e aveva luogo il «bagno della sposa», in realtà una sauna collettiva cui partecipavano anche le altre ragazze.

degli insediamenti), basato essenzialmente su fonti orali e messo per iscritto nel XII secolo, a una distanza di quasi tre secoli dagli avvenimenti narrati. A questi due testi islandesi si possono aggiungere anche opere storiche norvegesi in latino, del XII secolo, che riferiscono diverse informazioni sulla storia dell’isola: la Historia de Antiquitate Regum Norvegensium del monaco Theodoricus

e l’anonima Historia Norvegiae. Da tutte queste opere emerge comunque evidente lo stretto legame che intercorre in Islanda tra attività giuridico-legislative e vita economica e sociale e del quale l’Althing ben rappresenta la sintesi istituzionale. Le saghe ce lo dimostrano in varie forme: nessuno poteva ignorare la legge e otteneva giustizia chi la conosceva meglio. Fino al XII secolo le differenze

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La sposa cambiava pettinatura: non avrebbe piú portato i capelli sciolti sulle spalle, ma li avrebbe d’ora in avanti racchiusi in una crocchia, legandoli con un gioiello. Dal giorno del matrimonio in poi, avrebbe inoltre portato appeso alla cintura un grosso mazzo di chiavi che aprivano sia le casse dove si custodivano vesti e oggetti preziosi, sia le dispense e gli armadi. La cerimonia delle nozze durava almeno tre giorni, ma poteva anche proseguire se gli sposi erano di rango particolarmente elevato. Gli ospiti dello sposo e della sposa dovevano essere di pari numero ed erano disposti alla tavola del banchetto che si teneva nella sala comune. I loro posti venivano scelti con grande cura, data la particolare suscettibilità In alto bronzetto probabilmente raffigurante Thor che impugna il martello Mjöllnir, da Eyrarland. XI sec. Reykjavik, Museo Nazionale d’Islanda. Nella pagina accanto un tipico villaggio vichingo ricostruito nei pressi di Hofn, sulla costa orientale dell’Islanda, per ambientarvi un film (mai realizzato) e trasformato in attrazione turistica.

sociali furono poco marcate, diversamente dal resto della Scandinavia dove re e jarlar si avvalevano del loro potere esecutivo per stabilire gerarchie ufficiali. La società islandese sembra svilupparsi secondo dinamiche proprie, legate all’esperienza migratoria degli abitanti, creando un ordine sociale caratterizzato da aspetti legati all’assoluta mancanza di un potere centrale, ma anche a un incipiente senso dello Stato di cui la legge, oltre a rappresentare un fondamentale elemento di continuità con il passato, diviene essenziale catalizzatore. L’assetto sociale islandese entrerà decisamente in crisi, mostrando la progressiva degenerazione delle

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dei Vichinghi circa le posizioni gerarchiche. Il capofamiglia aveva il compito di dare inizio al pranzo nuziale durante il quale si brindava a Odino, Thór, Njördh e Freyr – in epoca pagana –; a Cristo, alla Vergine e a tutti i santi – dopo la cristianizzazione –, riservando sempre un brindisi agli antenati di entrambe le famiglie. Poi si mangiava e si beveva e spesso si degenerava in alterchi e offese. Cosí, prima delle libagioni, gli invitati giuravano che non avrebbero fatto caso a quanto avrebbero eventualmente detto in stato di ubriachezza. Alla fine del primo giorno i due sposi venivano accompagnati al letto nuziale e la mattina dopo il marito doveva donare alla moglie qualcosa di prezioso, detto «dono del mattino».

sue istituzioni quando, a partire dal tardo XII secolo, sanguinose lotte intestine indeboliranno fatalmente il Paese, preparando la sua caduta sotto l’amministrazione norvegese.

Lotte intestine

Nella Sturlunga saga e nella Íslendinga saga, di Sturla Thórdharsson, nipote di Snorri Sturluson, celebre scrittore, cronista e incaricato islandese presso la corte del re di Norvegia, si narrano le vicende dei capi che imperversarono nell’Islanda del XIII secolo, facendo dell’isola un violento teatro di lotte. L’eccessiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi grossi proprietari terrieri, detti stórgodhar, creò un’oligarchia i cui membri, nel tentativo di sopraffarsi ed eliminarsi a vicenda, favorirono l’ingerenza delle autorità norvegesi. Pare che anche Snorri Sturluson fosse inizialmente coinvolto nei piani norvegesi intesi a privare l’Islanda della sua autonomia, tanto che, in seguito al suo successivo rifiuto di appoggiare tali piani,

venne fatto uccidere per ordine del re Hákon Hákonarson. Questi, che regnò dal 1217 al 1263 introducendo in Norvegia cariche e istituti feudali tipici dell’Europa del Sud, portando avanti un processo di modernizzazione del Paese già iniziato dal padre Sverre, aveva commissionato proprio a Snorri una vasta opera, La storia dei re di Norvegia, nota come Heimskringla. Dopo il 1262, sotto l’amministrazione della Norvegia, avvennero sull’isola radicali cambiamenti istituzionali. Le leggi vennero modificate e si redassero nuovi codici (lo Jarnsídha del 1271), dove l’influenza del diritto norvegese si ripercosse notevolmente sull’assetto politico e sociale. In un successivo codice, lo Jónsbók del 1281, il re Magnús Lagabætir, figlio di Hákon Hákonarson, in segno di riconciliazione verso gli Islandesi, che tanto si erano opposti all’applicazione del codice precedente, ripristinò alcuni istituti giuridici dell’Islanda libera, premiando finalmente il tenace attaccamento del popolo islandese alle sue istituzioni e al suo diritto.

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QUI COMINCIA L’AVVENTURA...

di Nicoletta Onesti Francovich

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aga in islandese vuol dire racconto: si tratta di racconti eroici in prosa, di tipo avventuroso, che nello sviluppo dei generi letterari si collocano tra l’antica poesia epica e il romanzo cavalleresco medievale. La saga si riferisce a un passato recente e storico, non all’indefinito «tempo eroico» dell’epos antico; quelle di argomento storico descrivono avvenimenti svoltisi tra la fine del IX secolo e il 1000 circa. Le saghe sono un genere narrativo peculiare dell’Islanda, sorto sulla base di una tradizione popolare che si era venuta formando sull’isola. Quasi tutte anonime, furono fissate per iscritto in Islanda tra il XII e il XIV secolo, in norreno, la lingua letteraria medievale da cui derivano l’islandese e il norvegese. Nella loro assoluta originalità, non hanno confronti nel resto d’Europa, né precedenti o continuazioni. Molto numerose, le saghe sono di vario genere e contenuto. Lo stile narrativo punta a una veridicità totale, usando la verosimiglianza non come mezzo artistico (come avviene nel romanzo moderno), ma come se il contenuto fosse verità storica a tutti nota. Il realismo spontaneo è il segno caratteristico della saga islandese e non sembra un artificio letterario. Le azioni sono rappresentate dall’esterno da segnali e sintomi esteriori, senza spiegare i motivi interiori dei personaggi che si intuiscono da tutto il contesto. Ciò discende in fin dei conti da una visione ancora epica del mondo. Molto spesso la prosa delle saghe ingloba e cita brani poetici preesistenti, che in qualche caso sembrano aver dato origine al racconto in prosa, che forse da origi-

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naria cornice è diventato poi l’asse portante dell’opera. Addirittura si traggono saghe in prosa dai temi della poesia eroica tradizionale islandese e germanica, come nel caso della Saga dei Volsunghi, che rielabora le storie di Sigurd/Sigfrido, già note sia alla poesia dell’Edda che al poema tedesco dei Nibelunghi. A questa attinse ampiamente Wagner quando concepí la trama del suo ciclo di opere su L’anello del Nibelungo.

Storia e folclore

La Saga di Teodorico è un’esposizione in prosa delle leggende tedesche su Teodorico di Verona. Fanno parte entrambe del gruppo cosiddetto delle «Saghe dei tempi antichi», che rielaborano i temi delle poesie eroiche germaniche. Ma il nucleo

Capolettera miniato di una pagina tratta dalla Flateyjarbók, una raccolta di saghe norrene, redatta intorno al 1387, che trae il suo nome da Flatey, in Islanda, il luogo in cui vide la luce. Reykjavik, Istituto per gli Studi Islandesi Árni Magnússon.

principale è costituito dalle «Saghe degli Islandesi», dove trovano piena espressione le tradizioni locali, sia storiche che folcloriche. La Saga di Grettir, per esempio, narra di un fiabesco uomo forzuto che, come Beowulf, distrugge mostri e giganti. In queste saghe riappaiono talvolta antiche situazioni narrative, archetipi dell’epica germanica antica, come il conflitto tra due donne (simile a quello famoso tra le due regine nei Nibelunghi) che si ritrova, in tono piú basso, nella Saga di Gisli. E anche nella Sagiugno

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Monumento dedicato a Bárðr Snæfellsás, protagonista della saga omonima, realizzato da Ragnar Kjartansson nel 1985. Bárðr è una creatura per metà uomo e per metà orco che, secondo la tradizione, si aggirerebbe nel ghiacciaio di Snæfellsjökull.

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ga della Valle dei Salmoni e nella Saga di Njáll ci sono personaggi femminili che paiono controfigure umane della Brunilde dell’epos. Un gruppo importante di saghe è, inoltre, quello che narra la vita e le avventure degli «scaldi» piú famosi, cioè dei poeti improvvisatori, veri virtuosi della versificazione, come fu Egill. Questi racconti si sviluppano da leggende storiche locali, non piú dai materiali poetici antichi, e hanno quindi un alto tasso di veridicità, o almeno cosí sembra, dato che nomi geografici e storici sono reali e non inventati, e gli avvenimenti sono riferiti con precisione cronachistica. Un genere particolare di saga storica è quello che si realizza nel gruppo delle «Saghe dei re», cioè le storie dei re di Norvegia, raccolte dal famoso scrittore e diplomatico islandese Snorri Sturluson (1179-1241). Le saghe sulle famiglie islandesi, invece, sono anonime; e costituiscono anche una miniera di notizie anagrafico-genealogiche in quanto ricostruiscono le discendenze e le

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imprese degli antenati. Fra le loro vertenze giudiziarie e le liti per i confini, sembra a volte di trovarsi in un Far West medievale. Il paragone è azzardato fino a un certo punto, perché l’Islanda era un avamposto occidentale raggiunto da coloni europei, che come i pionieri si spartivano i terreni, le fattorie e il bestiame. Alcune saghe sembrano quasi fungere da testi di riferimento in occasione di cause che riguardano le proprietà e l’eredità, un aspetto questo del tutto nuovo nella letteratura, che certo nella poesia non poteva rientrare, e che accresce il loro valore storico-realistico. Le saghe abbracciano in uno sguardo tutta la storia delle comunità locali islandesi, valle per valle. La descrizione stessa dell’insediamento dei primi coloni in Islanda (storicamente a partire dall’875 d.C.) è raccontata in un apposito testo: il Libro degli Insediamenti, che nulla tralascia di come giunsero le prime famiglie e dove s’installarono.

il perdurare, cioè, delle superstizioni fortissime, delle credenze nei sogni premonitori, nelle predizioni, nei segni del destino, nelle streghe, nei fantasmi. L’assemblea plenaria islandese dell’anno Mille aveva accettato il cristianesimo con un’esplicita delibera, ma è chiaro che certi inveterati atteggiamenti non potevano tramontare da un momento all’altro. Le saghe, a volte, rispecchiano un’ingenua commistione di cristianesimo e superstizioni germaniche antiche. Per l’epoca, la società islandese era sostanzialmente democratica, governata dall’assemblea dei liberi; nel Paese dei Ghiacci (tale il significato di Ísland), nella piú antica Repubblica d’Europa, fondata dai fuorusciti norvegesi che si volevano sottrarre al dominio del re, non c’era certo posto per la nobiltà feudale. E le saghe sono figlie di que-

Viaggi leggendari

Cosí, nel corso del XIII secolo, le memorie sugli antenati vengono sistemate in uno spazio letterario originale, lo spazio della saga, genere letterario nuovo e molto produttivo, inventato in Islanda, dove il gusto del racconto non conosce confini. Le imprese memorabili degli avi possono includere anche i famosi viaggi di Leif nel Vinland (il Nord America) o i contatti di Vichinghi e poeti islandesi con l’Inghilterra, la Norvegia, l’Irlanda e i loro sovrani. In questo genere realistico trova però ancora spazio una dimensione del paganesimo che permane immutata anche in epoca cristiana: giugno

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A destra e nella pagina accanto, in basso miniature raffiguranti Egill Skallagrímsson (qui accanto) e Grettir il Forte. XVII sec. Reykjavik, Istituto per gli Studi Islandesi Árni Magnússon. Il primo, guerriero vichingo e poeta vissuto nel X sec., è il protagonista della Egils Saga, composta intorno alla metà del XIII sec. Anche il secondo è un guerriero, ribelle e coraggioso, protagonista della Saga di Grettir, ambientata in Islanda tra il IX e il X sec., e composta tra la fine del XIII e l’inizio del XIV sec. Nella pagina accanto, in alto una pagina miniatura dello Skarðsbók Jónsbókar (Codex Scardensis), una raccolta di leggi scritta nel 1363, forse nel monastero di Helgafell. Reykjavik, Istituto per gli Studi Islandesi Árni Magnússon.

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Miniatura raffigurante una nave vichinga, con la prua modellata a forma di dragone marino, da un manoscritto delle opere di Cicerone. XI sec. Londra, British Library.

sto clima politico, le stesse faide e contrapposizioni fra le famiglie ivi narrate sono specchio di un egualitarismo che sul Continente non esisteva. Ogni uomo è un eroe potenziale: la dimensione eroica non è confinata al passato leggendario, ma viene ravvicinata fino al tempo realmente vissuto dagli antenati. Beninteso, non era una democrazia in senso moderno: sull’isola c’erano gli schiavi catturati all’e-

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stero nelle spedizioni vichinghe, e c’erano personalità politiche dominanti, ma, in linea di principio, tutti i liberi proprietari, i discendenti dei primi avventurosi coloni che avevano fondato il Paese, si sentivano alla pari. Quest’isola dell’estremo Occidente europeo fu a sua volta trampolino di lancio per ulteriori esplorazioni, verso le coste della Groenlandia, dove Erik il Rosso fondò una colonia, e verso

quelle americane, dove si spinse suo figlio Leif. La dimensione eroica delle saghe può sorgere anche dalla rappresentazione della vita quotidiana, nelle tensioni tra famiglie, nelle dispute giudiziarie. E la dimensione democratica si avverte nella libertà di poter interpretare gli avvenimenti a piacimento, nella maestria con cui sono costruiti i dialoghi, nella libertà di comportamento (e giugno

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La Saga dei Groenlandesi

Dall’America a Roma «Quell’estate giunse in Groenlandia una nave dalla Norvegia; il capitano era Thorfinn Karlsefni, uomo assai ricco, che passò l’inverno con Leif Eriksson (...) Quell’inverno stesso sposò Gudrid. (…) Si continuava a parlare tanto dei viaggi nel Vinland, che alla fine Karlsefni decise di partire, e radunò una compagnia di 60 uomini e 5 donne. Si misero in mare e raggiunsero sani e salvi le “Case di Leif” [nel Vinland]; lí Karlsefni fece abbattere alberi e caricare il legname sulle navi. Fecero uso di tutte le risorse naturali del Paese: uva, selvaggina e ogni sorta di prodotti. Gli Skrelingi [indigeni] tentarono di entrare nelle case, ma Karlsefni fece sbarrare le porte. Allora posarono i loro pacchi offrendo il contenuto; in cambio del latte lasciarono agli uomini di Karlsefni i pacchi di pellicce. Fu circa a quell’epoca che la moglie di Karlsefni, Gudrid, diede alla luce un figlio che fu chiamato Snorri. (…) Karlsefni raggiunse la Norvegia e vendette il suo carico. Quando fu pronto a partire e la nave stava già aspettando il vento, un Meridionale di Brema in Germania venne a cercarlo, per sentire se gli vendeva la testa scolpita che decorava la prua della nave. “Non voglio venderla” rispose Karlsefni. “Te la pago mezzo marco d’oro” disse il Meridionale. Affare fatto. Karlsefni non sapeva di che legno fosse, ma era fatta d’acero venuto dal Vinland. Poi si mise in mare e arrivò in Islanda. (…) Dopo la morte di Karlsefni si occuparono della fattoria Gudrid e suo figlio Snorri, che era nato nel Vinland; quando Snorri si sposò, Gudrid andò in pellegrinaggio a Roma. Moltissime persone discendono dalla famiglia di Karlsefni, che fu progenitore di un’ampia discendenza. Ed era stato lui stesso a raccontare nel modo piú dettagliato tutti i suoi viaggi, che sono in parte riferiti qui». Cosí si chiude la Saga dei Groenlandesi, che, narrando l’inconsapevole esplorazione delle coste americane, mostra bene con che disinvoltura si affrontavano grandi spostamenti, e come allo spirito avventuroso si accompagnava quello mercantile. di maldicenza!) e nella totale mancanza di adulazione. Il linguaggio usato asseconda questi effetti; la prosa della saga non utilizza né l’antico lessico poetico, solenne ed elevato, né i virtuosismi stilistici degli scaldi, ma cerca di avvicinarsi alla lingua parlata, vuole creare un effetto di veridicità, ricercato anche attraverso un linguaggio studiatamente semplice e immediato. Pare proprio che gli autori di

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saghe sappiano quello che vogliono, infatti creano e ottengono un effetto artistico nuovo, descrivendo minuziosamente i motivi del contendere, evidenziando il ruolo del destino, e giocando sull’immediatezza del «botta e risposta». Il nuovo tipo di narrativa non ebbe però alcun effetto sulle altre letterature europee del Medioevo, rimase un genere specificamente islandese, un fenomeno letterario unico

e senza paralleli. Le saghe furono messe per iscritto dopo un periodo di trasmissione orale, via via trasformate con aggiunte e modifiche, che le rendevano sempre piú prodotti letterari e sempre meno semplici memorie.

Santi e cavalieri

Col tempo le saghe islandesi assorbirono i generi che provenivano dall’Europa; le Vite dei santi latine, ad esempio, dettero corpo alle «saghe dei santi», nuovo filone narrativo d’argomento religioso, mentre i romanzi cavallereschi francesi, in gran voga sul Continente, furono trasposti in norreno dando vita alle «saghe dei cavalieri». Se nel XIII secolo c’era stata una felice e intensissima produzione di saghe storico-realistiche, nel XIV subentrarono quelle d’argomento cortese e fantastico. D’altra parte non si dimentica il precedente tipo di saga, perché proprio nel XIV secolo continuano a essere trascritte e lette le saghe che celebravano le imprese delle grandi dinastie isolane. Soltanto, le mutate condizioni politiche dell’isola, ormai sotto l’ala della corona norvegese, favoriscono l’apertura verso i generi narrativi di moda nel resto d’Europa. Il confine tra i due generi passa per l’ambientazione: le saghe piú antiche, infatti, sia quelle tratte dai materiali epici che quelle sulle gesta degli Islandesi, sono comunque ambientate nel mondo nordico e attingono a materiali autoctoni. Diverso sarà quando le nuove saghe trecentesche verranno ambientate in Paesi fantastici ed esotici, in un’epoca indefinita e fiabesca. Ci fu quindi un’influenza europea sull’Islanda, ma non viceversa. A meno che Cristoforo Colombo, che si era recato in Islanda da giovane, non si fosse lasciato influenzare dai racconti sulle navigazioni fatte da Erik e da Leif verso l’Ovest. Ma questo non ha a che vedere con la letteratura. V

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Storie, uomini e sapori

Liberaci dalla peste... ma anche dalla fame! di Sergio G. Grasso

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a parola «carestia» deriva dal latino medievale caristía(m), probabile esito di carestu(m), participio passato del verbo latino carere (mancare), non escludendone una derivazione dal greco akharistía (alfa privativo + charistía= grazia, premio, compiacenza). Comunemente il termine esprime una situazione di grave sofferenza diffusa, cagionata dalla mancanza di risorse alimentari in seguito a calamità che funestano i raccolti o a causa di un prezzo di vendita delle derrate esageratamente «caro», dall’impossibilità di accedere al mercato, sia legale che clandestino, per vasti gruppi di popolazione. L’indisponibilità di un nutrimento adeguato ha segnato lunghi e feroci periodi di fame, mortalità, epidemie, spopolamento ed esodi

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di massa. Non è mai facile scindere in una carestia le cause dagli effetti, poiché gli eventi climatici estremi (siccità, inondazioni, cicloni, alluvioni) e le devastazioni dei raccolti (insetti, batteri, funghi, virus), oltre a provocare la morte per inedia predispongono alle epidemie, svuotano città e campagne, generano conflitti sociali, motivano guerre e spingono a disperate migrazioni. Fin dalla piú remota antichità questi eventi furono ritenuti punizioni divine, conseguenze di colpe, errori o sventatezze umane: situazioni talmente «croniche» e ricorrenti (si verificavano anche due volte a decade) da essere degne di memoria solo quando si manifestavano in forma di tragedia collettiva. La prima immagine a oggi nota di

In alto rilievi che mostrano persone colpite da una terribile carestia scolpiti lungo il corridoio monumentale che conduce alla piramide di Unas (V dinastia, 2378-2350 a.C.) a Saqqara (Egitto). Nella pagina accanto la «Stele della Carestia», sull’isola di Sehel, presso Assuan. L’iscrizione, probabilmente databile al 187 a.C. (durante il regno di Tolomeo V Epifane), racconta di una terribile carestia al tempo del faraone Djoser (III dinastia), durata sette anni. una carestia è un rilievo egizio della prima metà del XXIV secolo a.C. in cui si vede un gruppo di persone – probabilmente beduini delle frange desertiche – emaciate e scheletriche, che si accasciano a terra vinte dalla fame; scolpita sulle pareti della galleria che conduce alla piramide del faraone Unas (V dinastia) e giugno

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conservata nel Museo Imhotep di Saqqara, la scena intendeva celebrare la generosità del sovrano nell’aiutare le popolazioni affamate. Una calamità simile colpí nello stesso periodo l’impero accadico ed è ricordata da alcune tavolette cuneiformi celebrative del re Sargon; durò sette anni (un mito comune in quasi tutte le culture del Medio Oriente): numero sacro, emblema di perfezione e compiutezza, corrispondente a quello dei pianeti allora conosciuti. Nell’epopea di Gilgamesh, il dio Anum promette a Ishtar, dea babilonese della fertilità, una carestia settennale; una stele egizia d’epoca tolemaica ricorda che il Nilo, durante la III dinastia, smise di concimare le campagne per sette anni. Sette furono anche i biblici anni di «vacche magre» che colpirono l’Egitto, al punto che nemmeno le bestie avranno la forza di lavorare la terra. Nella Bibbia le carestie non sono citate come eventi puramente climatici ma in quanto teofanie, manifestazioni di Dio a tutto vantaggio del suo Popolo Eletto. Proprio una grande siccità nella

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terra di Canaan convinse Abramo a migrare in Egitto con la sua tribú e, piú tardi, una nuova carestia spinse suo figlio Isacco a stabilirsi nel regno dei Filistei. Entrambi questi avvenimenti vengono collocati, dalla cronologia interna alla Bibbia, tra la fine del III e i primi secoli del II millennio a.C., epoca in cui si verificarono importanti esodi di popoli affamati dall’Asia Minore verso le coste e le isole dell’Egeo e del Mediterraneo orientale.

Una vecchia rinsecchita e perfida Ovidio ci ricorda che nell’antica Grecia la carestia era personificata da Limos (limós= fame) figlia di Eris (‘eris= sfida) dea della discordia, compagna di Deimos (deimos= terrore) e Fobos (phobos= spavento); nell’Iliade, Virgilio la ritrae come una vecchia rinsecchita e perfida, con gli occhi incavati e i capelli ispidi. Erodoto la affianca a Loimos (loimós= epidemia) quando racconta dei Cretesi colpiti da carestia al ritorno dalla guerra di Troia. Sempre Erodoto ci ragguaglia sulla profonda

crisi alimentare che, nel 630 a.C. – ancora una volta da sette anni –, falcidiava gli abitanti dell’isola di Thera (Santorini); i superstiti si rivolsero all’Apollo di Delfi, che suggerí loro di cercare una patria piú benevola in Nord Africa, dove infatti fondarono Cirene. Come ha fatto notare il grande storico francese Fernand Braudel (1902-1985), proprio l’impossibilità di ricavare dall’agricoltura il necessario per sfamare una popolazione in costante aumento incoraggiò i Greci a colonizzare, nel XII secolo a.C., l’Asia Minore e le coste dell’Ellesponto, e, tra l’VIII e il V secolo a.C., le sponde italiche, africane e le isole del Mediterraneo occidentale. Se non si tiene conto delle inondazioni del Tevere che rendevano difficili le distribuzioni annonarie dell’Urbe, carestie degne di nota non sembrano aver segnato la storia della Roma repubblicana. Si ricorda però quella del 440 a.C., che, stando a Tito Livio, spinse migliaia di persone affamate a gettarsi nel Tevere. Tra il 200 a.C. e il 150 d.C., l’intero Mediterraneo

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godette di un clima caldo e umido, che permise raccolti abbastanza regolari e la messa a coltura di nuovi terreni, circostanze che stimolarono la crescita demografica e la prosperità economica.

La «piccola glaciazione» Piú o meno all’epoca di Marco Aurelio e in concomitanza con la «peste antonina» (forse

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un’epidemia di vaiolo o morbillo che imperversò nell’impero per quasi trent’anni, provocando decine di milioni di morti), i sistemi meteorologici dell’Atlantico fecero registrare uno stravolgimento che interessò il Mediterraneo, portando venti polari e siberiani uniti a scarse precipitazioni e siccità: era la metà del V secolo d.C. e iniziava quella «piccola glaciazione»

con cui la dea Fortuna voltò definitivamente le spalle a Roma. Il Medioevo iniziava sotto i peggiori auspici: in preda alle scorrerie di Vandali, Unni e Visigoti, segnato da campagne incolte, acquedotti distrutti, villaggi devastati, assaltato da freddo e pioggia, oppresso da fame, miseria e tanta paura. Catone, Columella e altri scrittori latini di agricoltura ci ricordano giugno

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che, ai tempi dell’impero e anche prima, le rese per ettaro di orzo e frumento andavano da un minimo di 400 a un massimo di 1000 kg, a seconda della latitudine e della geologia del terreno: questo range produttivo è rimasto inalterato per almeno venti secoli, cioè fino ai primi del Novecento, quando il genetista Nazareno Strampelli (1866-1942) sperimentò i primi

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In alto San Nicola salva un carico di grano per la città di Mira, particolare di uno scomparto della predella del Polittico Guidalotti, tempera e oro su tavola del Beato Angelico. 1447-1449. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. A sinistra, sulle due pagine La raccolta della manna, olio su tela del Tintoretto (al secolo, Jacopo Robusti). 1577. Venezia, Scuola Grande di San Rocco.

Preghiere e invocazioni

ibridi granari resistenti alla ruggine e all’allettamento e dette avvio a quella che, nel bene e nel male, è stata definita la «Green Revolution». In buona sostanza, tra il tempo dei Cesari e la Belle Époque, un ottimo risultato era rappresentato dal rapporto di 7:1 (ogni seme piantato fruttava sette chicchi); nelle annate peggiori – una su quattro o cinque – il rapporto scendeva a 2:1, ovvero

Nel 476, mentre Odoacre deponeva l’ultimo imperatore romano d’Occidente, l’arcivescovo del delfinato (e poi santo) Mamerto di Vienne (che insieme a san Servazio e san Pancrazio compone la triade dei «santi del gelo») istituiva in Francia il rituale delle «rogazioni», un triduo di preghiera, digiuno e processioni supplicatorie durante il quale si scandiva: «A fame, bello et peste libera nos Domine» («Dalla

quel seme produceva due soli chicchi, uno per il consumo e un secondo destinato alla semina; si è stimata una resa media pari a 3,5 chicchi di frumento per ogni seme piantato, infinitamente distante da quella odierna che si attesta su 120:1 con punte di il 350:1.

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CALEIDO SCOPIO fame, dalla guerra e dalla peste liberaci o Signore»). La pratica fu estesa a tutta la cristianità da papa Leone III nell’816 e fissata nei tre giorni precedenti la festa dell’Ascensione; è rimasta in vigore fino al 1984. Si può ben dire, ancora con Braudel, che per tutto il Medioevo (e ben oltre) la paura della fame sia stata «incorporata nella dieta biologica degli uomini fino a diventare una struttura della loro vita quotidiana». Alla metà del VI secolo un’enorme eruzione vulcanica avvenuta tra l’Indonesia e Papua (le cui tracce sono rimaste nelle carote di ghiaccio estratte da entrambe i poli), attenuò la radiazione solare, raffreddando l’atmosfera per diversi anni e provocando carestie in tutto il pianeta. L’impatto dell’eruzione causò il diradamento di intere foreste nei due emisferi – lo testimoniano gli anelli degli alberi danneggiati dal gelo in Cina, Mongolia, Thailandia, Canada,

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Miniatura raffigurante cadaveri di persone morte di carestia abbandonati lungo una strada, da un codice delle Anciennes chroniques d’Angleterre di Jean de Wavrin. 1470-1480. Londra, British Library. In basso La carestia del 1482, tavola di Félix Philippoteaux per un’edizione della Histoire des paysans... di Eugène Bonnemère. 1876.

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Mosellenes), il 709 viene ricordato come un anno «durus et deficiens fructus» e, nel biennio 792-794, si lamenta una tale penuria di cibo da spingere molti sventurati a compiere atti di cannibalismo. Ancora, nel 974-975, un inverno rigidissimo e una primavera tardiva provocarono la morte per inedia della metà dei Parigini; l’evento, stando agli Annales dell’abate Albert de Stade si ripeté in forma piú contenuta nell’989.

Una punizione divina

California, Svezia e Germania – minando la sopravvivenza della fauna selvatica e rendendo arduo l’approvvigionamento di legname da costruzione e riscaldamento. Il Liber Pontificalis ricorda che sotto papa Benedetto I (575-579) si verificò un’angosciosa carestia associata a un’epidemia di peste che indusse molte città italiane assediate dai Longobardi ad aprire loro le porte. Nella Historia francorum di Gregorio di Tours si legge che nell’anno 585 «ci fu una grave carestia in tutta la Gallia (...) e coloro che non avendo farina mangiavano erbe e morivano perché si gonfiavano». Nella Spagna del 750 la siccità e la mancanza di cibo costrinsero i Berberi di al-Andalus a desistere dall’invasione della Galizia, che cosí, benché affamata, tornò nelle mani di Alfonso I il Cattolico, re delle Asturie e duca di Cantabria. Nelle memorie storiche dell’impero carolingio dal 703 al 798 (Annales

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Molte sventure alimentari si manifestarono su scala locale per l’impossibilità di seminare e raccogliere per colpa dei temporali di inizio o fine estate, che non solo trasformavano il seminativo in acquitrino, provocavano l’asfissia radicale e sommergevano le piante di fango, ma rendevano impossibile il trasporto delle eccedenze maturate altrove. Il cluniacense Rodolfo il Glabro ci fornisce una vivida descrizione della grande carestia che colpí la Borgogna nel 1033: «Poco tempo dopo in tutto il mondo la carestia cominciò a far sentire i suoi effetti, e quasi tutto il genere umano rischiò di morire. Il tempo diventò in effetti cosí inclemente che non si riusciva a trovare il momento propizio per alcuna semina né il periodo giusto per il raccolto, soprattutto a causa delle inondazioni. Gli elementi sembravano essere in guerra tra loro: sicuramente invece essi erano lo strumento di cui Dio si serviva per punire l’orgoglio degli uomini. (...) Tutta la terra era stata talmente inzuppata dalle continue piogge che nell’arco di tre anni non si poterono preparare solchi adatti alla semina. Al tempo del raccolto le erbacce e l’inutile loglio avevano ricoperto tutta la campagna. Un moggio di semente [8,6 litri circa], quando rendeva tanto, dava al momento della mietitura uno staio [0,5 litri circa], e lo staio a malapena riempiva un pugno. Questo flagello vendicatore era iniziato in Oriente, e dopo aver devastato la Grecia

si abbatté sull’Italia, da dove si diffuse nelle Gallie arrivando poi a colpire tutta la terra degli Angli. (...) L’indigenza comune aveva avuto come effetto quello di far cessare la violenza dei potenti. Se qualcuno aveva del cibo, poteva venderlo al prezzo che voleva, anche il piú elevato, sicuro di ottenerlo. In piú di un caso il costo di un moggio di grano salí a sessanta soldi, in qualche altro un sestario fu venduto addirittura a quindici soldi». Verso il Mille un sensibile rialzo delle temperature interessò il Nord Atlantico. Ne approfittarono, fra gli altri, i Vichinghi della sovrappopolata costa norvegese per colonizzare l’Islanda, in cui il clima era divenuto abbastanza mite e stabile. Il miglioramento si estese al Centro-Nord dell’Asia, permettendo agli agricoltori cinesi di occupare le terre fino ad allora inospitali della Manciuria e della Siberia orientale; ne trassero vantaggio anche i Giapponesi che riuscirono a piantare per la prima volta il riso sull’isola di Hokkaido.

L’optimum climatico Erano i prodromi del cosiddetto «optimum climatico medievale», un rialzo termico globale che raggiunse il culmine in Europa fra gli inizi dell’XI e la metà del XIV secolo, disegnando uno dei periodi piú ottimisti, prosperi e progressisti della storia europea. L’instaurarsi di condizioni favorevoli permise la coltivazione del grano a latitudini piú settentrionali, le foreste raggiunsero quote piú elevate e la vite poté essere coltivata anche in Gran Bretagna. L’innalzamento del limite altimetrico delle precipitazioni nevose permise di percorrere nuovi valichi montani, a tutto vantaggio dei traffici commerciali sempre piú intensi; non mancarono, tuttavia, avversità di natura biotica (ruggini, carboni, parassiti, virosi, ecc.), che, con ostinata regolarità, influenzavano

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CALEIDO SCOPIO l’andamento dei mercati e favorivano la speculazione. L’optimum climatico ebbe anche alcune conseguenze spiacevoli o addirittura drammatiche, come l’arretramento dei ghiacciai, che innalzò il livello dei mari fino a rendere sterili alcuni territori costieri; altrove, l’aumentata evaporazione atmosferica prosciugò le riserve idriche di regioni come l’Arizona e il Messico. Ciononostante, si ritiene che la popolazione sfamata dal pianeta tra il Mille e il Trecento sia passata da meno di 250 milioni di abitanti a circa 370 milioni, di cui almeno 80 milioni nella sola Europa.

Un benessere diffuso In Italia sorgevano nuove città (fra cui Alessandria, Gattinara, Castelfranco Veneto, Monteriggioni, Cittadella, Castelbolognese), mentre quelle esistenti allargavano le cinte murarie per far posto a una popolazione in continuo aumento. In età comunale, tra la Pianura Padana e il Tevere si calcola vi fosse la piú alta densità di città, borghi e villaggi d’Europa, quasi sempre situati a non piú di un giorno di cammino (30 chilometri) l’uno dall’altro. Questa crescita economica e demografica si accompagnò a un netto miglioramento delle disponibilità e delle consuetudini alimentari, non solo con una maggior scelta di prodotti e derrate, ma anche con prezzi di mercato controllati e calmierati, l’emanazione di precise regole annonarie e igieniche e la sorveglianza dei mercati da parte delle neonate corporazioni di «arti minori»: beccai, vinattieri, oliandoli e pizzicagnoli. I periodi di crisi alimentare nel «caldo» XII secolo vanno ascritti a fenomeni meteorici di tipo tropicale. Nel 1146, tre mesi di piogge torrenziali causarono la perdita dei raccolti in Nord Italia,

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Francia e Spagna; per la stessa ragione si verificarono penurie di cibo nel 1151, nel 1190 e nel triennio 1195-1197. Piú rare le annate realmente calamitose per gran parte del XIII secolo, una condizione che favorí la demografia e lo sviluppo di un’economia fiorente, nella quale, come mai prima di allora, proliferavano gli scambi e si moltiplicavano le grandi fiere. Nel triennio 1236-38 si lamentarono danni alle colture per il gran caldo nelle Marche e in Lombardia, ma, in linea generale, la benevolenza del clima durò fino al 1270, quando si ebbe un inatteso inverno gelido e una primavera sferzata da venti settentrionali, che impattarono sull’annata agraria, provocando un forte aumento del prezzo del grano.

Particolare di una miniatura raffigurante le cure date agli appestati, dalla raccolta di manoscritti nota come Franceschina (MS 1328). Ante 1474. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta.

Freddo e piogge Fu ancora una volta colpa del Sole, stella capricciosa e incostante che rallenta l’energia emessa – misurata attraverso le macchie solari –, con periodi che possono variare da poche ore a centinaia d’anni. Cosí, mentre in Europa si erigevano decine di grandi cattedrali per ringraziare il cielo del nuovo benessere, le temperature globali iniziarono a scendere. D’estate un sole freddo (due gradi in meno di temperatura corrispondono a sei settimane di ciclo vegetativo) illuminava campagne fradicie di pioggia, in cui le spighe di grano marcivano, le viti e la frutta non maturavano, i foraggi destinati al bestiame imputridivano. Piogge incessanti distruggevano i mulini, gonfiavano i fiumi (l’Arno straripò tre volte tra il 1282 e il 1288), colmavano i granai di fango e rendevano inattuabili i rifornimenti e impedivano la produzione del sale necessario a conservare la carne. Lungi dal migliorare, la situazione si aggravò fino a sfociare in quella «piccola era glaciale» che gli

storici fanno iniziare tra la prima e la seconda decade del Trecento. Nella Chronica redatta da un tal Guerino piacentino si legge di una «gran fame» che, negli anni 1309-1311, colpí l’Emilia, al punto da far cadere la gente lungo le strade come mosche; nel 13121314, il freddo mise in ginocchio le colture della Lombardia e del Piemonte; la primavera successiva una pioggia pesante e senza fine coinvolse l’intero Ponente europeo, impedendo al grano di maturare. giugno

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A complicare una situazione già compromessa, intervenne un ulteriore calo della temperatura a seguito dall’eruzione del vulcano Tarawera in Nuova Zelanda (1315), le cui ceneri fecero piú volte il giro del mondo riducendo sensibilmente l’insolazione. Fino al 1330, a piú riprese la fame e le malattie decimarono la popolazione dell’Europa settentrionale, dalla Russia all’Irlanda, dalla Scandinavia alle Alpi e ai Pirenei; si verificarono casi di infanticidio per ridurre il

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numero delle bocche da sfamare, cosí come episodi di cannibalismo e vendita di cane umana.

Prezzi fuori controllo Nel Centro Italia, per i primi anni Quaranta del XIV secolo, la situazione fu meno drammatica, ma non esente da forti piogge estive che in molti luoghi giunsero a causare la perdita del 60% dei raccolti e un aumento di quattro-sei volte del prezzo di orzo e frumento. Firenze nel 1329 fu colpita da una

carestia di cui ci ha lasciato una vivida cronaca il mercante di grani Domenico Lenzi; a lui si deve anche il Manoscritto biadaiuolo, un libro mastro dei prezzi quotidiani dei cereali dal 1320 al 1335, dal quale sappiamo che il prezzo di uno staio di grano (circa 22 litri), che nel 1320 era inferiore agli 8 soldi, nel 1329 schizzò a 30 soldi. Poi, nel 1347, dalla Mongolia attraverso l’Ucraina, arrivò nei porti del Mediterraneo la «peste nera», che, in tre anni, uccise

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CALEIDO SCOPIO La carestia in Germania, 1637, calcografia di Caspar Lukyen.

un terzo della popolazione europea indebolita da decenni di fame e privazioni e incapace di fronteggiare l’emergenza. Escludendo le annate 1351 e 1360, durante le quali in Francia e Spagna le estati insolitamente calde ustionarono i cereali, il clima si mantenne molto freddo e umido. Giunse nuovamente un «grande gelo» nel 1369-1370 e una ulteriore fame nel 1374, con il frumento che a Firenze toccò la cifra record di 53 soldi/staio; la situazione fu aggravata dalla disorganizzazione degli aiuti e dall’aumento dei crimini da parte di chi doveva sopravvivere a ogni costo; perfino l’autorità istituzionale della Chiesa fu messa in discussione dai molti che constatarono l’inefficacia delle veglie di preghiera, delle invocazioni, e delle processioni organizzate da parroci e vescovi per chiedere l’intercessione divina. Il nuovo secolo si annunciò con un accentuato minimo solare e climi rigidissimi in tutta Europa. Quello del 1407 fu probabilmente l’inverno piú freddo del secondo millennio. Dal novembre all’aprile si ebbe in

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Francia e nel Nord Ovest dell’Italia un’ondata siberiana. Parigi fu paralizzata dal gelo per quasi settanta giorni consecutivi e tutti i fiumi tra Tours, Rouen e Digione divennero impraticabili. Il Tamigi a Londra rimase congelato da dicembre a marzo e i ghiacci polari si spinsero fino alla Scozia, circondando l’Islanda. A Firenze 60 cm di neve coprirono la città per cinquanta giorni, mentre il gelo sterminava le viti, gli ulivi e le piante da frutto dalla pianura Pontina alla Padana. Al rigido inverno del 1420-1421 seguirono almeno quindici anni di raccolti discreti in Francia, con l’eccezione del 1432 ricordato per un gelido inverno e una piovosissima estate.

Una cosa molto crudele Nel 1438 una primavera-estate umida fece nuovamente precipitare il Settentrione della Francia nella fame, aggravata dai combattimenti franco-inglesi della Guerra dei Cent’anni; le cronache riportano anche episodi di cannibalismo come quello avvenuto nella Somme al tempo di Giovanna d’Arco e citato

nelle Chroniques di Enguerrand de Monstrelet: «Nello stesso tempo, una cosa molto grande, crudele e meravigliosa accadde in un villaggio vicino ad Abbeville, perché una donna fu catturata lí e accusata di aver ferito diversi bambini piccoli, che erano stati smembrati e salati segretamente nella sua casa (...) Denunciata dai ladri, confessa la sua malizia». Il prosieguo del XV secolo fu abbastanza benevolo per i raccolti con l’unica eccezione del 1481/82, segnato da pioggia e freddo in buona parte del Sud europeo. Dieci anni dopo terminava (nei manuali) quel Medioevo che, iniziato sotto i peggiori auspici, seppe approfittare di un transitorio suo «optimum climatico» per trasformare l’Occidente passando dal feudalesimo al capitalismo, aprendo nuove rotte commerciali, intraprendendo nuove scoperte anche se col penoso strascico di colonialismo e schiavitú. Finiva nel pieno di una «piccola era glaciale» che si prolungò per tutto il Settecento, ma che può, forse, fornirci una chiave di lettura sugli sviluppi dell’attuale crisi climatica. giugno

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Quando i santi prendevano le armi

Un quartetto misterioso di Paolo Pinti

Nella pagina accanto Madonna con Bambino tra i santi Nicandro, Marciano e Francesco, olio su tavola di Dirk Hendricksz, italianizzato come Teodoro d’Errico. Post 1581. Venafro (Isernia), basilica di S. Nicandro. In basso una spada del 1580 circa, contemporanea e morfologicamente simile a quelle nel quadro di Venafro.

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ue quadri, distanti nel tempo e appartenenti ad aree geografiche molto diverse, ci danno l’occasione per alcune riflessioni sui metodi di identificazione dei santi nell’arte e sulla lettura delle opere pittoriche. Nei due dipinti abbiamo una Incoronazione della Vergine, nel primo caso con angeli intorno alla casa di Loreto e, nel secondo, di nuovo con angeli fra nuvole, ma con un san Francesco al centro. In entrambe le opere, ai lati della scena, si vedono due cavalieri o, comunque, nobili che stringono in mano una spada. Va detto che l’abbigliamento è sempre certamente lussuoso,

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In alto Trasporto della santa casa a Loreto e due santi (o Madonna di Loreto con san Secondo e un santo cavaliere), dipinto su tavola di Gandolfino da Roreto (noto anche come Gandolfino d’Asti) e aiuti. 1510 circa. Alessandria, Pinacoteca Civica.

senza reminiscenze di costumi militari romani – di solito con armatura all’eroica – e quindi non viene ricordato un passato militare dei quattro santi. Il primo personaggio alla sinistra di chi guarda, nell’opera della Pinacoteca di Alessandria (vedi foto qui accanto), regge la miniatura di una città, attestando di esserne il santo patrono. In molti casi, gli studiosi di urbanistica sono in grado di individuare in questi «modellini» edifici precipui che consentono di identificare la città raffigurata. Anche se, spesso, l’impresa risulta quasi disperata, perché anche nel corso di pochi secoli possono essere sopraggiunte trasformazioni tali da rendere irriconoscibile l’abitato originale (rectius: dell’epoca del dipinto). Nel nostro caso, il dipinto proviene da Asti e, quasi

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CALEIDO SCOPIO Rilievo raffigurante san Secondo in veste di cavaliere, con la spada in primo piano e il modellino della città di Asti nella mano sinistra. Asti, collegiata di S. Secondo. certamente, è questa la citta rappresentata: e poiché ne è patrono san Secondo, dobbiamo ipotizzare che sia lui a essere stato ritratto. Metterne a fuoco la storicità non è per nulla facile, anche a causa dei numerosi omonimi, con i quali si confonde la sua figura: per alcune versioni si tratta di un martire, piú esattamente di un soldato romano che fu giustiziato perché cristiano. Per altri, Secondo era un vescovo di Asti: in entrambi i casi, il personaggio del quadro non è vestito né da vescovo né da soldato romano, ma da nobile, senza la palma del martirio. Quindi, a giustificare l’individuazione abbiamo solo il fatto che è rappresentato come patrono di Asti.

Con la spada e il modellino E tale rappresentazione è comune per san Secondo, come possiamo constatare in due statue (vedi foto a sinistra e nella pagina accanto), nelle quali compare come un cavaliere, con la spada in una mano e il modellino della città nell’altra. Quindi possiamo senz’altro pensare a san Secondo, ma l’altro personaggio resta misterioso: a parte la miniatura della città, i due, infatti, sono praticamente identici come impostazione: anche le spade sono molto simili con lame a sezione rombica (probabilmente) e fornimento dello stesso tipo, con i soli pomi diversi. La morfologia è tipica dei primi del XVII secolo e tale elemento coincide con l’epoca del quadro. Piú puntualmente, notiamo che entrambe le armi sono dotate di un fornimento con guardia e ponticello e lunghi bracci dell’elso, curvati orizzontalmente in senso inverso fra loro: il pomo della spada di sinistra è molto noto, di norma montato su armi di pregio,

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Statua raffigurante san Secondo, conservata in un’abitazione privata in località Quarto d’Asti, nei pressi del capoluogo. 1380-1390.

con sagoma di disco sgusciato circolarmente nelle due facce piatte. L’altro, invece, è a forma di fico con forti sgusciature verticali. Il quadro conservato nella Pinacoteca di Alessandria è attribuito a Gandolfino da Roreto (Gandolfino d’Asti), e aiuti. Di lui si sa che nacque ad Asti alla fine del Quattrocento e operò in zona (Asti, Alessandria e Monferrato) tra il 1493 e il 1518 (o 1522). È noto come Gandolfino da Roreto in quanto lo si trova definito «de Roretis», il che lo fece ritenere originario di Roreto, presso Cherasco. È stato poi appurato che, invece, si tratta di un cognome appartenente a una famiglia residente in Asti fin dal XV secolo. Attualmente, pertanto, si deve parlare di Gandolfino d’Asti, nato in questa città da Giovanni Roreto, pittore abbastanza noto. Conservata, come detto, nella Pinacoteca Civica di Alessandria, l’opera è conosciuta come Trasporto della santa casa a Loreto e due santi, ma anche come Madonna di Loreto con san Secondo e un santo cavaliere, e la sua realizzazione è stata collocata intorno al 1510.

Accadde a Venafrum L’altro quadro, nell’altare maggiore della chiesa di S. Nicandro a Venafro, in provincia di Isernia, si deve all’olandese Dirk Hendricksz, conosciuto anche come Teodoro d’Errico (1544-1618), che operò a Napoli dal 1573, ed è l’autore di questo Madonna con bambino tra i Santi Nicandro, Marciano e Francesco, risalente a dopo il 1581 (vedi foto a p. 107). Nicandro e Marciano erano due soldati romani – si pensa originari dell’odierna Bulgaria – che furono martirizzati, sotto Diocleziano, il 17 giugno del 303 presso Venafrum, l’odierna Venafro, in Molise, in quanto, da cristiani, rifiutarono di abiurare e di sacrificare agli dèi, secondo un copione identico per decine

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di santi. Curiosamente, l’artista non rappresenta i due nelle vesti di soldati romani, ma li dota delle palme dei martiri, che – come già detto – mancano nei due santi del quadro d’Alessandria. Qui i due sono dotati di spade, con fornimenti non troppo distinguibili: nell’arma a sinistra se ne vede solo una piccola parte, con anello al centro dell’elso e braccio con estremità arricciata e ingrossata. La sezione della lama sembra lenticolare oppure rombica, appiattita al centro (e quindi a sei facce), con piccolo sguscio centrale nel tratto iniziale, in parte coperto dalla mano del santo. La spada sulla destra ha chiaramente un fornimento senza guardia, con pomo a barilotto molto lavorato in rilievo. La lama sembra inizialmente a sezione rombica, anch’essa appiattita al centro, con sguscio finente quando la sezione diventa meramente rombica, molto robusta e adatta a colpi di punta (stoccate). I personaggi fin qui descritti risultano insomma apparentemente indistinguibili: tutti e quattro vestono abiti civili e possiedono una spada; non hanno richiami a un possibile (e usuale) passato come legionari romani; solo due di essi (Venafro) vengono indicati come martiri, grazie al ramo di palma; uno soltanto ha il particolare, importantissimo, della miniatura di una città, che lo identifica come patrono di questa. Nel quadro di Teodoro d’Errico i due martiri sono in tutto e per tutto identici e non hanno nulla che ricordi il loro passato come legionari, a differenza di altri dipinti e di alcuni reliquari, nei quali i santi stessi sono raffigurati come soldati romani: quindi, i fedeli come potevano identificare Nicandro e Marciano e distinguere fra i due? E, nell’opera di Alessandria, il santo sulla destra come poteva essere «capito», privo com’era di simboli e segni identificativi?

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Lorenzo Tanzini Firenze prima di Firenze Miti e fondazioni della città sull’Arno

Salerno editrice, Roma, 190 pp., 4 figg. b/n

19,00 euro ISBN 978-88-6973-832-6 www.salernoeditrice.it

«Le comunità umane hanno bisogno di un “mito delle origini”»: questa affermazione, contenuta nelle pagine introduttive del

volume, offre forse la chiave di lettura piú efficace del racconto proposto da Lorenzo Tanzini. Un racconto che si snoda in senso cronologico a partire dalla deduzione della colonia romana di Florentia – collocabile intorno al 59 a.C. –, prima della quale l’area fiorentina era stata comunque già frequentata da comunità umane vissute in epoca preistorica, a partire dal Neolitico. Gruppi spinti a insediarsi nella zona dalla

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presenza dell’Arno, una via d’acqua della quale, fin da tempi remoti, non fu difficile intuire il potenziale strategico. Il percorso scende quindi nel tempo e, dopo il capitolo dedicato alla fioritura della città in età imperiale, si passa alle sezioni che qui maggiormente interessano, vale a dire quelle in cui l’autore ripercorre le vicende del millennio medievale. E proprio all’Alto Medioevo si lega uno degli episodi che meglio testimoniano del desiderio di ammantare di tratti mitici la storia cittadina: nel 781 Carlo Magno soggiornò a Firenze e vi tornò, probabilmente, anche nel 786. Ebbene, di entrambi i passaggi non esistono resoconti ufficiali, eppure il ricordo di quella visita bastò a far sí che, quasi ottocento anni piú tardi, nel 1553, per volere del priore Francesco Portinari, venisse affissa sulla facciata della chiesa dei Ss. Apostoli una lapide nella quale si legge che Carlo, il 6 aprile dell’805, guidò una processione solenne, in occasione della quale la chiesa venne consacrata

dall’arcivescovo Turpino, alla presenza di Orlando e Uliviero, ovvero di due dei personaggi che animano la Chanson de Roland. Come spiega Tanzini, la costruzione di un evento palesemente inverosimile non dovette sembrare inopportuna e rispose invece alla volontà di nobilitare il passato piú antico di Firenze, in questo caso, con ogni probabilità, soprattutto dagli esponenti delle famiglie nobili, che ambivano a porsi in una ideale continuità con l’impero carolingio. In età comunale si registra poi la redazione della prima storia scritta del capoluogo toscano, la cosiddetta Chronica de origine civitatis Florentiae, che fu verosimilmente composta nel 1205 o poco piú tardi. Un’opera in cui, dopo i richiami alla guerra di Troia, i protagonisti della nascita e della fioritura di Florentia sono identificati in Giulio Cesare e Catilina. Il mito della fondazione non mancò quindi di suscitare l’interesse di Dante Alighieri e fu poi ripreso anche da Giovanni Villani e altri autori. A conferma di

un interesse sempre vivo ed espresso in forme di volta in volta dettate, innanzi tutto, dagli assetti politici che Firenze si dette fino alle soglie del Rinascimento. Stefano Mammini Luciano Lepri Sette papi in Umbria Storie, segreti, curiosità, indiscrezioni, aneddoti, memorie

ai quali si potrebbe anche aggiungere il futuro papa Leone XIII, che, ancora vescovo di Perugia, visitò la cittadina nel 1855. La circostanza offre all’autore l’occasione di proporre i profili biografici degli illustri vicari di Cristo giunti nella cittadina, che, come si vede dalla

Luoghi Interiori, Città di Castello, 130 pp.

16,00 euro ISBN 978-88-6864-497-0 www.luoghinteriori.it

Arroccato su un colle in posizione dominante sul lago Trasimeno, il borgo umbro di Panicale (Perugia) deve molta della sua notorietà all’aver dato i natali al pittore Masolino, attivo tra la fine del XIV e i primi decenni del XV secolo. Il filo conduttore scelto da Luciano Lepri è però un altro e si lega alla spiccata «ricettività» panicalese nei confronti di ospiti illustri: in particolare, l’attenzione dell’autore si sofferma sui soggiorni di ben sei pontefici – Innocenzo III (1216), Bonifacio VIII (1297), Alessandro VI (1495), Giulio II (1506), Clemente VII (1525) e Paolo III (1543) –,

lista, comprendono personaggi che hanno scritto capitoli assai significativi nella storia della Chiesa e non solo. Dopo averne ripercorso le vite pubbliche, Lepri apre una finestra anche su aspetti piú personali, come, per esempio, i gusti alimentari e i luoghi di vacanza, per concludere con brevi approfondimenti su episodi di particolare rilevanza, dall’indizione dei primi Giubilei al Sacco di Roma del 1527, o, ancora, alla convocazione dei concili. S. M. giugno

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

La discoteca Molti strumenti musicali hanno avuto origine nel millennio medievale e, nel tempo, si sono evoluti sino a raggiungere le caratteristiche

ricorda, in parte, un liuto dalla grande cassa armonica. Appartenente alla classe dei cordofoni, la ghironda si caratterizza per essere dotata di un cilindro di legno che, girato con un pomello esterno, sfrega le corde,

organologiche che tutti conosciamo. Un di essi, invece, non ha conosciuto modifiche sostanziali: si tratta della ghironda, nata nell’XI secolo e assai apprezzata anche nelle epoche successive. Composizioni per ghironda furono scritte, fra gli altri, da Antonio Vivaldi, e sempre nel Settecento, essa divenne uno strumento di grande popolarità nell’alta società francese. Piuttosto singolare è la morfologia dello strumento, che

consentendo alle stesse di emettere suoni. Le corde, a loro volta, sono divise in tre gruppi, secondo il suono emesso: corde di bordone, che producono un suono fisso; corde utilizzate per la parte melodica; infine corde, anch’esse di bordone, ma che emettono una sonorità particolare, vicina a quella delle cornamuse e che, grazie a una tecnica della mano che gira la manovella, permette di creare la base ritmica. Antenato della

Igor Ferro In Media Aetas Ipogeo Records https://ipogeorecords.com/

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ghironda è l’organistrum, uno strumento ben piú grande, che veniva suonato da due persone, come si vede in un particolare del magnifico Portico della Gloria (1188) scolpito dal Maestro Mateo per la cattedrale di Santiago de Compostela. Nel XIII secolo, lo strumento prende il nome di symphonia e assume dimensioni piú ridotte, cosí da poter essere suonato da un singolo interprete. Nell’album In media aetas, Igor Rizzo utilizza una versione moderna della ghironda – ma con caratteristiche sonore identiche a quelle dello strumento antico – per compiere un itinerario musicale incentrato sul repertorio sacro e profano medievale. Si inizia con l’ascolto di una lirica del XII secolo di Conon de Béthume, a

testimonianza della grande stagione rappresentata dalla produzione trobadorica. Seguono quattro Cantigas de Santa Maria (XIII secolo), componimenti poeticomusicali di carattere devozionale la cui paternità è ascrivibile all’entourage del re di León e di Castiglia Alfonso el Sabio. Personaggio talentuoso, il sovrano contribuí in prima persona alla stesura di alcuni dei testi e delle musiche delle cantigas, un corpus straordinario, che conta oltre 400 brani su testi in galiziano-portoghese accompagnati dalla notazione musicale. Caratterizzate da uno stile metricomusicale semplificato, basato sul ritornello (refrain), le cantigas sono qui proposte in una esecuzione esclusivamente

strumentale. All’ambito profano, ci riportano altri tre brani dell’antologia: un estratto musicale dal poema Le Jeu de Robin et Marion di Adam de la Halle (XII secolo), per concludere con due danze, Petit Vriens, inclusa nel trattato di danza di Giovanni Ambrosio da Pesaro (fine XV secolo), e un saltarello di anonimo del XIV secolo. Musicista che alterna l’attività solistica a quella compositiva e didattico-divulgativa, Rizzo dà prova di grande maestria. Colpisce la versatilità dello strumento, messa in risalto attraverso i vari generi affrontati e la profonda conoscenza della prassi esecutiva, che permette all’interprete di eseguire melodie con la dovuta ritmica. Una registrazione insolita e decisamente vincente, che avvicina il grande pubblico a uno strumento ai piú sconosciuto. Franco Bruni Capella de Ministrers, direzione di

Carles Magraner Regina CDM 2355, 1 CD https:// capelladeministrers.com/

In epoca medievale, ma non solo, sono giugno

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rari i casi di donne regnanti, essendo quella di salire al trono una prerogativa quasi esclusivamente maschile. Tuttavia, piú di una regina consorte riuscí ad avere un ruolo sociale, politico e culturale non indifferente. Nel regno di Aragona (1164-1716) se ne succedettero 35, da Sancha di Castiglia (1174-1196) a Elisabetta Farnese (1714-1716), e a 18 di esse è dedicata l’antologia qui presentata. In carica tra il 1235 e il 1516, periodo durante il quale il regno d’Aragona estese i suoi domini nel Mediterraneo, sino a unirsi, nel 1516, con il regno di Castiglia, queste regine consorti, grazie alle loro origini aristocratiche, contribuirono in maniera decisiva all’ampliamento dei possedimenti,

MEDIOEVO

giugno

e, in assenza dei mariti-re, operarono come reggenti a tutti gli effetti, un fatto piuttosto eccezionale per quel periodo: è

Alfonso il Magnanimo), Juana Enriquez (tutrice del figlio, futuro Ferdinando il Cattolico). I brani inclusi nell’antologia sono dunque accomunati da un filo rosso «regale» e ciascuno di essi è espressione di un genere musicale ben definito, offrendo cosí una rassegna dei diversi stili che si andarono sviluppando tra il XIII e il XVI secolo. Iniziando con il rondello Ave Maria dulcis (XIII secolo),

attraverso molteplici generi – motectus, conductus, virelais, cantiga, madrigale, ballata –, spaziando da autori di grande fama, come Jacopo da Bologna, Guillaume de Machaut, a compositori anonimi, le cui musiche testimoniano delle grandi innovazioni dell’Ars Nova trecentesca. Per il XV secolo, vengono proposti brani di Johannes Graneti, che fu impiegato nella cappella reale

il caso, per esempio, di Eleonora di Sicilia (moglie di Pietro il Cerimonioso), Violante di Bar (moglie di Giovanni il Cacciatore), Maria de Luna (moglie di Martino l’Umano), Maria di Castiglia (moglie di

proveniente dal monastero di Santa María de Vallbona, in cui fu sepolta Violante d’Ungheria (1215 circa-1251; moglie di Giacomo I d’Aragona, detto il Conquistatore), gli ascolti si snodano poi nel XIV secolo

d’Aragona, e del quale si ascolta un Kyrie, seguito da altri anonimi con brani che includono anche movimenti di danza; infine il Cinquecento, con due composizioni di Juan del Encina e Luis Milán.

Dal punto di vista musicale, si parte da brani monodici, passando ai primi esempi di contrappunto a due voci, sino ad arrivare alle elaborate costruzioni polifoniche che, a partire dal XIV secolo, caratterizzano profondamente la scrittura musicale. Essendo le regine le protagoniste a cui le partiture si ispirano, è il tono aulico a essere rimarcato nei brani, scelti con oculatezza dalla Capella de Ministrers diretta da Carles Magraner. Composto da due voci femminili e sei strumentisti, che si alternano in un ampio campionario di strumenti della tradizione medievale e rinascimentale, l’ensemble mostra grande sensibilità nella scelta di differenti combinazioni vocali/strumentali, connotando ogni singolo brano nella maniera piú appropriata. Con una quasi quarantennale esperienza sul campo, la Capella de Ministrers si conferma ancora una volta tra i migliori gruppi del panorama discografico internazionale dediti al repertorio antico. F. B.

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COSTANTINO

«Sotto questo segno vincerai»

Le vicende di molti grandi protagonisti della storia antica sono state tramandate attraverso cronache e testimonianze che hanno finito con il consegnare ai posteri stereotipi suggestivi, piú che profili biografici attendibili. E Costantino ne è uno degli esempi emblematici: da sempre, infatti, viene tradizionalmente esaltato e celebrato come il primo imperatore «cristiano», l’uomo saggio e pio grazie al quale i seguaci della dottrina diffusa trecento anni prima da Gesú in Terra Santa avevano finalmente potuto professare il loro culto. Ma fu veramente cosí? Prova a rispondere la nuova Monografia di «Archeo» che ripercorre la lunga vicenda politica e personale di Flavio Valerio Costantino, costellata a piú riprese da episodi quasi romanzeschi. Primo fra tutti, il sogno fatto alla vigilia della decisiva battaglia combattuta contro Massenzio nell’ottobre del 312 d.C. al Ponte Milvio, a Roma, che avrebbe ispirato all’imperatore la decisione di far incidere il monogramma cristiano sugli scudi e sui vessilli delle sue truppe. Accanto a fatti dal sapore leggendario, c’è però la concretezza delle lotte per il potere, della ridefinizione delle strutture amministrative dell’impero, degli intenti autocelebrativi, culminati nella decisione di rifondare nel suo nome Bisanzio, elevandola a seconda capitale imperiale. Mosse che rivelano il carattere volitivo e deciso del personaggio, che, di fatto, suggellò la sua effettiva conversione al cristianesimo solo in punto di morte, accettando di ricevere il battesimo.

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